Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

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ANNO 2019

 

I PARTITI

 

PRIMA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

ITALIA ALLO SPECCHIO IL DNA DEGLI ITALIANI

         

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA ED IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

IL PARLAMENTO EUROPEO HA 40 ANNI.

L'EURO HA 20 ANNI. CERCANDO L’ITALEXIT.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA E L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA E L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA E GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA ED I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

INDICE SECONDA PARTE

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

 

INDICE TERZA PARTE

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

INDICE QUARTA PARTE

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

INDICE QUARTA PARTE

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

INDICE QUINTA PARTE

LA SOCIETA’

 

PAURE ANTICHE: CADERE IN UN POZZO E CHI CI E' GIA' CADUTO.

STORIA DEI BOTTI DI CAPODANNO.

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

A CHI CREDERE? LE PARTI UTILI/INUTILI DEL CORPO UMANO.

 

INDICE SESTA PARTE

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

INDICE SESTA PARTE

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

INDICE SETTIMA PARTE

CHI COMANDA IL MONDO:

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

INDICE SETTIMA PARTE

CHI COMANDA IL MONDO:

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

I PARTITI

PRIMA PARTE

 

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

Il M5S compie 10 anni tra mutazioni, sfide e venti di scissione.

Cinque Stelle Cadenti.

Rousseau: "Il voto è manipolabile".

Il dossieraggio del M5s.

Beppe Grillo. Il moralizzatore: i condoni e la villa sulla spiaggia.

Grillo ex garante del M5S.

M5S, la carica degli onorevoli nessuno: umiliati, vessati e campioni di gaffe.

Luigi Di Maio e la menzogna del moderato.

C’era una volta…onestà, onestà.

Casalino il comunicativo.

Rimborsopoli. La Spesopoli dei 5 Stelle. Il caso Sarti.

5 Stelle ... rotte.

Il Sistema Casaleggio.

Stereotipi e complotti e bufale.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

La Lega non è più Lega.

Il compleanno della Lega.

I comunisti contro il comunista Salvini.

Qual è il segreto del successo di Salvini?

Il Salvini pluri-indagato.

L'Outing dei leghisti.

Un po’ comunisti ed un po’ fascisti ed un po’ ladroni.

Il Sirigate.

Ed i 49 milioni?

Il Russiagate.

L’Aifagate.

 

SECONDA PARTE

 

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

Il partito delle Tasse e dei LGBTI.

La Sinistra: un Toga Party.

Democrazie mafiose. «La sinistra è una cupola».

Comunismo… sopravvive soltanto in Italia.

Benito Mussolini: Italia Comunista. Ovvero: il Biennio Rosso.

Sinistra italiana,  ora devi archiviare  il Novecento.

Il grande bluff del populismo di sinistra.

Conflitto d'interessi e memoria corta.

"Il saluto romano non è reato".

“Bella Ciao” non è Partigiana.

Fascismo di sinistra.

Gli antifascisti radicali al tempo dell'accordo nazi-comunista del 23 agosto del 1939.

Il Fascismo in Italia era l’equivalente del Comunismo in Russia.

Le scissioni Social-fascio-comuniste. Da Mussolini a Renzi.

Il Renzismo Junior.

Il Renzismo Senior.

E dalla fattoria di Orwell sparisce Stalin.

I russi amano ancora Stalin e continuano a celebrarlo.

Lenin fu il vero padre del Gulag.  

Mao è per sempre.  

Matteotti riformista del futuro.

Così Gramsci ha creato l’egemonia su giornali e magistratura.

Semplice dire…L’Unità.

La Resistenza accusata di terrorismo e genocidio.

La democrazia dei comunisti.

I 70 anni autocritici del leader Massimo.

C’era una volta Enrico Berlinguer. Ora gli arroganti saccenti col ditino alzato. I vecchi errori del popolo della sinistra: avversario politico = ignorante-mafioso.

Compagni coltelli.

Quelli che…il tricolore.

Ritorno al Passato.

Onesti…a chi?

E tu quanto conosci davvero la sinistra italiana?

I Comunisti italiani!? Esterofili.

Parlando di Rossana Rossanda.

Parlando di Paola De Micheli.

Parlando di Andrea Marcucci.

Maria Elena Boschi e la confessione.

Franco Bassanini, il potente che fa sistema.

Liliana Cavani.

La donna non è più tanto comunista!

C’era una volta il pugno chiuso.

Affidati alla sinistra.

"Porti aperti".

La Sinistra e l’Islam.

Primarie Pd: storia, dati, vincitori.

Della serie. Comunisti: intolleranti, ignoranti e camurristi fascisti.

I comunisti sono ignoranti per scelta. E hanno rovinato l’Italia.

Sindacati: «Il cambiamento siamo noi».

Preti, società civile e oratori: così la sinistra vince nei comuni…

“La maggioranza silenziosa” ora è populista.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

Nella mente di un terrorista.

Milano, 25 aprile 1969: la Fiera Campionaria e la bomba.

Ecco dove nasce il nuovo terrorismo italiano.

"Io gambizzato dalle Br. Una follia equiparare le vittime ai carnefici".

Sette aprile 1979: la madre di tutte le inchieste bufala.

Omicidio Pecorelli, procura Roma avvia nuova indagine.

Lotta Continua e gli infiltrati e le  bizzarre indagini sulla strage di Bologna.

Emilio Alessandrini, il giudice dalla "faccia mite".

Mario Amato. Il pm con la scarpa rotta  che combatteva da solo  i nemici dello Stato.

Così giustiziarono Rossa e il Pci gli dichiarò guerra.

La vendetta delle BR: Roberto Peci.

A casa di Alessio Casimirri, il latitante più ricercato d'Italia.

Lojacono: l'intervista esclusiva al latitante Br.

Ex terroristi: dove sono e cosa fanno.

"Ho sonno, datemi la coperta". Quelle richieste di Battisti dopo l'arresto.

Quegli intellettuali dalla parte dei terroristi.

"Il terrorismo prosperò grazie a chi diceva: compagni che sbagliano".

Reddito di cittadinanza di Stato agli ex brigatisti che hanno combattuto lo Stato.

Vite di "Brigatiste Rosse".

Walter Tobagi e l’ex operaia siciliana.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

«Formidabili un cacchio quegli anni».

Comunisti 1969. Lobby Continua.

 

 

  

I PARTITI

PRIMA PARTE

 

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Il M5S compie 10 anni tra mutazioni, sfide e venti di scissione.

Dagospia il 29 ottobre 2019. Da radiocusanocampus.it. Marco Morosini, ex ghost writer di Beppe Grillo, autore del libro “Snaturati – autobiografia non autorizzata del M5S”, è intervenuto ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”, condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano. Riguardo il suo primo incontro con Beppe Grillo. “Era il 1992. Grillo, uscito dal camerino del Teatro Smeraldo, ha offerto un cestino di caramelle, non c’era più nessuno, c’ero solo io. Lui ha detto: chi vuole una caramella? Io ho risposto: la voglio io. E’ cominciata così. Da allora ho scritto per lui libri, articoli. Più che il ghost writer, mi definisco l’ispiratore di Grillo. Lo stesso Grillo mi ha definito una delle tre persone che gli hanno aperto gli occhi”. Sui cambiamenti del M5S. “Le idee del Movimento sono nate nel febbraio del 1992, quando ho conosciuto Grillo. Poi queste idee si sono snaturate con i V-day. Se noi vogliamo cambiare il mondo non possiamo farlo con le parolacce contro la politica. La politica è l’unica che ci può salvare dalla dittatura della finanza. Denigrare tutti i politici in quanto politici, quando poi ti siedi su quelle poltrone non è serio. Quel signore in giacca e cravatta che si vanta di aver tagliato le poltrone, siede su 6 poltrone. Il M5S deve tornare alla social-ecologia. Il problema è uno solo: i ricchi stanno devastando l’ambiente di tutti e ne soffrono soprattutto i poveri. Avete sentito dire di recente qualcuno del M5S questa cosa?”.

L'ideona grillina riportare il paese nella preistoria. Francesco Maria Del Vigo, Mercoledì 20/11/2019, su Il Giornale. Sostenevano di essere il movimento del futuro, della rivoluzione digitale e invece si sono rivelati gli archeologi del recente passato. Abbiamo avuto a che fare coi progressisti, adesso ci toccano i regressisti. La manovra del governo giallorosso sembra la Delorean di «Ritorno al futuro», ma in marcia verso il passato. C'è chi le chiama «proposte nostalgia», chi parla di «decrescita felice», ma gli emendamenti grillini sono un concentrato di tutte le ossessioni pentastellate. Nulla di nuovo sotto al sole, ma che finché i deliri passatisti rimanevano chiusi nei libri, lisergici e distopici, di Gianroberto Casaleggio tutto poteva essere derubricato come una fantasia naive. Ora che rischiano di diventare legge dello Stato, dobbiamo preoccuparci. Il principale nemico del Movimento 5 Stelle è la plastica. Avrebbero voluto colpirla in modo più pesante, ma l'argine di Pd e Italia Viva ha impedito loro di affossare un settore nel quale l'Italia primeggia in Europa. Meglio dimenticare le bottigliette d'acqua. Si torna alla borraccia e alla canna del rubinetto, incentivando per legge i filtri. Come se quello delle acque minerali non fosse un businnes da 2,8 miliardi l'anno, ma solo un nemico da abbattere nel nome della sostenibilità. La plastica è il demonio. Dimenticando che, al momento, è il prodotto che conserva meglio ogni genere di alimento. A ruota seguono i detersivi: bisogna usare quelli ricaricabili alla spina, sia per l'igiene personale che per quello della casa. Buttando nella pattumiera (ovviamente osservando meticolosamente in dettami della differenziata) decenni di progresso e comodità. L'ordine di scuderia è riportare indietro le lancette dell'orologio. Dopo aver sgasato l'acqua e svuotato i flaconi di sapone, tocca ai pannolini. Anche loro inquinano troppo: così il governo decide di incentivare l'utilizzo di quelli lavabili. Si torna negli anni '50, ma senza boom economico e la vita più che dolce sembra agra.

Annalisa Chirico per formiche.net il 24 novembre 2019. “Special relationship” alla pechinese. Tra M5S e Cina è sempre più amore. Un amore vissuto ormai alla luce del sole, senza infingimenti. La conferma è nella doppia visita che, in un piovoso weekend novembrino, il leader del movimento Beppe Grillo ha svolto presso l’ambasciata della Repubblica popolare cinese in Italia: venerdì la cena con l’ambasciatore cinese Li Junhua e sabato, in giornata, un secondo incontro di oltre due ore, sempre nella sede diplomatica del quartiere Parioli a Roma. Recentemente il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che ha annullato la propria partecipazione al G20 in Giappone, è stato ospite d’onore a Shangai dove ha brindato a prosecco con il presidente Xi Jinping, il quale deve avergli perdonato la gaffe del novembre di un anno fa quando in una conferenza stampa, a Pechino, l’allora vicepremier pentastellato lo chiamò per due volte “Ping”. Di Maio ha fatto di tutto per farsi perdonare. È l’unico leader di un Paese democratico che ha parlato soltanto una volta di Hong Kong e lo ha fatto con le parole di un funzionario cinese: sono affari interni della Cina. Già a luglio, nelle prime settimane delle manifestazioni, il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano, suo fedelissimo, si era recato a Hong Kong senza proferire verbo sulle proteste. Di Maio è l’uomo che ha apposto la firma sul memorandum d’intesa per la Via della Seta. L’Italia è unico Paese fondatore dell’Unione europea ad aver sottoscritto un accordo che la stampa cinese ha celebrato come un successo geopolitico nazionale. La firma per la “Belt and Road Initiative” ha già comportato per il nostro Paese una facilitazione concreta nell’esportazione di arance via aereo (nello stesso tempo, il presidente francese Macron ha incassato un maxi ordine di Airbus dalla Cina, senza doversi inchinare, in ruolo ancillare, al Partito comunista cinese). Uno sbaglia ma poi impara, si diceva, e i grillini il test di fedeltà con la Cina non lo sbagliano mai. Per non sbagliare, Di Maio, promosso alla guida della Farnesina nel Conte-bis, ha nominato come capo di gabinetto Ettore Sequi, già ambasciatore italiano a Pechino. Il 14 novembre scorso il ceo di Huawei Italia, Thomas Miao, ha pronunciato il discorso di apertura dell’evento “Smart company” organizzato a Milano dalla Casaleggio associati, la società di Davide Casaleggio che, in quanto presidente, tesoriere e amministratore unico dell’Associazione Rousseau, gestisce la piattaforma informatica e incassa ogni mese trecento euro da ogni parlamentare grillino (per un totale di circa 700mila euro nel 2018). Il manager Miao è lo stesso che ad ottobre, in occasione della inaugurazione dei nuovi uffici romani del colosso cinese delle telecomunicazioni è comparso in una photo opportunity con il sindaco della capitale Virginia Raggi, accorsa in loco per celebrare l’evento. Sempre per non sbagliare, il 15 novembre il blog di Grillo, silente sulle proteste di Hong Kong, ha ospitato un intervento negazionista sulla repressione cinese contro la minoranza uigura, turcofona e di fede musulmana, nella regione dello Xinjiang. Eppure un dettagliato report dell’Unione Europea del gennaio 2019 evidenzia “le profonde preoccupazioni dell’Ue sui diritti umani nello Xinjiang, anche in relazione alla detenzione di massa, alla rieducazione politica, alla libertà religiosa e alle politiche di sinicizzazione”. Per non parlare delle numerose segnalazioni da parte delle Nazioni Unite e di organismi come Amnesty International che mostrano come il governo cinese abbia trasformato la regione in “un enorme campo di internamento avvolto nel segreto”. Non è invece un segreto che il dossier 5G sia un argomento delicato tanto per il M5S quanto per il premier Giuseppe Conte. Quando ci sono in ballo cybersicurezza ed equilibri internazionali, il funambolismo non paga. Il tema, già terreno di scontro tra Lega e 5 Stelle attorno al “Golden power” governativo contro ogni minaccia informatica alla sicurezza nazionale, continua a suscitare diffidenza dalle parti della diplomazia statunitense. L’atteggiamento ondivago e, a tratti, dilatorio su un dossier così rilevante per la sicurezza nazionale non è stato apprezzato. Mentre l’amministrazione Trump ha stabilito, in questi giorni, che le telco cinesi Huawei e Zte, già inserite nella “Entity List”, rappresentano “minacce alla sicurezza nazionale” e sono dunque escluse dal programma di sussidi federali di un valore pari a 8,5 miliardi di dollari, l’Italia resta un punto debole nella strategia di protezione da possibili attacchi cyber. In particolare, dopo il tormentato percorso del dossier nei mesi del Conte-uno, lo scorso 24 ottobre la Camera, con i voti favorevoli di 5S e Pd, astenuti Lega, Fi e Fdi, ha dato il via libera a un ddl sul “perimetro di sicurezza cibernetica nazionale”. La legge prevede che tutte le amministrazioni dello Stato, gli enti pubblici e privati fornitori di servizi strategici debbano rientrare in questo “perimetro” che sarà organizzato e verificato da due istituzioni: il Centro di valutazione e certificazione nazionale, istituito presso il ministero dello Sviluppo economico, e il Dipartimento informazioni e sicurezza, guidato dal generale Gennaro Vecchione (vicinissimo al premier Conte e implicato nella vicenda Russiagate all’esame del Copasir). Insomma, sul 5G non c’è ancora un punto fermo. E questo, sommato alle plurime manifestazioni di un amore non più sottaciuto, genera fibrillazioni. Che l’Italia non sia più un alleato affidabile? Mao miao.

DAGONEWS il 25 novembre 2019. Il governo cinese, come ogni regime comunista che si rispetti, segue un rigido protocollo verticistico. Per questo l'altra sera l'ambasciatore ha invitato Beppe Grillo: inutile perdere tempo con i sottoposti, meglio andare direttamente dal capo dei capi. Devono aver capito che nonostante l'ascesa dei duplex Conte-Casalino e Di Maio-Casaleggio, alla fine chi conta davvero resta il Comico, il Fondatore, l'Elevato. Colui che con un cenno del blog ha dato vita al Conte-2 nonostante i dubbi di Di Maio e Casaleggio, che tanto bene si trovavano con Salvini e accarezzavano l'idea di Giggino premier.  Nonostante le difficoltà con la lingua, con Grillo che per due ore ha sparato battute intraducibili in italiano, l'interprete che arrancava e l'ambasciatore che parlava in inglese, il succo della conversazione si è concentrato su una serie di punti:

- Pechino ha avuto la conferma che il loro interlocutore privilegiato sono i 5 Stelle: Conte che finge di chiudere la porta al 5G cinese ma non attiva mai davvero il Golden Power; la firma della Via della Seta; Di Maio grande amico sia da ministro dello Sviluppo Economico che degli Affari Esteri; Casaleggio che come ospite d'onore della sua conferenza invita Thomas Miao di Huawei.

- L'unico sgarbo è stato quello di Patuanelli, che ha dato buca all'ultimo momento al viaggio in Cina, ma Grillo gli ha spiegato che non avrebbe potuto fare altrimenti vista l'esplosione della crisi Ilva. A riprova dell'amore grillino per la Cina, Di Maio ha snobbato il G20 a casa degli odiati vicini giapponesi per farsi una gita in Sicilia, mentre non si è perso per nulla al mondo la fiera di Shanghai, dove è stato invitato a cena da Xi Jinping pur non essendo un capo di Stato.

- Per la prova d'amore vera e propria, l'ambasciatore ha chiesto a Grillo come mai l'Italia tentenni così tanto sul 5G e perché non dia un via libero definitivo a Huawei e ZTE come gli altri paesi. Inutile spiegargli che Conte è terrorizzato dalle contromosse degli americani, soprattutto ora che il Russiagate pende sulla sua testolina tinta: lo sanno benissimo.

- Anche la Via della Seta non basta, visto che è stata svuotata all'ultimo momento su pressione degli americani. La Cina, ora che si è allentata la guerra commerciale e con Trump impegnato sull'impeachment, vuole diventare un investitore ancor più invadente in Italia. Per questo ha ricordato a Grillo l'offerta fatta al nostro Paese, di diventare partner ufficiale del Boao Forum for Asia, la Davos cinese che si svolge ogni anno in primavera. La richiesta era arrivata sulla scrivania di Conte quattro mesi fa, ma non ha mai ricevuto risposta. Il motivo è sempre quello del punto precedente: gli americani…

Beppone davanti a questa smitragliata di geopolitica e affari ha reagito con una serie di ''certo, come no'', annegati nel solito mare di gag e giochi di parole. Niente è stato deciso, ma il messaggio ai 5 Stelle è arrivato forte è chiaro.

Francesco Maria Del Vigo per “il Giornale” il 26 novembre 2019. Il Movimento Cinque Stelle è nato nel nome della trasparenza totale nei confronti dei cittadini. Almeno così ci avevano promesso. Quindi siamo certi che Beppe Grillo, fondatore e guru del Movimento, non avrà alcuna difficoltà nel rispondere alle domande che intendiamo rivolgergli. Tra venerdì e sabato della scorsa settimana il comico genovese - come ha scritto ieri su queste pagine Marco Gervasoni - ha incontrato due volte l' ambasciatore cinese a Roma Li Junhua. Un incontro privato tra due personaggi pubblici che ha lasciato molti dubbi. Specialmente per la segretezza con la quale è stato trattato. L' era dello streaming è durata ben poco, ma ridurre un appuntamento di questa portata alla consegna di un barattolo di pesto alla genovese è un' offesa agli italiani.

1 Lei non ha ufficialmente alcun incarico politico ma, di fatto, è il proprietario insieme a Davide Casaleggio del partito di maggioranza attualmente al governo. A quale titolo si è recato in visita al diplomatico di Pechino?

2 Ha usato i canali della Farnesina per organizzare i due incontri privati nella Capitale?

3 Lei ha sostenuto che, durante i due colloqui, avete parlato di pesto. Bella battuta, ma di quali altri affari vi siete occupati?

4 Ha interessi privati in Cina?

5 Avete avuto modo di parlare di Huawei e 5G?

6 Il 15 novembre di quest' anno la Casaleggio Associati ha organizzato una conferenza sulle Smart Company, tra gli ospiti c' era anche l' ad di Huawei, non le sembra quanto meno inopportuno visto che sono proprio i 5 Stelle ad occuparsi dei fascicoli sul 5G?

7 In molti paper (l' ultimo datato 2019) la Casaleggio Associati si occupa della Cina e consiglia ai suoi clienti di investire a Pechino, specialmente nel settore dell' e-commerce. Non crede che possa esserci un conflitto di interessi?

8 Il governo pentastellato ha firmato il discusso memorandum sulla Via della Seta. Che rapporti ci sono tra il Movimento Cinque Stelle e il Paese di Xi Jinping?

9 Il Movimento Cinque Stelle - come sostengono in molti - vuole spostare l' Italia verso l' ombrello geopolitico della Cina?

10 Pensa che il modello politico economico cinese sia compatibile con la libertà e la democrazia occidentali?

11 Fino al 2016 il M5S aveva posizioni scettiche nei confronti del gigante asiatico e arrivò anche a chiedere una consultazione contro l' invasione economica di Pechino. Poi una svolta radicale. «La Cina nella nuova era»; «Cina e India stanno rendendo la terra più verde»; «La Cina accelera sugli aumenti salariali per diminuire il risparmio precauzionale»; «Cina: agevolazioni fiscali per incoraggiare l' innovazione»; «In Cina sul mercato le prime auto senza guidatore» sono alcuni dei titoli di articoli molto elogiativi pubblicati sul suo blog. Come mai una svolta così repentina?

12 Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte - nominato dal Movimento Cinque Stelle - era al corrente di questo incontro?

13 Come mai non era presente all' incontro anche il ministro degli Esteri Luigi Di Maio?

14 Che rapporti ha con Romano Prodi?

15 Lei, che da sempre è in campo nella difesa dei diritti umani, ha avuto modo in quasi quattro ore di incontri, di parlare qualche minuto della repressione cinese a Hong Kong?

Francesco Verderami per il “Corriere della sera” il 26 novembre 2019. Beppe Grillo è stato costretto a intervenire, perché la scorsa settimana stava per saltare tutto: il Movimento, il governo e forse anche la legislatura. Pochi giorni prima che il fondatore di M5S arrivasse a Roma, infatti, si era tenuto un incontro durante il quale il sottosegretario alla presidenza Fraccaro e il Guardasigilli Bonafede avevano apertamente puntato l' indice contro Di Maio, additato per aver accumulato troppi errori e troppi incarichi. Al termine di un autentico processo politico, imbastito alla presenza dei maggiorenti grillini - dal ministro Spadafora, alla Taverna, a Di Battista - Di Maio aveva rinfacciato ai suoi accusatori di averlo offeso personalmente, con toni violenti ed espressioni ritenute ingiuriose: di fatto, sciolta la riunione, la delegazione 5 Stelle al governo non esisteva più. Così, per quanto possa apparire paradossale, l'uomo del «vaffa» ha dovuto interpretare il ruolo dello «stabilizzatore», si è assunto cioè l' onere di placare gli animi nel Movimento e di tranquillizzare - incredibile ma vero - Zingaretti, prima di adottare in pubblico le parole che i dorotei usavano solo nei colloqui riservati: «Non rompete più i c...». Ma Grillo è consapevole che il cessate il fuoco avrà una durata limitata, perché a dividere M5S è un problema culturale che non potrà essere sempre risolto utilizzando categorie pre-politiche: il suo «volemose bene» basterà per un po' a sedare le tensioni, non a cancellarle. E sarebbe un errore derubricare le divergenze a questioni di governo e di potere, con il blocco «contista» da una parte e la fronda «anti-contiana» dall' altra. Anche se è talmente sensibile la materia, da aver imposto ieri al portavoce del premier di smentire manovre di Conte contro il leader dei grillini. Per quanto il Pd tifi per questa soluzione, e lo sussurri pure. Se regge l'equilibrio, è perché (per ora) nel Movimento Di Maio non ha alternative, e anche perché (per ora) Di Maio non vede alternative. Tuttavia è evidente quale sarebbe la sua linea: basta mettere in sequenza la sparata contro il Mes, l' affondo contro Renzi sui fondi alla politica e il pressing per approvare la prescrizione. «Cerca pretesti», secondo i democratici. O, per dirla con il vicesegretario pd Orlando, perché «non ha più niente da perdere». Insomma, il cuore porterebbe Di Maio da un' altra parte, al punto che la Meloni si è stufata dell' andazzo e l' ha messo in piazza: «Salvini dica chiaramente "mai con i grillini"». E Salvini candidamente ha risposto: «Mai con i grillini alleati del Pd». «Qualcosa è rimasto tra Luigi e Matteo», ammette un autorevole esponente 5 Stelle, e non è solo la chat di Whatsapp rimasta aperta. Stretto nella morsa del bipolarismo, Di Maio prova a resistere evocando la «terza via». Ma in prospettiva M5S sembra la Polonia del '39, vittima predestinata delle mire di Pd e Lega che vorrebbero spartirsi ciò che resta del Movimento: nei suoi sondaggi riservati non va oltre il 10%. In questa situazione, regola politica vorrebbe che i grillini si aggrappassero al governo come roccaforte. Però siccome coi cinquestelle le regole della politica non valgono, proprio tra i cinquestelle c' è chi teorizza che l' esecutivo «potrà arrivare fino a primavera». Le urne sarebbero il regalo più bello per Salvini, che non può certo stare tre anni ad aspettarle senza correre il rischio di logorarsi. E nel Pd monta il pessimismo: d' altronde fino a quando Conte potrà resistere a Palazzo Chigi, nascondendosi dietro le emergenze? Perché con l' emergenza ligure è riuscito a distogliere l' attenzione dall' emergenza Venezia, che aveva distolto l' attenzione dall' emergenza Alitalia, che aveva distolto l' attenzione dall' emergenza Ilva... Che travaglio. E mettere anche l'emergenza Conte sulle spalle di Grillo sarebbe eccessivo: il fondatore di M5S può limitarsi a un appello, non può curarsi dei dettagli politici quotidiani. E il diavolo si annida lì. Ma non tutto è perduto, anzi per il ministro Speranza c' è speranza, e le Sardine starebbero dando un grande contributo, siccome «in quelle piazze c'è anche gente grillina, che spinge a un' intesa tra le forze democratiche». Così il Movimento verrebbe sospinto da un altro movimento. Forse.

Jacopo Iacoboni per lastampa.it il 28 novembre 2019. Nell’ormai celebre weekend scorso di Grillo – quello in cui il cofondatore del M5S è venuto a Roma per varcare due volte la soglia dell’ambasciata cinese a Roma – il comico ha naturalmente trovato il tempo di fare una chiacchierata con Luigi Di Maio, che qui possiamo ricostruire con precisione grazie a due fonti interne al Movimento. C’era molta attesa, specialmente al vertice del Pd e a Palazzo Chigi, dove – in assoluto tandem comunicativo – volevano vedere la discesa di Grillo come dettata dalla necessità di rimettere in riga Di Maio e trovare la quadratura a un Movimento in marasma. Ma le cose, a quanto ci risulta, non stavano così. Grillo non è sceso a Roma con il bastone contro Di Maio, tutto il contrario: aveva in mano la carota. Il primo elemento è suggerito dalla semplice scansione temporale dei fatti: Grillo è arrivato nel pomeriggio di venerdì nella Capitale, ma Di Maio non si è affatto affrettato a rientrare dalla Sicilia: tra i due vi è stata una telefonata cordialissima, con la promessa di farsi una chiacchierata il giorno successivo. Non esattamente, da parte di Di Maio, il comportamento di chi sta per essere giubilato. 

Federico Capurso per “la Stampa” il 27 novembre 2019. Il Movimento 5 stelle non ne vuole sapere nulla di Hong Kong e degli scontri tra la politica e i manifestanti che da mesi protestano contro il governo filo-cinese. «Non ci occupiamo di questioni interne di altri Paesi», è la risposta del ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. Un atteggiamento ripreso in Parlamento dai deputati M5S della commissione Esteri. Si rifiutano, infatti, di firmare una risoluzione - presentata da Maurizio Lupi e appoggiata da Pd, Leu, Italia Viva, Forza Italia, Lega e FdI - che impegna il governo a «verificare, nelle sedi internazionali, l' eventuale violazione dei diritti umani», a chiedere il rilascio del visto dell' attivista Joshua Wong e ad allinearsi agli «impegni presi dal Parlamento Europeo», favorendo la scarcerazione «dei manifestanti arrestati durante le proteste». I Cinque stelle, però, chiudono gli occhi. Il capogruppo in commissione del Movimento, Pino Cabras, è il primo a frenare: «Vogliamo prima ragionare, aspettare. Magari è come per il bombardamento in Siria, che si diceva fosse chimico e invece, secondo i report, chimico non era». Lì, a Hong Kong, ci sono video che riprendono le forze dell' ordine usare gli idranti e lanciare lacrimogeni sui manifestanti. Per Cabras, però, «capita, nel mondo, che qualche governo risponda in modo "non gandhiano" alle manifestazioni. Piuttosto, guardiamo il Cile, dove la polizia spara proiettili di gomma ad altezza d' uomo sui manifestanti». Dunque nessuna firma, nessuna risoluzione, nessuna condanna. Scelta che solleva più di una perplessità, nella maggioranza di governo, già scottata dall' inchiesta della guardia di finanza su Open, la fondazione di Matteo Renzi, e dalla richiesta di Di Maio di una commissione d' inchiesta su partiti e fondazioni. «Allarghiamola anche alle Srl collegate ai movimenti politici», replica il deputato di Iv, Luciano Nobili, facendo implicito riferimento alla Casaleggio Associati. «Massima trasparenza - prosegue - non solo sulle donazioni, ma anche su consulenze e collaborazioni a enti pubblici, italiani e cinesi». Come a voler allungare un' ombra sulla Casaleggio e su quell' improvviso intensificarsi dei rapporti tra la Cina e i 5 stelle. Pechino ha sempre considerato il Movimento 5 stelle una forza anti-sistema e, dunque, un potenziale pericolo per i suoi interessi commerciali in Occidente. Nel 2018, però, cambia idea: i Cinque stelle vincono le elezioni a marzo e a maggio la Casaleggio Associati pubblica un documento sull' e-commerce in cui invita i suoi clienti a investire in Cina e, quando ancora nessuno ne parla, sponsorizza la Via della seta: «L' Italia - si legge - potrebbe avere un ruolo importante come "terminal" di questa nuova autostrada delle merci, ma solo se sarà in grado di parteciparvi. Sarebbe strategico entrarci come "sistema Italia" e non alla spicciolata».

La nomina di Salzano. Non è sfuggito alle forze di maggioranza il ruolo che potrebbe svolgere, nell' intensificare i rapporti commerciali con l' Oriente, Pasquale Salzano, ex ambasciatore in Qatar, nato a Pomigliano d' Arco come Di Maio, e nominato - in quota M5S - presidente di Simest e Chief International affairs officer di Cassa depositi e prestiti. Così come la doppia visita di Beppe Grillo all' ambasciatore cinese a Roma, Li Junhua - per la quale Di Maio negherà oggi ogni coinvolgimento della Cina - e un post pubblicato sul suo blog pochi giorni prima, in cui si nega la repressione del governo di Pechino sulla minoranza Uigura nella regione dello Xinjiang, denunciata da ong e comunità internazionale.

Stefano Feltri per il “Fatto quotidiano” il 27 novembre 2019. Nella costante ricerca di nemici esterni a cui attribuire le nostre sventure, in Italia si nota una sorprendente assenza: la Cina. Troppo impegnati a denunciare complotti tedeschi o sostituzioni etniche organizzate da Soros, i nostri politici sembrano non essersi accorti che Pechino e il Partito comunista cinese stanno diventando una minaccia per l' Occidente più seria della Russia ai tempi della Guerra fredda. Mentre i Cinque Stelle esultano per l' esportazione di arance in Cina, negli Stati Uniti si diffonde la consapevolezza della rapida corrosione della democrazia a opera dei cinesi. I limiti alla libertà di espressione sono sempre più evidenti: temi come Hong Kong o il credito sociale (il controllo digitale della società da parte delle autorità) sono tabù ovunque, per non parlare di Tibet e dei campi di concentramento in Xinjiang. Ma l' allarme sta salendo di livello. Nei giorni scorsi un rapporto del Senato ha presentato gli effetti del "Piano mille talenti" lanciato dalla Cina nel 2008, per trasformare il Paese da potenza manifatturiera a economia digitale: in dieci anni Pechino ha reclutato non mille, ma 7 mila scienziati e ricercatori da tutto il mondo, in particolare dall' America. Molti di questi hanno volutamente nascosto i loro legami con le autorità cinesi e i loro impegni a trasferire conoscenza e tecnologia a Pechino, mentre continuavano a lavorare per programmi finanziati dal governo americano. Le istituzioni americane che erogano 150 miliardi annui per la ricerca non hanno procedure in grado di prevenire le interferenze straniere. In pratica gli Stati Uniti stanno sostenendo il progetto egemonico di Pechino. In America questa consapevolezza comincia a suscitare un certo allarme. Possibile che in Italia, un Paese dove i cinesi sono al centro della scena tecnologica, industriale e perfino sportiva, siamo così indifferenti?

I grillini e la Cina: parla Michele Geraci. L'ex sottosegretario allo Sviluppo economico, il leghista Michele Geraci, racconta i retroscena della duplice intesa fra Pechino e Movimento 5 Stelle. Elisabetta Burba il 27 novembre 2019 su Panorama. «Di Maio l'ho portato io in Cina: è venuto qui per la prima volta nel settembre 2018». Michele Geraci, ex sottosegretario leghista al ministero dello Sviluppo economico nel governo Conte I, nonché gran tessitore delle relazioni sino-italiane, racconta i retroscena dei rapporti fra Movimento 5 Stelle e grand commis di Pechino. Una relazione finita sotto le luci della ribalta dopo la visita di Beppe Grillo all'ambasciatore cinese a Roma, Li Junhua. Il faccia a faccia, avvenuto poche ore prima che nelle urne di Hong Kong trionfassero i democratici anti-Pechino, era stato preceduto da una cena, la sera prima.  Due incontri in 24 ore che hanno fatto gridare allo scandalo l'intera opposizione. A dar fuoco alle polveri ha iniziato Matteo Salvini, che dopo aver sottolineato la frequenza dei viaggi di Di Maio si è augurato che Grillo «non stia cambiando la collocazione internazionale dell'Italia». Ha poi proseguito Giorgia Meloni, tuonando contro «la politica estera decisa da Grillo e Casaleggio» e chiedendo a gran voce «l’istituzione di una commissione speciale alla Camera per far luce sulle ingerenze straniere e, segnatamente, quelle cinesi sul governo italiano». Ma il colpo finale è arrivato dalla giornalista Maria Giovanna Maglie, grande sostenitrice di Salvini, che ha adombrato la possibilità di un piano per il post-Mattarella. «Beppe Grillo consegna i 5 Stelle al progetto Romano Prodi sul Colle» ha twittato. E ha aggiunto un sibillino: «La Cina è vicina», chiaro riferimento all'ex presidente della Commissione europea che dal 2010 insegna alla China Europe International Business School di Shanghai. Per capire quali sono i legami fra i mandarini di Pechino e i grillini di Roma, Panorama ha interpellato Michele Geraci. L'artefice del Memorandum d'intesa fra Italia e Cina sulla Nuova via della seta, firmato da Di Maio il 23 marzo 2019, ha trascorso 10 anni della sua vita in Cina (e 20 in Inghilterra). Come si legge su un post pubblicato sul blog di Beppe Grillo, Geraci ha avuto un ruolo chiave nell'interscambio fra Roma e Pechino. «Con il nuovo governo e il ruolo chiave dell’esperto e pragmatico Michele Geraci – Sottosegretario al Ministero dell’Economia» recita il post datato 10 marzo 2019, «le relazioni sino-italiane hanno subito un’accelerazione». Geraci ha risposto a Panorama da Hangzhou, il capoluogo della provincia dello Zhejiang nella cui università insegna finanza.

Ma è vero che c'è una duplice intesa fra i grillini e Pechino?

«Non saprei, dovrebbe chiederlo ai 5 Stelle. Forse, più che una vicinanza politica, c’è una curiosità sui temi economici. Riguardo a Beppe Grillo, ritengo che abbia un reale interesse conoscitivo per quello che sta facendo la Cina, soprattutto a livello ambientale».

In base a che cosa lo sostiene?

«La mia è una speculazione in base a quei pochi contatti che ho avuto con Grillo in questi due ultimi anni».

Quando ha conosciuto Grillo?

«Di persona dopo essere entrato al governo, nel giugno 2018. Però ero in contatto con lui da prima, perché aveva ospitato alcuni miei articoli sul suo blog e anche il documentario «China Economy and Society», da me prodotto e presentato. Io però ero al governo in quota Lega, su chiamata diretta di Matteo Salvini, quindi il mio legame politico è con Alberto Bagnai, con Claudio Borghi e con gli altri economisti del team della Lega».

E ha introdotto Grillo anche in Cina?

«No, c'era già stato per conto suo».

Lei ritiene che ci sia da scandalizzarsi per l’incontro fra Grillo e l’ambasciatore cinese?

«Non so di che cosa abbiano parlato. Detto questo, io ho un approccio ecumenico: si parla con tutti. In particolar modo gli ambasciatori parlano con tutte le forze politiche, è normale. Magari gli italiani chiedono chiarimenti sul ruolo di Grillo nel Movimento, ma riguardo all'ambasciatore non vedo alcuno scandalo. Forse l'assenza di Luigi Di Maio al G20 in Giappone è stata più inopportuna, ma avrà avuto i suoi buoni motivi».

Ammetterà almeno che prendere l'ambasciatore per il braccio è stato un errore?

«Quello normalmente con i cinesi non si fa, ma forse Grillo e l'ambasciatore hanno un rapporto amichevole».

Non è stato un faux pas diplomatico?

«Grillo non è un diplomatico, fa quello che vuole. Però, mi scusi, con i ponti che crollano e l'economia che va giù non mi pare prioritario il fatto che Grillo abbia toccato il braccio dell'ambasciatore».

Ma comunque non è strano il cambiamento di rotta di Grillo? Fino a 10 anni tuonava contro Pechino, ora è tutto un parlare di «innovazione», «internazionalizzazione», «aumenti salariali»... 

«La Cina 10 anni aveva un Pil che era meno metà di quello odierno. Adesso è un player importante. In 10 anni ha fatto un salto tecnologico che l’Occidente non è stato in grado di fare. La curiosità è lecita, anzi anch’io invito tutti a parlare più di Cina e Asia. È giusto che il nostro popolo capisca che cosa succede nel mondo. Qui però entra in gioco una differenza importante: fare commercio significa avere obiettivi pratici».

Dunque è stato lei l'artefice dell'intesa ritrovata fra 5 Stelle e Pechino?

«Ma io non sono 5 Stelle. L’intesa, se c’è, se la saranno fatta loro. Non credo, comunque, ci sia un'intesa particolare. Riguardo invece al Memorandum d'intesa, sì: quello l’ho spinto io con la cooperazione, come è normale che sia, del nostro ambasciatore a Pechino. Ettore Sequi ha iniziato il lavoro e io, quando sono stato nominato sottosegretario, ho cooperato con lui per portarlo a conclusione. Insieme abbiamo lavorato molto bene, in armonia. E penso sia stata una cosa utile per le nostre aziende e per il nostro export».

Già, il controverso Memorandum voluto proprio da Di Maio... È stato molto criticato.

«È stato molto criticato, ma non ho mai avuto il piacere di avere un confronto diretto con chi lo criticava. L'ha criticato ad esempio Jean-Claude Juncker, che prima di diventare presidente della Commissione europea era stato primo ministro del Lussemburgo. Peccato che il Lussemburgo abbia firmato con Pechino un memorandum d'intesa simile cinque giorni dopo l'Italia, il 28 marzo 2019 (me l'ha detto al volo proprio il premier lussemburghese). Ma ci tengo a precisare che la mia responsabilità era di aiutare le imprese a esportare di più in tutti i Paesi del mondo, Cina inclusa. Nessuna azienda mi ha criticato per il Memorandum, quindi credo di aver fatto bene».  

Ma guardiamo i risultati: nonostante il Memorandum, nel 2019 il nostro export in Cina è calato.

«Il calo dell'export non si può imputare al Memorandum. Anzi, la debolezza del nostro export con la Cina è il motivo per cui abbiamo fatto l’accordo, non il risultato. I risultati si vedranno nel tempo, con calma. Con la Cina bisogna avere pazienza: io mi sarei aspettato i primi risultati a fine anno e dal 2020 in poi. Ad ogni modo alcuni passi avanti sono stati fatti. Per esempio, sono stati aperti tre voli diretti per la Cina».

Critiche respinte al mittente, dunque?

«Una critica accettabile è che non si è fatto abbastanza. L'obiettivo ultimo era quello di stimolare l'export in Cina, che purtroppo non è stato raggiunto. Ma il commercio ha un’inerzia: i dati sull'export di oggi sono il frutto dei contratti dei mesi precedenti. È impossibile avere risultati concreti in pochi mesi. E poi, per quanto mi riguarda, mi è mancato il tempo di proseguire nel percorso. Dopo la firma, sono dovuto andare in giro per mondo (Stati Uniti e Germania) a sedare gli ultimi dubbi. Con successo, tant’è che con gli Stati Uniti siamo riusciti a ridurre il numero delle nostre merci soggette a dazi. Poco dopo è caduto il governo».

Ma a firmare il Memorandum sono stati Luigi Di Maio e Giuseppe Conte. Loro non sono caduti.

«Sono caduti e si sono rialzati, credo. Sì, ma gli equilibri sono cambiati. Adesso al governo, oltre ai 5 Stelle, invece di me e della Lega siede chi era più contrario di tutti a quell'intesa: il Pd. Qui i cinesi mi chiedono se il nuovo governo voglia davvero fare affari con loro, se si impegnerà a realizzare il programma previsto dal Memorandum. Comunque, quest'anno grazie al Memorandum siamo saliti tantissimo di rango in Cina. E si è cominciato a vedere qualche segnale. L'Italia, per esempio, è diventato il Paese più discusso sui media cinesi. Un grande valore intangibile di pubblicità, se si pensa a quanti utenti seguono i vari media».

E questo è merito dei 5 Stelle o della Lega?

«Se mi permette, è merito mio e quindi della Lega. Tutte le aziende del Nord sono favorevoli a fare affari con la Cina. È una cosa commerciale, non politica».

Ma lei sa bene che le due questioni vanno di pari passo.

«Certo, i rapporti politici ci sono, ma questo non significa dover diventare per forza amici. I rapporti si debbono avere con tutti i Paesi. Lei pensa che Emmanuel Macron non abbia rapporti con la Cina? La Francia vende 30 miliardi di euro in aerei in un colpo, grazie a tali rapporti. Noi che cosa vogliamo fare? Discutere sul sesso degli angeli o aiutare le imprese e la nostra economia come fa, bene, Macron?»

Amici o succubi?

«Nessuno ha intenzione di essere succube di uno Stato straniero, tantomeno noi della Lega. Su questo credo ci siano pochi dubbi. In Cina il rapporto politico va a cascata con il rapporto economico. E l'arrivo del Pd al governo rischia di rovinare tutto».

Intende dire che il Pd è ostile alla Cina?

«Era ostile alla firma del Memorandum d'intesa. E siccome la Cina a quell'accordo ci tiene molto, Pechino è in allerta. Quello che abbiamo costruito rischia di crollare».

Ma se c'è chi sostiene che ci sarebbe un patto fra Pd, 5 Stelle e Pechino per dare la presidenza della Repubblica a Romano Prodi?

«Macché. I cinesi hanno i loro problemi di economia interna: cosa vuole che interessi loro chi è il presidente della Repubblica italiana! L’Italia non è al centro del mondo, né tantomeno dei pensieri della Cina, più di quanto lo siano altri Paesi. Qui in Cina Prodi gode di ottima reputazione, ma da tecnico e da professore».

A Pechino interesserà avere buoni rapporti con chi è al potere in Italia...

«Alla Cina può interessare chi siede al governo, perché è con i governi che si dialoga. Ma il presidente della Repubblica resta il nostro garante, tra l’altro Sergio Mattarella verrà in Cina l’anno prossimo. Prodi è ben rispettato in Cina, come lo sono io e altri italiani. Ma da qui a vociferare che ci sia un patto per portarlo sul Colle... Io non ne so niente, ma mi sembra fantascienza».

A proposito, anche su di lei corrono voci. Si dice che lei sia molto vicino ai cinesi.

«Ovviamente noi facciamo l’interesse degli italiani. Siamo sovranisti, no? Ma per fare questo, ovviamente bisogna anche avere ottimi rapporti con i partner commerciali. Io ho ottimi rapporti con la Cina, con gli Stati Uniti e, la sorprenderò, con tutti i Paesi con cui noi facciamo business».

Mattia Soldi per formiche.net il 29 novembre 2019. Alla faccia della non ingerenza. Puntuale come un orologio svizzero è arrivato il comunicato dell’ambasciata cinese a Roma sulla conferenza alla sala stampa del Senato con il leader delle proteste a Hong Kong Joshua Wong invitato dal Partito radicale e da Fratelli d’Italia. Conferenza cui Wong è stato costretto a partecipare via Skype, avendogli le autorità di Hong Kong impedito di lasciare il Paese per recarsi in Italia. I parlamentari bi-partisan che hanno preso parte all’iniziativa, sentenzia l’ambasciata, hanno fornito “una piattaforma per un separatista pro-indipendenza di Hong Kong e supportato “la violenza e il crimine”. Poi il verdetto: “Si è trattato di un grave errore e di un comportamento irresponsabile per cui siamo fortemente insoddisfatti ed esprimiamo la nostra più ferma opposizione”. La missione diplomatica guidata dall’ambasciatore Li Jinhua auspica dunque che “le persone coinvolte rispettino la sovranità cinese e si impegnino in azioni che aiutino l’amicizia e la cooperazione tra Italia e Cina e non il contrario”.  Il leit-motiv delle minacce cinesi è sempre lo stesso. Condannare la repressione del governo comunista delle manifestazioni a Hong Kong è un’intromissione in affari che “appartengono alla politica interna della Cina e nessun Paese, organizzazione o singolo ha alcun diritto di interferirvi”. Insomma, per l’ambasciata cinese un gruppo di parlamentari italiani non ha “alcun diritto” di convocare dentro al Senato della Repubblica una conferenza stampa per esprimere una posizione su un evento su cui il mondo intero ha gli occhi puntati, perché si tratta di un “grave errore” e di una indebita “interferenza”. Interferenza non è, invece, minacciare di ripercussioni un Paese sovrano perché non ha limitato la libertà d’espressione all’interno delle sue istituzioni. Wong, giovane attivista di 23 anni, segretario del partito Demosisto cui la Commissione elettorale di Hong Kong ha impedito di partecipare alle elezioni dei Consigli distrettuali (stravinte dal suo partito), altro non sarebbe, dice il ministero degli Esteri cinese, se non un criminale che “ha pianificato e partecipato al caos, alle violenze e agli attacchi alla polizia; tutte azioni criminali che ne hanno determinato l’arresto e attualmente si trova in una condizione di libertà provvisoria in attesa del processo”. Non solo: “ha distorto la realtà, legittimato la violenza, criticato (sic!) il principio “un Paese, due sistemi” e chiesto pubblicamente l’ingerenza di forze straniere negli affari di Hong Kong, comportandosi come un clown saltellante “pro-indipendenza di Hong Kong”. I parlamentari italiani sono quindi rei di aver “ignorato i fatti appena descritti”. Di fronte a un’aperta violazione della sovranità del Parlamento e a una condanna senza precedenti di uno Stato straniero della libertà d’espressione delle istituzioni italiane ci si chiede quanto ancora possa durare la linea della “non-ingerenza” annunciata dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio e sposata in pieno dal partito di cui è leader, il Movimento Cinque Stelle. I fatti dimostrano che, dall’altra parte, simili premure non sono prese in considerazione. Ci si chiede infine se il governo italiano, e in particolar modo questo governo, che ha messo in cima all’agenda la sovranità e la centralità del Parlamento, riterrà ora opportuno prendere una posizione a difesa delle istituzioni. Non c’è a ben vedere ragione d’opportunità che giustifichi oltre un silenzio sempre più assordante.

(ANSA il 29 novembre 2019) - L'Italia, attraverso le sue aziende, fornisce i mezzi alla polizia di Hong Kong per portare avanti la repressione dei manifestanti che da mesi protestano contro le autorità di Pechino. È un'accusa pesante quella lanciata dall'attivista leader delle proteste nell'ex colonia britannica Joshua Wong, che in collegamento video con il Senato a Roma ha chiesto all'Italia di "dimostrare quanto tenga alla libertà" e di prendere "misure adeguate a riguardo". E ha avvertito il ministro degli Esteri Luigi Di Maio di "stare attento" ai rapporti economici con la Cina, perché "non esistono pranzi gratis al mondo". Il giovane attivista era stato invitato a partecipare di persona all'incontro organizzato da Fratelli d'Italia e Partito Radicale, ma le autorità di Hong Kong gli hanno negato l'autorizzazione a viaggiare in Europa. Il suo appello all'Italia non è stato meno forte per questo, così come le sue accuse. "Da cinque mesi viviamo la brutalità della polizia, che ormai usa armi da fuoco contro i manifestanti. Peraltro, ci sono anche aziende italiane che contribuiscono e forniscono loro mezzi, tra cui autovetture", ha detto Wong. "Invito a prendere delle iniziative per quanto riguarda l'esportazione di armi antisommossa e i mezzi utilizzati dalla polizia a Hong Kong", è stato l'appello dell'attivista ai parlamentari presenti all'incontro, esortando poi il governo italiano ad "adottare misure simili al provvedimento approvato dagli Stati Uniti, con una chiara richiesta da parte di Roma di fermare le violazioni dei diritti umani". In conferenza stampa, Wong ha raccontato che a Hong Kong c'è una vera e propria "crisi umanitaria", e che "con l'esperienza e l'esempio di Hong Kong" davanti agli occhi, "anche l'Italia deve stare attenta in particolare al progetto Belt and Road Inititative, la Via della Seta. Non è altro che una strategia della Cina per influenzare i Paesi". L'Unione europea, e in particolare l'Italia, "dovrebbero rivedere i loro legami economici con un regime così brutale come quello di Pechino". Wong non ha risparmiato ancora una volta le sue critiche al titolare della Farnesina, ribadendo di essere rimasto "piuttosto deluso nel leggere le dichiarazioni indifferenti" del ministro sulle proteste. Un rammarico già espresso in occasione del suo intervento in video ieri sera all'incontro “Hong Kong Democracy” alla Fondazione Feltrinelli a Milano, durante il quale ha sottolineato che Di Maio "ha detto di non voler interferire con i fatti di altri Paesi, ma ha tralasciato le brutalità della polizia". In Senato Wong ha espresso "rammarico" anche per la posizione di papa Francesco. "Considerati gli interessi del Vaticano con la Cina, non sono tanto sorpreso dalle parole del Papa che si è espresso a favore di pace e giustizia sociale, ma sono lo stesso rammaricato", ha detto. "Vedendo i giovani che vengono torturati e arrestati, nel suo ruolo di leader religioso non dovrebbe rimanere silente", ha osservato l'attivista. "Spero che Francesco possa riconsiderare la sua posizione ed esprimere più riguardo verso i manifestanti e la violazione dei diritti umani". Wong ha infine voluto ringraziare l'impegno dei deputati e senatori italiani a sostegno della lotta dei manifestanti, e ha sottolineato che seguirà con attenzione i provvedimenti che saranno presi dal Parlamento. "La mia richiesta umile è che l'Ue e l'Italia non chiudano gli occhi dinanzi alla crisi umanitaria di Hong Kong".

DAGONEWS l'11 dicembre 2019. Dopo la telefonata di Grillo a Di Maio, rivelata da Dagospia e poi confermata da vari giornali, l'atteggiamento del ministro degli Esteri è decisamente cambiato: mollati i panni del picconatore improvvisato, è nato un Di Maio in modalità real politik che non cerca lo scontro quotidiano con gli alleati di governo. Più consenso, meno conflitti. Quindi accordo sul MES e sulla prescrizione. Perché, in caso di rottura col PD del buon Zingaretti, col voto anticipato si consegna il paese alla destra-destra di Salvini-Meloni. Vale la pena - sottolinea Grillo - stare a sentire gli umori dei puri & duri alla Dibba/Paragone? L'altroieri c'è stata una nuova telefonata tra Grillo e Di Maio, stavolta decisamente più pacifica e serena. Una volta chiarita la linea politica meno divisiva, ora bisogna tornare a definire qualche dinamica interna, fondamentale anche per ridare un'impressione di unità nel Movimento frammentato. L'effetto di questa chiamata? Ieri si è arrivati finalmente alla nomina del nuovo capogruppo alla Camera del M5S, un ruolo chiave che però era rimasto vacante da quando Patuanelli è entrato nel governo, ormai tre mesi fa. Il problema era ovviamente di correnti: le frange anti-Giggino non gradivano i nomi da lui proposti, e tenevano tutto fermo. Di colpo, dopo la sfuriata di Beppone, ecco la quadra sul nome di Davide Crippa, che non era il candidato preferito dal capo politico Di Maio. Segno che il messaggio dell'Elevato è stato recepito. Prova ne è anche il nuovo inabissamento di Alessandro Di Battista, che dopo essersi schierato pubblicamente con Di Maio sul MES e aver menato pure sulla Von Der Leyen (''espressione del liberismo, da combattere sempre e ovunque''), è stato ancora una volta silenziato. Stesso trattamento al limite dell'indifferenza verso i senatori col mal di pancia pronti a mollare il M5S: che siano 3 o che siano 5, sono rimpiazzabili con altrettanti ''responsabili''. Un paio dalla Forza Italia carfagnata e altri 3 dal gruppo misto, tra i grillini già usciti nei due anni scorsi. ''La leadership non si compra'', avrebbe detto Beppone al discepolo di Pomigliano, con un solo messaggio vero: la tua capacità politica si misurerà dalla sopravvivenza di questo governo. Se riuscirai a tenerlo in vita, vorrà dire che avrai capito come si sta al governo. Altrimenti, schianterai il M5s al 10% che potrebbe prendere in caso di voto in primavera, e consegnerai il Paese a Salvini, che per Grillo è il peggiore degli scenari possibili.

Beppe Grillo e il riavvicinamento al Pd, l'ex M5s: "Ha un figlio accusato di stupro, così...". Libero Quotidiano l'1 Dicembre 2019. Cosa c'è dietro il clamoroso avvicinamento tra Beppe Grillo e il Pd? A suggerirlo è Giovanni Favia, storico attivista M5s emiliano e primo dissidente epurato dal comico-guru. Intervistato dal Tempo, l'ex grillino dà una lettura "privata" alla svolta politica che ha portato, ad agosto, alla nascita del governo giallorosso. "Grillo non è di centrosinistra, il suo primo nemico è stato il Pd, io l'ho conosciuto bene". E dunque? "Quello che si dice in giro - io lo riporto con molto rispetto - è che il risvolto psicologico della situazione in cui è capitata la sua famiglia gli abbia fatto cercare una pace con la sinistra", spiega Favia. "È chiaro che ti spaventi tantissimo come genitore quando hai un figlio accusato di stupro, in una vicenda così complessa, e questa situazione - secondo me - ha influito in maniera enorme sulla posizione di Grillo che ha sempre messo prima il suo ego, i suoi interessi personali, rispetto a quelli del Paese".

Alessandro Trocino e Monica Guerzoni per il “Corriere della sera” il 4 dicembre 2019. In Aula, lo sguardo di Luigi Di Maio non incrocia mai quello di Giuseppe Conte. Più spesso finisce per dirigersi verso il leghista Garavaglia, che fu viceministro dell'Economia. Occhiate d'intesa, forse di nostalgia, che fanno il paio con i capannelli del giorno dopo a Montecitorio, dove gruppuscoli di 5 Stelle dispersi confabulano con deputati leghisti, nella parte degli adescatori. Il più attivo è Giancarlo Giorgetti: «Ha ragione Di Maio, per una volta che è coerente, perché gli date contro?». Ma è lo stesso Giorgetti che un attimo dopo scherza: «Cinque Stelle? Ma no, sono quattro, tre, due, una». Gioco di parole che allude al progressivo prosciugarsi del Movimento. Fonti leghiste assicurano che già quattro senatori hanno accettato il trasbordo nella Lega e altri starebbero per cedere. Voci, spesso interessate. Ma che si innestano in un quadro complesso, che vede un ministro degli Esteri sempre più inquieto e un Movimento che va veloce in direzione scissione. È una partita che mette a rischio il governo e che ha molti protagonisti, uno per ogni anima del «fu» primo partito. Da una parte c'è Di Maio, che fa ormai apertamente asse con Alessandro Di Battista e non nasconde l'ostilità all' esecutivo che lui stesso ha formato. Dall' altra ci sono i «governisti», che cercano riparo nella terra di confine tra il premier Conte e il Pd. Infine il consistente gruppo dei deputati a fine corsa, arrivati al secondo mandato e non più ricandidabili. Di Maio non ha mai digerito il governo con il Pd. Nella riunione che diede il via libera al Conte 2, fu tra i più ostili. La riluttanza è andata crescendo e lo ha portato a riscoprire Di Battista, con il quale era entrato in rotta di collisione e che ora non perde occasione per sostenerlo, in chat o pubblicamente. «Prima o poi si dovrà staccare la spina», ripete Di Maio ai suoi, con una tale insistenza da aver generato il panico tra i parlamentari. «Si chiude la legge di Bilancio e Luigi manda tutti a casa», prevede un onorevole. E una «contiana», sottovoce: «Vuole tornare con Salvini». Temono voglia davvero mettersi alla testa di un movimento rinnovato e più piccolo, libero dal Pd e dal giogo del governo e pronto a risalire nei sondaggi, tornando magari ad allearsi con la Lega. Se pure la suggestione fosse forte, sarebbe osteggiata da gran parte dei fedelissimi. L' ultimo scontro risale a ieri. Il «capo» aveva chiesto al gruppo della Camera di chiudere il teatrino sul capogruppo eleggendo Francesco Silvestri. Ma i deputati si sono ribellati all'«imposizione dall' alto» e hanno preso tempo. Tra i pochi a seguire Di Maio sulla linea della rottura sarebbero allora Di Battista e Paragone, da sempre filoleghista, mentre persino Fraccaro e Bonafede hanno preso a rispondere a muso duro alle minacce di crisi di «Luigi». L'unico che può fermare Di Maio, per statuto, è Beppe Grillo. Il quale però non può usare l' arma finale, se non a rischio di far cadere un governo a cui tiene più del capo politico. Così si limita a una moral suasion che, nell' ultimo caso, non ha sortito effetto. Di Maio dopo il colloquio con Grillo non ha cambiato di una virgola il suo atteggiamento. Anzi, forse l'ha indurito. Quanto a Grillo, non sembra disposto a sostenere i rivoltosi e in caso di scissione potrebbe ritirarsi sull'Aventino. Se lunedì l' aria nei gruppi era «irrespirabile», molto lo si deve alla rivalità tra Di Maio e Conte. Lo scontro sul Mes viene spiegato anche in questa chiave. I rapporti tra i due si sono di nuovo interrotti, anche perché Di Maio sospetta che il premier lavori per sottrargli parlamentari in vista di un futuro partito «alla Monti». E dire che fu proprio l'attuale inquilino della Farnesina a infilare il giurista pugliese nella rosa dei papabili ministri, nel mai nato monocolore 5 Stelle. Conte raccontò: «Quando mi hanno telefonato, per onestà intellettuale dissi che non li avevo votati». Eppure il premier è stato sempre considerato uno del M5S. Almeno fino a quando Di Maio ha cominciato a temerlo (e a combatterlo). Le correnti organizzate non hanno mai attecchito nel M5S, ma si possono individuare gruppi di deputati che si muovono all' unisono. Ci sono quelli che fanno riferimento al presidente Roberto Fico e c' è il correntone virtuale dei «morti viventi», come li chiama qualcuno, cioè gli 86 parlamentari al secondo mandato. Tra loro lo stesso Fico e poi Castelli, Di Stefano, Ruocco, Sibilia, Bonafede. Tutti onorevoli che, salvo improbabili ripescaggi al governo, dovrebbero smettere di fare politica. Ecco perché, se Maio decidesse di spingere per una fine prematura della legislatura, potrebbero diventare i nuovi «responsabili» pronti a resistere per salvare il soldato Conte (e loro stessi).

Alessandro Trocino per il ''Corriere della Sera'' l'8 dicembre 2019. Nel mirino dei gruppi parlamentari ci sono due persone e un' associazione. I primi due sono Pietro Dettori e Luigi Di Maio, la terza è l' associazione Rousseau. Nonostante le smentite di prammatica, nessuno mette in dubbio che i 14 capigruppo M5S nelle commissioni abbiano chiesto e ottenuto un incontro con Luigi Di Maio, per martedì mattina, dopo una disastrosa riunione con Dettori, responsabile del blog e consulente del ministro degli Esteri. I 14 capigruppo in commissione, in mancanza di un capogruppo vero della Camera, si sono fatti portavoce. Hanno deciso di interpretare i malumori e le richieste della base. Al principio, si voleva inviare una lettera al capo politico (il famoso «documento», smentito). Poi, dopo aver ottenuto l' incontro, si è deciso di soprassedere. Anche perché tra i 14 ci sono sensibilità diverse. Dissidenti dichiarati, ma anche persone fedeli a Di Maio. Ma tutti sono critici sulle modalità con le quali il capo interpreta il suo ruolo e sulla comunicazione. Chiedono di abbassare i toni, contestano i post virulenti del Blog e le campagne in stile Salvini. Non è un caso che dica cose simili Roberta Lombardi, che in un' intervista a Sky Tg24, da Maria Latella, spiega: «Di Maio sta cercando di mantenere l' identità all' interno del governo. Ma lo fa in una modalità molto muscolare che non condivido». Per la Lombardi, «più che parlare di una fronda, parlerei del fatto che come M5S abbiamo fatto un investimento su questo governo perché volevamo fare cose utili per il Paese. Questo modo continuo di porre distinguo, semplificando, il messaggio politico alla ricerca del titolo, è stancante». Parole condivise da quasi tutti nel gruppo. Mentre resta il dissidio sulle alleanze nelle Regioni. Anche la Lombardi, dopo la Ruocco, si schiera per l' intesa con il Pd e chiede il voto su Rousseau. Reagisce con forza il senatore Gabriele: «È finita l' era dei consoli romani. La signora Lombardi si occupi del Lazio e si allei, se vuole, con Zingaretti». Ma Lombardi insiste anche su Roma: «Raggi? Nessuna deroga al limite del secondo mandato». E se Raffaele Trano smentisce «l' ennesima fake news sul mio conto, mai stato in dissenso con Di Maio», sono molti i parlamentari che contestano anche la gestione di Rousseau. Non è andata giù la faccenda dei 120 mila euro destinati a Italia 5 Stelle e finiti sul conto dell' associazione. Max Bugani si indigna: «Tutte fesserie. Abbiamo fatto tre incontri pubblici per spiegare ai parlamentari. Se non vengono non è colpa nostra». Eppure, come dice un parlamentare, «non chiedi fondi per il mercatino di Natale e poi quello che resta lo giri a Bill Gates, solo perché ha fatto un foglio Excel sul mio pc». Bugani risponde così: «Con quei 120k su Rousseau si sono organizzati eventi, votazioni e le attività di promozione che hanno portato alle elezioni del 2018, quindi all' elezione dei parlamentari». Fatto sta che i parlamentari sono imbufaliti. C' è chi sta pensando di fare causa a Rousseau, per farsi ridare i soldi. Anche perché sono molti quelli che non stanno pagando la quota. E altrettanti quelli che chiedono una modifica delle regole, per non dover più pagare e sganciarsi dall' ombra milanese di Davide Casaleggio.

Beppe Grillo seppellisce il M5s: o diventa partito o muore. Francesco Lo Dico il 19 Dicembre 2019 su Il Riformista. Forse sarà ricordato come il giorno delle ceneri del Movimento, quello che ha riportato Beppe Grillo nella Capitale. Disceso in terra per la seconda volta in pochi giorni, l’Elevato ha camminato in punta di piedi nell’enorme voragine di Roma dove il sogno a Cinque Stelle è precipitato. Non è più il baldanzoso capopolo che un tempo veleggiava nelle piazze portato a spalle sul suo canotto. Beppe lo sa bene. «Il Movimento, un secondo dopo il voto, è già bello che morto». E dunque niente vaffa, niente ceffoni all’imberbe Di Maio, niente più purghe con un post scriptum o anatemi contro i “voltagabbana”. Oggi è il tempo della traversata nel deserto, e Beppe ha deciso di farsi Padre provinciale. «Troncare, sopire». È l’appello del Conte zio, dal quale dipendono le sorti del Movimento, quello che sembra salmodiare il Garante ad ogni passo. Finché c’è premier, c’è Movimento. E dunque troncare. I portavoce che dovevano aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno? Macché, «ce li ritroviamo sotto casa a chiederci un lavoro», dice Beppe. E il limite del doppio mandato, ultimo comandamento delle tavole della legge grillina finite infrante? Ma sì, se ne può parlare. Basta con questa retorica anticasta. La pubblica lapidazione dei traditori passati nella metacampo leghista? «Io non riesco a convincere nessuno, se una persona cambia idea lo può fare», discetta sereno Beppe, con la stessa indolente pacatezza di un Mahatma. Parole che affondano come pugnali nei cuori neri di Di Maio e Di Battista, ancora innamorati della cara vecchia forca contro i traditori. Il tempo delle odi a Trump e Farage è finito. E forse, se Beppe potesse, riavvolgerebbe indietro il nastro dello streaming che lo vide urlare addosso a Pierluigi Bersani, cinque anni fa. «Voi e il Pd avete l’occasione storica di fare bene con questo governo. Sappiate che non vi ricapiterà», è il nuovo salmo che intona Beppe. Basta con questa storia del vecchio Pd, basta con le cianfrusaglie di una propaganda politica che ora è consegnata a quel museo di cose di pessimo gusto che Luigi Di Maio custodisce con la stessa bramosia di Nonna Speranza. E la precrizione? Beppe ci scherza su. «A me serve, me la tengo». Fattosi padre provinciale, Beppe indica la strada. Prende sulle braccia l’infante Luigi. Gli dice bravo, gli dice che può sbagliare, così giovane com’è. Ma mentre ancora scalcia, smanioso di riabbracciare gli amici sovranisti, Beppe conduce il baby leader a forza sulla strada che ha in mente. Un detour progressista, l’unico possibile. Con un occhio alle Sardine, sola igiene del mondo sovranista. L’unico che può salvare il Movimento dai diavoli neri che l’hanno lasciato in terra esangue. Beppe l’ha capito. Se non c’è più il Movimento, può esserci un partito. Hic Rhodus, hic salta.

Da “il Fatto quotidiano” il 19 dicembre 2019. La giravolta, ancorché non inattesa è ardita, ma a Beppe Grillo piacciono le Sardine, nel senso del movimento che in queste settimane riempie le piazze di molte città italiane. Dopo averle magnificate davanti ai gruppi parlamentari 5 Stelle martedì sera, ieri gli ha dedicato un post sul suo blog intitolato “Le sardine sono un movimento igienico-sanitario”. Svolgimento: è “un movimento da tenere d’occhio, non si facciano mettere il cappello sopra da nessuno. È una cosa interessante, un movimento di igiene salutare, igienico-sanitario. Le Sardine non reclamano altro che l’igiene della parola. Reclamano una convalescenza vigorosa dalla attuale malattia delle lingue e delle menti che fa sembrare certe espressioni pubbliche un vociare roco di hooligan pronti al balzo, oppure un minacciare gradasso di un capobanda". Il riferimento del comico è ovviamente a Matteo Salvini, ma il pulpito non è dei migliori da questo punto di vista: “Anche noi in passato abbiamo un po’esagerato –minimizza Grillo –. Ma ora non lo facciamo più. E le nostre esuberanze erano un raffreddore rispetto alla peste che osteggia le sardine”.

Simone Canettieri per “il Messaggero” il 19 dicembre 2019. Una dimissione e un'espulsione. Nel M5S la noia sembra non esistere: nemmeno il tempo di far partire Beppe Grillo da Roma, che subito si aprono due fronti. Quello più importante riguarda la permanenza nel governo del ministro dell'Istruzione Lorenzo Fioramonti pronto a lasciare, come annunciato dal giorno del giuramento in Quirinale, perché in manovra non ci sono 3 miliardi per le sue materie, ma solo 1. Ieri mattina sembrava decisissimo a mollare, tanto che ne avrebbe già parlato da giorni con il premier Conte e con Luigi Di Maio. Ma poi in serata, dopo una moral suasion ai massimi livelli, Fioramonti «si è preso un po' di tempo per decidere», come ha detto a un parlamentare grillino. Per tutta la giornata di ieri è andata in onda una scena surreale: un ministro (Francesco Boccia del Pd) e tanti parlamentari giallorossi hanno chiesto pubblicamente al titolare del Miur «di non mollare». Con il diretto interessato che pubblicamente smentiva qualsiasi passo indietro: «Io dimettermi? Sono qui e sto lavorando». Da Palazzo Chigi e dai vertici del M5S sempre la stessa versione ufficiale: «Se Lorenzo lascia? Dovete chiederlo a lui». Ma dietro le quinte continua un lavoro certosino per convincere il ministro a non farsi da parte. Anche perché una rottura sui fondi per l'istruzione sarebbe un pessimo ritorno d'immagine per Conte e una grana per Di Maio, costretto a indicarne il successore. A questo proposito era circolata l'ipotesi Morra, ma il presidente della commissione Antimafia non sembra interessato al ruolo («Preferisco portare avanti il mio ruolo»). Ma Fioramonti non si è convinto del tutto, ieri in mattinata indicavano la data di lunedì, giorno del voto alle Camera sulla manovra, come la data dell'addio. In serata questo scenario sembrava però non decollare. Il caso rimane, anche perché Fioramonti, racconta chi lo conosce, ha «un approccio anglosassone: se non riesce a centrare un obiettivo, si fa parte», racconta sempre un parlamento. Tra oggi (in Senato c'è il decreto scuola) e lunedì (il voto sulla manovra) il quadro è destinato a essere più chiaro. Così come il destino del senatore dissidente Gianluigi Paragone, a rischio espulsione dal Movimento. D'altronde le regole interne dei grillini parlano chiaro: in caso di voto contrario alla fiducia non ci sono appigli. Si viene accompagnati fuori dal Movimento. Il giornalista si difende («Io sono stato coerente») e provoca: «Se mi cacciano? Gli farò così», dice a un Giorno da pecore mostrando il dito medio. I probiviri gli hanno notificato l'apertura del procedimento a suo carico. Dai vertici del Movimento trapela l'intenzione del «pugno duro». Ma pronto a difendere Paragone c'è Alessandro Di Battista. Durante l'assemblea di Grillo con i parlamentari Dibba e il senatore sono stati avvistati a cena con un gruppo di attivisti. Non solo, a prendere le parti di Paragone ci sono anche gli europarlamentari Ignazio Corrao e Barbara Lezzi. Entrambi dicono che non deve essere espulso «perché promuove i temi che sono nel dna del Movimento». Ora il senatore entro 10 giorni dovrà rispondere ai rilievi dei probiviri. «Faremo rispettare le nostre regole», assicurano dai vertici del Movimento.

A. Cuz. e C.Ve. per “la Repubblica” il 19 dicembre 2019. Nel giorno che sancisce il possibile slittamento della legge sul taglio dei parlamentari tra i deputati e i senatori riuniti al Quirinale, per gli auguri alle alte cariche, è tutto un interrogarsi: questa novità allunga o accorcia la legislatura? Ma all' orizzonte si profilerebbe un' altra incognita, se confermata. Dieci senatori del M5S, guidati da Gianluigi Paragone, sarebbero pronti a staccarsi dal Movimento e a costituire un gruppo autonomo. Un po' come fece Matteo Renzi con Italia viva, a settembre. Resterebbero nella maggioranza, ma pungolandola. Seguirebbero Paragone, che non aveva votato la fiducia al governo giallorosso, e che da allora è di fatto all' opposizione, senatori come Emanuele Dessì, Dino Mininno, Luigi Di Marzio. Una pattuglia che risulterebbe decisiva, perché a quel punto a Palazzo Madama la maggioranza, attualmente a quota 166, dunque di pochi voti sopra la soglia di sicurezza, sarebbe sempre in balia degli scissionisti. La caratteristica che accomuna il gruppo è l' insofferenza per la leadership di Di Maio, al quale viene rimproverato di non tenere in debita considerazione le istanze della minoranza interna. E mentre queste nubi si addensano sul governo al Quirinale la star è Mario Draghi, evocato continuamente come possibile premier di un esecutivo di larghe intese. Mattarella e Draghi si salutano a lungo, con molto calore, dopo la cerimonia. Attorno ministri, parlamentari, grand commis, osservano la scena. Draghi si ferma a colloquio con il governatore di Bankitalia Ignazio Visco e con l' ex premier Mario Monti. La ministra Paola De Micheli dice: «Non si va a votare». E pure il ministro del Sud, Giuseppe Provenzano, allontana l' ipotesi: «Con quale motivazione, poi? Per poter godere di un Parlamento da 945 seggi? Ma sarebbe un boomerang. La gente ci contesterebbe subito». Nel salone c' è anche Valerio Onida, presidente emerito della Consulta: «Andare al voto con le vecchie regole, e poi, mesi dopo ritrovarsi con una legge che dimezza il numero dei parlamentari? Beh, il nuovo Parlamento sarebbe subito delegittimato». Onida ipotizza che il Presidente della Repubblica potrebbe operare una moral suasion, per evitare una simile evenienza, e cercare di formare un' altra maggioranza. Un' ipotesi, quest' ultima, che al momento al Colle appare difficile: dopo i gialloverdi e i giallorossi sembra complicato ipotizzare altre coalizioni. Un tentativo sarà fatto, naturalmente, ma l' ipotesi più accreditata porta al voto. Il sindaco di Milano Giuseppe Sala s' intrattiene a lungo con Mattarella, reduce dai tre e minuti e mezzo di applausi alla prima della Scala. Sala guida una città pacificata, che guarda all' Europa. «Mattarella rappresenta stabilità ed equilibrio, perciò piace così tanto ai milanesi, che chiedono la stessa cosa». I peones sono inquieti. Una vecchia volpe come Manfred Schullian (Svp), uno che conosce gli umori profondi di Montecitorio, sostiene che non si andrà a votare. Anche la sua collega di partito Juliane Unterberger, senatrice, sostiene che quanto accaduto ieri è ininfluente sul destino della legislatura. Luca Pastorino (Leu), invece, dice: «La legislatura si accorcia». «Difficile dirlo», gli fa eco il suo collega Federico Fornaro. Il nuovo gruppo resterebbe nella maggioranza, ma aumentano le tensioni.

Gianluigi Paragone contro Luigi Di Maio a Dritto e Rovescio: "Innamorato del Pd, la colpa è sua". Libero Quotidiano il 20 Dicembre 2019. Nel M5s, l'uomo del momento è Gianluigi Paragone. Al centro di mille voci e retroscena, probabile la sua espulsione dal Movimento. La sua contrarietà è esplosa in modo lampante sul Mes e sulla manovra: contro la linea di Luigi Di Maio e imposta dai vertici con le cinque stellette. Da par suo, il senatore non molla: a dimettersi non ci pensa neanche, semmai deve essere espulso. Ma nel frattempo, stando a radio-Transatlantico e retroscena di stampa, si starebbe preparando: potrebbe dar vita a un gruppo autonomo al Senato con una decina di grillini che sì appoggerebbero il governo e Giuseppe Conte, ma farebbero il bello e il cattivo tempo. Il punto è che senza questa eventuale pattuglia, l'esecutivo giallorosso andrebbe sotto. Insomma, gruppo autonomo, piccolo, ma dal peso specifico pesantissimo. E quale sia lo stato delle cose, Paragone, lo fa capire benissimo nel corso di Dritto e Rovescio, il programma condotto da Paolo Del Debbio su Rete 4. Ospite in collegamento, si discuteva della profonda crisi di consenso che ha investito ormai da tempo il M5s e del fuggi-fuggi di onorevoli pentastellati. "La colpa di chi è, di Di Maio?", domanda Del Debbio. E Paragone, nel rispondere, non si nasconde: "La colpa è in parte anche di Di Maio, che infatti non si è fatto sentire. Andavo bene per fare i comizi elettorali, per andare in piazza, per attaccare l'Europa cattiva - ricorda -. Perché abbiamo fatto tuta la campagna delle politiche contro l'Europa cattiva, che consente lo sfruttamento dei lavoratori a norma di legge, che consente l'evasione fiscale a norma di legge. Quindi certo, è colpa anche sua", sottolinea Paragone facendo capire di essere stato sfruttato e poi accantonato. "Ma non solo - riprende -: a quanto pare c'è questo innamoramento totale verso il Pd e verso l'Europa. Io ovviamente chiedo, su queste vicende, ovvero quelle attinenti all'Europa, di essere coerenti", conclude. E la rottura appare, ora, davvero imminente.

Goffredo De Marchis per “la Repubblica” il 20 dicembre 2019. «Mia moglie dice che non so organizzare neanche una gita. Figuriamoci se posso gestire un gruppo parlamentare. Sono un cane sciolto. All' opposizione, che è uno spazio meta-politico, posso stare anche da solo. Ma ho un mio pensiero. Se qualcuno me lo chiede sono pronto a prestarglielo». La battaglia di Gianluigi Paragone, il ribelle possibile front-man di una pattuglia di dissidenti del Movimento 5 stelle, non finisce qui. Anche se verrà espulso.

«Gli espulsi dovrebbero essere altri. I tre che hanno firmato il referendum contro il taglio dei parlamentari per esempio. Una bandiera del Movimento».

Lo scontento nel gruppo M5S al Senato è certificato. Immaginare che possa trasformarsi in gruppo è tutt' altro che lunare.

«Sono sotto processo per non aver votato la fiducia. Anzi, sotto processino come lo chiamo io, fatto dagli uomini grigi di Momo, il romanzo di Ende in cui alla bambina vogliono togliere i colori e il tempo. E dovrei capeggiare una pattuglia di dieci persone per fare da stampella al governo? Mi sembra assurdo».

La stampella però decide quando salutare la compagnia.

«Io non li vedo dieci senatori pronti a far cadere Conte al mio segnale. Lasciatemi nella mia posizione che secondo i capi è minoritaria, stupida e immatura. Questo dentro il Palazzo. Ma fuori? Una roba verde non puoi dire che è giallo marcio. Noi avevamo scritto nel programma che si poteva anche recedere dall' Euro e oggi facciamo i reggicoda di Bruxelles».

Di Maio ha venduto l'anima per la poltrona?

«Il governo è diventato più importante del Movimento. Ma attenzione: così non reggerà a lungo. C'entra forse che fra coloro che non restituiscono parte dello stipendio ci sono anche ministri, vice e sottosegretari? Loro non li deferiamo ai probiviri? La verità è che stanno distruggendo il Movimento».

Ripeto: chi? Di Maio?

«A me non interessa nulla del leader. Ma se uno ingrassa o dimagrisce non è colpa della bilancia. Se vieni brutto nei selfie non te la prendi con la macchina fotografica. Di Maio non ha più il peso politico di un anno fa. Il ragazzo è deperito, questo è evidente».

Quindi comandano Grillo e Conte.

«Grillo è un leader vero. Non ha bisogno della divisa per essere un generale. E trasferisce la sua leadership su Di Maio continuando a ripetere: il capo è lui. Ma questa conferma insistita dimostra che c'è un problema. È l'Abc del potere».

Grillo ha deciso di stare nel governo, di sostenerlo. Che si fa contro di lui?

«Se cambi il Dna del Movimento devi convincere gli attivisti, non i parlamentari che ti bastano 10 minuti, è una cosa di Palazzo. Ti devi caricare il Movimento sulle spalle, girare l'Italia, andare nelle piazze e dire: siamo cresciuti, non siamo più quelli di una volta. Noi eravamo il simbolo del cambiamento e non lo fai da un giorno all' altro. Sappiamo di non avere una classe dirigente all' altezza ma allora mi chiedo: perché dobbiamo consegnare al solo Salvini la critica all' austerity contenuta nel manifesto dei 32 professori universitari?».

I nomi citati uno per uno dal leader del Carroccio al Senato. Il sospetto che lei sia filo-Lega cresce.

«Quell' appello non doveva finire nella buca delle lettere di Salvini. Era destinato alla casella postale del governo. Lo hanno scritto accademici della Sapienza e di altre grandi università. Sono pericolosi no-euro anche loro? No. Vogliono solo ricordarci che l' Eurozona ha la peggiore performance economica del mondo. Che se non riparte l' inflazione non vai da nessuna parte. Se buttano fuori Gualtieri e ci mettono uno di quei professori voto la fiducia domani».

Sembra proprio destinato a riabbracciare la Lega.

«Sono schizofrenici anche loro. Alcuni sono liberisti altri keynesiani. Criticano il Mes e poi candidano Draghi al Quirinale».

Draghi ha messo miliardi e miliardi nel sistema e cercato a tutti i costi la crescita dell' inflazione. Più keynesiano di così.

«Non sono serviti, hanno solo gonfiato la liquidità parcheggiata nelle banche. Perché la Bce non ha i poteri della Federal Reserve o della banca centrale giapponese. Non è con Draghi che trovo soddisfazione nel mio desiderio di cambiare Bruxelles. Io non lo voterei al Colle nemmeno sotto tortura. Auguri ai leghisti».

Alessandro Di Battista sta dalla sua parte?

«Con Ale siamo amici. Ma non lo butto dentro un dibattito che si è inacidito».

Su Bankitalia però il M5S continua la sua campagna.

«La legge per escludere i pregiudicati dai cda delle banche aspetta solo i decreti attuativi. Nel Mef ci sono viceministri e sottosegretari grillini. Che fanno? Hanno il coraggio di andare fino in fondo o no? Altrimenti è inutile parlare di Bankitalia».

Ha sentito Di Maio?

«No. Se ha voglia di ragionare può chiamarmi lui. Ho qualche consiglio buono. È anche gratis».

Ora i grillini vogliono cacciare Paragone: "Vada via, si dimetta". Il senatore contro Luigi Di Maio: "Gli hanno messo pure i facilitatori. Non ha più il potere del capo politico". Ira del M5S: "Basta provocazioni, lasci il Parlamento". Luca Sablone, Martedì 17/12/2019, su Il Giornale. Caos, caos, caos: nel Movimento 5 Stelle non c'è pace. A dominare ora è la questione Gianluigi Paragone, contro cui si è scatenata una fronda di grillini risentiti dalle dure prese di posizioni contro il mutamento pentastellato. Con la fiducia al maxiemendamento del governo, ieri il Senato ha approvato la manovra economica ma non sono mancate notizie rilevanti: quattro espontenti 5S non hanno partecipato al voto, mentre il giornalista ha votato contro. Ed è stata proprio la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Intanto a Roma è arrivato Beppe Grillo con l'intento di ricompattare l'intero gruppo, che però continua a essere costantemente spaccato. Il comico genovese ha sottolineato: "Io non riesco a convincere nessuno, se una persona cambia idea lo può fare. Non sono qui per rasserenare nessuno, sono qui per conoscere. Tanta gente non l'ho mai vista nè conosciuta".

Ira contro Paragone. Il senatore grillino è finito nuovamente sotto accusa dopo la dura presa di posizione contro Luigi Di Maio nel corso di un'intervista ad Agorà su Rai 3: "Gli hanno messo pure i facilitatori. Non ha più il potere del capo politico". Immediata è stata la reazione da parte di Riccardo Ricciardi che non ha usato giri di parole: "Il senatore Gianluigi Paragone, sin dal post voto delle elezioni europee, si è allontanato dalle posizioni del Movimento 5 Stelle, e si è avvicinato sempre di più a quelle dell'opposizione". A suo giudizio con tali comportamenti si manca di rispetto "agli elettori e ai parlamentari che lavorano per l'esclusivo interesse dei cittadini". E ha riassunto tutte le varie questioni che hanno indispettito l'ambiente giallo: "Continua a provocare: ha votato contro la manovra che ha evitato, tra le altre cose, 23 miliardi di aumento dell'IVA, e da ultimo, è arrivato anche l'attacco al capo politico Luigi Di Maio". Il vicecapogruppo alla Camera infine ha rivolto un duro consiglio: "Perché non si dimette? Sia coerente, almeno per una volta e, come aveva annunciato di fare quest'estate, lasci il Parlamento". Anche Gianluca Ferrara è stato chiaro: "Paragone può andare via se non si trova più bene nel M5S. Chi si dimette va a casa". Ora bisognerà decidere se sanzionarlo per aver votato contro la manovra: "Immagino che i Probiviri agiranno, succederà...". Dello stesso avviso il ministro dello Sviluppo Economico Stefano Patuanelli: "Qualsiasi provvedimento sarà preso dai probiviri, Gianluigi ha sempre espresso opinioni radicali, ma penso sia sbagliato non confermare la fiducia al governo. Non ha votato la fiducia e credo sia automatica la sua espulsione".

M5s, Paragone: "Il Movimento ha tradito un sogno, ma non vado alla Lega: si è innamorata di Draghi". Il senatore ribelle nel mirino dei vertici cinquestelle vede Di Battista e smentisce le voci di un suo passaggio al partito di Salvini. E su Lannutti: "Suo figlio non è un dirigente, non c'è conflitto di interesse". La Repubblica il 18 Dicembre 2019. Gianluigi Paragone, il senatore cinquestelle "ribelle" che ha votato contro la manovra in aula e su cui è stata aperta la procedura dei probiviri, torna a ribadire che non ha intenzione di passare alla Lega. E a Radio Cusano Campus afferma: "A me interessa una cosa: il M5s era diventato membrana contenitiva di una voglia di riscatto, se tu in un anno e mezzo perdi tutti questi voti è perchè hai tradito un sogno. Il Movimento non può pensare di diventare tutto a un tratto un soggetto bello, fighetto. Ieri sera ero a una cena di attivisti (dove sembra fosse presente anche l'ex deputato 5S Alessandro Di Battista, ndr) lì ci sono ancora persone che credono che l'Europa sia cattiva, ingiusta, generatrice di conflitti sociali. Noi lo dicevamo". "Non si può rinnegare quello che dicevamo e che Grillo diceva sull'Europa e sulla sovranità. Se questa manovra restrittiva l'avesse fatta il governo precedente con Tria io non l'avrei votata comunque" spiega il senatore. Sul suo possibile passaggio al Carroccio, Paragone chiarisce: "Spazziamo via qualsiasi voce su questo. Come si può pensare che io possa passare alla Lega quando la Lega si è innamorata di Mario Draghi. Io credo che l'Europa così com'è non va bene. Io sono incazzato come non mai perché vedo che se ne fottono completamente e non mi possono venire a dire che ce l'ho col governo. Io ieri ho votato il decreto fiscale", "pretendo che queste idee diventino programma di governo dato che siamo la prima forza parlamentare. Se qualcuno ha paura si levi". Paragone ha risposto anche a una domanda sul caso Lanutti, il senatore candidato a presiedere la commissione inchiesta sulla banche ma che ha un figlio che lavora nella Popolare di Bari, la banca al centro di un salvataggio da parte dello Stato: "Credo che il figlio di Lannutti sia un dipendente normalissimo, di basso livello- ha affermato paragone- un conto è avere un parente che è negli assetti dirigenziali, un altro è avere uno allo sportello. Se non vorranno avere un cane da guardia come Elio in commissione ce ne faremo una ragione. Se dobbiamo entrare nelle logiche della maggioranza, Italia Viva e Pd hanno già detto che non lo vogliono. Giustamente Salvini dice: facciamo partire questa commissione perchè ce n'è bisogno. Ricordo che i primi gruppi parlamentari che diedero i nomi per la commissione d'inchiesta sono stati M5s e Lega, gli ultimi a dare l'elenco sono stati Pd e Forza Italia". "La Repubblica si batterà sempre in difesa della libertà di informazione, per i suoi lettori e per tutti coloro che hanno a cuore i principi della democrazia e della convivenza civile".

Dagospia il 18 Dicembre 2019. Gianluigi Paragone, senatore del M5S, è intervenuto ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”, condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano. Su Lannutti e la commissione d’inchiesta sulle banche. “Credo che il figlio di Lannutti sia un dipendente normalissimo, di basso livello –ha affermato Paragone-. Un conto è avere un parente che è negli assetti dirigenziali, un altro è avere uno allo sportello. La storia di Lannutti parla da sé, ha scritto libri, la sua storia parla da sola. Se non vorranno avere un cane da guardia come Elio in commissione ce ne faremo una ragione. Se dobbiamo entrare nelle logiche della maggioranza, Italia Viva e PD hanno già detto che non lo vogliono. Giustamente Salvini dice: facciamo partire questa commissione perché ce n’è bisogno. Ricordo che i primi gruppi parlamentari che diedero i nomi per la commissione d’inchiesta sono stati M5S e Lega, gli ultimi a dare l’elenco sono stati PD e Forza Italia. Ci sono delle reti relazionali, se metti in controluce un pezzo del sistema bancario vedi nello sfondo delle reazioni legate anche a partiti politici storici. C’è un sistema di relazioni, può essere anche non illecito, ma assolutamente inopportuno”. Riguardo gli audio dei dirigenti di banca Popolare di Bari. “Si sentono intoccabili, evidentemente si sentono forti dei collegamenti con Bankitalia, nel caso di specie si sono sentiti forti dell’errore di valutazione fatto da Bankitalia su Tercas. A me sembra che ormai quel grande tema popolare del 4 marzo sia di un’epoca lontana. Possono fare tutte le procedure che vogliono, a me non interessa. A me interessa una cosa: Il M5S era diventato membrana contenitiva di una voglia di riscatto, se tu in un anno e mezzo perdi tutti questi voti è perché hai tradito un sogno. Il Movimento non può pensare di diventare tutto un tratto un soggetto bello, fighetto. Ieri sera ero a una cena di attivisti, lì ci sono ancora persone che credono che l’Europa sia cattiva, ingiusta, generatrice di conflitti sociali. Noi lo dicevamo. Io andavo bene quando bisognava salire sul palco e parlare delle ingiustizie dell’Europa. Non puoi pensare però che una volta sceso dal palco io possa appoggiare governi che hanno partecipato alla costruzione di quel sistema europeo. Grillo ha detto: noi dobbiamo restare su questo campo qua. A me non sta sul culo il PD, però non voglio all’Economia un ministro che sia vicino a quel credo neoliberista che ha ispirato l’Europa. Non posso continuare a sentirmi dire, persino sulle bollette della luce, che non si può fare nulla perché non ci sono i soldi. Se ho votato M5S e mi sono candidato è perché non avevo più voglia di sentir dire che non ci sono i soldi. Non si può rinnegare quello che dicevamo e che Grillo diceva sull’Europa e sulla sovranità. Se questa manovra restrittiva l’avesse fatta il governo precedente con Tria io non l’avrei votata comunque”. Sul suo possibile passaggio alla Lega. “Spazziamo via qualsiasi voce su questo. Come si può pensare che io possa passare alla Lega quando la Lega si è innamorata di Mario Draghi. Io credo che l’Europa così com’è non va bene. Io sono incazzato come non mai perché vedo che se ne fottono completamente e non mi possono venire a dire che ce l’ho col governo. Io ieri ho votato il decreto fiscale, continuo a sollevare il tema del nostro rapporto con l’Europa. Io ho una faccia, una reputazione, se gli altri non ce l’hanno sono fatti loro. Pretendo che queste idee diventino programma di governo dato che siamo la prima forza parlamentare. Se qualcuno ha paura si levi, si levi”

(ANSA il 18 Dicembre 2019) - "Hanno voluto costruire un movimento basato sul vaffa. Se vorranno cacciarmi, lancerò loro il mio vaffa e gli aggiungerò anche il dito medio. Poi mi opporrò, questo è sicuro. Non gliela renderò facile, dovranno sudare". Così il parlamentare del M5s Gian Luigi Paragone in un'intervista alla Stampa. In merito all'aver votato contro la legge di bilancio, "è una manovra in cui manca la nostra visione del Paese e non potevo votarla. Dovremmo dare delle risposte a tutti quelli che ci hanno votato, ma non lo stiamo facendo", spiega Paragone. Quanto alle parole pronunciate in tv ad Agorà, che hanno messo in discussione la leadership di Di Maio, "ho detto quello che penso ed è qualcosa che mi sembra ormai evidente. La riorganizzazione sta andando verso una maggiore collegialità nelle decisioni e ora la squadra di facilitatori si allargherà. È solo il primo passo", osserva Paragone. "Di Maio non farà mai un passo indietro. Si appoggerà a un muro di cartongesso e andrà avanti. Ma ogni settimana che passa dovrà affrontare problemi sempre maggiori. Non è più il capo politico con la leadership forte di un anno fa. Quell'epoca è finita".

I grillini “voltagabbana” decretano la fine del Movimento 5 Stelle. Angela Azzaro il 18 Dicembre 2019 su Il Riformista. Non è questione di destra o di sinistra, né di questo o quel giornale. Rispetto agli avvenimenti della vita politica, il giornalismo preferisce all’analisi dei fenomeni la povertà degli schemi. La sardina Mattia Santori ha ragione da vendere: è arrivato il momento di lanciare un grido di allarme e dire basta ai discorsi semplificati. In politica come nel magico mondo dei giornali e delle tv, in cui la politica viene raccontata, descritta, quotidianamente impoverita. A volte assistiamo al paradosso che nello stesso format o nella stessa pagina qualcuno inveisca contro i populisti, contro le banalizzazioni che propongono e che li rende vincenti, e qualcun altro riproponga il luogo comune, ormai quasi maschera della commedia dell’arte, dell’antipolitica che di volta in volta veste i panni del “sono tutti corrotti”, “sono attaccati alla poltrona”, “rubano i soldi”, “ah quelle auto blu”, fino ad arrivare all’ormai quasi mitico “sono dei gran voltagabbana”. I tre esponenti dei Cinque stelle, Ugo Grassi, Stefano Lucidi e Francesco Urraro, che hanno lasciato il movimento per aderire alla Lega, sono il segno di uno smottamento profondo nella vita politica italiana. I grillini nati come terzo polo, nel momento in cui sono andati al governo, hanno perso la capacità di attrazione sia da destra che da sinistra. La velleità di tenere tutti insieme in nome della rabbia è finita e quando si passa dagli slogan alle scelte è impossibile accontentare tutti. È l’inizio di un nuovo bipolarismo? E come si lega questo nuovo bipolarismo con la riconfigurazione del centrodestra e del centrosinistra a cui stiamo assistendo? Interrogativi, ipotesi di ricerca, osservazioni che sbattono contro il muro dell’espressione ricorrente: “voltagabbana”. La scelta di Grassi, Lucidi e Urraro non viene analizzata come il segno di un passaggio nella vita politica italiana, ma viene considerata alla stregua di un atto esclusivamente personale, quasi che i giornalisti fossero pessimi psicologici alle prese con i comportamenti dei singoli da giudicare armati di una buona dose – mai manchi! – di moralismo. Usare un linguaggio più complesso vuol dire anche questo: andare oltre quello che si considera un tornaconto personale, per aiutare a capire quale fase stiamo attraversando. Ma è sempre più difficile. Se Greta diventa “gretina”, se Matteo Renzi e Matteo Salvini, accomunati dal Fatto quotidiano, diventano “bimbiminkia”, se tutti vengono ridotti a macchiette, come è possibile alzare il livello? Ci si può accontentare come fa Marco Travaglio di storpiare i nomi e di usare l’editoriale quotidiano per prendere di mira questo o quello, oppure si può tentare di usare un altro linguaggio, di non riportare tutto agli schemi consunti, di dare spazio alla realtà senza per forza chiuderla nelle proprie certezze. E dire che Mattia Santori lo ha capito e lo ha detto. Ma non è servito. Le prime vittime degli schematismi sono loro, le sardine. Descritte dai giornali non per le novità che rappresentano, ma per quanto sono uguali al passato. Santori diventa un capopolo (La Stampa), un autoritario (Il Fatto), un leader tradizionale quasi per tutti. E a forza di raccontarlo in questo modo, chi legge o ascolta inizia a pensarlo così. Non basta dire che le sardine sono belle, che è bello il popolo che portano in piazza, se poi nella stessa pagina si insultano gli avversari politici. L’allarme contro il populismo non riguarda solo la politica, riguarda anche il mondo dell’informazione. Prima di tutto l’informazione.

Il mantenuto di Stato Nogarin piange: "Guadagno 40mila euro? Sono pochi". Il grillino chiede la guida del porto di Gioia Tauro: «Non campo». Carmelo Caruso, Giovedì 19/12/2019, su Il Giornale. Gli elettori lo hanno fischiato, il governo lo sta stipendiando (40 mila euro l'anno) e si lamenta che non riesce a sopravvivere: «Questa cifra non è sufficiente per campare». La drammatica confessione è di Filippo Nogarin, ex sindaco di Livorno del M5s, candidato all'europarlamento, recuperato dai suoi compagni come consulente, uomo di cui sembrava non ci fosse più nulla da scrivere se non inserirlo nel lungo elenco dei mantenuti di Stato in quota Beppe Grillo. Ci siamo sbagliati. E infatti, Nogarin, che nella precedente vita era ingegnere aerospaziale, ma con la passione per il mare, a cui prometteva di fare ritorno dopo l'esperienza amministrativa, ha rivelato la sua indigenza e le prossime mosse per aggirarla: farsi assegnare un altro incarico. Reduce della sventurata campagna europea (eccellente trombato) a cui ha voluto partecipare dopo la sua dimenticabile esperienza da sindaco (è riuscito a sostituire un assessore dopo appena 48 ore dall'insediamento), Nogarin è stato assunto come collaboratore del ministro per i Rapporti con il Parlamento, Federico D'Incà, e percepisce 40 mila euro l'anno. È una somma che farebbe sorridere qualsiasi italiano, ma che oggi fa piangere qualunque grillino. Conversando con Il Secolo XIX, Nogarin ha parlato delle ristrettezze che è costretto a praticare in virtù del suo stipendio: «Mi pago vitto, alloggio e trasporti: questa cifra non sarebbe sufficiente per campare perché alla fine si tratta di poco più di mille euro al mese e con una famiglia di cinque persone. Avevo uno studio che si è completamente desertificato in 5 anni di mandato. Se dovessi campare solo di questo non farei una gran vita». E non a caso non vuole più farla. In silenzio ha dunque presentato la sua candidatura per guidare uno dei più grandi scali marittimi del Mediterraneo, il cuore degli scambi tra Occidente e Oriente: il porto di Gioia Tauro. Da tutti gli esperti del settore considerato tra i più complessi da gestire con i suoi due milioni e trecentomila terminal movimentati, 1225 navi attraccate, Nogarin dovrebbe amministrarlo non si capisce per quali competenze maturate. «Dopo aver gestito un Comune si può fare di tutto» si è difeso lui che da sindaco è celebre per l'operazione La città cambia: copia incollava le buche riparate di Roma e le spacciava come buche riparate di Livorno. Siamo insomma oltre quota Danilo Toninelli. E pure i calabresi non lo vogliono. Per il governatore Mario Olivero «con incredibile disinvoltura, Nogarin confida di ambire a guidare il porto di Gioia Tauro per intascare l'indennità e risolvere i problemi finanziari della sua famiglia». L'esperienza lo ha però fatto cambiare. Da sindaco aveva subito annunciato il taglio del suo stipendio. Si chiedeva: «Come può un cittadino che deve fare le leggi vivere con uno stipendio che è l'intero anno di guadagno di un operaio?». È sulla buona strada. Manca poco e chiederà anche l'auto blu.

Orizzonti sovranisti. Luigi Di Maio, l'arte dello stallo e i 320 parlamentari arroccati nella scatola di tonno. Sondaggi a precipizio, base sparita. I Cinque stelle ormai si trovano solo a palazzo: bravissimi a bloccare, smontare, dilazionare. Governati dal terrore. Tentati da Salvini. Tenuti insieme dal sommo principio: la poltrona. Susanna Turco il 10 dicembre 2019 su L'Espresso. «E allora veniteci a contare». Alle 17 e 17 di lunedì 2 dicembre, assiso al suo posto nell’Aula del Senato e sprezzante del pericolo come al solito, il grillino Alberto Airola risponde a petto in avanti al collega Matteo Salvini, leader della Lega, che proprio in quel momento al microfono ha urlato che «mancano sessanta parlamentari della maggioranza». M5S (ma anche Pd, Italia Viva, Leu) assenti nella fondamentale informativa del premier Giuseppe Conte sulla riforma del Meccanismo europeo di stabilità (Mes). Veniteci a contare, dice coraggioso Airola. Peccato che il senatore piemontese - trasfigurato dal Palazzo, sembra ormai un cugino di Gianni Cuperlo - risalti come una anomalia sui velluti color corallo delle poltrone senatoriali: è infatti l’unico a essere seduto in quell’angolo di Aula, circondato dal vuoto dei posti assegnati agli altri Cinque Stelle. Contarli, in ogni caso, non sarebbe una buona idea. Il deserto, fuori dal Palazzo, è persino maggiore. Sterminato. C’è infatti un singolare paradosso in atto ormai da oltre un anno: nati nelle piazze, i grillini hanno perso la base, soprattutto in alcune zone sono diventati tutti eletti, o comunque classe dirigente. Insomma, stanno ormai solo in Parlamento. Intenti - dalla riforma del Mef al futuro dell’Ilva, dal numero dei parlamentari al blocco della prescrizione - a fare e disfare, rimandare, dilazionare, paralizzare, oppure tagliare, far saltare, smontare. Come delle Penelopi o dei troll della democrazia. Con uno stile interdittivo che sembra finalizzato al caos ma che comunque ormai viene gestito là dentro. Nella scatoletta di tonno dove i grillini dicevano di voler entrare per buttare fuori tutti gli altri, e dove invece hanno finito per asserragliarsi loro. Per tanti motivi. Perché 86 parlamentari su 320 sono alla seconda legislatura, i cosiddetti «morti viventi», e quindi se si sciolgono le Camere per la regola grillina non potrebbero più tornare. Perché i sondaggi dicono che i voti per i Cinque Stelle sono dimezzati (e dunque lo sarebbero anche i parlamentari). Perché, alla fine, a tutto ci si affeziona, a tutto si fa l’abitudine, e dunque nel pieno di una delle sedute cruciali della legislatura ecco Paola Taverna che conversa amabile con l’ex ministra Roberta Pinotti, ormai alleata di maggioranza; ecco la pr genovese Elena Botto che si fa recapitare dai commessi una busta bianca con la grande «S» di «Senato», dalla quale estrae allegra il tablet con caricatore che aveva lasciato chissà dove; ecco l’avellinese Ugo Grassi, docente di diritto, che pare l’unica faccia gradita a Conte, ma ugualmente per tutto il tempo non lo guarda e compulsa carte; ecco Gianmauro Dell’Olio, commercialista di Bari, che segue l’intero dibattito tenendosi ficcati nelle orecchie gli auricolari bianchi con jack inserito al computer portatile (forse la traduzione? Un corso d’inglese? Mistero). E così avanti, con rari picchi d’entusiasmo partecipativo, i parlamentari Cinque Stelle. Duecentosedici alla Camera e centoquattro al Senato, per un totale di 320: come ai tempi d’oro in cui presero il 34 per cento (marzo 2018, politiche), ma avendo ormai collezionato da allora una sequela terrificante di sconfitte. E percentuali da brivido. A partire già dal 2018 e per tutto il 2019: 7 per cento in Friuli, 10,4 in Val d’Aosta, 19,7 in Abruzzo, 9,7 in Sardegna (dove pure avevano sfiorato il 40 per cento solo 10 mesi prima), 13,6 in Piemonte, 7,4 in Umbria – l’ultimo tracollo, in attesa di Calabria ed Emilia-Romagna. Compreso il 17 per cento delle Europee di maggio, in pratica, nell’ultimo anno e mezzo i Cinque Stelle hanno sfondato il 20 due sole volte: in Basilicata col 20,3 per cento nel marzo 2019 (contro il 44 per cento alle politiche dell’anno prima) e in Molise, nel peraltro ormai lontanissimo aprile 2018 (31,6 per cento). Questa innegabile rovina rende efficacissimo il metodo applicato da Federico D’Incà, oggi ministro dei Rapporti col Parlamento, per tenere in ordine le demotivate truppe grilline che ormai trovano complicato persino eleggere un capogruppo (impresa ad esempio negli ultimi tre mesi impossibile, alla Camera). Un metodo che, sulla scorta dell’andreottiano «governare con la crisi», si potrebbe ribattezzare così: «governare col terrore». Come gustosamente raccontato dal Foglio, infatti, a fronte di problemi con l’alleato Pd, D’Incà è solito inchiodare così, a quattro a quattro, i perplessi, i riottosi, gli indecisi, gli scettici. Sventolando i sondaggi: «In che collegio siete stati eletti? Di voi quattro, se andassimo a votare, forse ne tornerebbe qui uno solo». In media, e considerate anche le ultime rilevazioni ufficiali sulle intenzioni di voto, i Cinque Stelle sono oggi sul 17 per cento. La metà del marzo 2018. Dunque il ragionamento risulta assai persuasivo. E tutti filano dritti. Camminando a filo del baratro. Vale persino per il capo politico, Luigi Di Maio, che - lo dicono anche i muri - minaccia variamente la crisi, ma farà di tutto per non realizzarla. Non subito, non volontariamente. Al momento infatti le sirene di Matteo Salvini sono un richiamo troppo forte per le truppe grilline: facendo i conti sulla situazione attuale, il capo leghista, che oggi ha circa 180 parlamentari, potrebbe garantire la rielezione non solo agli uscenti, ma anche a 100-150 transfughi. E infatti il ministro degli Esteri, che alla Farnesina (dicono dalla Farnesina) non c’è mai, si sta già riallineando, anche grazie al «fratello» Alessandro Di Battista, su una posizione sovranista e più appetibile per il vasto elettorato salviniano - lasciando a Conte (e Casalino) il ruolo pseudo-montiano di amico del Pd, considerato mortifero. La sua posizione non è davvero in forse neanche alla guida politica del Movimento, come dimostra l’aver egli osato citare in un suo post Gianroberto Casaleggio, divinità laica dei Cinque Stelle: «Se cita il padre, significa che è d’accordo col figlio», è l’esegesi degli esperti. Mancano, del resto, alternative credibili all’interno del Movimento: persino il non entusiasta Beppe Grillo definisce tutti i suoi possibili oppositori dei «rompiscatole», sostanzialmente inutili. Mancano anche competitor esterni: i finora deludenti risultati dell’alleanza col Pd non rafforzano certo l’altro possibile successore, Giuseppe Conte - con sommo scorno del suo più forte puntello, Rocco Casalino. Si continuerà dunque così per un altro po’. Il dibattito animato da una successione di problemi apparentemente irrisolvibili, le liste, l’attesa per il voto di Emilia-Romagna e Calabria, l’ennesimo schianto. E dentro il Movimento, la costruzione dell’emozionante cabina di regia con la scelta dei famosi 12 «facilitatori». Una spassosa invenzione, equivalente politico dei navigator del reddito di cittadinanza: figure chiamate a realizzare l’impossibile. Semplificare e fluidificare i meccanismi grillini sembra in effetti più difficile che trovare lavoro ai disoccupati. (Giusto per dire cosa è delle riforme grilline: stando agli ultimi dati Anpal, hanno trovato un posto 18 mila persone su circa 700 mila percettori del reddito, cioè il 2,5 per cento del totale). In mezzo a questi successi, resta ancora un punto interrogativo sugli effetti del taglio dei parlamentari, approvato definitivamente a metà ottobre. Anche nel caso in cui non ci fossero le firme per indire il referendum, infatti, la legge entrerà in vigore il 12 gennaio, ma potrà essere applicata solo sessanta giorni dopo, cioè a partire dal 12 marzo (vanno ridisegnati i collegi elettorali). Dunque le Camere non potranno essere sciolte prima di quella data. Sempre che si voglia votare con le nuove regole e rinunciando a 345 parlamentari, sia chiaro.

(ANSA il 12 dicembre 2019) - Il senatore Cinque Stelle Ugo Grassi ha formalizzato oggi l'addio al Movimento aderendo al gruppo della Lega. E' quanto fa sapere una nota del partito di Matteo Salvini. "Diamo il benvenuto al senatore Grassi. Porte aperte per chi, con coerenza, competenza e serietà, ha idee positive per l'Italia e non è succube del Pd. Su riforma ed efficienza della giustizia e rilancio delle università italiane, col senatore Grassi lavoreremo bene". Così il leader della Lega Matteo Salvini annunciando il passaggio, formalizzato oggi, del senatore Ugo Grassi dal M5s alla Lega. "Se ci sono senatori come Grassi, che è appena passato alla Lega, evitino di utilizzare una cosa non vera come il Mes: consegnino una bella lettera al presidente del Senato e dicano semplicemente che vogliono cambiare casacca e tradire il mandato che i cittadini gli hanno dato. Non c'è nulla di male. Ma vadano a casa, altrimenti a quella lettera alleghino anche un listino prezzi sul mercato delle vacche". Così Luigi Di Maio in un video su Fb.

Proprio lui...Ugo Grassi, candidato MoVimento 5 Stelle al Senato, sul blog ufficiale ilblogdellestelle.it, 23 febbraio 2018, a due settimane dal voto. "È noto che il M5S ha chiesto ad i suoi candidati di sottoscrivere una clausola anti “floor crossing” (in italiano: clausola anti defezione). Il tema è più complesso di quanto credono quei commentatori a digiuno di storia delle Costituzioni e prima di prendere per i fondelli il Movimento sarebbe bene studiare un po’ (studiare fa sempre bene; se i nostri avversari lo facessero, sarebbero un po’ più competenti ed il dialogo democratico ne trarrebbe giovamento). Com’è noto l’art. 67 cost. dispone che “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato.” Il mio Maestro, autore dei libri sui quali mi sono formato, fu tra i primi, se non il primo, a sostenere la diretta applicazione della Costituzione ai rapporti privatistici. La clausola penale prevista dal Movimento, in caso di cambio di gruppo parlamentare, è un accordo privatistico. Sì che proprio la dottrina sulla quale mi sono formato potrebbe fornire la strumentazione teorica per far concludere ad un lettore superficiale che la clausola prevista dal M5S è nulla per diretta violazione dell’art. 67 cost. Per coloro che amano i tecnicismi: si dovrebbe dire che la clausola è nulla in forza del combinato disposto tra l’art. 1418 c.c. e l’art. 67 della Costituzione. La conclusione sarebbe tuttavia affrettata e la questione, molto più complessa, banalizzata. Sempre il mio Maestro ci ammoniva nel senso della necessaria lettura sistematica delle norme: nessuna disposizione è una monade, ognuna fa parte di un sistema e soltanto guardando al sistema nel suo complesso può comprendersi il vero significato della norma. È in questa prospettiva che va analizzata la questione della validità del mandato imperativo. Quest’ultimo è definito quale limite alla rappresentatività dell’eletto, il quale, nell’assemblea legislativa, ha il potere di assumere decisioni solo nell’interesse del gruppo di cittadini che lo ha votato. Tale limite va tuttavia coordinato con la nozione di partito politico, sì che il mandato imperativo può avere diverse gradazioni di rigidità: può imporre al singolo eletto di votare in ubbidienza della volontà del partito il quale a sua volta è limitato a rappresentare solo la classe sociale che lo ha eletto; oppure il mandato imperativo può lasciare libertà di scelta al singolo con esclusione, però, del potere di disattendere, del tutto, le macro scelte politiche alla base della sua elezione sino a poter passare al gruppo avversario. Il mandato imperativo, agli albori della nascita delle moderne democrazie, apparve subito come incompatibile con il funzionamento della democrazia stessa: se l’eletto è vincolato agli interessi del gruppo sociale che lo ha eletto egli non può esercitare quella mediazione tra opposti interessi che è il vero fulcro della democrazia e che permette alle assemblee legislative di giungere alla migliore soluzione possibile nell’interesse della nazione tutta. L’intralcio di un simile limite apparve evidente quando, durante la rivoluzione francese, il Terzo stato degli Stati Generali (esso rappresentava solo il ceto popolare, con esclusione del clero e dell’aristocrazia) si autoproclamò “Assemblea Nazionale” cioè Camera legislativa di tutta la nazione francese. Nessuno degli eletti poteva considerarsi portatore degli interessi del solo terzo stato e dunque nessuno degli eletti poteva considerare il suo mandato limitato nelle decisioni da assumere. Com’è stato esattamente osservato, il principio del divieto di mandato imperativo ha un valore in funzione del confronto democratico tra le varie forze politiche organizzate in partiti. Da qui la dottrina costituzionalistica ha osservato che il principio di cui al nostro art. 67 cost. non è altro che una descrizione simbolica del rapporto tra l’eletto ed il partito. In altri termini: il divieto di mandato imperativo deve coniugarsi con una leale tutela delle posizioni politiche del proprio gruppo di riferimento (da intendersi sia quale partito sia quale porzione della società). E qui arriviamo al nodo: il divieto di mandato imperativo reca con sé il principio di lealtà verso le idee politiche difese in campagna elettorale ed in forza delle quali si è stati votati. Il civilista, qual io sono, non ha difficoltà a ricordare che qualunque contratto deve essere eseguito secondo correttezza e buona fede. Dunque il principio di cui all’art. 67 cost. ha un suo interno limite: quello della lealtà verso l’elettore. Per comprendere se i limiti interni alla libertà di mandato siano essenziali al funzionamento di quella stessa democrazia che della libertà di mandato si nutre, torna assai utile leggere qualche passo della sentenza con cui la Corte Costituzionale sudafricana affrontò il tema. All’epoca l’African National Congress era il partito di assoluta maggioranza e con pratiche di floor-crossing poteva impedire agli altri partiti di dar vita ad un vero dibattito democratico. In pratica le clausole antidefezione previste dalla legislazione erano ritenute valide in un momento di emergenza democratica giacché servivano a rendere palese quell’implicito principio di lealtà che ho sopra menzionato. “Le parti hanno sostenuto che nelle condizioni prevalenti in Sudafrica la clausola anti defezione fosse una previsione essenziale per promuovere la democrazia. Questo avviene perché noi siamo una democrazia nuova e fragile nella quale il partito di governo controlla quasi i due terzi dei seggi dell’assemblea e ciò comporta che il partito di maggioranza abbia capacità di attrarre i membri di altri partiti offrendo loro incentivi. Si sostiene quindi che se vieni ammessa la defezione è molto probabile che venga indebolita la posizione dei piccoli partiti e dunque la democrazia stessa.” (Constitutional Court of South Africa, case CCT 23/02, october 4, 2002). Può apparire sorprendente ma la situazione attuale italiana è forse anche più grave di quanto si possa immaginare. Com’è noto, l’attuale legge elettorale contiene le stesse ragioni di illegittimità costituzionale della legge precedente. La dottrina costituzionalistica da sempre sostiene che la reiterazione di leggi già dichiarate incostituzionali costituisce un atto di rottura del patto costituzionale; cioè si tratta di eventi eversivi. La realtà drammatica, dunque, è che in questo momento tutte le forze partitiche tradizionali hanno dato vita ad un tradimento costituzionale che ha condotto il paese in uno condizione di sospensione della democrazia. Detto in modo brutale: in Italia si è instaurata una forma di dittatura silenziosa. Questo blocco unitario di potere (non richiede dimostrazione il fatto che le forze politiche di destra e di sinistra costituiscono in realtà un partito unico al potere) ha quella forza attrattiva e corruttiva attribuita dalla Corte Costituzionale sudafricana all’ANC. In un simile frangente, dunque, esplicitare il contenuto di lealtà e correttezza connaturato alla libertà di mandato di cui all’art. 67 cost. non è una violazione dell’articolo stesso, bensì una riconferma di esso, anche e soprattutto in ragione del valore fondante dell’art. 1 che ci ricorda che la sovranità appartiene al popolo. Non sarei allora così sicuro che la clausola anti defezione prevista dal nostro regolamento possa un giorno essere considerata nulla. Non posso prevedere quale sarebbe l’esito finale di un procedimento (di certo lungo) chiamato a giudicare la validità della nostra clausola interna. Per ora quel che è certo è che i nostri avversari studiano poco?

M5s, parte la gogna contro i parlamentari passati alla lega. Redazione de Il Riformista il 14 Dicembre 2019. Come da tradizione stellata, i parlamentari grillini sono i migliori di tutti finché fedeli alla linea del capo. Salvo trasformarsi in cinici profittatori assetati di prebende e denari, se decidono di lasciare il partito. Prassi consolidata che da Pizzarotti, a Nugnes e De Falco, non smentisce mai se stessa, all’insegna di accuse che si ripetono stanche a ogni “tradimento”. Dunque sotto a chi tocca. Stavolta è il braccio destro di Luigi Di Maio, Dario De Falco, a procedere alla character assassination di Ugo Grassi e Francesco Urraro, transitati nella Lega, e di Stefano Lucidi. «Vi racconto chi sono i traditori», è la premessa che apre il post su Facebook. Poi la gogna. Di Ugo Grassi scrive: «Vi basti sapere che l’ho incontrato a luglio dello scorso anno perché era critico sulle restituzioni di parte dello stipendio. era agitatissimo e in quella circostanza piangendo mi disse che “così non si riusciva a campare”. Gli risposi “vai a dirlo a chi non lavora o a chi si fa il mazzo per 12 ore al giorno a 700/800 euro al mese!”». In sintesi? Era un avido. Poi è il turno di Urraro. «Mi ha raccontato – dice De Falco – che il suo problema politico fosse l’entrata in vigore della nuova legge sull’interruzione dei termini di prescrizione. Ci aveva ripensato, non era più d’accordo e l’ho invitato ad incontrarci l’indomani per discutere del tema anche con il Ministro Bonafede, ma qualche minuto dopo esserci salutati ho capito che quello era solo un pretesto». Sintesi: bugiardo, e anche un po’ sciacallo. Infine la terza coltellata a Stefano Lucidi, «arrabbiatissimo, perché quando Luigi Di Maio è stato in Umbria, la sua regione, non ha scattato neppure un selfie con lui e con questo un parlamentare dimostra di non contare un caxxo!».

Intervista. «I grillini hanno soffocato il cambiamento e oggi sono peggio di quelli che criticavano». M5S, Salvini, le sardine, e la storia di una speranza tradita. Dalla piazza maggiore del V-day a quella di oggi, Giovanni Favia racconta dieci anni di parabola finita in un «vuoto politico spaventoso» e in un «grosso danno culturale». Susanna Turco il 22 novembre 2019 su L'Espresso. Dalla piazza del V-Day a quella delle Sardine. Dalla destra berlusconiana del Pdl («Pd-meno-elle») a quella no-immigrati di Matteo Salvini. Primo pupillo di Beppe Grillo, primo eletto in una città importante, Giovanni Favia è il testimone per eccellenza di questo decennio. Organizzò il debutto dei grillini in Piazza Maggiore nel 2007, è stato il pupillo originario di Beppe Grillo (quando Luigi Di Maio era il referente di Portici e Alessandro Di Battista votava Veltroni), il primo consigliere comunale dei Cinque stelle in una città capoluogo, poi anche in Regione. Era il predestinato, il prototipo del grillino prima maniera, alla fine divenne il primo espulso. Adesso che l’elezione regionale in Emilia Romagna si fa affare nazionale, e Bologna torna nell’occhio del ciclone con le Sardine in piazza, il Pd di Zingaretti che arranca in mezzi rinnovamenti e la Lega che si prende addirittura il PalaDozza, l’ex prototipo del grillino prima maniera - nel frattempo divenuto imprenditore con otto tra locali e ristoranti - a 38 anni guarda la politica con un occhio non disinteressato, e vede un «vuoto politico enorme, impressionante: un buco nero», tra il M5s «che è morto» e il Pd che «nemmeno lui» si sente tanto bene («per eccesso di forza, almeno qui, è diventato inerte»).

Salvini finirà per espugnare la regione più rossa d’Italia?

«Sono andato al PalaDozza, a vedere l’apertura della campagna elettorale leghista. Da osservatore, per curiosità. Ma non ho visto questa ondata pazzesca. Ho visto un po’ di ceto medio, ho visto quanto funziona lui, Salvini. Ma se vuoi fare il miracolo, strappare una regione come questa, in cui il Pd è strutturato, radicato nonostante tutto, e ha portatori di preferenze molto forti, devi avere un candidato fortissimo. Capace di parlare non tanto al tuo elettorato, ma agli altri, agli indecisi. Capace di suscitare speranza, accendere la fiamma. La candidata governatrice Lucia Borgonzoni cosa è di tutto ciò? Il suo antagonista, Stefano Bonaccini, alla fine, è un uomo fortunato».

Nel decennio scorso, Bologna ha tenuto a battesimo i primi passi dei Cinque stelle. È tutt’ora all'avanguardia?

«Casaleggio aveva capito tutto, quando decise di fare qui il V-Day, nel 2007: era il posto giusto. Perché è la città dove, contando la dimensione, c’è più avanguardia in assoluto in Italia. È la meno conformista, come vivacità culturale. È un serbatoio forte, guarda alle diversità, ha le antenne. Ed è stata tutto. Un laboratorio. Una città dove si cambia in fretta. È stata papalina, ghibellina, è stata nera – molto fascista, cosa che si dimentica – e poi è stata super rossa. C’è stata la resistenza più forte, partita dalle montagne. E poi è stata grillina».

E adesso cosa è?

«Adesso è orfana. O forse è finita, come tante città sta diventando una non-città. Divorata prima dai city users, poi dal turismo».

Dopo essere stata grillina non può essere «sardina»?

«Bologna sardina c’è sempre stata, è legata alla presenza degli studenti, al vasto mondo della sinistra. È una città però da sardine, questo sì. Ci sta che quattro ragazzi lancino qualcosa e ci troviamo in sedicimila sul Crescentone: è Bologna. Però questa roba qui ci sarà sempre, come nel 2005 quando occuparono, c’ero anche io, l’università col Dragone cinese».

È andato a piazza Maggiore a vedere le Sardine?

«L’ultima volta, in piazza, ci sono stato per sentire Tsipras. Ora che ci andavo a fare? Conosco quelli che erano là. Tutti belli, contenti, inconsapevolmente a sostegno del potere costituito - il Pd. È bene che si vada in piazza per affermare valori generici ma condivisibili. Ma politica non è dire: “Siamo contro odio, intolleranza e discriminazione”. Cioè vai in piazza per i lavoratori dell’Ilva? Il precariato? Macché. C’è l’antisalvinismo, non altro. Come il popolo Viola: a che è servito?».

Rimpiange il V-Day?

«Quella piazza sì che segnava un cambiamento politico. Era una folla che si metteva nelle mani di un comico, parlava alla sinistra e diceva: noi andiamo con lui, non seguiamo più voi. Un cambiamento fortissimo. Anche troppo violento, visto con gli occhi di oggi. Grillo era eversivo: non fosse che era una farsa, perché lui era un rivoluzionario in pantofole».

I Cinque stelle rastrellarono i voti a sinistra e adesso li lasciano alla destra di Salvini?

«Il problema vero è quello che M5S ha portato nella cultura collettiva italiana, che dopo il loro passaggio si è aggiornata in negativo. Un danno culturale e politico che è stato grosso: hanno avuto un impatto molto forte, anche per come - si guardi al taglio dei costi della politica, diventato nel frattempo un taglio ai costi della democrazia - sono stati seguiti dagli altri partiti. Anche se loro nel frattempo si sono accartocciati».

Dice il ministro M5S Vincenzo Spadafora che molti obiettivi sono raggiunti: reddito di cittadinanza, taglio dei parlamentari, spazza-corrrotti, lotta alla casta.

Sembra l'elenco degli obiettivi stagionali di un club di calcio: coppa Europa, quarto posto...Ma è politica, lo sguardo dovrebbe essere a 360 gradi: il valore è più quello che rappresenti culturalmente, ed è lì che hanno fallito. Non si tratta di riuscire a portare due leggi a casa. Anche perché l’Italia non è che cambia perché c’è lo spazza corrotti. Erano rivoluzionari, adesso si sono incassati le leggi che servono per fare i meme».

E quando hanno smesso di fare la rivoluzione?

«Il movimento era nato su politiche legate alla gestione del territorio - era quella la nostra forza - tant’è che eravamo assenti al livello nazionale, non avevamo posizioni per esempio sulle politiche del lavoro, o migratorie. Il peccato originale è stato voler fare il salto, senza elaborare un percorso condiviso. Il programma del 2013 è stato un programma di marketing, scritto in una notte, in venti punti, da Casaleggio e Grillo. E lì è partita la crepa che ha portato alla crisi politica del M5S di oggi, e al fatto di essere stati vampirizzati da Salvini. Un partito incerto, che voleva portare a casa solo adesivi da attaccare, ma senza una visione complessiva, e soprattutto che farfugliava ambiguamente sul tema oggi più grosso che è quello dell’immigrazione. Era scontato finisse male».

E perché si decise quel salto?

«È accaduto quando si è rotto il contratto tra Italia dei Valori e la Casaleggio. Fino a quel punto, il partito di Di Pietro copriva la politica nazionale e regionale, la rete dei meet up quella locale. E Grillo diceva che non saremmo mai presentati alle elezioni. Poi c’è stata la divaricazione da Di Pietro. E al Teatro Smeraldo di Milano, quando si è fondato il Movimento, la linea politica si è capovolta. Da un giorno all’altro Grillo ha detto: ho cambiato idea, candidiamoci. Un congresso senza congresso, che ha segnato l’inizio della fine».

Quel giorno proprio lei fu citato come il futuro.

«Era tutto diverso da come sembrava. Lavoravamo a gratis per l’Italia dei valori. Ci prendevano in giro. Questa è la verità, che non avrei voluto scoprire mai. Casaleggio ci avvicinava a Di Pietro in mille modi: era l’unico politico con cui era tenero. Ci buttava sempre in mezzo alle cose Idv, alle loro manifestazioni. Talvolta il blog lo condivideva. Il movimento fu palese quando Di Pietro candidò alle europee Sonia Alfano e Luigi de Magistris, che erano i candidati nostri. Idv prese l’otto per cento: fu Casaleggio che gli diede quei voti. Noi non volevamo mica».

Beh avevate in comune più di qualcosa.

«Eravamo giustizialisti, l’unica cosa di cui sono pentito».

Perché?

«Ho visto le cose da dentro. Avevo molta fiducia. Il combinato disposto pm-giornalisti sembrava una cosa da eroi, e invece non lo era: l’ho capito nel tempo. Adesso non prendo più per oro le veline dei magistrati. E, a livello umano, penso che non sia giusto utilizzare politicamente i guai giudiziari dei singoli. Anche perché l’onestà non è un punto di programma. È una condizione pre-politica. E l’animo umano è insondabile».

Quando è che nei Cinque stelle l’onestà è diventata un punto del programma politico?

«C’è sempre stata. Chiedere una politica pulita, bla bla bla: giustissimo. Però quando si è alzata la pressione del marketing, tutto ha perso di senso. L’onestà con l’acca davanti».

Honestà Honestà. Quando è accaduto?

«Duemilatredici, sempre là. Ro-do-tà Ro do tà . Erano quei tempi lì, dei tà-tà-tà».

Che effetto fa, rivisto adesso?

«Mi fa senso. Perché poi cosa diventano? Peggio. Di solito, i moralizzatori, quando si fanno classe dirigente, diventano peggio della classe dirigente precedente. Perché è invidia, di base. Prendi la Taverna: “Oh io non sono politico, diceva”. E alla fine si è laureata in Scienze politiche. La vedi oggi tutta agghindata. Cioè: voleva diventare come loro. È questo».

E lei non voleva diventare come loro?

«No. Io ero il prototipo del perfetto grillino prima maniera. Io al massimo mi sono tagliato i capelli quando ho fatto il candidato sindaco. E anche adesso, che ho i ristoranti, giro con la Panda a metano. Questi vanno in giro con l’occhialino di Armani o il botulino. Sono quello che dicevano di combattere. Ma hanno avuto strategie vincenti. Hanno usato la loro capacità di fare audience, con le tv, per far diventare i mezzi di comunicazione i loro house organ. L’agenzia di marketing che si è fatta partito. È una comunicazione nuova. Alla fine, i grandi movimenti di massa che hanno incantato i popoli hanno sempre utilizzato un momento di cambiamento tecnologico che non era stato compreso dai loro competitor. La radio e la filodiffusione, Berlusconi con la tv. Adesso i socialmedia. È stata la loro arma, l’hanno saputa usare. Ma hanno lasciato il cambiamento appeso a metà».

In che senso?

«Nel senso che hanno soffocato ogni possibilità di cambiamento. Sono entrati in gioco nel momento giusto. La crisi politica, la crisi economica. Gli italiani erano pronti . Ma loro hanno occupato lo spazio del cambiamento abusivamente: perché era gattopardesco, era invidia sociale appunto. Solo che i tanti che si sono avvicinati a loro, lo hanno fatto pensando: è l’ultima volta. Ebbene, costoro hanno preso una fregatura tale che non torneranno chissà per quanto ad occuparsi di politica. E senza una base, una partecipazione, come si fa?».

Non è che invece si rifugiano nella destra?

«Alle classi medio-basse la sinistra ha smesso di dare risposte. Il Pd è diventato il partito del libero mercato, immigrazionista, lgbt: non parla alle fasce deboli, a chi vive di più il disagio sociale. Sembra fuori dal mondo. I Cinque stelle si erano infilati in quel vuoto, ma eravamo riusciti ad agganciare la gente sull’emozione, non con dei veri, solidi, argomenti. Adesso è Salvini a farlo, a dare risposte - a modo suo. Rudi, insufficienti: almeno alla gente fa capire che si preoccupa».

In piazza funziona come Grillo?

«È efficace, funziona, non fa innamorare: c’è gente che non lo stima e lo vota. Grillo incantava la folla. Era davvero una roba spaventosa, quando si buttava col canotto sulla gente. Sembrava il Papa. E i Cinque stelle erano veramente eversivi. Ero contrario al governo giallo-verde, ma considero una fortuna M5S si siano alleati con la Lega, che li ha fermati».

Non crede che Salvini sia ancora peggio?

«Molti lo pensano, io no. Salvini è bravo, non ha una comunicazione imbattibile. La Lega sta nel sistema politico da tantissimo tempo. Rappresenta un ceto produttivo, governa. Certo, adesso è arrivato Salvini che ha questi toni da tribuno: ma è truce, non eversivo. È il risultato di un malessere, non una causa. I Cinque stelle, da soli, sarebbero arrivati a fare le stesse sue politiche. Ma da partito unico, senza alleati. Con quel mix di nazionalismo e tematiche sociali che avevano costruito. E allora sì che sarebbe stata una situazione pericolosa. Ma Salvini li ha fermati. Per fortuna. Il problema è che hanno creato un buco nero nella politica, e quel vuoto non l’ha occupato nessuno. È sparita la più grossa massa elettorale delle politiche, ed è ancora orfana. È crollata la partecipazione».

Ci sarebbero le sardine...

«Il problema è che non possono avere rappresentanza politica, visto che Pd e 5S sono i responsabili dell’ascesa di Salvini. I grillini delusi voteranno qualcosa alla fine. Ma il problema è di cosa si innamoreranno. Per ora di nessuno. Per ora».

«Grillo tolga il simbolo, così  si chiude una fase». I mille focolai del Movimento che fanno vacillare Di Maio. Pubblicato venerdì, 08 novembre 2019 da Corriere.it. «Beppe Grillo dovrebbe toglierci il simbolo, in modo da chiudere una fase e far rinascere qualcosa di nuovo». «Mi chiede se i gruppi rimarranno compatti? Onestamente non so dirlo». A parlare sono due big del Movimento: voci distinte, unite da un pensiero comune: il futuro incerto dei Cinque Stelle. Anche i governisti evocano scenari fino a poco tempo fa improbabili: «Di Maio sta chiedendo solo unità e compattezza: se il gruppo si sfalda Luigi è pronto a mandare tutti a casa». Eppure i malpancisti — che hanno obiettivi e motivazioni differenti, ma una voglia condivisa di cambi ai vertici — iniziano a essere diffusi a macchia d’olio in tutta la penisola, dalla Sicilia al Lombardo-Veneto. Proprio l’isola è la culla dei focolai più accesi. C’è chi come il senatore catanese Mario Michele Giarrusso (che a febbraio aveva mimato le manette in Aula ai colleghi dem) ha mal digerito il cambio di governo e alcuni passaggi politici di Di Maio. Il deputato filo giallorosso Giorgio Trizzino, invece, è l’autore di un documento per riformare il Movimento separando la leadership da ruoli di governo e ha dalla sua venti-trenta parlamentari. Un volto storico come l’eurodeputato Ignazio Corrao, invece, si è sentito non appoggiato nella volata per le Europee (Di Maio impose delle capilista) e ha criticato spesso le scelte (e i risultati) del capo politico. Discorso analogo per Laura Ferrara, calabrese. E proprio dalla punta dello Stivale arrivano altri fronti. Nicola Morra ha convocato una riunione dei parlamentari che è stata letta da molti come una sfida al ministro degli Esteri, ma che — assicurano persone vicino al senatore calabrese — «voleva essere un luogo di progetto, incontro e discussione». Anche Dalila Nesci, che si è proposta come candidata governatrice M5S per le prossime Regionali, e che è pronta a chiamare in causa anche Grillo pur di correre. In realtà, il Movimento è diviso, dilaniato anche al suo interno a partire dalla base per arrivare fino al Parlamento (sintomatica è l’impasse per la scelta del capogruppo a Montecitorio). E le elezioni in Calabria ed Emilia-Romagna rischiano di diventare la miccia in grado di far deflagrare i Cinque Stelle. I parlamentari non sono concordi e si attaccano tra loro, i vertici — visti i sondaggi che stimano il M5S sotto il risultato umbro — sembrano più orientati a una pausa, ma una decisione non è stata presa. Ci saranno nuovi incontri, ma prende quota l’idea di una consultazione su Rousseau per sgombrare il campo da dubbi. Altro tema spinoso è ovviamente Ilva. In Puglia il malessere verso la gestione dei Cinque Stelle è incarnato da Barbara Lezzi, ex ministro, molto critica con Di Maio ed esponenti a lui vicini come Vincenzo Spadafora. Sulla stessa linea anche Gianluigi Paragone (che sembra essersi riavvicinato a Di Maio dopo il caso Umbria). E tra chi punge il leader non mancano gli ortodossi come il campano Luigi Gallo. Ma non sono solo i parlamentari o gli eurodeputati le spine nel fianco. Ci sono anche i territori, anche se con modi e obiettivi diversi. Nel Lazio Roberta Lombardi è sul piede di guerra da anni. Ora freme anche il Nord. I consiglieri regionali, il lombardo Dario Violi e il veneto Jacopo Berti (che è anche uno dei probiviri), hanno lamentato uno scollamento dalle esigenze del Lombardo-Veneto. Non un atto di accusa al leader, stavolta, ma la richiesta di un cambio di passo. E anche il fedelissimo Stefano Buffagni da tempo è chiuso in un eloquente silenzio.

Paolo Becchi, lo strano intreccio tra M5s e magistratura: "Pazzesco, cosa gli hanno concesso di fare". Paolo Becchi su Libero Quotidiano il 22 Ottobre 2019. Sta sfuggendo alle cronache politiche il significato dell' ordinanza cautelare del collegio del Tribunale di Roma che, pronunciandosi sul ricorso promosso da Gregorio De Falco avverso il provvedimento di espulsione dal MoVimento 5 Stelle, lo ha rigettato, ritenendo rilevante - ai fini della rescissione del rapporto associativo - il vincolo di mandato introdotto dal codice etico attualmente vigente. Per meglio capire la portata dell' ordinanza, che se confermata in sede di merito renderà inutile il procedimento di revisione costituzionale dell' art.67 (quello che esclude il vincolo di mandato), occorre fare un passo indietro. Il 31 dicembre 2018 il collegio dei probiviri del partito di Grillo ha espulso Gregorio De Falco contestandogli due condotte: 1) l' aver votato, in Commissione lavori pubblici, a favore dell' emendamento che eliminava in radice la possibilità di applicazione del condono del 1985 agli abusi edilizi commessi ad Ischia tra il 1990 e il 2003; 2) il non aver votato la fiducia in sede di conversione del decreto Sicurezza. Il Senatore De Falco avrebbe violato, secondo il provvedimento disciplinare, due clausole del codice etico: quella che impone al parlamentare di uniformarsi a quanto preventivamente votato a maggioranza dal gruppo parlamentare per decidere su argomenti attinenti la linea dell' esecutivo, e quella - definita un vero e proprio vincolo di mandato dallo stesso Di Maio - che impone di votare la fiducia ai governi in cui il premier sia espressione del M5S. De Falco ha impugnato il provvedimento di espulsione.

IL PARADOSSO. Orbene, il Tribunale nel rigettare la richiesta di sospensione cautelare, glissando sul rilievo che l' espulsione per violazione vincolo di mandato comporta in automatico l' applicabilità della sanzione pecuniaria di 150mila euro e l' obbligo di dimissione da parlamentare (sul punto non si è espressa, ritenendo che all' attualità la sanzione pecuniaria non è stata escussa ed è pertanto da ritenersi rinunciata), ha, per la prima volta nella giurisprudenza, ritenuto che la violazione di una norma nulla sia produttiva di effetti giuridici, e cioè che essa legittimi lo scioglimento di un contratto associativo. Mi spiego. La nullità della clausola che impone il voto di fiducia è palese: la funzione parlamentare (in cui è ricompreso il voto di fiducia previsto dall' art. 94 Cost) è considerata dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione come funzione indisponibile esercitata nell' interesse della Nazione, tant' è che l' attività del parlamentare è equiparata a quella di un pubblico ufficiale. Come l'esercizio delle funzioni di un pubblico ufficiale non può costituire oggetto di un accordo tra privati, tantomeno in forma coercitiva, così le prerogative parlamentari, essendo per definizione indisponibili, non possono costituire oggetto di regolamentazione negoziale tra privati. Per utilizzare un' iperbole, è come se si ritenesse rilevante la violazione di un obbligo in cui una delle due parti private ha assunto l'impegno di cedere a terzi la propria libertà sessuale o un organo del proprio corpo. La clausola privatistica che ha per oggetto l' apposizione di un vincolo a una funzione pubblica indisponibile è giuridicamente nulla perché contraria all' interesse pubblico tutelato dalla norma costituzionale ed essendo nulla la norma la sua violazione non può produrre effetti né avere qualsivoglia rilevanza.

GLI EFFETTI. In sintesi: come non si può rescindere un contratto per la violazione di una norma nulla, così non si può essere espulsi da un' associazione per la violazione di una norma affetta da nullità. Il Tribunale di Roma giustificando la rescissione di un vincolo giuridico sulla base di una norma nulla sovverte basilari principi di diritto che sono pacificamente ritenuti incontrovertibili dalla giurisprudenza di legittimità. È significativo che il MoVimento 5 Stelle non abbia sbandierato pubblicamente questa "vittoria" giudiziaria, preferendo incassare in silenzio la "portata storica" di un' ordinanza che non solo ritiene valido un accordo privatistico che abbia ad oggetto una funzione pubblica indisponibile (abrogando ipso facto l' art. 67 della Costituzione e il principio di incoercibilità della norma nulla), ma ritiene altresì d' inciampo il requisito democratico della preventiva votazione assembleare del gruppo parlamentare per stabilire la posizione da adottare in merito alla richiesta della fiducia da parte del governo. L' ordinanza riduce così il ruolo del parlamentare, senza neanche la necessità di una riforma costituzionale, a quello di un impiegato del settore privato pigiabottoni, punibile con sanzione pecuniaria laddove violi una norma giuridicamente nulla. Pazzesco! Paolo Becchi

S. Can. per il Messaggero il 30 ottobre 2019. «Irrevocabili». Manuela Sangiorgi, ha 20 giorni per ripensarci, e per ritirare le sue dimissioni: se lei lascia, il M5S non riconquisterà mai più Imola.

«E chi se ne importa. Il M5S è morto quando morì Casaleggio».

Ma siete andati al governo.

«Loro. Quando Di Maio era ministro dello Sviluppo economico gli chiesi una mano per Mercatone Uno».

E lui?

«Non mi ha mai risposto».

Ma c' è anche Beppe Grillo.

«Una sera è stato in città e non mi ha nemmeno cercata».

Ma possibile che oggi (ieri ndr) si sia dimessa per queste cose?

«Scusi, ma non ce la faccio più».

All' improvviso Sangiorgi, 46 anni di cui 15 passati al patronato della Uil, scoppia in un pianto liberatorio.

«Hanno detto, i miei consiglieri, che avrei valorizzato il casale di mia madre. Un giorno sì e l' altro pure presentavano la sfiducia contro di me. Qui c' è un pezzo di M5S che va a braccetto con il Pd».

Ormai il mood è questo.

«Ma io liberai Imola, quindici mesi fa. Ho combattuto da sola. Anzi, con il mio portavoce scriveremo un libro».

E chi lo comprerà, scusi?

«Chi vuole conoscere questo mondo. Sono esausta, meglio disoccupata che sindaca grillina. Mi ero dimessa dalla Uil. Pensavo di durare, ma per 2.600 euro al mese non ne vale la pena».

Dicono che dietro le sue dimissioni ci sia il suo fidanzamento con un leghista.

Voce spezzata, ancora lacrime.

«I grillini sono come le SS!».

Non pianga, guardi al futuro.

«In primavera mi sposerò con il mio Simone».

E alle Regionali voterà Lega?

«Credo di sì, ci sto pensando. Anzi, se fossi in Bonaccini non starei tranquillo».

Sangiorgi: «Imola foresta  di pugnali. I 5 Stelle?  Erano all’opposizione». Pubblicato giovedì, 31 ottobre 2019 da Corriere.it. Si riposerà, dice, dopo lo stress di questi giorni, senza ambizioni politiche e da disoccupata. Manuela Sangiorgi, sindaca M5S di Imola dimessasi mercoledì, si difende dai sospetti che possa votare o candidarsi con la Lega alle Regionali in Emilia-Romagna. «Nessun contatto con il Carroccio», è la smentita. Scartata anche l’ipotesi di una lista civica a sostegno del centrodestra. Ieri Massimo Bugani, volto storico dei Cinque Stelle a Bologna e ora capostaff in Campidoglio a Roma, ha respinto l’accusa di Sangiorgi di non essere stata sostenuta dai Cinque Stelle. «Eri commissariata, è vero», ha fatto sapere lui via Facebook, «ma non da me, bensì dalla Lega. Sa tutta Imola che ogni tua scelta passava dal consigliere leghista Carapia e non dai ragazzi del M5S». Simone Carapia è il compagno di Sangiorgi, si sposeranno, ma l’ex sindaca esclude sovrapposizioni tra vita pubblica e vita privata. Il vero motivo del suo addio sarebbe la difficile convivenza in Comune con sei tra i 14 consiglieri del Movimento. «Non hanno voluto riconoscere il mio ruolo», dice ora Sangiorgi, «io sono una persona concertativa, disponibile, che sa mediare, ma loro mi facevano opposizione». L’ex sindaca, in passato responsabile del patronato Uil di Imola, ha spiegato che ormai«entrare in Comune era come entrare nella foresta dei pugnali volanti». Era entrata in Consiglio nel 2013 ed eletta prima cittadina nel giugno 2018 dopo 73 anni di dominio della sinistra. Ma aveva dovuto gestire vari avvicendamenti tra gli assessori, con una maggioranza che via via si è sgretolata. Il colpo finale però è arrivato con la formazione a livello nazionale del governo M5S-Pd. «Credevo negli ideali anticasta dei Cinque Stelle», ha detto, «invece c’è stato un chiaro trasformismo. Mi sono dimessa per non essere in mano al Pd». L’ex sindaca attribuisce non solo a Bugani ma anche a Luigi Di Maio e Beppe Grillo la responsabilità di averla abbandonata a se stessa. «Il M5S non esiste più, è morto quando è morto Gianroberto Casaleggio». Per la città romagnola ci sarà un commissario. I dem hanno intanto aperto alla possibilità di un prossimo candidato sindaco da decidere con il M5S. Freddi però i Cinque Stelle: «Voto su Rousseau».

Espulsioni e dimissioni, perché i sindaci sono il tallone d’Achille del M5S. Pubblicato mercoledì, 30 ottobre 2019 da Corriere.it. Un gigante d’argilla che ha il suo punto debole proprio nella base. Il Movimento nato dai meet up e collegato dalla Rete, che per anni ha sostenuto la fase post-ideologica tra destra e sinistra, continua a cadere a livello locale. Contrasti interni, difficoltà di progettazione, assenza di gruppi: più che a Roma i problemi di un Movimento “fluido” sono da cercare nei territori. Una difficoltà che si riscontra nella gestione dei Comuni, dove i Cinque Stelle hanno problemi sia a presentare liste - nel 2019 hanno corso in poco più di 300 enti su oltre 3800 -, sia ad amministrare quelli in cui si impongono. Il caso di Imola (il quarto Comune per importanza che il M5S governa su 46 in tutta Italia) con le dimissioni della sindaca Manuela Sangiorgi è solo l’ultimo di una lunga serie. «Quando venivo in Comune era come entrare nella foresta dei pugnali volanti. Da una parte il M5s ha suscitato voglia di mettersi in gioco, ma dall’altra non è vero che tutti possono fare politica, non c’è contezza della macchina amministrativa», ha dichiarato Sangiorgi spiegando il suo strappo. Solo quattro mesi fa, a giugno, un altro primo cittadino pentastellato, Roberto Falcone, ha lasciato la guida di Venaria Reale, in Piemonte, dopo una serie di contrasti interni (Falcone ha anche ipotizzato l’espulsione di alcuni consiglieri poco prima del suo passo indietro). In passato aveva messo sul tavolo le dimissioni (salvo poi ritirarle) anche Rosa Capuozzo, all’epoca sindaca M5S di Quarto finita al centro di una inchiesta e scaricata dai vertici. Espulsa. Come Marco Fabbri, uno dei primi sindaci pentastellati, sindaco di Comacchio allontanato dal Movimento nell’ottobre di 5 anni fa per aver corso alle elezioni provinciali (come hanno fatto poi altri primi cittadini, a partire da Virginia Raggi). Fabbri si è poi ricandidato nel 2017, vincendo. Come lui anche Federico Pizzarotti, il volto dei sindaci ex M5S forse più conosciuto e discusso. Il successo a Parma, Stalingrado grillina del 2012, la querelle con Grillo e Casaleggio, lo strappo con i vertici, la sospensione e il suo passo d’addio: una storia lunga oltre quattro anni, che si è conclusa nell’ottobre 2016. Pochi mesi prima, il 30 dicembre 2015 era stato cacciato il sindaco di Gela, Domenico Messinese, salvo come Capuozzo rimanere alla guida del comune. Storia lievemente diversa a Bagheria. Qui il sindaco Patrizio Cinque, dopo essere stato rinviato a giudizio, si è autosospeso pur rimanendo in carica. Il Movimento alle ultime amministrative perde, lui in estate viene ripescato come consulente del gruppo M5s all’assemblea regionale. Molti sindaci, dopo aver fatto il primo mandato hanno preferito lasciare. È il caso di Filippo Nogarin a Livorno (che si è candidato alle Europee ma non è stato eletto), Federico Piccitto a Ragusa, il veneto Alvise Maniero (ora deputato) a Mira, Mario Puddu ad Assemini, in provincia di Cagliari. Solo nel comune sardo il Movimento, però, è stato riconfermato dagli elettori. E solo Roberto Castiglion, sindaco di Sarego e primo sindaco della storia politica pentastellata, è al suo secondo mandato come primo cittadino. Un excursus che mostra tutte le fragilità - a prescindere dai casi spesso contestati di Roma e Torino – del Movimento in chiave amministrativa e spiega perché alcuni big stiano insistendo per rifondare i Cinque Stelle proprio dalle radici.

Ilario Lombardo per “la Stampa” il 31 ottobre 2019. Beppe Grillo potrebbe togliere con uno sbadiglio il M5S dalle mani di Luigi Di Maio. Basterebbe un post, una telefonata, una dichiarazione. E stava per farlo. L' estate scorsa, poco prima che Matteo Salvini sabotasse il governo gialloverde. C' è un episodio che spiega come la distanza tra il creatore-garante del M5S e il capo politico, scelto in una gara senza avversari, si sia scavata nel tempo anche se è emersa solo ora di fronte alla scelta di allearsi con il Pd. Com' è noto, Grillo lo vuole, Di Maio no. Una domenica di giugno, Davide Casaleggio va a Genova, nella villa del comico. Il M5S è in subbuglio. La caduta alle Europee di fine maggio fa male. Il cellulare continua a squillare, i parlamentari che hanno un rapporto da tempo con Grillo evocano il suo intervento, non ne possono più dello strapotere di Di Maio, della scollatura tra le Camere e il ministro. Anche Grillo è sconfortato. Confessa di aver plasmato il M5s su altre idee, smarrite tra compromessi di governo e l' eterno inseguimento di Salvini. «Si parla solo di migranti, dove sono le nostre cose?». L' ambiente, la repubblica fondata sulle start-up che sogna in giro per il mondo. Le differenze tra lui e Di Maio sono radicali, da sempre. Nel caos, Grillo si sente di nuovo strattonato. Il M5s, orfano del suo bastone, non cammina sulle proprie gambe: zoppica. Il comico è brutalmente sincero: «Lo sai, io mi sono rotto i co...». Vuole concentrarsi sugli show, il blog, i viaggi. Non vuole tornare di nuovo nella bolgia romana. E così a Casaleggio jr, quel giorno, fa una proposta: «Perché non ti metti tu alla guida del M5S?». Davide è spiazzato, ma non ha bisogno di pensarci: «Beppe lo sai che il mio sogno è di aprire un diving alle Maldive». Questa del centro immersioni - sua passione - è la risposta che, chi lo conosce, dà ogni volta che si sente stufo di tutto: la società e il Movimento ereditati dal papà, l' Associazione Rousseau, i parlamentari con le loro lamentele. L' episodio è stato raccontato a La Stampa da una fonte vicina a Casaleggio, confermato da un' altra nel M5s ed è noto a Palazzo Chigi. In questi giorni è tornato a circolare tra alcuni parlamentari sotto forma di indiscrezione. Casaleggio si trova in una situazione particolare. Osteggiato da molti eletti, che gli contestano l' investitura dinastica e il versamento di 300 euro mensili per Rousseau, è punto di riferimento per altri, che lo cercano lamentandosi proprio di Di Maio. Lui ascolta e abbozza ma non fa nulla. Perché c' è un patto con Di Maio dal giorno in cui i loro nomi sono stati scolpiti come soci fondatori nell' atto di nascita della nuova associazione M5s: Casaleggio non si sente tagliato per la politica ed è sempre sorpreso quando la stampa o i partiti gli attribuiscono un potere decisionale su linea e programmi che in realtà non ha. Il suo compito è occuparsi di software, soldi e comunicazione, al capo politico tocca governare il M5s e il Paese. L' imprenditore ha un coinvolgimento più diretto nel destino di Di Maio. Ne parlano con Grillo. Dal ministro dipendono gli uomini dello staff, tutti provenienti dalla Casaleggio: Cristina Belotti, e i due soci di Rousseau Pietro Dettori e Max Bugani (quest' ultimo romperà con Di Maio in piena estate e resta tra i più critici verso il leader). Tra luglio e i primi di agosto, all' alba della crisi, Grillo riceve tante chiamate da Roma. La situazione con la Lega sta sfuggendo di mano. E lui non ha mai fatto mistero di mal sopportare la narrazione leghista nella quale è stato risucchiato il M5s. È fulmineo quando si presenta l' occasione di un accordo con il Pd e incenerisce Di Maio, che appena dieci giorni prima aveva giurato: «Mai con il partito di Bibbiano». L'asse con Giuseppe Conte è conseguente. Il comico vede in lui il perno di un progetto che si sta delineando: contaminarsi con il Pd, sciogliere il M5S in un' area progressista con il cuore verde. Un bastione contro l' avanzata della destra sovranista. A fine agosto si rivolge ai giovani Dem, due settimane fa dal palco di Napoli battezza quel progetto: «Siamo noi a dare la narrazione al Pd e a tanti giovani. È meraviglioso». E lancia, a Di Maio, un avvertimento su Conte: «Decidiamo se vogliamo buttare bucce di banana sul suo cammino o affiancarlo».

SCISSIONE A CINQUESTELLE.  Ilario Lombardo per “la Stampa”il 9 ottobre 2019. Due cene. Una di dodici dissidenti, ormai con un piede fuori dal M5S. Un'altra, della fronda di tredici, tra arrabbiati e insoddisfatti di ogni tipo, che pensano ancora di poter agire dall' interno per svuotare il potere di Luigi Di Maio e liberarsi dalla camicia di forza delle regole della Casaleggio Associati e della sua piattaforma Rousseau. Ieri avrebbe dovuto prendere forma il primo bocciolo del futuro gruppo dei fuoriusciti del M5S, a ridosso tra l'altro della festa a Napoli che quest' anno celebrerà i 10 anni di vita della creatura di Beppe Grillo. La legge che riduce i parlamentari e restringe la rappresentanza per solo alcune regioni, doveva essere l'occasione della ribalta. Non è stato così fino in fondo. In undici soltanto si sono assentati. Altri, che pure assicurano di essere determinati ad andare fino in fondo e a voler lasciare il M5S, non hanno trovato il coraggio necessario, spaventati dal contraccolpo mediatico che si sarebbe scatenato dietro le urla dei colleghi. Molto ha pesato anche l'avvertimento fatto trapelare in mattinata da Luigi Di Maio, tramite i suoi uomini in Parlamento: «Chi è contro la legge si assuma le proprie responsabilità». Ne parleranno stasera a cena, dodici dissidenti, pronti alla scissione che dovrà concretizzarsi nelle prossime settimane. Una cena in una casa privata di Roma, dove si ritroveranno anche alcuni tra coloro che ieri hanno abbandonato l'Aula. Contemporaneamente il deputato Giorgio Trizzino, riunirà «un gruppo di amici» in un ristorante al centro di Roma per capire come organizzare le prossime mosse per mantenere la rivolta nel perimetro interno del Movimento. Gli uomini vicini a Di Maio in queste ore fanno circolare una considerazione: «Per una scissione ci vuole un leader». La storia insegna che non è sempre così. Ma comunque un leader potrebbe anche spuntare presto. L' idea della scissione non nasce oggi ma a luglio. E da allora ne è informato anche Federico Pizzarotti, ex grillino, sindaco di Parma riconfermato senza il simbolo del M5S e animatore di Italia in Comune che a fine novembre andrà a congresso. In queste ore si è tenuto in contatto con Roma, per capire quanto questa volta siano concrete le opportunità di una frattura organizzata nel Movimento. Gli hanno assicurato che almeno una quindicina di persone sono pronte all' addio. A Pizzarotti non sfugge che per partire serve un gruppo autonomo, con venti deputati e finanziamenti propri. A quel punto potrebbe diventare attrattivo e giocarsi le sue chance di sopravvivenza su diversi tavoli. Come virtuale partito di Giuseppe Conte, piantato nello spazio politico di centro in competizione con Matteo Renzi e capace di attrarre anche fuori dall' area della maggioranza, e agganciare Italia in Comune e tutte quella rete di amministratori che nell' area di centro sinistra vogliono valorizzare i territori. Anche per questo motivo la legge sul taglio dei parlamentari rappresentava un'ottima occasione di lancio. Perché le principali lamentele sono arrivati da sardi, abruzzesi e altri che hanno visto evaporare la rappresentanza della propria regione a favore del Trentino, terra del sottosegretario Riccardo Fraccaro, padre della legge. Il lavoro che faticosamente stanno portando avanti i registi di questa duplice fronda è iniziato in estate, quando cioè l'insoddisfazione aveva radici nella difficile convivenza con Matteo Salvini. Il governo è cambiato. Ma le dinamiche decisionali dentro il M5s restano le stesse. Ieri, in mattinata, il ministro dei rapporti con il Parlamento, Federico D'Incà ha avuto un'incrinatura nelle proprie certezze: «Io credo che la riforma passerà. Nel caso in cui non ci fosse un esito favorevole oggi ne prenderemo le dovute conseguenze. Per quel che mi riguarda dovremo assolutamente fare una riflessione interna». D'Incà è sempre stato un grillino sensibile ai tormenti di chi nel M5S comincia a non sentirsi più a proprio agio. Sa quello che sta avvenendo. Ecco perché «una riflessione interna» va fatta, prima che sia troppo tardi.  

Roberto Bordi per Il Giornale il 9 ottobre 2019. Italia 5 Stelle, la kermesse grillina in programma il 12 e 13 ottobre a Napoli, parte con il piede sbagliato. Infatti, nonostante i post entusiastici pubblicati nelle ultime ore sul blog ufficiale del Movimento, già si registrano le prime defezioni. Assenze di peso, in primis quella dell'ex ministro Giulia Grillo, che proprio oggi ha accusato Luigi Di Maio di non averle mai dato ascolto durante la sua esperienza da responsabile del dicastero della Salute. Grillo non ci sarà. Come lei altri due big pentastellati: Barbara Lezzi e Gianluigi Paragone. Lezzi, dopo avere attaccato su Facebook di Maio sulla questione della candidatura in Calabria di Dalila Nesci, ha confermato ad Adnkronos che non sarà alla festa del decennale del Movimento. "Non ne ho proprio voglia. Non è dissenso il mio, ma assenza di entusiasmo". Ancora più duro Paragone, feroce critico del patto tra M5S e Pd: "Cosa vado a dire a Napoli che sono contrario su tutto? Abbiamo fatto un governo col Pd, cosa posso raccontare io a Italia 5 Stelle? È ovvio che me ne starò a casa mia". Oltre a Lezzi e Paragone, a dare forfait è anche - per motivi personali - Alessandro Di Battista. Insomma, saranno parecchi i big del partito a mancare alla storica kermesse grillina. Infatti, sono passati già 10 anni dalla fondazione, ad opera di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, del Movimento 5 Stelle. Dal 2009 ad oggi, non sono mancati dissapori e fratture, anche dolorose. Come quella che nel 2016 portò all'espulsione del sindaco di Parma, Federico Pizzarotti. Ma i problemi non mancano neppure oggi. Perché dalla nascita del governo giallo-rosso, dentro al Movimento è cresciuto il fronte dei malpancisti rispetto all'alleanza con il Pd. Tanto che dietro l'angolo ci sono una o più scissioni. Una trentina i deputati pentastellati pronti ad andarsene. E con loro una fetta del popolo che nel 2018 votò a valanga il partito anti-casta, passato nel giro di pochi mesi dal 32% delle Politiche al 18% di oggi.

Il M5S compie 10 anni tra mutazioni, sfide e venti di scissione. Rocco Vazzana il 4 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Il 4 ottobre 2009 Grillo annunciava il suo partito. Oggi I nemici di Di Maio propongono un ritorno alle origini, aggiornando la “carta di Firenze”, un modo per dire stop alle alleanze. Dieci candeline. Sono quelle che oggi potrà spegnere il Movimento 5 Stelle sulla propria torta di compleanno. Un’occasione per guardarsi alle spalle e fare un bilancio di questo primo tratto di strada, tra tabù abbattuti, volti dimenticati e guerre fratricide ancora da affrontare. È passato parecchio tempo da quel 4 ottobre 2009, quando, in un teatro Smeraldo di Milano senza neanche più un posto in piedi, Beppe Grillo annuncia la nascita del suo partito. A godersi lo spettacolo dal palchetto d’onore ci sono Adriano Celentano, Claudia Mori e un Luigi de Magistris appena eletto parlamentare europeo con l’Italia dei valori. A scrivere la “sceneggiatura” dello show è Gianroberto Casaleggio. A Palazzo Chigi, da poco più di un anno, siede un Silvio Berlusconi al suo quarto tentativo di governo. Alfano alla Giustizia, Maroni all’Interno, Tremonti all’Economia e Gelmini all’Istruzione. È in questo contesto che muove i primi passi una nuova creatura politica già testata nelle piazze dei V- Day. Ambiente, Parlamento pulito, beni comuni e rifiuti zero. Sono queste le chiavi del successo che portano Grillo a bruciare le tappe del consenso popolare nel giro di pochissimi anni. Il 4 ottobre, giorno di nascita del santo “poverello” di Assisi, è in se il programma politico più efficace di un movimento fondato sul dogma della semplicità, della massaia scrupolosa perfetta per gestire il Tesoro. Obiettivo dichiarato: entrare in tutti i Comuni e le Regioni chiamate al voto da lì a poco. In realtà le “Liste Civiche” a 5 stelle sono già una realtà da qualche mese, hanno già eletto il primo consigliere comunale in un capoluogo importante come Bologna: Giovanni Favia, volto vincente del primo grillismo, e primo espulso eccellente della storia pentastellata. Linea programmatica definita per tutti i Comuni italiani è la “Carta di Firenze”, sottoscritta nel marzo dello stesso anno. Dodici punti – dall’acqua pubblica al verde urbano, passando per i trasporti e le fonti rinnovabili – da adattare a ogni contesto elettorale. È il primo “testo sacro” grillino, lo stesso a cui oggi un manipolo di dissidenti dichiara di volersi ispirare. Da ieri notte, infatti, è possibile consultare on line una versione aggiornata di quella Carta, un testo a cui i nemici interni di Di Maio hanno fatto un tagliando proprio per mettere in discussione i poteri troppo accentuati del capo politico. «Siamo attivisti e portavoce che credono nei valori fondativi del MoVimento 5 Stelle e li proteggono con passione», scrivono i ribelli, capitanati dal consigliere regionale del Lazio Davide Barillari. «Siamo in tanti a volere un M5S unito e coerente, senza scissioni o correnti: “cittadini attivi” che guardano al futuro del Mo-Vimento 5 Stelle che hanno contribuito a creare e far crescere». A incattivire i dissidenti è «l’accordo con il nostro nemico storico, il Partito Democratico», che «si sta estendendo anche nelle Regioni ( Umbria, Emilia e Calabria) e nei Comuni…. con effetti molto preoccupanti e deleteri per noi», scrive su Facebook Barillari, invocando un nuovo «Rinascimento a 5 Stelle», coerente con quello annunciato da Grillo dieci anni fa. Certo, il 4 ottobre del 2019 i due fondatori non considerano nemmeno la possibilità di correnti e fronde all’interno del M5S, dove uno vale uno ma alla fine decidono in due. Rousseau non è ancora nemmeno un progetto, le discussioni, i contributi e gli scontri si consumano sui meet- up, forum territoriali di confronto politico, facilmente indirizzabili dall’alto ma molto meno addomesticabili. Eppure, quando qualcuno esce dal seminato basta un “post scriptum” in fondo a un qualsiasi comunicato pubblicato sul post di Grillo per espellere senza troppe cortesie l’eretico di turno. Le contraddizioni non impediscono però al comico genovese di riempire le piazze e le urne. Nel 2012 il Movimento conquista Parma con Federico Pizzarotti ( poi espulso), nel 2014 tocca a Livorno con Filippo Nogarin, prima di piantare la bandiera pentastellata, nel 2016, a Roma e Torino. Nel frattempo il 25,5 per cento di italiani sceglie il M5S alle Politiche del 2013, dopo aver inondato Piazza San Giovanni per l’ultimo comizio prima del voto, manco fosse il primo maggio. L’evento è così traumatico per gli stessi grillini, da obbligarli a cambiare pelle, decretando gradualmente: l’emarginazione del fondatore, la creazione di strutture verticistiche, le alleanze. Il resto è storia recente: primo partito alle elezioni dello scorso anno col 32 per cento delle preferenze, e due governi con alleati opposti nel giro di 14 mesi. Mutazioni impensabili che oggi utilizzate dai nemici di Di Maio per chiedere un cambio di passo. Ma quel Movimento non esiste più da tempo e la nostalgia dei dissidenti difficilmente si trasformerà in dissenso organizzato. Non c’è più Gianroberto a dare la linea. Le svolte vengono vidimate dal figlio, Davide, più manager che visionario. La festa può comunque comiunciare. Appuntamento a Napoli per il 12 e 13 ottobre.

M5S, i dieci anni e il disagio di festeggiarli. Il Movimento fu fondato il 4 ottobre 2009 a Milano, da allora tutti i suoi principi sono caduti. Dall'uno vale uno alle poltrone di governo. Oggi Beppe Grillo è l'unico a fare un post: «Se io fossi il MoVimento, oggi sarebbe il mio compleanno». Un incipit che dice tutto. Susanna Turco il 04 ottobre 2019 su L'Espresso. In principio fu il Non. Il «non partito», la «non associazione», che non ha indirizzo né soldi, come si spiegava minuziosamente nel «Non statuto: «Il Movimento Cinque stelle non è un partito, né si intende lo diventi in futuro», recitava l'articolo 5. Sarà per questo che oggi, cadendo giusto i dieci anni della sua nascita- il 4 ottobre 2009 al Teatro dal Verme di Milano – il Movimento Cinque stelle non sembra avere molta voglia di festeggiare. Tutti i suoi principi fondamentali, in un decennio, sono caduti. Il principio dell'«uno vale uno» è a prendere polvere in cantina da anni. Il non statuto è stato sostituito da altri due statuti, l'orrore per «la mediazione di organismi diretti o rappresentativi» mutato in una struttura di partito vera e propria: un capo politico, un garante, una assemblea un comitato di garanzia, un collegio di probiviri, e all'orizzonte si profila addirittura una segreteria con «diciotto facilitatori». La regola dei due mandati sta sfumando nella sublime trovata del «mandato zero» preannunciato in estate da Di Maio. L'assenza di circolazione del denaro – dal no alla quota di iscrizione al no ai rimborsi pubblici – è diventata obbligo per gli eletti a versare trecento euro al mese alla Rousseau. Il no alle alleanze si è tradotto in un sì alle alleanze che ha dell'inedito almeno dagli anni Novanta: prima con la Lega, poi col Pd. In fondo, alla fine, l'unica cosa che è rimasta costante è il potere di Casaleggio, trasmesso di padre in figlio, ed esercitato ora attraverso la piattaforma, come prima attraverso la Casaleggio Associati e il blog di Grillo. Già, Grillo. È proprio lui a salutare l'arrivo del decennio: «Se io fossi il MoVimento, oggi sarebbe il mio compleanno», esordisce con un post non propriamente pimpante, nel quale peraltro usa la prima dizione dell'M5S, quella con maiuscola la V di Vaffa, relega la celebrazione alla scena finale del film “Francesco giullare di Dio” e inchioda l'alleanza col Pd alla seguente alternativa: Necessità di poltrone oppure uno step evolutivo della politica». Entusiasmo a fiumi. Nessun riferimento alla festa annuale, Italia5Stelle, che tra una settimana a Napoli, il 12 e 13 ottobre, celebrerà anche il decennale. Niente, d'altra parte, circola nelle bacheche social dei leader del Movimento. Su Facebook Luigi Di Maio ripropone la sua ultima intervista televisiva, Alessandro Di Battista il compleanno del figlio, Roberto Fico un incontro con bimbi bielorussi, Roberta Lombardi un post di Grillo, Vito Crimi una mostra su Leonardo, Paola Taverna un evento sulla non violenza: lei, almeno, ha messo in copertina la brochure di Italia5Stelle, ma è l'unica.

Una festa (inquieta) per i 10 anni del M5S Grillo: no alle tifoserie. Pubblicato venerdì, 04 ottobre 2019 su Corriere.it da Emanuele Buzzi. Per il garante l’alleanza con il Pd è «uno step evolutivo». Fico: i momenti difficili colpa nostra. Di Maio auspica «qualche stella in più». Casaleggio: «A volte ci siamo fidati di chi poi ha tradito»10 anni di 5 Stelle: «Essere o non essere?»: un dubbio amletico corre lungo tutto il Movimento proprio nel giorno in cui si festeggiano i dieci anni dalla sua fondazione. Un compleanno inquieto, tormentato dalle prospettive future, dai cambiamenti in atto e dalle immancabili tensioni interne. I Cinque Stelle si interrogano su cosa sono e cosa vogliono essere, se ribellarsi o meno alla loro sorte. Gli ultimi sei mesi sono stati scanditi da traumi come la sconfitta alle Europee o svolte epocali come l’alleanza con i dem. Il tutto accompagnato da battibecchi e richieste di passi indietro a Luigi Di Maio. Dieci anni fa, invece, era Beppe Grillo (con Gianroberto Casaleggio) l’alfa e l’omega del mondo pentastellato. E anche oggi e negli ultimi mesi la sua voce cerca di tracciare una strada. «Se siamo riusciti ad allearci con il Pd (e loro con noi) possiamo vederla in due modi: necessità di poltrone oppure uno step evolutivo della politica», scrive e invita ad abbandonare «il tifoso che c’è in noi». Andare oltre, chissà, forse con una prospettiva a lungo termine. Un messaggio che riecheggia anche nelle parole di Roberto Fico («Mi aspetto che in futuro il Movimento sia un apripista di nuove avanguardie») o di governisti come Stefano Buffagni («Evolversi o estinguersi»). E si scontra con chi tra i big sostiene che «il Movimento è morto» o con quegli attivisti delusi che abbandonano o chiedono una nuova carta di Firenze (la tavola pentastellata delle leggi per i Comuni, ndr), con l’addio di Casaleggio a Rousseau e un nuovo leader. Figli di un Movimento che di sicuro non c’è più: quello dello streaming, dell’«uno vale uno», delle piazze al grido di «onestà» e no all’euro. E così tocca a Di Maio tentare di riannodare le fila in questo anniversario, ammettendo gli errori («Qualche volta c’è stato qualcuno che ha sbagliato»), immaginando di vedere i Cinque Stelle «poter crescere in altre nazioni» e, soprattutto, tra dieci anni «con qualche stella in più». Perché cambiare è un imperativo, anche e soprattutto al governo. Il compleanno, certo, serve anche a ricordare da dove si è partiti con Gianroberto Casaleggio — «la guida», «ti spiegava dove arrivare e come arrivare» — e Grillo «l’anima», capace di «mettere in moto le persone». Ma evolversi è complesso. «Il Movimento ha svoltato ogni volta che ci hanno negato un nostro diritto. Ogni volta abbiamo accelerato, siamo saliti di livello e abbiamo raggiunto l’obiettivo», ricorda al Corriere Davide Casaleggio. Nonostante lo scoglio dell’esperienza di governo con la Lega. «A volte ci siamo fidati della parola di altri che poi hanno tradito questa fiducia. Ma era giusto farlo, da parte nostra, almeno la prima volta», assicura il presidente dell’Associazione Rousseau, che invita «a coinvolgere ancora più persone». «Essere al governo non è sufficiente — dice Casaleggio —. I cittadini devono partecipare attivamente al cambiamento del nostro Paese utilizzando anche le nuove tecnologie come già stiamo facendo con Rousseau». Al di là della Rete, però, le trame dei rapporti pentastellati sono risultate a volte fragili. Le liti a Roma e in altri Comuni in passato, ora il gruppo dei senatori in stato d’agitazione. E qualche ex che punge, come Federico Pizzarotti che invita i Cinque Stelle a «emanciparsi dai populisti che lo hanno governato». Crepe interne, ferite, espulsioni, addii dolorosi hanno costellato il percorso. D’altronde lo ricorda anche Fico: «I momenti più difficili non sono mai venuti da altri partiti o da una legge che non si riusciva a realizzare, ma dall’interno, da noi stessi». Conflittualità mai sanate, approcci diversi che sono stati la cifra del Movimento, nonostante tutto, in questi dieci anni. Una natura a tratti lacerante, simile a quella dei «protagonisti di Qualcuno volò sul nido del cuculo», come dice Nicola Morra: «Innamorati follemente della libertà di viaggiare per esplorare nuovi mondi», ma anche tentati da chi li vorrebbe «in qualche porto a godere dell’approdo sicuro». Tensioni che ora però minano la stabilità. Anche se c’è chi prova a sperare: «Solo nell’oscurità puoi vedere le stelle».

 (ANSA il 4 ottobre 2019) - "Crediamo che in questo momento così delicato per il futuro del M5S si debba ristabilire un rapporto paritetico fra gli eletti a ogni livello e la base". E' quanto si legge nella 'Carta di Firenze 2019' il documento messo on line dai dissidenti riunitisi nel capoluogo toscano domenica scorsa. Tra le richieste, oltre ad un'assemblea nazionale, c'è "la revisione dello Statuto e il superamento della figura del capo politico" e "l'attribuzione della piena proprietà e della gestione del Sistema operativo Rousseau al Movimento". "Da tempo - si legge nella Carta di Firenze on line sul sito cartadifirenze2019.it - assistiamo al dissolversi di questo progetto politico. In nome di una fraintesa responsabilità di governo, il MoVimento ha rinunciato ai propri principi identitari: dalla lotta per la ricostruzione di uno stato sociale massacrato da trent'anni di neoliberismo fino alla battaglia per la conquista della piena sovranità nazionale. Riceviamo sia per strada che sul web accuse sempre più sferzanti sulle "promesse non mantenute" e sui compromessi al ribasso. La nostra coscienza di attivisti si ribella e ci impone di riportare il M5S al pieno rispetto dei suoi valori con perseveranza e soprattutto coerenza". Tra le richieste avanzate c'è quella di una "riorganizzazione dal basso che valorizzi il ruolo centrale dei gruppi locali e degli attivisti attraverso assemblee territoriali periodiche alle quali siano tenuti a partecipare i portavoce eletti, su temi locali e nazionali". Inoltre si chiede "coerenza con le principali battaglie identitarie e territoriali del M5S con conseguente allineamento di tutte le scelte politiche locali e nazionali. La formulazione di un codice etico unico e inderogabile che imponga il pieno rispetto del mandato elettorale e disciplini la sovrapposizione tra nomine in società pubbliche o private e cariche elettive, scongiurando conflitti di interesse in qualunque forma". L'ultimo punto è dedicato alle candidature. I dissidenti chiedono la "riformulazione di criteri univoci, oggettivi e democratici per le candidature e le nomine all'interno del M5S, che premino l'esperienza, la competenza e il comprovato attivismo sui territori; apertura alla discussione di nuovi strumenti di valutazione degli eletti che garantiscano un confronto periodico tra la base e i portavoce, così da verificare il rispetto dei principi fondativi del MoVimento e il perseguimento degli obiettivi nell'arco del mandato".

M5S, è online la "Carta di Firenze". Gli "scettici" chiedono stop al capo politico e proprietà di Rousseau al Movimento. Il documento è in Rete da mezzanotte su un sito ad hoc, pubblicato proprio allo scadere del decimo compleanno dei cinquestelle. La Repubblica il 04 ottobre 2019. Più democrazia, stop al capo politico, passaggio della proprietà della piattaforma Rousseau al M5S. Questi i punti nevralgici della "Carta di Firenze", studiata dal gruppo degli "scettici" del Movimento Cinquestelle - i nemici di Di Maio contrari all'alleanza con il Pd -  riunitisi domenica scorsa nel capoluogo toscano per l'elaborazione di un documento da sottoporre ai vertici grillini, proiettato ad 'un nuovo Rinascimento' 5S, scevro da scissioni e correnti. La Carta di Firenze è online da mezzanotte su un sito creato apposta (cartadifirenze2019.it) ed è stata pubblicata non a caso nel giorno in cui il M5S compie 10 anni. "ll nostro cuore batte ancora per il Movimento 5 Stelle. Siamo quelli che da sempre sotto la bandiera del Movimento parlano con le persone per la strada, con la pioggia o con il sole cocente, mettendoci al servizio delle nostre comunità, ai banchetti e nelle piazze", è  l'incipit del documento. Dove non manca naturalmente una critica dura alla "metamorfosi" subita dal M5S in questi 10 anni. "In nome di una fraintesa responsabilità di governo -scrivono gli autori- il Movimento ha rinunciato ai propri principi identitari. Riceviamo sia per strada che sul web accuse sempre più sferzanti sulle "promesse non mantenute" e sui "compromessi al ribasso". La nostra coscienza di attivisti si ribella e ci impone di riportare il M5S al pieno rispetto dei suoi valori con perseveranza e soprattutto coerenza". Dunque le proposte concrete, riunite in 5 paragrafi. Il primo é intitolato alla trasparenza e alla democrazia interna, si chiede la convocazione di un'assemblea nazionale per avviare una riforma dello statuto, che passi per il "superamento della figura del capo politico mediante l'introduzione di organi elettivi e collegiali a livello nazionale, regionale e provinciale, che abbiano l'autorità di intervenire nella gestione dei conflitti interni nelle aree di competenza". Ma anche l'"attribuzione della piena proprietà e della gestione del Sistema operativo Rousseau al Movimento 5 Stelle assicurando la massima trasparenza della piattaforma, in particolare verso le richieste di: accesso pubblico all'anagrafe territoriale degli iscritti, verificabilità degli esiti delle consultazioni". Nella carta di Firenze si chiede poi il "miglioramento di 'Tirendiconto' per aver maggiore trasparenza sulle spese dei portavoce; completa coerenza con le principali battaglie identitarie e territoriali del M5S; formulazione di un codice etico unico e inderogabile che imponga il pieno rispetto del mandato elettorale e disciplini la sovrapposizione tra nomine in società pubbliche o private e cariche elettive, scongiurando conflitti di interesse in qualunque forma". Gli "scettici" del M5S chiedono inoltre una "riorganizzazione dal basso", avanzano proposte sui "processi partecipativi" con tanto di regolamento nazionale e tavoli di lavoro permanenti. Infine, regole nuove per le candidature e le nomine degli eletti all'interno del M5S, nonché "nuovi strumenti di valutazione degli eletti che garantiscano un confronto periodico tra la base e i portavoce, così da verificare il rispetto dei principi fondativi del Movimento e il perseguimento degli obiettivi nell'arco del mandato".

Grillo sconfessa i dissidenti: «L’alleanza è evoluzione». Rocco Vazzana il 5 ottobre 2019 su Il Dubbio. Il 4 ottobre, giorno del decimo compleanno del Movimento 5 Stelle, i pentastellati si spaccano. Doveva essere solo una festa, ma si è trasformata nell’ennesima occasione di scontro interno. Il 4 ottobre, giorno del decimo compleanno del Movimento 5 Stelle, i pentastellati si spaccano. Da un lato i volti istituzionali e lo stesso Beppe Grillo, dall’altro un gruppo agguerrito di dissidenti, contrari al nuovo corso di governo. Il fondatore soffia sulle candeline dal suo Blog, ormai personale, ma con piglio di leader, ideologo e artefice delle ultime manovre che hanno consensito a Giuseppe Conte di rimanere a Palazzo Chigi anche se con una maggioranza diversa. «Se siamo riusciti ad allearci con il Pd ( e loro con noi) possiamo vederla in due modi: necessità di poltrone oppure uno step evolutivo della politica», scrive Grillo, mettendo la firma su una decisione che lo stesso Luigi Di Maio pare aver subito a metà agosto. «Le mummie ci chiamano democristiani? Opinione di mummia resta», è il monito che il comico genovese indirizza agli scettici del suo partito. «Il Movimento si è stampato nella realtà, il Paese inizia a mettersi al passo con fenomeni globali che lo riguardano inevitabilmente», rivendica. Ma per dare risposte al paese bisogna uscire dalla logice della contrapposizione e concentrarsi sulle persone reali, argomenta Grillo. «Una cosa sola sembra vera: il paese è spaccato in due, oppure si è spaccato le due palle? È spaccato in due se è un paese di tifosi, sennò è pieno di gente stanca ed avvilita, la nuova sfida è attraversare il confronto con potenze economiche spaventose senza che la gente sia oppressa», è l’orizzonte indicato dal leader. «Intrigarsi delle nuove tecnologie senza vederle come statsandro Di Battista, che tace su us symbol. La logica dei dazi non sarà mai sufficiente». E a chi ancora non accetta l’evoluzione rapida, tipica dei movimenti, Grillo replica con una battuta: «Vedo tanti occhi aperti alla nuova realtà ed alle nuove sfide, sono così entusiasta che abbraccerei persino Mentana!». Ma l’ottimismo del fondatore cozza contro la diffidenza di chi è convinto di interpretare il grillismo meglio di Grillo. È il caso degli intransigenti, tra le cui schiere figura di diritto il consigliere regionale del Lazio, Davide Barillari, che proprio in occasione del compleanno hanno stilato un documento che mina alle basi l’intera organizzazione del Movimento. È la “Carta di Firenze 2019”, testo che prende spunto dall’omonimo “vademecum” compilato dieci anni fa da Grillo e Casaleggio per le Amministrative 2009, con cui i dissidenti invocano un ritorno alle origini. «Siamo quelli che da sempre sotto la bandiera del Mov imento parlano con le persone per la strada, con la pioggia o con il sole cocente, mettendoci al servizio delle nostre comunità ai banchetti e nelle piazze», è la premessa. «Da tempo però assistiamo al dissolversi di questo progetto politico. In nome di una fraintesa responsabilità di governo», scrivono i nemici di Di Maio, accusando il partito di aver rinunciato ai propri principi identitari. «Dalla lotta per la ricostruzione di uno stato sociale massacrato da trent’anni di neoliberismo fino alla battaglia per la conquista della piena sovranità nazionale». A essersi smarrita per strada in questi 10 anni, secondo i grillini intransigenti, è la coerenza. Per ritrovarla propongono cinque punti programmatici che sconfessano l’intera catena di comando del Movimento: dal capo politico a Davide Casaleggio. Il loro ridimensionamento viene invocato fin dal primo punto, intitolato: “Trasparenza e democrazia interna”. È qui che si chiede il «superamento della figura del capo politico mediante l’introduzione di organi elettivi e collegiali a livello nazionale, regionale e provinciale, che abbiano l’autorità di intervenire nella gestione dei conflitti interni nelle aree di competenza». Ma anche «l’attri-buzione della piena proprietà e della gestione del Sistema operativo Rousseau al Movimento 5 Stelle assicurando la massima trasparenza della piattaforma, in particolare verso le richieste di: accesso pubblico all’anagrafe territoriale degli iscritti, verificabilità degli esiti delle consultazioni». Tradotto: Di Maio e Casaleggio jr sono il problema più grosso da rimuovere. Tra le richieste, anche «un codice etico unico e inderogabile», «la riorganizzazione dal basso» e la formulazione di criteri oggettivi e democratici per le candidature e le nomine all’interno del M5S». Altro che «step successivo», gli scettici si ispirano al purismo dell’uno vale uno francescano dei primi tempi. E tra prese di posizione contrapposte, nel giorno del decimo anniversario si nota però un’assenza importante, quello di Alessandro Di Battista, che tace su Facebook dal 19 settembre. La festa può comunque avere inizio. 

M5S, arriva la stretta  dei vertici: in 274  dai probiviri,  100 i dissidenti già fuori. Pubblicato sabato, 05 ottobre 2019 da Corriere.it. Una scure invisibile. Circa cento tra addii volontari ed espulsioni dall’inizio dell’estate ad oggi. Il Movimento cambia pelle, i probiviri lavorano sottotraccia per risolvere — anche in modo drastico — i casi irrisolti. Segno delle tensioni che serpeggiano tra la base e che si sviluppano in molte Regioni. Il 30 giugno i tre probiviri, in un post, davano il la alla stretta. «Le segnalazioni pervenute dall’11 dicembre 2018 ad oggi sono 1822, di queste 274 hanno evidenziato possibili violazioni dello statuto e/o codice etico e sono state prese in carico dal Collegio», scrivevano, annunciando l’avvio di «109 procedimenti disciplinari, di cui 81 nei confronti di consiglieri comunali, municipali e parlamentari». Al momento, appunto, circa un centinaio di persone non fanno più parte dei Cinque Stelle e il percorso di valutazione degli altri casi si dovrebbe risolvere in tempi rapidi. Intanto, i contrasti stanno crescendo anche sui territori. In Sardegna si è arrivati a uno scontro aperto tra i consiglieri regionali. Due esponenti (Carla Cuccu e Elena Fancello) hanno votato la mozione della Lega per il referendum per abrogare la parte proporzionale della legge elettorale nazionale, causando la reazione degli altri Cinque Stelle in Regione. La capogruppo Desirè Manca li ha attaccati per aver disatteso le direttive nazionali. A lei ha replicato Cuccu, accusando la consigliera di essere «giunta a rinnegare politicamente la bontà di uno strumento di democrazia diretta qual è quello referendario». E Cuccu ventila proprio l’intervento sia di Luigi Di Maio sia dei probiviri. Ma i litigi tra attivisti sono scoppiati — specie dopo il passaggio dal governo gialloverde a quello giallorosso — anche in altre Regioni, in particolar modo nel Lazio dove il gruppo è spaccato addirittura in tre «correnti». E proprio romano è Davide Barillari, uno dei principali promotori del gruppo degli scettici che lanciato l’idea di una nuova carta di Firenze (un punto di riferimento per temi e norme pentastellate) e di un cambio ai vertici. L’idea trova riscontri opposti. «Questo è il momento di compattarsi, lavorare per il bene del Paese e smettere di farsi guerre interne», ha detto venerdì la sindaca di Torino, Chiara Appendino (proprio ieri però, a testimonianza delle tensioni, i Cinque Stelle torinesi si sono divisi sulla costruzione di un «muro» di Jersey contro il suk degli abusivi). La nuova Carta di Firenze, però, suscita anche l’interesse dei parlamentari. C’è chi come il senatore Mario Giarrusso afferma ad Affaritaliani che l’idea «è assolutamente condivisibile». E poi precisa: «io non ho partecipato all’iniziativa di Firenze e quindi la Carta non l’ho firmata, l’ho vista solo online, ma ne condivido lo spirito che è quello del M5s». La senatrice Elena Fattori, invece, prende le distanze dal progetto: «Non sono d’accordo con una serie di idee che ha Barillari, a partire dalla sua posizione No vax». Attriti, espulsioni, richieste che arrivano proprio nella settimana che precede la Kermesse Italia 5 Stelle, l’appuntamento annuale di ritrovo degli esponenti pentastellati. La manifestazione si terrà a Napoli sabato e domenica prossimi, a «inaugurarla», tra i primi appuntamenti un incontro alle 11 con i soci dell’Associazione Rousseau (Davide Casaleggio, Massimo Bugani, Enrica Sabatini e Pietro Dettori). Sul web si sono aperte le iscrizioni per partecipare ai vari incontri in calendario ma fino a ieri alcune aree tematiche avevano ancora numerosi posti liberi. A Napoli dovrebbe esserci anche Beppe Grillo, mentre probabilmente nel giorno conclusivo sul palco ci sarà (come già accaduto a Roma lo scorso anno) una staffetta tra il capo politico pentastellato. Di Maio e il premier Giuseppe Conte.

Dieci anni per digerire la rivoluzione di Beppe. Paolo Guzzanti il 5 ottobre 2019 su Quotidiano del sud. Dieci anni di Cinque Stelle, compiuti ieri. Era il 4 ottobre del 2009 e a Milano c’erano Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. I due fusero insieme fra il blog di Beppe Grillo, allora Presidente e rappresentante legale per statuto, e il movimento 5 Stelle con piattaforma on line. Da allora ad oggi il movimento è diventato un partito, Grillo si è ritirato in una posizione di padre nobile che però intervenuto in maniera determinante perché l’attuale governo col PD si facesse, mantenendo dunque la sua posizione di influencer assoluto. Il soggetto politico era in parte una appendice degli spettacoli politici di Beppe Grillo e delle sue idee strampalate ambientaliste e in parte era la vendemmia del più diffuso sentimento di rancore nei confronti della politica e dei politici trattati quasi senza distinzione come ladri corrotti e incapaci. Quella delegittimazione della politica era già avvenuta con la fine della guerra fredda che aveva reso obsoleti tutti gli apparati, sia del comunismo che dell’anticomunismo in senso antisovietico, cioè di alleanza militare atlantica. Era tutto già pronto e anche Berlusconi aveva potuto fare il primo grande pieno sulle note dell’antipolitica, rifiutandosi di definire Forza Italia un partito. Il movimento Cinque Stelle ha seguito il cammino inverso diventato partito e ha poi subito la stessa metamorfosi che subiscono tutti i movimenti duri e puri, ma che prima o poi devono mettersi in giacca e cravatta e sedersi allo stesso tavolo di coloro che avevano detto di odiare, e sbattere fuori per sempre, dopo aver aperto il Parlamento “come una scatola di tonno”. L’idea persa per strada era quella di imporre a furor di clic, una nuova Costituzione di fatto, dunque rivoluzionaria, non più fondata su una democrazia rappresentativa, ma sulla democrazia diretta, senza la scomodità di andare a votare per continui referendum come fan no gli svizzeri, ma con la raccolta di poche migliaia di “clic” su un sito Internet privato. La democrazia rappresentativa voluta dai famosi “padri fondatori” era già stata attaccata e sbeffeggiata con i movimenti detti “girotondi” che portavano in piazza, come un valore morale, il puro vilipendio delle istituzioni. Attaccare il Parlamento, la politica e i rappresentanti del popolo era già una prassi non solo consolidata, ma accettata con timidezza per non dir peggio dai guardiani delle istituzioni. Ciò permise a Grillo di vantarsi di aver creato un ammortizzatore legalitario: “Se non ci fossimo noi, la gente vi rincorrerebbe con i forconi, ma noi assorbiamo la protesta e la rendiamo politica”. A grillo si poteva e si può obiettare che gli italiani non sono mai stati capaci di fare una rivoluzione, ma in genere di attaccare chi era già caduto, che è lo sport più popolare dopo il calcio. La democrazia parlamentare nel frattempo aveva perso i suoi pochi tifosi, perché i grandi partiti erano morti, le militanze erano finite e coloro che in Italia considerano la forma della democrazia un valore in sé si sono sempre contati sula punta delle dita. I Cinque Stelle sono stati molto espliciti, molto spettacolari specialmente al loro esordio: chi può dimenticare le forche caudine inflitte da Grillo a Bersani con lo streaming in diretta? Fu fatto genialmente credere dai pentastellati che con loro, ogni trattativa sarebbe avvenuta in diretta sotto gli occhi della telecamera. Sappiamo come è andata a finire. Le prove della corruzione dei partiti e dei loro cassieri e procacciatori d’affari, esistevano almeno dal 1980 quando proprio a me capitò per puro caso e senza alcun particolare merito, di raccogliere per la Repubblica l’intervista dell’allora braccio destro di Giulio Andreotti, Franco Evangelisti in cui mi dichiarava s che “Qui avemo rubbato tutti” fornendo dettagli persino comici sulla distribuzione di fondi neri ai partiti e ai singoli politici, passata poi alla storia con la formula “A Fra’, che te serve?”. La cosa più strabiliante fu che allora, quaranta anni fa, di fronte a quella confessione non accadde nulla: nessun procuratore aprì un fascicolo, né la sinistra comunista si indignò, salvo che per i modi da gradasso e dialettali del povero Evangelisti. Ma il sistema nel 1980 era ancora compatto e i partiti si reggevano a vicenda, non potendosi negare al Partito comunista di fare la spesa a Mosca e di portare poi allo Ior vaticano i dollari del Cremlino, sotto gli occhi attenti degli agenti del Tesoro americano per evitare banconote false e di un rappresentante del ministero degli Interni, cosa cui provvedeva talvolta anche personalmente Francesco Cossiga. Era, guerra fredda permettendo, un sistema stabile e perfetto. Tutti si approvvigionavano coprendosi e questa era la pecca genetica della democrazia italiana. Così, il povero Evangelisti fu messo alla gogna soltanto per il suo modo spudorato e romanesco di esprimersi, ma nessuno chiese di accendere la luce sull’infornata di miliardi con cui il Partito comunista alterava le regole del gioco. Era molto più divertente per tutti chiudere gli occhi e mettere in tasca quel che si poteva. Poi il comunismo cadde e le potenze occidentali tentarono un ricambio radicale della classe dirigente italiana facendo scattare l’operazione “Clean Hands” cui lavorò il procuratore Rudolph Giuliani, poi sindaco dell’11 settembre e ora avvocato di Trump. che mise alla gogna e alla porta l’intera classe dirigente col pretesto di una tangente Enimont da pochi spiccioli ponendo fine alla Prima Repubblica. Berlusconi poi fece saltare il piano con la sua rocambolesca maggioranza di “fascisti e leghisti sdoganati”, come ha detto pochi giorni fa, impedendo la scontata vittoria di Achille Occhetto. I Cinque Stelle sono gli eredi di tutto ciò e non fa specie che Trump li coccoli, anche per infastidire Bruxelles. Ma nel frattempo l’arte dello spariglio inventata da Berlusconi è diventata prassi politica proprio con i Cinque Stelle, specializzati nella nuova arte del fidanzamento entusiasta con coloro che avevano insultato a sangue fino al giorno prima. I contenuti mirabili anche se fiabeschi e puerili hanno lasciato posto alla pochette del fortunato professor Conte, diventato un loro co-leader. Tutto cambia affinché il sistema sopravviva e ci sembra che il movimento abbia almeno questo di buono: ha fatto capire che la politica non si fa con le idee, ma col solo pallottoliere. Le parole non contano e nemmeno le parolacce. Giacca e cravatta, pronti a tutto, con sfacciata sincerità.

·         Cinque Stelle Cadenti.

Giorgia Meloni e il tonno M5s: "Finita la loro credibilità. Sapete perché non hanno fatto vedere la diretta?" Libero Quotidiano il 26 Agosto 2019. "È la fine della credibilità del Movimento 5 Stelle". Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia, sceglie una diretta Facebook per seppellire definitivamente i 5 Stelle sotto le macerie morali e politiche dell'inciucio con il Pd. "Ricordate quando il M5s voleva aprire il palazzo come se fosse una scatoletta di tonno? Poi è successo che loro sono diventati il tonno: si sono chiusi nella scatoletta e non ne vogliono uscire". "C'è stata la diretta streaming - ha continuato con amara ironia - del confronto con Zingaretti mentre stanno lì a spartirsi le poltrone per fare un governo di gente che gli italiani vogliono mandare a casa? Non hanno fatto la diretta perché sanno che quello che stanno facendo è sbagliato ed è l'esatto contrario di tutto quello che hanno detto per anni. È la fine della credibilità di un Movimento che doveva rappresentare il cambiamento e invece si è dimostrato essere la peggiore partitocrazia", ha spiegato Meloni che poi ha aggiunto: "Per tagliare il numero dei parlamentari bastava che Conte si dimettesse 48 ore dopo".

Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 6 settembre 2019. «Il M5S oggi governa col Pd. Nella scatoletta di tonno ci abbiamo trovato la piovra, ed è stato più facile lasciarci abbracciare che combatterla». Una del gruppo dei casaleggesi, Debora Billi, viene allo scoperto e annuncia: lascio il M5S. Stiamo facendo tutto l' opposto di quello che Casaleggio ci aveva insegnato. Molti dei casaleggesi (a partire da Pietro Dettori) non hanno tradito la lezione del loro maestro, Gianroberto Casaleggio. E va riconosciuto; che si sia o meno d' accordo con loro, o coi loro avversari (i grillini-contiani-casaliniani), o con nessuno dei due fronti. Billi fino al 2018 è stata per cinque anni la responsabile della comunicazione web nello staff M5S, in larga parte selezionato direttamente dal fondatore, il manager milanese. È stata un personaggio le cui azioni avevano un peso, una donna anche molto discussa, per alcune sue uscite, ma non ha agito per tornaconto personale: «Oggi mi allineo a tanti altri amici e dico addio al Movimento. L' obbrobrio che si è consumato nel Palazzo ha superato in nefandezza il golpe del 2011, e la mano che ha riconsegnato il mio Paese ai carnefici della Grecia stavolta porta il nome di Movimento. Ho dato il mio ultimo Oxi (no) a Rousseau». Il suo racconto è un momento di verità sul mare di trasformisti in cui annega il Movimento: «Ho partecipato a cerchi magici, a vertici, ho vissuto momenti storici per il Movimento. Ho scritto decine di post per il blog di Beppe, alcuni dei quali finiti sulle prime pagine. Ho fatto campagne web e social, nel periodo dell' assai discusso divieto tv, che hanno coinvolto e trascinato l' intero Movimento. Esisteva ancora a quell' epoca il Movimento, sapete?». Non nasconde neanche, Billi, i punti più attaccabili del suo curriculum, addirittura rivendica «la campagna di Luigi sui "taxi del mare" è stata un' idea mia, e ha aperto gli occhi al Paese sui trafficanti di uomini». O come quando scrisse un orribile tweet notturno (girato a valanga nella propaganda M5S) contro Giorgio Napolitano: «Gianroberto mi disse "Chiudi tutto per 48 ore, e passerà". Un ottimo consiglio». Spiega che la lunga guerra nel M5S è iniziata da lontano, dalla morte del fondatore: so che Gianroberto mi ha difeso fino in fondo. Adesso è il passato, «come è passato Gianroberto: era malato, aveva i giorni contati, e fu così che nel m5s partì la prima Foresta dei Pugnali Volanti. In quella guerra sanguinosa e tutta interna, tanti furono i morti lasciati a terra. In primis i meetup, quelli litigiosi ma anche quelli "scomodi"; poi singoli attivisti, scomunicati di botto; e poi la gente nel Palazzo, dai parlamentari agli umili lavoratori della vigna m5s come ero io o Messora». Sui giorni finali, dell' accordo Conte-Casalino Grillo con Franceschini e Zingaretti, riassume: «È stata la strage dei casaleggini, di cui quello che avete visto nei giorni scorsi è stato solo l' atto finale». Vincono «alcune mezze figure di capacità nulle, e qualche arrampicatore che ha poi fatto carriera spinto da chissà chi». I parlamentari? «Ho visto moltissimi di loro fare appelli per il governo con il Pd: sì, sei su scherzi a parte. Addio M5s, torno ad essere libera. Non devo più fedeltà a nessuno: Gianroberto è morto, ma mi piace pensare che avrebbe approvato».

"OGGI MUORE IL MOVIMENTO DI GIANROBERTO CASALEGGIO". Jacopo Iacoboni lascia un Aggregato elettorale e una mutazione culturale di massa che resisterà alla fine del M5S, e può modificare i tratti di tutto ciò con cui si mescolerà, a partire già da domani. Domanda: se Giorgio Napolitano chiedesse al movimento 5 stelle di entrare in un nuovo governo con il partito democratico, lei cosa farebbe, come risponderebbe? Risposta di Casaleggio: L’ho già detto, uscirei dal Movimento. Domanda di Nuzzi: Oggi lo trova impraticabile? Impraticabile!

M5S, quando Casaleggio diceva: "Impraticabile governare col Pd". Gianroberto Casaleggio, in un'intervista rilasciata a Gianluigi Nuzzi nel 2013, spiegava come fosse "impraticabile" dar vita a un governo col Pd. Francesco Curridori, Martedì 03/09/2019 su Il Giornale. "Oggi muore il Movimento di Gianroberto Casaleggio RIP". A scriverlo in un tweet è il giornalista de La Stampa Jacopo Iacoboni dove aver postato un video di un'intervista che Gianroberto Casaleggio aveva rilasciato a Gianluigi Nuzzi nel 2013. "Se Giorgio Napolitano chiedesse al movimento 5 stelle di entrare in un nuovo governo con il partito democratico, lei cosa farebbe, come risponderebbe?", chiede Nuzzi. Il co-fondatore del Movimento Cinque Stelle con ha neppure un attimo di esitazione: "L’ho già detto, uscirei dal Movimento". A quel punto, il giornalista insiste: "Oggi lo trova impraticabile?". "Impraticabile", chiosa Casaleggio senior. Chissà cosa penserebbe del fatto che oggi il M5S, il movimento anti-casta per eccellenza, abbia sfruttato una sua invenzione, la piattaforma Rousseau per ratificare un'alleanza di governo col Partito democratico di Nicola Zingaretti e Matteo Renzi? Il tutto dopo essere stato per 14 mesi al governo con la Lega di Matteo Salvini, il partito più vecchio d'Italia. Un passaggio trasformista da destra a sinistra avvenuto nel giro di un mese e benedetto da poco più di 63mila clic.

5 Stelle, chi ha vinto e chi ha perso con il voto su Rousseau? La nuova mappa del potere. Pubblicato martedì, 03 settembre 2019 da Marco Imarisio su Corriere.it. L’interesse primario di restare al governo val bene una mezza uccisione del padre. In senso metaforico e freudiano, s’intende. Dopo la giornata di ieri il M5S entra in terra sconosciuta, con un nuovo rimescolamento di questo partito che ancora non è tale, ma al tempo stesso agisce come la vecchia Democrazia cristiana, senza seminare morti e feriti al suo interno, cercando almeno in apparenza di tenere tutto insieme, vincitori e vinti di giornata. Oggi più che mai il futuro del movimento è un’ipotesi. L’anima pragmatica del M5S ha prevalso ancora una volta, ma non è stato un passaggio indolore, perché questa volta ognuno dei protagonisti lascia qualcosa di se per strada, che sia potere, rilevanza, o anima. E i sorrisi molto tirati del capo politico e dell’Erede valgono più di ogni altro discorso. 

Bilancio agrodolce. Davide Casaleggio paga forse il prezzo più alto. Chi lo conosce sa bene quanto la figura di Gianroberto influenzi ancora il suo comportamento e le sue decisioni. Certo, una giornata in cui «tutto il mondo ha aspettato la pronuncia di Rousseau», come ha detto Di Maio, avrebbe reso fiero suo padre, che teorizzava una Rete «pervasiva, capace di cambiare le relazioni tra le persone e le composizioni dei governi». Ma Casaleggio senior immaginava anche il suo M5S come «funzionale» alla distruzione del Partito democratico, concetto ribadito nero su bianco, in opere e interviste. «Una alleanza con il Pd? Se dovesse accadere, uscirei subito dal Movimento». Anche per questo lascito paterno, l’unica dichiarazione pubblica di Davide dopo l’inizio della crisi innescata meno di un mese fa da Matteo Salvini puntava dritta alle elezioni. L’erede invece ha finito per sconfessare se stesso e suo padre, nel nome della ragion pratica e della necessità di impedire l’implosione del Movimento. 

A denti stretti. Neppure ieri, a giochi fatti, Luigi Di Maio è riuscito a dire che il M5S farà il nuovo governo con il Partito democratico. Proprio non gli veniva. Una sola citazione, di sfuggita, in una conferenza stampa colma invece di rimpianto per quel che è stato. Parlava da uomo ferito, il capo politico del Movimento, come un amante tradito che ancora non riesce a farsene una ragione. La sua unica consolazione è stata proprio quel proscenio, prova del fatto che non gli verrà subito chiesto il conto dell’alleanza fallita con la Lega, a lui più congeniale di quella che sta per essere varata per inclinazione politica e affinità umana. La messinscena di Rousseau gli consente di nascondere la sua contrarietà al Pd dietro la volontà quasi bulgara degli iscritti alla piattaforma, e lui ha cominciato a fare i compiti con un discorso che è stato un primo tentativo di riprendersi la scena. Avrà ancora un ruolo importante, ma la sensazione diffusa, dentro e fuori il M5S, è che per lui il meglio sia passato.

L’eterna risorsa. Il suo gemello diverso, Alessandro Di Battista, ex guevarista diventato l’ultimo giapponese dell’alleanza con la Lega, sembra avere un grande avvenire dietro le spalle. Il suo fascino presso la base penta stellata risulta in picchiata. Da asso nella manica a eterna «risorsa» poco utilizzata il passo è davvero breve. Non si annunciano tempi luminosi per quella parte di M5S schierata in modo esplicito per un ritorno tra le braccia di Salvini. 

Vincitori a tempo. Eppur si è mosso. Dopo tanto tergiversare, Beppe Grillo ha battuto un colpo, dimostrando in modo netto, come sia sempre lui il più amato del M5S, l’unica persona che i militanti seguirebbero ovunque. Per la prima volta in questi anni da Cincinnato, si è messo in gioco con convinzione. Questo nuovo inizio, che in qualche modo riporta il M5S nell’alveo movimentista dove era stato concepito, ha un solo padre. Piaccia o non piaccia a quanti nel Movimento avevano interesse a sminuire il suo peso, il vincitore assoluto è lui. Il vero lavoro per Grillo comincia adesso, e chissà se l’Elevato e i suoi sbalzi d’umore avranno voglia di occuparsi a tempo pieno del vuoto di potere che si sta creando nel M5S. Il possibile riempitivo sarebbe l’ala sinistra, figura mitologica che in realtà nessuno ha mai visto. Roberto Fico ne è considerato il capo, ma fino ogni volta che contava ha sempre taciuto, fingendosi morto. Il momento per dare qualche segno di vita è arrivato. A sostenerlo nell’impresa, Fico troverà la truppa parlamentare, i peones che si erano schierati a testuggine contro il ritorno alle urne lanciando velati messaggi di ribellione. La loro ferrea volontà non dipende dal ragionamento politico, quanto piuttosto dall’istinto di conservazione. Ma per un Movimento che si proponeva di abolire la democrazia parlamentare, è comunque un notevole contrappasso.

STELLE CADENTI. Giuseppe Marino per ''il Giornale'' il 29 Agosto 2019. Dal matrimonio impossibile al «Sì» in poche ore. Com' è possibile che i promessi sposi dalla concordia miracolosa, Pd e M5s, litighino solo sul compare d' anello? Una possibile spiegazione sta nel potere reale accumulato dall' uomo della discordia, Luigi Di Maio: legami, nomine e, soprattutto, un conto in banca cointestato a lui in cui sono affluiti milioni. Il capo politico è ormai contestatissimo all'interno del Movimento, dopo un anno di sconfitte elettorali, dopo aver portato il consenso dei pentastellati dal 33 al 17%, dopo il collasso delle europee con tanto di tentato golpe di Alessandro Di Battista. All' inizio delle trattative, dice una fonte pentastellata di governo, il M5s era pronto a chiedere a Di Maio, che aveva legato troppo le sue fortune a Matteo Salvini, un passo di lato. I primi retroscena raccontavano infatti di un veto posto dal Pd sulla sua figura non contestato dal M5s. Si era perfino tenuta una riunione dei gruppi parlamentari grillini in assenza del capo politico, ufficialmente «perché potessero sentirsi più liberi di parlare». Poi, dice la fonte, si è capito che «Luigi poteva creare troppi problemi». Eppure Grillo e Casaleggio hanno chiaramente puntato tutto su Giuseppe Conte, con un' operazione di immagine che lo ha promosso a volto del Movimento e del governo, al posto del giovane vice premier. Di Maio poteva essere scartato, ma all' improvviso il M5s ha cominciato a fare muro. Ieri è arrivata una selva di dichiarazioni coordinate di parlamentari e sottosegretari, da Fantinati a Dall'Orco. Il Pd ha resistito fino all' ultimo, facendo sapere che non «c' erano veti su Di Maio al governo», purché non a Palazzo Chigi. E Luigi ha replicato stizzito: «Qualcuno sembra più concentrato a colpire il sottoscritto che a trovare soluzioni». Alla fine un posto nel governo giallorosso l' avrà. Luigi, leader fantasma eppure immortale. «Di Maio - spiega il deputato Davide Galantino, tra gli ultimi fuoriusciti da M5s - ha scelto molti candidati, regalando un posto in Parlamento a gente che non ha fatto un giorno di militanza e ora gli è fedele». Ma, soprattutto, è il capo del Comitato per le «restituzioni» che gestisce i 2mila euro al mese versati dai parlamentari. Soldi che, dopo lo scandalo rimborsopoli, non vanno più al Fondo per il microcredito, ma finiscono su un conto bancario intestato ai tre componenti del Comitato: Di Maio e i due capigruppo Francesco D' Uva e Stefano Patuanelli, in carica (vedi statuto firmato davanti al notaio Luca Romano il 7 agosto 2018) fino allo scioglimento delle Camere. «Oggi - dice Galantino - se non sono state fatte altre restituzioni, dovrebbero esserci 5 milioni di euro su quel conto». Lo statuto prevede che i tre membri del comitato possano essere estromessi da assemblea a consiglio direttivo. I cui membri sono sempre i due capigruppo e Di Maio l' intoccabile. Vuoi capire la crisi?

LA VERA STORIA DEL M5S NEI TWEET DI IACOBONI. Scusate, correggetemi se sbaglio: Mattarella non aveva chiesto risposte chiare entro le 19 di ieri? Oggi non iniziano le consultazioni? Leggo ovunque che ci sono ancora problemi grossi. Come mai allora l’alleanza di governo e Il nome del premier non sono ancora comunicati? Dago Spia il 27 agosto 2019. Un thread su Twitter di Jacopo Iacoboni, autore di ''L'Esperimento'' e ''L'Esecuzione'' (Laterza), i due libri fondamentali per capire il Movimento 5 Stelle.

1. Il M5S nasce tanti anni fa attraverso un Esperimento di ingegneria sulle reti, prima aziendali, poi sociali, di Gianroberto Casaleggio: uno strumento per creare il consenso e eventualmente manipolarlo, e andare al potere. Lo scopo è governare. Non stare all’opposizione

2. All’inizio il M5S, specie in alcune aree, pesca tanto nell’elettorato deluso di centrosinistra, a Bologna, a Torino, con temi come la partecipazione, l’ambiente, l’accesso a Internet. Al Vday di Grillo, la piazza appare, anche a me, prevalentemente composta da gente di sinistra.

3. In realtà, dietro c’è Casaleggio, la sua azienda, il Controllo che esercita su tutta l’organizzazione e la “rete delle reti”. Grillo è solo un frontman. Le idee di Casaleggio sono un po’ nouvelle droite, un po’ filoleghiste. Lo dice lui stesso più volte: “Mai col Pd”.

4. Negli anni, avendo Casaleggio capito prima di tutti in Italia le possibilità offerte dai social, anche a un uso casereccio, in politica, la propaganda del M5S si sposta sempre più su tre temi: anticasta (dove la casta, più che Berlusconi, è il Pd), antiImmigrati, antiEuropa.

5. La straordinaria vittoria del 2013 diventa così il trionfo del 2018: ma il M5S è ormai sempre più inserito in network internazionali sovranisti, o nazionalpopulisti: sempre meno Podemos (usato all’inizio come specchietto), sempre più Russia, Brexit, giro Trump (fino a Bannon).

6. Nel 2017-2018 la scelta di fondo è chiara: convergere verso la Lega. È il testamento ideologico lasciato dall’inventore dell’Esperimento al figlio. Che lo rispetta: nel 2018, la Lega è fin dall’inizio IL “forno”, il primo forno. Dalla Lega si parte, e lì si vuole arrivare.

7. La parentesi di dialogo col Pd è, come dice Di Maio, solo “un secondo forno”: aperto tatticamente, ma i capi vogliono altro.

8. Nel frattempo tutto i temi più violenti della propaganda sui social, hanno spesso congiunto è reso indistinguibili i cluster della propaganda della Bestia leghista, e dei gruppi e pagine Facebook e account coordinati pro M5S. Hanno ESATTAMENTE gli stessi temi.

9. Non so se effetto voluto da Roberto Casaleggio, sperato, o preterintenzionale, nella convergenza a destra del M5S (“Farage sarà il premier Uk”, profetizza felice Casaleggio, e sbaglia di poco: è Johnson), il M5S si dimezza, la Lega raddoppia, e più. Voti in uscita al Pd, pochi.

10. l’Esperimento, mentre si realizza nell’Esecuzione con la Lega, è compiuto. Ma, nel compiersi, finisce. Anche se la fine non significa automaticamente estinzione. Finisce perché la sua missione oggettiva è compiuta: radicalizzare, polarizzare, traghettare elettorato a destra.

11. La fine viene paradossalmente accelerata dal gesto (apparentemente suicida) di Salvini: rompere l’alleanza. È la Lega, che rompe (non è tuttora chiaro il perché), non il Movimento. Il Movimento stava benissimo lì dov’è, dove avrebbe atteso la sua morte naturale.

12. restano le spoglie di una spaventosa, feroce battaglia di potere interna, tuttora in corso, per decidere cosa è meglio per la sopravvivenza. Il figlio di Casaleggio è nave in tempesta, e non sa dove andare, anche se istintivamente preferisce la Lega.

13. Il premier Conte gli offre di traghettare quel che resta del M5S dentro mediocri ma efficaci reti di relazione romano-istituzionali-vaticane. In attesa della morte certa, significa un altro giro di valzer e di potere. La morte poi verrà, e non sarà bella.

14. Vedremo se il figlio sceglie il padre, o compie il parricidio finale. Cercar (e trattare) la bella morte leghista o una morte ritardata, col Pd? In entrambi i casi, resta l’Aggregato elettorale: umori, vizi, rabbia, estremismo, populismo, creato e coltivato dall’Esperimento.

15. Un Pd forte potrebbe inoculare dentro di sé il virus, per immunizzarlo. Escludo che questo Pd ne sia in grado. È più facile che succeda il contrario, e assuma dentro di sé i tratti del nemico. Fine

M5S, FINE DELLA PRESA PER IL CULO. Sergio Rizzo per la Repubblica il 27 agosto 2019. La surreale crisi politica d' agosto ci offre una sola certezza: l' età dell' innocenza del Movimento Cinque Stelle si è del tutto esaurita. Nato per scardinare il decrepito sistema dei partiti rimpiazzando la democrazia rappresentativa con la democrazia diretta via web, e sbarcato in massa nel parlamento italiano con l' unico obiettivo di «aprirlo come una scatoletta di tonno», ha finito per integrarsi in pieno con il contenuto di quella scatoletta. Tonno, magari con qualche spina, ma sempre tonno. La storia dell' ultimo anno, e più ancora degli ultimi giorni, sta a dimostrare come il M5S sia ormai assimilato a quel sistema che si proponeva di mandare in pensione. Si tratta, a tutti gli effetti, di un partito come gli altri: sia pure al netto di alcune curiose stravaganze dai contorni mai chiariti fino in fondo, tipo la famosa piattaforma Rousseau e il ruolo dei signori privati che la controllano. Identici rituali. Medesimi codici nei rapporti interni, articolati in correnti governate da altrettanti capibastone. E quel che toglie definitivamente ogni dubbio, perfino gli stessi linguaggi. Dopo la batosta elettorale in Sardegna abbiamo sentito Luigi di Maio ripudiare prontamente la tesi della sconfitta, come hanno sempre fatto gli sconfitti: «È inutile confrontare il dato delle amministrative con quello delle politiche. Se si guarda agli altri partiti il M5S è in linea con tutte le altre forze politiche». E all' indomani dell' indimenticabile scoppola presa alle Europee di fine maggio, ecco il capo politico grillino rifugiarsi in una pietosa giustificazione, tirando in ballo gli elettori: «Prendo atto che la nostra gente si è astenuta e attende risposte, e noi queste risposte gliele vogliamo dare. Restiamo comunque ago della bilancia in questo governo». Le dirette streaming? Un vecchio ricordo, e anche un po' fastidioso. La trasparenza sbandierata nell' età dell' innocenza come regola aurea nelle relazioni con i diversi? Meglio i rassicuranti vertici di maggioranza, tali e quali rispetto a quelli delle maggioranze di un tempo. Magari a tarda sera, magari a casa di qualche amico, dove manca soltanto la crostata. Vertici estenuanti, tanto da far rimpiangere i caminetti democristiani, le melodrammatiche maratone uliviste, le litigate notturne fra Gianfranco Fini e Giulio Tremonti. Il dogma intangibile del limite ai due mandati per gli eletti del Movimento? Demolito dal "mandato zero" annunciato da Di Maio come la grande innovazione politica della terza (o quarta?) repubblica, ma già sperimentato con successo (nella seconda?) da Roberto Formigoni. Con qualche big grillino già corso ai ripari saltando un giro per assicurarsi la possibilità di correre al giro seguente con l'avversario fuori gioco: ma senza immaginare che proprio lui si sarebbe inventato il mandato zero. E la guerra alle poltrone? Evaporata silenziosamente nella selva di nomine pubbliche fatte seguendo senza troppe remore il manuale Cencelli nuova edizione. Per arrivare a rispolverare nelle trattative per fare un governo, al termine di una fulminea metamorfosi, la politica dei due forni in auge nella Prima Repubblica, ma quella vera. Formula che si deve, nientemeno, a Giulio Andreotti. Fu lui a coniarla, ormai più di mezzo secolo fa, al tempo del primo centrosinistra. La Democrazia cristiana era combattuta fra l' alleanza con i socialisti o con lo schieramento liberale e "il Divo" affrontò il dilemma spiegando che i cattolici avrebbero potuto produrre indifferentemente il pane nel forno con la sinistra o con la destra. Il partito docilmente si adeguò. Esattamente come avrebbero fatto i democristiani soltanto qualche anno dopo, cambiando radicalmente la strategia delle alleanze. Anche il segretario del Partito socialista Bettino Craxi non avrebbe avuto molti scrupoli, nel suo mitico decennio, nell' usare la tattica dei due forni brevettata dalla Dc: l'accordo con la destra democristiana per il governo e l' intesa con i comunisti nelle giunte di sinistra per il controllo delle amministrazioni locali. Da allora la politica italiana si è riempita letteralmente di doppi forni, con la complicità di leggi elettorali scriteriate: che sembravano fatte apposta. Così anche gli insospettabili hanno imparato molto bene l'adagio andreottiano, quello secondo cui "il potere logora chi non ce l' ha". Con il risultato che l' età dell' innocenza se n' è definitivamente andata.

Da "uno vale uno" a "uno vale l'altro". L'ultima giravolta dei Cinque Stelle. Ecco l'ultima giravolta del Movimento 5 Stelle. Le macroscopiche abiure sono cinque, proprio come le stelle. Francesco Maria Del Vigo, Sabato 24/08/2019, su Il Giornale. La metamorfosi è avvenuta. I 5 stelle non sono più i 5 stelle. O, meglio, non sono più quello che si spacciavano di essere, ma che con buona probabilità non sono mai stati. In questi giorni confusi e accaldati Di Maio e soci stanno smontando, bullone per bullone, tutta la loro sbilenca macchina da guerra. Ma le macroscopiche abiure sono 5, come le stelle.

1. La democrazia diretta. Era un'ossessione. Avrebbero voluto installare nello sgabuzzino di ogni italiano un seggio elettorale per consultarci anche sul cambio di lampadine nei bagni di Montecitorio. Per anni hanno interpellato i loro iscritti su Rousseau su qualsiasi cosa (purché marginale). Uno stalking. Ora non solo hanno messo in soffitta la loro traballante piattaforma, ma stanno scappando dalla suprema forma di democrazia diretta: le elezioni. Meglio la democrazia indiretta, che ti fa governare anche con il Pd.

2. Lo streaming. Il piede di porco con cui scardinare tutti gli oscuri giochi di palazzo. La diretta dell'incontro con Bersani e il faccia a faccia con Renzi? Dimenticatele. Non le vedrete mai più. Ora, quando devono decidere le sorti del governo e delle loro poltrone, si chiudono in una stanza, tirano giù le tapparelle e mettono le assi di legno alle porte. È finita l'era della trasparenza, la nuova parola d'ordine è opacità.

3. Uno vale uno, uno vale l'altro. Era lo slogan degli slogan: uno vale uno. Finita l'era della casta, del politico appollaiato sulla sua torre d'avorio a sputacchiare sulle plebi. Uno dei cardini attorno al quale ruotava questo ragionamento era la volontà del Movimento di non scendere a patti con nessuno. Il primo smottamento lo avevamo già visto con il contratto gialloverde. Ora Di Maio, da bibitaro a panettiere, ha inaugurato l'era dei due forni: da una parte Pd, dall'altra la Lega. Purché si stia al governo va bene tutto. Uno vale l'altro.

4. Diversità antropologica. I grillini hanno sempre sostenuto di essere diversi. Un'altra cosa rispetto ai tradizionali politici. Una diversità antropologica e quasi spirituale. Puri. E poi vedi Di Maio che esce dalle consultazioni e fa un discorso in politichese che andrebbe sottotitolato e tradotto da una mummia della prima Repubblica. Si sono democristianizzati senza avere la cultura politica dei Dc.

5. Il governo contro il popolo. La nouvelle vague è stata inaugurata da Conte, ex avvocato del popolo autonominatosi giudice di Salvini. Il premier, parlando in Senato, pur di attaccare il leghista ha criticato chi invoca le piazze e usa i social per fare politica. Lui. Paracadutato a Palazzo Chigi da un movimento nato sul web e cresciuto sui social. Un movimento che ha aizzato le piazze e portato sotto i palazzi migliaia di persone al delicatissimo grido di «vaffanculo». Da populisti ad anti popolo. Il passo è stato brevissimo.

Sì Tav, sì Tap, sì Ilva: così, in un anno, il M5S ha fallito le sue battaglie-simbolo. Ora che è al governo il Movimento si è scontrato con la pragmatica realtà dei fatti, che non tiene conto delle promesse da propaganda elettorale. Charlotte Matteini il 24 Luglio 2019 su TPI.

Sì Tav, sì Tap, sì Ilva: così, in un anno, il M5S ha fallito le sue battaglie-simbolo. Anche il baluardo No Tav è crollato. Il premier Conte ha annunciato che a decidere sull’Alta velocità Torino-Lione sarà il parlamento, un parlamento in cui al momento sussiste una granitica maggioranza trasversale favorevole all’opera. Un brutto colpo per il Movimento 5 Stelle, che per anni ha fatto del No Tav uno degli intoccabili baluardi della propria piattaforma ideologica. “Noi restiamo per il No Tav e voteremo no in Parlamento”, si è affrettato a dichiarare Di Maio su Facebook. La presa di posizione non ha però sortito grandi effetti, a giudicare dalle decine e decine di commenti negativi piovuti sotto al post.

Tav, Ilva e Tap. No Tav, No Ilva e No Tap sono stati, indiscutibilmente, gli argomenti principe della campagna elettorale delle scorse politiche. Esattamente come il No Ilva e No Tap, ma anche il no all’immunità parlamentare e il vincolo del doppio mandato, anche il No Tav si è scontrato con la pragmatica realtà dei fatti, che non tiene conto delle promesse da propaganda elettorale. Quello della Tav è solo l’ennesimo baluardo a 5 Stelle caduto sotto i colpi dell’alleanza politica con la Lega di Matteo Salvini e della realpolitk. “La blocchiamo in due settimane”, disse della Tap Alessandro Di Battista in campagna elettorale. Sappiamo com’è finita e quali strascichi ha portato con sé la mancata promessa. Sulla Tav, il ministro dei Trasporti Danilo Toninelli solo pochi mesi fa aveva dato per certa la dipartita del progetto. Dopo l’analisi costi-benefici, con l’unico parere contrario dell’ingegner Coppola, per il Movimento 5 Stelle la Tav era morta e sepolta. A distanza di pochi mesi la ritroviamo però viva e vegeta, risorta come un’araba fenice. Anche per l’Ilva di Taranto il Movimento aveva promesso la chiusura dello stabilimento in campagna elettorale. Una volta al governo, dopo un travagliato percorso e un’altrettanta travagliata trattativa con Arcelor Mittal, ha firmato l’accordo per il mantenimento dell’impianto, facendo infuriare i tarantini che avevano votato M5S proprio sulla base di quella promessa.

Mandato zero e immunità parlamentare. E uno, e due, e tre. I baluardi elettorali del Movimento 5 Stelle si sono sciolti come neve al sole nel giro di pochi mesi. La stessa fine hanno fatto altri due principi cardine del M5S: il vincolo del doppio mandato e l’immunità parlamentare. Nel primo caso, proprio ieri Di Maio ha annunciato che per gli eletti in consiglio comunale la regola dei due mandati massimi non varrà, ci sarà il “mandato zero” per dare la possibilità ai più esperti di approdare in ruoli di maggior spessore senza però rinunciare ai due mandati concessi da statuto. E anche il no all’immunità parlamentare per evitare i processi è ormai un vecchio ricordo sepolto in fondo al cassetto dopo il salvataggio di Salvini dal processo per il caso Diciotti e il diniego concesso per salvare la senatrice Paola Taverna da un processo per diffamazione. Nel giro di un solo anno, il Movimento 5 Stelle al governo ha detto addio a molteplici baluardi elettorali senza che vi fossero reali giustificazioni a supporto, se non la convenienza politica del momento. Per lo zoccolo duro dell’elettorato a 5 stelle questi baluardi erano essenziali. La domanda sorge spontanea: che cosa accadrà ora al già compromesso e asfittico consenso elettorale del Movimento?

Charlotte Matteini. Nata e cresciuta a Milano. Ho una laurea in scienze della comunicazione e mi occupo di politica dal 2011. Ho lavorato a Il Giorno, Tgcom24, Fanpage e Open. Collaboro con TPI dal 2019.

Sconfessata dai suoi, attaccata dagli avversari. Raggi isolata: con i 5 Stelle ho chiuso. Pubblicato lunedì, 08 luglio 2019 da Alessandro Trocino su Corriere.it. Roma «Io con i 5 Stelle non ci parlo più». Virginia Raggi è furente. Un bollitore sul punto di esplodere. I suoi rapporti con il Movimento si sono ridotti a zero. Nessuno la cerca e lei meno che meno. Separati in casa, dove la casa è la Capitale. Ex fiore all’occhiello della nuova Italia targata 5 Stelle. Ex «vento che cambia» ridotto a ponentino maleodorante che ristagna su una città putrescente. Roma, non da ora, è uno scandalo. Per i romani e per il Movimento. Ma Roma è ormai una città Stato, governata, o sgovernata, da una sindaca senza più partito. Sconfessata dai piani alti, attaccata dai giornalisti, maltrattata da avversari, criminali, topi e gabbiani. La separazione è completa, il distacco compiuto. La Raggi è ormai solo formalmente un’esponente dei 5 Stelle. La sua solitudine completa è certificata da un post di Alessandro Di Battista. Lo scrittore (dalla quarta del libro PaperFirst) sentenzia: «Dovere del Movimento è sostenere il sindaco di Roma e far capire a tutti chi è che vuole il male della Capitale per sporchi giochi politici». Di Battista, battitore libero entrato in rotta di collisione con Luigi Di Maio, porta allo scoperto il non detto. Il Movimento si è girato dall’altra parte. Non vede non sente non parla. Perché, come sostiene un esponente nazionale di spicco, «ormai la sindaca è indifendibile». Per questo ieri Di Battista se ne esce una frase pesantissima: «Tutti, ma dico tutti, si sono messi in testa di buttarla giù». I «proprio tutti» sono i 5 Stelle? È quel Luigi Di Maio che ha ribadito di essere «incazzato» per chi «ancora oggi» è in giro per l’Italia a presentare libri, invece di partecipare alla pugna con «il principale esponente dello schieramento avverso» (come il vicepremier ha definito Salvini)? Il punto di non ritorno dei rapporti tra Raggi e 5 Stelle è Casal Bruciato. L’8 maggio scorso, con coraggio, la Raggi si presenta nella periferia romana in solidarietà alla famiglia rom assediata e contestata dall’estrema destra e Casa Pound. Le urlano «mafiosa, schifosa, puttana, portali a casa tua». Si aspetta la solidarietà dei suoi. Ottiene la reazione stizzita e para leghista da Di Maio: «Prima si aiutano i romani, gli italiani, poi tutti gli altri». E’ la fine. «Io con questi ho chiuso», sibila la sindaca ai consiglieri più fidati. Da allora, la sindaca balla da sola. Sempre più fragile e isolata. Commettendo una valanga di errori e di ingenuità. Andando in Aula per raccontare che sono in distribuzione «22 mila stecche di legno per le panchine dei parchi» e per annunciare un nuovo filobus a Tor Pagnotta mentre Roma è un inferno. Attaccando la Regione Lazio (abilissima nella propaganda e nel temporeggiare, con effetti sulla sindaca ma anche sulla città), con video imbarazzanti, complici dipendenti-attori dell’Ama. Pochi le sono restati vicini. L’ultimo ufficiale di collegamento, Francesco Silvestri. E un gruppetto di romani, come Stefano Vignaroli. Nel frattempo si sono interrotti anche i rapporti tra il Campidoglio e la Comunicazione nazionale, che provava a a guidare, a sollecitare e controllare la sindaca. Da mesi c’è silenzio. Ognuno va per la sua strada. Dal Campidoglio partono frecce avvelenate: «Ma cosa dovremmo farci dire dal nazionale? Avete visto che campagna elettorale hanno fatto? Non ne hanno indovinata una e vorrebbero farci la lezione. Almeno noi siamo coerenti ». Fino a quando, chissà. Di certo la Raggi non ha alcun futuro con i 5 Stelle. E in molti si augurano che caschi in fretta. A quel punto, la sua carriera politica sarebbe decisamente finita. Alessandro Trocino.

Luigi e Virginia maestri di gaffe: più comici loro del capo Grillo. Il sindaco di Roma confonde siti di smaltimento rifiuti. E il leader sbaglia ponte e spara cifre a caso sul Morandi. Francesco Maria Del Vigo, Lunedì 08/07/2019 su Il Giornale. Ora è tutto chiaro. Lo hanno battuto. I grillini hanno battuto Grillo. Sono più comici di lui. Ormai da anni gli spettacoli di Beppe Grillo non fanno più il tutto esaurito. Logico: perché devo pagare un costoso biglietto per vedere uno spettacolo che va in onda costantemente, tutti i giorni, su tutte le reti, tutti i giornali e tutti i siti? Il grillismo è la politica prestata ai comici. Comici a loro insaputa, purtroppo per loro. Comici che governano, purtroppo per noi. Ne abbiamo avuto una mediatica e mastodontica rappresentazione nel corso delle ultime 48 ore. Il vicepremier Luigi Di Maio e la sindaca di Roma Virginia Raggi hanno superato loro stessi, inanellando una serie di gaffe che sembrano uscite dalla penna di un esilarante umorista. Partiamo con ordine: sabato l'ineffabile Di Maio pubblica un video sul ponte Morandi. Senza un motivo ben preciso, così, giusto per dare un po' addosso ai Benetton. Uno sproloquio di tre minuti su Facebook, prontamente condiviso dal ministro dei Trasporti Danilo Toninelli. E qui doveva suonare un campanello d'allarme. La condivisione di Toninelli sta a una gaffe come la denominazione di origine controllata sta al vino. Praticamente è la garanzia di una bufala. Infatti Di Maio parte subito male, affermando che Autostrade per l'Italia ha annunciato di corrispondere alla comunità genovese 500mila euro. Un piccolo errore: c'è solo uno scarto di 499,5 milioni di euro. Perché 500 sono milioni di euro e non «mila». In un'azienda privata uno che fa un errore così come minimo riceve una lettera di richiamo. Ma è solo l'inizio: poco dopo indica l'immagine di un pilone danneggiato. Ma sbaglia ponte. Non è il Morandi di Genova ma un ponte a Ripafratta, nel Pisano. Epic fail, direbbero in rete. Ma i grillini tra di loro sono molto solidali e volete che non sia subito arrivato qualcuno a fare compagnia all'improvvido ministro? Certo che sì, ci ha pensato Virginia Raggi, che ne ha combinate due da far sembrare Di Maio (quello che è riuscito a sbagliare tre congiuntivi di fila in un post, a dire che siamo fatti per il 90 per cento di acqua e a spostare Pinochet in Venezuela) uno scolaretto - ovviamente ripetente - di gaffe. Avviso: tutto quello che state per leggere è vero e, ahinoi, non è opera di fantasia. Roma, lo sappiamo, è invasa dai rifiuti e la sindaca sabato pubblica un video per scaricare la colpa su Zingaretti. «Eccoci i cancelli sono chiusi, l'impianto è fermo - denuncia impavida come una iena -. Zingaretti ha preso in giro tutti i romani. Noi dovevamo venire qui a scaricare i nostri rifiuti. Questa è la verità». Invece no. Non è la verità, Virginia. Di Maio ha sbagliato ponte e lei ha sbagliato impianto: i cancelli alle sue spalle non sono quelli di Rida Ambiente, ad Aprilia, ma quelli di Eco Aprilia. Un impianto che non rientra nell'elenco di quelli previsti dal piano rifiuti regionale, quindi Zingaretti questa volta non c'entra un accidenti. Ma lei non ci sta. E ci riprova. Altro video, altro impianto, altri cancelli, altra gaffe. Torna ad Aprilia il giorno dopo e stavolta ce la fa, becca gli impianti giusti e riattacca con la filippica: «Buongiorno anche oggi gli impianti di smaltimento rifiuti di Rida sono chiusi e i camion non possono scaricare. Lo ripeto: l'ordinanza regionale di Zingaretti non funziona». Niente da fare. È più forte di lei. L'impianto è chiuso perché apre lunedì, come è scritto nero su bianco nella ordinanza da lei citata. Un altro errore da bocciatura. Meglio di uno spettacolo di Grillo, no? Peccato che il biglietto lo paghino tutti gli italiani, anche quelli che non vorrebbero vederlo.

Appendino, figuraccia in procura: si proclama sindaco "a sua insaputa". Interrogata dai pm per la consulenza all'ex portavoce si dice all'oscuro. Stefano Zurlo, Giovedì 20/06/2019, su Il Giornale. La consulenza a sua insaputa. Il genere, lanciato a suo tempo da Claudio Scajola con la casa di cui secondo la sentenza era all'oscuro, si arricchisce di un nuovo capitolo: a scriverlo è il sindaco di Torino Chiara Appendino inciampata nella terza tegola giudiziaria della sua carriera. Dopo i guai di piazza San Carlo e dopo i bilanci ballerini del Comune, ecco il lavoro commissionato dal Salone del Libro all'ex portavoce del primo cittadino, Luca Pasquaretta. Obiettivamente, non una gran cosa: un impegno relativo ma non trascurabile, 17 giorni, ricompensato con 5mila euro lordi ma finito nel mirino dei magistrati che l'hanno addebitato anche ad Appendino. Lei non ci sta ad arroccarsi in una difesa tecnica ed esce allo scoperto. Va dai pm per un lungo interrogatorio, poi all'uscita chiarisce il suo punto di vista: «Ho potuto dimostrare agli inquirenti, richiamando il mio intervento in Consiglio del febbraio 2017 dove avevo chiaramente espresso la mia contrarietà a qualunque tipo di assegnazione di carattere consulenziale con attribuzione economica, di non essere stata a conoscenza del successivo sviluppo». Sì, Appendino si chiama fuori. È indagata per concorso in peculato, ma fa scouting d'innocenza, o meglio pesca le sue vecchie parole per rivendicare la sua correttezza. I tempi mitici della purezza fondativa sono ormai alle spalle, i 5 Stelle sono nella stanza dei bottoni, insomma si sono aperti al mondo con le sue tentazioni, talvolta irresistibili, e in particolare i sindaci delle metropoli sono i parafulmini di innumerevoli situazioni e collezionano di regola un guardaroba intero di avvisi di garanzia su qualunque argomento. Ma Appendino, con i grillini in caduta libera anche in Piemonte e Torino alle prese con i fantasmi del declino, tira fuori le unghie e rilancia: lei era contraria. E la consulenza è arrivata a sua insaputa. Come la casa con vista sul Colosseo a Scajola. «Ero convinta - spiega lei - che tutti avessero preso atto di tale mia ferma posizione e quando invece il 4 maggio 2018, e cioè ad un anno dalla fine dell'incarico, venni a saper da una testata giornalistica che la consulenza era stata assegnata, immediatamente reagii lamentando l'assegnazione dell'incarico contro la mia volontà e a mia insaputa».

Ecco, siamo alla proclamazione del dogma dell'innocenza, anche se in questo modo Appendino dimostra di non controllare nemmeno atti che la riguardano da vicino, cosi vicino che si ritrova accusata dai pm. Tutto può essere: demagogia e arzigogolo. Un fatto è certo: nell'Italia in cui le leggi non si contano e si contraddicono, anche i 5 Stelle dovrebbero riflettere sulla giustizia. Non è alzando le pene che si risolvono i problemi e per un sindaco è facilissimo rimanere invischiati nella palude degli avvisi di garanzia. Un tema decisivo, a maggior ragione mentre la riforma complessiva di tutta la materia è tornata d'attualità «A tal fine - è la conclusione di Appendino - ho prodotto ai pm materiale attestante quanto da me riferito». Chissà. Forse, Appendino se la caverà. Anche se su questa storia e sulla consulenza, che gli investigatori sospettano fittizia, è stata ondivaga e ha dato più di una versione. Ma resta il disagio di fondo: amministrare una metropoli è un'impresa temeraria, esposta a mille insidie e mille verifiche. Cosi, magari a ragione, anche il sindaco 5 Stelle si iscrive al partito di quelli che hanno fatto qualcosa senza sapere di farlo.

Onesti ma non troppo. Alessandro Sallusti, Giovedì 09/05/2019, su Il Giornale. Conte licenzia Siri, Salvini, dopo tanto minacciare, incassa muto e Di Maio gongola. Dice il leader dei Cinque Stelle: «È la vittoria dell'onestà». Ma chi è lui per distribuire patenti di onestà prima che una sentenza definitiva abbia fatto chiarezza e giustizia (non tutte le fanno, ma un punto fermo ci vuole)? Domande a Di Maio: suo padre, raggiunto da un avviso di garanzia per reati ambientali, è onesto? Papà Di Battista, che non paga i dipendenti, è onesto? La Raggi, finita a processo, e assolta, per abuso d'ufficio e falso, era da considerare onesta quando ricevette l'avviso di garanzia? La sindaca di Torino, Chiara Appendino, a processo per omicidio, lesioni e disastro colposo oltre che per falso ideologico, è, secondo lui, nella categoria degli onesti? È stato onesto, secondo il loro punto di vista, non impedire alla magistratura di indagare su Matteo Salvini per il caso Diciotti? L'onestà è materia pericolosa, da maneggiare con cura, financo Gesù ci andava molto cauto. Usarla a intermittenza, secondo le convenienze politiche e personali, è cosa assai disonesta in sé. Per di più, trasformare la democrazia in un tribunale del popolo, come ha fatto ieri il governo, è un fatto grave per la società, più delle eventuali malefatte dei malandrini che, come dimostra la cronaca, sono sempre in agguato. Lo fanno i politici, di maneggiare l'onesta con disinvoltura, ma anche i magistrati non sono da meno. È stato per esempio disonesto gettare il governatore della Lombardia, Attilio Fontana - uomo sulla cui onestà ci scommetto - dentro l'inchiesta su presunte tangenti nel campo della gestione dei rifiuti. I fatti che gli vengono contestati - l'assunzione a undicimila euro l'anno di un suo socio di studio con il quale ha sempre condiviso l'attività politica - non solo non appaiono come un reato, ma non c'entrano nulla con le tangenti e i malaffari infamanti al centro dell'indagine. Purtroppo questa è l'Italia, i politici fanno i giudici e i giudici fanno politica. La rivoluzione promessa da Salvini non si è avverata e anche lui ha dovuto battere in ritirata. Per fortuna, dopo i fatti di ieri, è praticamente certo: presto si ritirerà anche questo governo.

CINQUE STELLE CADENTI. Emanuele Buzzi per il “Corriere della Sera” l'1 maggio 2019. Un crollo drastico. La votazione sul programma per le Europee dei Cinque Stelle - complice anche la data, in mezzo a ferie pasquali e ponti - ha visto la partecipazione di poco più di 14 mila iscritti, uno tra i dati più bassi fatti registrare dalla piattaforma. Stavolta non era un voto dirimente, ma serviva solo per decidere la priorità dei temi secondo gli attivisti. A ricevere più click è stata la lotta all' evasione fiscale. Ha infatti ricevuto 9.433 voti il capitolo del programma su: «Le multinazionali che lavorano in Italia devono pagare le tasse in Italia: stop ai paradisi fiscali e armonizzazione fiscale». I 14 mila votanti, però, sono il punto più basso del percorso di partecipazione nella campagna pentastellata per le Europee. I due turni per la formazione delle liste avevano visto rispettivamente oltre 37 mila e 32 mila votanti. La ratifica delle cinque capolista era stata accolta più freddamente, con poco più di 20 mila votanti. Un calo che nei commenti al post è stato accompagnato anche da qualche spunto pessimista. Solo pochi mesi fa - seppur per un caso totalmente diverso, quello del voto sul caso Diciotti - i militanti che avevano preso parte alla consultazione erano stati 52 mila. A preoccupare, però, è anche il radicamento nel territorio del Movimento, suffragato dai dati (ancora parziali, dato che in Sardegna si voterà a giugno) sulle liste presentate per le Amministrative: 306 candidati sindaco su 3.856 città al voto. Un numero - uno su 13 - che evidenzia come il Movimento stia faticando a creare una rete locale. E fa tornare in scena la discussione sulle novità strutturali (compreso il rapporto con le liste civiche, che sarà trattato anche in una assemblea delle liste sarde). «Dove non siamo pronti dobbiamo smetterla di presentarci», aveva detto Luigi Di Maio annunciando i cambiamenti. Ma i numeri radiografano una involuzione. Nel 2014, cinque anni fa, il Movimento si presentò in 578 Comuni. Ora, le liste sono dimezzate. E il Piemonte diventa un caso: finora sono solo 22 i Comuni (su 829 al voto) che avranno sulla scheda elettorale un candidato Cinque Stelle. Proprio in una tornata che comprende non solo le Europee, ma anche le Regionali. «Alle Comunali non siamo mai stati presenti in modo capillare», si limita a commentare un pentastellato. L' Associazione Rousseau ha pubblicato sul sito l' elenco dei donatori (con nome e cognome), compresi quelli che hanno versato anche cifre inferiori ai 500 euro. All' appello figurano tutti i principali big eletti in Parlamento e anche chi, come Sara Cunial, è stata appena allontanata dal gruppo a Montecitorio. Mancano, invece, diversi parlamentari Cinque Stelle nel registro delle rendicontazioni di deputati e senatori (riferite sempre ai mesi tra gennaio e marzo). Tra i donatori, svetta il deputato molisano Antonio Federico, con oltre 13 mila euro «restituiti» nel corso del 2019.

·         Rousseau: "Il voto è manipolabile".

Nicola Biondo per linkiesta.it il 4 dicembre 2019. Ricordate lo scandalo che ha travolto Facebook e Cambridge Analytica, 87 milioni di profili su Facebook utilizzati per sponsorizzare la candidatura di Donald Trump e la campagna pro-Brexit? Non è successo solo negli Stati Uniti e nel Regno Unito, ma anche qui in Italia. Anzi, quel metodo è stato testato per la prima volta nel nostro paese. Ad aver anticipato i metodi di Cambridge Analytica è stata Casaleggio Associati, la srl milanese che ha fondato e gestito fino al 2016 il Movimento Cinque stelle. Ad accorgersene è stato Marco Canestrari, ad oggi il primo e unico whistleblower dell’azienda-partito, attualmente programmatore informatico a Londra. Era il febbraio 2013 quando sul blog di Beppe Grillo gestito dall’azienda milanese viene dato l'annuncio del rilascio di un’app per sostenere la campagna elettorale del Movimento. «Tu puoi fare molto per restituire l'Italia ai suoi cittadini. Lo puoi fare diffondendo le idee e il programma del MoVimento 5 Stelle. Diventa Attivista 5 Stelle. Se hai un profilo Facebook puoi iniziare subito». Era il manuale del perfetto grillino, bastava accedere all'applicazione Facebook dal blog, accettare le condizioni e l'utente poteva aggiungere il logo ufficiale alla sua foto profilo, promuovere lo Tsunami Tour, diffondere il programma e appoggiare i candidati del M5s. E ovviamente raccogliere fondi. Solo che quella chiamata alle armi celava un inganno, una gigantesca cessione di dati personali. Consentire l’accesso al proprio profilo a quell’app, e accettare le condizioni, significava però fornire in automatico le proprie informazioni base del profilo Facebook, dall'indirizzo e-mail fino al proprio luogo di nascita, quello di residenza e l’orientamento politico e religioso. Richiedere tutti questi dati è il primo passo di una potenziale e gigantesca profilazione di massa di cittadini comuni e anche dei futuri parlamentari che di lì a poche settimane il Movimento avrebbe messo in lista e poi eletto. Un’operazione simile sarà ripetuta anche nel 2014, in occasione delle elezioni europee. Secondo Canestrari, «l’app consentiva agli amministratori di Casaleggio Associati una serie di operazioni. Tra cui monitorare le attività dell’utente attivista: infatti c'era una sorta di concorso, i più attivi sarebbero stati premiati con una cena con Grillo». Canestrari spiega che «l’app non è più attiva, ma web Archive conserva le informazioni che permettono di risalire ai permessi richiesti da Casaleggio Associati». Questa è la pagina recuperata. Casaleggio scelse di richiedere il maggior numero di permessi, ossia di dati, anche quelli non pertinenti all'attività politica. Ma non solo: esattamente come è successo con Cambridge Analytica, la srl milanese ha potuto ottenere pressoché ogni dato disponibile non solo sugli attivisti che avevano scaricato l’app, ma anche sui loro amici di Facebook, quindi chiunque avesse avuto tra gli amici un attivista del movimento che si era scaricato l’app potrebbe aver subito un accesso ai propri dati da parte della Casaleggio. Una stima delle intrusioni è impossibile, ma si tratterebbe di una delle più ampie operazioni di raccolta di dati personali mai avvenuta in Italia. Un patrimonio inestimabile sia dal punto di vista del marketing politico che commerciale. Ad aver gestito l’intera operazione era Casaleggio Associati come responsabile dei dati per conto di Beppe Grillo, mentre Pietro Dettori si occupava del funzionamento dell’applicazione Facebook secondo il ricordo di alcuni ex-dipendenti. Oggi Dettori è socio di Rousseau e social media manager di Luigi Di Maio. Rimangono aperti molti interrogativi. Quante sono le persone profilate da Casaleggio Associati e che fine hanno fatto i dati raccolti? Era legale? Questi dati sono stati ceduti per fini commerciali? E a chi? L’operazione è stata replicata anche nel 2014 (qui il link) e nel 2018, in occasione delle due tornate elettorali europee e nazionali, anche qui attraverso un’app di Facebook, ospitata sul sito di Luigi Di Maio, ma la piattaforma, secondo Canestrari, «aveva probabilmente già limitato la possibilità di accedere ai dati, proprio in seguito allo scandalo di Cambridge Analytica. Non possiamo sapere - dice l’ex braccio destro di Gianroberto Casaleggio - se li hanno effettivamente scaricati, né che cosa ne abbiano fatto. Bisognerebbe chiedere al Garante se hanno tabelle da poter confrontare, oppure indurlo ad aprire una nuova istruttoria ma credo sia passato troppo tempo». I fatti raccontano che la Cambridge Analytica italiana ha aperto la strada e che altri hanno percorso la via tracciata. Fatti che gettano una nuova luce sugli incontri che i Casaleggio hanno avuto con esponenti di punta della società inglese, della Brexit, come Liz Bilney, e Steve Bannon. Il metodo Casaleggio, dunque, pare sia stato esportato altrove. Quando è scoppiato lo scandalo dei dati sottratti a Facebook da Cambridge Analytica, Davide Casaleggio disse «non ho ancora capito che cosa è successo, mi informerò». Intervistata da Linkiesta, l’ex-analista di Cambridge Analytica Brittany Kaiser ha detto: «So per esperienza diretta che esistono molti dati a disposizione sui comportamenti degli elettori italiani. Dati che i vostri partiti potrebbero comprare senza problemi, se volessero usarli». C’era un filo sottile sull’asse Milano-Londra che doveva rimanere segreto. E che oggi è possibile vedere più chiaramente. Quello che è avvenuto tra Londra e Washington venne testato per la prima volta in Italia. Le cavie eravamo noi.

Mazzilli, ex ingegnere  di Facebook: «Così ho scritto  il nuovo codice di Rousseau». Pubblicato sabato, 19 ottobre 2019 su Corriere.iti da Martina Pennisi. Il 32enne: «Entro fine anno rilasceremo la nuova piattaforma e l’app di voto. Il nostro login potrà essere la chiave d’accesso ad altri servizi legati alla cittadinanza digitale». È passato poco più di un mese da quando Davide Casaleggio ha sbandierato il raggiungimento del «record mondiale di partecipazione a una votazione politica online in un solo giorno» su Rousseau. In realtà, già nel 2017 in Spagna venivano espresse online 155 mila preferenze dagli elettori di Podemos. Più dei 79 mila e rotti che lo scorso 2 settembre hanno dato il benestare al Conte II sul sito su cui danno il loro parere gli iscritti al Movimento 5 Stelle (il paragone con l’Estonia, dove il voto elettronico viene usato nelle elezioni nazionali, regge invece fino a un certo punto). Ma il senso della frase di Casaleggio era chiaro: attacchi hacker, falle, multe e perplessità sull’attendibilità delle decisioni prese sull’asse Associazione Rousseau-Casaleggio Associati-Movimento 5 Stelle non mutano intenzioni e obiettivi del tricefalo pentastellato. Rousseau — intesa come piattaforma — va avanti. E non ha più solo il volto dell’inconsapevole filosofo svizzero ma anche quello di un informatico 32enne. Emanuel Mazzilli, italiano trapiantato in Silicon Valley. Non l’ultimo della fila: nei due anni a Twitter ha lavorato all’applicazione per Android e come software engineer di Facebook si è occupato del flusso di aggiornamenti anche qui nell’app di Android, oltre che dell’implementazione di Messenger Kids. Nel curriculum ha anche la candidatura nel 2018 alla circoscrizione estero per il Movimento 5 Stelle. Enrica Sabatini, socia dell’Associazione Rousseau, ha detto di averlo assoldato, senza però fare il suo nome, in un’intervista al Fatto Quotidiano in cui annunciava una versione open source di Rousseau. Lui si è presentato poche settimane dopo sul palco di Italia a 5 Stelle, suscitando più di una perplessità sul fatto che sia un dipendente o ex dipendente di Facebook a mettere mano a codice e dati della piattaforma usata dagli iscritti a uno dei due partiti al governo. Lo abbiamo contattato per provare a chiarire questi punti e capire a cosa stia lavorando. Ci ha risposto per iscritto.

Emanuel MazzilliLei è un dipendente Facebook?

«Da ingegnere informatico ho lavorato per diversi anni nella Silicon Valley per numerose aziende tra le quali alcuni colossi come Twitter e Facebook. In particolare sono stato nel team di Facebook a Menlo Park in California, dove mi sono occupato dello sviluppo dell’app di Android che al momento conta oltre un miliardo di utenti, poi il 26 novembre 2018 ho lasciato tutto per provare a lanciarmi in questa nuova avventura».

Il 6 luglio 2019 ha però tenuto un corso di Facebook Marketing Engineering.

«Come già detto, non ero più dipendente di Facebook. A luglio 2019 mi è stato chiesto di tenere alcune lezioni all’interno di un master in Marketing organizzato da Digital Combat Academy. Ma si tratta di una società che non ha alcuna relazione con Facebook».

Ha iniziato a sviluppare la nuova piattaforma Rousseau quando era ancora in Facebook?  

«No. Come ho già detto, ho lasciato Facebook per lanciarmi in questa nuova e stimolante avventura. Non ci sono sovrapposizioni».

Come è iniziato il suo rapporto con il Movimento e con l’Associazione Rousseau?

«Mi sono iscritto al Movimento 5 Stelle nel maggio 2012, una settimana prima di emigrare negli Stati Uniti. In questi anni sono stato attivo nel meetup estero. Ho conosciuto Davide (Casaleggio, ndr) nel 2018 ed ho capito che avevamo una visione comune su come la tecnologia stava rivoluzionando la politica e su come Rousseau avrebbe potuto avere un ruolo da protagonista in questo ambito».

Adesso è un dipendente dell’Associazione Rousseau?

«Ho messo a disposizione le mie competenze professionali dalla fine dello scorso anno per un tempo limitato di dieci mesi in cui dovevamo creare un sistema di voto scalabile pronto ad accogliere un milione di persone, riscrivere da zero tutte e 14 le funzioni esistenti e sbloccare la crescita utente con un sistema più efficiente. Ora sto transitando al ruolo di advisor che mi consentirà di coordinare il team di sviluppo che abbiamo costruito in questi mesi e che dovrà affrontare nuovi ed ambiziosi obiettivi sempre con lo stesso fine: aumentare l’impatto dei cittadini sulla vita politica».

Come sta agendo, in concreto?

«Come detto sono il responsabile dell’area sviluppo della nuova piattaforma che è stata riscritta da zero. Per quanto riguarda la app, invece, rientra in un progetto di apertura ulteriore di Rousseau che sto coordinando in prima persona e che si chiama “Rousseau Open Engineering”: in sostanza abbiamo lanciato una call pubblica per professionisti It, sviluppatori e grafici, invitandoli a partecipare alla scrittura in crowdsourcing (condivisione) del codice della nuova applicazione mobile che sarà compatibile con smartphone e smart Tv. Ad oggi ci hanno già risposto 71 programmatori e 19 designer».

Con quante persone sta lavorando e da dove?

«Tra risorse interne ed esterne ho coordinato 14 sviluppatori a vario titolo. Oltre a questi, abbiamo lavorato con Enrica Sabatini e altri professionisti provenienti da settori trasversali, per creare un prodotto che fosse comprensivo di tutte le sensibilità necessarie. Durante gli anni a Facebook e Twitter ho lavorato su piattaforme usate da miliardi di persone diverse: dal piccolo artigiano che usa i social network per promuovere la propria attività fino ai capi di Governo che affidano allo stesso strumento annunci determinanti per l’intero mercato mondiale. Ho provato a esportare questa esperienza in Rousseau dove queste molteplici entità possono e devono dialogare affinché la direzione politica sia costruita in maniera condivisa da tutti e ognuno abbia voce per il contributo che può dare. Per il ruolo di advisor è molto più probabile che continuerò in futuro a collaborare principalmente da San Francisco».

Parliamo di tempi.

«Abbiamo sviluppato la nuova piattaforma e siamo entrati nella fase di beta testing. Il nostro obiettivo è ambizioso: vogliamo mettere la collaborazione nell’infrastruttura. Nei prossimi mesi accoglieremo le indicazioni degli iscritti che si sono resi disponibili come beta tester per modellare la piattaforma intorno all’utente. Accedendo alla piattaforma in anteprima, questi iscritti potranno dare i loro feedback in termini di criticità, ma anche di suggerimenti per funzioni future. Quanto più i cittadini collaboreranno, tanto più la piattaforma risponderà alle esigenze di tutti. Entro fine anno rilasceremo per tutti la nuova piattaforma e l’app di voto».

Cosa dobbiamo aspettarci?

«Oltre a quanto già detto, c’è molto di più. Abbiamo, infatti, progettato il login di Rousseau in modo che possa essere usato per accedere ad altri siti. Tecnicamente questa caratteristica si chiama Single Sign On. Così come quando vi iscrivete a Netflix o Spotify potete utilizzare la vostra identità Facebook, così l’identità Rousseau (sempre certificata con documento) potrà essere la chiave d’accesso ad altri strumenti e servizi legati alla cittadinanza digitale».

Come giudica l’operato di Rousseau fino a oggi? Definirebbe validi i risultati emersi?

«Credo che il risultato sia stato straordinario. In poco tempo, abbiamo aumentato di circa il 50 per cento gli utenti certificati. A oggi Rousseau conta 154.258 utenti certificati e 124.010 aventi diritto al voto. Abbiamo stabilito il record mondiale di votanti online in un solo giorno (79.634) e creato un’infrastruttura solida che il 3 settembre ha gestito, migliaia di connessioni al secondo. Le faccio un esempio: solo nelle prime due ore abbiamo registrato 36 mila operazioni di voto».

Anche a livello tecnico, se chi organizza il voto controlla anche la base dei dati il risultato in che modo può essere considerato attendibile?

«Abbiamo un log puntuale degli accessi alle macchine e ai database: qualsiasi cosa facciamo sulle nostre macchine viene registrata. Questo sistema è stato implementato da una società esterna specializzata in infrastruttura e consente di verificare, solo per fare alcuni esempi, che non ci siano accessi durante le operazioni di voto, né manomissione dei log. Tutto viene poi validato e certificato con atto notarile per il quale, come sa meglio di me, ogni dichiarazione mendace determinerebbe pesanti conseguenze penali».

Sulla nuova piattaforma cambierà qualcosa sulle validazioni del voto? Ci sarà sempre una società esterna specializzata e senza alcun legame con l’associazione Rousseau, a differenza da quanto accaduto in passato?

«Ogni votazione su Rousseau è stata validata da enti terzi che siano il notaio o una società esterna. Nel tempo abbiamo raffinato sempre di più questo processo e il nostro obiettivo è arrivare ad un sistema di certificazione del voto basato su blockchain».

Come ha lavorato per superare le criticità evidenziate dal Garante per la privacy che hanno portato alla multa di aprile da 50mila euro?

«Abbiamo riscritto tutto da zero anche soddisfacendo tutte le richieste e i suggerimenti del Garante. La multa di aprile, lo ribadisco, si riferiva ad un accertamento avvenuto nel 2018 su una piattaforma di voto che non è più in uso e che, tra l’altro si riferiva anche a motivi procedurali come non aver inserito il nome della società di hosting nella pagina privacy. Siamo riusciti così a progettare e sviluppare una nuova infrastruttura che non presenta più quelle criticità, ma che è anzi allo stato dell’arte in termini di sicurezza, privacy e robustezza».

Ritiene, in generale, che il voto elettronico possa soppiantare quello tradizionale?

«Il voto elettronico è già realtà in altri paesi come l’Estonia. In Italia manca la base del voto elettronico, che è l’identità digitale per diritto di nascita. Implementata quella ed estesa a tutti gli ambiti della vita dei cittadini, non sarà impensabile transitare al voto elettronico. Quando leggo delle scetticismo generale in materia sorrido, perché rivedo le stesse identiche perplessità che hanno accompagnato qualsiasi miglioramento tecnologico. Esperimenti come il nostro sono pionieri nel settore. Siamo stati quelli che in mezzo ad un coro disfattista di “non si può fare” si sono alzati e l’hanno fatto».

Si è candidato nel 2018 da San Francisco, ha programma di candidarsi nuovamente?

«Al momento non ho in programma di candidarmi nuovamente».

ROUSSEAU, PIATTAFORMA D’AFFARI? Liberoquotidiano.it il 9 settembre 2019. "Perché Davide Casaleggio che era orientato come il padre Gianroberto sul 'mai col Pd' ha cambiato idea all'ultimo istante? Qual è il vero motivo? Se non ci poniamo questa domanda non capiremo". Il giornalista de La Stampa Jacopo Iacoboni, in collegamento con Alessandra Sardoni a Omnibus su La7, solleva alcuni interrogativi sull'improvviso cambio di rotta di Casaleggio rispetto alla trattativa con Nicola Zingaretti: "E' inquietante e strano che l'elemento apicale della trattativa, quindi Casaleggio, è sottratto a qualsiasi scrutinio dell'opinione pubblica". Quindi Iacoboni invita a riflettere sul ruolo della stampa nei confronti della piattaforma Rousseau: "E' necessario vigilare sul business di Davide Casaleggio. Non parlo solo dei contributi del M5s, ma sui termini dei suoi affari. Chi sono le aziende fornitrici? Ci sono aziende extra-italiane con cui lavora? Ci sono interessi cinesi?".

Rousseau, il risultato del voto sulla piattaforma del Movimento 5 Stelle. Pubblicato martedì, 03 settembre 2019 da Corriere.it. Gli iscritti al Movimento 5 Stelle hanno dato il loro parere sulla piattaforma Rousseau sul governo guidato da Giuseppe Conte e basato sull’accordo fra il M5S e il Partito democratico: il 79 per cento dei 79.634 votanti ha detto sì alla formazione del nuovo esecutivo. Il risultato è arrivato un’ora e 26 minuti dopo la chiusura delle urne digitali. «Io credo che dobbiamo essere molto orgogliosi che tutto il mondo ha aspettato la pronuncia di questi 80 mila cittadini italiani su una piattaforma digitale che è unicum al mondo», ha commentato Luigi Di Maio in conferenza stampa alla Camera. Ora c’è da percorrere, ha ricordato il leader 5 Stelle, «l’ultimo miglio per la squadra di governo». Questa mattina, il Blog delle Stelle ha accompagnato l’avvio della consultazione online con una «bozza di lavoro» che il premier incaricato «sta integrando e definendo». La bozza, leggibile sul Blog 5 Stelle, è intitolata «Linee di indirizzo programmatico per la formazione del nuovo governo» ed elenca 26 punti. Tra questi, la «neutralizzazione dell’aumento dell’Iva», la «riduzione delle tasse sul lavoro», la «protezione dell’ambiente nel sistema costituzionale», «con la nuova Commissione Ue rilanciare investimenti e margini di flessibilità», la «riduzione del numero dei parlamentari», riformare il sistema giustizia e l’elezione del Csm, «combattere l’evasione fiscale», «completare il processo di autonomia differenziata giusta e cooperativa», tutelare i risparmiatori e il risparmio, «introdurre la web tax per le multinazionali che spostano i profitti», «rendere Roma una capitale sempre più attraente e vivibile». 

Liberoquotidiano.it il 3 settembre 2019. In attesa del risultato delle votazioni degli iscritti alla piattaforma Rousseau sul governo giallo-rosso, Ferruccio De Bortoli scrive in un lapidario post pubblicato sul suo profilo twitter che questo è "uno dei giorni più bui della nostra democrazia rappresentativa". Saranno infatti 115mila persone a determinare il futuro di questo Paese e non le elezioni politiche, come dovrebbe avvenire in una democrazia vera. I votanti grillini decideranno quindi se ci sarà un Conte bis e un esecutivo a guida Movimento 5 Stelle-Partito democratico.

Il voto su Rousseau: una violenza alla Costituzione. Antonello de Gennaro su Il Corriere del Giorno il 2 Settembre 2019. Tutti gli improvvisati giuristi e costituzionalisti grillini possono gentilmente spiegarci in quale passaggio della nostra legge elettorale, della legge istitutiva parlamentare, della nostra tanto richiamata Costituzione, che viene continuamente calpestata da un comico, ed un branco di ex-disoccupati privi di alcuna competenza specifica e tantomeno politica, si parla del voto su Rousseau? Soltanto in Italia si poteva consentire ad un’associazione privata come Rousseau che controlla di fatto la vita del Movimento 5 Stelle, non solo di finanziarsi con soldi pubblici donati/trattenuti obbligatoriamente dagli stipendi degli eletti del 5 Stelle, ma persino di voler condizionare la vita pubblica e politica, calpestando il dettato costituzionale, subordinandola ad un voto online privo di alcun controllo certificato, e che è stato già hackerato ripetutamente e per questo sanzionato ben due volte dal Garante della Privacy, per illecito trattamento dei personali. La storia dei voti sulla piattaforma Rousseau racconta che dei circa 115mila  iscritti alla piattaforma, che quindi rappresentano appena l’1 per cento dell’elettorato del M5S alle ultime Politiche, in realtà in media ne votano molto meno. Ad esempio al quesito sul mandato zero, il 25 e il 26 luglio scorsi, hanno risposto appena in 25 mila. Di poco più alta la partecipazione alle “Europarlamentarie” (primo turno, 31 marzo 2019: 37.256 votanti; secondo turno 4 aprile 2019: 32.240). Il massimo dei votanti sulla piattaforma “controllata” di fatto da Davide Casaleggio, si è raggiunto nella consultazione del 18 febbraio 2019 sul “caso Diciotti“, che coinvolgeva l’alleato di governo Matteo Salvini: a votare furono in 52.417. Per concludere il voto del 3 febbraio 2018 per le “Parlamentarie”  quando a votare furono in 39.991. Per  votare sull’alleanza fra M5s e Lega, il 18 maggio 2018, i votanti furono 44.769. Per Sabino Cassese “non si gioca con la democrazia”, per Cesare Mirabelli “così la democrazia rappresentativa va a mare”, per Giovanni Maria Flick “il voto su Rousseau è contro la Costituzione”. È un giudizio netto e molto critico quello di due presidenti emeriti della Corte Costituzionale e di un costituzionalista sul ricorso al voto online per gli iscritti al M5S per decidere se dar vita al governo con il Partito Democratico. Domani dalle 9 alle 18 i (presunti) 115.372 aventi diritto al voto sulla piattaforma Rousseau sono stati chiamati  a esprimere il proprio voto sull’alleanza con il Pd per un nuovo governo guidato da Giuseppe Conte. Il quesito a cui potranno rispondere gli iscritti è: “Sei d’accordo che il MoVimento 5 Stelle faccia partire un Governo, insieme al Partito Democratico, presieduto da Giuseppe Conte?“. La domanda questa volta è ben più esplicita e chiara di quanto era successo il 18 maggio 2018, quando il quesito che avrebbe portato al governo con Matteo Salvini, non veniva mai citava esplicitamente la Lega, bensì si chiedeva solo l’approvazione del “contratto del governo del cambiamento“. La domanda legittima da porsi è molto semplice e chiara : come si può affidare ai presunti circa 115 mila iscritti di decidere via internet e senza alcuna garanzia od organismo terzo di controllo qualificato, sul voto elettronico,  al posto di 10milioni e 700 mila elettori che nel 2018 hanno votato per il M5S ? E questa sarebbe democrazia ? Tutti gli improvvisati giuristi e costituzionalisti grillini possono gentilmente spiegarci in quale passaggio della nostra legge elettorale, della legge istitutiva parlamentare, della nostra tanto richiamata Costituzione, che viene continuamente calpestata da un comico, ed un branco di ex-disoccupati privi di alcuna competenza specifica e tantomeno politica? In un video odierno su Facebook  l’ex-venditore di bibite allo Stadio San Paolo, ha annunciato la sua rinuncia alla carica di vicepremier nel Conte Bis, facendo finta che tale decisione fosse la sua, quando invece la verità è che ormai è stato scaricato dai suoi “controllori-datori di lavoro”(leggasi: Casaleggio & Associati e Beppe Grillo). Come si fa a non ridere quando Di Maio dice ” Conte è un premier super-partes” quando invece è palesemente di parte schierato politicamente con il M5S. Saremmo curiosi di sapere dov’è finito il rito delle “graticole” dei meet-point di Grillo, dov’è finita la legenda (ormai una barzelletta) dell’ “uno vale uno”, come mai i grillini che si dichiaravano nemici del “sistema della politica” , delle auto blu, delle poltrone, che andavano a fare le consultazioni a Palazzo Chigi con Renzi e Bersani con i tablet collegati in streaming, adesso hanno perso usi, costumi, abitudini e principi di vita ? Da dove nasce, se non dal manuale Cencelli il concesso espresso (sempre da Di Maio n.d.a.) “se ci fosse stato un vicepremier Pd era giusto che ci fosse un vice M5S. Il Pd ci ha ripensato e ha rinunciato ad avere un suo vicepremier, per cui il problema ora non esiste più”. Di Maio ha mentito ben sapendo di mentire, quando ha detto  che “avevamo due strade, o tornare al voto o verificare se c’era un’altra maggioranza. Tornando al voto ci saremmo ritrovati nella stessa situazione di oggi, la destra ci diceva che eravamo di sinistra, e viceversa, ma noi siamo post-ideologici”. L’unica speranza è che qualunque Governo, sia capace di governare il Paese, insieme ad una serie di riforme fondamentali, come quella sul lavoro (che cancelli l’inutile reddito di cittadinanza), sull’economia, sulla giustizia, si sbrighi a fare una nuova legge elettorale che escluda i listini “bloccati” riservati ai nominati ( o meglio ai servi sciocchi) di questo o quel leader di partito o di corrente, e che riporti il voto del cittadino al centro delle elezioni. Il voto va meritato sulla base delle capacità, delle competenze, della moralità, della coerenza, e non pilotato come sinora accaduto. Da questo punto di vista, si stava molto meglio nella 1a Repubblica, quando la politica era riservata a persone capaci di farla, con un ‘esperienza maturata nei decenni, e sopratutto al servizio dei cittadini, che altrimenti non li votavano, eleggendolo o rieleggendoli in Parlamento. In nome del popolo “sovrano”. Non a caso l’articolo 1 della nostra Costituzione dice che “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.”. Dovrebbero rileggerla in molti, anzi in tanti. A partire da chi ci governa.

Rousseau, la vera ragione del ritardo? Soldi, altro che la "democrazia diretta" del M5s. Libero Quotidiano. 3 Settembre 2019. È il denaro, bellezza. Il risultato del voto sulla piattaforma Rousseau si è fatto attendere più del previsto. Molto più del previsto. Il M5s avrebbe dovuto rivelarlo poco dopo le 18, pochi minuti dopo la chiusura delle urne virtuali. E invece l'attesa si è protratta quasi fino alle 19. Poi la certificazione dell'inciucio col Pd, indicato da quasi l'80% degli aventi diritto sulla piattaforma digitale. Un "plebiscito", come ha detto Luigi Di Maio, il quale poi ha ancora sparato ad alzo zero contro Matteo Salvini. Immediata la risposta del leghista: "Mai col Pd. Non potrete scappare dal voto in eterno". Ma, si diceva: è il denaro, bellezza. Ci si riferisce al lungo ritardo nella comunicazione dei risultati. Nell'attesa, fiorivano le più disparate teorie: brogli, incursioni nel sistema, Enrico Mentana affacciava il sospetto di un attacco hacker all'ultimo respiro, problemi tecnici di varia natura, imbarazzo nel comunicare quel che era accaduto. E invece no. È il denaro, bellezza. Probabilmente il ritardo non era dovuto a nessuna delle ragioni elencate qui sopra. Ma al denaro, appunto. Perché mai? Perché il risultato, il M5s, voleva veicolarlo per la prima comunicazione sul Blog delle Stelle, il sito di riferimento dei grillini e della Casaleggio Associati. E così è stato. Soltanto dopo la pubblicazione del risultato sul blog hanno preso la parola prima Luigi Di Maio, dunque il notaio Tacchini, infine Davide Casaleggio. Il ritardo, insomma, con discreta approssimazione era dovuto al fatto che il blog, a causa dell'enorme numero di accessi simultanei, era andato in crash. Era irraggiungibile e non aggiornabile. E - crash o non crash - di accessi il Blog delle Stelle ne ha registrati tanti. Anzi, tantissimi. E gli accessi significano denaro, introiti pubblicitari. È il denaro bellezza. Insomma, un'ora e mezza di ritardo probabilmente per... ragioni pubblicitarie. Eccola, la "democrazia diretta" con cui si riempiono la bocca Di Maio, Casaleggio e compagnia cantante. Altro che democrazia diretta: business. Una vicenda grottesca, da barzelletta, con l'Italia in attesa per un'ora e mezza perché un blog era in crash, quando con assoluta probabilità il risultato nel M5s era già noto, ma non riuscivano a "caricarlo" sul sito perché, semplicemente, non funzionava più. Roba da barzelletta. Il perfetto prologo per un governo spaventoso, quello che si può considerare senza troppa paura di sbagliare il più a sinistra che la nostra Repubblica abbia mai avuto.

Francesco Storace smonta Rousseau: "Ho votato, ecco le password". Libero Quotidiano il 3 Settembre 2019. Uno sfotto alla pagliacciata grillina o la prova del fatto che la pagliacciata grillina è anche vulnerabile? Si parla del voto sulla fantomatica piattaforma Rousseau in corso oggi, martedì 3 settembre, con cui gli iscritti grillini sceglieranno se far nascere, o meno, il governo con il Pd. E Francesco Storace, su Twitter, comunica: "È stato facilissimo votare no al governo sulla piattaforma Rousseau", dunque allega uno screenshot (senza però il nome del votante) che mostra come il voto sarebbe stato registrato. A stretto giro di posta, sempre Storace svela la password per accedere alla piattaforma, e qu siamo sicuramente allo sfottò: sarebbe "B1BB14N0", ovvero Bibbiano.

MA QUALE ''CERTIFICAZIONE'' DI ROUSSEAU! Dagospia il 4 settembre 2019. Thread su Rousseau di Luciano Capone, giornalista del ''Foglio'', su Twitter il 3 settembre 2019. Il paese, i cittadini e le istituzioni sono in attesa del voto su Rousseau. È una cosa maledettamente seria soprattutto perché Rousseau non è affatto una cosa seria. Parliamo ad esempio del fatto che secondo Davide Casaleggio e il M5s il "voto è certificato". Che vuol dire? Partiamo dalla conclusione: è una balla, il voto su Rousseau non è certificato. Non c'è alcun controllo su correttezza e regolarità del processo da parte di un ente terzo. Anzi, gli accertamenti del Garante della Privacy confermano che il voto è manipolabile e non è segreto. Cosa intende Casaleggio quando dice che un notaio "certifica"? "Io certifico solo il numero di voti", dice il notaio Valerio Tacchini. Significa che il notaio assicura che i risultati finali che escono dai pc dell'associazione Rousseau sono gli stessi comunicati al pubblico. Ma il notaio Tacchini non ha alcuna competenza né gli strumenti tecnici per verificare che il processo elettorale è stato regolare, che la votazione non è stata manipolata dall'interno, che non ci sono state intrusioni dall'esterno, che il voto degli iscritti è riservato. È come se il notaio certificasse che il polpettone che esce dal forno del ristorante è lo stesso che viene servito a tavola, ma non dice nulla su come è stato cucinato: se c'è carne avariata o umana e se i cuochi ci hanno sputato o fatto pipì dentro, il notaio non ce lo dice. Ecco, tutto questo (carne avariata e pipì nel polpettone) con Rousseau può accadere. Lo dice il Garante per la Privacy: "L'assenza di adeguate procedure di auditing informatico... non consente di garantire l’integrità, l’autenticità e la segretezza delle espressioni di voto". E ancora: "La regolarità delle operazioni di voto è affidata alla correttezza personale e deontologica degli incaricati di queste funzioni tecniche... cui si aggiunge la certezza che le attività compiute non potranno essere oggetto di successiva verifica da parte di terzi". Il Garante parla pure del notaio: "Sussistono forti perplessità sul significato da attribuire al termine “certificazione” riferito all’intervento di un notaio o di altro soggetto di fiducia in una fase successiva alle operazioni di voto, con lo scopo di asseverarne gli esiti". Perché, come si diceva, "poco può aggiungere sulla genuinità dei risultati" visto che i dati su Rousseau "sono, per loro natura e modalità di trattamento, tecnicamente alterabili in pressoché ogni fase del procedimento di votazione e scrutinio antecedente la “certificazione”". Aggiungiamo qualche nota personale sul notaio. Valerio Tacchini non è per nulla "terzo" o super partes. È un amico personale di Casaleggio, già candidato non eletto del M5s al Senato e ora consulente del ministero dei Beni culturali, che segue tutte le faccende del movimento. Tacchini è pure il notaio davanti al quale il 20 dicembre 2017 Davide Casaleggio e Luigi Di Maio hanno costituito (per la terza volta) il M5s (ci sono altri due “Movimento 5 stelle”) riscrivendo la storia e diventando così fondatori di un partito già fondato. Quindi non solo Tacchini non ha alcuna competenza per "certificare" il voto, ma non può neppure essere considerato "terzo" per i suoi legami con il vertice del partito. Insomma, il voto su Rousseau è una boiata pazzesca ed è triste che l'Italia sia in attesa del suo responso.

Jacopo Iacoboni: Ieri Davide Casaleggio ha detto che il voto è stato certificato da una società terza. Beh, ehm, forse meglio dire da una società seconda, fornitore dell’associazione Rousseau? Rousseau, voto certificato dalla stessa società che ha progettato la piattaforma M5S e il voto su Rousseau: si profila una nuova polemica. Perché l’ente terzo di Rousseau in realtà non è terzo ma lavora per l’associazione stessa. Facciamo un passo...ilmessaggero.it

Dal profilo Twitter di Jacopo Iacoboni il 5 settembre 2019. Ieri Davide Casaleggio ha detto che il voto è stato certificato da una società terza. Beh, ehm, forse meglio dire da una società seconda, fornitore dell’associazione Rousseau? Cosa significa? Semplice. La Sighup srl, società che certifica il voto, è la stessa che, come dice il suo presidente, ha progettato la piattaforma e fa parte del team che la mantiene “perché abbiamo il compito di fare lo screening”.. Come dice Canestrari, è ridicolo. In tutto questo è stato ripetutamente è facilmente concesso, a Casaleggio sul Fatto online e a vari commentatori pro M5S, di ripetere questa narrazione costruita alla Casaleggio anche in prime time tv, davanti a tante persone. Questo scacco fa parte dello scacco della democrazia.

RISPOSTA DI MARCO CANESTRARI: Che non ha certificato “il voto” ma ha riportato alcuni dati di conduzione dell’infrastruttura durante l’orario di quel che chiamano voto. Robetta che si trova nei log.

Rousseau inviolabile? Ecco come “bucarlo”. Daniele Bomistalli su Il Corriere del Giorno il 6 Settembre 2019. Intervista tratta dal sito Medium.com. Un consulente NATO per l’intelligence militare (di 29 anni) vi spiega perché il voto online è davvero pericoloso. Ogni produttore o fornitore di servizi online giurerebbe sulla sicurezza informatica dei propri sistemi ma, sfortunatamente, non è cosi. Da Rousseau proclami del genere ne sono sempre arrivati, anche quando la situazione era chiaramente più critica di quella attuale. Il voto su Rousseau sarà fondamentale per ratificare la nascita del nuovo governo Conte oppure per decretarne la fine prima dell’inizio. Ma per gli esperti ci sono diversi pericoli in agguato. Il primo è quello informatico. Dal Movimento assicurano che la piattaforma è inviolabile. Ma è davvero così? Ho intervistato Gianni Cuozzo, esperto di “cybersecurity”. A soli 29 anni è consulente per l’intelligence militare di diversi Paesi Nato, e fondatore di ben 4 aziende di successo che si occupano di sistemi di attacco e difesa informatica. Gianni Cuozzo, classe 1990, è esperto di cybersecurity e consulente strategico per diversi paesi Nato.

Gianni, ci sono molte polemiche attorno al voto delle prossime ore sulla piattaforma Rousseau. Dal Movimento 5stelle fanno sapere che il sito è sicuro. Ma come stanno davvero le cose? Rousseau è vulnerabile?

"Ogni produttore o fornitore di servizi online giurerebbe sulla sicurezza informatica dei propri sistemi ma, sfortunatamente, non è cosi. Da Rousseau proclami del genere ne sono sempre arrivati, anche quando la situazione era chiaramente più critica di quella attuale. Ne è testimonianza l’operazione dell’agosto 2017 di Luigi Gubello aka “Evariste Gal0is”, che dimostrò come il database utenti non fosse sicuro e come le password policies (la politica per l’utilizzo di password, ndr) dei propri amministratori non fossero esattamente all’ultimo grido. Quell’operazione costò alla Fondazione Rousseau una multa di circa 50.000 euro da parte del Garante della Privacy. Davide Casaleggio, tra l’altro, reagì scompostamente con una querela, invece di ringraziare Gubello per aver sottolineato le falle del sistema. Oggi leggendo il comunicato rilasciato dal Movimento 5 Stelle, rimango colpito da informazioni a dir poco fuorvianti. Al punto 2 del comunicato si bollano come “FAKE NEWS” le preoccupazioni avanzate dagli esperti sulla sicurezza della piattaforma, elencando poi una lista di tecnologie che, a loro dire, dovrebbero rassicurare sugli standard utilizzati. Nel comunicato ad esempio si dice che Keycloak (programma per la gestione del login, ndr) “non è mai stato hackerato”. E’ falso: Keycloak è un software open-source, cioè con codice sorgente libero e aperto alla contribuzione di terzi, e negli anni ha avuto diversi problemi di sicurezza. Basta cercare su Google “keycloak cve” (Common Vulnerability Exposure) per rendersene conto. Stesso discorso va fatto per le dichiarazioni sull’utilizzo di “moduli e framework per la piattaforma aggiornati”. I sistemi aggiornati sono utili solo contro vulnerabilità o tecniche di exploitation note, questo non significa che il sistema sia sicuro o “immune” bensì che non è facilmente aggredibile (il che è già un bene). Gli amministratori della piattaforma però non devono dormire sugli allori: non sono da escludere attacchi provenienti da altre nazioni volte a gettare benzina sul fuoco in un momento istituzionale delicato come quello che stiamo vivendo. In sintesi, penso si siano fatti buoni passi in avanti per quanto riguarda la sicurezza della piattaforma Rousseau ma rimane comunque vulnerabile ad attacchi più sofisticati e strutturati".

E come si potrebbe riuscire a mettere a segno questi attacchi?

"Sul blog dei 5 stelle si fa riferimento ad un sistema di sicurezza con doppio fattore via SMS (2FA). Esistono diverse tecniche che hanno dimostrato come sia possibile bypassare questa autenticazione a doppio fattore: alcune possono intercettare il codice di autenticazione rendendo vana la misura di sicurezza. Ad esempio esistono tecniche di SIM Swapping per replicare il messaggio che viene inviato via sms: il tutto grazie a delle falle nei protocolli di comunicazione delle celle telefoniche (SS7). Un attacco simile è stato subito da “Coinbase”, la più grande piattaforma per lo scambio di Cryptovalute al mondo, che di sicuro aveva requisiti di standard di sicurezza molto più restringenti e budget molto più alti di quelli della Fondazione Rousseau. Un altro modo per “bucare il sistema”, che potrebbe impedire il voto in toto, risiede nel tracciare l’architettura che genera il codice che viene inviato via SMS e abbattere uno specifico server. Questo impedirebbe agli utenti di ricevere l’SMS per accedere alla piattaforma e quindi far saltare la votazione. Purtroppo la Fondazione non ci dà indicazioni del livello di resilienza dell’intera piattaforma ma, considerando i budget dichiarati, ho ragione di pensare che la sicurezza sia piuttosto limitata e quindi fossi in loro ci andrei piano nel parlare di “immunità della piattaforma Rousseau”".

Quindi il voto per il “progetto di governo” del 3 settembre può essere manipolato dall’esterno?

"Sì. Molti degli attacchi di cui abbiamo parlato sono mirati, quindi non replicabili su vasta scala, ma possono colpire singoli utenti particolari come quelli con privilegi d’amministrazione all’interno della piattaforma. Inoltre esistono tecniche di “elevazione dei privilegi” con le quali, sfruttando degli errori nel codice, si può trasformare un utente semplice in un utente con privilegi d’amministrazione. Da lì tramite tecniche di “escaping” si può passare dalla piattaforma ad attaccare il server nella sua interezza e quindi andare poi a cercare il database ed alterarne i valori. Ovviamente stiamo parlando di attacchi non semplici da eseguire, ma sono possibili. Un’altra via per manipolare l’esito delle votazione risiede nell’attaccare il database in cui questi voti vengono salvati. Ogni volta che un utente effettua una votazione viene popolata una tabella su un database e, per analizzare la votazione, può venir fatta una richiesta alle varie tabelle degli utenti votanti. Se alterate, queste tabelle nel server, possono esporre dati alterati agli stessi amministratori di Rousseau. E nessuno se ne accorgerebbe. Le statistiche ci dicono che circa il 70% di chi subisce un attacco non sa che è sotto attacco o che è stato sotto attacco".

E dall’interno? E’ possibile che in piattaforme del genere sia prevista la modifica degli esiti di una consultazione senza renderne conto agli utenti?

"Assolutamente sì. Dall’interno un amministratore con i giusti livelli di privilegi può, tramite semplici script, sovrascrivere le tabelle dei database a proprio piacimento ed alterare il risultato della votazione. Così quando vengono prodotti i risultati, essendo anonimi, nessuno può rendersi conto della cosa".

Ci sono precedenti che testimoniano come si possa modificare il voto?

"Al Def Con, la più grande conferenza hacker al mondo che si tiene tutti gli anni a Las Vegas, da diversi anni è presente una sezione dedicata all’alterazione dei sistemi di votazione online. L’anno scorso, ad esempio, sono state manomesse le cabine digitali utilizzate nelle ultime votazioni negli Stati Uniti. Quindi sì, è assolutissimamente fattibile e ci sono diversi sospetti che ciò sia accaduto durante alcune votazioni nell’est Europa e in Sud America: sia da apparati statali che da organizzazioni criminali che agivano per conto terzi".

Che capacità e che strumenti deve avere un potenziale attaccante della piattaforma? E’ così difficile?

"Per quanto riguarda gli strumenti, non si ha bisogno di nulla oltre ciò che si può facilmente reperire in internet: basta un pc qualsiasi ed una connessione. Per quanto riguarda operazioni ad alta intensità computazionale, come ad esempio decodificare HASH (Codici che nascondono le password) o generazione di traffico massiccio, vi sono diversi servizi online sia su internet in chiaro, sia nel deep web, che con qualche migliaio di euro possono fornire tutta la potenza necessaria. Quello che cambia molto però è la preparazione dell’hacker, in gergo lo “skill”. Come detto penso che, anche se non perfetta, negli ultimi anni la sicurezza di Rousseau ha fatto passi in avanti, ma ovviamente ciò non la rende immune, bensì più difficile da violare. Del resto tutte le contromisure di sicurezza informatica non mirano a rendere inviolabile un’organizzazione o una piattaforma, ma a rendere più complesso l’eventuale attacco, per far sì che l’equazione costo:target:rischio sia sconveniente. Per quanto riguarda Rousseau però il target è molto appetibile quindi penso che oltre agli “hacker della domenica” ci possano essere strutture ed organizzazioni ben più complesse che abbiano lo skill necessario per compiere operazioni del genere".

Esistono piattaforme veramente inviolabili?

"Assolutamente No. Fino a poco tempo fa si sono sentiti teorici puntare molto sulle votazioni tramite blockchain. Personalmente ritengo anche quell’approccio fallimentare. La blockchain non è necessariamente “anonima” in quanto si basa su registri pubblici che vengono condivisi con tutti gli utenti di una rete e, sebbene questo approccio possa essere anonimizzato, sono culturalmente contrario ad un sistema di votazione basato su registri pubblici. Inoltre, da un punto di vista tecnico, essendo la blockchain basata su registri de-centralizzati su più nodi, l’alterazione di un solo nodo comporterebbe la sincronizzazione dei nodi di tutta la rete, mettendo a repentaglio l’intera catena di sicurezza. E questo è dimostrato anche dai recenti attacchi alla blockchain descritti in un articolo apparso sul MIT Tech Review".

In conclusione, il voto online è da considerarsi una pratica pericolosa?

"Non è ancora giunto il tempo per votazioni di questo tipo online. Finchè non avremo tecnologie di anonimizzazione efficaci e sicure, penso che la cara e vecchia matita debba avere vita lunga. Il voto online è ancora più pericoloso quando poi avviene su una piattaforma chiusa, appartenente prima ad una società privata e poi ad una fondazione privata, di cui non si conosce il codice sorgente, non è possibile vedere gli audit di sicurezza e non se ne conosce con esattezza l’architettura. Consiglio alla Fondazione Rousseau di dare certezze tecniche in tal senso, con documenti e codici sorgenti visionabili e non con proclami da televendita anni ‘90."

Piattaforma Rousseau: cos'è e come funziona il voto. Storia dello strumento di voto del Movimento 5 Stelle. Martedì si decide il futuro del Governo Pd-M5S. Ma, funziona davvero? Barbara Massaro l'1 settembre 2019 su Panorama. Il Movimento propone, la base decide. E' questa la logica che guida l'esperienza politica del Movimento 5 Stelle sin dalla sua fondazione nel 2009. E per far sì che militanti ed elettori possano dire la loro è stata creata la cosiddetta piattaforma Rousseau della quale si è tornato a parlare in questi giorni come colei che avrà l'onore e onere di decidere - grazie al voto degli elettori - il destino ultimo del governo Conte bis. Il voto sul futuro del Governo Pd-M5S è previsto per il 3 settembre, dalle 9 alle 18. Questo il quesito proposto agli iscritti: "Sei d'accordo che il Movimento 5 Stelle faccia partire un Governo insieme al Partito Democratico e presieduto da Giuseppe Conte?"

Cos'è la piattaforma Rousseau. La piattaforma Rousseau altro non è se non un sito internet con un'area riservata cui possono accedere solo gli iscritti che devono identificarsi con account e password e dimostrare di essere tesserati grillini. Entro quest'area è possibile partecipare alle attività del movimento, proporre leggi, fornire punti di vista e soprattutto votare per le decisioni politiche dei 5 stelle. All'interno dello Statuto pentastellato la piattaforma viene definita come "il luogo dove devono obbligatoriamente svolgersi quasi tutte le più importanti votazioni del partito".

A chi appartiene la piattaforma. La piattaforma, però, non è di proprietà del Movimento, ma di una società privata senza scopo di lucro, l’Associazione Rousseau, fondata da Gianroberto Casaleggio e ora controllata da suo figlio Davide insieme a Massimo Bugani, Pietro Dettori e Enrica Sabatini. Nel corso della storia pentastellata la piattaforma di voto è stata usata una settantina di volte sia per scegliere i candidati da presentare nelle varie tornate elettorali sia per questioni più importanti.

Come e per cosa si vota. Dopo il tracollo alle europee, ad esempio, i militanti sono stati invitati a rispondere con un "sì" o con un "no" alla riconferma di Luigi Di Maio nel ruolo di guida politica del M5S (il "sì" ha trionfato con l'80% delle preferenze). A febbraio scorso, invece, i militanti si sono espressi circa l'autorizzazione a procedere nei confronti del ministro Salvini a proposito del caso Diciotti (in questo caso a vincere è stato il "no" con il 60% delle preferenze) e in precedenza sempre Rousseau ha determinato la laurea a capo politico pentastellato dello stesso Luigi Di Maio. In questi giorni se ne è tornato a parlare perché agli elettori (che per accedere a Rousseau devono pagare una quota d'iscrizione oltre che essere tesserati del M5S) verrà chiesto di esprimere il proprio consenso o meno circa le linee programmatiche del governo rosso-giallo in fieri.

Quali sono i problemi della piattaforma Rousseau. Una responsabilità notevole delegata a uno strumento che, però, evidenzia parecchie falle strutturali. In primo luogo perché il numero di iscritti non è noto (Di Maio parla di 100.000, ma non ci sono dati ufficiali depositati agli atti); poi perché le identità dei votanti non sono protette da anonimato e infine perché è stato più volte dimostrato che la piattaforma non è a prova di hacker ( i pirati informatici sono entrati spesso nel portale rendendo pubblici persino i numeri privati dei leader grillini). In questo senso Rousseau è stata anche multata dal Garante della Privacy. Lo scorso marzo è stata chiesta un'ammenda di 50.000 euro in quanto la piattaforma - si leggeva nelle motivazioni - "non garantisce la protezione delle schede elettroniche e l'anonimato dei votanti in tutte le fasi del procedimento elettorale elettronico" e già nel 2018 Rousseau era entrata nel mirino del Garante che aveva chiesto 35.000 euro per uso illecito dei dati personali. 

Chi verifica i voti? Inoltre non esiste una società terza che verifica e computa i voti effettivi e le preferenze indicate, ma solo un anonimo notaio di fiducia del movimento che, ad ogni tornata referendaria verifica l'esito del voto e lo rende pubblico. Manca, quindi, la cosiddetta "certificazione di voto" essenziale per garantire la legittimità dell'espressione popolare anche in caso di democrazia diretta. Tecnicamente, quindi, i voti sarebbero passibili di manomissione. Lo statuto ricorda che la verifica dell’abilitazione a votare e il conteggio dei voti vengono effettuati in maniera automatica, mentre - si legge nel documento - "la regolarità delle consultazioni è certificata da un organismo indipendente, nominato dal Comitato di Garanzia, o da notaio" la cui identità, però, non è mai stata resa pubblica. Non solo: ogni qual volta la base è stata chiamata a esprimersi in maniera massiccia subentrano bug, falle del sistema e black out ritenuti sospetti dagli addetti ai lavori in quanto potrebbero rappresentare una copertura per alterare la volontà espressa dall'elettorato.

Quanti soldi girano intorno a Rousseau. Dietro la piattaforma, poi, c'è anche un bel giro di soldi: ogni politico del M5S, ad esempio, ogni mese deve -  sempre x statuto - versare 300 euro a Rousseau e gli stessi militanti, per aver diritto al voto, devono pagare. Il Sole24 Ore ricorda che "tra contributi da persone fisiche e proventi da eventi e attività editoriali, nel 2018 l'Associazione Rousseau ha incassato 1,24 milioni di euro, tra i quali spiccano i 699.844 euro provenienti dai parlamentari M5S". I dati sono contenuti nel bilancio 2018 che è stato chiuso con un avanzo di gestione di 57.573 euro e un patrimonio netto positivo per 2.188 euro.

NON FATE LEGGERE AI DIRIGENTI PD IL POST FACEBOOK DI ADINOLFI. Monica Rubino per La Repubblica il 2 settembre 2019. Martedì, come è ormai noto, i 115.372 aventi diritto al voto su Rousseau saranno chiamati dalle 9 alle 18 a esprimere il proprio voto sull'alleanza con il Pd per un nuovo governo guidato da Giuseppe Conte. Il quesito a cui potranno rispondere gli iscritti è: "Sei d'accordo che il MoVimento 5 Stelle faccia partire un Governo, insieme al Partito Democratico, presieduto da Giuseppe Conte?". La domanda si presenta ben più esplicita di quanto è successo il 18 maggio 2018, quando il quesito che avrebbe portato al governo con Matteo Salvini, non citava esplicitamente la Lega, ma chiedeva solo l'approvazione del "contratto del governo del cambiamento". C'è però un altro dettaglio interessante. Secondo quanto potuto verificare da Repubblica, il quesito, che è già pubblicato sulla piattaforma Rousseau, offre agli iscritti due risposte. Il bottone del "No" è il primo ad apparire, sopra a quello del "Sì". Lo scorso anno, in occasione del governo con la Lega, il "Sì" veniva prima del "No".

I precedenti su Rousseau. La storia dei voti su Rousseau insegna che dei 115mila e dispari iscritti alla piattaforma (che rappresentano appena l'1 per cento dell'elettorato grillino alle ultime Politiche) in realtà in media ne votano molto meno. Ad esempio al quesito sul mandato zero, il 25 e il 26 luglio scorsi, risposero appena in 25 mila. Un pochino più alta la partecipazione alle europarlamentarie (primo turno, 31 marzo 2019: 37.256 votanti; secondo turno 4 aprile 2019: 32.240). Il massimo dei votanti si è raggiunto nella consultazione sul caso Diciotti, che coinvolgeva l'alleato di governo Matteo Salvini: era il 18 febbraio 2019 e votarono in 52.417. Infine alle Parlamentarie del 3 febbraio 2018 votarono in 39.991. Per l'alleanza fra M5s e Lega, il 18 maggio 2018, i votanti furono 44.769. Vedremo quanti saranno i voti domani.

M5s, la scheda del voto su Rousseau: il dettaglio-bomba, qui può saltare tutto davvero. Libero Quotidiano il 2 Settembre 2019. L'inciucio tra M5s e Pd scricchiola, eccome. Non solo per le ultime mosse di Luigi Di Maio, il quale continua ad alzare la posta e, soprattutto, lancia Alessandro DiBattista come ministro per le Politiche europee. Nome indigeribile per l'universo-mondo, quello di Dibba, figurarsi per i democrat. Insomma, questa mossa del capetto politico grillino pare propedeutica al far naufragare la trattativa con la sinistra. Ma non è tutto. Sullo sfondo, come è arcinoto, si staglia il voto sulla fantomatica piattaforma Rousseau, con cui i grillini sono chiamati ad esprimersi sull'alleanza con lo storico nemico, il Pd. I 115.372 aventi diritto al voto saranno chiamati ad esprimersi dalle 9 alle 18 di domani, martedì 3 settembre. E sulla scheda con cui viene proposto il quesito si palesa un clamoroso indizio circa il fatto che ora, probabilmente, lo stato maggiore M5s - da Davide Casaleggio in giù - avrebbe cambiato idea sull'inciucio. Già, perché la domanda viene posta così: "Sei d'accordo che il Movimento 5 Stelle faccia partire un Governo, insieme al Partito Democratico, presieduto da Giuseppe Conte?". Domanda chiarissima, insomma. Ma soprattutto, tra le risposte figura prima il "no" e poi il "sì". Come a suggerire che il "no" sia la soluzione favorita. Ma non è tutto. Come l'atteggiamento sia diverso rispetto ai tempi dell'alleanza con la Lega lo dimostra anche quanto la domanda sia esplicita, sintetizzabile in: "Volete andare al governo col Pd?". Ai tempi dell'intesa col Carroccio, infatti, la domanda recitava: "Approvi il contratto del governo del cambiamento?". Insomma, la Lega non veniva neppure nominata. E, soprattutto, il "sì" precedeva il "no". Rousseau, insomma, pronta a far naufragare l'esecutivo-horror.

“ALLA FINE È TUTTO IN MANO A GRILLO E DI MAIO”. Antonio Atte per Adnkronos il 2 settembre 2019. Gli iscritti 5 Stelle nel 2017 l'avevano incoronata con un voto sul Blog come candidata sindaco di Genova. Poi però un post di Beppe Grillo dal titolo "Fidatevi di me" sconfessò il responso della base, annullando quella votazione tra lo sbigottimento generale. Marika Cassimatis, insegnante ligure, alla vigilia della consultazione online di Rousseau sull'accordo di governo tra Movimento 5 Stelle e Partito democratico, ne è certa: "Alla fine - commenta con l'Adnkronos - decideranno comunque Grillo e Luigi Di Maio, è tutto in mano a loro". "Nel mio caso la votazione fu regolare, poi però Grillo intervenne per invalidarla. C'è stata anche una causa. Per quanto riguarda Rousseau, il Garante della privacy ha avanzato dubbi sulla trasparenza delle votazioni", dice ancora Cassimatis. Dubbi che però l'Associazione Rousseau guidata da Davide Casaleggio ha provato a fugare ieri con un lungo post, precisando che "l'area voto utilizzata negli ultimi 5 mesi e che verrà utilizzata per il voto sul progetto di governo non è stata oggetto di contestazioni da parte del Garante". Secondo l'ex candidata genovese sconfessata da Grillo, "quello su Rousseau è un referendum a uso interno, non credo proprio che il Presidente Mattarella prenderà in considerazione l'idea di far passare un incarico di governo per la piattaforma online, sarebbe una violazione dei principi costituzionali". E poi c'è il nodo statuto. Come osserva Cassimatis, "l'articolo 4 del nuovo statuto M5S dice che se il garante o il capo politico non gradiscono l'esito della votazione possono farla ripetere". In tal caso, si legge nello statuto, la votazione "si intenderà confermata solo qualora abbia partecipato almeno la maggioranza assoluta degli iscritti ammessi al voto". "Ma il numero esatto degli iscritti non si conosce", obietta Cassimatis, che aggiunge: "Con l'avvocato Lorenzo Borrè abbiamo intentato una serie di ricorsi, anche per capire quanti siano effettivamente gli iscritti. I 5 Stelle hanno il desideri di consultare la base ma è solo per dare un contentino a chi crede che questo Movimento si avvalga di una democrazia diretta che nei fatti non c'è". "Purtroppo - chiosa l'ex esponente del M5S - è tutto molto in mano al capo politico. Non so quale valore possa avere la consultazione, perché alla fine decide Di Maio per statuto. Non ce lo inventiamo perché siamo complottisti o perché abbiamo il dente avvelenato. Il nuovo statuto blinda Di Maio e questo è innegabile".

Claudia Guasco per “il Messaggero” il 2 settembre 2019. Comunque finirà, qualunque accordo con il Pd dovrà essere sottoscritto dopo un voto sulla piattaforma Rousseau. «Decidono gli iscritti al movimento», ribadisce il vertice Cinquestelle. E questo potrebbe essere un bel problema, visto che il sistema con cui i militanti esprimono il proprio parere ha una reputazione tormentata e ha già collezionato due multe e un richiamo ufficiale da parte del garante della privacy. Voto manipolato, hacker, click ripetuti dalla stessa persona. La piattaforma non gode di una buona fama in termini di affidabilità, tanto che in un lungo post sul blog delle Stelle il movimento pubblica le «dieci fake news» sulla struttura online da cui passerà il voto decisivo sul governo giallo-rosso. Prima notizia falsa: Rousseau non appartiene alla Casaleggio associati, che l'ha solo sviluppata «gratuitamente, non riceve finanziamenti pubblici» e destina le donazioni versate mensilmente dai parlamentari al supporto delle attività dell'associazione. Il voto, sostiene il movimento, non può essere manipolato ed è certificato da un notaio. Scongiurati anche i tentativi di orientare il risultato con adesioni di massa dell'ultima ora, poiché possono partecipare solo gli iscritti certificati da almeno sei mesi prima della data della consultazione. La piattaforma è sicura? Sì, è nuova e sostituisce quella vecchia oggetto di contestazioni del garante della privacy. Al momento, si assicura, il software non è mai stato hackerato, nessun utente può votare due volte e l'esito è al riparo da presunte manipolazioni, perché il database con i risultati non è accessibile direttamente da parte degli amministratori. Le precisazioni pentastellate riassumono perplessità e contestazioni sollevate negli ultimi tre anni dal garante per la protezione dei dati personali. L'ultima sanzione è del 4 aprile scorso: l'authority ha multato Rousseau per 50 mila euro stigmatizzando che «non gode delle proprietà richieste a un sistema di e-voting», cioè di votazione online, e non garantisce «la protezione delle schede elettroniche e l'anonimato dei votanti in tutte le fasi del procedimento elettorale elettronico». In sostanza, è manipolabile. Nel provvedimento il garante rileva possibili problemi riguardo alla sicurezza e alla segretezza delle votazioni e di scarsa protezione dei dati degli elettori. Oltre a pagare la multa, il movimento ha dovuto prendere contromisure per rendere il sistema meno vulnerabile e «assicurare l'autenticità e la riservatezza delle espressioni di voto». Altra sanzione da 32 mila euro è stata comminata a marzo 2018 con un provvedimento in cui il garante sottolineava proprio la vulnerabilità della sicurezza e dei dati degli iscritti. Tra le principali criticità: la sicurezza della password, l'individuazione preventiva di falle nei servizi online e soprattutto la protezione dei dati sensibili degli utenti, dunque degli iscritti votanti. Tanto che l'authority, in un precedente provvedimento del 21 dicembre 2017, ha chiesto l'adozione di forme di «auditing» rimarcando come «le misure di sicurezza connesse al controllo delle operazioni di voto destino alcune perplessità» e invitando a una riconfigurazione del sistema «in modo da minimizzare i rischi per i diritti e per le libertà delle persone fisiche». Altro tema delicato è la mancanza di un ente terzo di controllo che verifichi la correttezza del voto. Il partito ha commissionato la certificazione solo due volte: in occasione delle Quirinarie 2013 e per la votazione del «Non statuto» nel 2016. I militanti si sono espressi via web altre settanta volte ma in nessun caso il voto è stato certificato, dato che sul sistema non è comparso il nome della società. Queste consultazioni, prive di sigillo ufficiale, potrebbero dunque essere state oggetto di manipolazione. «Stiamo lavorando su un sistema di certificazione distribuito su blockchain», ha promesso Davide Casaleggio a maggio 2018. L'ultima votazione sulla Rousseau è di febbraio 2019 e riguardava l'autorizzazione a procedere chiesta dal tribunale dei ministri per Matteo Salvini nel caso Diciotti. Si è chiusa un'ora e mezza dopo il previsto per la «massiccia affluenza» ma senza grossi intoppi, non come la disastrosa consultazione di gennaio 2018 per la scelta dei candidati alle elezioni politiche nelle liste proporzionali: problemi tecnici, proteste e sistema più volte in tilt. Quanto alla permeabilità della piattaforma, più di una volta l'hacker R0gue_0 ha beffato la sicurezza informatica, pubblicando a settembre sul sito Privatebin mail, password e numeri di telefono del vicepremier Luigi Di Maio e dei ministri Danilo Toninelli e Alfonso Bonafede. Mentre uno studente universitario di 26 anni, ad agosto 2017, si è introdotto con il nickname «Evariste Galois», matematico francese vissuto tra il 1811 e il 1832.

Giulia Sbarbati per “Libero Quotidiano” il 2 settembre 2019. Nei giorni in cui Luigi Di Maio ha minato la via delle trattative giallorosse per calcolo personale, c' è chi ancora spera in un margine per invertire la rotta. Sono quei grillini che si guardano allo specchio e non vogliono morire piddini. La verità è che la galassia pentastellata non è affatto coesa come ci raccontano. Soprattutto a livello locale. Il punto di raccordo di questa piattaforma sommersa è il consigliere della Regione Lazio Davide Barillari, che è uscito allo scoperto minacciando dimissioni di massa.

Perché, per usare parole sue, questa alleanza è "un errore madornale"?

«Già l' accordo con la Lega ci aveva messo di fronte a compromessi difficili da mandare giù, con il Pd sarà ancora peggio. La storia non ci ha insegnato nulla».

Cosa teme?

Che possa ripetersi quello che è accaduto qui nel Lazio, dove un tentativo di dialogo con Zingaretti, governatore senza maggioranza, c' è già stato nel 2018 ed è stato un fallimento. Ha tradito tutte le promesse, mercanteggiando i voti che gli mancavano nel peggior stile democristiano e portando avanti politiche opposte alle nostre».

Quanti la pensano come lei?

«Siamo in tanti, soprattutto a livello regionale e comunale, dove pesano gli scandali che hanno travolto il Pd, penso a Mafia Capitale a Roma, alla sanità in Umbria e agli affidi illeciti di Bibbiano. È chiaro che tutto questo sta mettendo in grande difficoltà i portavoce locali, che temono di essere silenziati e devono dare direttamente conto alla base di questa giravolta».

Cosa farete?

«Per ora abbiamo aperto una riflessione e siamo in attesa di vedere quale sarà l' esito della consultazione su Rousseau. Anche se sarebbe stato più corretto dare la parola agli iscritti quando si è aperta la crisi e non a cose fatte. Non dimentichiamoci che noi siamo dei portavoce, più sentiamo la base e più siamo coerenti con il nostro essere».

Si parla in questi giorni di un quesito sfumato, secondo lei quale sarebbe la formula più corretta?

«La domanda dovrebbe essere chiara e diretta: Volete un governo con il Pd, sì o no?».

Quale posizione prevarrà?

«Credo che alla fine vincerà il sì, ma sono curioso di vedere in che misura. In base a quello deciderò se continuare a combattere dall' interno o se tornare al mio vecchio lavoro».

Cosa si augura?

«Che il Movimento esca dalla fase adolescenziale in cui si trova, dobbiamo crescere senza smarrire noi stessi».

Il suo, quindi, è un appello per il no?

«Certamente».

Dagospia. Dal profilo Twitter di Jacopo Iacoboni il 29 Agosto 2019. Vi potrebbe interessare un mio piccolo thread con alcuni dati sulla piattaforma Rousseau?

1. Ovviamente, tutti sanno che la piattaforma non è una piattaforma, è un semplice sito, molto insicuro e obsoleto, hackerato almeno due volte e sanzionato altrettante (50 mila euro di multa a Casaleggio) dall’Authority italiana su dati e privacy.

2. Piccolo spoiler: le cose interessanti arriveranno alla fine. All’inizio vi ricordo solo cose scontate e di background.

3. Le sanzioni, modeste nelle somme, sono molto gravi nei due profili di infrazione : 1 potenziale manipolabilità dei voti. 2 potenziale riconducibilità dei voti ai votanti.

3 bis. Dal punto di vista forense, Stefano Zanero vi spiegherebbe meglio cosa significa. Comunque io, per sbrigarci, vi riassumo che Rousseau è: insicura, non segreta, manipolabile.

4. Ma facciamo un gioco. Volete giocare?

5. Ok. Facciamo come se i punti fin qui esposti non esistessero. Significa che mi sdraio totalmente sulla prospettiva di Casaleggio. Faccio come se fossi in un talk show italiano. Prendo la piattaforma come se fosse trasparente e certificata da ente terzo. Ci state?

6. Mistero grosso su Rousseau è sempre stato: quanti sono gli iscritti che votano? Allora: gli iscritti sono passati dagli oltre 135 mila di ottobre 2016 ai 150 mila dichiarato ad agosto 2017. Ad agosto 2018 il numero dichiarato da Casaleggio era sceso a 100 mila. Che significa?

7. Beh, significa che in questi anni, poiché nessuno poteva controllare, hanno dato i numeri. Il 2 agosto 2017, Davide Casaleggio disse alla Stampa Estera che contava di arrivare in un anno a un milione di iscritti. L’anno dopo, dichiarava iscritti scesi a 100mila?

8. Veniamo alle cose succulente. Gli ultimi due voti davvero importanti sono stati: il via libera al governo M5S con la Lega. E il salvataggio di Salvini da un grave processo. Ricordate? Molto bene. Ma non credo ricordiate tutto.

9. Anche il voto per il governo M5S con la Lega, passò da Rousseau. Con una piccola decisiva differenza. La piattaforma di Casaleggio disse sì a Salvini 12 giorni prima dell’incarico a Conte. Voto su Rousseau il 18 maggio, incarico il 31. Qui sotto traduco?

10. Casaleggio e Di Maio non imposero allora al Quirinale di essere sotto-ordinato a Rousseau. Fecero il loro voto, è SOLO DOPO dissero a Mattarella che dicevano sì a Salvini. Salvini non rischiò di essere fottuto a sorpresa. E il Quirinale fu il luogo supremo, non scavalcato.

11. Ok dai, non vi vedo abbastanza preoccupati. Vediamo i risultati delle due ultime decisive consultazioni. Dei votanti su Rousseau (44.796 persone; di solito è questo l’ordine numerico di grandezza che vota) il 94% disse sì alla Lega (42.274 persone). Dissero di no solo 2.522.

12. Persino in un voto davvero contrario a tutto il giustizialismo grillini, quello sul processo a Salvini, Rousseau salvò Salvini, con buon margine: il 59% (30.948 iscritti) scelse di concedere l'immunità al ministro dell'Interno. Mentre 21.469 (40,95%) votarono no.

13. Erano due voti ALTAMENTE “POLITICI”. è questa è la “base elettorale attiva” (quei 50-60 mila che votano, dei 100mila iscritti) su Rousseau: gente che - se scordiamo i primi punti del mio thread - sopporta benissimo la Lega, semmai odia il Pd.

14. Non so come andrà a finire. So solo com’è andata fino ad oggi. Ah, mi sono appena ricordato che ci sono i punti da 1 a 3: è una piattaforma privata di un’associazione privata di Davide Casaleggio su server privati mai controllati da ente terzo

La casa di vetro sempre più opaca. Nessuno chiede più a Rousseau. Francesco Maria Del Vigo, Lunedì 19/08/2019, su Il Giornale. La democrazia diretta ha tirato le cuoia. Almeno per come ce la avevano propinata i pentastellati. Nell'agosto più politico e pazzo della storia repubblicana c'è un grande assente. Non Jean Jacques. Ma la mitologica piattaforma del Movimento Cinque Stelle quella che, nel racconto grillino, tutto decide, amministra e organizza all'interno del partito. La casa di vetro, il simbolo stesso della tanto sbandierata democrazia diretta, l'urna virtuale all'interno della quale tutti i sostenitori depositano le loro volontà. Nell'idea del fondatore la piattaforma doveva essere una specie di telecomando che permetteva agli iscritti di decidere ogni minima posizione del movimento. La realizzazione pratica di quello che Grillo per anni ha berciato dai palchi di tutta Italia: i politici sono vostri dipendenti, siete voi che li pagate. Ecco, attraverso Rousseau, i grillini avrebbero dovuto indirizzare il grillismo. Ovviamente era una pantomima: il sistema operativo collassava quasi sempre, più volte il garante per la privacy ha denunciato l'inaffidabilità delle valutazioni e la veridicità dei risultati. Ma per anni Casaleggio e soci hanno continuato a far votare programmi, regole e cavilli sulla loro piattaforma. Votazioni per lo più insignificanti e dall'esito ampiamente scontato. Fino a questa estate. Il governo moribondo è in barella, la Lega ne fa di tutti i colori, il movimento crolla nei sondaggi e apre per la prima volta a nuove alleanze, Conte rimane inchiodato alla poltrona, insomma il momento più incasinato della storia dei Cinque Stelle e su Rousseau cosa succede? Niente di niente. Tutto fermo al 25 luglio. Per Rousseau la crisi non c'è mai stata. Loro al massimo si esprimono su temi di grandissimo rilievo politico come il «mandato zero». Ora le decisioni vengono prese nella blindatissima villa di Grillo a Marina di Bibbiona, lontano da occhi indiscreti, senza nessuna diretta streaming e nessuna consultazione. Quando il gioco si fa duro Rousseau e la democrazia diretta finiscono in soffitta. Troppo pericoloso interpellare la base chiedendole cosa ne pensa di un governo con il Pd di Renzi, il Pd vituperato, spernacchiato e messo alla berlina per anni. Troppo rischioso avventurarsi in una votazione su un possibile ritorno alle urne o sulla fine del governo. Figuriamoci interrogarsi sul ruolo del sempre più evanescente Di Maio. La democrazia diretta va bene solo quando le acque sono calme e non c'è nulla da decidere. In questi casi, il rischio di prendersi dagli iscritti un sesquipedale vaffa è troppo alto.

Rousseau, come (non) funziona la piattaforma digitale del M5S (a spese del contribuente). Il Corriere del Giorno il 26 Agosto 2019. Sul portale rousseau.movimento5stelle.it non vi è alcuna ufficialità su quanti siano gli iscritti . Recentemente Luigi Di Maio capo politico del M5S ne ha dichiarati circa 100 mila, che viene spesso “spacciato” come il grande popolo del M5S sul web, che, previa registrazione e successiva approvazione (alla faccia della democrazia ) dell’iscrizione da parte dei “fedelissimi” di Davide Casaleggio, possono esprimere il proprio voto in caso di referendum o per la scelta dei candidati per le varie elezioni, e di poter teoricamente partecipare alle attività del Movimento. La piattaforma Rousseau bandiera della democrazia diretta del M5S , potrebbe tornare centrale per sbrogliare la complicata matassa dell’alleanza di governo con il Pd. Infatti nei momenti più delicati della storia del M5S sono stati i referendum online ad indicare, seppure con più di qualche dubbio, la linea politico da attuare. In realtà non vi è alcuna ufficialità su quanti siano gli iscritti al portale rousseau.movimento5stelle.it . Recentemente Luigi Di Maio capo politico del M5S ne ha dichiarati circa 100 mila, che viene spesso “spacciato” come il grande popolo del M5S sul web, che, previa registrazione e successiva approvazione (alla faccia della democrazia ) dell’iscrizione da parte dei “fedelissimi” di Davide Casaleggio, possono esprimere il proprio voto in caso di referendum o per la scelta dei candidati per le varie elezioni, e di poter teoricamente partecipare alle attività del Movimento. La partecipazione nel primo periodo di vita del Movimento Cinque Stelle era abbastanza alta, ma col tempo è molto diminuita progressivamente come i numeri confermano. Il referendum sull’alleanza con la Lega nel maggio 2018 venne votato sulla piattaforma Rousseau , da soltanto 44 mila iscritti-registrati . Successivamente alla votazione per la riconferma di Di Maio come capo politico dopo il crollo del Movimento alle elezioni europee parteciparono oltre 56 mila, mentre erano stati soltanto 20 mila i votanti a quella per la scelta delle cinque donne capolista alle Europee per Bruxelles. Recentemente anche da parte di ex collaboratori della Casaleggio Associati, sono stati ripetutamente sollevati ed emersi non poco dubbi  sulla gestione “trasparente” dei dati degli iscritti e sulla correttezza e legalità dei risultati delle votazioni online. Proprio sulla base di queste motivazioni il Garante della Privacy ha comminato all’ Associazione Rousseau due maxi sanzioni. La prima da 32 mila euro per aver ravvisato il trattamento illecito dei dati personali, confermato da un hackeraggio che svelo pubblicamente sul web centinaia delle informazioni e dati personali degli iscritti . La seconda multa da 50 mila euro, venne comminata a seguito della riscontrata vulnerabilità della piattaforma e la possibilità di alterare i voti degli iscritti. Non è un caso infatti se recentemente il M5S volesse piazzare al vertice del garante della Privacy un proprio uomo. E parlano anche di democrazia….

LA SÒLA DELLA DEMOCRAZIA DIRETTA. Da Corriere.it 4 aprile 2019. La piattaforma Rousseau dell’omonima associazione di Davide Casaleggio «non gode delle proprietà richieste a un sistema di evoting (voto elettronico, ndr)». Non dà, quindi, le adeguate garanzie «che prevedono la protezione delle schede elettroniche e l’anonimato dei votanti in tutte le fasi del procedimento elettorale elettronico» durante l’espressione delle preferenze da parte degli iscritti al Movimento 5 Stelle. È la conclusione a cui è giunto il Garante della privacy, che negli ultimi due anni ha monitorato gli interventi dell’Associazione e l’ha ammonita per le ripetute intrusioni degli hacker. Con l’odierno provvedimento è arrivata una multa da 50 mila euro e la richiesta — per scongiurare ulteriori sanzioni — di consentire la verifica a posteriori delle attività compiute, assegnare credenziali di autenticazione ad uso esclusivo di ciascun utente con privilegi amministrativi, definendo per ciascuno i differenti profili di autorizzazione, e realizzare un sistema di voto che fornisca garanzie di sicurezza, autenticità e riservatezza. Nell’atto con il quale il garante Antonello Soro aveva reso nota l’apertura dell’istruttoria, avvenuta nell’agosto del 2017 e notificata nel gennaio del 2018, il garante contestava la «mancata designazione delle società Wind Tre Spa e Itnet Srl quali responsabili del trattamento dei dati personali degli utenti dei diversi siti riferibili al Movimento 5 Stelle», che «configura l’illiceità del trattamento medesimo in ragione della comunicazione dei dati a soggetti terzi, in mancanza del consenso degli interessati». L’Autorità — già allora — criticava l’ «indiscutibile obsolescenza tecnica» della piattaforma ed evidenziava la necessità immediata di «misure di sicurezza» più forti «connesse al controllo delle operazioni di voto».

M5S, dal Garante della privacy 50mila euro di multa a Rousseau: "Il voto è manipolabile". Per l'Authority l'associazione presieduta da Casaleggio non garantisce la segretezza e la sicurezza del voto degli iscritti, scrive Giovanni Vitale il 4 aprile 2019 su La Repubblica. "La piattaforma Rousseau non gode delle proprietà richieste a un sistema di e-voting". In parole povere: non garantisce né la segretezza né la sicurezza del voto degli iscritti ai 5Stelle, il cui risultato può essere manipolato - senza lasciare traccia - dagli amministratori del sistema, in ogni fase del procedimento elettorale. È l'esito dell'attività ispettiva svolta dal Garante della privacy che, al termine di una istruttoria in più fasi durata due anni, ha "condannato" l'Associazione presieduta da Davide Casaleggio a pagare 50mila euro e a predisporre una serie di misure correttive volte a: scongiurare la permanente vulnerabilità della piattaforma; consentire la verifica a posteriori delle attività compiute; rimuovere la condivisione delle credenziali di accesso, che rendono impossibile identificare e controllare i soggetti autorizzati a operare sulla piattaforma; progettare un sistema di e-voting in grado non solo di proteggere i dati personali da attacchi interni ed esterni, ma soprattutto di "assicurare l'autenticità e la riservatezza delle espressioni di voto". Pena, ulteriori sanzioni.

Il voto non è segreto. Anche se, dopo una precedente istruttoria, l'Associazione Rousseau ha adottato alcuni accorgimenti mirati a garantire la libertà e la segretezza del voto - come la cancellazione o la trasformazione in forma anonima dei dati personali trattati, una volta terminate le operazioni di voto, nonché il disaccoppiamento del numero telefonico del votante dal voto espresso - il Garante ritiene che gli interventi non siano ancora sufficienti. Anzi - scrive - "sono state evidenziate persistenti criticità" scrive. Oltre ad aver scoperto l'esistenza di una tabella esterna alla piattaforma (presente all'interno del data center di Wind, con cui l'associazione Rousseau aveva un contratto di servizi) contenente tutte le informazioni relative alle operazioni di voto, al numero di telefono e all'ID dei votanti, insieme all'espressione di ciascun voto, il Garante ritiene che "la mera rimozione del numero telefonico, a fronte della presenza di un altro identificativo univoco dell'iscritto", come Casaleggio rivendica di aver fatto, "non possa essere considerata quale misura coerente con gli obiettivi di protezione dei dati personali che si intendevano promuovere". Non solo "la rilevata assenza di adeguate procedure di auditing informatico, eludendo la possibilità di verifica ex post delle attività compiute, non consente - scrive il Garante - di garantire l'integrità, l'autenticità e la segretezza delle espressioni di voto, caratteristiche fondamentali di una piattaforma di e-voting (almeno sulla base degli standard internazionali comunemente accettati)".

Possibilità di manipolazione. La protezione dei dati personali è messa a rischio anche da un'altra condotta, ovvero quella di lasciare "esposti i risultati delle votazioni (per un'ampia finestra temporale che si estende dall'istante di apertura delle urne fino alla successiva "certificazione" dei risultati, che può avvenire a distanza di diversi giorni dalla chiusura delle operazioni di voto) ad accessi ed elaborazioni di vario tipo (che vanno dalla mera consultazione a possibili alterazioni o soppressioni, all'estrazione di copie anche offline)". E ciò perché gli amministratori di sistema, cioè le persone in possesso delle credenziali per accedere e operare sulla piattaforma (mediante due diverse utenze con privilegi) sono cinque per il sito movimento5stelle.it e altre cinque per il sito rousseau.movimento5stelle.it, alcune delle quali uguali per l'uno e l'altro sito. Ma non è possibile identificarle. Perciò "la modalità di assegnazione delle credenziali e dei privilegi relativi alle varie funzionalità dei siti dell'Associazione (...) risultano inadeguate sotto il profilo della sicurezza - avverte il Garante - poiché la condivisione delle credenziali impedisce di attribuire le azioni compiute in un sistema informatico a un determinato incaricato, con pregiudizio anche per il titolare, privato della possibilità di controllare l'operato di figure tecniche così rilevanti".

Controlli impossibili. "La regolarità delle operazioni di voto è quindi affidata alla correttezza personale e deontologica di queste delicate funzioni tecniche, cui viene concessa una elevata fiducia in assenza di misure di contenimento delle azioni eseguibili e di suddivisione degli ambiti di operatività, cui si aggiunge la certezza che le attività compiute, al di fuori del ristretto perimetro soggetto a tracciamento, non potranno essere oggetto di successiva verifica da parte di terzi". È cioè fare un controllo su chi fa cosa, sua ex ante, sia ex post. "In questo senso la piattaforma Roussau non gode delle proprietà richieste a un sistema di e-voting", sentenzia il Garante richiamando il documento adottato dal comitato dei ministri del consiglio di Europa il 14 luglio 2017 "che prevede la protezione delle schede elettroniche e l'anonimato dei votanti in tutte le fasi del procedimento elettorale elettronico". La piattaforma, infatti "non appare in grado né di prevenire eventuali abusi commessi da addetti interni, né di consentire l'accertamento a posteriori dei comportamenti da questi tenuti, stante la limitata efficacia degli strumenti di tracciamento delle attività" scrive il Garante. E "in questo senso sussistono forti perplessità sul significato da attribuire al termine 'certificazione' riferito al titolare del trattamento all'intervento di un notaio o di un soggetto terzo di fiducia in una fase successiva alle operazioni di voto con lo scoop di asseverarne gli esiti". "Non c'è dubbio infatti - si legge - che qualunque intervento ex post di soggetto di pur comprovata fiducia (notai, certificatori accreditati) poco possa aggiungere, dal punto di vista della genuinità dei risultati, in un contesto in cui le caratteristiche dello strumento informatico utilizzato, non consentendo di garantire tecnicamente la correttezza delle procedure di voto, non possono che produrre una rappresentazione degli esiti non suscettibile di analisi, nell'impossibilità di svolgere alcuna significativa verifica su dati che sono, per loro natura e modalità di trattamento, tecnicamente alterabili in pressoché ogni fase del provvedimento di votazione e scrutinio antecedente la cosiddetta certificazione".

Multa a Rousseau, Di Maio: «Soro è Pd, prossimo Garante sia insospettabile». Pubblicato sabato, 06 aprile 2019 da Martina Pennisi su Corriere.it. I 50 mila euro di multa del Garante per la privacy alla piattaforma Rousseau sono diventati un caso politico. A margine dell’evento dei pentastellati Sum, il vice premier Luigi Di Maio ha dichiarato: «Ci sono delle nomine in scadenza, tra le quali anche il Garante della Privacy. E in questo caso noi ci adopereremo per individuare una figura al di sopra di qualsiasi sospetto. Qui il sospetto è politico, anche perché il garante è un politico del Pd». Ha aggiunto: «Quando ci multano per la seconda volta per un software che non abbiamo più qualche dubbio ci viene...». Di Maio, leader dei 5 Stelle, gruppo che si affida a Rousseau per raccogliere il parere dei suoi iscritti e chiede ai suoi parlamentari di contribuire economicamente all’omonima associazione presieduta da Davide Casaleggio, ha dunque commentato la vicenda nella doppia veste di capo politico del Movimento colpito della sanzione e di ministro di un governo espressione di un parlamento a maggioranza gialloverde che dovrà eleggere in giugno il nuovo collegio dell’Autorità. A mettere in discussione l’indipendenza dell’attuale presidente del Garante Antonello Soro dal Partito democratico, di cui è stato capogruppo alla Camera fino al 2009, è stato un post non firmato sul blog delle Stelle, immediatamente dopo l’annuncio della multa: «L’ex capogruppo Pd, oggi Garante della privacy, ha deciso di multare nuovamente Rousseau per un sistema di voto che non è quello utilizzato oggi e che non è più online. Ha mai controllato gli altri partiti? Il suo partito per esempio? Temiamo che ci sia un uso politico del Garante». Durante Sum, e prima di Di Maio, si è espresso anche Casaleggio: «Mi sembra sia chiaro che fosse un attacco politico. A capo dell’Authority del garante della privacy non può starci un ex capogruppo del Pd ma neanche un politico in generale. Deve essere un professionista che mantenga la propria autonomia». Soro ha replicato sottolineando di non aver «intenzione di fare polemica con alcuno, né ho bisogno di dimostrare la mia indipendenza di giudizio né quella delle mie colleghe nell’esercizio del mandato del Garante. Un’esperienza che nei sette anni passati si è misurata sul terreno della tutela dei diritti e del contrasto alla loro violazione. Ne fanno fede i provvedimenti per chiunque facilmente accessibili». Ha aggiunto: «Se il dottor Casaleggio ha rilievi da muovere può ricorrere, come previsto dalla legge, al giudice ordinario». Oltre a Soro, l’attuale collegio in scadenza del Garante è composto dalla vice presidente Augusta Iannini, ex magistrato, ex capo dell’ufficio legislativo del ministero della Giustizia e moglie di Bruno Vespa; Giovanna Bianchi Clerici, deputata della Lega fino al 2006 ed ex consiglio di amministrazione Rai, e Licia Califano, docente di diritto costituzionale. Come detto, il prossimo quartetto verrà eletto da giugno: due dalla Camera, due dal Senato. Sarà poi il nuovo collegio a scegliere il suo presidente. Nel botta e risposta sul provvedimento che ha causato la seconda multa a Rousseau — la prima da 32mila euro risaliva a marzo — si discute inoltre dei presunti interventi già fatti sulla piattaforma. Casaleggio, quando Il Foglio ha pubblicato le prime indiscrezioni sulla decisione del Garante, ha scritto sul blog delle Stelle di aver apportato una serie di modifiche per venire incontro alle perplessità delle ultimi due anni. Due giorni dopo è arrivata la sanzione. Marco Canestrari, programmatore ex Casaleggio associati e coautore de Il sistema Casaleggio, spiega al Corriere come almeno una delle azioni intraprese sia ininfluente: «La pagina dell’iscrizione al Movimento si basa ancora sul sistema Movable Type (che non si più aggiornare dal 2013, ndr). Anche se l’area voto adesso usa Keycloak rimane insicura». In parole povere, è stata ricostruita la porta di una stanza di una casa le cui fondamenta rimangono instabili. «L’intero contesto è sbagliato: il codice non è pubblico, non si ha chi abbia accesso a cosa e come e quindi tutto può essere», aggiunge Canestrari. Il Garante si era espresso negli stessi termini dopo la prima reazione di Rousseau: «Le misure asseritamente migliorative che sarebbero state adottate sono giunte, via mail, ad istruttoria già chiusa e senza alcuna documentazione a sostegno» e «risultano comunque ininfluenti ai fini delle pregresse criticità evidenziate e sanzionate nel provvedimento».

CASALEGGIO E LA SINDROME RANCOROSA DEL BENEFICATO? Umberto Rapetto, Generale (ris.) della Guardia di Finanza, già comandante del GAT Nucleo Speciale Frodi Telematiche, per Startmag.it l'8 aprile 2019. Ho sentito Davide Casaleggio tuonare contro Antonello Soro. Non riesco a fare a meno di strillare anch’io contro il Presidente dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali. Ma c’è una differenza. E nemmeno trascurabile. Mentre Casaleggio echeggia l’immancabile complotto, io invece sono indeciso se accusare Soro di eccessiva bontà o di munificente favoritismo. La sanzione di 50 mila euro che è stata affibbiata dal Garante per la privacy non è affatto piovuta dal cielo, come qualcuno ha pensato di far credere a simpatizzanti ed accoliti. A chi è afflitto dalle scie chimiche, non crede allo sbarco sulla Luna, ipotizza accoppiamenti multispecie (forse per non dimenticare che il cane è il miglior “amico” dell’uomo…), teme gli alieni o – così a seguire – è turbato da chissà quale altra preoccupazione, viene spontaneo suggerire di approfondire quel che è successo e scoprirne l’antefatto. La storia della “super multa” (che di super non ha davvero nulla, né nell’entità finanziaria, né nella fattispecie considerata) ha radici lontane e bisogna raggiungere l’agosto del 2017, quando la celeberrima piattaforma informatica Rousseau (tessuto connettivo digitale) finisce sotto attacco degli hacker. La non trascurabile violazione dei dati – fortunatamente non sottaciuta dai mezzi di informazione, spesso presi da più scottanti temi – ha inevitabilmente innescato l’attivazione di un procedimento da parte del Garante per la privacy. La disciplina vigente, infatti, parla chiaro e sottolinea che incidenti del genere non danneggiano tanto chi gestisce i dati ma piuttosto i soggetti cui quelle informazioni personali si riferiscono. I pirati informatici hanno beffato, sì, la Casaleggio & Associati e il relativo entourage tecnico, ma hanno recato pregiudizio ad una platea di “innocenti”, colpevoli solo di aver affidato alla piattaforma Rousseau i propri dati immaginando che questi fossero adeguatamente protetti. Il 21 dicembre 2017 arriva il provvedimento n° 548: l’Autorità, a conclusione dell’istruttoria relativa alla violazione dei sistemi informatici riferiti alla Piattaforma Rousseau e ad altri siti connessi al Movimento 5 Stelle, ha prescritto nei confronti dei relativi titolari del trattamento l’adozione di misure necessarie e opportune al fine di rendere i trattamenti dei dati personali degli utenti dei predetti siti web conformi ai principi della disciplina in materia di protezione dei dati personali. Il secondo step di questo contenzioso è datato 16 maggio 2018 e segnato dal provvedimento n° 289. Il Garante, paziente più di Giobbe, dopo aver ricevuto informazioni, documentazione e un approfondimento tecnico (testualmente “dal quale sono emersi alcuni profili di criticità nelle misure di sicurezza fino ad allora adottate”), ha concesso una proroga dei termini precedentemente stabiliti per l’adempimento delle prescrizioni impartite con il provvedimento del 21 dicembre 2017. Casaleggio & Associati – pur non avendo soddisfatto gli standard auspicati da Soro e peraltro stabiliti dalla legge – ottengono così una dilazione di tempo potendo mettersi in regola entro il 30 settembre 2018. Per chi avesse scarsa confidenza con il calendario, alla piattaforma Rousseau viene permesso di essere sicura entro un anno dalla devastante breccia aperta nel perimetro dei propri forzieri informatici. Davide Casaleggio, in qualità di legale rappresentante pro-tempore dell’Associazione Rousseau, risponde in anticipo rispetto il termine accordato, comunicando l’avvenuta adozione di ulteriori accorgimenti assunti al fine di porre rimedio alle criticità rappresentate dall’Autorità con il provvedimento del 16 maggio 2018 e trasmettendo al Garante i report tecnici delle due società incaricate di effettuare i “penetration test”. Il successivo 7 agosto 2018 l’Autorità si trova costretta a rilevare – proprio dalla documentazione trasmessa ed in particolare dalle risultanze dei security assessment – la presenza di debolezze strutturali degli applicativi testati con conseguente necessità dell’adozione di adeguate contromisure. Il Garante chiede quindi di far pervenire, entro il già concesso termine del 30 settembre 2018 ogni ulteriore elemento di valutazione in ordine alle misure e alle iniziative assunte a tutela dei dati personali degli utenti. Il 4 ottobre 2018 Soro e gli altri componenti dell’Autorità concedono una ulteriore proroga a Casaleggio per allineare la piattaforma Rousseau alle prescrizioni sancite dalla normativa in vigore e per tutelare finalmente gli utenti che si servono del sito e dei relativi servizi. Il termine ultimo per “dare completo adempimento alle prescrizioni contenute nel paragrafo 7 del provvedimento n. 548 del 21 dicembre 2017” viene così fissato al 15 ottobre 2018. L’Ufficio del Garante informa in anticipo i predetti responsabili che nei giorni 12 e 13 novembre 2018 sarebbe stato effettuato un accertamento ispettivo di natura prettamente tecnica avente lo scopo di verificare in concreto – attraverso una serie di accessi ai sistemi informatici svolti in presenza di tutte le professionalità necessarie – la robustezza dei sistemi di sicurezza adottati rispetto alle criticità rappresentate dall’Autorità. Questo l’iter, lungo e travagliato, che si profila ben diverso da una coltellata a tradimento – Bruto docet – tipica di una congiura. Non va sottovalutato che il Garante già nel suo primo provvedimento aveva suggerito “la cancellazione o la trasformazione in forma anonima dei dati personali trattati, una volta terminate le operazioni di voto, nonché il disaccoppiamento del numero telefonico del votante (dato personale particolarmente identificativo) dal voto espresso, allo scopo di rendere i dati relativi alle votazioni meno direttamente riconducibili ai votanti o, addirittura, del tutto anonimi”. A questo proposito non può passare inosservato che (come si legge nel punto 2.2 del tanto vituperato provvedimento sanzionatorio) il Garante ha «constatato che la tabella di database contenente le informazioni relative alle operazioni di e-voting effettuate nelle settimane e mesi precedenti l’accertamento ispettivo (ultimi dati relativi alla votazione online del 12 settembre 2018) “non contiene [più] il numero di cellulare del soggetto votante” e che la medesima tabella “contiene un ID utente [che] permette indirettamente di risalire [al] soggetto votante”». Ogni considerazione qui la lasciamo a chi – tra i lettori – è appassionato di democrazia diretta e di segretezza del voto. Al punto 3.4 del provvedimento del Garante si legge poi, sempre a proposito della piattaforma Rouseeau, che “La stessa, infatti, non appare in grado, tra l’altro, né di prevenire gli eventuali abusi commessi da addetti interni, non essendo stati in essa previsti accorgimenti per partizionare il loro dominio d’azione (in particolare, degli amministratori di sistema e dei DBA – data base administrators), né di consentire l’accertamento a posteriori dei comportamenti da questi tenuti, stante la limitata efficacia degli strumenti di tracciamento delle attività”. Potrei continuare in un impietoso “taglie e incolla” dei brani del provvedimento n° 83 che il 4 aprile scorso l’Autorità Garante ha emesso comminando la contestata sanzione. Il provvedimento è a disposizione di chi vuole prenderne visione e, consideratane l’estrema leggibilità, può soddisfare chi intende sapere la verità sulla vicenda e fare le proprie valutazioni sull’intera architettura della piattaforma da molti identificata come il Paradiso terrestre della democrazia partecipativa. Alla fine della storia quei cinquantamila euro sono l’equivalente di un divieto di sosta a chi per strada, forse, ha commesso ben più imperdonabili infrazioni in danno ai cittadini e ai loro diritti civili. Rimuovere Soro (magari per mettere al suo posto l’ex avvocato di Facebook, nota realtà in cui la privacy è calpestata quotidianamente) sarebbe un evidente segnale di ingratitudine. Forse addirittura un indizio della sindrome rancorosa del beneficato.

Giuseppe Marino per “il Giornale” l'8 aprile 2019. La prima multa l' hanno pagata senza fiatare, rinunciando a opporsi in tribunale. Alla seconda hanno reagito con gli strepiti di Davide Casaleggio e l' ordine di conquistare la poltrona del Garante, subito fatto suo dal vicepremier Luigi Di Maio che, a dispetto della pretesa di rendere indipendente l' Authority, sarebbe intenzionato a piazzare alla guida un suo uomo. Forzatura che portata a termine a multa già comminata avrebbe il sapore della porta della stalla chiusa dopo la proverbiale fuga dei buoi. A meno che a scatenare la voglia di mettere la museruola al Garante non ci sia qualche altro interesse. Una possibile spiegazione può essere cercata in una serie di mail recapitate agli iscritti alla piattaforma Rousseau all' inizio di settembre e resa nota praticamente in tempo reale da Matteo Flora, fondatore di The Fool e brillante imprenditore con aziende che si occupano di cybersecurity, reputazione sul web e diritto in campo tecnologico: «Caro iscritto al Movimento 5 Stelle, - recitava il messaggio di posta elettronica - abbiamo ricevuto notizia di un possibile accesso illecito ai dati presenti sul server dei servizi erogati per il Movimento 5 Stelle e le autorità stanno già indagando assieme a noi e alcune società che ci supportano per identificare le eventuali modalità di accesso e ulteriori protezioni da attivare alcune delle quali sono già state messe in piedi. In linea con quanto richiesto dalla nuova normativa sulla protezione dei dati personali (Gdpr) ti informiamo di questa potenziale violazione dei tuoi dati». La mail fa riferimento alla violazione della piattaforma Rousseau da parte di un hacker avvenuta a settembre 2018. Si tratta di un episodio diverso da quello che ha fatto scattare la multa del Garante, risalente a due anni fa. Il fattore tempo è decisivo: perché il Gdpr, la nuova e molto più stringente normativa europea sulla Privacy, prevedeva un' entrata in vigore posticipata del nuovo regime di sanzioni, in modo da dare tempo alle aziende di adeguare le proprie procedure di difesa. Il termine previsto era il 25 maggio 2018, circa tre mesi prima dell' ultima violazione subita da Rousseau ad opera del solito hacker, Rogue0. Nonostante le raccomandazioni del Garante e le promesse dei gestori di Rousseau di migliorare le difese, il misterioso incursore si era fatto beffe della creatura tecnologica di Casaleggio, mettendo in rete una lista di donazioni effettuate a luglio 2018 con nomi, cognomi, importi e indirizzi email dei donatori messi alla mercè di chiunque. La violazione è avvenuta appena due giorni dopo la pubblicazione in Gazzetta ufficiale. Il che apre all' applicazione dell' articolo 83 della norma, dove sono previste sanzioni durissime, fino a 10 milioni di euro. Tra le condizioni per valutare l' entità della sanzione c' è anche la presenza di precedenti provvedimenti subiti dal «responsabile del trattamento in questione relativamente allo stesso oggetto» e «il rispetto di tali provvedimenti». Rousseau ci ricadrebbe in pieno e, anche senza arrivare al massimo della multa, sarebbe una batosta ben maggiore dei 50mila euro impartiti in base alle norme pre-Gdpr. «Oltretutto - spiega Flora -la norma prescrive di avvisare gli utenti del sito violato entro 72 ore specificando una serie di dettagli che nella mail di Rousseau sembrano mancare». Il sospetto che con un nome gradito ai grillini il Garante possa diventare più tenero non è azzardato. E infatti Di Maio ieri ha accusato Antonello Soro di partigianeria, invocando un nome non politico, ma il nome che circola è quello dell' avvocato barese Marco Bellezza, che non solo è stato legale di Facebook (azienda spesso nel mirino per questioni di privacy), ma soprattutto consigliere giuridico dello stesso Di Maio per l' innovazione digitale. Alla faccia dell' indipendenza.

Tasse e fondi pubblici. Tutti i misteri dei soldi a Rousseau. Un libro inchiesta: le ricevute dei versamenti sollevano il sospetto di una elusione fiscale, scrive Giuseppe Marino, Sabato 06/04/2019, su Il Giornale. Le uova d'oro della gallina Rousseau valgono 650mila euro. Mica noccioline se si pensa che nella galassia pentastellata che ruota intorno a Davide Casaleggio c'è l'azienda fondata da papà Gianroberto che, nell'ultimo bilancio noto (2017), annota un fatturato di 1,17 milioni di euro e un utile di appena 20.480. Sulla gestione del tesoro di Rousseau aleggiano dubbi che fanno a pugni con il marchio di fabbrica della trasparenza che il MoVimento spende a piene mani nell'arena politica, incluso il rapporto con il fisco. Le fonti del fiume di denaro che piove nelle casse dell'associazione sono due: le oltre 22mila donazioni di piccola entità che provengono dagli attivisti e i 300 euro al mese che la copiosa pattuglia di parlamentari grillini si è impegnata a versare per coprire «le spese di funzionamento» della piattaforma che il MoVimento ha per statuto come unico possibile fornitore. La cifra totale nell'arco di una legislatura potrebbe arrivare vicino ai 6 milioni di euro. Su quest'ultima fonte di entrate a sollevare ingombranti quesiti sono stati gli autori di Il sistema Casaleggio (ed. Ponte alle Grazie), un volume inchiesta sulla galassia degli enti che ruotano intorno all'erede del defunto guru del MoVimento. Nicola Biondo, ex responsabile della Comunicazione per l'M5s alla Camera (prima che le pubbliche relazioni grilline diventassero dominio di Rocco Casalino) e Marco Canestrari, ex informatico presso la Casaleggio associati, sono venuti in possesso di una ricevuta del versamento da 300 euro di uno dei parlamentari grillini (che ha voluto mantenersi anonimo) rilasciata da «Rousseau». Il documento non parla di donazioni, ma è presentato come corrispettivo di un servizio: «Contributo per il mantenimento delle piattaforme tecnologiche che supportano l'attività dei gruppi e dei singoli parlamentari». Nicola Biondo, dopo aver fatto esaminare il documento al commercialista Alessio Argiolas, solleva una lunga lista di dubbi: «Noi da qui non possiamo capire se è stata pagata l'imposta di bollo, che si applica proprio sulla ricevuta. Sarebbe il caso che qualcuno lo chiedesse all'Associazione Rousseau. L'Iva è stata pagata?». Il documento, riprodotto in questa pagina, riporta la dicitura «Ricevuta», corredata sia da un codice fiscale sia da una partita Iva. Non c'è invece alcuna indicazione sull'eventuale importo da pagare per uno dei due balzelli, l'imposta di bollo o l'Iva, che andrebbe corrisposto nel caso in cui il documento dalla forma non impeccabile fosse da considerare come fattura. Per molto tempo, tra l'altro, i parlamentari non avrebbero ottenuto alcuna ricevuta per il versamento. La senatrice «ribelle» Elena Fattori sollevò la questione e ricevette i documenti solo poco prima di un'intervista televisiva. «A me non è arrivato nulla», dice invece il senatore Gregorio De Falco, che è stato espulso ma ha comunque onorato i versamenti per il periodo in cui faceva parte del gruppo parlamentare pentastellato. Ma c'è un ulteriore dubbio che andrebbe chiarito. Da dove provengono i contributi versati dai parlamentari? Domanda centrale -incalza Biondo- perché se vengono dall'indennità è un loro sacrificio, ma se provenissero dalle spese si configurerebbe un finanziamento pubblico non dichiarato, attraverso una partita di giro. L'associazione, oltretutto, non ha fatto piena chiarezza nemmeno sulla seconda fonte di entrate, le donazioni degli attivisti, avendo pubblicato un elenco composto di centinaia di iniziali, niente nomi. Uno sterminato omissis, salutato anche da qualche polemica interna. Che ovviamente è stata del tutto ignorata.

M5S, la blockchain fa il suo esordio sulla piattaforma Rousseau: primo voto con Casaleggio e Di Maio. La simulazione durante la due giorni milanese del Movimento. Dal Pd, il deputato Boccia rilancia: "Con Zingaretti doneremo al partito la piattaforma Hackitaly e li sfideremo sulla trasparenza", scrive il 10 marzo 2019 La Repubblica. Prove tecniche di blockchain nel Villaggio Rousseau del Movimento 5 Stelle, dove si è svolta la prima simulazione di voto "certificato" sulla piattaforma della Casaleggio Associati. Anche il vicepremier Luigi Di Maio, oltre a Davide Casaleggio hanno assistito alla prima votazione di questo tipo sul sistema che aumenterà, a detta del Movimento, la sicurezza delle consultazioni online. La simulazione all'interno della due giorni grillina a Palazzo delle Stelline di Milano, cui hanno partecipato 1800 iscritti. Casaleggio già ieri, anticipando l'inserimento della nuova tecnologia sulla piattaforma di riferimento di 5Stelle, aveva descritto con termini entusiastici il voto su blockchain definendolo "un nuovo diritto che sta emergendo online". "Il voto su blockchain - le sue parole - sarà sicuramente inserito nella piattaforma Rousseau non appena lo avremo costruito e finalizzato. Siamo qui anche per condividere un primo passo che è stato fatto in questa direzione anche grazie ai tanti sviluppatori che vorranno contribuire con le loro critiche e i loro suggerimenti su questo codice che sarà reso disponibile a tutti". Il sistema alla base del meccanismo consiste in una struttura di dati distribuita e immutabile, una sorta di registro digitale partecipato e decentralizzato, le cui voci sono raggruppate in blocchi concatenati cronologicamente, tenuti insieme da chiavi criptografiche che ne impediscono la modifica. Da qui la sicurezza, e l'impiego nelle transazioni online. "Tutti possono vederlo, giocarci ed evolverlo come pensano sia più utile - ha assicurato il fondatore e presidente dell'associazione che prende il nome dal filosofo francese - questo è un nuovo modo di gestire una parte di software e una parte di un nuovo diritto che oggi sta emergendo di voto online". Casaleggio garantisce anche sulla sicurezza del voto: "E' più sicuro e dal punto di vista del dato è blindato proprio per la tecnologia della blockchain che non permette nessuna modifica neanche successiva dei dati che vengono inseriti, ma soprattutto permette la certificazione distribuita, che è un nuovo modo di gestire il dato che fino a oggi non era possibile fare". Una kermesse dedicata all'Europa -  dove a tenere banco comunque le frizioni del governo - in cui sono stati toccati diversi temi, tra cui appunto la tecnologia creata per le criptovalute e applicata a vari ambiti, fino alla democrazia, nella visione grillina della partecipazione. Una prospettiva contestata a distanza ma apertamente dal deputato Francesco Boccia del Pd, al lavoro - ha spiegato contestando lo slancio tecnologico grillino - sulla stessa tecnologia. "Davide Casaleggio fa annunci utilizzando paroloni come blockchain, un argomento complesso che, in questo specifico caso viene utilizzato come "specchietto per le allodole" dopo il flop tecnologico del voto sull'autorizzazione a procedere su Salvini - la sua dichiarazione - A Milano è andata in scena l'ennesima farsa fatta a uso e consumo degli investitori potenziali per le attività della Casaleggio ma che non ci pare abbiano nulla a che fare con la democrazia italiana. Dicono che su Rousseau si arriverà con il voto con blockchain? A noi appaiono sempre più opachi e continueremo a sfidiarli sulla trasparenza online. Dopo l'insediamento del nuovo segretario del Partito democratico Nicola Zingaretti, doneremo al Pd la piattaforma Hackitaly - promossa in prima persona da Boccia - è open source e realmente trasparente, sfideremo proprio sulla trasparenza l'associazione Rousseau".

Soldi, banche dati e notai fedelissimi: cosa c’è nella scatola nera di Rousseau. La struttura gonfiabile del Rousseau City Lab nella tappa di Napoli, a dicembre 2018. Casaleggio è il dominus: tutti gli incarichi sono affidati a lui per statuto. "Presto nuova infrastruttura per accogliere milioni di attivisti", scrive Giovanni Vitale il 20 febbraio 2019 su L'Espresso. Diciotti, giunta del Senato dice no al processo a Salvini. Giarrusso mima le manette rivolto al Pd. Bonafede lo sconfessa. Diciotti, giunta dice no al processo a Salvini: alle proteste Pd Giarrusso (M5s) risponde col gesto delle manette.

È la scatola nera del M5S. Saldamente in mano a Davide Casaleggio che attraverso l'Associazione Rousseau - di cui è presidente, amministratore unico e tesoriere - controlla sia le casse del partito, sia le banche dati e la relativa piattaforma "per la democrazia diretta" con 100mila iscritti (40mila in meno rispetto all'anno scorso). "Ma stiamo lavorando a una nuova infrastruttura per raccoglierne milioni" spiega Erica Sabatini a nome di Rousseau. Da qualche tempo, a differenza del passato, si può accedere anche come "ospiti", ma per svolgere tutte le attività - proporre leggi o varare le liste - occorre aderire ai 5S. L'altro ieri, alla consultazione sul processo a carico di Salvini, "hanno votato oltre 52 mila iscritti, la giornata più partecipata del Movimento". Tuttavia certificata non da una società terza, come sarebbe stato lecito aspettarsi, bensì dal notaio storico del M5S: Valerio Tacchini, già alle prese col televoto dell'Isola dei Famosi.

Casaleggio associati e Rousseau. Fino a due mesi fa la sede fisica e legale di Rousseau coincideva con quella della Casaleggio Associati, l'azienda "madre" di consulenza fondata da Gianroberto e guidata dall'erede, ora traslocata vicino a piazza San Babila. Un indirizzo unico, via Morone 6, sufficiente ad alimentare il sospetto che l'associazione "senza fine di lucro" costituita da padre e figlio nel 2016 per "promuovere lo sviluppo della democrazia digitale e coadiuvare" l'azione politica dei Cinquestelle, fosse una costola della loro srl privata. Anche in virtù di un intreccio di ruoli, blindatissimi da regole e codicilli, che oggi fanno di Davide il padrone assoluto del Movimento. Sia il nuovo statuto dei 5Stelle sia il codice etico obbligano infatti a utilizzare esclusivamente la piattaforma Rousseau per consultare gli iscritti e gestire le votazioni online.

La nascita di Rousseau. L'associazione nasce l'8 aprile di tre anni fa con una dotazione iniziale di 300 euro, pari alle quote dei due fondatori: i Casaleggio. Appena 4 giorni dopo, il 12 aprile 2016, Gianroberto muore. Davide, rimasto socio unico, convoca l'assemblea (ovvero sé stesso), modifica lo Statuto e decide l'ingresso di due nuovi soci, l'anno scorso diventati tre: il fedele Max Bugani, che sta anche nella segreteria del vicepremier Di Maio; il "casaleggino" Pietro Dettori, pure lui a Palazzo Chigi, e la consigliera di Pescara Erica Sabatini. Per statuto tutti gli incarichi sono però appannaggio di Casaleggio jr. L'articolo 13 prevede infatti che "il presidente è nominato dall'assemblea tra i soci fondatori" (quindi Davide, il solo rimasto) e "quando l'amministrazione è affidata ad un singolo amministratore", come in questo caso, "il presidente è anche unico amministratore e presidente dell'ente". Ancora e sempre Davide. Che perciò delibera i rendiconti predisposti dal tesoriere e provvede, in questa ultima veste, alla gestione economico-finanziaria ordinaria. In pratica Casaleggio jr nomina, autorizza e vigila su sé stesso. Forte di un doppio tesoro. I dati degli iscritti e l'obolo dei parlamentari "che da Rousseau ricevono regolare ricevuta", dice Sabatini: 300 euro a testa al mese, 90mila euro totali, versati "per lo svilupppo e il supporto delle piattaforme informatiche M5S".

Il bilancio. L'ultimo disponibile è del 2017, primo anno completo dell'associazione, pubblicato sul Blog delle Stelle a giugno. Chiuso in rosso nonostante i risparmi sul personale: solo due i dipendenti a tempo pieno dichiarato, 4 sono part-time, più un collaboratore e uno stagista. Il disavanzo di gestione ammonta a 135.062 euro, con un patrimonio netto negativo di 55.386 euro. Troppe le uscite, rispetto ad entrate non proprio esaltanti: a fronte di 357mila euro di ricavi (ottenuti soprattutto dalle microdonazioni, in media 53 euro, solo 40 superiori ai mille euro) i costi superano i 493mila. A pesare gli esborsi sulla sicurezza, "investiti per la tutela degli iscritti e gli accantonamenti precauzionali per le spese legali relative alle cause in corso", si legge nel rendiconto. Anche di questo si occupa l'associazione di Casaleggio. Sicuro del proprio tornaconto: un milione di incasso per ogni anno di legislatura. Tanto quanto guadagnerà Rousseau dal contributo di deputati e senatori.

·         Il dossieraggio del M5s.

M5s, l'ex grillino Aldo Giannuli sui dossier: "Attività segrete, cosa hanno in mano", scrive il 5 Aprile 2019 Libero Quotidiano. La montagna di dossier su parlamentari e ministri da parte di esponenti del M5sè un vero e proprio fenomeno di schedatura spontanea da parte dei singoli parlamentari grillini, una "intelligence del Movimento" come l'ha definitiva il sottosegretario Stefano Buffagni, braccio destro di Luigi Di Maio e uomo delle nomine per conto dei grillini. Quelle di Buffagni non sono "parole a caso". L'esperto di intelligence Aldo Giannuli, fino a poco tempo fa sostenitore del M5s salvo poi prenderne le distanze, garantisce in un'intervista al Giornale che quel che dice Buffagni va preso con grande serietà. La costruzione sistematica di dossier a carico di alleati e avversari politici è "la prassi di tutto il sistema italiano - dice Giannuli -. Ha notato come si azzuffano quando bisogna scegliere il presidente del Copasir, il comitato parlamentare che vigila sui servizi segreti?". Resta il dubbio se l'attività venuta a galla tra i grillini sia nata per iniziative individuali o per mandato dall'altro della Casaleggio: "Io non escluderei un'attività anche di carattere difensivo di dossieraggio, da parte di singoli parlamentari o dirigenti del M5s". Giannuli tende a escludere che ci possa essere un'attività sistematica e coordinata di spionaggio politico da parte dei grillini, fondamentalmente perché non ne sarebbero capacità: "Qui abbiamo a che fare con un circo equestre senza organismi di controllo, per cui si alza il capo politico ed espelle una persona dal movimento". Uno degli aspetti che comunque lascia perplessi è la presunta attività di dossieraggio nei confronti di Salvini, cioè sul ministro dell'Interno: "Certo che è grave - ha aggiunto Giannuli -, ma che lo facciano loro non è più grave rispetto al fatto che lo facciano o lo abbiano fatto già altri. Il problema qui è che abbiamo chiuso gli occhi sulla vulnerabilità del sistema, perché lo sviluppo dei mezzi di comunicazione ha reso tutto più facile: intercettare mail, hackerare un sito, ascoltare telefonate". Quel che però non viene mai considerato con la giusta attenzione è il pericolo che queste attività può creare: "Stiamo sottovalutando i pericoli che derivano da questa situazione. E a dire quanto non si stia capendo niente lo dimostra il fatto che il M5s ha votato contro la normativa che stabilisce le regole sul web, parlando a vanvera di rischio censura su internet. Lo hanno fatto senza sapere che invece ora c'è il Far west sulla rete. Fatto sta che la politica funziona così - ha concluso Giannuli - e prima o poi verranno fuori storie abbastanza deprimenti. Perché tutti spiano tutti".

Il senso dei M5S per i «dossier». Giorgetti: ne hanno su tutti. Tommaso Labate per il ''Corriere della Sera'' il 3 aprile 2019. «Loro hanno dei dossier su tutti, anche su di noi...». Ecco, prima di delineare i contorni di questa spy story permanente che agita sottotraccia la vita dell’esecutivo e che solo in casi eccezionali finisce con una denuncia pubblica — è successo ieri, quando nel colloquio con Federico Fubini del Corriere il ministro Giovanni Tria ha detto di aver subito un «attacco spazzatura» con tanto di «violazioni della privacy» per la storia di Claudia Bugno — prima di tutto questo, insomma, bisogna fare qualche passo indietro. Al «loro», al «noi», all’io narrante. «Loro» sono genericamente ambienti del M5S; «noi», invece, sono i ministri della Lega di Matteo Salvini. L’«io», autore della confidenza fatta alcune settimane fa a una serie di amici e colleghi, colui che a ragione o a torto immagina che tra i corridoi di Palazzo Chigi ci sia un sospetto viavai di dossier, risponde al nome di Giancarlo Giorgetti. Sia chiaro, quelli che hanno raccolto la confidenza del sottosegretario alla presidenza del Consiglio si sono trovati di fronte un interlocutore tutt’altro che intimorito dall’andazzo denunciato. Giorgetti frequenta il Palazzo dall’epoca in cui il leader della Lega era Umberto Bossi, ne ha viste di tutti i colori, ha i galloni del veterano, di quello che ormai non si sorprende più di tanto. Epperò, al pari del resto della compagine leghista, il sottosegretario dev’essersi sorpreso assai nei primi istanti del consiglio dei ministri che a inizio febbraio doveva istruire la pratica del rinnovo di Luigi Federico Signorini alla vicedirezione generale della Banca d’Italia. Perché in quella sede, e su questo le testimonianze di diversi presenti alla riunione collimano, tutti i componenti del governo in quota M5S si erano presentati all’appuntamento muniti, manco a dirlo, di «un dossier» sull’uomo di finanza pubblica che da una vita è in Bankitalia. «Come se in qualche modo l’obiettivo», racconta una fonte, «fosse collegare in maniera pretestuosa la sua provenienza toscana al mondo renziano...». Infatti, il rinnovo non ci fu. È come se la denuncia di Giovanni Tria risvegliasse un mostro che non si era mai sopito. Fogli, screenshot, voci, veline e veleni hanno già scandito la fine dell’inverno della politica con caso che ha visto (suo malgrado) protagonista Giulia Sarti. «Credo si tratti di una vendetta politica interna al M5S. Lì dentro c’è una cyberguerra. Alla Casaleggio c’era una fobia nei miei confronti e tutti quelli che erano stati vicini a me erano visti con sospetto e subivano uno spionaggio stile Stasi», è la conclusione a cui era arrivato uno dei primi espulsi del M5S, Giovanni Favia, durante un’intervista rilasciata a Monica Guerzoni sul Corriere il 19 marzo. Anni fa, Favia era molto vicino all’ormai ex presidente della Commissione giustizia della Camera, finita nel tritacarne dopo l’inchiesta delle Iene. E dire che nel 2014 era stato Gianroberto Casaleggio a denunciare «dossier in preparazione contro di me, la mia famiglia e la mia società». Sembra passato un secolo. Dopo di allora, il giochino dei dossier è entrato e uscito dalla vita pubblica del Movimento inquinando in ordine sparso competizioni regionarie (Sicilia, seconda candidatura di De Vito, 2017), comunarie (Roma, ai danni di Marcello De Vito, oggi arrestato, 2016), i primi cento giorni della giunta Raggi e molto altro ancora. Oggi, nella maggioranza, qualcuno ha l’impressione che il senso della politica per il dossieraggio abbia varcato i confini di Palazzo Chigi. Trasformando in un ricordo quasi innocuo il grande scandalo che fece, nel 2009, la decisione dell’allora sindaca di Napoli Rosa Russo Iervolino di registrare a loro insaputa un confronto con i big del Pd partenopeo sulla giunta. Vista con gli occhi di oggi, una barzelletta.

Fabrizio Roncone per il ''Corriere della Sera'' il 3 aprile 2019. Dopo dieci minuti di colloquio, la mette giù così: «Il ministro Tria non è in discussione». Pausa . «Per il momento». Ha 35 anni, si chiama Stefano Buffagni ed è il grillino più potente di Palazzo Chigi (ufficialmente sarebbe sottosegretario agli Affari Regionali: ma, come vedremo, ha altro a cui pensare).

Tracce di leggenda: non si separa mai da una cartellina rossa in cui conserva i dossier più delicati del Paese.

Tracce di verità: dove c' è una poltrona da assegnare - Consob, Inps, Cdp, Fincantieri, Bankitalia - c' è lui. Molto amico di Giancarlo Giorgetti, sempre in contatto con il premier Giuseppe Conte, per anni legatissimo a Gianroberto Casaleggio, ora legato al figlio Davide e, perciò, assai ascoltato da Luigi Di Maio.

Tracce di attualità: uscendo da una riservatezza monacale, negli ultimi dieci giorni ha sferrato due attacchi durissimi. Il primo, alla Lega, per la partecipazione al Forum delle famiglie a Verona; il secondo, al ministro Giovanni Tria.

«Francamente, in questi giorni, con Tria avremmo preferito parlare di Def, di risparmi bancari, e invece siamo stati costretti ad affrontare un altro, sgradevole genere di argomenti: quello relativo al ruolo della dottoressa Claudia Bugno».

Tria ha detto ieri a Federico Fubini sul Corriere: «Ho subito un attacco spazzatura sul piano personale».

«Io credo che Tria si riferisse ad alcuni articoli pubblicati dal Fatto e da La Verità In ogni caso, dev' essere chiaro che noi non abbiamo l' abitudine, nelle vicende politiche, di attaccare i familiari dei nostri interlocutori. Insomma, per capirci: certe brutte cose non sono uscite dall' intelligence del Movimento».

Anche lei, comunque, è stato durissimo.

«Ho detto ciò che penso: noi non riteniamo idonea la dottoressa Bugno per ricoprire un certo ruolo. Io sto ancora qui a cercare di capire come sia stato possibile indicarla per StMicroelectronics Quella non è una poltrona di spartizione, quella è una postazione strategica dove deve finire una persona competente. Punto».

Quindi lei «No, aspetti: e la Bugno, mi chiedo, sarebbe competente? Ha un curriculum adatto? Noi del Movimento, con la nostra storia, potevamo accettare la sistemazione, su quella poltrona, di una signora che ha persino preso una multa perché coinvolta nelle tragiche vicende di Banca Etruria?».

Il ministro Tria dice che certe intimidazioni non passeranno.

«Tria, Tria Io non lo voglio nemmeno sapere perché la dottoressa Bugno si muova con tanta disinvoltura, perché vada in giro a dire si fa così, si fa colà, perché parli a nome del ministro». A voi, la sensazione è questa, il ministro Tria non piace a prescindere.

«Gliel' ho detto prima: lui non è in discussione, in questo momento».

Non vi piace, non lo sopportate: e, probabilmente, non avete il coraggio di sfiduciarlo perché sapete che con un governo così litigioso, così traballante e molto incerto in materia di economia, trovare un sostituto adeguato sarebbe forse impossibile.

«Noi non sopportiamo chi lavora per interessi personali e non pensando agli interessi del Paese. Aggiungo che quando poi Tria prova a ricattarci, beh, non è il massimo».

Sta dicendo una cosa grave.

«Senta: Tria, al momento, ha la fiducia del Parlamento. E io ovviamente rispetto sia la volontà del Parlamento, sia quella del Capo dello Stato».

Le parole di Buffagni sono queste. Pronunciate da chi sa che può essere netto, forte, minaccioso. Sensazione: Buffagni è abbastanza sicuro che la vicenda con Tria e la sua consigliera non sia ancora da considerare chiusa. Dove possa portare, poi, probabilmente non lo immagina però con precisione ancora nemmeno lui.

E dev' essere così.

Perché Buffagni, in questa fase, è l' uomo del Movimento che decide e sa (il legame con la Casaleggio Associati, come dicevamo, era e resta assai intenso).

Colpiscono alcuni dettagli: così giovane e già così abilissimo a cambiare tono di voce (da gelido e tagliente a complice e divertito). Attentissimo ai rapporti con i giornalisti: chiami e risponde, trova sempre cinque minuti. Spregiudicato se serve, prudente di istinto, cinico, veloce nel decidere. Pochi passaggi televisivi, poche foto, quasi mai al ristorante, mai nei salotti.

Schegge di curriculum: nasce a Milano, cresce a Bresso (periferia nord), tiene a far sapere che a 4 anni era in una piscina a nuotare, si laurea in Economia e management per l' impresa alla Cattolica, attivista a Cinque Stelle dal 2010, tre anni dopo in consiglio regionale, poi una moglie e un figlio. Una cosa che preferisce non raccontare: quando può, con altri volontari va nei reparti pediatrici degli ospedali e cerca di far sorridere i bambini travestendosi da clown. Una cosa che nessuno osa dirgli - puoi avere 35 anni, ma se sei già potente, te li trovi sempre tutti chini: ha un taglio di capelli anni Ottanta e indossa abiti da berluscones del tempo che fu (ma il sospetto è: uno così, lascia qualcosa al caso?). 

CASALEGGIO’S, SOPRANO’S A 5 STELLE? Il Fattoquotidiano.it il 5 aprile 2019. Nicola Biondo, ex capo della comunicazione del M5S e Marco Canestrari, ex dipendente della ‘Casaleggio Associati’ hanno presentato alla Camera dei Deputati, assieme a Walter Rizzetto, il libro ‘il sistema Casaleggio‘. I due autori accusano il figlio del di Gianroberto Casaleggio di conflitto d’interessi e paventano anche una “gigantesca elusione fiscale” attraverso “il contributo per il mantenimento delle piattaforme tecnologiche che supportano l’attività dei gruppi e singoli parlamentari” che deputati e senatori 5 Stelle versano all’Associazione Rousseau. “Davide Casaleggio è oggi il più grande lobbista d’Italia” affermano gli autori del libro.

Carlo Vulpio: I Casaleggios’ i 50 mila euro che devono pagare al Garante della privacy li vogliono da me”. Carlo Vulpio su Facebook il 5 aprile 2019. I Casaleggios’ i 50 mila euro che devono pagare al Garante della privacy li vogliono da me. Il principino Davide Casaleggio, infatti, erede per via dinastica della società commerciale che di fatto, attraverso la piattaforma Rousseau, è proprietaria di tutti i dati e i profili di 338 parlamentari della Repubblica italiana e dei parlamentari del M5s che siedono nel Parlamento europeo, che è proprietaria dello stesso M5s (di cui è “garante” Beppe Grillo, che di tutta l’architettura è solo il front-man), che possiede i dati e i profili di tutti gli iscritti alla medesima piattaforma, mi ha citato in giudizio, assieme alla piccola tv Tele Dehon dei padri dehoniani, per “diffamazione”. Non ha avuto il coraggio, il principino, di fare una querela penale. Si è limitato a una citazione civile, perché, com’è noto, in questo Paese - in cui la libertà di stampa, l’informazione, il diritto alla libera manifestazione del pensiero sono ancora da conquistare pienamente come è avvenuto nel resto del mondo occidentale -, se vuoi dissuadere e intimidire giornali e giornalisti, ma anche privati cittadini, devi azzannarli sui soldi. E così ecco che i Casaleggios’ vogliono soldi, soldi, soldi. Ma soldi perché? Perché i Casaleggios’ vogliono 50 mila euro da me e da Tele Dehon? Vogliono quattrini per le cose che ho detto in una puntata del programma Speakers’ Corner di Tele Dehon del 30 gennaio scorso (che i padri dehoniani appena ricevuta la citazione civile si sono precipitati a rimuovere dal web, quindi l’effetto intimidatorio intanto è stato sortito). E cosa ho detto in quel programma tv? Le stesse cose che ha detto il Garante della privacy con il suo provvedimento, che ha sanzionato i Casaleggios’ con una multa di 50 mila euro. Nel mio intervento, in base al diritto, garantito costituzionalmente, che ognuno di noi ha di esprimere le proprie opinioni e le proprie critiche, aggiungevo che tutta questa “architettura” messa su dai Casaleggios’ – partito-setta, codice “etico” con penali da 100 mila euro per i dissenzienti, versamento obbligatorio di 300 euro al mese alla piattaforma Rousseau da parte dei parlamentari ridotti a burattini, cosa che realizza di fatto quel finanziamento pubblico ai partiti vietato dalla legge italiana, violazione della Costituzione perché di fatto viene violato l’articolo 67 della Carta, che proibisce il vincolo di mandato – tutta questa “architettura”, dicevo, sostanzia di fatto un progetto eversivo, sul quale, se ci fosse un magistrato in Italia, andrebbe aperta una indagine penale, che dovrebbe valutare anche la sussistenza dei reati di estorsione e violenza privata. I Casaleggios’ non gradiscono e sparano citazioni per danni con l’arroganza dei nuovi potenti, i quali, orwellianamente, nelle forme e nella sostanza, sono di gran lunga peggiori dei potenti che li hanno preceduti. Poi, con il loro codazzo di giornalisti e intellò e imprenditori “etici”, si ritrovano tutti insieme alla convention di Ivrea, a usurpare il nome e l’eredità di Adriano Olivetti, che con i Casaleggios’ non c’entra nulla, ma viene, anch’egli orwellianamente, rovesciato nel suo contrario. I Casaleggios' non ci fanno paura. Anzi, ci rafforzano nella convinzione che difendere la democrazia, la Repubblica e la libertà è ancora più bello e necessario.

·         Beppe Grillo. Il moralizzatore: i condoni e la villa sulla spiaggia.

Parola di omicida (stradale). Alessandro Sallusti, Venerdì 29/11/2019, su Il Giornale. Il ministro Di Maio ha detto che bisogna revocare le concessioni autostradali al gruppo Benetton «per vendicare i morti del ponte Morandi», e sul suo blog Beppe Grillo si è accodato aprendo una campagna mediatica contro gli attuali gestori. La parola «vendetta» in bocca a un ministro della Repubblica fa paura più delle colpe dei Benetton. Un governo non dovrebbe né vendicarsi né vendicare, semmai pretendere giustizia (che si esercita nelle aule dei tribunali, non a Palazzo Chigi), rispettare e fare rispettare i contratti firmati, ammesso che ne siano capaci. Ed è qui che cascano l'asino vendicatore Luigi Di Maio e il suo compare Beppe Grillo: è un anno e mezzo, da quando cioè cadde il Morandi di Genova, che minacciano tutti i giorni di cacciare a calci i Benetton dalle autostrade ed è da un anno e mezzo che nulla accade. Evidentemente la cosa non è così semplice e forse neppure al momento possibile, né legalmente né economicamente. E poi siamo sicuri che un governo incapace a tenere in cielo i nostri aerei (caso Alitalia) e a produrre acciaio (caso Ilva) sia in grado di garantire più sicurezza ed efficienza sui seimila chilometri (e sulle migliaia di ponti e viadotti) della rete autostradale oggi in concessione? È una domanda retorica, perché la risposta è: no, non sono in grado di farlo, e se lo faranno «per vendetta» l'unico risultato è che saremo tutti più a rischio. Il moralismo unito al giustizialismo fanno disastri, come aver voluto togliere per questioni etiche lo scudo penale ai nuovi padroni dell'Ilva. A maggior ragione se a voler cacciare gli «assassini», e a fare la morale, è un signore, Beppe Grillo, condannato per triplice omicidio stradale e con sulle spalle sei condanne definitive per diffamazione, una delle quali per aver definito «vecchia puttana che si è comprata il premio Nobel» Rita Levi Montalcini. Almeno i Benetton non stanno scappando, come fece lui saltando giù dalla sua jeep in difficoltà su un sentiero e lasciandola così precipitare in un burrone con a bordo due amici e la loro bimba di nove anni. Per risolvere il caso autostrade ci vogliono processi rapidi ed equi, tecnici e politici capaci. Purtroppo non abbiamo, e non avremo, né gli uni né gli altri. E questo sì, grida vendetta.

Fulvio Abbate per huffingtonpost.it il 15 ottobre 2019. In Beppe Grillo truccato da Joker c’è la dimostrazione scenica dell’improbabilità politica del Movimento 5 Stelle. Cabaret funereo, ammuina da avanspettacolo istituzionale. Se ne può certamente ridere, se ne può certamente piangere, se ne può infine trarre la conclusione, non meno cabarettistica, che l’uomo, in verità, nel suo numero improvvisato, riportava alcuni di noi, i più esperti di commedia minore all’italiana, a rivedere Peppino De Filippo nei panni dell’onorevole missino ospite a “Tribuna politica”, proditoriamente truccato da bagascia dal sadico regista televisivo interpretato da Walter Chiari, così nel film “Gli onorevoli”. O piuttosto suggeriva la maschera di Aldo Fabrizi palazzinaro nella sauna di “C’eravamo tanto amati”. Un carnevale di cartapesta, suggestioni da “come eravamo” cinematografico, quanto al resto: zero politica. Beppe Grillo truccato da Joker, professionalmente parlando, mostra uno spettacolo spettralmente penoso, espediente da comico agli esordi, filodrammatica parrocchiale. L’uomo travisato da antagonista di Batman consegna semmai, sempre ai più attenti, la prova provata dell’etica mutante praticata dai grillini e dal loro capocomico fondatore. Molti commentatori di cose politiche, come accade in ogni ukase, cioè che hanno tuttavia la pretesa di mostrarsi culturalmente scafati, ogniqualvolta si trovano davanti a una solenne pubblica stronzata, riferiscono quest’ultima al Situazionismo. In realtà, il vero situazionista non si curerebbe mai di un film feticcio di massa, preferendo piuttosto prendere a calci nel sedere Joker stesso e ancor di più chi voglia farne un oggetto di dibattito presunto epocale. Beppe Grillo truccato da Joker è dunque la caricatura di un se stesso già caricaturale, votato a mostrarsi crudelmente spietato davanti ai suoi poveri fan-elettori. Soprattutto quando elenca i temi della già visionaria propaganda pentastellata: la sostenibilità, la crescita incontrollata dei consumi, l’assenza d’ogni attenzione ecologico nel continente asiatico, e così facendo sembra quasi di rivederlo ai suoi primordi, nell’antemarcia grillina, quando ancora si accaniva a martellate sui computer, facendo quasi il verso al mitologico fusto pubblicitario della Plasmon. Grillo cita addirittura l’entropia, concetto che alla maggior parte dei suoi fan deve risultare francamente oscuro, e nel far questo si rende simmetrico a Casaleggio jr., cioè alle non-risposte di quest’ultimo quando, sempre i cronisti, lo interrogano sull’opacità della Piattaforma Rousseau. Va da sé che perfino Davide in questa tornata, nonostante si presenti con aspetto da banalissimo uomo medio, da programmatore di pc, dà a sua volta la sensazione d’avere il volto impiastricciato di cerone. Beppe Grillo truccato da Joker alla fine è paccottiglia. Perfino il suo vaffanculo infine ribaltato, cioè rivolto ai suoi, pronunciato durante la festa per i 10 anni tenuta a Napoli per legittimare ulteriormente la coabitazione di governo con il Partito democratico, in realtà si esaurisce in se stesso, lascia il tempo che trova, potrebbe essere smentito già l’indomani. Vuoi che te lo spieghi meglio? Grillo sta dicendo che è preferibile lasciare gli altri a logorarsi che non fottere se stessi, e nel dire così, sebbene truccato approssimativamente da Joker, il rossetto sbavato tra bocca e baffi, in realtà sta indossando le orecchie e la gobba di Andreotti. Il cinismo soddisfatto di chi - chiamalo fesso - è riuscito comunque a occupare il Palazzo. Chi l’avrebbe mai detto quando il M5S era soltanto gazebo? Un risultato che riassume la fluidità etica del Movimento. Resta il vaffanculo, ora ritorto verso il suo popolo già blandito e adesso abbandonato al proprio destino, quelli dell’“allora il Pd?”, un copione che sembra cancellare perfino le molte energie profuse per issare lo spettro di Bibbiano in faccia agli ex antagonisti. Un trucco che rende irrilevanti le considerazioni su quanto i grillini siano post-ideologici, né destra né sinistra, più semplicemente dilettanti allo sbaraglio cui è ignota perfino la consapevolezza della storia. Alla fine, ciò che resta è un triste epilogo come in un finale di Fellini, con i cronisti e i notisti politici a fare il girotondo intorno a un signore anziano per l’occasione truccato da vecchio esaurito aspirante imitatore per la “Corrida” di Corrado, anche se volendo avrebbe potuto perfino travisarsi, che so, da Mandrake o magari da Tarzan, o perfino, pensando ancora una volta all’entropia, da Topo Gigio o ancora, non sembri sminuente, da Fra’ Cazzo da Velletri.

Claudio Bozza per corriere.it il 18 ottobre 2019. «Ci sono semplicemente troppi elettori anziani e il loro numero sta crescendo. Il voto non dovrebbe essere un privilegio perpetuo, ma una partecipazione al continuo destino della comunità politica, sia nei suoi benefici che nei suoi rischi». Beppe Grillo, citando un articolo pubblicato da New Republic nel 1970, lancia una provocazione dal suo blog: «E se togliessimo il voto agli anziani?», è il titolo del poste sulla piattaforma del fondatore del M5S. Le parole di Grillo sono molto forti e arrivano proprio nel momento in cui è sempre più inteso il dibattito sulla possibilità di allargare il diritto di voto anche ai giovani dai 16 anni in su. «In un mondo sempre più anziano, esperti, studiosi e politici propongono di abbassare l’età del voto (io lo proposi anni fa) — scrive il comico sceso in politica su beppegrillo.it —, ma cosa dovrebbero fare le democrazie quando gli interessi degli anziani sembrano essere in contrasto con gli interessi delle giovani generazioni?». L’idea di togliere il voto agli anziani, secondo quanto scrive Grillo «nasce dal presupposto che una volta raggiunta una certa età, i cittadini saranno meno preoccupati del futuro sociale, politico ed economico, rispetto alle generazioni più giovani, e molto meno propensi a sopportare le conseguenze a lungo termine delle decisioni politiche». E poi: «In tal caso, i loro voti dovrebbero essere eliminati del tutto, per garantire che il futuro sia modellato da coloro che hanno un reale interesse nel vedere realizzato il proprio disegno sociale aggiunge ancora il fondatore del Movimento — Gli elettori sono, in larga misura, guidati dal proprio interesse personale, e l’affluenza relativamente bassa degli elettori più giovani può essere in parte causata dal sentirsi alienati da un sistema politico gestito da persone che non considerano della loro stessa natura». Grillo non dà una definizione di anziano. Ma cita due parametri Istat: nel nostro paese le persone che hanno più di 65 anni, vicine all’età della pensione, o che hanno già smesso di lavorare, sono oggi oltre 13 milioni e mezzo. La classe più numerosa è quella di coloro che hanno tra i 65 e i 69 anni, ma ci sono anche 17.630 centenari. Sempre l’Istat, nel 2015, ha rivelato che dopo i 65 anni 1 persona su 5 non si interessa di politica e non ne parla mai e questa percentuale sale a circa 1 persona su 3 (il 32%) oltre i 75 anni. In entrambi i casi, comunque sia, anche lo stesso Beppe Grillo rimarrebbe privato del diritto di voto, visto che il padre nobile dei grillini ha 70 anni. Ma privare il diritto al voto dei cittadini più anziani sarebbe giusto?, si domanda retoricamente Grillo. La risposta: «La prima opposizione sarebbe quella della discriminazione, fondata sull’età. Ma è falso, affinché vi sia discriminazione vi deve essere un trattamento diverso tra due o più gruppi/identità basato su alcune caratteristiche arbitrarie. In questo caso, le politiche differenziate per età non dividono la popolazione in due o più gruppi, poiché tutti, alla fine, diventiamo anziani. Quindi non c’è ingiustizia». Il dibattito è aperto.

L’anatema di Grillo e tutti zitti. Ginevra Cerrina Feroni il 22 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Anziani, cives senza pienezza di diritti ma sottoposti a doveri. Una morte civile, ancor prima di quella naturale. Proposta choc. Fuori da ogni limite di ragionevolezza, seriamente preoccupante all’interno di ogni sistema che possa definirsi democratico, è la proposta di Beppe Grillo di togliere il diritto di voto agli anziani. Proposta ancora più censurabile e imbarazzante in quanto espressa non da una persona ai margini del quadro e del potere politico ma proprio dal grande “Pater” fondatore, ideologo e capo indiscusso del Movimento/ Partito dei 5 Stelle che insieme alla Sinistra governa oggi il Paese. Il post di Grillo non si connota come una gag provocatoria ed estemporanea di un istrione comico su un palcoscenico di teatro. Tutt’altro. Che tristezza il silenzio sull’anatema di Grillo contro gli anziani da rottamare e basta. Bene articolato in tutte le sue motivazioni e, dunque, ancora più agghiacciante nel suo complesso. In sintesi vi si afferma che «gli interessi degli anziani sembrano essere in contrasto con gli interessi delle giovani generazioni». Nel medesimo post si precisa altresì «che in Italia le persone che hanno più di 65 anni, vicini all’età della pensione o che hanno già smesso di lavorare sono oggi oltre tredici milioni e mezzo». Portando avanti la sua tesi, Grillo afferma che tale massa di anziani risulterebbe «non amare particolarmente il progresso». Da qui l’opportunità di deprivarli del diritto di voto per «favorire le giovani generazioni». Dunque: anziani, cives senza pienezza di diritti ( ma sottoposti a doveri). Una morte civile, ancor prima di quella naturale. L’Italia è una Repubblica democratica ( art. 1 Costituzione). E’ democratica perché fonda il potere politico sul suffragio universale, applicato come noto per la prima volta su scala nazionale il 2 giugno 1946. Un diritto di voto riconosciuto a donne e uomini a partire da una determinata età anagrafica, senza esclusioni di sorta. Fu un evento epocale. Si è affermato come principio supremo dell’ordinamento costituzionale. L’onorevole Attilio Piccioni così ammoniva in Assemblea Costituente nella seduta del 6 giugno 1947: «Bisogna far sì che il popolo, tutto il popolo, i 28 milioni di elettori in particolar modo, si sentano interessati, associati quasi permanentemente a quello che è lo sviluppo della vita pubblica locale e nazionale». Ecco perché questo quasi- silenzio che è calato sulla recente proposta di Grillo turba e non poco. Flebili o non incisive, rispetto alla sconsideratezza della proposta, sono le voci emerse nel pubblico dibattito. Nell’attuale complessa fase politica in cui, senza tregua, ci si interroga sul rischio di eventuali ferite che potrebbero essere inferte al nostro sistema democratico, la proposta di Grillo, in dispregio di diritti fondamentali costituzionalmente garantiti, risulta da non sottostimare nella sua pericolosità. Essa va, infatti, decifrata anche per ciò che può evocare: un primo passo verso lo svuotamento dei postulati fondanti la moderna democrazia, sia rappresentativa che diretta. Oggi si toglie il diritto di voto agli anziani, domani forse ai disabili, dopodomani magari agli avversari politici… e quant’altro. Ed allora ci domandiamo se, a fronte di una proposta di tal genere, non sarebbe opportuna una sua ricontestualizzazione in termini critici e una ferma presa di posizione da parte delle più alte cariche dello Stato, nel loro ruolo di garanti della Costituzione e dei diritti politici insopprimibili dei cittadini. In difetto, una deriva davvero insopportabile.

Grillo: “Togliamo il voto agli anziani!”. I vecchi rispondono. Le Iene il 28 ottobre 2019. Beppe Grillo qualche giorno fa ha proposto di togliere il voto sostenendo che a loro non interessa il futuro. Michele Cordaro ha chiesto un commento a chi il diritto di votare lo perderebbe. Barbara Alberti, Vittorio Feltri, Dacia Maraini, Maurizio Costanzo e non solo, rispondono alla provocazione del fondatore del Movimento 5 Stelle. Qualche giorno fa Beppe Grillo ha lanciato la proposta di togliere il diritto di voto agli anziani. “Se un 15enne non può prendere una decisione per il proprio futuro, perché può farlo chi questo futuro non lo vedrà?”, scrive Grillo sul suo blog. Michele Cordaro è andato da alcuni cittadini italiani di una certa età a chiedere cosa pensano di questa proposta.

Barbara Alberti, 76 anni, scrittrice, risponde: “Vecchio ai miei tempi era un titolo d’onore e adesso viene usato come insulto. Credo che a 16 anni non si sia ancora pronti per votare, bisogna essere maturi”. Vittorio Feltri, 76, direttore di Libero, alla proposta di togliere il diritto di voto agli over controbatte: “Togliere il diritto di voto è anticostituzionale. E poi le decisioni dei ragazzini dovrebbero essere più interessanti delle mie? Lo escludo. A parità di imbecillità cerchiamo tutti di avere gli stessi diritti”. La Iena gli chiede se le cose che interessano a lui sono le stesse che interessano ai giovani. Feltri Risponde in modo molto chiaro: “A me per esempio interessa la figa però non mi ricordo perché”. Anche sulle unioni civili dice la sua: “Le lesbiche mi stanno simpatiche perché hanno i miei stessi gusti”.

Dacia Maraini, 83, scrittrice, gli ricorda: “Grillo sarebbe il primo a perdere il diritto di voto. E comunque ci sono tante persone anziane che pensano al futuro, non per loro magari, ma per i figli o i nipoti”. Però. Le ricorda la iena, gli anziani sono più probabilmente contro matrimoni gay e legalizzazione di marijuana. Ma la Maraini non è d’accordo: “Non è una questione di età, è una questione di cultura”.

Maurizio Costanzo, 81, giornalista, conduttore, autore, commenta: “Ha perso una bella occasione per stare zitto. Comunque, non è vero che si diventa egoisti con l’età. Al massimo rincoglioniti, ma i rincoglioniti ci sono pure a trent’anni”. Costanzo propone anche qualche idea per il futuro: “Diamo il voto ai 16enni che sono molto più svegli di me e di Grillo”. Don Gino Rigoldi, 80, sacerdote ed educatore, fa una proposta diversa: “Sì, lo toglierei. Ma a chi ha tra i 30 e i 50 anni perché tendono a essere più furbi che giusti. E mi farebbe piacere che avessero la possibilità di votare i 16enni”.

Lia Levi, 88, scrittrice, ricorda una cosa molto importante: “Quando era bambina, essendo ebrea ho vissuto le leggi razziali. Quando procedi per categorie vai sempre molto vicino al razzismo. Sul voto ai 16enni invece terrei i 18 come limite per dare loro la possibilità di formarsi. Perché dare il voto a chi non ha ancora trovato se stesso?”. Lina Wertmüller, 91, regista, specifica: “Gli anziani conoscono la vita più dei giovani, quindi hanno maggiore esperienza”. Con questo ben di Dio di intervistati non potevano mancare dei suggerimenti per Beppe Grillo.

Vittorio Feltri affronta il tema della costituzione: “Io l’ho studiata e sono in grado di suggerirgli di dare una ripassata e vedrà che lui non può fare una proposta così idiota”. Dacia Maraini fa un lieve monito: “Stai attento, perché a volte le provocazioni vengono prese sul serio”. Maurizio Costanzo suggerisce di ampliare il suo lessico: “Si distragga con altro, diceva così bene Vaffa, trovi un’altra parolaccia”. Barbara Alberti propone infine il silenzio: “Lui la spara enorme e nessuno la commenta. Sarebbe un boato silenzioso salvifico enorme”.

Paolo Becchi contro la follia di Grillo: "L'ultima dell'Elevato di sto' cazzo". A chi vuole togliere il voto. Libero Quotidiano il 18 Ottobre 2019. "Togliere il voto agli anziani". Provocazione o svolta inquietante? Per Paolo Becchi, il post pubblicato da Beppe Grillo è solo "l'ultima dell'Elevata di sto' cazzo". Dalle parti del guru dev'essere successo qualcosa di grave, a giudicare dalla clamorosa svolta ferragostana che ha dato il via libera al ribaltone a una indigeribile (per i grillini delle origini, tra cui lo stesso Becchi) alleanza con il Grande Nemico Pd. Il filosofo, editorialista di Libero e ideologo sovranista, su Twitter non può lasciar passare la "proposta" del fondatore del Movimento 5 Stelle e a sua volta, caustico, rilancia: "Dopo una certa togliamo il diritto di voto e magari anche il diritto alla vita con un bel programma nazionale eutanasico". Il retrogusto è inquietante: "Così creeremo la razza superiore degli Elevati. A me ricorda qualcosa, a voi?". Ecco l’ultima dell’ Elevato di sto’ cazzo: dopo una certa togliamo il diritto di voto e magari anche il diritto alla vita con un bel programma nazionale eutanasico. Così creeremo la razza superiore degli Elevati. A me ricorda qualcosa, a voi?

Rita Pavone risponde a Beppe Grillo: "Vuoi togliere il voto agli anziani? Allora ecco dove devi andare". Libero Quotidiano il 19 Ottobre 2019. Anche Rita Pavone se la prende con Beppe Grillo. La proposta del comico e fondatore del M5s di "togliere il voto agli anziani", più che una provocazione, si è trasformata in una valanga politica sul guru grillino e i suoi seguaci. E la famosissima interprete di Datemi un martello, che sui social non si sottrae mai alla polemica politica e sociale, gli risponde per le rime: "Allora vada a casa e si metta in poltrona con il plaid sulle gambe. Essendo del 1948, anche lui fa parte della terza età". In un post pubblicato sul suo blog, Grillo aveva gettato l'amo con queste parole: "Se un 15enne non può prendere una decisione per il proprio futuro, perché può farlo chi questo futuro non lo vedrà?". Un passo ben oltre il diritto di voto ai 16enni.

Mastella contro Beppe Grillo: "Via il voto agli anziani? Se i giovani sono come gli amici di suo figlio...". LIbero Quotidiano il 18 Ottobre 2019. Dopo Paolo Becchi è Clemente Mastella a criticare il fondatore del Movimento Cinque Stelle e la sua ultima proposta: "Grillo ha dichiarato che bisogna togliere il voto agli anziani. Spero stia scherzando, altrimenti siamo alla follia. E poi se penso ai giovani che frequentavano il figlio di Grillo e che hanno, da quanto letto, violentato una ragazza milanese. Beh, diecimila volte il voto agli anziani".  Il commento dell'ex parlamentare azzurro giunge dopo le durissime parole di Beppe Grillo intenzionato a "togliere ai non più giovani la possibilità di votare". Il motivo? "L'idea nasce dal presupposto che una volta raggiunta una certa età, i cittadini saranno meno preoccupati del futuro sociale, politico ed economico, rispetto alle generazioni più giovani" giustifica il comico sul blog dei Cinque Stelle dimenticando che il voto non è solo un dovere, ma anche un diritto di ciascun cittadino. 

Gino Strada: «La proposta  di Grillo di togliere il voto agli anziani? Una sciocchezza». Pubblicato sabato, 19 ottobre 2019 da Fabrizio Caccia su Corriere.it. Gino Strada, lo chiediamo a lei che ha 71 anni ed è coetaneo di Beppe Grillo e addirittura nel 2013 fu candidato dal Movimento 5 Stelle a presidente della Repubblica...

«Sì, ma non credo che al prossimo giro, nel 2022, riproporranno la mia candidatura per il Quirinale eh? Anzi, penso proprio di no».

Lo dice per le forti critiche che ha mosso ai Cinque Stelle già nello scorso governo sul decreto sicurezza, sulla gestione dei migranti?

«Già».

Comunque Grillo, nel suo blog, ha proposto di togliere il voto agli anziani, citando tra l’altro un’indagine Istat secondo cui dopo i 65 anni una persona su 5 non si interessa più di politica.

«La trovo una sciocchezza. Io non devo insegnare niente a nessuno, però in questo caso direi che è proprio vero: “Un bel tacer non fu mai scritto”. .. ».

Perché?

«Cioè, insomma, secondo Grillo tutti gli esseri umani sono liberi e uguali fino a 64 anni e poi dopo addio?».

Infatti Vincenzo Costa, presidente dell’Auser, l’associazione per l’invecchiamento attivo, ha protestato fermamente: «Se Grillo non vuole più andare a votare lo faccia - ha detto - ma lasci intatti i diritti di cittadinanza degli altri, perché quelli non hanno età».

«Proprio così. Giusto. Anzi io penso che bisognerebbe coinvolgere di più gli anziani nella politica, gli anziani sono una risorsa, bisognerebbe piuttosto portarli nelle scuole a raccontare ai ragazzi la storia del nostro Paese. Loro sono la nostra memoria e senza memoria si vive male. Anzi di più: diventa rischioso».

Tra pochi mesi con Emergency lei aprirà il secondo ospedale in Africa: è stato progettato da Renzo Piano, un altro vecchietto niente male.

«Ho sentito bene? Noi due “vecchietti”? Comunque è vero: l’ospedale ormai è pronto, l’abbiamo finito di costruire e nella primavera del 2020 inaugureremo questo centro d’eccellenza di chirurgia pediatrica in Uganda che farà bene a tanti bambini e si aggiungerà alla cardiochirurgia già attiva a Khartum, in Sudan, che cura già pazienti di 30 Paesi diversi. L’idea è quella di creare con Emergency una rete che possa aiutare tutta l’Africa nei prossimi anni. Sì, ma io qui non sto parlando di me o di Renzo Piano...».

Prego, continui.

«Voglio dire: ce ne sono a bizzeffe in Italia di anziani che hanno ancora una grande passione politica e civile, parlo di cittadini comuni, anche persone semplicissime che non hanno un pezzo di carta, un diploma, una laurea, eppure avrebbero tanto, tantissimo, da insegnare in giro. Gli anziani devono essere valorizzati in questo Paese. Invece, se togli loro anche il voto, rischi davvero di farli sentire più inutili, li emargini sempre di più».

E cosa pensa invece dell’idea di Grillo di abbassare l’età del voto?

«Il voto ai sedicenni? Sì, stavolta sono d’accordo. Ma a una condizione: che prima venga insegnata loro l’educazione civica, invece di toglierla dalle scuole. Questi cittadini neovotanti, infatti, avrebbero l’enorme responsabilità di decidere chi poi dovrà rappresentarci nelle istituzioni. Perciò è il caso che vadano a votare preparati».

Voto agli anziani, lettera di un prof furibondo con Grillo. Massimo Fochi, professore Storia e Filosofia su Nicolaporro.it il 27 ottobre 2019. Ho ricevuto questa bella riflessione sul diritto di voto agli anziani e ai sedicenni da un professore di Storia e Filosofia che con piacere pubblico. "Platone riteneva che giovani e politica dovessero essere tenuti separati. Perché? Con La Repubblica, Platone attacca la democrazia in cui “i giovani pretendono gli stessi diritti, le stesse considerazioni dei vecchi”. Ma tutto questo, secondo il grande filosofo, sarebbe assurdo e non può funzionare, perché la società finirebbe sotto il controllo di questo gruppo certo energetico e vitale, ma allo stesso tempo privo di esperienza, impulsivo, pronto alla violenza e poco riflessivo (pensiamo a come sono gli adolescenti!) e quindi ci sarebbe il rischio di portare alla rovina la collettività e lo Stato. Superato questo punto di vista estremo e recuperato il contributo che anche i giovani possono e debbono dare alle decisioni collettive, siamo davvero convinti che estendere il voto ai sedicenni sia una buona idea? Venendo a noi, al nostro tempo mi chiedo: come si fa a confondere una moda superficiale e transitoria (del tipo: andiamo a manifestare per il clima, con finalità generiche e persino ovvie) con una vera capacità e volontà di interessarsi ai problemi collettivi? I ragazzi di oggi, escluse pochissime eccezioni, li sentite mai parlare o interessarsi di politica? Magari hanno anche ragione, la politica che possono vedere fa schifo ma la loro unica reazione è: me ne frego! Ma poi se un minorenne non è pienamente imputabile perché ritenuto non in grado di deliberare in maniera consapevole nemmeno per se stesso e nell’agire personale, lo rendiamo responsabile delle sorti collettive??? Davvero poche idee e pure confuse nei nostri politici, ma come diceva Gaber, quando è moda è moda. Non basta, non c’è limite al peggio. Arriva Grillo e propone di togliere il voto agli anziani. In Europa le legislazioni elettorali si sono per lungo tempo ispirate al principio del suffragio ristretto, stabilendo dei requisiti di reddito o di cultura o ad una combinazione dei due requisiti. Dunque da un punto di vista teorico, la limitazione del suffragio origina dall’idea che il voto non sia un diritto ma una funzione e che pertanto si può decidere chi sia il più idoneo a svolgerla. Ma nella nostra Costituzione e nella nostra cultura democratica riteniamo che non sia così. Per noi, giustamente, il voto è un diritto! Il diritto di voto, come sancito sempre nell’articolo 48 della nostra Costituzione, può essere limitato solo in questi casi: 1) per sopravvenuta incapacità civile 2) per effetto di una sentenza penale irrevocabile 3) negli specifici casi di indegnità morale indicati dalla legge. Come vediamo quindi, non è assolutamente contemplata, come causa di perdita del diritto, il tempo rimasto a disposizione. (Grillo dimmi, vogliamo calcolare il tempo di vita rimanente pure ai malati terminali onde negare anche a loro il diritto? Ma poi perché non interdire anche gli infartuati, i diabetici o chi abbia esami del sangue sballati: potrebbero vivere poco…).

La moderna democrazia si fonda sull’idea che non esistano decisioni “giuste” per tutti, ma che la politica debba tener conto e produrre una complicata composizione di interessi differenti, grazie a prospettive e contributi diversi e tramite un voto che sia il più esteso, composito e rappresentativo possibile. Perché mai il contributo di chi sia anziano ed esperto, di chi abbia avuto una vita di lotte, conquiste ma anche disillusioni e grandi speranze magari andate deluse dovrebbe essere superfluo? Non sarebbe preziosissima, inestimabile questa esperienza? Tutte le civiltà hanno ritenuto che i saggi, gli anziani dovessero guidare la collettività e ora arriva la svolta! I nostri tempi si ricorderanno perché hanno visto Grillo proporre una nuova opera di filosofia politica indelebile nei secoli: La “Rap publica” di Joker, un capolavoro!" Massimo Fochi, professore Storia e Filosofia

I Vecchi alla riscossa. De Benedetti, Del Vecchio, hanno 80 anni ma ancora la voglia di lottare e strigliare manager e figli. Giorgio Gandola il 30 ottobre 2019 su Panorama. «Capisco che i miei figli non amino il giornale, però smettano di distruggerlo». C’è chi a 84 anni passeggia fuori stagione sulla spiaggia di Alassio con il labrador, chi osserva i cantieri della metropolitana addormentandosi su una panchina e chi si prepara all’ultima battaglia. La più assurda e difficile, quella contro la prole alla quale aveva affidato l’azienda. Quindi contro se stesso. Carlo De Benedetti a caccia del 29,9 per cento del gruppo Gedi perché i conti vanno male e l’azione vale 23 centesimi («so che il prezzo è basso, ma hanno fatto un disastro») non è solo un fremito da pagina dell’economia o il capriccio senile di un signore annoiato. È un gigantesco colpo di scena hollywoodiano, è l’uscita del faraone dalla piramide in una notte di luna piena per riprendersi la scena. I figli Rodolfo e Marco, intanto, difendono la poltrona di comando di Repubblica e ricevono schiaffi in silenzio, anche dalla redazione dove sono partiti gli applausi per l’Ingegnere e nessuno si è sognato di dire una sola parola in loro favore. Hanno respinto l’offerta al mittente considerandola una miseria e probabilmente non si capacitano del ritorno di paparino con la scimitarra. Proprietario del colosso Kos - 81 fra residenze per anziani e strutture mediche per un totale di ottomila posti letto ottenuti con sostanziosi accreditamenti pubblici - è impensabile che non abbia trovato un attico vista mare per sé. Eppure gira in tondo con aria da raider dalle parti di Largo Fochetti, vittima di un dinamismo da trentenne, prefigurando di ricomprare-risanare-regalare (verbo per lui privo di significato dalla nascita) il gruppo a una fondazione. Sembra una follia, un eccesso di stizza. Invece il ritorno dei grandi vecchi è una elettrizzante tendenza che manda al rogo l’ennesima sgangherata profezia di Steve Jobs: «In questo momento il nuovo sei tu, ma fra non molto sarai il vecchio e verrai spazzato via». Ma davvero? Leonardo Del Vecchio, Luciano Benetton, Silvio Berlusconi, Giuseppe De’ Longhi, Ferruccio Ferragamo. E prima di loro Bernardo Caprotti, Pietro Barilla, Maurizio Borletti, la famiglia Busnelli, vincenti nel riconquistare l’azienda. E nel mondo colossi come l’indiano Ratan Tata o l’estemporaneo miliardario statunitense Warren Buffett, che non si è dovuto riprendere niente ma è un esempio devastante per ogni catena di comando politicamente corretta: lui ha 89 anni, il suo vice Charles Munger 95 e il delfino Tony Nicely 75, un liceale. La squadra degli ottantenni potrebbe vincere la Champions league della finanza. Se anche De Benedetti dovesse riuscire nella scalata-bis ai gioielli di famiglia arriverebbe secondo, dopo Bernardo Caprotti che nel 2011 riprese il controllo di Esselunga allora di proprietà dei tre figli. Gliel’aveva data lui attraverso una fiduciaria, s’era tenuto solo l’8 per cento, ma un giorno andò a fare la spesa, ne uscì disgustato e decise di tornare a battere cassa. Gesti estremi ma non estranei al capitalismo familiare, capace di colpi di mano e di romantici ritorni a casa. Come quello di Pietro Barilla, gigante della pasta italiana, che nel 1975 vendette la sua creatura alla multinazionale statunitense Grace per ricomprarla quattro anni dopo in nome dell’italianità. E non senza sofferenze. Un giorno disse: «Nel 1978 non avevo ancora la cifra in cash e davanti ai manager di Grace rimasi così male che mi misi a piangere». Tre anni fa, quando ha deciso di rientrare in Luxottica perché avvertiva sinistri scricchiolii, l’allora ottantunenne Leonardo Del Vecchio lo ha fatto in sordina, ma con decisione. Benservito all’a.d. Adil Khan, di nuovo pieni poteri per sé, mentre l’ex top manager Andrea Guerra sceglieva la via della Leopolda renziana. Il maggior gruppo mondiale degli occhiali aveva di nuovo il fondatore sulla tolda. Perché? «Si tende a dare sempre più importanza ai manager» spiegò. «Ma ciò che veramente conta sono le idee, la visione imprenditoriale, la capacità di guardare lontano. Il manager si concentra sulle tecniche di gestione e a volte si dimentica di chiedersi se il prodotto che fa è buono o cattivo». Con la stessa determinazione un mese fa, a 84 anni, Del Vecchio è andato all’assalto di Mediobanca. Ha scelto l’11 settembre, data simbolica, per scuotere il salotto di Piazzetta Cuccia e in una settimana ha rastrellato il 6,94 per cento delle azioni. Un blitz in piena regola, senza annunci, senza avvisaglie, da grande condottiero silenzioso. Semplicemente l’a.d. della banca d’affari milanese Alberto Nagel è accusato dal numero uno di Luxottica di poco coraggio, se non di immobilismo. Agli amici Del Vecchio ha rivelato che «si aspetta un cambio di passo» ed è pronto a salire al 14 per cento. A quel punto la sua non sarebbe solo una secchiata d’acqua gelata per la sveglia, ma l’indicazione della porta d’uscita. Gli economisti da salotto ce l’avevano venduta come la stagione delle agili gazzelle bocconiane con master a Harvard, invece è sempre quella degli orsi grigi. Riflessivi, apparentemente lenti, con gli occhiali sulla punta del naso e il plaid sulle ginocchia, ma determinati a colpire senza scampo negli anfratti della foresta finanziaria. Saggi e letali. Pronti a sussurrare ai giovani, parenti o no, la strofa di Paolo Conte: «Come disse Atahualpa o qualche altro dio, descansate niño che continuo io». Più o meno il senso di ciò che ha detto Luciano Benetton alla famiglia tornando a 82 anni sul ponte di comando. Nessuna faida, ma l’accettazione dura (per i figli) di un dato di fatto: l’azienda aveva bisogno del totem. Poche taglienti parole quando ha fatto piazza pulita del passato, sostenuto dalla sorella Giuliana, due anni meno di lui: «Nel 2008 avevo lasciato l’azienda con 155 milioni di fatturato, la riprendo con 81 di passivo. Mentre gli altri ci imitavano, la United colors spegneva i suoi colori. Ci siamo sconfitti da soli e negozi che erano pozzi di luce sono diventati bui e tristi come quelli della Polonia comunista. Sono tornato a metterci la faccia, nel 2020 tornerà in attivo anche il bilancio». Parole dolci per gli oltre 7 mila dipendenti, micidiali per il sangue del suo sangue. Una restaurazione completata tre mesi fa quando è stato richiamato in ufficio - nel suo ufficio - Gianni Mion (76 anni), il vero ingegnere finanziario dell’impero, colui che 30 anni fa seppe trasformare gli artigiani dei maglioncini in una delle più potenti famiglie italiane. E che oggi deve occuparsi della successione dei talenti. Due ulteriori rientri vip hanno lasciato strascichi ribollenti di retroscena. Uno è quello di Ferruccio Ferragamo (73 anni) nel quartiere generale fiorentino di una delle griffe del lusso più famose del mondo. Presidente e amministratore delegato ad interim, dentro lui e fuori il delfino di turno, Eraldo Poletto, dopo soli 18 mesi e dopo una significativa flessione della redditività. Frase definitiva e molto british per motivare la decisione: «Era un bravo manager, sul quale avevamo puntato per l’esperienza nel retail e nel marketing, ma è sopraggiunta una diversità di vedute strategiche. Ne abbiamo preso atto e ci siamo lasciati in buoni rapporti». L’altra «riconquista» alla spagnola è quella di Giuseppe De’ Longhi (80 anni, trevigiano, 3,3 miliardi di patrimonio netto), l’artefice del successo della multinazionale dei piccoli elettrodomestici, tra macchine per il caffè, robot da cucina, climatizzatori e aspirapolvere, arrivata a 2 miliardi di ricavi. Ha deciso che il futuro digitale va cavalcato nel modo giusto e a guidare la rivoluzione intende esserci lui. Tutto ciò somiglia a una foto immortale di Robert Capa, scattata in Sicilia nel 1943 dopo lo sbarco americano: raffigura un pastore locale che indica con un bastone la strada per Palermo a un giovane soldato palestrato. Il marine dell’Iowa accosciato è alto come il vecchio picciotto in piedi. Ma è quest’ultimo a indicare la strada al ragazzone. L’uno ha dentro di sé gioventù e forza, l’altro la bussola del tempo. «Onora il padre» scriveva Tommaso Berger vent’anni fa urlando al tradimento filiale. E scalava le classifiche della saggistica dopo avere scalato quelle dei redditi con marchi come il caffè Hag, le acque minerali Fiuggi, Sangemini, Ferrarelle, Levissima, Uliveto e la pomata Vegetallumina. Storie di dolore e di tribunali, di imperiosi ritorni e di cessioni per monetizzare. Onora il padre è la metafora di Ratan Tata (81 anni, la gerontofebbre non è solo italiana), che cinque anni fa aveva lasciato la tolda dell’impero indiano dell’acciaio, dell’auto (anche Jaguar e Rover), della finanza. Ma dopo due bilanci a precipizio è tornato nottetempo a Mumbai a silurare il presidente Cyrus Mistry contro il parere dei figli e rischiando una crisi di governo. Ha abbandonato lo yacht per rientrare a osservare i mercati dal forziere di Paperone. È l’azionista numero uno, il primo cent fu del nonno. «Avevo il diritto, anzi il dovere di farlo». Ottantenni con la nostalgia del comando. Il fenomeno è dirompente, controtendenza, quindi televisivo. Non a caso l’ultimo successo Hbo s’intitola Succession, serie tv in onda su Sky Atlantic dove padri e figli si scannano per il potere dentro la famiglia Roy, top nei media. La rivista Variety spiega che l’autore Jesse Armstrong ha preso spunto da Rupert Murdoch & Sons. Ma la fiction potrebbe essere facilmente ambientata in Italia. Per una volta non ad Arcore, perché Silvio Berlusconi (83 anni) di sta muovendo con i mezzi corazzati non contro i figli e il management ma a favore. Preoccupato per l’assedio di Vincent Bolloré a Mediaset, il Cavaliere ha fatto arrivare gli ussari del fondo Peninsula (guidato dall’ex top manager di Mediobanca, Stefano Marsaglia) con un miliardo fresco per supportare Piersilvio nella realizzazione di MediaForEurope, il nuovo polo europeo della TV in chiaro, e per blindare l’azienda di famiglia. Si è messo di nuovo davanti a tutti a prendere il vento in faccia, leader napoleonico fino in fondo. Diceva Benedetto Croce che «la cosa migliore che possano fare i giovani è invecchiare». Più che un destino, una condanna. I gerontoleoni l’hanno preso in parola e a due mesi dal 2020 continuano a immaginare la foto di famiglia simil-Buckingham Palace anni Cinquanta. Con i padri in piedi, la mano protettiva appoggiata sulla spalla delle madri in crinolina. I figli stanno al loro posto più in basso in pantaloni alla zuava e ciuffi da Guerra e Pace appiccicati alla fronte. Innocui e annoiati come i levrieri accucciati. Si divertano pure con le blockchain e i bitcoin, l’importante è che non facciano danni. In molti lo pensano, De Benedetti lo ha spiattellato chiaro. Peraltro Rodolfo e Marco hanno un vantaggio decisivo sui colleghi in ritirata: per conoscere le novità di famiglia non devono neanche invitare a cena il vecchio e stappare un Sassicaia per rabbonirlo. Basta che accendano la tv alle 20.30, lui sta spiegando tutto a Lilli Gruber. 

Giorgio Meletti per “il Fatto Quotidiano” il 5 novembre 2019. Il capostipite fu Julius August Walther von Goethe. Non sappiamo quanto la sua dedizione all' alcol fosse dovuta a un padre ingombrante come Johann Wolfgang. Certo è che, quando morì a Roma di cirrosi epatica, il grande scrittore fece scrivere sulla tomba "Figlio di Goethe", privandolo per sempre dell' identità personale. La storia dell' uomo è piena di padri che trattano i figli come prolungamenti di sé. Ma quella lapide, "figlio di Goethe", al cimitero acattolico di Roma sembra un monumento al capitalismo familiare italiano. La borghesia industriale è ossessionata dal desiderio di farsi dinastia. Molte delle maggiori imprese italiane, a cominciare dalla Fiat, sono andate in malora per la fissazione dei fondatori di affidarle a un consanguineo. Un drappello di feudatari onnipotenti ha imposto a un sistema economico arcaico il prezzo dei propri fallimenti, quasi sempre riconducibili ai drammi freudiani del rapporto padri-figli. Ogni dramma familiare è costato alla comunità dei sudditi miliardi di euro e migliaia di posti di lavoro. Nessuno ha protestato. Per decenni banchieri, manager, azionisti di minoranza, economisti, politici e giornalisti hanno taciuto per non perdere la priorità acquisita nella gara a chi otteneva il maggior beneficio con l' elogio più spudorato del padrone, e soprattutto dei figli quand' anche palesemente idioti.

Da questo punto di vista, la figura più limpida è stata quella del fondatore dell' Esselunga, Bernardo Caprotti, morto tre anni fa a 91 anni. Una decina d' anni prima dell' inderogabile commiato, aveva già tolto le deleghe gestionali a suo figlio Giuseppe, non giudicando all' altezza nessuno dei tre eredi. Successivamente aveva rafforzato il concetto revocando la donazione ai figli di primo letto Giuseppe e Violetta del 70 per cento delle azioni, che poi sono finite a Marina, figlia della seconda moglie Giuliana Albera. Le due creature deluse avevano fatto causa al padre, secondo una mozione degli affetti tipica delle belle famiglie del capitalismo italiano, di cui resta maestra insuperata Margherita Agnelli, la figlia dell' Avvocato che sull' eredità del padre ha fatto causa sia alla madre Marella Caracciolo che al figlio John Elkann.

Leonardo Del Vecchio a 84 anni ancora comanda sentendosi insostituibile. Anche lui ha prima promosso e poi eliminato dalla linea di successione manageriale il primogenito Claudio, 63 anni, e ha dato e tolto azioni ai sei figli. La struttura familiare è complessa. Claudio, Marisa e Paola sono figli della prima moglie Luciana Nervo, Leonardo Maria, ventenne, è figlio della seconda e quarta moglie Nicoletta Zampillo, i più piccoli Luca e Clemente li ha avuti dalla terza moglie Sabina Grossi, una parentesi rosa tra il primo e secondo matrimonio con la Zampillo. La quale, caso più unico che raro, tiene alto il vessillo muliebre nel capitalismo italiano. Dopo il divorzio del 2000, Del Vecchio l' ha risposata nel 2010 riconoscendole un premio notevole: adesso è lei l' erede principale, alla morte del marito avrà il 25 per cento della Luxottica e in prospettiva suo figlio Leonardo Maria è in pole position per comandare su fratelli e sorelle. Del Vecchio non ha la fissazione di essere avvicendato da un consanguineo, semmai quella di non essere mai avvicendato. Quelli che non si arrendono al calendario tengono all' amo i figli per decenni, spesso trasformandoli in altrettanti patetici Carlo d' Inghilterra.

Caso tipico sarebbe il 55enne Alessandro Benetton, che però forse la voglia di fare l'erede al trono non l'ha mai avuta. E comunque deve fare i conti con una famiglia complicata: quattro quote equivalenti, risalenti ai fratelli fondatori Luciano, Giuliana, Gilberto e Carlo, e uno statuto di stampo medievale che riserva ai consanguinei le cariche nelle holding di famiglia. Nel 2005, Luciano annunciò che il figlio Alessandro sarebbe diventato il nuovo capo dell' impero dei maglioni e dei pedaggi autostradali. "Ma prima dovrà farsi le ossa", aggiunse, notazione inquietante se riferita a un uomo di oltre 40 anni. Da allora Alessandro è sempre apparso più che altro in fuga, mentre Luciano ci ripensava: "Credo che sia un errore cercare e imporre l' erede". Un anno fa, alla morte di Gilberto, stratega della diversificazione nei servizi a pedaggio all' ombra della politica, si è riparlato di Alessandro, ma si è capito che non c' è accordo con i cugini che nel frattempo si spartiscono le poltrone nei cda del gruppo: solo due giorni fa Sabrina, figlia di Gilberto, è entrata nel cda di Atlantia, Christian, figlio di Carlo, in quello di Adr, e Franca Bertagnin, figlia di Giuliana, si è accomodata in quello di Telepass.

Il capitalismo familiare si arena se ci sono troppi parenti a mettere bocca, problema che in casa Agnelli fu risolto ripristinando una sorta di legge salica in favore di John Elkann: che in perfetta solitudine - nonostante un esercito di cugini-soci, il più ingombrante dei quali è il presidente della Juventus, Andrea Agnelli - tratta in queste settimane la grande fusione con i Peugeot, altra famiglia complicata, ma stavolta francese. L' Avvocato però aveva anche stabilito il limite dei 75 anni per gli incarichi societari, al quale fu il primo a sottoporsi. Luciano Benetton, invece, a 84 anni è tornato a gestire la produzione di maglioni, parlando malissimo dei manager a cui l' aveva delegata per otto anni. I grandi vecchi che si ritengono insostituibili sono sadici non solo con gli eredi, ma anche con i manager, magari dopo averli scelti vantandosi della propria capacità di talent scout. Il campione è Cesare Romiti. Quando comandava alla Fiat cacciò Vittorio Ghidella perché sapeva fare le auto, mentre il sistema di potere del manager romano si fondava sulla accurata selezione di yes men incompetenti. Quando Romiti ha lasciato la Fiat, la liquidazione principesca concessagli dall' Avvocato gli ha consentito di costruire la sua dinastia imprenditoriale sui figli Maurizio e Pier Giorgio. Un fallimento clamoroso che il padre ha commentato alla Goethe: "I miei figli sono molto in gamba. Il loro vero handicap è chiamarsi Romiti e quindi ne risentono, come tutti i figli di uomini che hanno avuto un ruolo". Storie di dieci anni fa.

Adesso il disprezzo per i figli non all' altezza si esprime in modo più diretto. Il maestro di cerimonie è naturalmente Carlo De Benedetti. Nelle scorse settimane ha fatto una piazzata ai figli Rodolfo e Marco accusandoli pubblicamente di essere due incapaci, responsabili del deplorevole stato della Gedi, colosso editoriale nato dalla fusione tra Repubblica-Espresso e Stampa-Secolo XIX . Ha parlato di "gestione del tutto inefficace, azienda senza vertice e senza comando, sconquassata e non gestita, nave senza capitano, in balia di onde altissime", e tutto questo perché, semplicemente, i due rampolli "non sono capaci di fare questo mestiere". De Benedetti è sicuramente il vero campione di quel capitalismo familiare che per decenni ha dato a intendere agli italiani - grazie all' ampia corte sopra descritta di ruffiani col master - di avere i meriti di ciò che andava bene e nessuna colpa di ciò che andava male. Gente che ha usato le scatole cinesi per comandare con i soldi degli altri (De Benedetti deteneva il 5 per cento del capitale del suo gruppo) e con un solo obiettivo: perpetuare il potere della propria dinastia di capitalisti con i soldi degli altri. Quando, all' inizio di ottobre, ha rivolto a Rodolfo (presidente della controllante Cir) e Marco (presidente di Gedi) un' offerta per comprarsi a prezzo vile il pacchetto di controllo del gruppo editoriale, e i due figli lo hanno mandato al diavolo trattandolo da rincoglionito, la rusticana volgarità della contesa ne ha oscurato l' aspetto più scandaloso. L' Ingegnere sette anni fa ha donato ai figli tutte le azioni, cioè quel 5 per cento di cosiddetto "possesso integrato" con cui la famiglia comanda sull' impero. E ha imposto agli azionisti di minoranza, detentori del 95 per cento del capitale, un manager a suo dire eccellente, suo figlio. "Rodolfo è una sicurezza", affermò con la stessa tracotante sicumera con cui garantiva all' Italia un radioso avvenire grazie ai suoi statisti preferiti, Walter Veltroni e Francesco Rutelli. In pochissimo tempo, Rodolfo si è fumato 2 miliardi di euro (delle banche) sbagliando gli investimenti in centrali elettriche della Sorgenia, e spiegando poi agli azionisti che l' investimento era stato geniale, solo che non si erano avverate le previsioni su cui era basato. Gli azionisti della Cir hanno perso la Sorgenia e le banche se la sono dovuta accollare al posto dei 2 miliardi di crediti. Nel frattempo, De Benedetti, pur avendo ammazzato la Olivetti e varie altre aziende, o forse proprio grazie a quello, ha messo da parte un gruzzolo personale di 600 milioni che usa per giocare in Borsa, come ha dimostrato la vicenda Renzi-Etruria. E come dimostra una segnalazione del Sole 24 Ore: lo stesso bollettino padronale ha notato, proprio alla vigilia della stravagante offerta per le azioni Gedi, movimenti sospetti sul titolo. Appena un anno dopo aver lasciato gli azionisti in balia del genio manageriale di Rodolfo, l' Ingegnere liquidò l' ideona Sorgenia in un modo che val la pena di rileggere nella ricostruzione dell' agenzia Ansa del 14 febbraio 2014: "'Non c' entro nulla, non sono in consiglio e non sono più azionista Cir. È una domanda che dovete fare ad altri'. Così Carlo De Benedetti ha risposto ai giornalisti che gli chiedevano se ci siano spiragli nelle trattative sulla sistemazione della partita finanziaria di Sorgenia, la società elettrica del gruppo Cir". Anziché chiedere scusa agli azionisti Cir e Gedi per avergli mollato due manager che lui stesso dipinge - con cognizione di causa - come incapaci, De Benedetti continua a spadroneggiare sul Corriere della Sera, sempre pronto a ospitarlo, e fa sapere ai mercati finanziari che gli 85 anni che compirà fra pochi giorni non sono un problema: "Mi sento molto bene". Quindi punta a riprendere la guida di Repubblica ed Espresso, ma non per sempre, solo per due o tre anni, cioè fino all' 88esimo compleanno. Nei Paesi civili, se un uomo di 85 anni manifesta simili propositi su società quotate, come minimo chiamano un medico. In Italia - trattandosi di un potente (ex?) editore in grado di far annusare una botta di carriera a un giornalista, un finanziamento a un economista, spazio sui giornali a un politico - gli si offrono microfoni e taccuini per fargli dire tutto e il contrario di tutto senza mai obiettare. Nel 2012 spiegò che la decisione di lasciare il campo a quel genio di Rodolfo voleva contribuire a "un più ampio passaggio generazionale in un capitalismo troppo rivolto al passato". Nel 2019, gli lasciano dire, senza chiamare il medico, che l' ambizione di spodestare i figli e tornare al timone della Gedi è solo una normale forma di arditismo senile: "C' è molta gente che molla, e c' è poca gente che osa". L' ha detto davvero. Il "boia chi molla" di un capitalismo morente.

ESERCIZIO GARANTISTA. Massimiliano Annetta il 6 settembre 2019 su L’Opinione. Ripetete con me e in rigoroso ordine: 1) Il figlio di Beppe Grillo è, come chiunque, un presunto innocente fino a prova contraria in forza dell’articolo 27, comma 2, di quella Costituzione di cui, quasi sempre a sproposito, andate riempiendovi la bocca; 2) Il fatto che suo padre possieda una villa in Costa Smeralda non ha alcunché di scandaloso, perché ciascuno ha il diritto di spendere i denari lecitamente guadagnati come meglio crede; 3) Il mix di invidia sociale e giustizialismo da quattro soldi che i Cinque Stelle vi hanno propinato fino ad oggi fa ribrezzo.

Ripetere l’esercizio fino a quando non avrete capito. Su, da bravi.

Renzi difende il figlio di Grillo: "No a processi sui social". In un post su Twitter, Matteo Renzi ha commentato così l'indagine per violenza sessuale di gruppo in cui è stato coinvolto Ciro Grillo, figlio di Beppe: "Se è colpevole o no lo decideranno i giudici, non i social. Noi siamo garantisti". Roberto Bordi, Domenica 08/09/2019 su Il Giornale. "Se il figlio di Beppe Grillo è colpevole o no lo decideranno i giudici, non i social. Garantisti sempre". Sono le parole con cui Matteo Renzi, su Twitter, difende Ciro Grillo, il figlio più piccolo del comico genovese indagato insieme ad altri tre ragazzi per violenza sessuale di gruppo nei confronti di una 19enne. L'ex premier, che negli ultimi tempi ha ammorbidito i suoi toni polemici nei confronti di Grillo e di tutto il Movimento 5 Stelle, al punto da propiziare l'inizio della trattativa con il Pd che ha portato alla nascita del governo giallo-rosso, è intervenuto per svelenire il dibattito nato sui social, in particolare su Twitter, dopo l'indagine della procura di Tempio Pausania sullo stupro di gruppo che sarebbe stato commesso nella villa di Porto Cervo di proprietà di Grillo. "Se il figlio di Beppe Grillo è colpevole o no lo decideranno i giudici, non i social. Saremo un Paese civile quando nessuno userà le famiglie per aggredire gli avversari politici. In attesa che imparino a farlo gli altri - si legge nell'ultimo post di Matteo Renzi - diamo noi una dimostrazione di civiltà: garantisti sempre". Una presa di posizione, quella dell'ex premier, sulla falsariga di quanto fatto in occasione della polemica sul giro in moto d'acqua, a Milano Marittima, del figlio di Matteo Salvini. Anche in quel caso, l'ex segretario del Pd aveva chiesto di non strumentalizzare la vicenda, invitando gli elettori dem e l'opinione pubblica a "lasciare stare il giovane". Un appello dettato probabilmente da quanto provato sulla propria pelle da Renzi, tirato in ballo per i problemi giudiziari dei genitori.

Quante cautele sull’indagato per stupro Grillo junior. E se fosse stato di CasaPound? Vittoria Belmonte venerdì 6 settembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Il ragazzo, Ciro Grillo, diciannovenne con una gran voglia di divertirsi, merita ovviamente tutte le garanzie che spettano agli altri cittadini italiani. Non è bello speculare su quest’accusa infamante di stupro arrivata da una modella scandinava con cui avrebbe trascorso una notte brava a base di alcol e forse anche altro nella bollente estate che sta per volgere al termine. Siamo in Costa Smeralda, Ciruzzolohiil (questo il nome usato dal figlio di Beppe Grillo su Instagram), con altri tre amici (tutti di alta estrazione sociale) si porta in villa (la casa paterna?) una scandinava che poi denuncia uno stupro di gruppo. Denuncia tardiva, perché arriva circa dieci giorni dopo il fattaccio. C’è pure un filmato: gli avvocati dei giovani dicono che da lì si vede che il rapporto era consenziente. Gli avvocati della presunta vittima sostengono che dal video ben si evince che si trattò di stupro. Roberto Giachetti, ultrà del garantismo, già avverte: guai a chi specula su questa vicenda. Per carità, e chi vuole speculare. Tanto più che alle garanzie del Codice per Grillo junior si aggiunge il fatto che il ministro della Giustizia è un grillino, Alfonso Bonafede, molto giustizialista quando si tratta di castigare i politici corrotti. E per gli altri reati? Non speculiamo ma per vicinanza cronologica viene in mente un’analoga vicenda: quello dello stupro di Viterbo ad opera di due esponenti di CasaPound. L’evento, pochi mesi fa, meritò l’apertura dei principali quotidiani italiani, ma questo è un dettaglio. Il Pd all’epoca non aveva come adesso perso la voce. Accusava eccome. Eppure anche in quel caso i due stupratori asserirono di avere avuto un rapporto consenziente (e furono anche arrestati). Il senatore di Liberi e Uguali, Francesco Laforgia propose lo scioglimento di CasaPound e di altri movimenti di destra sostenendo che la violenza, e dunque anche lo stupro, provengono da lì, da quella cultura. Ritroverà oggi lo stesso spirito gagliardo e combattivo contro i Cinquestelle? Vedremo. Il senatore del Pd Bruno Astorre, sempre a proposito dello stupro di Viterbo, ebbe a dire: “Di fronte a crimini di questo tipo, e nel rispetto comunque dei diritti dei due giovani arrestati che appartengono a CasaPound, la priorità è la vittima, la famiglia e la comunità di Viterbo che è ferita e sgomenta davanti a questo crimine. Tuttavia, i vertici del governo, Salvini, Di Maio e la maggioranza mettano al bando un’organizzazione parafascista come Casapound – conclude Astorre – che produce una cultura basata sulla violenza, la xenofobia e la sopraffazione”. Intervenne anche la ministra della Salute Giulia Grillo, M5S: “Lo stupro di Viterbo è l’ennesima intollerabile offesa alle donne, aggravata dal fatto che i colpevoli sono militanti di una forza politica. Nessuna connivenza e massima severità con chi umilia le donne e promuove una cultura di sopraffazione che va combattuta in ogni modo”. ne nacque pure una baruffa (una delle tante) tra Salvini che evocò la castrazione chimica e Di Maio che rintuzzò la proposta: “Non è nel contratto”. Basta poco insomma perché uno stupro da reato penale tutto da verificare (bisogna infatti anche tenere presente l’attendibilità della denunciante, che sarà stata opportunamente vagliata dagli inquirenti prima di stabilire se Ciro Grillo meritasse o meno gli arresti domiciliari, che non sono stati ordinati) diventi un caso politico. Eppure stavolta quel particolare “quid” non è scattato. Chissà perché. Sarà per distrazione. O per l’euforia da festeggiamenti seguito alla nascita del Conte bis. Vedremo. Intanto qualche giornalista è riuscito a dare un’occhiata al profilo Instagram del figlio di Grillo, che è anche campione di kick boxing.  Nel commento a una sua foto il ragazzo scrive: “Ti stupro, bella bambina, attenta”. E in un altro romantico post scrive: “la tua bitch mi chiama jonny sinn”. Un riferimento, a quanto pare, all’attore porno Jhonny Sins. E ancora, come riporta il Corriere, “in una immagine del 31 agosto 2017 ripresa durante un viaggio, una vacanza studio al Macleans College, una scuola situata a Bucklands Beach, Auckland, si vede Ciro in primo piano con degli amici e il commento del figlio di Grillo che recita: «C..i durissimi in Nuova Zelanda»”.

Grillo garantista? Il vero scandalo sono 25 anni di orgia manettara. L'Inkiesta il 3 gennaio 2017. Ora che i guai coinvolgono i suoi, per Grillo l'avviso di garanzia non equivale a una condanna. Un comportamento uguale a quello dei suoi avversari. Che legittima l'uso politico della giustizia. E la rabbia dei cittadini contro i politici “tutti uguali, tutti ladri”. Scusate, dov’è la novità? Una forza politica fonda il suo successo politico urlando che gli altri sono tutti ladri (1), va al potere (2), i suoi leader o i suoi amministratori finiscono indagati (3) e pure quella forza politica si scopre garantista (4). Oggi tocca a Grillo, col suo codice di comportamento per gli eletti e la regola secondo cui l’avviso di garanzia “non comporta alcuna automatica valutazione di gravità dei comportamenti”, dopo anni a sostenere l’esatto contrario. Prima di loro era toccato ai Democratici (un tempo di sinistra) passare dalle monetine a Craxi allo sdegno per le intercettazioni sulla scalata Unipol-Bnl diffuse a mezzo stampa. Ai leghisti, passati dal cappio a Montecitorio agli applausi per Alessandro “il pirla” Patelli, quello della tangente Enimont da 200 milioni di lire. Agli ex missini, orgogliosamente manettari fino all’alleanza con Berlusconi. A Berlusconi stesso, megafono mediatico del pool di Mani Pulite fino all’avviso di garanzia a pochi mesi dall’insediamento a Palazzo Chigi. Fateci caso: mai nessuno è garantista quando i guai coinvolgono gli altri. Nessuno si scandalizza quando la carcerazione preventiva viene usata con estrema disinvoltura contro un avversario politico. Nessuno, quando un ministro altrui si dimette senza nemmeno essere indagato, a causa delle intercettazioni telefoniche sbattute in prima pagina. Nessuno, quando il candidato avverso si piglia la nomea di ”impresentabile” a pochi giorni dalle elezioni, senza alcuna condanna definitiva a suo carico. Nessuno che sottolinea quanto alcune indagini, in prossimità delle elezioni, successive all’insediamento di un amministrazione, o alla caduta di un governo abbiano un timing quantomeno curioso. Nessuno che si scandalizza quando una parlamentare, scienziata di fama mondiale, viene definita “trafficante di virus” da un settimanale, a indagini ancora in corso, e poco importa se si siano concluse con un nulla di fatto. Fateci caso: mai nessuno è garantista quando i guai coinvolgono gli altri. Nessuno si scandalizza quando la carcerazione preventiva viene usata con estrema disinvoltura contro un avversario politico. Nessuno, quando un ministro altrui si dimette senza nemmeno essere indagato, a causa delle intercettazioni telefoniche sbattute in prima pagina. Nessuno, quando il candidato avverso si piglia la nomea di ”impresentabile” a pochi giorni dalle elezioni, senza alcuna condanna pendente. Quando accade, quando i guai riguardano gli altri, i toni sono quelli di venticinque anni fa. Si parla di fatti inquietanti, si presume la colpevolezza, si citano le parole dell’ordinanza d’arresto scambiandole per sentenze, si ironizza sui fatti privati - irrilevanti ai fini d’indagine - che si leggono sui giornali. Si uniscono puntini a caso, facendo intendere chissà quali trame, nascoste dietro il paravento del condizionale. Si fa strame della dignità umana dell’indagato nel nome di una “questione morale” che vale sempre e solo per gli altri. Poi - ops! - ci si stupisce se la gente pensa che i politici siano tutti uguali e tutti ladri, che il Parlamento sia un covo di inquisiti o di gente che ha qualcosa da nascondere. Che l’azione debordante della magistratura non sia un abuso di potere, bensì un male necessario per arginare il malaffare. Che manette, cappi, scope e apriscatole funzionino meglio, nel marketing politico, di idee, riforme, visioni del futuro. Oggi, se la politica italiana fosse seria, dovrebbe plaudere alla (timida) svolta di Grillo e fare quadrato attorno a Virginia Raggi, più in balia della propria incompetenza e della propria inattitudine a combattere contro poteri più grandi di lei, che della propria disonestà, o di quella dei suoi collaboratori. Non succederà. E al prossimo giro di giostra le parti si invertiranno. E la rabbia continuerà a montare.

Vittorio Sgarbi e il figlio di Grillo indagato per stupro, la bomba in aula: "Perché Di Maio è ministro". Libero Quotidiano il 10 Settembre 2019. C'è spazio anche per le insinuazioni, pesantissime e privatissime, di Vittorio Sgarbi nel giorno della fiducia alla Camera. Durante le dichiarazioni di voti, il deputato eletto con Forza Italia, oggi nel Gruppo Misto, attacca frontalmente Luigi Di Maio: "È stato fatto ministro (degli Esteri, ndr) per proteggere il figlio di Grillo". Secondo Sgarbi, non appena il figlio di Grillo, Ciro Grillo, è risultato indagato per violenza sessuale di gruppo insieme ad altri 3 amici ai danni di una 19enne italo-svedese nella villa sarda del comico, Grillo si sarebbe adoperato per piazzare nel governo il leader del Movimento 5 Stelle per "trovare l'appoggio del Pd che controlla i giudici, vedi il caso Palamara".

Da Libero Quotidiano il 19 settembre 2019.  "Si vergogni Luigi Di Maio e si vergognino i cinque stelle che hanno votato con voto segreto per l'arresto dell'onorevole Sozzani, dopo che, con voto palese, hanno fatto il governo contro gli italiani". Vittorio Sgarbi commenta indignato il voto alla Camera contro il deputato di Forza Italia, Diego Sozzani. L'Aula ha negato l'autorizzazione all'applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari per il politico, indagato per illecito finanziamento dei partiti e corruzione. Una decisione che non ha evitato la critica di Sgarbi contro i pentastellati, rei di desiderare Sozzani in carcere "per obbedire agli ordini di un Grillo nella cui casa il figlio indagato ha stuprato una ragazza, garantendogli, con Bonafede, un ministro della giustizia amico. Vergogna. Usare lo Stato per proteggere il loro capo".

Accuse di stupro al figlio di Grillo, perquisita la villa del fondatore M5s a Marina di Bibbona. Ciro Grillo, il figlio di Beppe. I carabinieri hanno sequestrato il telefonino di Ciro, in cui sarebbe registrato il video della presunta violenza sessuale. La Repubblica il 9 settembre 2019. Blitz dei carabinieri a Marina di Bibbona, nella villa di Beppe Grillo: cercavano un video della presunta violenza di gruppo su una ragazza svedese. Gli inquirenti hanno sequestrato l'iPhone al figlio Ciro. Ne dà notizia Il Tirreno. Villa Corallina, sulla spiaggia di Marina di Bibbona, non è soltanto il buen retiro di Beppe Grillo, popolare comico e leader politico del M5S, ma anche il sancta sanctorum del Movimento. È il luogo, per capirci, dove si svolgono i direttivi del partito pentastellato, dove si decidono alleanze e strategie. Proprio recentemente il garante dei Cinque Stelle ha riunito i vertici per mandare avanti l'alleanza giallo-rossa. Proprio nella residenza estiva toscana si trova in questi giorni il figlio di Grillo, indagato insieme ai tre amici genovesi Vittorio Lauria, Francesco Corsiglia e Edoardo Capitta, tutti tra i 19 ed i 20 anni. Il 29 agosto scorso i carabinieri di Milano a Marina di Bibbona sono giunti con un decreto di perquisizione firmato dai magistrati di Tempio Pausania che conducono le indagini. Lo stupro, infatti, sarebbe stato consumato a Porto Cervo, in un'altra villa di Grillo.

Ciro Grillo, «ritardi »nell’esame del video sul cellulare. Pubblicato lunedì, 09 settembre 2019 da Andrea Galli su Corriere.it. Milano- Cristallizzato il giorno del sequestro del cellulare (il 29 agosto) sul quale è presente un video dirimente per accertare se i rapporti sessuali sono stati consenzienti oppure se è stato uno stupro di gruppo, e considerando il giorno inizialmente stabilito per l’avvio della copia forense del medesimo telefonino (il 24 settembre), tra le due date balla quasi un mese. È un mese che potrebbe avere la sua legittimazione nei lunghi tempi della giustizia (secondo quanto previsto dal codice di procedura penale: la notifica agli avvocati, l’individuazione dei periti, l’eventuale nomina di periti di parte, e via elencando); e ancora, è un mese che potrebbe rispondere a esigenze investigative; ma è un mese che potrebbe causare ritardi non certo utili a un’indagine delicatissima dal suo inizio e sviluppatasi con una tempistica che non «convince» molti. Il cellulare del quale parliamo appartiene a Ciro Grillo, il figlio del comico Beppe, e gliel’hanno confiscato, per appunto alla fine dello scorso mese, nella villa a Marina di Bibbona, in Toscana, dal punto di vista politico centro nevralgico per le riunioni dei Cinque Stelle (e il nuovo governo); un immobile di proprietà del padre come l’appartamento a Porto Cervo dove Ciro, con gli amici genovesi Vittorio Lauria, Francesco Corsiglia e Edoardo Capitta, il 16 luglio avrebbe stuprato una studentessa universitaria di 19 anni (la cui versione è giudicata assai credibile). La ragazza appartiene a una facoltosa famiglia italo-scandinava di Milano e ha denunciato le presunte violenze il 26 luglio, appena atterrata in città con mamma e papà, dieci giorni dopo la serata cominciata al «Billionaire» e, sempre bevendo in gran quantità, proseguita nella casa del comico. La durata delle operazioni per realizzare la copia forense di un telefonino è variabile, condizionata da diversi fattori. Possono però bastare pochi giorni, e minor tempo con provvedimenti d’urgenza e specie se l’interesse prioritario è un unico dato (il video); dunque la Procura di Tempio Pausania avrebbe potuto disporre prima del contenuto di quel telefonino, anche magari già in coincidenza dei giorni durante i quali procuratore e pm hanno ascoltato i quattro (indagati con l’accusa di stupro) forti di quel filmato, con la possibilità d’incalzare maggiormente Lauria, Corsiglia, Capitta e Grillo. E forse poco cambia la probabile decisione, proprio in queste ore, di anticipare a dopodomani la copia forense. L’asse tecnologico resta, al momento, il cuore centrale dell’inchiesta. Difficile che l’amica della 19enne, l’unica testimone, possa fornire elementi utili (dormiva); esclusi fascicoli d’indagine paralleli legati alla droga (la vittima non ne avrebbe fatto menzione). Tutto sta lì, nei cellulari, e nel recupero, insieme al video, di eventuali chat cancellate, magari, è una delle tante ipotesi, dopo la scoperta della convocazione per gli interrogatori.

 Ciro Grillo e le accuse di stupro, perquisita la villa  del padre a Marina di Bibbona. Pubblicato lunedì, 09 settembre 2019 da Marco Gasperetti su  Corriere.it. Anche villa Corallina, la residenza estiva di Beppe Grillo davanti alla spiaggia di Marina di Bibbona, a sud di Livorno, entra nell’inchiesta per stupro nella quale è indagato Ciro, figlio del fondatore del M5S. I carabinieri hanno perquisito l’abitazione su disposizione della procura di Tempio Pausania. Secondo Il Tirreno, che ha anticipato la notizia, la perquisizione sarebbe avvenuta il 29 agosto quando nella villa si trovava anche Ciro. I militari avrebbero sequestrato al giovane lo smartphone. Ad accusare Ciro Grillo e altri tre giovani, il racconto di una studentessa norvegese. «Mi hanno fatto bere vodka e mi hanno violentata», ha raccontato la ragazza ai magistrati. Le prove della violenza sarebbero contenute in un video filmato da uno smartphone. Ciro Grillo e gli altri tre giovani hanno sempre respinto ogni accusa. A Villa Corallina Beppe Grillo trascorre grande parte dell’estate. Il 18 agosto la casa, che ha due entrate, una in mezzo alla pineta e l’altra davanti alla spiaggia, è stata teatro del summit politico del M5S che ha deciso la strategia del movimento durante la crisi di governo.

Le accuse al figlio di Grillo,  «è sempre violenza sessuale  se manca il pieno consenso». Pubblicato lunedì, 09 settembre 2019 da Guastella su Corriere.it. Tra i massimi esperti nei reati contro i «soggetti deboli», Fabio Roia, presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano, di recente ha pubblicato il libro «Crimini contro le donne» (Franco Angeli).

Dottor Roia, come nel caso dei 4 giovani genovesi accusati di aver violentato una 19enne, spesso la donna che denuncia deve affrontare la reazione di chi dice che era consenziente. Come si fa a stabilire la verità?

«La prima considerazione da fare è che nel nostro ordinamento la persona offesa del reato ha l’obbligo di dire la verità sia alla polizia giudiziaria, sia al pm, sia al giudice. Se non lo fa, commette reati gravi come le false dichiarazioni al pm, la falsa testimonianza e la calunnia. L’indagato-imputato, invece, non ha quest’obbligo. Questo è già un discrimine che dovrebbe costituire un freno a false dichiarazioni da parte delle vittime».

È sufficiente?

«La giurisprudenza dice che è sufficiente il racconto della persona offesa per arrivare a un giudizio di colpevolezza, purché il giudice verifichi a fondo la credibilità della testimonianza. E qui entra in campo la specializzazione della polizia giudiziaria, del pm e del giudice che devono conoscere i modi di comportamento delle vittime per valutare se non ci siano elementi probatori che le smentiscono. Questo consente di filtrare eventuali denunce strumentali che, però, nella ma esperienza ho visto molto raramente. Il processo penale è troppo traumatico perché una donna scelga di affrontarlo calunniando».

Quando una donna è da ritenere consenziente?

«Quando dà un consenso pieno, prima e durante l’atto. Una donna potrebbe dire sì all’inizio e poi cambiare idea. In questo caso, l’uomo si deve fermare, altrimenti c’è violenza».

E se lei non è in grado di dare un consenso?

«Se è ubriaca o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, l’uomo ha il dovere di astenersi in ogni caso dall’ avere con lei rapporti sessuali. Nella norma che punisce la violenza sessuale, oltre ai casi di costrizione con la violenza fisica o con la minaccia, si fa riferimento all’abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica, anche transitorie».

Succede che le vittime non denuncino subito la violenza, ma dopo un certo tempo.

«Non esiste un catalogo di comportamenti delle vittime di violenza. L’esperienza insegna che il modo di agire non è stereotipato, ciascuna lo fa a modo suo in relazione all’aggressione subita e alla sua situazione. C’è chi chiama subito la polizia, chi lo dice dopo giorni, chi urla e chi sta zitta. Normalmente la vittima tende a colpevolizzarsi perché pensa di aver commesso qualcosa che ha spinto l’uomo ad abusare di lei. Per questo la legge concede non tre, ma sei mesi alla vittima per valutare, per quanto possibile, più serenamente la situazione e poi denunciare».

Sempre più spesso vengono denunciate violenze di gruppo.

«È un reato autonomo con pene più severe della violenza sessuale perché ha un’elevatissima traumaticità per la vittima».

Il figlio di Grillo e  tre amici indagati  per stupro di gruppo. Pubblicato venerdì, 06 settembre 2019 da Corriere.it. Una ragazza scandinava di venti anni ha denunciato per stupro quattro ragazzi genovesi, tra cui c’è Ciro, 19 anni, il figlio di Beppe Grillo, il comico e leader del Movimento 5 Stelle: a riferirlo è la Stampa . Secondo quanto riportato dal quotidiano, Ciro e i suoi tre amici sono indagati per violenza sessuale di gruppo. I 4 avevano conosciuto la ragazza in una discoteca, e poi avevano proseguito la serata nella villa della Costa Smeralda. Insieme al figlio del fondatore del Movimento sono coinvolti tre amici genovesi, in Sardegna per passare le vacanze: Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria. I quattro giovani ieri sono stati interrogati per ore dal magistrato Laura Bassani, pubblico ministero della Procura di Tempio Pausania, titolare del fascicolo. Secondo i ragazzi, si sarebbe trattato di un rapporto consenziente.

Il figlio di Beppe Grillo accusato di violenza sessuale in Sardegna. Ciro, 19 anni, insieme a tre amici indagato dalla procura di Tempio Pausania dopo un presunto stupro di gruppo nella villa di Porto Cervo del comico. La denuncia di una modella scandinava ai carabinieri di Milano: sull'episodio versioni contrapposte. La Repubblica il 6 settembre 2019. Il figlio di Beppe Grillo, Ciro di 19 anni, e tre amici sono indagati per una presunta violenza sessuale di gruppo, che sarebbe avvenuta nella villa del comico a Porto Cervo, dopo la denuncia di una modella di origini scandinave incontrata in una discoteca in Costa Smeralda. La vicenda è riportata dai quotidiani "Il Secolo XIX" e "La Stampa". Secondo ciò che racconta lei, modella di origini scandinave, vent'anni ancora da compiere, si sarebbe trattato di uno stupro, forse avvenuto al termine di una notte di eccessi alcolici. Nella versione dei quattro giovani - tutti figli di imprenditori, medici e professionisti della Genova bene - il rapporto è stato consenziente. I quattro giovani ieri sono stati interrogati per ore dal magistrato Laura Bassani, pubblico ministero della Procura di Tempio Pausania, titolare del fascicolo. Nel frattempo dai carabinieri di Milano sono stati acquisiti tutti i cellulari e un video, la cui interpretazione però non sarebbe univoca, Per la vittima dimostrerebbe la violenza, per gli avvocati difensori il contrario, e cioè che la ragazza era consenziente. I giovani si sono difesi negando ogni addebito. E i legali hanno messo in luce alcune debolezze del racconto fornito dalla ragazza alle forze dell'ordine. Tre su tutte: il ritardo della denuncia, presentata dalla modella al suo ritorno a Milano, una decina di giorni dopo i fatti; la continuazione della vacanza per un'altra settimana e la pubblicazione di foto del viaggio sui social network, anche dopo che si sarebbe consumata la presunta violenza sessuale.

TOMMASO FREGATTI e MARCO GRASSO per La Stampa il 5 settembre 2019. Una serata estiva in discoteca, terminata in una lussuosa villa di Porto Cervo. Qui, al momento è l' unica cosa certa, si consuma un rapporto sessuale di gruppo, fra una ragazza e quattro coetanei, che si erano incontrati nel locale. Secondo ciò che racconta lei, modella di origini scandinave, vent' anni ancora da compiere, si sarebbe trattato di uno stupro, forse avvenuto al termine di una notte di eccessi alcolici. Nella versione dei quattro giovani - tutti figli di imprenditori, medici e professionisti della Genova bene - il rapporto è stato consenziente. Il teatro della vicenda è la residenza estiva di Beppe Grillo, in Costa Smeralda: uno dei giovani indagati per violenza sessuale di gruppo è infatti Ciro, 19 anni, figlio del comico fondatore del Movimento Cinque Stelle, e campione italiano di savate. Insieme a lui sono coinvolti tre amici genovesi, in Sardegna per passare le vacanze: Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria. I quattro giovani ieri sono stati interrogati per ore dal magistrato Laura Bassani, pubblico ministero della Procura di Tempio Pausania, titolare del fascicolo. Nei giorni scorsi i carabinieri di Milano li hanno perquisiti, alla ricerca di indizi che confermassero la versione fornita dalla vittima. Gli investigatori hanno acquisito tutti i cellulari, alla ricerca di messaggi che facciano luce sui rapporti con la ragazza, e, soprattutto, hanno acquisito un video, al momento la prova più importante dell' inchiesta. Dal filmato, recuperato in uno dei cellulari, emergerebbero una ripresa integrale del rapporto sessuale. La sua interpretazione, tuttavia, non è univoca. Per la vittima dimostrerebbe la violenza, per gli avvocati difensori il contrario, e cioè che la ragazza era consenziente. Le audizioni sono durate tutto il giorno. Gli inquirenti hanno interrogato i quattro studenti (assistiti dagli avvocati Paolo Costa, Enrico Grillo, Ernesto Monteverde, Romano Raimondo, Gennaro Velle), con l' obiettivo di confrontare le diverse versioni alla ricerca di concordanze o eventuali contraddizioni. Denuncia dopo 10 giorni I giovani si sono difesi negando ogni addebito. E i legali hanno messo in luce alcune debolezze del racconto fornito dalla ragazza alle forze dell' ordine. Tre su tutte: il ritardo della denuncia, presentata dalla modella al suo ritorno a Milano, una decina di giorni dopo i fatti; la continuazione della vacanza per un' altra settimana e la pubblicazione di foto del viaggio sui social network, anche dopo che si sarebbe consumata la presunta violenza sessuale; alcuni messaggi al vaglio degli investigatori.

Il 16 luglio I fatti risalgono al 16 luglio. Una decina di giorni dopo quella serata, la giovane si presenta dai carabinieri di Milano e in una clinica lombarda. Racconta l'incontro con i ragazzi, conosciuti in una delle discoteche più note della zona, e la proposta di continuare la festa nella casa di uno di loro, poco lontano. In un primo momento si sarebbe appartata con uno dei quattro; successivamente si sarebbero aggiunti gli altri tre. E il rapporto sarebbe avvenuto contro la sua volontà. La versione difensiva contesta questa resoconto: la modella, raccontano i quattro ragazzi, sarebbe ritornata a casa dopo quella notte, senza esprimere alcun disappunto; anzi, secondo uno di loro, avrebbe ringraziato per la serata trascorsa. Una ricostruzione che troverebbe parziale conferma nella continuazione del soggiorno da parte della ragazza e della pubblicazione delle foto di altre serate, una delle quali al Billionaire. La denuncia, stando all' interpretazione difensiva, sarebbe pretestuosa. Fra gli elementi al vaglio degli investigatori non c' è solo il video, ma anche lo stato della ragazza: c' è stato o meno un abuso di alcol o droghe? L' inchiesta si muove in un confine molto labile, che non riguarda solo l' accertamento del consenso al rapporto sessuale, ma anche un eventuale stato di minorata difesa. Legato alla predominanza fisica e numerica dei quattro ragazzi o, eventualmente, allo stato psicofisico alterato della ragazza.

TOMMASO FREGATTI, MARCO GRASSO per la Stampa il 07 Settembre 2019. L’incontro alla discoteca Billionaire di Flavio Briatore, il seguito del party nella villa del comico e leader del M5S Beppe Grillo a Porto Cervo: «Avevo bevuto molto, soprattutto vodka, ero ubriaca. A casa hanno continuato a farmi bere. A un certo punto uno di loro mi ha portato in una stanza, voleva fare sesso. Gli ho detto di no due volte, lui mi ha costretto. Poi sono arrivati gli altri e hanno abusato di me a turno». È il 26 luglio scorso quando i carabinieri della stazione Moscova, a Milano, raccolgono la denuncia della studentessa scandinava che racconta di essere stata violentata da Ciro Grillo, figlio di Beppe, e da altri tre amici genovesi, Francesco Corsiglia, Vittorio Lauria, ed Edoardo Capitta. La ragazza, sconvolta, è accompagna della madre. Frequenta una scuola esclusiva di Milano. Spiega così la motivazione per il lasso di tempo passato dai fatti, che risalgono al 16 luglio: la giovane era in vacanza con delle amiche e, prima dell’arrivo della madre, è rimasta sola alcuni giorni; a lei racconta quanto accaduto. L’aereo per il ritorno, spiega ancora agli investigatori, era già stato prenotato. E con la madre la studentessa decide di denunciare tutto una volta ritornata a casa. Nel verbale è indicato chiaramente un aspetto fondamentale di questa indagine coordinata dalla Procura di Tempio Pausania: la 20enne ha raccontato che quella notte era ubriaca. Non in grado di potersi difendere. Non solo. E avrebbe anche provato a respingere i ragazzi. Per questo ai quattro è contestata l’aggravante dell’abuso di sostanze alcoliche. Un’accusa che deve essere necessariamente provata dagli inquirenti perché la giovane modella si è recata alla clinica Mangiagalli di Milano 10 giorni dopo il presunto stupro: «Impossibile capire dagli esami se quella sera fosse realmente ubriaca», spiega un inquirente. L’unico modo per ricostruire lo stato psicofisico della modella è attraverso testimonianze e racconti. E qui spunta un altro elemento: una supertestimone, un’amica della ragazza presente sia al Billionnaire sia nella villa di Grillo, senza assistere alla presunta violenza sessuale. Nel taccuino degli investigatori di Tempio, coordinati dal procuratore capo Gregorio Capasso e dal pm Laura Bassani, un nome c’è già. La ragazza verrà convocata nei prossimi giorni. Altra prova importante è un video che riprenderebbe il momento del rapporto, trovato nel telefonino di uno dei ragazzi. Per i legali dei giovani, tuttavia (assistiti dagli avvocati Paolo Costa, Enrico Grillo, Enrico Monteverde, Barbara Raimondo, Gennaro Velle), sarebbe una prova a discarico, perché dimostrerebbe che il rapporto era consensuale. Dopo che la vicenda è rimbalzata sui social, Ciro Grillo e alcuni amici, e la stessa vittima (assistita dal legale Laura Panciroli, hanno chiuso i profili Instagram e Fb. Renzo Giachetti (Pd) ha invitato a «non strumentalizzare la vicenda del figlio di Grillo».

Veronica Cursi per il Messaggero il 6 settembre 2019. Le foto delle ultime vacanze in Liguria abbracciato a cinque, sei ragazze. Le feste sulla spiaggia con il drink in mano, i selfie sorridenti con gli amici e gli addominali scolpiti in bella mostra: il profilo Instagram di Ciro Grillo, «Ciruzzolohiil», il figlio 19enne di Beppe indagato per violenza sessuale, da qualche ora non esiste più. Ma fino a stamattina, prima che il nome del ragazzo fosse coinvolto nelle indagini per un presunto stupro di gruppo ai danni di una modella incontrata in una discoteca a Porto Cervo, era pieno di fotografie che ritraevano la sua vita social: allenamenti di kick boxing, viaggi, vacanze studio. E proprio in alcune di queste immagini spuntano commenti davvero poco edificanti. Come quella foto dell’agosto 2017 in cui Ciro compie un esercizio atletico e commenta: «Ti stupro bella bambina attenta». In una immagine del 31 agosto 2017 ripresa durante un viaggio, una vacanza studio a Auckland, Ciro è con degli amici e scrive: «C..i durissimi in Nuova Zelanda». C'è la goliardia di un ragazzino 19enne, le feste alcoliche, tra gli hashtag spunta anche un "Bluwhale", il folle gioco social che prevede la sottomissione di adolescenti a complessi rituali. Ciro ora è accusato di aver stuprato una modella conosciuta in un locale in Sardegna, nella residenza estiva del fondatore del Movimento 5 Stelle, in Costa Smeralda. Il gruppo, che ieri è stato ascoltato dal pm titolare del fascicolo, Laura Bassani, si sarebbe difeso sostenendo che il rapporto sia stato consenziente. Nei giorni scorsi, i carabinieri di Milano hanno perquisito i ragazzi in cerca di indizi sulla vicenda. Gli investigatori avrebbero acquisito anche un video che sarebbe la prova più importante dell'inchiesta.

L’estate di Ciro con gli amici tra discoteca e casa di papà Stupro, indagato Grillo jr. Pubblicato venerdì, 06 settembre 2019 da Alessandro Fulloni  su Corriere.it. Feste spensierate al Billionaire in Costa Smeralda e anche combattimenti (quasi sempre vincenti) sui ring di mezza Italia. Sui siti specializzati in arti marziali Ciro Grillo viene spesso definito «astro nascente» della «savate»: disciplina di combattimento nota anche come boxe francese, nata tra i soldati dell’armée napoleonica e nel milieu di Marsiglia, in questa pratica i colpi vengono portati con piedi e mani, mescolando karate, judo e pugilato. Il diciannovenne figlio del fondatore del Movimento Cinque Stelle ha un palmarès sportivo assai lungo. Che comprende almeno tre titoli nazionali juniores, uno senior, diversi allori regionali e una recentissima convocazione in nazionale. Tesserato con l’Ardita Savate di Genova — palestra fucina di campioni —, a giugno, dopo un torneo europeo che si è disputato in Croazia, Ciro è tornato a casa con un’onorevole medaglia d’argento. Un mese più tardi ha preso la maturità al liceo scientifico-sportivo ed è partito per la vacanza in Costa Smeralda, dove il padre ha un appartamento al Piccolo Pevero, per una pausa di relax dopo la conclusione degli studi. Giornate di svago tra Porto Rotondo e Porto Cervo trascorse assieme a tre inseparabili compagni, tra i quali l’amico del cuore Francesco Corsiglia, figlio di un cardiologo assai stimato, e altri due ragazzi genovesi, Vittorio Lauria ed Edoardo Capitta. Anche se adesso il profilo Instagram di Ciro Grillo — il nickname era «Ciruzzolohiil» — è chiuso, sino a ieri mattina erano visibili foto di feste sulla spiaggia con il drink in mano, sorrisi e abbracci con le ragazze, i selfie sorridenti in comitiva e gli addominali scolpiti. In una foto dell’agosto 2017 il figlio del comico scrive, accanto a una foto in un cui compie un esercizio atletico, un commento decisamente pesante: «Ti stupro bella bambina, attenta». In un’immagine del 31 agosto 2017, ripresa durante un viaggio, una vacanza studio al Macleans College (scuola che si trova a Bucklands Beach, Auckland) si vede il ragazzo in primo piano con degli amici e un suo commento: «C...i durissimi in Nuova Zelanda». Un’altra foto lo ritrae insieme a un amico con i rayban neri. Sotto compaiono le parole di Ciro Grillo che dice: «la tua bitch (prostituta, ndr) mi chiama jonny sinn». Compare anche un hashtag, quello di #Bluwhale, famigerato gioco (rimasto un fenomeno sul web, mai verificato) che prevede la sottomissione di adolescenti a complessi rituali che indurrebbero al suicidio. Poi tante foto di combattimenti di savate. Sono numerose le interviste online in cui Ciro Grillo parla della sua passione nata 4 anni fa per la boxe francese, «che mi serve per non pensare allo stress della scuola». Gli allenamenti «sono frequenti, almeno quattro a settimana e ciascuna seduta può durare un paio d’ore. Papà è orgogliosissimo dei miei titoli: dice che sono il frutto dell’allenamento». Dagli avvocati che difendono i quattro giovani non filtra quasi nulla. Corsiglia è assistito da Romano Raimondo e Gennaro Velle, Lauria da Paolo Costa, Capitta da Ernesto Monteverde e Grillo da Enrico Grillo. Questi è il nipote di Beppe — è infatti il figlio di Andrea, fratello maggiore del comico — e nel 2013 è stato citato come vicepresidente nella vecchia associazione che deteneva i diritti del primo logo dei Cinque Stelle. I legali sostengono di avere una stessa linea difensiva. Che prevede, oltre a sintetiche dichiarazioni alla stampa, «la massima fiducia nei magistrati». Uno di loro aggiunge: la ragazza sarebbe stata «pienamente consapevole» di ciò che sarebbe «successo dopo la festa in discoteca». E tutti e quattro i diciannovenni avrebbero avuto un rapporto «consenziente» con la giovane. Che invece ai carabinieri di Milano il 26 di luglio ha denunciato uno stupro.

La ragazza che accusa il figlio di Grillo: «Il Billionaire  e la vodka. Poi lo stupro». Pubblicato sabato, 07 settembre 2019 da Andrea Galli su Corriere.it. La vodka. L’ubriachezza (inizialmente da consenziente ma in una seconda fase con probabili costrizioni) e la voglia di tornare a casa insieme a un’amica. Il fermo invito dei quattro ragazzi ad andar via, sì, ma verso un’altra abitazione («Venite da noi, mangiamo poi vi portiamo dove volete»). L’abitazione dello stupro: un primo ragazzo che ha preteso un rapporto dopo esser stato rifiutato, e poi i tre amici (uno forse s’è tirato indietro ma senza interrompere l’aggressione di gruppo). Lo scenario milanese dell’inchiesta per stupro su quattro ragazzi, tra i quali il figlio di Beppe Grillo, ha colori neutri alle pareti, arredo minimal dell’Ikea, non sedie divise da una scrivania ma poltrone ravvicinate; e ha marescialle con esperienza specifica sui reati di violenze e un sistema di videoregistrazione per lasciare che la vittima parli secondo i propri tempi e desideri, senza l’invasiva scansione della verbalizzazione a ogni risposta. In questa stanza della stazione dei carabinieri di Porta Garibaldi, dedicata all’ascolto di chi subisce abusi (qui arrivano anche i bimbi, accolti da soffici tappeti, giocattoli e disegni), venerdì 26 luglio la 19enne ha raccontato la sera e la notte di dieci giorni prima, a partire dal tavolo prenotato al «Billionaire» d’intesa (in parte) con i quattro. Quello che segue è il suo racconto, reso sì a distanza temporale dai presunti fatti, ma per una motivazione ribadita dalla ragazza, cittadina italiana con mamma di Milano e papà scandinavo (la famiglia risiede in centro); un racconto ricostruito dal Corriere attraverso il «viaggio» della denuncia, dagli stessi carabinieri alla Procura di Milano e da questa alla magistratura di Tempio Pausania con il coinvolgimento dell’Arma di Olbia. La distanza temporale è una delle basi sulle quali poggia la difesa degli indagati. La 19enne, prossima universitaria e reduce dalla maturità in uno dei più prestigiosi collegi di Milano (e d’Italia), figlia di una coppia attiva nel settore privato e per natura giramondo, era in Sardegna insieme a un’amica, ugualmente italiana e con uno dei genitori nato nel Nord Europa. La sera del 16 luglio, con un taxi hanno raggiunto il «Billionaire» perché l’amica conosceva uno dei futuri indagati. Si sono seduti insieme. Soprattutto per bere, e bere pesantemente. Ore dopo, stanche e poco lucide a causa dell’alcol, le amiche hanno deciso di andarsene. Sempre secondo la testimonianza della 19enne, una ragazza alta, esile e bionda che nel pomeriggio ha eliminato la maggioranza delle fotografie dai profili dei social network e che, cercata, ha scelto di non parlare, ha comunicato ai quattro che avrebbe chiamato un taxi per andare a dormire.

I quattro l’hanno invitata a rimanere per una spaghettata — c’erano stati esclusivamente bicchieri, sul tavolo del «Billionaire» — da consumarsi nella casa di uno di loro. Dinanzi alle obiezioni delle amiche, hanno prenotato un furgone che fa trasporto privato e a bordo del mezzo hanno raggiunto l’abitazione. La 19enne ha mangiato. Insieme agli altri s’è alzata, ha camminato vagando per le camere senza accorgersi d’esser seguita da uno degli indagati che, all’interno di una camera da letto, le ha proposto un rapporto sessuale. Lei ha detto di smetterla, lui ha insistito, e quando ha provato a fuggire, l’ha bloccata e violentata. Non ha saputo dire, la vittima, dove fosse l’amica, che sarà sentita a breve dalla Procura: ovvero se era cosciente, se si è resa conto di quanto stava accadendo e ha cercato di intervenire oppure no. Ha però avuto un lucido ricordo, la 19enne, della seconda parte delle violenze, quando si sono aggiunti gli altri. L’indomani, non ha denunciato. Ha pubblicato sul profilo Instagram una foto con l’amica mentre brindavano su un divano del «Billionaire»; ma brindavano a se stesse, prima dello stupro, e non dopo, dunque confutando la convinzione della difesa per cui c’è stato sesso insistito al quale non si sarebbe opposta, anzi. I giorni successivi, sono atterrati i genitori. La madre ha ravvisato delle anomalie nel comportamento della figlia, l’ha convinta a confidarsi, la famiglia è rientrata a Milano e come primissima azione si è presentata — mamma, papà, ragazza — nella stazione di via della Moscova, dove i carabinieri hanno attivato la procedura di trasferimento nella stanza «protetta» di Porta Garibaldi. Agli investigatori, la 19enne ha fornito nomi e profili sui social network e, pare, ha esattamente «collocato» in quella casa, quella notte, Grillo, Capitta, Corsiglia e Lauria. Ognuno con i propri presunti ruoli e le proprie responsabilità.

Il figlio di Grillo e i suoi amici si difendono: "Nei cellulari video che dimostra rapporto consensuale". I carabinieri di Milano stanno analizzando il contenuto dei telefoni sequestrati ai quattro ragazzi che, secondo le accuse di una 19enne milanese, l'avrebbero violentata il 16 luglio in Costa Smeralda. La sua avvocata: "Si indaghi con serenità". Massimo Pisa il 7 settembre 2019 su La Repubblica. "I fatti sono ancora al vaglio della procura, a cui la famiglia della ragazza si affida affinché vengano compiuti gli accertamenti con la massima serenità": poche parole quelle di Laura Panciroli, l'avvocata che rappresenta la studentessa milanese 19enne che accusa quattro ragazzi - e tra loro c'è Ciro, figlio secondogenito di Beppe Grillo - di averla violentata lo scorso 16 luglio dopo una serata in una nota discoteca in Sardegna. La ragazza, che si è appena diplomata in uno dei più prestigiosi collegi di Milano, ha raccontato di quella notte ai suoi genitori alcuni giorni dopo: e loro l'hanno subito portata dai carabinieri della compagnia Duomo di Milano e poi al centro del Servizio violenze sessuali della clinica Mangiagalli. Chi ha ascoltato il racconto della ragazza, che era in vacanza con una amica, e chi ha raccolto quel racconto cominciato in caserma alle otto di sera e firmato alle tre del mattino usa l'aggettivo "credibile" per la ricostruzione fatta dalla giovane della presunta violenza di gruppo in Costa Smeralda. Credibile che quei quattro ragazzi, che avevano convinto lei e una sua amica ad allontanarsi dalla discoteca, li avesse conosciuti proprio quella sera: così testimoniavano i messaggi sul cellulare, dati su cui i carabinieri della compagnia Duomo di Milano hanno dovuto lavorare qualche giorno prima di identificarli: Ciro Grillo, il figlio di Beppe e padrone di casa, e i suoi amici Francesco Corsiglia, Vittorio Lauria ed Edoardo Capitta. Credibili, ancora, le brutalità che avrebbe subito, lo stupro consumato in un primo momento da uno solo dei ragazzi, poi dagli altri tre, con l’amica della vittima addormentata in un sonno ubriaco nell’altra stanza. Il fascicolo è sul tavolo del procuratore capo di Tempio Pausania, Gregorio Capasso, e del pubblico ministero Laura Bassani. I cellulari di quattro indagati sono stati sequestrati dai carabinieri milanesi ma non ancora letti. Né video né chat: dev’esserne estratta copia forense, con apposito incarico a un perito, perché il contenuto possa finire nel fascicolo senza inquinamenti. Ma sono stati gli stessi ragazzi, assistiti dai loro legali (Enrico Grillo per Ciro, Romano Raimondo e Gennaro Velle al fianco di Corsiglia, Paolo Costa per Lauria ed Ernesto Monteverde in difesa di Capitta) durante gli interrogatori a parlare di un filmato, di uno smartphone che avrebbe ripreso la nottata e i rapporti. Consenzienti, giurano i ragazzi, così come quel video, come la decisione di accettare l’invito al residence di Ciro Grillo dopo qualche brindisi al Billionaire. I risultati delle visite mediche nella clinica milanese sono già stati trasmessi alla procura di Tempio, che a breve dovrebbe ricevere anche gli esami tossicologici sui ragazzi, e i filmati delle telecamere di Porto Cervo. 

Le accuse al figlio di Grillo: caccia alle chat eliminate.  La moglie del comico dai pm. Pubblicato domenica, 08 settembre 2019 da Andrea Galli su Corriere.it. Si chiama Ufed, ed è un programma informatico, in questo caso un’arma degli investigatori, per estrarre dai cellulari i dati cancellati: messaggi, registri delle chiamate, foto, posizioni geografiche e video. Ogni singolo dato fatto sparire. Se il 16 luglio Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia, Vittorio Lauria e Ciro Grillo, il figlio di Beppe, hanno stuprato l’universitaria 19enne nella casa di proprietà del comico a Porto Cervo, e se da allora in avanti hanno commentato i fatti, o ancora se in prossimità degli interrogatori si sono scambiati sui telefonini consigli per mantenere davanti al magistrato una posizione univoca, salvo poi, per appunto, eliminare le «tracce», ecco, emergerà tutto. La tecnologia è l’asse centrale dell’inchiesta della Procura di Tempio Pausania, anche se manca un’ ultima deposizione forse decisiva, quella dell’amica. Secondo il racconto della 19enne reso ai carabinieri il 26 luglio, dieci giorni dopo le presunte violenze, consumate approfittando dell’ubriachezza della ragazza, l’amica dormiva. Resta da capire se dormiva in conseguenza di un’azione spontanea, innescata proprio dalle bevute, se quella situazione è stata accelerata dal gruppo, che ha insistito nel porgere bicchieri pieni di vodka, o se il fatto che non fosse cosciente è rientrato in una strategia dei quattro, fra i 18 e i 20 anni d’età e di facoltose famiglie genovesi: aver preso tempo per togliere l’unica possibile testimone, e infatti con gli investigatori la vittima s’è chiesta se non abbiano volontariamente atteso. La difesa insiste nel parlare di rapporti sessuali ripetuti, sì, ma con il consenso della 19enne, italo-scandinava come l’amica, coetanea; e ricorda che nella casa adiacente quella sotto «inchiesta» c’era la stessa moglie di Grillo (è un’unica abitazione frazionata in due parti distinte). Ammesso che la donna fosse sveglia (erano le 6), si sarebbe accorta di una situazione fuori controllo e sarebbe, va da sé, intervenuta, invitano a ragionare gli avvocati. La moglie darà la sua versione in Procura, quando la sentiranno, come faranno con due vicini di casa di Grillo. Stando alla denuncia, l’inizio dello stupro avrebbe poggiato sulla fragilità della vittima, che, per sua ammissione, ha bevuto moltissimo sia al «Billionaire», dove le amiche e i quattro si sono seduti insieme al medesimo tavolo, sia nella fase successiva, con il trasferimento, ufficialmente per una spaghettata sebbene le amiche non volessero, nell’appartamento del comico. Non ha parlato, la 19enne, di lividi o altri segni rimasti sul corpo; ha riferito che un primo ragazzo ha preteso un rapporto sessuale, lei ha detto no, quello ha insistito e l’ha stuprata, imitato, poco dopo, dagli altri, pur se forse uno dei ragazzi, non ha partecipato. Il che non toglie che non abbia fatto nulla per impedirle (sono tutti indagati per stupro). Abbiamo parlato dell’Ufed e dei cellulari. Su alcuni di questi — è un’altra base della difesa — sono presenti almeno due video «chiarificatori» poiché mostrerebbero un rapporto consenziente, uno dei numerosi avvenuti in sequenza e intervallati dall’uscita per comprare le sigarette da parte di tre dei ragazzi in un distributore automatico, distante ottocento metri, attraverso una zona non granché coperta da telecamere i cui filmati potrebbero aver accreditato lo spostamento. Secondo i legali di Capitta, Corsiglia, Lauria e Grillo, la 19enne era, con evidenza, d’accordo. In più, in immagini postate sui profili social già il successivo pomeriggio, non avrebbe commentato negativamente la nottata; dunque, secondo i legali, ha mentito, e l’ha fatto in forte e anomala differita. Per quale ragione, domandano, ha denunciare soltanto il giorno 26? La 19enne ha detto che era in Sardegna senza i genitori, atterrati giorni dopo; quando la mamma, preoccupata da anomalie nel comportamento della figlia, l’ha convinta a confidarsi, insieme al marito ha deciso d’accompagnare la ragazza dai carabinieri come primissima azione al rientro a Milano, la città di residenza.

Grillo, caccia alla verità nei telefonini dei ragazzi. C'è un video della serata in Sardegna. La difesa della giovane: "Riservatezza". Cristina Bassi, Domenica 08/09/2019 su Il Giornale. Massima riservatezza e speranza che le indagini si svolgano nella «massima serenità». La giovane milanese che ha denunciato Ciro Grillo e tre suoi amici per stupro di gruppo si affida agli inquirenti. E all'avvocato penalista Laura Panciroli, che da anni assiste le vittime di violenza. La ragazza, che ha 19 anni come il figlio minore del comico e fondatore del Movimento 5 stelle, vive in centro, è di buona famiglia. È una studentessa, non una modella come si era detto inizialmente, fresca di maturità. Nessun commento trapela nei delicati giorni degli accertamenti giudiziari. È tutto al vaglio della Procura, che ha delegato parte delle indagini ai carabinieri di Milano, cui la giovane si è rivolta accompagnata dai genitori lo scorso 26 luglio. La denuncia è stata fatta a dieci giorni dai fatti, al rientro dalle vacanze. È stata la madre a convincere la 19enne a raccontare tutto alle forze dell'ordine. E a sottoporsi agli accertamenti medici e psicologici del Soccorso violenza sessuale della clinica Mangiagalli, un centro specializzato. La 19enne ha raccontato che durante la vacanza in Costa Smeralda, il 16 luglio, è uscita con un'amica, Grillo e tre amici di lui: Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria. Hanno tra i 18 e i 20 anni. Dopo una serata al Billionaire, in cui i ragazzi avrebbero tutti bevuto, il gruppo si è spostato nella casa di villeggiatura dei Grillo che si trova in un residence. Il pretesto è stato quello di una spaghettata. Una volta nell'appartamento, l'amica della ragazza milanese si è addormentata a causa del troppo alcol. Mentre la 19enne denuncia di essere stata aggredita e stuprata a turno da tre dei quattro ragazzi. Impossibile per lei, in inferiorità numerica e probabilmente resa poco reattiva dallo stato di ebbrezza, difendersi o scappare. I quattro indagati non negano alcuna circostanza, neppure il sesso di gruppo. Ma sostengono, in versioni che combacerebbero l'una con l'altra, che la giovane donna era consenziente. Il ritardo della denuncia non facilita gli accertamenti clinici che da prassi vengono effettuati sulle vittime di stupro, né gli esami tossicologici possono ormai più dire quale fosse lo stato di alterazione o meno della studentessa. Aspetto quest'ultimo che ha un fondamentale importanza nei casi di violenza per determinare i limiti del consenso. La denuncia è stata subito trasmessa per competenza alla Procura di Tempio Pausania, il cui procuratore Gregorio Capasso ha assicurato che le indagini saranno celeri. Gli elementi chiave, contatti, messaggi, foto, si trovano nei cellulari degli indagati che sono stati sequestrati ma non ancora analizzati. Ci sarebbe anche un video del rapporto sessuale di gruppo.

Giampiero Mughini per Dagospia il 7 settembre 2019. Caro Dago, come tutti sto leggendo gli articoli relativi ai quattro ragazzi liguri (di cui uno porta un cognome famoso) accusati da una ragazza scandinava diciannovenne che vive di Italia di avere abusato di lei. La cronaca racconta di una serata passata in discoteca, i bicchieri di vodka uno dopo l’altro, i quattro e la ragazza più ubriachi che non, e poi il trasferimento nella villa di quello dal cognome famoso, i primi approcci, quella che la ragazza indica come la prima violenza e poi tutti gli altri a turno. Spetta ai magistrati capire i fatti e indicare la responsabilità. Mi colpisce il fatto che pare esista un video dell’atto sessuale nel telefonino di uno dei quattro eroi. Pare che l’avvocato della difesa sostenga che il fatto stesso di avere girato quel video dimostra che l’atto sessuale fosse consenziente, risultasse piacevole a tutti i presenti e che come tale il videomaker lo avrebbe trasmesso agli altri e idioti come lui suoi “followers”. A me vengono i brividi al pensare che un gesto personale e privato quale un atto sessuale diventi immediatamente materia di scambio cliccante. Alla loro età io non avevo i soldi di che comprarmi un bicchiere di vodka, altro che ubriacarmi. Il primo bicchiere di whiskey della mia vita l’ho bevuto quando ero a metà strada tra i trenta e i quarant’anni. I pochi soldi che avevo a vent’anni, quelli andavano all’agente rateale della casa editrice Einaudi. E comunque quello che avveniva o non avveniva tra me una ragazza era cosa talmente privata e segreta. Mai nella mia vita ho usato una volta il verbo “scopare”, che trovo ignobile, e dire che quanto a fantasie e immaginazioni sono un depravato sessuale: solo che quelle fantasie e immaginazioni appartengono solo a me, ripeto solo a me, come tutto il resto della mia vita. Una cosa soltanto mi chiedo. Figli non ne ho avuti e non ne ho mai voluti perché non mi sono mai sentito all’altezza di fare il padre. Ne avessi avuto uno che si fosse comportato come uno dei quattro eroi – vodka a garganelle, il video di un atto sessuale non sappiamo se consenziente o meno – quanti calci nel culo gli avrei dati, ma quanti? Cento, duecento? Forse di più. Giampiero Mughini

Il figlio di Grillo indagato  per violenza: sopralluogo nella villa a Porto Cervo. Pubblicato giovedì, 12 settembre 2019 su Corriere.it da Alessandro Fulloni e Alberto Pinna. Un’ora circa di ispezione nell’abitazione in Costa Smeralda dove Ciro Grillo, assieme. Scaricata in serata la «copia forense» di video, foto e messaggi. Un’ora circa di ispezione — dalle 13 e 30 alle 14 e 30 e che sarebbe stata «accuratissima», secondo gli avvocati della difesa — condotta dal procuratore di Tempio Pausania Gregorio Capasso nella villa di Beppe Grillo, a Porto Cervo, dove il 16 luglio si sarebbe consumata una violenza sessuale di gruppo ai danni di una studentessa diciannovenne residente a Milano. Dello stupro sono accusati il figlio del garante M5s, Ciro Grillo, e i suoi amici Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria, tutti di Genova, tutti tra 19 e 20 anni. E tutti che avrebbero abusato della giovane. Magistrati e legali della difesa - Barbara Raimondo, Gennaro Velle, Paolo Costa, Enrico Grillo, Ernesto Monteverde e Mariano Mameli - hanno analizzato le stanze dell’abitazione in cui si sarebbero svolti i fatti che la ragazza ha denunciato ai carabinieri di Milano. Sono stati fotografati gli ingressi delle due abitazioni: si tratta di due villette parallele, una di proprietà della famiglia Grillo e l’altra (quella dove è avvenuta la violenza) che è comunque nella disponibilità della stessa famiglia. Fotografata anche la doccia dove sarebbe avvenuto un rapporto tra la giovane e uno del quartetto di amici. Anche questo uno stupro, secondo la ragazza che il 26 luglio, accompagnata dai genitori, ha sporto la denuncia presso la caserma di via Moscova a Milano; invece un rapporto consenziente secondo la linea di difesa comune a tutti e quattro i diciannovenni. Che avrebbero incontrato la coetanea, che stava assieme a un’amica, alla discoteca Billionaire.

Poi all’alba, dopo aver bevuto abbondante vodka, sarebbero andati tutti nell’abitazione (adiacente a quella in cui quella mattina dormiva la madre) dove Ciro Grillo ha trascorso l’estate. Una delle due giovani si sarebbe addormentata nel soggiorno per il troppo alcol e non si sarebbe accorta di ciò che stava accadendo all’amica. Nei prossimi giorni verrà ascoltata dai carabinieri in un ambiente protetto. La Procura di Tempio ha avviato anche il controllo del contenuto dei telefoni cellulari — oltre ai video ripresi nella casa ci sarebbero anche, secondo la difesa, messaggi scambiati tra uno dei giovani e la ragazza milanese — sequestrati: un’analisi svolta in contradditorio tra il perito nominato dal procuratore Gregorio Capasso e un esperto incaricato dal pool difensivo, Mattia Epifani. In serata sarebbe stata scaricata la copia forense dei cellulari ora a disposizione delle parti. Sono state anche disposte perizie foniche finalizzate a capire se qualcuno possa avere udito eventuali grida da parte della vittima della presunta violenza. 

Paolo G.Brera per la Repubblica il 13 settembre 2019. «Fate conto che vengano fotocopiati», dice uno degli avvocati difensori cercando di spiegare cosa stia succedendo, nella palazzina a due piani della procura di Tempio Pausania, ai sette telefonini sequestrati per scoprire la verità sul presunto stupro di gruppo maturato tra la vodka ghiacciata del Billionaire e uno dei due appartamenti di Beppe Grillo al Piccolo Pevero, nella baia incantata alle spalle di Porto Cervo. Sono quasi le nove di sera quando il procuratore capo, Gregorio Capasso, esce dall' ufficio in cui è iniziata la partita del destino per Ciro Grillo, il figlio di Beppe, e i suoi tre amici della Genova bene, accusati da una giovane studentessa italo-scandinava di averla stordita con l' alcol e poi violentata, a turno, fino a mattina. Il procuratore ha affidato a un perito la trascrizione completa del contenuto dei sette cellulari. Cinque telefonini apparterrebbero ai quattro ragazzi, almeno uno alla ragazza che ha denunciato la violenza - e uno in cui ci sarebbero filmati e fotografie catturati al Billionaire, il locale glamour di Briatore dove il gruppo ha trascorso - ad alto tasso di shottini - la prima parte della serata. «Ci vorrà tempo, pare ci sia molto materiale su questi strumenti telematici che sono stati sequestrati dalla pm», dice l' avvocato Romano Raimondo che difende uno dei giovani, Vittorio Lauria. Ci sono i filmati, più di uno, ripresi in momenti diversi, anche quando tra alcuni dei ragazzi e una delle due giovani portate nell' appartamento di Grillo con la scusa di una spaghettata finale è iniziato quello che per i quattro giovani è stato solo sesso consenziente, ma che li ha portati sotto inchiesta con un' accusa pesantissima. C' è anche altro, nei telefonini che ora un perito nominato dalla procura ha iniziato ad aprire per «fotocopiarne il contenuto» trascrivendo tutto su una copia conforme, sotto gli occhi attenti dei periti delle parti. È una prova irripetibile che va fatta con attenzione non solo tecnologica ma anche forense, perché un errore di procedura potrebbe rendere vana la lettura del contenuto. Ci sono le conversazioni tra i quattro amici prima e dopo quella notte estrema, ci sono gli scambi di messaggi e i post sui social network, in particolare su Instagram. Invoca solo «un rispettoso silenzio », il procuratore. Lontano da quel «clamore mediatico che avrei tanto voluto evitare», dice smarcandosi da qualunque commento su una lunga giornata di accertamenti iniziata con un' ora di curve nei cinquanta chilometri che separano la procura dagli appartamenti di Grillo nel mini residence al Pevero Golf. Tra la veranda che affaccia sul green di buca nove e le finestre sulla baia e sulle ginestre in fiore, i tecnici del nucleo scientifico dei carabinieri hanno scattato fotografie ed effettuato rilievi, metro per metro sui luoghi in cui, secondo il suo racconto disperato, la vittima ha vissuto il suo incubo.

Marco Grasso per La Stampa il 13 settembre 2019. A fine mattinata c’è chi strabuzza gli occhi, nella lussuosa tranquillità del Pevero Golf Club: «Ma che stanno girando una fiction?», chiede una signora al barista del circolo. Nel cortile di fronte, dove comincia l’ingresso del residence privato dove da anni ha casa Beppe Grillo, va in scena la realtà più incredibile per questo angolo di Costa Smeralda: i carabinieri della sezione rilievi, coordinati dal procuratore di Tempio Pausania Gregorio Capasso, stanno ricostruendo passo passo la scena di uno stupro di gruppo. Lo fanno minuziosamente, filmando ogni passaggio, sulla base del racconto della studentessa di vent’anni che ha denunciato per violenza sessuale il figlio del comico e tre amici, che l’avrebbero stuprata al termine di una serata di eccessi cominciata a dieci minuti di macchina da questo complesso, al Billionnaire di Flavio Briatore.

Il sopralluogo. Gli accertamenti vanno avanti tutta la mattina e hanno un obiettivo preciso: cristallizzare ogni singola testimonianza di quella sera. Sul luogo in cui sono avvenuti i fatti erano in sei. La vittima e i quattro ragazzi accusati di violenza sessuale - Ciro Grillo, giovane campione di salvate, gli amici Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria - che si difendono sostenendo che la ragazza era consenziente. C’era poi un’amica di lei. I magistrati l’hanno interrogata due giorni fa: «Mi sono addormentata e non mi sono accorta di niente». Quello andato in scena secondo la denuncia della vittima, è uno stupro a cui hanno partecipato in quattro, uno dei quali ha anche ripreso tutto con il telefonino.

La villa in Costa Smeralda. La residenza dei Grillo è un appartamento spazioso, con un soggiorno, in cui si sarebbe assopita la testimone, e una camera da letto, in cui si sarebbe consumata la violenza. Ottanta metri quadri circa attraversati da un muro divisorio che separa l’altra ala della casa, dove quella notte ha dormito Parvin Tadjk, moglie del fondatore del Movimento Cinque Stelle, e madre di Ciro. La sua testimonianza - la donna sarà convocata nelle prossime settimane dal magistrato che sta coordinando l’inchiesta - non è semplicemente un’audizione di routine: ha sentito ho visto qualcosa di quanto accaduto nell’appartamento a fianco?

L’analisi dei cellulari. Ieri gli investigatori hanno gettato le basi per un altro passaggio fondamentale: l’estrazione dei file dei telefoni sequestrati ai quattro ragazzi. La copia forense permetterà di vedere i contenuti delle chat, e, soprattutto, di analizzare quel video così controverso da dividere gli avvocati delle due parti.

Il video e le fotografie  di Grillo jr e degli amici,  ora si cerca il tassista. Pubblicato venerdì, 13 settembre 2019 su Corriere.it da Alessandro Fulloni, inviato ad Arzachena. Esaminati i primi contenuti dei telefonini. La Procura sentirà Parvin Tadjk, la moglie di Grillo che la notte del 16 ha dormito in uno dei due appartamenti. Un primo video e alcune foto sono stati esaminati, giovedì notte, dai periti della Procura di Tempio Pausania e da quelli della difesa e della parte lesa. Comincia a prendere forma la ricostruzione di ciò che sarebbe accaduto all’alba del 16 luglio nella villa che Beppe Grillo — garante del Movimento 5 Stelle — ha in Costa Smeralda, al Pevero, in prossimità del Golf Club di Porto Cervo (comune di Arzachena). Qui Ciro, figlio 19enne del comico, campione italiano di savate, avrebbe violentato, assieme a tre amici coetanei tutti di Genova, una ragazza milanese, anche lei di 19 anni, conosciuta poche ore prima assieme a un’amica al Billionaire, l’esclusivo locale di proprietà di Flavio Briatore dove il gruppetto aveva trascorso la prima parte della serata tra abbondanti shottini. Una vicenda denunciata dieci giorni dopo, il 26, dalla stessa giovane accompagnata dai genitori alla caserma dei carabinieri di via Moscova, a Milano. Ciro Grillo e i suoi tre amici (Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria) da subito, interrogati dal procuratore di Tempio Pausania Gregorio Capasso e dalla pm Francesca Bassani, hanno parlato di «rapporti consenzienti». Che sarebbero stati filmati da uno dei quattro. Giovedì, dopo il sopralluogo degli investigatori (c’era anche il comandante del reparto investigativo dei carabinieri di Olbia Astrid Greta Gentili) nella residenza dei Grillo, circa 80 metri divisi in due appartamenti attigui, è cominciata l’analisi dei file (video e foto) estratti dai cellulari, sette in tutto, sequestrati ai ragazzi. Uno sarebbe quello della vittima, gli altri apparterrebbero tutti agli indagati. Sebbene per la verifica delle «copie forensi» (in pratica la «replica digitale» di tutto il contenuto dei telefonini messo a disposizione dell’indagine) sia previsto un termine, estensibile, di 60 giorni, Capasso ha deciso di accelerare al massimo il «back up» «a garanzia di tutte le parti coinvolte nell’indagine». Per questo i periti (Mauro Sanna per la Procura e Mattia Epifani per la difesa) hanno trascorso l’intera notte di giovedì «repertando» almeno uno dei diversi video girati. «Top secret» l’esito. Secondo i legali dei quattro ragazzi (Corsiglia è assistito da Romano Raimondo e Gennaro Velle, Lauria da Paolo Costa, Capitta da Ernesto Monteverde e Mariano Mameli e Grillo da Enrico Grillo) quel filmato sarebbe la dimostrazione che non c’è stato alcuno stupro. Mentre per Laura Panciroli, difensore della giovane, sarebbe una prova d’accusa. E ancora: secondo la difesa, i periti avrebbero visto anche foto, con scenari di Porto Cervo, che la giovane (rimasta in contatto nelle 48 ore successive con qualcuno dei quattro) avrebbe postato sui social. Nei prossimi giorni la Procura sentirà Parvin Tadjk, la moglie di Grillo che la notte del 16 ha dormito in uno dei due appartamenti della residenza in Costa Smeralda. Sarà ascoltata anche la donna di servizio che alloggiava in una stanza adiacente a quella della compagna del garante M5s. Sono previste inoltre perizie foniche per chiarire che possibilità ci sia nell’abitazione di poter ascoltare nitidamente rumori da una camera all’altra. Gli investigatori, oltre che con il personale del Billionaire, vogliono parlare con il tassista che ha portato a casa la vittima del presunto stupro e l’amica (già ascoltata: ha detto di essersi addormentata per via della vodka e di non ricordare nulla). Anche in questo caso le versioni sono distanti: Ciro Grillo e gli amici sostengono di aver accompagnato le due ragazze sino ad Arzachena dove poi le hanno lasciate, chiamando un altro taxi. Ma la diciannovenne — che forse sarà sentita in incidente probatorio — ha detto che è stata lei a chiamare l’auto una volta uscita dalla villa a Porto Cervo.

Ciro Grillo, spuntano video e fotografie del presunto stupro. I periti della procura di Tempio Pausania hanno cominciato ad analizzare i telefonini dei ragazzi, tra cui Grillo Jr., accusati di violenza sessuale di gruppo nei confronti di una 19enne. Trovati video e fotografie compromettenti. Roberto Bordi, Sabato 14/09/2019, su Il Giornale. Continuano le indagini della procura di Tempio Pausania sul presunto stupro di gruppo, ai danni di una 19enne, che si sarebbe consumato la notte del 19 luglio nella villa di Beppe Grillo a Porto Cervo e che sarebbe stato commesso dal figlio del comico, Ciro, insieme ad altri tre ragazzi della "Genova bene". Come scrive il Corriere della Sera, i periti della procura avrebbero già analizzato un primo video e alcune fotografie registrati da uno dei quattro giovani. Interrogati dal procuratore Gregorio Capasso e dalla pm Francesca Bassano, i ragazzi hanno parlato di "rapporti consenzienti". A differenza della vittima, che 10 giorni dopo i fatti aveva denunciato ai carabinieri di via Moscova, a Milano, di avere subito uno stupro a causa dell'ingente quantità di alcool consumata. L'esame dei contenuti multimediali presenti negli smartphone dei quattro ragazzi segue di poche ore il sopralluogo che gli investigatori hanno compiuto nella residenza di Beppe Grillo. In tutto, sono 7 i cellulari sequestrati dagli inquirenti. Uno (o due) di proprietà della vittima, gli altri cinque (o sei) dei ragazzi. Il contenuto dei file, che potrebbe rivelarsi decisivo per capire come sono andate veramente le cose, rimane top secret. Per il momento, sarebbe stata effettuata la "copia forense" dei cellulari, vale a dire la "fotocopia" in formato digitale di tutti i file presenti nei dispositivi mobili. Sessanta i giorni concessi ai periti della procura per l'analisi di video e foto. Tuttavia, il procuratore Capasso ha insistito per accelerare al massimo le operazioni "a garanzia di tutte le parti coinvolte nell'indagine". Ecco perché l'intera notte di giovedì è stata spesa nella "repertazione" delle foto e dei video presenti nei cellulari. Ma non è finita qui. Perché gli investigatori, oltre al personale del Billionaire dove è avvenuta la "festicciola" alcolica che ha preceduto i rapporti sessuali, attendono di parlare con il tassista che ha portato a casa la vittima del presunto stupro oltre all'amica che era insieme alla 19enne.

Marco Grasso per la Stampa il 14 settembre 2019. Non si ferma l’inchiesta sullo stupro di gruppo denunciato dalla studentessa di vent’anni che accusa il figlio di Beppe Grillo, Ciro, e tre suoi amici di averla violentata. Dopo il blitz nella residenza estiva del fondatore del Movimento Cinque Stelle a Porto Cervo, teatro della presunta violenza, bisogna ora trovare una sintesi in una storia colma di discrepanze, a partire dalla versione della giovane («sono stata violentata») e quella dei quattro ragazzi («è stato un rapporto consenziente»). La Procura su questo punto sarebbe pronta a utilizzare lo strumento dell’incidente probatorio. La vittima potrebbe essere sentita per cristallizzarne la testimonianza, e renderla valida anche per un eventuale processo. Fra le possibilità a disposizione degli inquirenti c’è anche il confronto “all’americana” con i quattro ragazzi indagati.

I giovani - Grillo era insieme agli amici Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria, in vacanza in Sardegna dopo la maturità - si difendono sostenendo che quella notte si è consumato un rapporto di gruppo consenziente. Non è il solo punto su cui le due versioni dei fatti divergono. Un’altra importante discrepanza emerge dal resoconto della fine della notte. I ragazzi hanno raccontato al procuratore Gregorio Capasso di aver riaccompagnato ad Arzachena la ragazza. Lei dice invece che si sono limitati a chiamarle un taxi, dove sarebbe salita con l’amica. Si cerca il tassista Per questa ragione i carabinieri stanno dando la caccia a un nuovo possibile testimone - il tassista - che potrebbe riferire particolari importanti su questo finale di serata e sulle condizioni delle due ragazze. L’amica della vittima sarebbe caduta in un sonno profondo e, pur dormendo nella stessa stanza, non avrebbe sentito niente di quanto accadeva: «Abbiamo bevuto tantissimo, non ricordo niente». E importante sarà altrettanto l’audizione della moglie di Parvin Tadjk, moglie di Beppe Grillo e madre di Ciro, che dormiva nella stanza adiacente, separata da un muro. Sono in corso perizie foniche, per comprendere cosa si senta tra un lato e l’altro della casa. Ieri sono proseguite le operazioni sui telefoni, e gli inquirenti hanno scaricato post e immagini pubblicate sui social network dalla vittima, nelle 24 ore successive alla presunta violenza.

Alberto Pinna per il “Corriere della sera” il 23 ottobre 2019. Parvin Tadjik, moglie di Beppe Grillo, ha parlato con i magistrati. Quando il figlio Ciro e i tre amici facevano l' alba nella villetta in Costa Smeralda con una studentessa di 19 anni - «Mi hanno ubriacata e ripetutamente violentata» denunciò la ragazza; «Era consenziente» si sono difesi loro - la signora era in una stanza attigua. Se quella notte ha sentito qualcosa, lo ha detto al procuratore Gregorio Capasso e alla sostituta Laura Bassani, che l'hanno ascoltata ieri come «persona informata sui fatti». Sulla deposizione niente è trapelato. Parvin Tadjik, 59 anni, era accompagnata dall' avvocato Enrico Grillo, difensore di Ciro e legale di famiglia, il quale tuttavia non ha potuto presenziare, trattandosi di testimonianza e non di interrogatorio. La moglie di Grillo non era obbligata a rispondere alle domande dei magistrati, in quanto prossima congiunta di uno degli indagati. Ma non risulta si sia avvalsa della facoltà di astenersi. Dormiva, così da indiscrezioni dai primi atti dell' inchiesta, e non avrebbe sentito niente né la notte né il mattino successivo. Non si sa se abbia confermato oppure fornito qualche particolare utile alle indagini: i ragazzi al mattino successivo sono rimasti a casa e lei dovrebbe averli incontrati. Ciro Grillo, Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria, tutti ventenni, sono accusati di violenza. Il 16 luglio, dopo una serata nel Billionaire, avevano invitato la studentessa e una sua amica in uno dei due appartamenti della famiglia Grillo al Piccolo Pevero (nell' altro accanto, c'era Parvin Tadjik). «Mi hanno fatto bere per abusare di me... Mi ha violentato uno, poi a turno gli altri tre...». Al rientro a Milano, dieci giorni dopo, la ragazza ha raccontato tutto ai genitori. Dopo la denuncia ai carabinieri il sequestro dei telefoni cellulari e dei profili su social, il lavoro dei periti - uno per la procura, uno per i difensori e uno per la parte lesa - è ancora in corso e risulta particolarmente complicato nel repertare i numerosi messaggi e commenti, ma soprattutto il video che uno dei ragazzi ha girato: quelle immagini possono conferma se c' è stata o no violenza. Difficile invece che elementi decisivi emergano da una decina di testimonianze, raccolte nei giorni scorsi, fra le quali i vicini di casa al Piccolo Pevero, il tassista che ha riportata a casa la diciannovenne quella sera e l' amica della studentessa, che pare abbia confermato: ubriaca, dormiva profondamente nel soggiorno e non si è accorta di ciò che accadeva pochi metri più in là, nella camera da letto.

A Grillo fa schifo la casta. Ma ha sfruttato due condoni. Il comico vuole moralizzare il Paese però tace su come ha sistemato la sua posizione edilizia e fiscale. Stefano Zurlo, Giovedì 21/02/2013 su Il Giornale. Schifa i condoni, come schifa le tangenti. Già nel 2004 ironizzava perfido sui deputati del Pdl: «Immaginiamo che costoro non abbiano ma maneggiato tangenti, condoni» e altre porcherie enumerate in un'interminabile lista di malefatte. Il furbetto della piazza. Strano. Beppe Grillo, il fustigatore, il moralista, l'ammazzacasta da standing ovation, deve avere la memoria cortissima. Immaginazione per immaginazione, si può andare indietro al 2002 e al 2003 e in quelle date si troveranno anche i condoni tombali del tribuno che ha messo le mani nel verminaio della Seconda repubblica. Grillo infatti possiede il 99 per cento delle azioni della Gestimar, una società immobiliare di cui è amministratore unico il fratello Andrea. E la Gestimar, che ha in portafoglio una decina di proprietà fra Liguria e Sardegna, si è avvalsa non una ma due volte del condono. Quello firmato, per intenderci, dal nano di Arcore, come lui chiama con slancio amicale Silvio Berlusconi, e dall'allora superministro dell'Economia Giulio Tremonti. Ma sì, il leader del Movimento 5 stelle ha utilizzato il tanto deprecabile condono, come prima e dopo di lui hanno fatto migliaia e migliaia di italiani. Connazionali cui va la sua compassione dall'alto di una fiammeggiante retorica. Lui, naturalmente, non ha tempo per aggiornare la propria biografia e raccontare come la Gestimar risolse i suoi problemi. E mise a posto la propria pozione fiscale. Dettagli. Scriveva il comico sul suo blog già il 27 luglio 2006: «L'italiano medio è abusivo e condonista». Poi, non contento, rincarava la dose: «L'italiano medio è un povero cristo che ruba a se stesso e al suo Paese e non lo sa». Grillo, a quanto sembra, rappresenta bene questa mediocrità tricolore perché pattina sopra i due condoni due dell'azienda di famiglia. Non solo: nel suo palmares c'è anche un condono edilizio per via di un terrazzo da 100 metri quadri che impreziosisce la sua villa di Sant'Ilario a Genova e che il comico aveva fatto ricoprire. Insomma, non s'è fatto mancare niente Grillo e a proposito dello slalom con il fisco ha solo approfittato delle norme varata dalla coppia Berlusconi-Tremonti. Niente di illecito, però la lingua non si ferma e Grillo colpisce con durezza chi gli ha permesso di sfangarla dieci anni fa. Scriveva allora il fratello Andrea. «In considerazione della possibilità concessa dalla legge finanziaria 2003 di definire la propria posizione fiscale con riferimento ai periodi di imposta dal 1997 al 2001, fermo restando il convincimento circa la correttezza e la liceità dell'operato sinora seguito, si è ritenuto opportuno avvalersi della fattispecie definitoria di cui all'articolo 9 della predetta legge (condono tombale)». E così i fratelli grillo afferrarono la corda lanciata ai contribuenti dal governo Berlusconi. L'altra sera, mentre Grillo incendiava piazza Duomo, Adriano Celentano si schierava con lui, l'uomo nuovo, attraverso la sua ultima canzone Ti fai del male. Il testo del Molleggiato non cita per nome Grillo ma è esplicito che più esplicito non si può: «Si dice in giro che fra i partiti c'è un'onda nuova che è partita dal niente». Ma sì, la valanga celebrata da Celentano è quella dei grillini. Peccato che due righe prima il Molleggiato lanci l'allarme: «Riemergono purtroppo parole pericolose, parole come condono tombale». Ma dove riemergono? L'artista avrebbe potuto specificare che le parole di Berlusconi sono state precedute dalla biografia dei fratelli Grillo. Il comico dal palco, per esempio nel corso di un comizio a Bologna, ha specificato che la Gestimar se la cavò sborsando una cifra modesta, nell'ordine dei cinquecento euro. Ma pezzi di carta non se ne sono visti. I militanti si devono fidare del suo verbo e i giornalisti, come è noto, non sono ammessi a porre domande. Così va il Belpaese oggi. Con Grillo che sbeffeggia l'Italia alle vongole, condonista, e Oscar Giannino che mordeva il Cavaliere: «Di tombale c'è solo l'idea che Berlusconi sia liberale». Purtroppo, destinata alla tomba era anche la carriera politica del giornalista, franato su un curriculum universitario più fantasioso di un romanzo di fantascienza.

Il vizio del moralista Grillo. Sanate megaville e società. Il comico tuona contro i condoni ma li ha sfruttati per la residenza a Genova e l'immobiliare col fratello. Paolo Bracalini, Giovedì 08/11/2018 su Il Giornale. Beppe Grillo sul blog denuncia da anni la piaga dell'evasione fiscale in Italia, anche se - raccontò l'ex impresario Lello Liguori - il comico pretendeva di farsi pagare i suoi spettacoli in nero. Ma Beppe Grillo denuncia da anni anche la malapianta dei condoni fatti dai vari governi. «Il cittadino deve sentirsi rispettato come contribuente, non preso per il culo da una serie infinita di condoni e dallo Scudo Fiscale» tuonava nel 2012. «I politici sono ectoplasmi che rinnovano la loro esistenza grazie a palliativi, l'ultimo è il condono per le abitazioni abusive» ammoniva nel 2013, epoca governo del «porporato Nipote Letta», cioè Enrico. Il M5s in Parlamento si occupa delle vere emergenze nazionali mentre «loro» si occupano solo di «salvare Berlusconi, salvare il Monte dei Paschi di Siena e fare il condono edilizio» sentenziava sempre sul blog nel 2013. «Il governo strizza l'occhio ai furboni con la procedura di condono nota come «voluntary disclosure» rituonava il comico nel 2017. Ma quando si trattava di condonare la roba sua, Grillo non si è schifato per nulla. Anzi più volte il fondatore del M5s ha approfittato della possibilità di sanare gli abusi. Nel suo caso per tre volte, con due tipologie diversi di condoni. I primi due sono scritti nei bilanci della Gestimar Srl, società immobiliare con sede a Genova proprietaria di una decina di immobili fra Liguria e Sardegna, di cui Beppe Grillo era socio al 99%, insieme al fratello Andrea. Ebbene nei bilanci 2002 e 2003 si legge: «In considerazione della possibilità concessa dalla legge finanziaria 2003 di definire la propria posizione fiscale con riferimento ai periodi di imposta dal 1997 al 2001, fermo restando il convincimento circa la correttezza e la liceità dell'operato sinora eseguito, si è ritenuto opportuno di avvalersi della fattispecie definitoria di cui all'articolo 9 della predetta legge», ovvero il condono tombale dell'allora governo Berlusconi, ministro Tremonti, ovvero del «nano di Arcore» e «Tremorti», come li soprannominava gentilmente il comico. Il loro condono però lo prendeva sul serio. Come l'altro, edilizio, quello che i suoi fan diventati ministri giustificano in Sicilia e promuovono ad Ischia. Del condono edilizio di Grillo scrisse Filippo Facci sul Giornale ricostruendo l'epopea del comico-fustigatore di costumi: «Nel 1986, poco in linea con certe sue intransigenze future, fu protagonista di alcuni spot per gli yogurt Yomo: Ci hanno messo 40 anni per farlo così buono, diceva indossando una felpa con scritto University of Catanzaro. Lo yogurt è un prodotto buono, si difese lui. Per quella pubblicità vinse un Telegatto. È il periodo in cui andò a vivere a Sant'Ilario, la Hollywood di Genova: una bellissima villa rosa salmone, affacciata sul Monte di Portofino, con ulivi e palme e i citati frutti e ortaggi di plastica. Non fece scavare una piscina, ma due: cosa che piacque poco ai vicini e soprattutto al dirimpettaio Adriano Sansa, già poco entusiasta del terrazzo di 100 metri quadri che Grillo fece interamente ricoprire inciampando in un clamoroso abuso edilizio cui pose rimedio con uno di quei condoni contro cui è solito scagliarsi». È un artista, mica si può chiedergli la coerenza. Del resto Grillo ha fatto l'apologia della decrescita, del pianeta slow, delle auto ad acqua che non inquinano e non consumano petrolio, ma ha posseduto Ferrari e barche a motore. L'altra megavilla, quella a Bibbona a pochi metri dal mare che affitta a 15mila euro a settimana, ha la fortuna di essere stata accatastata solo come A7 (villino), invece che A8 (villa), come pure quella di Sant'Ilario. Comico, condonato e anche fortunato.

Beppe Grillo e quegli abusi edilizi. A Marina di Bibbona? L’Inkiesta il 6 marzo 2013. Quante panzane su Grillo. Nella pioggia di notizie sull’ex comico c’è anche quella della villa abusiva. Non quella a Sant’Ilario (quella sì abusiva), sanata a suo tempo grazie al condono edilizio, ma quella di Marina di Bibbona. Circolano immagini come queste sotto: che, con tanto di coordinate satellitari, spiegano come la distanza dalla battigia sia ridottissima. Tanto da essere fuori legge. Vero? Falso? Tutt’e due. La distanza è troppo poca, è vero. Contravverrebbe anche alla legge. Ma il problema è che è una villa antica, costruita molto prima della legge e anche di Beppe Grillo. Per cui è legale, legalissima. E poi, se è vero che Grillo vuole rivoltare la vecchia Italia come un calzino, di sicuro la villa è una delle poche cose che lascerebbe al suo posto. A due passi dalla spiaggia.

Beppe Grillo: la villa al mare e le spiagge (semi) libere. Giulio Gori lunedì 11 marzo 2013 su Blogo.it. «Non mi rovinate la duna» strillava qualche giorno fa Beppe Grillo durante una passeggiata sulla spiaggia di Marina di Bibbona, accompagnato dall’amico scrittore Stefano Benni. Il leader del Movimento 5 Stelle si rivolgeva ai fotografi e ai giornalisti che lo stavano circondando: «Grillo, per favore, solo qualche domanda». Niente da fare, silenzio. E se tutti quelli che hanno visto le immagini hanno potuto notare la maschera da Uomo Ragno che copriva il volto del comico, non pochi, in questi giorni sulla rete, si sono posti anche qualche domanda su quella villa così insolitamente vicina al mare. «Sarà un abuso edilizio?» «Sarà tutto a posto?», sono le domande che si è posto il "popolo del web", sì proprio quello di cui Grillo si fa alfiere, ma che qualche volta ti si può ritorcere contro. Ebbene, i malpensanti possono mettersi il cuore in pace: la «casa rosada» che il comico possiede a Marina di Bibbona, a pochi metri dalla battigia, è in regola. E’ semmai la frase «non mi rovinate la duna» a stonare, con quel «mi» che sa di un senso di proprietà che si allarga oltre i confini del buon senso: proprio come la recinzione della villa che avanza verso il mare grazie a una concessione sul demanio pubblico. Il rapporto di Beppe Grillo e «villa corallina», ventuno stanze con tanto di piscina esterna e uno spazio verde di quasi 5700 metri quadri, inizia il 18 luglio 2001, quando il comico la acquista quale unico proprietario in regime di separazione dei beni. La struttura appare oggi diversa da come emerge dalle vecchie mappe catastali, ma i disegni spesso risultano non aggiornati da decenni, mentre i documenti allegati, che al contrario sono sempre tenuti al passo, spiegano che il 13 luglio 2001, cinque giorni prima del rogito, le tre precedenti proprietarie depositarono in atti una variazione toponomastica: si tratta, in parole povere, di un procedimento che serve ad aggiornare il catasto, quando questo non risponde più alla realtà dei fatti. Non è un condono, è un modo per correggere il mancato aggiornamento dei documenti. La moglie Parvin Tadjik, nei primi mesi dopo l’acquisto, andava e veniva da Marina di Bibbona assieme a un architetto di fiducia, come raccontano al bar Pieffe, dove i due facevano tappa fissa per il caffè. La spiaggia bibbonese non è tra le più belle di Toscana, né il mare è particolarmente attraente. Ma quello che offre rispetto ad altri luoghi è una lunghissima spiaggia libera che si estende per cinque chilometri fino a Marina di Cecina, con lunghi tratti in cui si può avere la rara fortuna di non incontrare nessuno. Un vero paradiso per chi è in cerca di privacy. Così, il grande terreno attorno alla villa, immerso in una fitta pineta che rende impossibile intravedere la struttura dalla strada, viene presto recintato. Ma, forse per meglio proteggersi da occhi indiscreti, Grillo e famiglia pensano che la villa meriti qualche metro di respiro in più. Dalle carte catastali emerge infatti che tra la villa e il confine che dà sulla spiaggia ci siano al massimo una decina di metri di distanza. Il recinto, tuttavia, risulta distante dall’edificio una trentina di metri. Com’è possibile? All’Ufficio Edilizia Privata del Comune di Bibbona srotolano un’enorme mappa a colori che indica gli spazi di demanio di Stato dato in concessione. E tra i tanti rettangoli disegnati in grigio sulla spiaggia, ce n’è anche uno in corrispondenza della villa di Beppe Grillo (a differenza degli altri questo rettangolino non è al centro della battigia, come per gli stabilimenti balneari, ma è più arretrato e confina con il terreno di proprietà del comico). Per ragioni di privacy, il Comune non fornisce il nome della persona fisica o della società cui la concessione è stata accordata, né quali siano i relativi termini economici. Fatto sta che quella concessione, ottenuta su una spiaggia di tutti, consente alla villa di Grillo di avere un po’ di spazio in più, con tanto di terrapieno creato un paio di metri davanti alla recinzione per pareggiare il terreno. Anche in questo caso, tutto in regola. La stessa recinzione non impedisce il passaggio nello spazio di cinque metri dalla battigia, come prescritto dalle norme. Qui siamo almeno a venticinque. Resta tuttavia un dubbio ed è lo stesso Grillo ad alimentarlo; sono note a tutti le sue battaglie per i Beni Comuni non privatizzabili, a partire dall’acqua per arrivare fino alle spiagge: in un post pubblicato sul suo blog l’8 luglio 2009, il comico tuonava contro le «spiagge semi-libere»: «Ormai sono spiagge piene di roba – scriveva – Piene di sdraio, piene di ombrelloni, piene di bambini. Piene di venditori, marocchini, senegalesi. Piene di chiunque». Piene anche di parchi privati, si potrebbe ormai dire. Oltretutto, mentre uno stabilimento balneare privato offre un servizio al pubblico, il giardino di una villa è a beneficio solo del proprietario e dei suoi ospiti. Quanto alla spiaggia, non serve un esperto per capire che una concessione non se la può permettere chiunque. Così, un uomo ricco (che ancora nel 2009 se la prendeva contro la Legge Cappellacci «che ha dato 40.000 ettari di spiagge pubbliche ai privati in concessione per sei anni») può godersi un pezzo della spiaggia di tutti. Lui se lo può permettere. Ma poi sale sul palco e arringa la folla contro chi vuole privatizzare tutto quel che è nostro, persino l’aria che respiriamo. Beppe Grillo aveva ragione quando, con quel post, ci svelava che «noi siamo un Paese semi-libero. Come le nostre spiagge». Giulio Gori

Ho riflettuto a lungo sull'opportunità di pubblicare questo pezzo. Non perché sia un brutto pezzo, o perché contenga inesattezze. Anzi: è un pezzo onesto, caratteristica che ritengo fondamentale e imprescindibile per il buon giornalismo. La mia perplessità nasceva perché dopo il presunto "scoop" dell'Espresso, che mi è sembrato un vero e proprio buco nell'acqua, colmo di insinuazioni e di inesattezze, non volevo in alcun modo che Polisblog potesse essere accomunato a quei "tutti uguali" che titolano sbagliando una traduzione dal tedesco, o che parlano di "marcia su Roma", o che confondono una "sociedad anonima" con uno "schermo giuridico". So bene che in ogni caso in molti interpreteranno questo pezzo come un attacco gratuito, senza considerare il fatto che un politico – soprattutto uno che si propone nel ruolo del moralizzatore – debba abituarsi a essere "scandagliato" in tutte le sue manifestazioni pubbliche. In molti lo interpreteranno così senza nemmeno leggerlo (è la dura legge del web). Pazienza: non posso e non voglio che Polisblog, così come tutta Blogo, ceda alla tentazione di autocensurarsi pur di non essere confuso con gli altri. Parlano i fatti. E il fatto stesso che io mi sia sentito in dovere di far precedere lo scritto di Giulio Gori da questa premessa la dice lunga sui tempi difficili che stiamo vivendo.  Alberto Puliafito Direttore responsabile di Blogo.it 

·         Grillo ex garante del M5S.

JACOPO IACOBONI per la Stampa  il 15 settembre 2019. Face off, cambio di faccia. Morto Gianroberto Casaleggio, che tutto dettava, dopo anni di propaganda molto dura sui migranti e contro l' euro, anni di macchina dell' odio sui social pro M5S, Beppe Grillo ora tenta di re-indossare l' antica maschera dei primi anni duemila, ambiente, futuro, giovani. Il cofondatore del Movimento 5 stelle e il suo nuovo team (con cui Casaleggio non ha a che fare) la prossima primavera organizzeranno un tour per l' Italia, un investimento paragonabile a quello dello Tsunami Tour, anche se non sarà con le insegne di partito, per cercare di dare un volto ecologista al suo Movimento. Gli italiani gli crederanno? È un altro paio di maniche, ma il tour si chiamerà "Regeneration Road", e Grillo non sembra avvertire particolari pudori per ciò che nel frattempo il Movimento ha prodotto: dalle alleanze con Farage e la Brexit, agli incontri con Steve Bannon, al governo con Salvini, decreti sicurezza compresi. Il gruppo avrà due furgoncini, si sta pensando al classico van Volkswagen, simbolo della cultura hippie, e sarebbe tutto un programma. Ci sono tante cose del suo Movimento da far dimenticare, e allora verranno coinvolti nelle varie tappe comici, poeti, inventori, artisti, innovatori. A ognuno verrà chiesto: cosa significa per te «rigenerare» un Paese? Partendo dai classici specchietti per le allodole dei tempi del primo V-day: l' economia circolare, la politica, il futuro, il clima, l' ambiente, il tempo libero, gli affetti. Grillo stesso, e questo dà l' idea di quanto non si ponga la domanda «che cosa abbiamo combinato?», ha presentato così il giro ai suoi fedeli: «Ripercorreremo l' itinerario che Pier Paolo Pasolini fece, con il suo sguardo poetico e molto aperto e curioso, verso "la lunga striscia di sabbia"». Enormità del paragone a parte, esempi di tappe saranno la viisita alla Mogu, impresa che sul Lago di Varese produce pannelli usando gli scarti di lavorazione del legno dai funghi, oppure alla Mater Biotech, progetti di riconversione di siti produttivi alla chimica verde; pazienza se poi al governo il suo Movimento ha lasciato l' Ilva com' era, non ha fermato la Tav e il Tap, ha confermato le trivelle. La domanda quindi è: sarà creduto ancora, il Grillo parlante? In quante delle tappe ci sarà lui personalmente? Rischia contestazioni, dai tanti delusi? Forse si è accorto del rischio di passare alla storia come l' uomo che ha prodotto il più rilevante spostamento elettorale verso l' estrema destra dell' Italia recente. Una settimana fa Grillo ha scritto a Domenico De Masi. Il sociologo un paio di anni fa, a cena con lui a Roma, era stato critico sulla gestione M5S della Capitale, aveva dato qualche suggerimento e infine salutato scherzosamente il comico: «Se non mi ascoltate ti ammazzo». E giorni fa, dopo la nascita del governo col Pd, Grillo gli ha scritto un messaggino: «Mi ammazzi lo stesso, ora?». Il bisogno di tornare presentabile. Per le prime uscite si pensava a fine settembre, non ha aiutato la brutta storia del figlio del comico indagato per presunto stupro di gruppo. Nel progetto del tour, Grillo può investire una piccola parte dei soldi che il suo nuovo blog sta incassando: la relazione di bilancio della Beppe Grillo srl ha avuto un risultato positivo di 73mila 238 euro. I ricavi delle vendite di "spazi web" sono notevoli, 230mila euro. E delle spese legali delle tante cause perse si occupa Davide Casaleggio: l' Associazione Rousseau scrive a bilancio nel 2018 272mila 972 euro spesi per supporto legale «a tutela del garante Beppe Grillo». Ma la stagione delle invettive e dell' odio è finita, ora Beppe s' è messo in salvo dai suoi fantasmi, è al governo coi cari «pidioti».

Grillo "licenzia" pure i suoi: "I ministri siano esterni a politica". Il fondatore dei grillini ha aggiunto che per il Movimento "è l'occasione di dimostrare che le poltrone non c'entrano nulla". Andrea Pegoraro, Mercoledì 28/08/2019 su Il Giornale. “I ministri vanno individuati in un pool di personalità del mondo della competenza, assolutamente al di fuori dalla politica”. Lo dice Beppe Grillo in una pagina del suo blog, in merito alla formazione del nuovo governo giallorosso. L'accordo Pd-M5S ha infatti avuto il via libera dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che domani mattina alle 9.30 ha convocato Giuseppe Conteper dargli l’incarico di avviare l'esecutivo. Grillo ha sottolineato che “oggi è l’occasione di dimostrare a noi stessi ed agli altri che le poltrone non c’entrano nulla”. E ha aggiunto che “è assolutamente normale ed atteso che ogni accenno ad un ministero si trasformi in una perdita di tempo condita da cori di reciproche accuse di attaccamento alla poltrona”. A questo proposito, il comico genovese ha spiegato che esiste “un po’ di poltronofilia” ma allo stesso tempo non ci sono le condizioni per spiegarci i vari aspetti che i ministeri dovranno affrontare. Ha inoltre spiegato che "il ruolo politico lo svolgeranno i sottosegretari" e si dovrà "imparare a governare i “tecnici” della burocrazia che occupano da tempo immemore i ministeri". Nel frattempo, l’Adnkronos riporta la notizia secondo cui Grillo, parlando della formazione del nuovo governo, ha chiarito il senso del suo ultimo post, precisando che il suo riferimento "è ai ministeri più tecnici". Il fondatore dei grillini ha invitato i partiti "a trovare le persone migliori", dicendo in una telefonata a Luigi Di Maio: "Sei tu il capo politico e decidi tu per il Movimento, il mio è stato un paradosso".

Beppe Grillo, granata sul governo di Pd e M5s: "Ministri tecnici e sottosegretari politici", Conte nel sacco. Libero Quotidiano il 28 Agosto 2019. La granata di Beppe Grillo sull'accordo appena trovato tra Pd e M5s. A pochi minuti dalla convocazione ufficiale del Quirinale di Giuseppe Conte come premier incaricato, "l'elevato" guru fondatore del Movimento interviene cambiando le carte in tavola del futuro governo: "grandi personalità e tecnici" come ministri e "politici come sottosegretari", è il suo clamoroso diktat. Fuori Luigi Di Maio dalla squadra (lui stesso se ne è tirato fuori, rivendicandone anzi il "senso di responsabilità" del suo rifiuto al ruolo di premier "offertomi da Matteo Salvini), dunque, ma anche tanti big del Pd ex ministri con Letta, Renzi e Gentiloni e aspiranti riciclati nell'esperimento giallorosso. Un bel grattacapo per Conte, un bel trappolone per chi al Nazareno pensava già di aver messo le mani sulle poltrone. "Questa crisi somiglia sempre di più ad un guasto dell'ascensore: quello che conta è mantenere la calma, non fare puzze e non dimenticare chi siamo - scrive Grillo sul suo blog -. Non facciamoci distogliere dalle incrostazioni che la realtà ha lasciato sui nostri scudi, è assolutamente normale ed atteso che ogni accenno ad un ministero si trasformi in una perdita di tempo condita da cori di reciproche accuse di attaccamento alla poltrona. Questo perché un po' di poltronofilia c'è ma, soprattutto, non ci sono i tempi né per un contratto e neppure per chiarirci su ogni aspetto, anche fintamente politico, delle realtà che i ministeri dovranno affrontare". Poi il punto cruciale: "Oggi è l'occasione di dimostrare a noi stessi ed agli altri che le poltrone non c'entrano nulla: i ministri vanno individuati in un pool di personalità del mondo della competenza, assolutamente al di fuori dalla politica. Il ruolo politico lo svolgeranno i sottosegretari, ognuno dovrà scegliere secondo verso cui dovrà rispondere nei fatti e sintetizzare, per ogni ministero, l'approccio ottimale e imparare a governare i tecnici della burocrazia che li occupano da tempo immemore". Così parlò "l'elevato" Grillo, da oggi e per sempre il vero capo politico dei 5 Stelle ed eminenza grigia del governo giallorosso.

Grillo parla con Dio e dice: «Senza di me una Babele». Giulia Merlo il 28 Agosto 2019 su Il Dubbio. Il fondatore in un post fa luce sulla contesa interna. «da cosa crede sia mosso il poppante che ciuccia? Dal bisogno forse? No quella è semplice, essenziale, naturale ed ecologica avidità», e il riferimento sembra al leader politico del movimento. Beppe Grillo sceglie di parlare per metafore, ma le bordate arrivano comunque forti. Il Garante del Movimento cinque stelle ha pubblicato un post più che sibillino sul suo blog: il titolo “Ho incontrato Dio”, poi un lungo monologo in cui Dio parla direttamente con lui e gli chiede conto delle sue scelte. «Sbaglio oppure una delle paure più diffuse oggi in Italia è che lei torni in campo, signor Giuseppe? Lei è il lessico, il vocabolario, della politica e del paese a partire dal V- Day. Lei è effetto e causa perfettamente pesati dell’oggigiorno. Senza vaffa in pratica non c’è sostanza e non si va da nessuna parte. Senza vaffa mancano nord e sud, est ed ovest caro Giuseppe. E lei cerca di rinchiudersi nel suo guscio sul mare…», un flusso di coscienza che sembra anche una sorta di j’accuse nei confronti di un Movimento che ha perso i connotati del vaffa, soprattutto in questa fase di consultazioni. «Capisce quello che le dico Giuseppe? Si era messo sul suo palco trapiantato in una piazza a sbraitare di ladri ed economia, di un Parlamento con più ladri che a Scampia. Non esistono ladri, non esiste economia, non esiste la democrazia e non c’è nessun Ovest. Esiste soltanto un unico, intrecciato, multivariato dominio dell’avidità…», continua il post, che poi fa un riferimento che a molti è apparso eloquente: «Da cosa crede sia mosso il poppante che ciuccia? Dal bisogno forse? No quella è semplice, essenziale, naturale ed ecologica avidità», con “il poppante” che potrebbe essere proprio Di Maio, oggi alla spasmodica ricerca di una collocazione nel futuro governo. Grillo poi analizza a modo suo lo svolgimento della crisi, scrivendo che «un giorno, i nostri figli, vedranno quel mondo perfetto: opinioni diverse ed opposte cammineranno tenendosi per mano cantando una pastorale», ma in questo mondo «Nessuno ascolterà nessuno, lo è stato sin da quando l’uomo è uscito dal magma. E lei ha osato interferire con queste leggi primordiali con i suoi vaffa, generando rischiose differenze, visibili contraddizioni, fiducioso di un uomo affrancato dalla natura». Alla fine, Grillo si lancia un auto- appello: «Ora, faccia rientrare i vaffa signor Giuseppe, lasci che il mondo torni alle sue piccole diplomatiche faccende, smetta subito di interferire con le primordiali leggi della dicitura e lasci ad ognuno la sua mediocrità». Una sorta di desistenza, quella vagheggiata da Grillo, che però termina con un incoraggiamento a lui da parte di Dio: «Li lasci lì senza un linguaggio: che la Babele si scateni». Come a dire che, senza di lui, il Movimento non avrà più nessuna lingua che il popolo possa capire.

Aldo Grasso per blog.oggi.it il 24 agosto 2019. «Mi eleverò per salvare l’Italia dai nuovi barbari, non si può lasciare il Paese in mano a della gente del genere solo perché crede che senza di loro non sopravviveremmo», ha tuonato Beppe Grillo. E ancora: «Dobbiamo fare dei cambiamenti? Facciamoli subito, altro che elezioni, salviamo il paese dal restyling in grigioverde dell’establishment, che lo sta avvolgendo! Come un serpente che cambia la pelle». Grillo è uscito dal silenzio per salvare la barca del M5S. Forse faceva meglio a tacere, rintanato nella sua mega-villa immersa nel silenzio di Sant’Ilario o nel suo lussuoso buen retiro toscano, a Bibbona. Con i suoi “vaffa”, con i suoi sberleffi, con la sua promessa di un mondo migliore reso tale da una sorta di riscatto giustizialista, si è reso conto Grillo del mostro che ha creato? Si è reso conto di aver plasmato una banda di incapaci che sono andati al governo solo per accrescere il potere di Matteo Salvini? Probabilmente sì, per questo ora si offre come Salvatore. Con i grillini, Salvini ha fatto tutto quello che ha voluto: Decreto Sicurezza 1 e 2, immunità per il caso della nave Diciotti, copertura totale sui 49 milioni “intascati” dalla Lega e su Russiagate, via libera a Tav, Tap e Ilva. È stata solo un’avventura sconclusionata, improvvisata, infantile, velleitaria (eppure di successo). Come ha scritto Massimo Nava: «Ancora più inesplorato è il meccanismo della delega che ha portato il guru a consegnare la propria creatura a discepoli che non sapevano camminare né sull’acqua, né sulle proprie gambe, che si sono rivelati piuttosto delfini arroganti e presuntuosi, pronti a rinnegare il maestro e persino a scannarsi fra loro». Adesso Grillo è prigioniero di un meccanismo di cui è stato artefice e strumento. Così si ritrova a essere un comico che non fa più ridere e un politico che non comanda. La sua colpa non è di essersi circondato di persone incompetenti come il ministro Danilo Toninelli; la sua colpa è di non aver capito che Toninelli è l’essenza stessa del grillismo, che il capo politico Luigi Di Maio rappresenta l’ideologia grillina al pari di Toninelli. Con Gianroberto Casaleggio, guru, Grillo pensava di inoltrarsi nell’utopia come sberleffo, ora si ritrova con il figlio di Casaleggio (eredità dinastica), con una piattaforma Rousseau che è una parodia della democrazia e un esercito di sbandati che hanno fatto di tutto per consegnare il potere a Matteo Salvini, detto il Truce. E ora vuol salvarci dai nuovi barbari. Mah!

Vittorio Feltri, Salvini, Renzi, Grillo e la crisi: "A chi andrà il prossimo vaffa". Libero Quotidiano il 20 Agosto 2019. Ho sempre avuto simpatia e ammirazione per Beppe Grillo, geniale nelle sue trovate comiche talvolta irresistibili. Poi egli ha cambiato mestiere o, meglio, si è messo a farne due: continua a fare il giullare e, nel contempo, si occupa col medesimo stile di cosa pubblica. Ha fondato una compagine, il Movimento 5 Stelle, pur non disponendo di alcuna stella, limitandosi a sfoggiare un discreto numero di personaggi raccattati nelle osterie e sugli spalti degli stadi. Tuttavia la cosa più importante, la più trainante, che costui ha inventato per sfondare nel complesso mondo degli elettori è stato uno slogan molto efficace in Italia, benché abbastanza volgare per quanto assai diffuso tra i compatrioti. Questo: vaffanculo. Il cui significato è afferrato al volo sia dai meridionali sia dai settentrionali. In pratica, il vaffanculo è l' unico elemento in grado di rappresentare appieno l' unità nazionale, altro che i jeans, il calcio e la cocaina. Quelli del Nord e quelli del Sud hanno un glossario diverso e non sempre i due gruppi "etnici" si comprendono colloquiando, tuttavia si mandano reciprocamente a fare in culo senza equivocare il significato dell' espressione. Il genio di Grillo si è manifestato proprio nella scelta di questo diffuso modo di dire, privo di contenuti ideologici, in cui chiunque si riconosce d' acchito. Non era mai successo che un leader raccogliesse tanti consensi con un paio di parole fuse, una delle quali "culo", accolte dal pubblico non solo quale sfogo ma anche quale semplice e sintetico programma politico. Se io in un articolo scrivo "vaffanculo" vengo accusato di ricorrere ad un linguaggio inaccettabile, scorretto, da bettola; mentre Grillo, ripetendo questo che poi è un insulto greve ha vinto le elezioni senza che nessuno lo processasse per reiterata trivialità. Comunque aver sdoganato il fondoschiena è un merito notevole da ascriversi pienamente a Beppe. E noi non possiamo che applaudirlo. La liberazione del lessico da lui promossa e realizzata è un' opera d'arte indiscutibile. Ma dobbiamo aggiungere per completezza di informazione che il vaffanculo in politica non introduce un argomento degno di considerazione. È lecito mandare al diavolo uno scocciatore, un figlio e perfino la moglie, però non credo costituisca uno spunto per aprire una discussione costruttiva in ambito istituzionale. Se invece siamo arrivati così in basso da fancularci in piazza, in tv e nel Palazzo, dobbiamo interrogarci non sul progressivo imbarbarimento dell'idioma, bensì sullo squallore dei nuovi modelli impostisi nei rapporti tra i partiti. Inoltre c' è da chiedersi se sia giusto e vantaggioso dare retta a un capobanda che anziché ragionare di politica, ti manda a quel paese, ricorrendo a termini che in altri tempi sarebbero forse stati accettati nelle trattorie, o nelle taverne, mai in un consesso di deputati e senatori. Oggi invece lo scettro è nelle mani del genovese, è lui che detta l' agenda politica, che boccia Salvini, recupera Renzi, Veltroni e Prodi.

Sogno o son desto? Vedo la realtà, la descrivo e mi viene da ridere constatando che la nostra vita, la mia come quella di tutti, dipenda da un vaffanculo che non scandalizza affatto, e viene accettato dal popolo quale dottrina illuminata. Vittorio Feltri

Il tramonto di Grillo: veste i panni di Napolitano e si infila la maschera di Monti. Andrea Delmastro domenica 11 agosto 2019 su Il Secolo d'Italia. Levata la maschera, finalmente scopriamo il vero volto del saltimbanco Grillo. Dopo aver promesso roboanti rivoluzioni in nome di una non meglio precisata democrazia di base, del famoso “uno vale uno”, il padrone del M5S invoca, in nome del logoro patto repubblicano antisovranista, un governo di inciucio nazionale con il Pd. Il terrore delle urne, il panico elettorale è una delle chiavi di lettura di questa solo apparente mutazione antropologica dei 5Stelle. I duri e puri della democrazia diretta, le vestali dell’antipartitocrazia assumono, in verità, con naturalezza la grammatica del più scafato Cirino Pomicino al fine di mantenere, contro l’evidente volontà del popolo italiano, uno “scranno al sole”. Il candore con cui i pentastellati si agitano nel sottobosco dei più triti riti parlamentari, fra divanetti del transatlantico e anticamere nella Presidenza del Consiglio, al fine di dar vita al più classico ed indigesto dei golpi parlamentari non deriva solo dalla fame di potere e dal fascino dell’odiosa Roma. C’è altro! C’è che le rivoluzioni non sono materia per giullari! I giullari non hanno un volto e proprio per questo indossano con naturalezza qualunque maschera. È dai tempi dei greci, infatti, che i “giullari” vanno a corte e indossano, con indifferenza, qualunque maschera imponga il padrone. Non fa eccezione Grillo, postmoderno giullare, occasionalmente incaricato dal padrone di recitare anche la parte del rivoluzionario da salotto! Siamo così giunti, in limine mortis del grillismo (politica s’intende!), all’ultima maschera e all’ultima scena. L’ Europa ha chiesto al giullare Grillo di mettere la maschera di un Monti o di un Napolitano chiunque e Grillo non ci ha pensato un secondo.  Ora Grillo, vestiti i panni di Napolitano e assunta la maschera di un Monti qualunque, invoca un governo di “inciucio nazionale” contro i “barbari”. Così facendo ha anticipato l’immorale fine di un movimento nato sulla democrazia diretta e che esalerà gli ultimi respiri al fianco del PD in una manovra di palazzo dall’indigesto retrogusto di golpe antidemocratico. Si chiude, dunque, la scena con questo ultimo colpo di teatro, ma non ci sono applausi, anzi si sbaracca perché alla fine a teatro il committente decide l’opera, ma rimane pur sempre il pubblico a decretarne il successo o l’insuccesso. Il pubblico ha decretato l’insuccesso, non un solo applauso, ma un triste epitaffio morale sulla tomba politica del grillismo e del suo fondatore che suona pressappoco così: “ad imperitura infamia di chi esalò gli ultimi respiri al fianco del PD in una manovra di palazzo”.

"Ebetino", "Ballista", "Fai schifo" Ma ora Beppe fa la corte a Renzi. Il guru del M5s apre all'intesa con chi insultò in modo feroce. Francesco Maria Del Vigo, Lunedì 12/08/2019 su Il Giornale. In Italia tutto è possibile. In politica ancor di più. La storia recente ce lo ha insegnato. Ma che si aprisse un confronto, e probabilmente un asse, tra Grillo e Renzi sembrava fantascienza. Anzi, per amor di precisione, sembrava un film horror. In questa folle estate, invece, è successo anche questo e all'orizzonte si profila l'incubo di un governo Pd-Cinque Stelle. Gli effetti della poltronite (l'amore viscerale per le comode sedute di Camera e Senato) hanno avvicinato l'inavvicinabile e il post, pubblicato due giorni fa da Grillo sul suo blog, non lascia spazio a interpretazioni: i due stanno flirtando. Non sappiamo se sarà amore, ma sappiamo con certezza che finora è stato odio. Vi riproponiamo una piccola antologia di insulti recapitati dall'ex comico all'ex premier. Roba delicatissima e di raffinata eleganza, come è nello stile del leader genovese. Nel corso degli anni, tra gli altri, gli ha affibbiato i nomignoli di «ebolino», «ebetino», «Renzie» (dopo che Matteo aveva sfoggiato il giubbotto da Fonzie) e «scrofa ferita». Ma è solo l'inizio dello scambio di gentilezze tra i due. «Siete passati da Lorenzo il Magnifico all'ebetino di Firenze», ammoniva il pubblico durante uno spettacolo nel 2010. Aveva già capito che Renzi avrebbe fatto carriera, era il primo di una lunga lista di sberleffi al limite della diffamazione. «Hanno bussato alla porta e non c'era nessuno. Era Matteo Renzi» attacca Grillo nel 2012 dal palco, ma questi sono solo bufetti. «Pd, partito di lotta e di massoneria» (2014), il riferimento a squadre e compassi è una costante della grammatica grillesca che raggiungerà l'acme durante il caso Consip, quando Renzi gli rispose, per difendere il padre Tiziano, con un pacatissimo: «Grillo fai schifo». Massone e amico dei poteri forti, ovviamente: «Matteo Renzi non dice mai una cosa vicina alla gente comune. Il fu giovane Renzie lo si ricorda per le sue comparsate, in giubbetto di pelle, da Maria De Filippi. È l'uomo delle banche e dei capitali» (2013). Poteva mancare un allusione sessuale nel florilegio di insulti? Ma ovviamente no: «Renzi soffre di invidia penis» (2012). E poi una lunga serie di hashtag che corrispondono ad altrettante battaglie sul web ingaggiate dai grillini: «#RenzieBuffone internazionale» (2014). «#RenzieSparaballe» (2014). «Forte coi deboli, debole coi forti #ebetinodenunciacitutti» (2014). «Renzie, ballista da esportazione #Renziebastaballe» (2015). Non mancano nemmeno i paragoni con personaggi discussi: «Mussolini ebbe più pudore. Non le chiamò riforme» (2014). «È come Achille Lauro che per diventare sindaco di Napoli regalò ai potenziali elettori una scarpa con la promessa di dare la seconda se fosse stato eletto. Gli 80 euro di Renzie sono peggio. Lui almeno una scarpa prima delle elezioni l'ha data». (2014). «Renzi come Schettino» (2014). «Renzi peggio di Monti» (2015). «Renzi come Lubitz» (il pilota che ha fatto precipitare volontariamente l'aereo della Germanwings nel 2015). Praticamente il male assoluto, che però diventa un male necessario quando non si vuole mollare il governo. E poi una sequela infinita di insulti e minacce, ve ne riproponiamo una piccola parte:_«Renzi? È falso e ipocrita» (2014), «Renzi è una persona malata. L'ebetino, così come Monti e Letta, vanno analizzati dal punto di vista psichiatrico: hanno la alessitimia, non hanno cioè la capacità di riconoscere le emozioni» (2014), «Renzi pifferaio magico» (2014), «Renzi burattino» (2014), «Renzi voltagabbana» (2014), «Non sei credibile» (2014). «Denunceremo Renzi per abuso di credulità» (2015), «Vuoi i nomi per il Quirinale? Vaffanculo» (2015). «Sei una gaffe esistenziale» (2015), «Ha rottamato solo suo padre» (2017). Una corrispondenza amorosa che si srotola nel corso di sette anni e che ora potrebbe sfociare in una mostruosa convivenza, tutto nel nome del demone dell'antisalvinismo. E i presupposti sono quelli di un disastro.

 “GRILLO PRONTO A ELEVARSI PER SALVARE L’ITALIA DAI NUOVI BARBARI? Marco Benedetto per Blitz quotidiano l'11 agosto 2019. Davanti all’ultimo delirio di Beppe Grillo, cosa avrebbe fatto un genovese di una volta? Avrebbe telefonato a una Croce Bianca, Verde, Azzurra che offrono assistenza e ambulanza da vari punti della Riviera che circonda Sant’Ilario. E avrebbero chiesto ai portantini di chiuderlo in luogo sicuro. Rileggete le parole del blog di Grillo: “Mi eleverò per salvare l’Italia dai nuovi barbari, non si può lasciare il paese in mano a della gente del genere solo perché crede che senza di loro non sopravviveremmo”. Elevato, così si è auto definito Grillo da quando il figlio di Casaleggio lo ha emarginato, preferendogli Giggino Di Maio, quello che Grillo descriveva così: “Quando lo abbiamo preso, in provincia di Napoli, parlava come Bassolino. Io gli dicevo: Luigi come va? E lui: O nun me romp u cazz”. Fosse vivo Gilberto Govi, il comico genovese che Grillo non è mai riuscito a emulare, ci costruirebbe una gag, tipo quella del manager. Il nipote faceva il ciclista e aveva un manager. Govi gli chiede: “E questo chi o l’é?”. “O mae menagger”. “Menagger? E ti ti vae con un coscì?”. Pensate i giochi di parole, i doppi sensi, le battute che Enrico Bassano avrebbe potuto mettere a disposizione di Govi. Invece, cosa strabiliante, nessuno sembra fare una piega. Forse pensano che sia solo una battuta. Eppure di danni Grillo ne ha già fatti tanti, anzi troppi. Ora siamo all’emergenza. Se si va alle elezioni il Movimento 5 stelle rischia una batosta biblica. Grillo è costretto a rimangiarsi i suoi anatemi. Ricordate quando inveiva sul Pd-meno-elle? Ora dicono le cronache, “al voto preferisce un accordo che, vista la situazione potrebbe essere solo con il Pd, magari con Renzi”. La politica giustifica tutto, per carità, ma c’è sempre un limite. D’altra parte se pensate che al povero Papa Francesco sono arrivati a far dire che Salvini è come Hitler e la Lega è erede del partito nazista… Se il giovane Bergoglio avesse studiato un po’ meglio la storia europea invece di perdersi nella ammirazione del dittatore fascista Peron oggi si renderebbe conto che la base elettorale nazista e fascista è più simile a quella del Movimento 5 stelle che a quella della Lega. Per anni Grillo ha diffuso e coltivato odio sociale, invidia dei fannulloni verso chi lavora, un nichilismo insensato in nome di una decrescita felice mal metabolizzata che ci vorrebbe far tornare al primo Medio Evo se non all’età della Pietra, la guerra ai vaccini. Nessuno mi toglie dalla testa che se Grillo non avesse scatenato il finimondo contro la Gronda di Genova (dando sponda ai miseri e fallimentari calcoli elettorali della sinistra), il ponte Morandi sarebbe stato chiuso in tempo per evitare la catastrofe. Invece un suo candidato sindaco arrivò a dire che l’ipotesi di un collasso del Ponte Morandi era una “favoletta” messa in giro per spingere la soluzione della Gronda. Era il 2013. La pericolosità dell’ideologia grillina è stata confermata nell’ultimo anno dal Governo guidato da Giuseppe Conte. Hanno votato alcune leggi di pura demagogia per rafforzare la loro base elettorale nel Meridione, come il reddito di cittadinanza. E non sono stati nemmeno capaci di fare le cose per bene. Ora, la crisi di Governo è stata annunciata anche se non formalmente aperta. Ma lo sarà davvero? Fate un po’ i conti: stando ai sondaggi, tutti i partiti tranne Lega, FdI e Pd perderebbero metà dei seggi, ma nel Pd dove in Parlamento domina Renzi, le nuove liste saranno da pulizia etnica. Perché Renzi e i suoi dovrebbe immolarsi? E con lui i 5 stelle. E Berlusconi poi? Come fa a fidarsi di Salvini? Forse nemmeno se gli promettesse di chiudere la Rai e fare di Mediaset la sola rete nazionale italiana. Eppure, di fronte al problema di fondo, la burocrazia che stritola l’Italia, le tasse (concentrate su pochi) che la affondano, tutto quello che sa proporre Di Maio come misura qualificante è la riduzione del numero dei parlamentari. In Italia, dove si legifera su tutto, anche sulla lunghezza del collare dei cani, senza un organico adeguato di Deputati e Senatori l’attività legislativa si incaglierà del tutto. Certo sarebbe meglio snellire le procedure, escludere il Senato dal processo legislativo, magari non alla maniera arronzata nel bar del borgo sull’Arno che voleva Renzi, piuttosto con una definizione di ruoli come negli Usa. Ma i 5 stelle il Senato hanno lottato per conservarlo e per conservare l’attuale complesso iter legislativo. A loro, in nome dell’odio sociale che è il loro carburante, preme togliere qualche stipendio sopra i mille euro. Ecco perché i sondaggi anticipano la giusta disgregazione elettorale del Movimento. Che poi il Pd vada dietro a Di Maio, riesumando il sogno di Bersani, è segno che la tabe è rimasta ben radicata, come un virus maligno, nel cervello della auto proclamata sinistra. Di fronte all’emergenza, hanno riesumato anche Beppe Grillo. I genovesi una volta amavano definirsi così: “Strinzo i denti, riso raeo, son zeneize, parlo ciaeo” (Stringo i denti, rido poco, sono genovese, parlo chiaro).  Forse è il momento che riesumino il loro mantra. E prendano le Pagine Gialle nazionali, forse il male è molto più diffuso.

Emanuele Buzzi per il “Corriere della sera” il 29 luglio 2019. Ancora più defilato, se possibile. Beppe Grillo si prepara a una nuova stagione, politica e artistica. E lo fa seguendo un percorso sempre più netto. Sta lavorando, dicono i rumors, a un nuovo spettacolo. E i Cinque Stelle? Un altro passo di lato: da leader a padre nobile, a spettatore attento. Il Movimento e Beppe Grillo hanno imboccato strade parallele. Ormai distanti anche fisicamente: Grillo non ha preso parte nemmeno alla chiusura della campagna elettorale per le Europee e nel suo ultimo blitz a Roma non ha incontrato i big. Certo, i contatti con i vertici e gli altri big (a partire da Davide Casaleggio) ci sono sempre e sono costanti. Ma il fondatore nelle ultime settimane è stato molto caustico nei confronti dei pentastellati. Durante il suo ultimo show a Pontenure, alle porte di Piacenza, pochi giorni prima del suo settantunesimo compleanno, ha ironizzato: «Eravamo un acquario: io, Casaleggio, Di Battista. Poi l' acquario è bollito e oggi siamo una zuppa di pesce». Pochi giorni dopo ha accolto i cambiamenti proposti per la riorganizzazione del Movimento a suo modo, prendendo di mira il «mandato zero» (ieri Luigi Di Maio, incontrando gli attivisti calabresi, ha precisato che «non sono novità calate dall' alto»). «Il mandato ora in corso è il primo di un lungo viaggio...Ma di andarmene a casa non ho proprio il coraggio...», aveva commentato invece il garante parafrasando il testo della canzone «Se mi lasci non vale», nell' interpretazione di Julio Iglesias. E solo pochi giorni fa è tornato a pungere ancora i Cinque Stelle, intervenendo con un post molto caustico sulla questione del via libera del premier Giuseppe Conte all' Alta velocità Torino-Lione (battaglia su cui Grillo si è speso in prima persona, venendo anche condannato in primo grado e poi prescritto). Il garante si è detto «molto scontento della situazione che si è venuta a creare». Ora per l' anno che verrà il fondatore del Movimento sta pensando a un ulteriore impegno. Grillo, raccontano i ben informati, sta lavorando a un nuovo spettacolo da portare in scena nei prossimi mesi, c' è chi ipotizza anche in autunno. Uno show pungente in cui prenderà di mira tutti. Compresi anche i pentastellati. Un passo che suona quasi come uno strappo, a dieci anni dalla nascita del M5S. Ma i timori vengono fugati dal Movimento. Alcuni Cinque Stelle al momento si limitano a commentare: «Beppe ha sempre preso di mira chi governa». E su un ulteriore allontanamento, d' è chi dice: «Ovvio che ci manchi, ma lui ha sempre detto che avrebbe fatto camminare il Movimento sulle sue gambe. Ed è stato di parola», dicono alcuni pentastellati.

Se nemmeno Grillo vota i grillini. Il Garante ha perso la pazienza. Il comico boccia il governo gialloverde: "Come stare in traghetto mentre hai il mal di mare". Francesco Maria Del Vigo, Venerdì 17/05/2019, su Il Giornale. Alla fine il primo a essersi rotto le scatole del governo dei grillini è proprio lui: Beppe Grillo. L'uomo che li ha creati e che ha dato loro il nome, il suo nome. Quello con cui continuiamo tutti a chiamarli: grillini, appunto. Ma Grillo, a giudicare dall'intervista che ha rilasciato a Sette, il settimanale del Corriere della Sera, non è più grillino. Che qualcosa si fosse incrinato tra lo scienziato pazzo e la sua creatura, lo avevamo già capito. Il Grillo che si guarda riflesso nello specchio della politica non si piace affatto. E non perde occasione per dirlo. I segnali, d'altronde, c'erano tutti: il nome tolto dal simbolo, un blog separato da quello del Movimento che tratta temi sempre più visionari e surreali, il ritorno agrodolce sui palchi dove non può non fare a meno di fare quello che gli viene meglio: sbertucciare i potenti. Ma i potenti sono i suoi, questa volta, e pure la sua satira è costretta a marciare con il freno a mano tirato, per non rovinare nel ridicolo. Se Grillo non avesse fondato i grillini ci sarebbe da scompisciarsi dalle risate a sentirlo sbeffeggiare Di Maio che sbaglia i congiuntivi e Toninelli che parla di tunnel inesistenti. Sembrano i bersagli perfetti per la sua satira. Così Grillo ha fatto un passo di lato ed è tornato sul palco, paradossalmente, per gustarsi lo spettacolo. Ma non il suo, quello dei suoi. E non possiamo negare che a volte sarebbe esilarante, se non ci fosse di mezzo il nostro Paese. «Volevano bruciarmi, allora mi sono spostato, malignamente vorrei sottrarmi alle cause», dice Grillo a proposito delle cause intentate dagli espulsi. Poi è ancora più chiaro e disilluso: «Il mio ruolo è come quello dei primi stadi dell'Apollo: fornisci la spinta, l'energia, poi ti stacchi un po'. C'erano solo due possibilità: continuare a essere il capo del Movimento oppure assumere la posizione del garante». Il comico non nasconde il senso di disagio e amarezza di fronte alle peripezie del governo gialloverde: «È come stare sul traghetto mentre soffri il mal di mare». E non manca neppure il solito attacco all'alleato-nemico Salvini, quello che finisce sempre al centro delle sue battute più caustiche: «Ritengo le sue idee allo stesso livello dei dialoghi di uno spaghetti western. Lo manderei a calci a fare il suo lavoro al Viminale, però siamo al governo, dobbiamo essere più consapevoli». Ed è tutto chiaro: questo è un Grillo di lotta, il solito Grillo di lotta, ma con la differenza non da poco che ora al governo ci sono i grillini. E lui non riesce proprio a capacitarsene. Dovevano aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno e sono finiti a fare i pesci in barile nei palazzi del potere. Anche su un'eventuale sconfitta alle prossime elezioni europee il comico genovese è sibillino: «Se le prossime elezioni europee andranno male devo sfiduciarlo? Quello che conta è non perderci, non la possibilità di perdere». Una frase che vuol dire tutto e niente, ma che marca ancora una volta la distanza sempre crescente tra il garante e il leader politico dei pentastellati, quel Di Maio che poche settimane fa il comico ha liquidato con una dichiarazione tombale: «Bisogna avere pazienza con lui, è giovane». E ora pare che la pazienza la abbia persa anche lui. Grillo continua a fare Grillo, ma forse non si rende conto che parla più come il leader dell'opposizione che come il fondatore del partito che pilota l'esecutivo. E la prima impressione che rimane dopo aver letto la sua intervista è chiara: nemmeno Grillo ha più voglia di votare questi grillini. 

AVETE CAPITO PERCHÉ GRILLO NON È PIÙ GARANTE DEL M5S? Mauro Suttora per ''Libero Quotidiano'' il 5 aprile 2019. Che sfortunato Davide Casaleggio. Proprio nel giorno delle primarie online per scegliere i candidati alle europee del 26 maggio, la sua piattaforma Rousseau è stata dichiarata fuorilegge dal Garante della Privacy. «Non garantisce gli standard minimi di segretezza e sicurezza del voto, che è manipolabile dagli organizzatori in qualsiasi momento, senza lasciar traccia». La sanzione è salata: 50mila euro. Da sempre i dissidenti grillini denunciavano l' assurdità di far votare gli iscritti del primo partito italiano sul server privato della società commerciale milanese Casaleggio & Associati. E senza alcuna certificazione esterna, tranne in due casi (le presidenziali 2013 e il voto per un nuovo statuto). Il Garante avvertiva già da due anni della fragilità di Rousseau. Il rampollo Casaleggio, succeduto dinasticamente al padre Gianroberto dopo la sua morte tre anni fa, aveva assicurato di avere riparato le falle del sistema. Che però qualche burlone hackera allegramente in varie votazioni. E che ora viene giudicato irregolare alla radice. La tegola sul Movimento 5 stelle (M5s) arriva proprio alla vigilia di Sum 2019, che si apre domani a Ivrea: il convegno annuale in cui Casaleggio junior si autoproclama «guru del futuro», giurando però di non essere il capo del M5s con Luigi Di Maio, ma un semplice «tecnico al servizio del movimento». A Ivrea in livrea arriveranno domani, fra gli altri, Franco Bernabé (ex ad Eni e Telecom, dirigente del club Bilderberg, una volta odiato dai grillini complottisti), Marco Travaglio e l' allenatore Zeman. Sarà dura, questa volta, magnificare le doti di Rousseau («piattaforma per la democrazia unica al mondo«), ma rivelatasi una ciofeca. Qualche grillino ora per disperazione sosterrà che si tratta di una vendetta in extremis del presidente della authority Garante della Privacy, Antonello Soro, ex deputato Pd, in scadenza quest' anno. Ma la multa di 50mila euro rischia di essere nulla in confronto ai 75mila euro di risarcimento danni cui è già stato condannato finora il M5s nelle cause intentate dai numerosi grillini radiati ingiustamente in questi anni. Cifra che aumenterà di molto, perché riguarda solo i primi espulsi: Roberto Motta e Antonio Caracciolo a Roma hanno ottenuto 30mila euro nel 2018, Mario Canino sempre a Roma 22mila euro a gennaio, più sei attivisti napoletani. Ma sono pendenti altre nove cause con una trentina di "vittime" in tutta Italia: due a Palermo con l' ex deputato Riccardo Nuti, una a Genova con Marika Cassimatis, cacciata da Grillo dopo aver vinto le primarie per sindaco, altre due a Napoli con ben 23 attivisti, e altre quattro a Roma. I soldi dovranno tirarli fuori Beppe Grillo e Davide Casaleggio. Ed è questo il principale motivo per cui il comico genovese si è allontanato dalla sua creatura: per non essere travolto finanziariamente dalla gestione autoritaria del movimento fondato nel 2009. Intanto ieri i Cinquestelle sono stati messi sotto scrutinio in un convegno all' Umanitaria di Milano dall' associazione di giuristi Italiastatodidiritto, presieduta dall' avvocato Simona Viola. Il tema era: «Il M5s crede veramente alla democrazia, o si regge su princìpi non democratici riducendo i suoi 330 parlamentari a semplici portavoce?» Per Fabrizio Cassella, docente di diritto costituzionale all' università di Torino, la risposta è chiara: «I Cinquestelle violano la Costituzione, che all' articolo 67 esclude il vincolo di mandato. Ogni parlamentare rappresenta la Nazione, e per approvare leggi nell' interesse generale dev' essere libero di argomentare, dibattere e negoziare, arrivando assieme ai suoi colleghi a una sintesi che bilanci i vari interessi particolari». Ai deputati e senatori grillini, invece, tocca obbedire a una ferrea disciplina di partito. E chi osa dissentire viene punito con l' espulsione. È capitato a 40 di loro la scorsa legislatura, e ad altri quattro in questa. Il comandante Gregorio De Falco, in particolare, che un anno fa fu l' acquisto più prestigioso nella nuova compagine parlamentare (noto per aver intimato al capitano Francesco Schettino di non abbandonare la sua nave), è stato cacciato a gennaio. Non aveva votato la fiducia sul decreto sicurezza. «Mi rendo conto che difendere il divieto di vincolo di mandato in un Paese di trasformisti non è popolare», ammette l' avvocato Guido Camera, «ma in democrazia la forma è tutto. Possiamo avere idee diverse sul contenuto delle leggi, ma sulle regole del gioco per farle dobbiamo essere tutti d' accordo». E i referendum, caposaldo della democrazia diretta propagandata dai grillini? «Guardiamo alla Svizzera, il loro Paese ideale», ha detto il professor Dino Guido Rinoldi dell' università Cattolica di Milano, «dove lo scorso 25 novembre i cittadini hanno detto no a un quesito che voleva ridurre l' efficacia dei trattati internazionali». Tipico tema sovranista, mentre gli elvetici si sono dichiarati ben felici di sottostare a leggi sovranazionali. «Principio presente nell' articolo 11 della nostra Costituzione: l' Italia consente alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni».

CHI DECIDE? «In realtà nei referendum la risposta è sempre importante quanto la domanda», ha avvertito Valerio Onida, già presidente della Corte Costituzionale. Chi decide quali argomenti sottoporre a un sì e a un no, e in che forma? Nel caso dei grillini, è sempre la srl Casaleggio, dall' alto, a formulare i quesiti online per i suoi iscritti. Non c' è mai stata una votazione su iniziativa della base. In questo senso una testimonianza preziosa è, dall' interno, quella di Nicola Biondo. Già responsabile della comunicazione dei deputati grillini, Biondo pubblica proprio in questi giorni il suo secondo libro sul M5s: 'Il sistema Casaleggio' (ed. Ponte alle Grazie, con Marco Canestrari): «Il vero padrone del movimento non è mai stato Grillo, ma prima Gianroberto Casaleggio e poi il figlio Davide.

Beppe Grillo, dramma M5s: bombardato di cause e assediato dai debiti, perché vuole mollare, scrive Mauro Suttora il 6 Aprile 2019 su Libero Quotidiano. Che sfortunato Davide Casaleggio. Proprio nel giorno delle primarie online per scegliere i candidati alle europee del 26 maggio, la sua piattaforma Rousseau è stata dichiarata fuorilegge dal Garante della Privacy. «Non garantisce gli standard minimi di segretezza e sicurezza del voto, che è manipolabile dagli organizzatori in qualsiasi momento, senza lasciar traccia». La sanzione è salata: 50mila euro. Da sempre i dissidenti grillini denunciavano l' assurdità di far votare gli iscritti del primo partito italiano sul server privato della società commerciale milanese Casaleggio & Associati. E senza alcuna certificazione esterna, tranne in due casi (le presidenziali 2013 e il voto per un nuovo statuto). Il Garante avvertiva già da due anni della fragilità di Rousseau. Il rampollo Casaleggio, succeduto dinasticamente al padre Gianroberto dopo la sua morte tre anni fa, aveva assicurato di avere riparato le falle del sistema. Che però qualche burlone hackera allegramente in varie votazioni. E che ora viene giudicato irregolare alla radice. La tegola sul Movimento 5 stelle (M5s) arriva proprio alla vigilia di Sum 2019, che si apre domani a Ivrea: il convegno annuale in cui Casaleggio junior si autoproclama «guru del futuro», giurando però di non essere il capo del M5s con Luigi Di Maio, ma un semplice «tecnico al servizio del movimento». A Ivrea in livrea arriveranno oggi, fra gli altri, Franco Bernabé (ex ad Eni e Telecom, dirigente del club Bilderberg, una volta odiato dai grillini complottisti), Marco Travaglio e l' allenatore Zeman. Sarà dura, questa volta, magnificare le doti di Rousseau («piattaforma per la democrazia unica al mondo«), ma rivelatasi una ciofeca. Qualche grillino ora per disperazione sosterrà che si tratta di una vendetta in extremis del presidente della authority Garante della Privacy, Antonello Soro, ex deputato Pd, in scadenza quest' anno. Ma la multa di 50mila euro rischia di essere nulla in confronto ai 75mila euro di risarcimento danni cui è già stato condannato finora il M5s nelle cause intentate dai numerosi grillini radiati ingiustamente in questi anni. Cifra che aumenterà di molto, perché riguarda solo i primi espulsi: Roberto Motta e Antonio Caracciolo a Roma hanno ottenuto 30mila euro nel 2018, Mario Canino sempre a Roma 22mila euro a gennaio, più sei attivisti napoletani.

Nove procedimenti - Ma sono pendenti altre nove cause con una trentina di "vittime" in tutta Italia: due a Palermo con l' ex deputato Riccardo Nuti, una a Genova con Marika Cassimatis, cacciata da Grillo dopo aver vinto le primarie per sindaco, altre due a Napoli con ben 23 attivisti, e altre quattro a Roma. I soldi dovranno tirarli fuori Beppe Grillo e Davide Casaleggio. Ed è questo il principale motivo per cui il comico genovese si è allontanato dalla sua creatura: per non essere travolto finanziariamente dalla gestione autoritaria del movimento fondato nel 2009. Intanto giovedì i Cinquestelle sono stati messi sotto scrutinio in un convegno all' Umanitaria di Milano dall' associazione di giuristi Italiastatodidiritto, presieduta dall' avvocato Simona Viola. Il tema era: «Il M5s crede veramente alla democrazia, o si regge su princìpi non democratici riducendo i suoi 330 parlamentari a semplici portavoce?» Per Fabrizio Cassella, docente di diritto costituzionale all' università di Torino, la risposta è chiara: «I Cinquestelle violano la Costituzione, che all' articolo 67 esclude il vincolo di mandato. Ogni parlamentare rappresenta la Nazione, e per approvare leggi nell' interesse generale dev' essere libero di argomentare, dibattere e negoziare, arrivando assieme ai suoi colleghi a una sintesi che bilanci i vari interessi particolari».

Ai deputati e senatori grillini, invece, tocca obbedire a una ferrea disciplina di partito. E chi osa dissentire viene punito con l' espulsione. È capitato a 40 di loro la scorsa legislatura, e ad altri quattro in questa. Il comandante Gregorio De Falco, in particolare, che un anno fa fu l' acquisto più prestigioso nella nuova compagine parlamentare (noto per aver intimato al capitano Francesco Schettino di non abbandonare la sua nave), è stato cacciato a gennaio. Non aveva votato la fiducia sul decreto sicurezza. «Mi rendo conto che difendere il divieto di vincolo di mandato in un Paese di trasformisti non è popolare», ammette l' avvocato Guido Camera, «ma in democrazia la forma è tutto. Possiamo avere idee diverse sul contenuto delle leggi, ma sulle regole del gioco per farle dobbiamo essere tutti d' accordo». E i referendum, caposaldo della democrazia diretta propagandata dai grillini? «Guardiamo alla Svizzera, il loro Paese ideale», ha detto il professor Dino Guido Rinoldi dell' università Cattolica di Milano, «dove lo scorso 25 novembre i cittadini hanno detto no a un quesito che voleva ridurre l' efficacia dei trattati internazionali». Tipico tema sovranista, mentre gli elvetici si sono dichiarati ben felici di sottostare a leggi sovranazionali. «Principio presente nell' articolo 11 della nostra Costituzione: l' Italia consente alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni».

Chi decide? - «In realtà nei referendum la risposta è sempre importante quanto la domanda», ha avvertito Valerio Onida, già presidente della Corte Costituzionale. Chi decide quali argomenti sottoporre a un sì e a un no, e in che forma? Nel caso dei grillini, è sempre la srl Casaleggio, dall' alto, a formulare i quesiti online per i suoi iscritti. Non c' è mai stata una votazione su iniziativa della base. In questo senso una testimonianza preziosa è, dall' interno, quella di Nicola Biondo. Già responsabile della comunicazione dei deputati grillini, Biondo pubblica proprio in questi giorni il suo secondo libro sul M5s: 'Il sistema Casaleggio' (ed. Ponte alle Grazie, con Marco Canestrari): «Il vero padrone del movimento non è mai stato Grillo, ma prima Gianroberto Casaleggio e poi il figlio Davide. Abbiamo così il partito che governa una delle principali potenze industriali del mondo in mano a una società privata. I grillini hanno avuto successo opponendosi al finanziamento pubblico dei partiti e alla Casta dei politici. Bene. Ma ora usano anche loro i milioni pubblici dei gruppi parlamentari e dei loro stipendi per finanziare la società commerciale che li dirige. Insomma, la Casta mantiene se stessa. Almeno prima il finanziamento ai partiti serviva anche per tenerne aperte le sezioni territoriali, palestra di democrazia. Adesso invece c' è solo la piattaforma Rousseau. Che finalmente è stata giudicata per quel che è». Mauro Suttora

Beppe Grillo offese professore di chimica ambientale: adesso dovrà risarcirlo con 50 mila euro. Il Corriere del Giorno l'8 Luglio 2019. Nel corso dei vari gradi di processo le cose si sono concluse con un risarcimento di 50mila euro, oltre alla condanna di Grillo a pagare anche 2200 euro di spese legali all’avversario costituitosi parte civile. Per la Cassazione, quanto attribuito da Grillo al ‘prof’ è vero e di interesse pubblico “tuttavia le espressioni usate (da Grillo n.d.r.) sono offensive in quanto, pur rispondendo alle frasi pronunciate dal Battaglia, stante l’esigenza di porre l’opinione pubblica a conoscenza di tale censurato orientamento, si sono sostanziate, almeno per una parte in attacchi personali”. ROMA – Il comico di professione e di fatto Beppe Grillo, “garante” del M5S,  deve pagare 50mila euro al docente universitario di chimica ed editorialista professore Franco Battaglia,  “negazionista” del cambiamento climatico e sostenitore dell’energia nucleare, per averlo attaccato con “espressioni offensive” durante un comizio alla vigilia del referendum "pro atomo" del 2011. Lo ha stabilito la Corte Cassazione che ha annullato per prescrizione la condanna penale inflitta al ‘padre’ dei Cinquestelle, come si apprende dalle motivazioni depositate nella sentenza 29489 della Suprema Corte e relative all’udienza svoltasi lo scorso 3 aprile alla Quinta Sezione Penale. In primo grado invece Grillo era stato condannato, dal Tribunale di Ascoli Piceno, a un anno di reclusione, oltre al risarcimento del danno in favore di Battaglia, con concessione della provvisionale a carico di Grillo da 50 mila euro, che è stata confermata dalla Cassazione. In appello, la condanna al carcere era stata sostituita dalla multa mentre veniva confermato l’indennizzo per il professore universitario anche perchè – sostengono gli ermellini della Suprema Corte – la difesa di Grillo non aveva contestato né l’entità del risarcimento né il suo fondamento con “specifici motivi di ricorso”, come richiede la legge. “Non puoi permettere a un ingegnere dei materiali e neanche a un ingegnere nucleare, parlo di Battaglia, consulente delle multinazionali, di andare in televisione e dire così, con nonchalance, che a Cernobyl non è morto nessuno: io ti prendo a calci nel c… e ti sbatto fuori dalla televisione, prendo un avvocato e ti denuncio e ti mando in galera. Quale dialogo, non ne voglio più di dialogo“, aveva detto Grillonella sua polemica a distanza con Battaglia. Nel corso dei vari gradi di processo le cose sono andate diversamente e si sono concluse con un cospicuo risarcimento, oltre alla condanna di Grillo a pagare anche 2200 euro di spese legali all’avversario costituitosi parte civile. Per la Cassazione, quanto attribuito da Grillo al prof è vero e di interesse pubblico “tuttavia le espressioni usate sono offensive in quanto, pur rispondendo alle frasi pronunciate dal Battaglia, stante l’esigenza di porre l’opinione pubblica a conoscenza di tale censurato orientamento, si sono sostanziate, almeno per una parte in attacchi personali“.

Giravolta del giustizialista Grillo: diffama e poi sfrutta la prescrizione, scrive Franco Battaglia, Venerdì 05/04/2019, su Il Giornale. «La prescrizione, in Italia, è l'àncora di salvezza dei delinquenti. Oggi, un delinquente che è stato beccato inconfutabilmente con le mani nella marmellata, fa di tutto per allungare i tempi processuali e ottenere la prescrizione del reato. Il M5s, fin dal primo momento in cui è entrato in Parlamento, ha proposto di interrompere la prescrizione dal momento del rinvio a giudizio per tutta la durata del processo. È una norma semplice ed efficace che impedirebbe numerosissime ingiustizie. Quando un reato si estingue per prescrizione, lo Stato fallisce due volte: una perché non è riuscito ad accertare la verità; un'altra volta perché viene cancellato tutto l'impegno profuso da giudici, avvocati, cancellieri, inquirenti, ecc., con un inaudito sperpero di denaro pubblico. Tra imprenditori e politici, coloro che hanno usufruito, a vario titolo, della prescrizione sono tantissimi (solo per fare alcuni esempi: de Benedetti, Berlusconi, Andreotti, Calderoli, D'Alema). La prescrizione deve interrompersi dopo il rinvio a giudizio: chiediamo al governo di mantenere i propri impegni!». Così tuonava Alfonso Bonafede, probabilmente in un discorso alla Camera dei deputati, com'è riportato sulla pagina del 24 ottobre 2015 del blog del suo intimo amico, Beppe Grillo. Bonafede è ministro della Giustizia da molti mesi, ma ieri, 3 aprile, Beppe Grillo ha avuto estinto uno dei suoi tanti reati di diffamazione, proprio per prescrizione. Più precisamente è lo stesso Grillo che, prostratosi in ginocchio innanzi ai giudici della Corte di Cassazione ha chiesto e ottenuto di avvalersi di una prescrizione che, solo per mero vizio formale del Tribunale di Ascoli Piceno gli è stata, obtorto collo, riconosciuta. Ecco i fatti. Nel 2011 Grillo, in pubblico comizio a San Benedetto del Tronto, pronunciava gravissime parole infamanti nei miei confronti, accusandomi di mentire perché sarei al soldo di multinazionali non meglio specificate: comunque al soldo dei cattivi. Posto che io insegno a 400 studenti l'anno che pagano le tasse, e che l'università mi paga uno stipendio, c'è un sacco di gente desiderosa di sapere se è vero che io insegni cose false perché qualcuno mi paga. Onde per cui, mio malgrado, ero stato costretto a querelare Beppe Grillo, non certo per avermi egli apostrofato, in quel comizio, «coglione» (che ci può stare), o per avermi minacciato di prendermi a calci in culo e di sbattermi in galera, nonché informato che mi avrebbe impedito di partecipare a interventi pubblici in tv («come si faceva ai tempi del fascismo con gli antifascisti», precisò il comico). Il pubblico ministero di Ascoli Piceno, in seguito alla mia querela, rinviava Grillo a giudizio non per diffamazione, ma per diffamazione aggravata dalla recidiva (pare che Grillo avesse dato della «vecchia puttana» al premio Nobel Rita Levi Montalcini e avesse dovuto patteggiare la pena). A causa della recidiva, la prescrizione di Grillo si sarebbe estesa a 9 anni. Però, il giudice di primo grado, nel comminargli la pena di un anno di reclusione, si dimenticava, per quel che capisco io, di specificare nella sentenza che la pena comminata teneva conto dell'aggravante della recidiva. Ma era evidente che ne stava tenendo conto, vista la severissima pena (tant'è che il Pm di primo grado, quello che aveva rinviato Grillo a giudizio «per diffamazione aggravata dalla recidiva», aveva chiesto seimila euro di ammenda). Pur Grillo assente, ieri in Cassazione se ne respirava nell'aria la presenza querula e piagnucolante: anziché rinunciare alla prescrizione come un minimo di coerenza e decoro gli imponevano, il comico implorava l'Alta corte di tener conto del fatto che la dimenticanza del giudice di Ascoli Piceno comportava, a norma di legge, che la pena non stava sottintendendo alcuna aggravante per recidiva e, di conseguenza, il proprio reato andava dichiarato bell'e prescritto. Inoltre, in sede di Cassazione, Grillo ricorreva adducendo un'altra mezza dozzina di ragioni, nessuna delle quali è stata dall'Alta corte accolta. A parte il cavillo della recidiva. Per farla breve, tutti i tre gradi di giudizio hanno confermato il reato di diffamazione di Grillo, ma siccome sono trascorsi i termini della prescrizione del reato senza recidiva (anche se il comico è recidivo), il reato di Grillo è estinto. Egli non deve pagare allo Stato alcunché, neanche i 6000 euri comminatigli dalla Corte d'appello di Ancona. A me rimane l'amarezza non certo edulcorata dalla piccola provvisionale ricevuta grazie al tenace impegno dei miei legali, i bravissimi Cesare Placanica e Lauretta Giulioni che codesto individuo maleducato non ha neanche sentito il bisogno di chiedere scusa: le persone normali lo fanno anche solo per una gomitata inavvertitamente inferta. E mi rimangono ancora due domande: primo, come mai il ministro della Giustizia grillino ha idee diverse dalle mie sulla prescrizione; e, secondo, mi chiedo se Luigi Di Maio espellerà Beppe Grillo dal Movimento dei grillini con la stessa prontezza esercitata verso tale Marcello De Vito che, mi risulta, pur accusato di ordinarie nefandezze, non è stato condannato a niente. Me lo voglio proprio vedere questo film.

Di Maio e Casaleggio nuovi fondatori del Movimento 5 Stelle. Non c’è più Grillo: è garante, scrive domenica, 10 marzo 2019 Il Corriere.it. Beppe Grillo? Per la prima volta non compare (o quasi) nelle carte dell’associazione che regola la vita dei Cinque Stelle. I «nuovi» soci fondatori del Movimento sono Luigi Di Maio e Davide Casaleggio, una scelta dettata dalla volontà di tracciare idealmente un filo conduttore nella storia pentastellata: il leader e il figlio dello stratega e co-fondatore. Tre pagine che cambiano la pelle del Movimento e danno inizio alla nuova fase, quella lanciata a Italia 5 Stelle a Rimini con l’elezione del nuovo capo politico e che arriva fino ad oggi. Tre pagine sanciscono l’atto costitutivo di associazione — come si legge — denominata Movimentò 5 Stelle, che raccoglie l’eredità delle associazioni che hanno retto i pentastellati dalla loro nascita fino a fine 2017. È la sera del 20 dicembre 2017 quando a Milano si presentano davanti al notaio Valerio Tacchini — punto di riferimento per gli atti M5S — nel suo studio in una delle vie del centro, Casaleggio e Di Maio, già lanciato nella campagna elettorale per le Politiche («Stiamo agli ultimi passaggi di una repubblica al tramonto», dice quel giorno). Sono loro due a dar vita alla nuova associazione che — si legge — ha una sede legale e una sede operativa a Roma (ma il leader secondo le regole vidimate quella sera ha il potere da statuto di sopprimere o istituire eventuali sedi operative). Beppe Grillo, che era a capo dell’associazione punto di riferimento per i pentastellati quando si sono presentati alle Politiche 2013, compare come garante. Una scelta — viene spiegato — dettata da una necessità giuridica, assicurare uno status di imparzialità alla figura del garante. Un momento preciso (l’atto viene firmato alle 20.14) in cui Grillo — che proprio in quel periodo aveva deciso di riprendere le redini del suo blog — diventa ufficialmente il padre nobile. Nell’atto costitutivo compare, invece, Casaleggio, che fino a quel momento aveva solo ruoli legati all’Associazione Rousseau (la piattaforma viene nominata come punto di riferimento per i 5 Stelle nello statuto allegato). E a proposito di punti di riferimento tecnologici, nel testo si legge che l’associazione «promuove, attraverso idonee piattaforme internet o altre modalità, eventualmente non telematiche, la consultazione dei propri iscritti». C’è un punto che riguarda il leader. «I comparenti conferiscono espresso mandato al capo politico affinché lo stesso possa modificare e/o integrare il presente atto e i relativi allegati, senza alterarne il significato sostanziale». Ma si tratta di un passaggio legato alle modifiche formali per eventuali errori tecnici. Le modifiche statutarie per i principi associativi competono agli associati (previo raggiungimento di determinati quorum), gli iscritti al Movimento. Sono menzionati anche, oltre al garante, i componenti del comitato di garanzia e del collegio dei probiviri. Tutti — per assumere i ruoli — hanno dovuto dare una conferma a Di Maio. Infatti, nei loro casi «l’accettazione della carica» coincide «con una semplice comunicazione scritta, anche mediante messaggio di posta elettronica, spedita all’indirizzo del capo politico».

Beppe Grillo, l'uomo che volle farsi Napoleone. Dopo essere stato l'anima ed il fondatore Grillo è ormai ai margini del Movimento 5 Stelle, scrive  Giampaolo Pansa il 22 marzo 2019 su Panorama. Un leader del passato o un cialtrone? Beppe Grillo suscita sempre questo dilemma. Da cronista sono anni che lo seguo. Mi rammento soprattutto dell’estate 2012, la campagna elettorale siciliana. Iniziata con la traversata a nuoto dello stretto di Messina. Il voto dell’isola aveva regalato a Grillo un altro trionfo. La vittoria gli consentì di ritornare alla sua villa di Genova convinto di rendere ancora più ferreo il controllo sul Movimento che aveva fondato. Chi non obbediva ai suoi proclami venne cacciato. Per sfottere Bersani & c. che si vantavano delle loro primarie, Grillo si inventò le Parlamentarie. Tutte condotte sul web e con modi così privati e aspri, da dittatore anarchico, che gli valsero l’accusa di comportarsi come un nuovo Mussolini. A me sembrava piuttosto un Napoleone redivivo e per di più di natura stellare. Ormai esistevano molti indizi per tracciarne un profilo realistico. E il primo dato che affiorava era quello di essere un ridicolo bufalibron. È una vecchia parola di slang padano, soprattutto pavese. Indica un tizio che non sa un cavolo di niente, non ha mai aperto un libro, ma si è limitato a soffiare sulle pagine per farle scorrere e dare la sensazione di averle lette e meditate. Mi suggerisce questa immagine l’identikit di Grillo rivelato da lui medesimo. Grillo era un presuntuoso al cubo tanto da presentarsi come il Grande sterminatore che stava ammazzando i partiti. Con una forza e una velocità da costringerlo a suggerire alla casta di suicidarsi con più lentezza: «Sono anni che dico che i partiti sono morti, ma adesso spariscono troppo rapidamente. Fate con calma, non esagerate a prendermi alla lettera». La presunzione lo spingeva a dare di sé un ritratto surreale: «Sono vent’anni che giro il mondo, visitando laboratori, intervistando ingegneri, economisti, ricercatori, premi Nobel. Ho rubato conoscenze ai grandi della Terra. Mi sono fatto un culo così, anche se molti mi prendono per un cialtrone improvvisatore. E adesso i partiti pensano di metter su movimenti in quattro e quattr’otto!». Ma Grillo, come accade a tanti attori di teatro, era un fantastico trasformista. Amava mutare personaggio e mostrarsi impaurito: «La liquidazione del sistema dei partiti è talmente veloce che domani rischiamo di svegliarci e di non trovare più nulla. E poi come si fa? Noi non siamo pronti a riempire un vuoto così vistoso». Già, chi poteva colmare questo baratro e sostituirsi alla Casta in dissoluzione? Ecco una domanda che nessuno poneva a Grillo. Anche presentandogli qualche ipotesi. Un potere alieno? Le truppe della Nato? Una forza militare interna, per esempio i carabinieri? L’invasione di milioni di cinesi, già presenti sul territorio con nutrite avanguardie? La presunzione del Napoleone stellare emergeva nel descrivere come sarebbe diventato il Parlamento italiano bonificato da lui. Ne usciva un bordello terrificante. Rappresentanti di liste civiche. Movimenti di gente perbene. Esperti. Gli eletti delle Cinque stelle. I No-Tav. Quelli dell’acqua pubblica e dei beni comuni. I referendari. «Magari ci troveremo pure il povero Di Pietro, mi sa che stavolta non lo vuole nessuno». Messa in guardaroba la divisa napoleonica, Grillo ritornava a spaventarsi. Non era nato il giorno prima e sapeva bene che con quell’Armata brancaleonica sarebbe stato impossibile governare un nazione complessa come l’Italia. Infatti dichiarava che si sarebbe ben guardato dall’andare a Palazzo Chigi. E di caricarsi della croce che tutti i capi di governo debbono portare. Scandiva: «L’ho detto e lo ripeto: io nel Palazzo non ci entro, non mi lascio ingabbiare. Preferisco restare un battitore libero, un franco tiratore. Ma troveremo persone competenti e oneste per fare il premier e i ministri». La paura di cimentarsi come uomo di governo spingeva il Napoleone stellare a diventare banale: «I ministri devono essere esperti nelle loro materie. Ci vuole una selezione molto stringente». Se qualcuno gli chiedeva che cosa avrebbe deciso sull’euro, sulla politica estera, sul diritto di cittadinanza, sull’immigrazione, sulla bioetica, lui replicava: «Sono questioni troppo grandi perché possa decidere un non-leader. Faremo dei referendum popolari propositivi. In Svizzera decidono così da 200 anni». Era assai più facile rifugiarsi nelle illusioni. Grillo ne possedeva un campionario senza limiti: «Destra e sinistra sono etichette preistoriche. Dobbiamo ricostruire un’identità, una comunità locale e nazionale. Se i cittadini, e non più i partiti, diventano lo Stato, anche nazionalizzare diviene una bella parola. In Italia ci sono un milione di volontari. Io ne vorrei 60 milioni. Il mio dentista, per qualche ora la settimana, dovrà operare gratis chi ha bisogno. Il razzismo in Italia non esiste. È solo un fenomeno mediatico». Grillo era sempre pronto a ritornare allo stile che gli si adattava di più: superficiale, semplicione, da chiacchiere al bar. Il mitico taglio della spesa pubblica, si può realizzare in un batter d’occhio. L’Alta velocità ferroviaria non serve, è sufficiente cancellarla e si risparmiano 20 miliardi. Idem per i caccia bombardieri: aboliti, risparmio di 15 miliardi. Anche le province eliminate con un tratto di penna. Niente pensioni superiori ai 3 mila euro. I rifiuti delle grandi città? Meglio spedirli in Germania. Il Napoleone stellare si concedeva un solo momento di sincerità: «Per salvare l’Italia la gente si dia da fare, partecipi, rompa i coglioni, s’impegni. E io sarei il nuovo Mussolini? Più democratico di me non c’è nessuno. Lo so benissimo che non posso salvare l’Italia: io getto le basi, faccio il rompighiaccio, dissodo il terreno. Poi ogni cittadino deve camminare con le sue gambe. Io il mio lavoro l’ho fatto. Ora tocca agli italiani». E infatti molti italiani sembravano votarlo. I sondaggi davano i Cinquestelle al 30 per cento? Nessuno era in grado di saperlo. Neppure questo demagogo vestito da Napoleone, ma con la zucca vuota. Dannoso anche a se stesso. Già, che cosa prevedere? Inutile chiederlo a Casaleggio senior. Lui amava le profezie, ma a lunga distanza. Secondo un biografo di Grillo, Andrea Scanzi, il guru Gianroberto vedeva il futuro nel modo seguente: «Nel 2018 il mondo sarà diviso in due blocchi: a Ovest con internet e a Est con una dittatura orwelliana. Nel 2020 ci sarà la Terza guerra mondiale, durerà vent’anni e spazzerà via San Pietro, Notre-Dame e altri luoghi simbolici. Si useranno armi batteriologiche, il clima sarà stravolto e il mare si alzerà di 12 metri...». Oggi vediamo un altro spettacolo. Prima o poi, il mondo di Grillo sparirà. E forse avremo nostalgia delle spacconate di Napoleone.

Luigi Di Maio e Davide Casaleggio, il golpe perfetto. Spulciando i documenti: Grillo fatto fuori dal M5s, scrive l'11 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Il golpe nel Movimento 5 Stelle ora è ufficiale. Sorpresa: Luigi Di Maio non ne è la vittima, ma l'autore insieme a Davide Casaleggio. Per la prima volta, scrive il Corriere della Sera, il fondatore Beppe Grillo "non compare (o quasi) nelle carte dell'associazione che regola la vita dei 5 Stelle". I "nuovi" soci fondatori dell'Associazione Movimento 5 Stelle infatti sono proprio Di Maio e Casaleggio (figlio dell'altro co-fondatore, Gianroberto Casaleggio). In tre pagine, insomma, si cambia la storia tracciando non solo idealmente una riga sul passato recentissimo. D'altronde, la santa alleanza Casaleggio-Di Maio era già stata sancita il 20 dicembre 2017, davanti al notaio Valerio Tacchini a Milano. Già allora Grillo figurava come "garante"", una scelta "dettata da una necessità giuridica, assicurare uno status di imparzialità alla figura". Secondo il documento, "le modifiche statutarie per i principi associativi competono agli associati (previo raggiungimento di determinati quorum), gli iscritti al Movimento". Ma i veri poteri gestionali sono tutti in capo a Di Maio, a cui i membri del comitato di garanzia e del collegio dei probi viri devono comunicare di accettare la loro nomina mediante semplice comunicazione scritta, anche via mail. 

Grillo e Di Battista ai margini: i tormenti dei nuovi 5 Stelle. Pubblicato lunedì, 11 marzo 2019 da Corriere.it. «La situazione si può recuperare, vediamo che cosa succede nelle prossime settimane, se Alessandro deciderà di tornare a darci una mano in campagna elettorale. Certo, la linea è decisa e la conosce anche lui, per ora nessuno può mettere in discussione né Salvini né la maggioranza con la Lega. Se decidesse di tornare a fare campagna elettorale accettando queste regole d’ingaggio, ovviamente esordirebbe dicendo che tutte le notizie sulle ruggini tra lui e Di Maio erano inventate…». In cambio della garanzia dell’anonimato, una delle figure di maggiore esperienza all’interno del Movimento Cinque Stelle — che si muove su quella cerniera che collega il gruppo parlamentare alla Casaleggio associati e a Palazzo Chigi — riassume la situazione in cui è venuto a trovarsi Alessandro Di Battista. Che, insieme a Beppe Grillo, adesso si ritrova qualche chilometro più in là delle colonne d’Ercole fissate da Davide Casaleggio e Luigi Di Maio, freschi «fondatori» della ri-costituita associazione «denominata Movimento Cinque Stelle», col «fondatore» (quello vero, e cioè il comico genovese) declassato al ruolo di semplice «garante». Oltre quelle colonne d’Ercole, fino a un nuovo ordine che probabilmente non arriverà né prima né durante né dopo le elezioni Europee, non ci si può spingere. Il governo Conte rimane un totem, l’alleanza con Salvini anche, Tav o non Tav. Per cui, una campagna elettorale per le Europee svolta sulla traccia dei mille distinguo dalla Lega — che era il piano originario del ritorno in prima fila di Di Battista — adesso è finita in soffitta. È successo tutto nella notte tra il 10 e l’11 febbraio, mentre in Abruzzo si scrutinavano le schede che certificavano il primo successo del 2019 leghista e la prima disfatta dell’anno per il Movimento. Tempo qualche ora e Di Battista, a colloquio con Di Maio e con il gotha della comunicazione pentastellata, si ritrovava «fuori linea». Anzi, addirittura, artefice di una «comunicazione che ci ha mandato a sbattere». A sentire le testimonianze dirette a un mese di distanza da quella riunione, alla fine del summit il ragionamento opposto dal leader dell’ala barricadera del Movimento è più o meno questo: «Ho una presenza in televisione già fissata e mi adeguo a quello che chiedete. Dopodiché, mi faccio da parte. Se cambiate idea, fatemi sapere». L’intervista in questione era quella a Giovanni Floris per Di Martedì, su La7, rimasta celebre per gli applausi del pubblico invocati da un Di Battista rimasto anni luce distante dagli attacchi a Salvini. Ed è, a oggi, l’ultimo suo segnale di vita pubblica, reale e sui social network. Dopo di quella, il nulla. «Simul stabunt, simul cadent», si diceva già nel 2013 di Grillo e Di Battista, che da subito avevano incarnato un Movimento più intransigente che votato al dialogo, più ideologico che pragmatico, decisamente tutto di lotta e per nulla di governo. Adesso sono nella fase in cui «simul cadent». Il primo in giro col suo show, spesso oggetto di fischi e contestazioni in realtà rivolti a un governo in cui non crede. Il secondo desaparecido, ormai con un piede e mezzo di nuovo fuori dalla contesa politica, disposto a cambiare i piani del suo avvenire solo nel caso in cui il Movimento decidesse di divorziare da Salvini. Già, perché è Salvini il convitato di pietra di questa storia. Il Salvini salvato dal processo per la Diciotti dai senatori del M5S e poi dal voto su Rousseau (Di Battista e Grillo erano favorevoli al processo), il Salvini che pretende la Tav (Di Battista era ed è per il no secco), il Salvini diventato per un pezzo del Movimento un alleato da cui divorziare e per un altro pezzo l’unica speranza di salvezza. Dopo lo statuto della nuova associazione, se ci fosse la rappresentazione plastica di una scissione che culturalmente e politicamente è già sotto gli occhi di tutti, il M5S col marchio di originalità — con tanto di nome e simbolo — sarebbe là dove decideranno di stare Di Maio e Casaleggio junior. E Di Battista? Tornerà oppure no? Chissà. Nel frattempo, nelle ultime settimane, ha rifiutato anche di partecipare al piano di emergenza, quello di ignorare Salvini per concentrarsi esclusivamente sul tamponare l’emorragia di voti verso il Pd. Basti guardare la vicenda dell’arresto (poi revocato) dei genitori di Renzi, suo antico cavallo di battaglia. Niente, non ha detto neanche mezza parola.

Beppe Grillo contestato a Lecce: attivisti bruciano bandiere del M5s. Manifestanti contro Grillo a Lecce.  Il fondatore del Movimento in tour nella città pugliese è stato preso di mira da ex attivisti cinquestelle, scrive il 9 marzo 2019 La Repubblica. Dopo le contestazioni a Bari, è la volta di Lecce. Ancora fischi e urla contro Beppe Grillo, finito anche oggi nel mirino di alcuni manifestanti che lo hanno definito "traditore" e "infame". Su uno dei cartelloni che stringono tra le mani si legge: "Grillo-M5s complici di Tap, siete finiti vaffa". E così, quello che fu lo slogan utilizzato per celebrare le giornate per archiviare volgarmente il passato, è adesso un invito rivolto a chi ne fece una bandiera. Il comico si trova a Lecce, città che ospita il suo spettacolo 'Insomnia (ora dormo!)' e dove alcuni ex attivisti del M5s e cittadini contrari alla realizzazione del gasdotto Tap che approderà in Puglia portando così gas azero in Europa, hanno manifestato contro il fondatore e garante del Movimento. Una protesta in cui alcune bandiere pentastellate sono state bruciate e in cui Grillo è stato definito "garante di Ilva e di Tap". I manifestanti, che si sentono presi in giro dalle promesse non mantenute dai grillini, si sono poi rivolti a chi ha varcato l'ingresso del teatro politeama greco per assistere allo show: "Non date i vostri soldi a chi ha tradito il nostro territorio". La contestazione è rivolta anche al ministro per il Sud Barbara Lezzi.

Grillo "traditore" contestato: "Adesso dimettiti da garante". Gli attivisti protestano davanti al teatro romano dove si è esibito il fondatore. "Massacro" social per i vertici, scrive Laura Cesaretti, Mercoledì 20/02/2019, su Il Giornale. La crisi dei Cinque stelle in due istantanee di ieri: il vecchio fondatore Beppe Grillo furiosamente contestato dagli attivisti davanti al teatro romano in cui si esibiva. «Grillo traditore, volevi silenziarci!»; «Casaleggio Trouffeau»; «Da mai con i partiti ad alleati con la Lega ladrona», gli slogan. Poi l'immagine - esteticamente piuttosto ripugnante - del senatore Giarrusso che, subito dopo aver votato per salvare l'alleato di governo dal processo, fa il gesto delle manette all'avversario politico Renzi. Due episodi che riassumono perfettamente la scivolosa palude di contraddizioni in cui il partito della Casaleggio è sprofondato. Tanto che la parola «scissione» non è più tabù: «Così è inevitabile», geme più di un parlamentare. Per un movimento politico allergico per statuto alla democrazia interna, da sempre organizzato in modo leninista attorno ad una azienda privata che lo controlla, ritrovarsi lacerato tra principi identitari (in sintesi, le manette) e ragion di poltrona è uno choc. Il 41% (secondo le cifre della Casaleggio, che nessuno può controllare) che ha votato sì al processo, in nome della «coerenza» con il giustizialismo fondativo, ora minaccia di organizzarsi come una vera corrente interna, depositaria del «credo» originario. «C'è qualcuno che dice che il 41% deve andarsene, qualcun altro lo vuole etichettare come dissidenza. Io so invece che il 41% e pronto a mobilitarsi e vuole chiedere conto della direzione di questo governo», declama via Facebook Luigi Gallo, presidente della Commissione Cultura e affiliato alla fronda che fa capo a Roberto Fico. Ieri c'erano parlamentari grillini che si passavano con le lacrime agli occhi il furioso editoriale del Fatto, da sempre considerato un vero e proprio organo di partito, se non un vangelo. «Ha ragione Travaglio - si sfoga con l'Adnkronos un deputato - è stato un suicidio politico. Un voto dirimente per il destino del Movimento. Abbiamo consentito a Salvini di essere il protagonista». Luigi Di Maio, il «capo» che per non inguaiarsi ha delegato al sondaggione farlocco del blog una decisione parlamentare, affetta entusiasmo: «È stato un grande momento di democrazia, i nostri iscritti decidono e noi portiamo avanti quella linea. Ora il caso è chiuso». Ma su Facebook viene massacrato dagli attivisti che lo accusano di aver «distrutto» il M5s, di averlo «omologato» agli altri e trasformato in «una brutta copia della Lega». Lo statista di Pomigliano ha portato a casa la blindatura del patto di governo e l'asse con un Salvini che, di qui alle Europee, sarà costretto a pagargli svariate cambiali di gratitudine sulle scelte dell'esecutivo e su nomine e posti. Ma la sua posizione rimane precaria: se i prossimi appuntamenti elettorali sanciranno il precipitoso declino del M5s nelle urne, il malcontento e le rivalità interne rischiano di esplodere e di delegittimarlo. Finora, per tenere buoni i parlamentari, bastava il timore di non essere ricandidati e di finire in mezzo alla strada. Ma se il partito precipita dal 30% al 20%, come dicono i sondaggi, il potere di deterrenza nelle mani del gruppo di comando si affievolisce assai. La dissociazione di Appendino e Nogarin (la Raggi è stata ripresa per le orecchie) dal salvataggio di Salvini è un segnale chiaro: i sindaci al primo mandato, che devono fare i conti con l'elezione diretta, temono che il «poltronismo» romano li penalizzi. E Di Maio ha reagito violentemente: «Si sono fatti strumentalizzare, mi sono cadute le braccia», ha inveito nell'assemblea dei gruppi l'altra notte. I «governisti» sono in difficoltà, il ministro Bonafede si arrampica sugli specchi: «Sono stato combattuto anche io, ma si trattava di difendere una legge costituzionale», spiega confusamente. Ma sembra l'Apprendista stregone Topolino alle prese col sabba delle scope.

Fulvio Abbate per “il Dubbio” il 19 febbraio 2019. Beppe Grillo, la prima volta che l’ho visto di persona, è stato negli studi di un’emittente televisiva privata palermitana, ai margini di una circonvallazione trafficata, sarà stato il 1978, e lui era già famoso, era già Grillo, ovviamente con 30 chilogrammi in meno. Chissà che ci faceva lì, con il suo cespuglio di capelli, la salopette, indumento-vessillo del tempo interamente rivestito di denim di Fiorucci. L’uomo, il comico, il personaggio era allora assimilabile, nella sua cifra politica e antropologica, meglio, attitudinale, sia nell’aspetto sia nell’eloquio, come dire, “selvaggio”, ad altre figure della medesima ondata di anticonformismo, non necessariamente attori, non strettamente comici, gente come Rino Gaetano con “Nun te reggae più”, Enzo Carella con “Tentami, toccami con l’alito” e perfino i Pandemonium con “Tu fai schifo sempre”, allegria informale, da reduci dell'aria settantasettina. Poi, come talvolta accade, qualcuno si è accorto del ragazzo, sì, Pippo Baudo e, sia pure depotenziandone i picchi da cabaret della crudeltà, versione pop di un teatro altrimenti estremo, assodato che Grillo al naturale non può rinunciare al propellente liberatorio del turpiloquio, come in seguito avremmo visto, al punto di farne addirittura un manifesto politico, “Vaffanculo!” in luogo di “Proletari di tutti paesi unitevi”. Così facendo, l’uomo, il ragazzo, il furbetto Beppe ha raggiunto perfino le fasce protette, il banale televisivo del sabato sera, distinguendosi comunque per la sua irruenza, sia pure tra i paletti di un testo scritto, rodato, battute verificate serata dopo serata. In seguito, forte di un riscontro indubitabile, decisamente nazionalpopolare, cioè sempre baudiano, l'ex debuttante già provetto si è messo a raccontare il mondo, inviato stralunato, le sopracciglia a circonflesso, con “Te lo do io l’America”, dietro le quinte conterraneo Antonio Ricci a sostenerlo. A uno così puoi non aprire i portelloni del cinema? Eccolo accanto a Coluche, collega francese, lo stesso che, già nel 1980, si era candidato alle presidenziali del suo paese, con un appello, fiancheggiato da firme eccellenti come Pierre Bourdieu, Félix Guattari, Alain Touraine, Gilles Deleuze, dove si rivolgeva, fra molti altri, “agli sfaccendati, agli zozzoni, ai drogati, agli alcolizzati, ai froci, alle donne, ai parassiti, ai giovani, ai vecchi, agli artisti, agli avanzi di galera, alle lesbiche, ai garzoni, ai neri, ai pedoni, agli arabi, ai francesi, ai capelluti, ai buffoni, ai travestiti, ai vecchi comunisti, agli astensionisti convinti, a tutti quelli che non credono più nei politici”. Il film era “Scemo di guerra” di Dino Risi, l’anno il 1985. Chissà se nelle pause di lavorazione Coluche, anch'egli sempre in salopette, gli abbia inoculato l’idea di creare un movimento di agitazione permanente, ciò che in Italia non è riuscito a quello che si faceva chiamare Jack Folla e portava già in piazza una falange di “incazzati”. Si racconta ancora che il comico Grillo, ormai accertata voce anti-sistema, distruggesse sul proscenio dei teatri-tenda, martellata su martellata, i computer, salvo poi ricredersi dopo la visita di un “colletto bianco”, tal Casaleggio, giunto a suggerirgli che, studiando meglio, fosse preferibile rottamare la salopette da comico alternativo marginalizzato piuttosto che i pc; il resto è storia pubblica nota, cresciuta sul bisogno di risarcimento, almeno dopo l’embargo subito da parte della Rai, in seguito, si dice, alle battute su Bettino Craxi e i suoi socialisti in viaggio di Stato in Cina, versione comunque smentita da Bobo Craxi,  l’obiettivo era semmai Biagio Agnes, il direttore generale di viale Mazzini, dunque i democristiani, che non il povero Grillo, finito lì, in mezzo in quanto protetto di Baudo. Insomma, su quel torto subito, Beppe ha costruito il lato B vincente della sua carriera, uno spartiacque. Da una parte “Ahia, non ce la faccio più!”, puro musical, simpatia leggera, ordinarie battute sul costume, dall’altra un immenso e glorioso “Vaffanculo!”, pari, almeno nell’evidenza sonora, al “Vincere!” mussoliniano, e un rosario di epiteti per la numerosa controparte, per lo “Psiconano” (Berlusconi), per “Gargamella” (Bersani), per la “Salma” (Napolitano), per “Ebetino” (Renzi), per “Cancronesi” (Umberto Veronesi). Un movimento mosso innanzitutto, aldilà dei molti comprimari, dall’immensa pulsione narcisistica che trova in Grillo il primo motore immobile di se stesso. D’altronde, a chi non piacerebbe che dal proprio cognome venisse un’onda di riscontro davvero di massa e popolare? Perfino San Francesco, nella sua umiltà, ha infine accettato che potessero esistere i francescani, no? Nel caso di Beppe, plebiscitariamente, verranno battezzati subito "grilini", estensioni, se non erezioni, del promotore. Non ci soffermeremo sul suo esercito all’ombra dei gazebo, precipitato ultimo, o forse iniziale, di un’operazione di marketing politico riuscita, come già Forza Italia anni prima, la rete in luogo delle antenne di Cologno. E neppure proveremo a interrogarci sulle loro attitudini, sul loro lessico essenziale, sulle carenze, neppure sui loro inenarrabili spaventevoli errori alla prova del governo locale e non, ci basterà concentrarci unicamente su Grillo, spinterogeno comico che ha reso possibile nascita e affermazione di un ircocervo politico, indubitabile elemento di novità nel Mercante in Fiera elettorale nazionale. I cinici affermano che, assai presto, il nostro si sarebbe pentito dell’impresa con la sua mole di impegni, e forse soltanto il supporto di un Ego smisurato, in grado di fargli pronunciare ai giornalisti complimenti quali “Vi mangio e poi vi vomito!” lo avrebbe trattenuto da un subitaneo "ragazzi, ho scherzato", dai, era soltanto un gioco, dimostrare che l’avremmo vinta noi, in barba ai Fassino che mi ha schernito, fesso lui. La ragione? Si guadagna assai di più facendo il comico, riempiendo i teatri. Pensandoci bene, con oculatezza tutta ligure, se gli altri hanno ormai modo di vederti gratuitamente, quando vai in piazza Maggiore a Bologna e ti fai trasportare su un canotto sulle teste delle persone, oppure in Sicilia, ad Alcamo, e proprio in terra di mafia dici che “no, non sono venuto ad amareggiarvi con quella brutta parola alla quale spesso, ingiustamente, vi associano!”, non che la dirà, quella parola, Beppe subito loro. Già, se ti mostri gratuitamente perché poi dovrei pagare il biglietto? Dai, forse risponde al semplice entusiasmo narcisistico occasionale l’immagine di lui al balcone dell’Hotel Forum di Roma mentre proclama la vittoria del Campidoglio e di Torino, mimando i raggi del sole con le mani e poi mostrando una gruccia, una stampella, un appendino. Avremmo dovuto trovarci lì accanto a lui per intuire tutte le volte in cui Beppe Grillo deve avere sospirato, sempre con se stesso e non certo con Di Maio e Di Battista, che ogni show è accettabile se dura il giusto, d’essersi rotto anche del nuovo prestigioso giocattolo-carovana. Non è forse vero che da un certo momento in poi in poi il suo nome è andato fuori dal simbolo del Movimento 5 Stelle? Segno che la manovra di allontanamento da parte sua, del suo impegno, della sua faccia, talvolta coperta dal cappuccio, della sua effettiva volontà viene da lontano, al di là della fase declinante, dei sondaggi devastanti, è in atto da molto tempo, se non da sempre, lì a controbilanciare la parte del garante pronto, come nel gioco delle parti, a sostenere che più che di governo il MoVimento dovrà essere di lotta, un modo assai più snello di proseguire nel definitivo sganciamento, la pace festiva dopo la tempesta politica e feriale nella villa di Marina di Bibbona, magari nel dolcefarniente con Parvin, sua moglie, c'è vita oltre i meetup. Alla fine d’ogni ipotesi, resta da interrogarsi su quale sia il profilo psicologico e culturale esatto di Grillo, e per questo basterà scorrere la sua pagina Twitter, lì c’è modo di imbattersi su riflessioni sul mercato mondiale di antibiotici e antimicotici, sulla fine del lavoro o della sopravvivenza degli alberi nel deserto o ancora se si possono provare sentimenti per un robot e infine sulla notizia che il più grande parco solare al mondo sarà in Egitto, così fino a quel tweet, degno d’enigma da sfinge: “Se voti SI vuol dire NO se voti NO vuol dire SI, siamo tra il comma 22 e la sindrome di Procuste”. Quanto appare delittuoso, da parte di un signore che ha fatto della semplificazione la sua forza, sottoporre al suo mondo, e lateralmente anche a tutti noi, un simile quesito labirintico ovvero fino a che punto può spingersi il narcisismo? Rispetto a comma 22, chissà se Beppe avrà mai davvero letto il libro di Joseph Heller o visto il film omonimo di Mike Nichols con Alan Arkin che interpreta il capitano Yossarian, pronto a presentarsi nudo al contrappello del mattino, così da essere esonerato, riconosciuto pazzo, da ogni futura missione di guerra? E chi altri, tra i suoi, sarà in grado di distinguere tra Procuste e locuste? La sensazione è che Grillo in tutti questi anni, si sia solamente, palazzeschianamente, divertito, perfino alla faccia dei suoi stessi compagni d’avventura, nessuno escluso, li abbia usati tutti come cavie, criceti nella ruota a 5 stelle, per un suo scanzonato patafisico divertissement degno di un Ubu re, perfino alla faccia di coloro per i quali “Beppe ha sempre ragione”, se così non fosse, magari, non leggeremo nel suo blog notizie degne di “Mondo cane”, ossia che “ci sono impianti in Cina in cui si allevano milioni di scarafaggi come nell’impianto di Jinan, dove a circa 1 miliardo di scarafaggi vengono fornite 50 tonnellate di rifiuti alimentari”. Tornando invece a Comma 22, non è forse vero che alla fine, superato ogni livello di sopportazione, Yossarian fugge su un canotto, e magari in quest’immagine, ricordandolo quel giorno a Bologna, quando l’apoteosi era solo all’inizio, e tuttavia il canotto era già gonfiato e pronto, risiede la chiave di tutto, la rivelazione di un imminente ritorno alla salopette della piena libertà? 

·         M5S, la carica degli onorevoli nessuno: umiliati, vessati e campioni di gaffe.

M5S, la carica degli onorevoli nessuno: umiliati, vessati e campioni di gaffe. Dovevano cambiare tutto, sono la nuova palude. Vi raccontiamo le tragiche disavventure dei parlamentari a 5 stelle da cui dipende la vita della legislatura. E su cui pende il dramma collettivo: non essere rieletti, scrivono Mauro Munafò e Susanna Turco il 2 aprile 2019 su L'Espresso. Dovevano essere i giacobini, invece sono gli spettri, i fantasmi, le anime morte. Sono, letteralmente, la maggioranza silenziosa e indistinta: una nuova «palude» - si chiamava così il gruppo più moderato e più numeroso, anche al tempo della rivoluzione francese. Trainati da Salvini e dalla sua volontà di potenza, messi sotto tiro dal Pd, i 327 parlamentari grillini hanno invaso Montecitorio e Palazzo Madama un anno fa, il 23 marzo 2018, prima seduta delle Camere dopo il voto trionfale del 4 marzo. Oggi rappresentano la quintessenza di questa legislatura recitata a soggetto. Il correlato collettivo del premier Conte (chi era costui?). Sono quelli che, avvicinandosi il vaticinato crollo delle Europee, finalmente entrano al ristorante di Montecitorio, ormai aggirati i divieti di un tempo: dopo il decreto sicurezza, vale tutto. Quelli che vagolano per la buvette del Senato addentando una crostata, nel giorno in cui, appena votato per il salvataggio di Matteo Salvini dal processo sulla Diciotti, si sono ritrovati in manette il loro presidente dell’assemblea capitolina, Marcello De Vito. Quelli - sempre più numerosi - che sanno che non torneranno: i sei della Basilicata, i quindici della Sardegna, gli undici dell’Abruzzo e gli altri eletti nelle regioni dove i consensi in meno di un anno si sono più che dimezzati (in media dal 40 al 20 per cento) e che fanno da memento a tutti gli altri fanti pentastellati. A partire dal Piemonte, dove si vota in maggio. Quanto durerà?

·         Luigi Di Maio e la menzogna del moderato.

Luigi Di Maio e la menzogna del moderato. Filippo Facci su Libero Quotidiano il 16 Maggio 2019: "Quando diede del boia a Mattarella". Adesso i moderati sono loro. I grillini. Ripetiamo, testuale: «I moderati siamo noi», come ha detto Luigi Di Maio in un' intervista a Repubblica (nuovo corso, si fa per dire) rivolto alla Lega, che invece la dovrebbe «piantare con i fucili». Di Maio ha anche detto che occorrerebbe «abbassare i toni», sì, l' ha il capo dei grillini, lui che i toni li ha abbassati solo per gli abusi edilizi di suo padre. Cioè: non si riesce neanche a commentarla, questa cosa: è come se «abbassiamo i toni» l' avesse detto Pavarotti durante la Bohème. Prima ancora di ricordare le fresche uscite grilline delle ultime settimane, vien da ricordare quando lo stesso Di Maio - che non era in piazza: era vicepresidente della Camera, il 17 marzo di due anni fa - disse «non vi lamentate se ci saranno manifestazioni violente sotto al Parlamento», e accadeva mentre cinque giorni dopo era prevista proprio una manifestazione grillina che si proponeva di «circondare il Parlamento». Moderati. Abbassare i toni. E ieri, a Repubblica, Di Maio ha detto che «l' unica paura che ho è che l' esasperazione di certi toni possa aumentare il livello di tensione sociale, l' ultradestra è un pericolo, siamo in democrazia». Ah, siamo in democrazia. Quella dei giornali dissenzienti che i grillini vogliono chiudere. Quella dei giornalisti compiacenti che soltanto loro possono partecipare ai dibattiti. Cioè: per anni - tanti - i grillini se ne sono fottuti dei regolamenti e dei galatei anche minimi, hanno avvelenato i dibattiti televisivi con sparate di bassa demagogia, fatto gestacci in Parlamento tipo «emendami questo», urlato «boia» al capo dello Stato, e provocato, interrotto, urlato, spinto, strattonato, graffiato un questore, fatto i pagliacci con bavagli e striscioni, inventato aggressioni dopo averle fatte, bloccato i lavori parlamentari, avventati - in un celebre caso - sui tavoli delle presidenze, occupato aule e commissioni, bloccato il loro ingresso, gridato «siete solo merda» ai colleghi maschi e «sapete solo fare pompini» alle parlamentari, interrotto altri colleghi mentre rilasciavano dichiarazioni alle telecamere, accusato come niente di «assassinio» e gridato «la mafia è nello Stato» per ogni sciocchezza.

PLOTONI D' ESECUZIONE. Moderati. Abbassare i toni. Dopo il crollo del Ponte Morandi sembrava che litigassero su chi dovesse comandare il plotone di esecuzione contro i Benetton, ora è finita a pizza e fichi col cappello in mano. Ma poi: chi ha definito «vere puttane» e «pennivendoli» i giornalisti, la Lega o Alessandro Di Battista? Chi li definiva «infimi sciacalli», Salvini o Di Maio? Era il novembre scorso, non il Pleistoicene. Abbassare i toni. Moderati. Forse, chissà, anche la pretesa di far dimettere Armandino Siri da sottosegretario fa parte del moderatismo - e non del giustizialismo a corrente alternata - a dispetto di un' inchiesta ridicola e di una presunzione d' innocenza che vale solo per i grillini, e soprattutto per Virginia Raggi che è rimasta indagata per due anni ma sempre intoccabile al suo posto. Lo stesso giustizialismo che ora tocca al sindaco di Milano Giuseppe Sala, in effetti colpevole di aver portato l' Expo a Milano. Lo stesso che ora fa strillare ai grillini lombardi che «da Formigoni a Maroni per arrivare a Fontana, la Lombardia del centrodestra e dei partiti è una tangente ambulante», come scriveva ieri il sito pentastellato. Lo stesso che, dopo una semplice telefonata tra Salvini e Berlusconi, che era stato male - e ricordiamo che Lega e Forza Italia comunque governano insieme in molte regioni e comuni - ha fatto improvvisamente spuntare un pacchetto di proposte grilline contri i conflitti d' interesse, una cosa che cancellerebbe l' esistenza politica di Berlusconi oltre alle candidature di tutti gli imprenditori che operino in regime di concessione pubblica, ma non solo: le vieterebbe anche a tutti i direttori di giornali e telegiornali.

VIVA I GILET GIALLI. Molto moderato. Molto sereno. E che toni accorati. Non ci si deve accordare con Berlusconi, anzi, si deve temere l' ultradestra: ecco perché i Cinque Stelle pochissimo tempo fa cercarono di accreditare una fratellanza grillina con i «gilet gialli» francesi, col vicepremier Di Maio direttamente in trasferta: era un moderatismo ben mascherato, a dispetto di una carica eversiva che ai fumantini d' Oltralpe è ormai unanimemente riconosciuta. Ma poi: volete davvero l' elenco? Quello delle moderazioni? Secondo Di Maio, il libro-intervista a Salvini e relativa casa editrice andavano esclusi dal salone di Torino (infatti), secondo Di Maio Salvini parlava di cannabis per coprire il caso Siri, secondo Di Maio non va fatta l' intera Tav, secondo Di Maio la Lega «è alleata con chi nega l' Olocausto». Questo Di Maio. Che bisogna abbassare i toni. Quello che ha tutto molto moderato. Soprattutto nella scatola cranica. Filippo Facci

·         C’era una volta…onestà, onestà.

Alessia Candito per repubblica.it il 29 novembre 2019. Sciolta positivamente la riserva, il docente Unical Francesco Aiello è ufficialmente il candidato pentastellato alla presidenza della Regione Calabria. Ma alla campagna di trasparenza, tutela e rilancio del territorio promessa, potrebbe esserci un ostacolo grande quanto una casa. Per la precisione, la sua casa. La villetta di Aiello è stata dichiarata parzialmente abusiva e in parte da abbattere, ma svetta ancora orgogliosa a Carlopoli, in provincia di Catanzaro, nonostante Tar e Consiglio di Stato abbiano condannato il professore e il fratello a demolire un piano. La storia ha radici antiche - siamo alla fine degli anni Ottanta - addirittura a quando mamma e papà Aiello hanno deciso di tirarla su. E si sono fatti prendere la mano, andando ben oltre la cubatura prevista. Quando l'anno dopo il responsabile dell'ufficio tecnico del Comune, arrivato scortato dalle forze dell'ordine, ha certificato volumetrie più che doppie e una destinazione d'uso completamente diversa da quella prevista nel piano di lottizzazione, l'hanno ignorato. Lo stesso hanno fatto negli anni successivi con l'ordinanza di demolizione e il verbale di inottemperanza notificato un anno e mezzo dopo. Risultato, la casa è per lo più abusiva - ci sono un piano interrato e il secondo in più e il corpo principale è grande quasi il doppio del previsto - ma è rimasta là. Solo dopo quattro anni - è il '99 e la questione si trascina da un decennio - in Comune si ricordano di quella pratica rimasta in sospeso. L'amministrazione avvia la procedura per la revoca della concessione edilizia e improvvisamente anche in casa Aiello ci si ridesta. Non per mettere le cose a posto, ma per bloccare l'iniziativa del Comune con un ricorso al Tar. In attesa dell'esito della richiesta di condono, si spiega. Ma va male, malissimo, perché l'istanza viene respinta. E anche la richiesta di sanatoria viene accettata solo con lo sconto. Traduzione, il corpo principale viene "graziato" nonostante la palese obesità rispetto a quanto previsto, ma seminterrato e primo piano - dice la sentenza - devono essere demoliti. L'ordinanza però rimane nuovamente lettera morta. L'amministrazione riesce solo a farsi pagare dagli Aiello gli oneri concessori per corpo principale e primo piano, sanati con un provvidenziale condono, ma il resto della costruzione abusiva rimane dov'è. Passano altri dieci anni e il Comune ci riprova a mettere un po' d'ordine nella giungla di cemento cittadino. Ai fratelli Domenico e Francesco Aiello, eredi della costruzione, viene notificata l'ennesima ordinanza di demolizione, inutilmente contestata dai due di fronte a Tar e Consiglio di Stato. Non muovono un dito e l'amministrazione - ancora una volta - si dimentica della questione. Tocca ad un vicino di casa dei due fratelli sollecitare per l'ennesima volta la giustizia amministrativa per far rispettare la sentenza e ancora una volta gli Aiello si mettono di traverso. Ma perdono, di nuovo. L'unica cosa che riescono ad ottenere è che si butti giù "solo" il secondo piano e giusto perché smantellando il seminterrato verrebbe giù tutto l'edificio.  Così ha stabilito il perito, che su incarico dei giudici ha studiato il caso e depositato la propria relazione un anno fa. Ma nulla si è mosso, la villetta è ancora lì e nessuno si è disturbato a togliere neanche una tegola. "È l'uomo giusto" ha detto il coordinatore pentastellato per le regionali Paolo Parentela. "Guardiamo alla solidarietà, al lavoro, alla bellezza e ricchezza della natura e alle altre risorse della nostra terra, che recupereremo, valorizzeremo e proteggeremo dalla 'ndrangheta, dai colletti bianchi e dalla politica delle clientele, degli abusi, dei compari e dei comitati di affari". Ma magari dall'abusivismo edilizio no.

Laura Castelli travolta dallo scandalo Aig. M5s in rivolta, ma c’è sempre chi grida: “Gomblotto”. Sveva Ferri mercoledì 23 ottobre 2019 su Il Secolo d'Italia.  Incassata la fiducia sul dl Imprese, nel governo esplode il caso politico dell’Associazione italiana alberghi per la gioventù e dell’emendamento che puntava a trasformarla in ente pubblico. Un caso maturato in seno al M5S, visto che l’emendamento era stato presentato da alcuni senatori grillini e, come emerso poi, vedeva il viceministro all’Economia Laura Castelli coinvolta in un conflitto di interessi. Inoltre, ad aggiungere imbarazzo a imbarazzo, c’è anche il fatto che la vicenda è emersa per le rivelazioni, rigorosamente anonime, di uno stesso deputato grillino alla testata Politico.eu. Per il M5s, insomma, un bel disastro sotto tutti i punti di vista.

La gola profonda grillina svela il conflitto di interessi. Il nodo è che il segretario nazionale della no profit è Carmelo Lentino, collaboratore della Castelli. Circostanza, si diceva, diventata di dominio pubblico per la soffiata di una gola profonda grillina a Politico.ue. Soffiata accompagnata dalle rivelazioni sui numerosi maldipancia all’interno del M5S, che pure però fino a oggi non aveva sollevato barricate contro l’emendamento. Il quale, va ricordato, è stato stralciato frettolosamente solo oggi, ovvero solo a scandalo scoppiato. E adesso sembra esserci tutta una rincorsa a prendere le distanze.

Il M5S scopre di avere sempre avuto dubbi. «Noi deputati della Commissione X abbiamo sempre espresso dubbi e dato pareri negativi sull’argomento», ha sostenuto Marco Rizzone. «Lentino – ha raccontato il grillino all’Adnkronos – è venuto anche da noi sei mesi fa a “sponsorizzare” la norma, ma l’abbiamo fermato. Quindi chiediamo: Laura Castelli era consapevole? Noi questa cosa la sapevamo da sei mesi. L’abbiamo segnalata anche all’allora capogruppo Francesco D’Uva». «Se avessimo voluto colpire Castelli lo avremmo fatto durante la formazione del governo», ha quindi sostenuto Rizzone. È stato poi il collega Fabio Berardini a sostenere che «se questa persona non ha informato Castelli della sua posizione, allora lei è parte lesa». Praticamente il caso Aig non sarebbe altro che uno dei tanti “gomblotti” di cui i Cinquestelle denunciano ciclicamente di essere vittime.

La goffa difesa dell’«entourage» di Laura Castelli. Fonti dell’Aig, però,  precisano che gli incontri sono avvenuti prima che Lentino diventasse collaboratore della Castelli. Dall’entourage del viceministro dell’Economia, invece, filtra irritazione per quella che viene definita una «polemica strumentale costruita ad arte». Le stesse fonti hanno inoltre evidenziato che sulla norma si è registrata un’«ampia condivisione» da parte delle altre forze politiche, che hanno presentato emendamenti analoghi. Il provvedimento, dicono, recepisce il contenuto di due proposte di legge, una targata M5S al Senato e un’altra di Forza Italia presentata alla Camera, mentre l’anno scorso il leghista Gianfranco Rufa presentò un emendamento alla legge di bilancio. Se ne prende atto, ma quelle proposte contemplavano anche il ruolo di Lentini al fianco della Castelli e il conflitto di interessi che ne deriva?

Il pacco e contropaccotto ai danni dello Stato. Sempre Berardini e Rizzone però hanno sottolineato che per il M5S esiste anche un problema tutto politico. «Con questa norma si voleva trasformare in ente pubblico una no profit» dopo «una sentenza del Tribunale di Roma che ha rigettato la richiesta di concordato e in particolare la richiesta di omologazione del concordato proposta da questa associazione, che pare abbia una pendenza debitoria pari a circa 9 milioni di euro». «In questo modo si sposta la massa debitoria sullo Stato. Per noi è importante fermare le porcate, non solo fare buone leggi», hanno sottolineato i due.

Il presidente dell’Aig se la prende con la stampa. L’ha invece buttata sulla “stampa cattiva” il presidente dell’Aig, Filippo Capellupo, dicendosi «sorpreso» dalle ricostruzioni giornalistiche. Secondo lui, «mortificano il valore storico e sociale dell’Aig». «Articoli pieni di inesattezze e ricostruzioni fantasiose su presunti conflitti di interessi, che non tengono conto – ha detto Capelluto – della natura e della particolarità di un ente che ha favorito per quasi 75 anni il turismo giovanile, scolastico e sociale, consentendo la mobilità nazionale e internazionale di milioni di giovani italiani e stranieri». Quindi, ricapitolando, il “gomblotto” sarebbe politico e mediatico, ordito alle spalle della Castelli e, cosa ancora più evidente, di quei senatori grillini che, a quanto pare, hanno presentato l’emendamento a loro insaputa.

Carmelo Caruso per “il Giornale” il 18 novembre 2019. Ha visto cose che un elettore grillino non poteva immaginare «Colf lavorare in nero per i loro deputati; candidati trombati, ma promossi capi di gabinetto; viceministri accompagnati dai cognati; tribù di amici assegnati nei ministeri». E oggi c' è l'alloggio di servizio di Elisabetta Trenta. Prima lo ha richiesto da ministro della Difesa, poi lo ha fatto assegnare al marito (maggiore dell' Esercito) e adesso non ha nessuna intenzione di lasciarlo malgrado non abbia più nessun incarico. «E infatti la sua risposta è peggiore della notizia». Da anni, Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia, insegue il tartufo del M5s, il finto onesto che si svela furbo, il moralista che predica valori che regolarmente calpesta.

Da ex ministro M5s, la Trenta dice di avere diritto all' alloggio e che farla traslocare sia per lo Stato più oneroso che lasciarglielo.

«Siamo di fronte a un ex ministro preso per caso. Proprio il Giornale ha rivelato che era stata bocciata come 007. L'hanno piazzata al ministero e mi si permetta il paragone: bocciata da infermiere e promossa a primario. Inadeguata».

E però, pretende l'appartamento di Stato anche se ne possiede un altro che (mannaggia) non è al centro di Roma.

«Non risponde nel merito e non parla del vero problema: quello di opportunità.

Quale militare poteva bocciare la sua richiesta da ministro? E però, non c'è solo il caso della Trenta».

Vuole aprire il suo archivio?

«Al ministero dello Sviluppo Economico, grazie a Luigi Di Maio, abbiamo perso un uomo dalla provata competenza per fare posto a Giorgio Sorial. Candidato M5s trombato, disoccupato. Almeno una crisi occupazionale, la sua, è stata risolta. La compagna di Sorial è stata anche candidata governatrice dell'Abruzzo. Ecco, hanno scoperto anche il familismo. E la chiamavano sobrietà».

Altre prove?

«Il viceministro dei Trasporti, Giancarlo Cancelleri, la cui sorella è deputata (e siamo a due), in un incontro ufficiale, si è presentato con il cognato ingegnere (e siamo a tre). Tra l'altro, un consiglio a Cancelleri: i cognati non portano bene».

Dato che parliamo di cognati, ritorniamo alla casa. Sirena irresistibile.

«Soprattutto per il M5s. Ricordate Paola Taverna? La madre stava in un alloggio popolare. Ma era cointestataria di una casa a Olbia. Dovette andarsene perché Virginia Raggi l'ha allontanata. Fanno i moralisti, ma sono zoppi. Posso ancora continuare».

Come fermarla.

«Prendete Roberto Fico di cui si parla poco. La colf era assunta in nero, ma ha dichiarato che era un' amica che lavorava gratis. Straordinaria l'amicizia. Anche io ne cerco una tale. Era in nero, tanto che Le Iene hanno avuto ragione. E ricordate il bus?»

Si riferisce alla sua apparizione da presidente appiedato?

«Proprio quella. L'ha preso una volta e una sola. Per farsi scortare nella sua passeggiata servivano cento uomini delle forze dell' ordine».

Ma proprio non riesce a dialogarci?

«Hanno fustigato tutti salvo poi fare peggio di quelli che fustigavano. Hanno aperto la scatoletta e si sono messi a nuotare nell' olio. La casta sono oggi loro. Ma devo ancora concludere».

Avanti.

«Di Beppe Grillo non si può parlare, ma ha una condanna per omicidio colposo. Del figlio sappiamo che è sotto indagine. L'accusa è odiosa che si può solo sperare non sia vera. Di Casaleggio si conoscono i contributi, pochi, ma ci sono, che ha ricevuto da alcune aziende».

Una «pacchia»?

«Ho deciso. Nella prossima vita faccio il grillino».

Il caso. Il super staff di Luigi Di Maio agli Esteri: costa il doppio di quello dei suoi predecessori. Settecentomila euro l'anno per l'assunzione di otto fedelissimi. Nessuno, da quando sono disponibili i dati, ha mai speso tanto alla Farnesina. Mauro Munafò il 15 novembre 2019 su L'Espresso. Nessuno ha mai speso più di Luigi Di Maio per il proprio staff da Ministro degli esteri: almeno da quando sono disponibili i dati. Il capo politico del Movimento 5 Stelle, titolare della Farnesina nel governo Conte 2, ha infatti costruito intorno a se una squadra di otto persone che costano in stipendi oltre 700mila euro l'anno allo Stato. Settecentoundicimila euro per la precisione. È questa la cifra lorda annuale degli emolumenti degli uffici di diretta collaborazione, formati dai fedelissimi che ogni ministro può assumere con chiamata diretta per tutta la durata del suo mandato, e che nel caso di Di Maio non hanno precedenti nella storia recente. Un fatto che stona con la lotta agli sprechi della politica da sempre bandiera del Movimento. Ad aiutare il ministro Di Maio nel suo incarico ci sono Cristina Belotti, capo segreteria e Segretario particolare del Ministro (120mila euro annui); il portavoce Augusto Rubei (140mila euro l'anno); il consulente su sicurezza e difesa Carmine America (80mila euro l'anno); il consulente ai social network Daniele Caporale (80mila euro, per lui anche un aumento rispetto al precedente incarico sempre con Di Maio); Pietro Dettori, uno degli uomini chiave della comunicazione della Casaleggio (120mila euro l'anno); l'addetta stampa Sara Mangieri (90mila euro l'anno), il consigliere per "le informazioni diffuse attraverso i media" Giuseppe Marici (70mila euro l'anno) e per ultimo il documentarista Alessio festa (11,580 euro). Per un totale di oltre 710mila euro. Dietro questa cifra inusuale c'è un problema tutto politico: nel primo esecutivo Conte, L uigi Di Maio rivestiva tre incarichi governativi : ministro del Lavoro, ministro dello Sviluppo economico e vice presidente del Consiglio. Una triade di ruoli che gli permetteva di avere tre diversi uffici di collaborazione con relativa possibilità di spesa. Ridotti i suoi incarichi al solo, seppure prestigioso, ministero degli Esteri, Di Maio ha portato un buon numero dei suoi alla Farnesina, superando però sensibilmente la spesa dei suoi predecessori. Il ministro Moavero Milanesi, da cui Di Maio ha ereditato la poltrona, aveva una squadra composta da otto persone per un costo che nel 2019 si è fermato intorno ai duecentomila euro. certo, vista la caduta del governo, parliamo di un periodo di 8 mesi, ma anche "adeguando" la cifra all'intera annualità, si arriva a circa 300mila euro. Più spendaccione, ma comunque lontano dalle cifre raggiunte da Di Maio, era stato Angelino Alfano. Nel 2017 il su staff si componeva di 9 persone per un costo totale di 587 mila euro. Sempre di nove persone si componeva la squadra di Paolo Gentiloni che, nel 2016, spendeva in totale 468mila euro. Nei suoi otto mesi alla Farnesina nel 2014, Federica Mogherini spendeva invece 265mila euro (con un team di 5 persone) e prima di lei Emma Bonino, ministra per dieci mesi a cavallo tra il 2013 e il 2014, arrivava a 370mila euro.

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 24 novembre 2019. Gli insegnanti di storia, di geografia e forse d' italiano costano. Ne sa qualcosa il Ministero degli Esteri che, immaginiamo suo malgrado, ha dovuto mettere sotto contratto otto consulenti di sostegno al ministro Luigi Di Maio. Soldi pubblici ovviamente, nello stile della tanto deprecata Kasta. Per le sue consulenze, Di Maio sta spendendo molto di più di Angelino Alfano, quando era agli Esteri, e tre volte di più del precedente ministro Enzo Moavero Milanesi. Non si era mai visto alla Farnesina un tale dispiegamento di collaboratori per agevolare il lavoro del ministro: tutto un mulinare di comunicazioni, relazioni, stampa, media, come se i funzionari di uno dei più prestigiosi ministeri non fossero all' altezza delle esigenze scolastiche del capo politico dei grillini. È un momentaccio per Giggino nostro (e triste il Paese che lo ha nominato ministro). Davide Casaleggio, tramite la piattaforma Rousseau, l' ha umiliato, negandogli la «pausa elettorale» e mettendo in seria discussione la sua leadership. Persino Marco Travaglio lo descrive ormai come una guida azzoppata, «vieppiù indebolita». La democrazia da strada chiama uguaglianza l' atto del piallare tutto quello che è diverso, quello che sporge, foss' anche una testa. Così, basta montarsi un po' la testa, come ha fatto Giggino, per essere subito decapitati.

Pasquale Napolitano per “il Giornale” il 9 dicembre 2019. Resta a Palazzo Chigi ma cambia stanza: Dario De Falco, ex capo della segreteria politica di Luigi di Maio, si accasa nello staff del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Riccardo Fraccaro. Il contratto è stato registrato il 5 settembre scorso, giorno del giuramento del Conte bis. Ma solo due giorni fa, sul sito della presidenza del Consiglio, sono stati pubblicati tutti gli incarichi dei consulenti (111) dell' esecutivo giallorosso. De Falco, pomiglianese e amico d' infanzia del capo politico dei Cinque stelle, è stato il primo a essere salvato dal navigator Di Maio nel passaggio dal Conte 1 al Conte 2. Lo stipendio non è ancora noto: il decreto che stabilisce il compenso è in fase di registrazione. Dario De Falco sarà consulente del sottosegretario Riccardo Fraccaro per le questioni istituzionali. E sarà soprattutto l' occhio (vigile) di Di Maio a Palazzo Chigi: tra il leader dei Cinque stelle e De Falco c' è un forte legame. Dovrà marcare stretto il premier Conte e gli alleati del Pd. Fu proprio Di Maio ad affidare a De Falco l' incarico di tesoriere della campagna elettorale alle Politiche del 2018. Dalla vecchia poltrona (capo della segreteria politica del vicepremier Di Maio) di Palazzo Chigi, il grillino, amico del leader, ha seguito i dossier più delicati. De Falco è reduce dall' apertura a Pomigliano d' Arco di spazio 5 stelle, luogo di ritrovo ed elaborazione politica degli attivisti vicini a Di Maio. E sarà De Falco a curare la diffusione capillare nel Mezzogiorno dei pensatoi vicini a Di Maio. Dovrà dividersi tra Roma, seguendo le questioni istituzionali per il sottosegretario Fraccaro, e le regioni del Sud per il lancio degli spazi 5 stelle. Nel governo Conte1, per l' amico d' infanzia del ministro Di Maio era previsto uno stipendio pari a 100mila euro. Chissà se la cifra sarà riconfermata con il passaggio alle dipendenze di Fraccaro. L' amicizia resta, dunque, un valore solido per Di Maio. Enrico Esposito, altro collega di studi del titolare della Farnesina, è stato piazzato nella segreteria del ministro dello Sviluppo Economico Stefano Patuanelli: Esposito guiderà l' ufficio legislativo. Il segretario generale del Mise sarà Salvatore Barca, altro compaesano di Di Maio rimasto nel giro delle poltrone nella fase di transizione tra Conte1 e Conte 2. Compaesana di Di Maio è anche Assia Montanino, la segreteria 26enne pomiglianese, riconfermata nello staff di Patuanelli. Salve le poltrone anche per altri due collaboratori del capo politico dei Cinque stelle: Marco Bellezza e Giovanni Capizzuto. Bellezza, ex consigliere giuridico di Di Maio alla vicepresidenza del Consiglio, è stato spedito nel board del Fondo Nazionale Innovazione (Invitalia Ventures SGR). Operazione da manuale per Capizzuto: l' ex capo della segreteria tecnica del ministero del Lavoro è stato nominato nel Cda di Anpal, (Agenzia Nazionale Politiche Attive Lavoro) da Di Maio due giorni prima della nascita del Conte bis. Insomma, l' ultimo atto di Di Maio da ministro del Lavoro è stato trovare un lavoro al suo collaboratore.

Altro che Forza Sud: M5s fa Forza Campania con i nuovi "facilitatori". Nel nuovo team 9 su 12 sono del Meridione E 6 arrivano dalla stessa regione di Di Maio. Pasquale Napolitano, Lunedì16/12/2019, su Il Giornale. Luigi di Maio lancia Forza Sud. Al Tempio di Adriano di Roma, il leader dei Cinque stelle presenta il nuovo team del futuro del M5S. Nove facilitatori su dodici arrivano dal Sud: sei dalla Campania. La nuova struttura di vertice dei grillini mette un altro tassello al piano del capo politico dei Cinque stelle: costruire una propria squadra nel Mezzogiorno, fedele e allineata. I facilitatori, che andranno a comporre il team del futuro, e che dunque avranno in mano il controllo delle aree tematiche centrali, dalla Giustizia all'Ambiente, sono tutti fedelissimi e compaesani del leader. Le votazioni si sono chiuse nel tardo pomeriggio di sabato. Ieri c'è stata la presentazione ufficiale a Roma. «Si chiude il primo step di un periodo di riorganizzazione partito un anno fa», spiega Di Maio al Tempio di Adriano, annunciando gli Stati generali del Movimento per riscrivere la carta dei valori: «Dobbiamo progettare i prossimi vent'anni per l'Italia e il M5s», annuncia baldanzoso. Mentre sul futuro del secondo governo Conte, il leader pentastellato è categorico: «Dal mese di gennaio serve un nuovo accordo di programma». Spulciando i nomi dei facilitatori balza subito il collegamento territoriale con Di Maio. Il record spetta alla Campania: 6 facilitatori su 12 provengono dalla stessa regione del titolare della Farnesina. Alla guida del team Sanità c'è Valeria Ciarambino, pomiglianese (come Di Maio) e capogruppo dei Cinque stelle in Regione Campania. Una pasdaran di Di Maio, già candidata (non eletta) cinque anni fa alle elezioni europee. Da Scisciano, in provincia di Napoli, a pochi chilometri da Pomigliano, arriva Gennaro Saiello: consigliere regionale della Campania che avrà la delega alle Imprese. È un altro storico sodale di Di Maio. Delega pesante, all'Economia, per Vincenzo Presutto, senatore napoletano vicino all'ala degli ortodossi. Il quinto è Andrea Cioffi, campano ed ex sottosegretario allo Sviluppo Economico. Cioffi guiderà il team delle Infrastrutture. La più giovane è Iolanda Di Stasio, deputata originaria di Afragola, che coordinerà il team degli Esteri: un nome in forte ascesa nel Movimento. Nei primi due anni, la parlamentare si è fatta apprezzare per le relazioni internazionali e un forte appeal social. Tanto da guadagnare la veloce promozione. Dalla Campania arriva anche Maria Pallini, che avrà la delega del team Lavoro. Sei campani su 12 faranno parte della squadra che affiancherà Di Maio nel nuovo corso del Movimento. Altri tre facilitatori arrivano dal Mezzogiorno: Valentina D'Orso, siciliana, avrà la delega alla Giustizia, Giampiero Trizzino, altro siciliano, guiderà il team dell'Ambiente, e Luciano Cadeddu, sardo, piazzato al vertice del dipartimento Agricoltura. Completano la rosa tre grillini: Dino Giarrusso, (europarlamentare), Istruzione, ricerca e cultura, Luca Frusone (deputato), Difesa, e Luca Carabetta, Innovazione. Di Maio ha praticamente monopolizzato le nomine, piazzando fedelissimi e compaesani. È un'altra conferma dell'operazione che punta a creare nel sud un movimento autonomo, legato al ministro degli Esteri. Pronto a smarcarsi dalle correnti grilline filo Pd. Oltre al team del futuro, è stata presentata anche la segreteria (ristretta) politica che coadiuverà Di Maio: Emilio Carelli (Comunicazione), Paola Taverna (Attivismo Locale), Danilo Toninelli (Campagne elettorali), Ignazio Corrao (Enti Locali), Enrica Sabatini (Affari interni), Barbara Floridia (Formazione).

Federico Capurso per “la Stampa” il 16 dicembre 2019. Luigi Di Maio a Roma presenta i nuovi 18 «facilitatori» del «team del futuro» che lo affiancheranno nella gestione del Movimento. Complicazioni lessicali, nient'altro, per non dire «dirigenti» e «segreteria politica». Come a dare una mano di trucco leggera, in sostanza, alla trasformazione del M5S in partito. Una metamorfosi necessaria, però, per alleggerire il peso sulle spalle del leader. Lo stesso Di Maio ammette di essersi sentito «molto solo negli ultimi anni, anche nel prendere le decisioni». E per proteggerlo, così, dalle critiche che lo sommergono da mesi e dall' accusa di aver accentrato nelle sue mani tutto il potere. In sala, al Tempio di Adriano, è presente lo stato maggiore grillino. Anche Davide Casaleggio, che in una prima fase aveva visto con diffidenza la riorganizzazione del Movimento, temendo potesse essere usata per togliergli potere. In effetti, subito dopo la sconfitta alle elezioni Europee dello scorso maggio, era esattamente questa la strategia dei vertici e la speranza di molti uomini di peso del partito. Poi, la debolezza della leadership di Di Maio, erosa dalle sconfitte elettorali e dalla caduta del governo con la Lega, hanno bloccato tutto. Anzi, hanno invertito il processo e Casaleggio si è trasformato in un elemento assolutamente necessario al capo politico per sopravvivere. Così, un ministro di peso dei Cinque stelle spiega la scelta di inserire Enrica Sabatini nella segreteria come responsabile degli agli «Affari interni». Una dicitura che «vuol dire un po' tutto», la presenta Di Maio con un mezzo sorriso tirato, ma il capo politico sa bene che quello sarà il ruolo più delicato e di potere della nuova struttura. La pupilla di Casaleggio avrà il compito di coordinare tutti i dirigenti e imprimere una direzione e una tempistica al loro lavoro. «Dovrò rendere i vari gruppi di lavoro un' orchestra che suona in armonia», spiega lei. Di Maio, seduto al fianco di Casaleggio, quando sale sul palco lancia subito un messaggio d' intesa al figlio del fondatore: «I facilitatori non si sostituiranno alla piattaforma digitale». Un' assicurazione, in sostanza, sulla presenza del sito web Rousseau nella prossima vita del partito. L' inaugurazione della segreteria, infatti, è solo il primo passo. Di Maio detta i tempi: «Entro la terza settimana di gennaio puntiamo a completare i facilitatori regionali». Poi, «ci saranno gli Stati generali del Movimento, durante i quali avremo l' occasione di scrivere una nuova Carta dei valori». Si corre. Tutto nei prossimi tre mesi. D'altronde, «questa riorganizzazione è già in ritardo», ammette l' europarlamentare Ignazio Corrao, nominato nella segreteria politica con il compito di affiancare i sindaci Cinque stelle. «Ci saremmo evitati molti problemi se fosse arrivata prima. Adesso però non ci si deve fermare, si deve allargare ancora di più alla base e renderla partecipe». E l' impulso a coinvolgere gli attivisti, con assemblee nei territori e riportando i banchetti nelle strade, arriva anche da altri due membri della segreteria politica, Paola Taverna e Danilo Toninelli. Mentre Emilio Carelli promette una «comunicazione più strutturata, con toni diversi», di governo. Spinte divergenti, ma la trasformazione è quasi completa. Manca solo una sede di partito e una scuola di formazione politica. «Non sono previste», rispondono dal Movimento, «per ora».

Simone Canettieri per “il Messaggero” il 16 dicembre 2019. L'obiettivo che Luigi Di Maio lancia dal palco è un pochino ambizioso: «Vogliamo far tornare la felicità nelle case degli italiani». Insomma, da abolire dopo la povertà ora c'è la tristezza, per il capo dei grillini. Questo e altro, fa capire il ministro degli Esteri, d'ora in poi sarà possibile grazie al team del futuro del M5S. Un evento lanciato in pompa magna nel tempio di Adriano. Foto della prima fila: Pietro Dettori, braccio destro di Luigi, Davide Casaleggio, il leader politico con a fianco la fidanzata Virginia Saba. Ai lati i facilitatori, che «non saranno decisori», ha tenuto a specificare Di Maio per non creare subito tensioni con la squadra pentastellata che sta al governo. Ecco, in sala nonostante il consiglio dei ministri previsto in serata si sono visti solo tre sottosegretari (Castelli, Tofalo e Di Stefano) e un ministro, Vincenzo Spadafora. Durante la presentazione si è capito che la plenipotenziaria sarà Enrica Sabatini, nuova responsabile degli Affari interni. «Lei sarà tutto», l'ha presentata Di Maio. Di fatto la socia di Rousseau, quindi molto vicino a Casaleggio, da ieri è una specie di vicesegretario, la numero 2, quello che nei partiti di una volta era il coordinatore nazionale. La presentazione ha dato modo al leader politico dei pentastellati di «iniziare a sentirsi meno solo». Perché finalmente «potrà condividere le responsabilità e il peso delle scelte con gli altri». Da oggi, spiega, «sarà tutto più facile». Allo stesso modo, però, la presentazione dei facilitatori è stato anche un valzer di mea culpa sugli errori commessi negli ultimi mesi. Il via alle danze è partito dal deputato ed ex giornalista Emilio Carelli (si occuperà di comunicazione): «Dobbiamo cambiare il tono e le strategie», ha detto alludendo agli errori commessi nel passaggio tra l'opposizione e la forza di governo. «Il Movimento è una piramide rovesciata, la base è il nostro vertice e noi dobbiamo rimanere degli umili portavoce. Chiedo scusa perché spesso si è creata una distanza, che dovrà essere colmata. Chiederò di ricominciare dall'ascolto con delle vere e proprie assemblee fisiche», è stata invece la riflessione di Paola Taverna, vicepresidente del Senato con delega agli attivisti. A quella base, cioè, che si è ristretta nelle urne, basti pensare ai voti scomparsi alle Europee di sei mesi fa. A seguire spazio ai restanti componenti del direttorio a sei: Danilo Toninelli, Ignazio Corrao e Barbara Floridia. Insieme a loro ci saranno anche i 12 facilitatori (tutti passati dal vaglio di Rousseau) divisi per aree tematiche (ambiente, lavoro, economia, esteri, difesa). «Stasera con questo evento possiamo chiudere un primo step di un processo di riorganizzazione partito quasi un anno fa: non è stato semplice. L'anno che sta per concludersi è quello in cui il Movimento ha raggiunto i dieci anni», ha concluso Di Maio. Che è in attesa di cancellare la tristezza, da ieri ha abolito la solitudine.

Salvatore Dama per “Libero Quotidiano” il 16 dicembre 2019.  Tre senatori grillini passano con la Lega, mettendo nei guai la maggioranza a Palazzo Madama. «Ed è solo l' inizio», dichiara Matteo Salvini salutando l' arrivo di Francesco Urraro, Stefano Lucidi e Ugo Grassi. Sono gli stessi che mercoledì avevano votato contro la risoluzione pro Mes, ribellandosi agli ordini superiori. «Voltagabbana!», li maledice Di Maio, «quanto costa un senatore? Salvini li compra un tanto al chilo. Avrà promesso seggi o non so cos' altro». Ma intanto per Gigino questa non è l' unica grana del giorno. L' altra si chiama "facilitatori". Si tratta della classe dirigente che il capo politico del M5s ha deciso di affiancare a se stesso per dare l' idea di una guida collegiale del Movimento. E per sfuggire alla critica di chi lo accusa di essere l' uomo solo al comando. La selezione doveva essere "democratica". Affidata, cioè, al voto della piattaforma Rousseau. Non è andata così. Lo scrutinio on line è aperto da ieri. Ma la base grillina non decide un bel niente. Può solo limitarsi a ratificare una lista bloccata compilata da Di Maio e Casaleggio. C' è chi l' ha presa male. Per esempio l' ex ministra della Difesa Elisabetta Trenta. Si era candidata, con un suo team di facilitatori, al comparto "sicurezza e difesa". Ma è stata esclusa. Probabilmente c' entra la storia della casa del ministero, quella che suo marito aveva tenuto nonostante la consorte non fosse più titolare della Difesa. Se è così, nessuno ha avuto il coraggio di dirlo. Alla Trenta è stato solo fatto presente che la sua candidatura non rispettava i requisiti previsti dal regolamento. «Ritengo di essere vittima di una trama agita da alcuni poteri forti», denuncia, «ma non intendo mollare la presa. Ribadisco il mio convincimento nei valori fondanti il Movimento delle origini e intendo continuare la mia battaglia civile e politica, forte anche del sostegno di migliaia di attivisti e sostenitori. Non mollerò». Però le brucia: «Incredibilmente non è stata fornita alcuna spiegazione, e questo episodio conferma le perplessità su alcuni processi decisionali dei vertici del Movimento», dichiara ancora l' ex ministra, annunciando di avere delle carte scottanti su Di Maio e Casaleggio: «Nei prossimi giorni convocherò una conferenza stampa, in occasione della quale fornirò la mia interpretazione di quel che mi è accaduto nelle ultime settimane, presentando un articolato dossier, a partire dalla mia esperienza di ministro della Difesa per 14 mesi». I "complicatori", come li chiamano i dissidenti, sono sei e saranno destinati a occuparsi di altrettante aree tematiche. Eccoli: Barbara Floridia (Formazione e personale); Emilio Carelli (Comunicazione); Paola Taverna (Attivismo locale); Danilo Toninelli (Campagne elettorali); Ignazio Corrao (Supporto Enti locali amministrati dal MoVimento 5 Stelle); Enrica Sabatini (Affari interni). Quest' ultima è socia dell' associazione Rousseau e considerata come molto vicina a Davide Casaleggio. Ma pure gli altri sono stati selezionati tra i fedelissimi. La piattaforma Rousseau non potrà fare altro che confermare o meno. Non scegliere. On line si votano anche "i progetti presentati per ciascuna delle 12 aree tematiche. Per ognuna vincerà solo il progetto che avrà ottenuto più voti". Ma in competizione c' è solo un team per tema.

M5S, Trenta è fuori dal team del futuro: i grillini non la vogliono. Il nome dell'ex ministro della Difesa non compare nel gruppo dei facilitatori, da oggi al voto sulla piattaforma Rousseau. Ufficialmente la causa dell'esclusione è legata alla mancanza dei requisiti richiesti, ma la vicenda della casa ha messo in imbarazzo i pentastellati. Lavinia Greci, Giovedì 12/12/2019, su Il Giornale. Alla fine, il nome dell'ex ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, è fuori e non figura tra i "facilitatori" del team del futuro, da oggi al voto sulla piattaforma degli attivisti del Movimento 5 Stelle. Nelle ultime ore, proprio su di lei, erano emersi diversi malumori tra i pentastellati, con alcuni parlamentari pronti a chiedere uno stop al capo politico del partito, Luigi Di Maio. Secondo quanto riportato da Adnkronos, proprio in queste ore, saranno pubblicati i nomi e nel team "Sicurezza e Difesa", quello a cui ambiva Trenta, l'ex ministro non ci sarà. Il team sarà presentato domenica prossima al Tempio di Adriano e lì saranno presenti il ministro degli Esteri e tutti i facilitarori che gli iscritti M5S voteranno nelle prossime ore.

Le tensioni nel M5S. A spiegare le motivazioni di questa esclusione, sono fonti del movimento, le quali hanno chiarito che la squadra da lei guidata non rispettava tutti i criteri e i requisiti necessari e previsti dal regolamento pentastellato. Già nella giornata di ieri si erano percepiti diversi malumori tra i pentastellati, divisi tra tensioni interne e ipotesi di abbandono del partito. Ma, in particolare, a infiammare la discussione politica era proprio il nome di Trenta e il voto per i candidati al team del futuro. Secondo quanto ricostruito da Adnkronos, in caso di mancata esclusione, diversi eletti sarebbero stati persino pronti a chiedere ai vertici di fermare la sua partecipazione alla consultazione online. E così, infatti, è stato.

La casa di Trenta. E a esasperare il malcontento verso di lei nelle ultime settimane anche la vicenda della sua casa in zona San Giovanni, assegnata prima a lei e poi al marito, maggiore dell'Esercito. La volontà di rimanere nell'abitazione e la questione legata all'affitto aveva fatto innervosire molti eletti tra i pentastellati, che avrebbero addirittura paventato la possibilità di una segnalazione ai probiviri. Ma non solo: in base a quanto riportato da Adnkronos, tra gli esponenti del M5S c'era anche chi non escludeva di presentare un'interrogazione parlamentare per chiarire la gestione degli alloggi di servizio nel periodo in cui Trenta era ministro della Difesa.

I malumori delle ultime ore. Il deputato della commissione Difesa, Luigi Iovino, avrebbe confermato la tensione delle ultime ore e si sarebbe detto "particolarmente scocciato da atteggiamenti di singoli che stanno oscurando i comportamenti virtuosi" che, secondo lui, contraddistinguono da sempre il M5S all'interno delle istituzioni. "Sono certo", ha continuato il pentastellato, "che le sollecitazioni del capo politico saranno accolta dall'ex ministro. Non spetta a me stabilire la verità e ci sono indagini in corso, quindi non voglio ipotizzare futuri scenari".

Il disappunto dei pentastellati. Nelle ultime ore, Iovino avrebbe poi chiarito il suo pensiero, ragionando "sull'inopportunità di trascinare tutto il Movimento in faccende che possono solo danneggiare chi, sin dal principio, offre un modello alternativo di gestione della cosa pubblica decurtandosi lo stipendio, rinunciando alle indennità di carica e alla maggior parte di privilegi derivanti dal proprio ruolo". Il pentastellato aveva poi specificato: "Esercitare il potere al servizio della collettività, solo per la collettività, è una condizione irrinunciabile per tutti noi". E sulla candidatura di Trenta, cancellata nelle ultime ore, aveva concluso citando il fondatore del M5S: "Sulla candidatura di Trenta mi vengono in mente le parole di Gianroberto Casaleggio: 'Al minimo dubbio, nessun dubbio'. Se il Movimento non vuole perdere la bussola deve ancora tenere saldi certi punti cardinali".

La replica della Trenta. La ex ministro della Difesa Elisabetta Trenta ha appreso questa mattina dal Blog delle Stelle che la candidatura a "facilitatore" del Movimento 5 Stelle per l'area Sicurezza e Difesa non è stata ammessa alla votazione sulla piattaforma Rosseau, per ignote ragioni. "Incredibilmente non è stata fornita alcuna spiegazione, e questo episodio conferma le perplessità su alcuni processi decisionali dei vertici del Movimento", ha dichiarato Trenta, che aveva presentato il suo "Team del Futuro" lunedì scorso presso la Sala Stampa della Camera dei Deputati. "Nei prossimi giorni, convocherò una conferenza stampa, in occasione della quale fornirò la mia interpretazione di quel che mi è accaduto nelle ultime settimane, presentando un articolato dossier, a partire dalla mia esperienza di Ministro della Difesa per 14 mesi". Ha poi aggiunto: "Ritengo di essere vittima di una trama agita da alcuni poteri forti, ma non intendo mollare la presa. Ribadisco il mio convincimento nei valori fondanti il Movimento delle origini, ed intendo continuare la mia battaglia civile e politica, forte anche del sostegno di migliaia di attivisti e sostenitori. Non mollerò".

Elisabetta Trenta, se questo è un Ministro. Oltre alla vicenda della casa la cosa peggiore del suo mandato è stata la gestione inadeguata e ideologica della Difesa. Fausto Biloslavo il 3 dicembre 2019 su Panorama. La casa con l’affitto irrisorio a Roma e il «dog sitting» con l’auto blu al suo cagnolino sono solo aspetti emblematici di chi parla bene e razzola male. Elisabetta Trenta, stella grillina in declino, i veri danni li ha compiuti alla guida della Difesa a Palazzo Baracchini, dal giugno 2018 a settembre di quest’anno. L’ex ministro voleva trasformare le Forze armate in una specie di Protezione civile rafforzata a tal punto che ha dato l’ordine ai caccia bombardieri - costo: 13 mila euro ogni ora di volo - di fotografare dal cielo le Terre dei fuochi. E non ha mandato avanti contratti cruciali di approvvigionamenti e mezzi fondamentali per la sicurezza dei nostri militari come i «blindo» Centauro 2 e il veicolo da trasporto truppe Freccia. Per non parlare della benedizione ai sindacati delle stellette, prima che la delicata materia fosse regolata dal Parlamento, della rivolta dei generali in congedo, che hanno disertato la parata del 2 giugno per protesta e della comunicazione della Difesa tornata all’età della pietra. Si preferiva accendere i riflettori su trenini e balletti del ministro a Lourdes, ma sulle missioni più ostiche all’estero è stata fatta calare una cappa di silenzio. Fino a metà novembre, Trenta utilizzava ancora la «macchina blu», un’Alfa 159. Un suo diritto per sei mesi come ex ministro, ma che cozza con la propaganda grillina contro i privilegi. L’errore iniziale dell’avventura governativa del capitano della riserva selezionata è stato circondarsi di collaboratori non all’altezza scelti per la supposta fedeltà al Movimento cinque stelle. Nell’ambiente della Difesa lo chiamavano «il cerchio magico». Un ufficiale di grado superiore spiega a Panorama «che erano tutti arrivati con chiamata diretta del ministro, ma invece che andare a pescare fra i primi della classe si è circondata di gente inadatta». Nel cerchio magico c’erano persone frustrate, che avevano pure il dente avvelenato con le gerarchie militari pensando di essere state ingiustamente danneggiate nella carriera. E volevano fare la rivoluzione. I fedelissimi che hanno fatto parte del gabinetto del ministro, oggi quasi tutti trasferiti, sono soprattutto il colonnello Antonello Arabia, capo della segreteria, il tenente colonnello Toni Caporella, consigliere, il colonnello Massimo Ciampi, trait d’union con i nascenti sindacati militari. E il colonnello Francesco Greco, responsabile dell’ufficio pubblica informazione ancora al suo posto. I fedelissimi dell’ex ministro abitano tutti nel cosiddetto «condominio Trenta», un comprensorio della Difesa in area Flaminia, una delle zone migliori di Roma. Tra le iniziative più criticate del ministro Trenta nell’ambiente militare è il pallino per il «duplice uso sistemico» delle Forze armate secondo un fantomatico progetto Ianus, che non si trova da nessuna parte nei dettagli. I militari sono sempre stati impiegati, fin dall’unità d’Italia, in modalità dual us per calamità naturali o compiti di vigilanza, come accade da anni con la missione Strade sicure, la più numerosa con oltre 7 mila uomini. L’obiettivo recondito della gestione grillina della Difesa, però, era trasformare le Forze armate in una specie di Protezione civile rafforzata con scarso impiego all’estero. «La boiata peggiore è stata l’esercitazione a Pratica di Mare sul duplice uso sistemico, costata non poco» sottolinea una fonte di Panorama nel mondo militare. Il 7 maggio la Difesa riunisce il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, il ministro per i Beni e le attività culturali, Alberto Bonisoli, il capo del dipartimento della Protezione civile Angelo Borrelli e il capo di Stato maggiore, generale Enzo Vecciarelli per un mega show all’aeroporto militare di Pratica di Mare vicino a Roma. La simulazione prevede uno tsunami che colpisce il litorale romano e provoca un terremoto. Un elicottero trasporta i vip sul comando in mare a bordo di nave Etna, che per muoversi costa 53 mila euro. Addirittura sfrecciano due caccia (almeno 20 mila euro per ora di volo in coppia), che certo non dovevano sganciare le bombe per fermare l’ondata. Conte è entusiasta e annuncia: «Questo evento dimostra le mirabili capacità organizzative e di coordinamento delle nostre Forze armate negli interventi a supporto delle attività della Protezione civile». L’operazione, mai scritta, di «disarmo prevede anche una smilitarizzazione semantica. I sistemi d’arma passano in secondo piano, la parola “combat” è un tabù e il soldato diventa più simile a un poliziotto in nome del politicamente corretto» osserva una fonte all’interno della Difesa. Manifesti e «simpatici video» sui social, avallati dal ministro anche per il 4 novembre, giorno delle Forze armate e della vittoria nella Prima guerra mondiale, rispecchiano la folle idea di soldati disarmati più simili a crocerossine che a militari addestrati a combattere. Il 23 giugno la Fao (l’organizzazione delle Nazioni unite per l’alimentazione e l’agricoltura) che ha il quartiere generale a Roma, aveva chiesto un intervento di «jammer», di disturbo delle frequenze dei telefonini, per mantenere la segretezza dell’elezione del nuovo segretario cinese. Il ministro della Difesa ha detto no per i timori della reazione delle forze di polizia, considerandola un’azione troppo aggressiva. Ma l’aspetto più estremo del «duplice uso sistemico» delle Forze armate è l’utilizzo di caccia bombardieri Amx, Tornado ed Eurofighter «per monitoraggio ambientale condotto grazie ai sensori» speciali dei velivoli «nell’ambito del piano di azione di contrasto dei roghi dei rifiuti nella Terra dei fuochi» si legge sul sito della Difesa. Un’ora di volo di un Eurofighter, costruito per sganciare bombe, costa 13 mila euro. Un lavoro di ricognizione simile veniva già fatto sul terreno dai soldati di Strade sicure, che usano il mini drone Raven, lanciato a mano, infinitamente più economico. «Trenta ha provocato gravi danni come cercare di ridurre le Forze armate a una specie di protezione civile rafforzata» conferma il generale Leonardo Tricarico, ex capo di Stato maggiore dell’Aeronautica. «Si può archiviare questa bizzarra concezione, ma i ritardi sui nuovi sistemi d’arma e approvvigionamenti sono un danno elevato. Nel caso degli F 35, per esempio, i tira e molla hanno minato la credibilità del Paese». Il leghista Roberto Paolo Ferrari, membro della Commissione Difesa alla Camera, accusa l’ex ministro Trenta «di avere tenuto bloccati per un anno e mezzo programmi che avevano già la copertura finanziaria come i blindo Centauro 2 e il Freccia». Nel primo caso, i vecchi esemplari non possono venire inviati all’estero a causa dello «scafo» non protetto dalle trappole esplosive. L’ingiustificato ritardo ha provocato crisi e cassa integrazione alla Iveco defence. In pratica, i nuovi sistemi d’arma sono rimasti bloccati al ministero dello Sviluppo economico, che era guidato dal leader grillino Luigi Di Maio. E Trenta non si è strappata i capelli per risolvere la situazione. Ferrari punta il dito anche sull’abortito drone ad alta quota e lungo raggio che doveva essere prodotto da Piaggio Aero. «Un investimento da 700 milioni già finanziato, ma bloccato dalla componente grillina» sostiene il parlamentare della Lega. E pure sull’approvvigionamento di munizioni si è registrato una contrazione. «Non solo sui grossi calibri, ma anche per le armi individuali con relativa riduzione delle capacità addestrative» denuncia ancora Ferrari. Michele Nones dell’Istituto affari internazionali evidenziava fin da aprile in un dettagliato studio che «la gestione governativa delle spese per la Difesa sembra essere ormai precipitata in uno stato confusionale». In zona Cesarini il ministro Trenta ha autorizzato l’adesione al programma Camm-Er di rinnovo del nostro sistema di difesa contraerea, che dal prossimo anno diventerà inutilizzabile. Però è stato stanziato appena un milione di euro, che non basterà neppure a sviluppare il progetto. L’aspetto più grave è il disinteresse per le nostre aziende. «Totale desolazione nel supporto all’industria italiana della Difesa» spiega a Panorama chi lavora nel settore. «Ogni volta che le era chiesto di appoggiare o intervenire a livello internazionale la signora non ha mai fatto nulla. Era assolutamente inadeguata al ruolo». Nella Repubblica ceca una nostra azienda stava facendo un’offerta importante. Il ministro della Difesa locale aveva invitato Trenta a Praga, ma lei non ha neppure risposto. Il generale Tricarico sottolinea che «fra i danni irreversibili, ha innescato e prodotto aspettative eccessive per i sindacati dei militari riconoscendoli prima di una legge del Parlamento». L’alto ufficiale in congedo fa parte di una schiera di generali che il 2 giugno si sono rifiutati, in segno di protesta, di presentarsi alla parata militare a Roma per la Festa della Repubblica. E tanti altri hanno preso carta e penna attaccando l’esponente grillina. Una «rivolta» dei generali mai vista prima e condita dai balletti a Lourdes del ministro, dal gesto simbolico Peace & love in Parlamento e dalle entusiastiche congratulazioni alla coppia gay della Marina. La disastrosa gestione della comunicazione della Difesa nel periodo Trenta ha registrato anche il curioso caso del portavoce Augusto Rubei, che aveva praticamente commissariato il ministro per conto dei grillini. Ex collaboratore di varie testate, da Repubblica a Lettera 43, da marzo si era dedicato alla campagna elettorale delle Europee. E il 23 luglio è passato ufficialmente nello staff Di Maio. Fino ad allora riceveva 90 mila euro dalla Difesa, ma voleva di più con un doppio incarico che la Corte dei conti ha stoppato con due pagine di «osservazioni dell’ufficio di controllo» in possesso di Panorama. Adesso che è consigliere del capo grillino alla Farnesina «per gli aspetti legati alla comunicazione» incassa 140 mila euro. Il direttore di Analisi Difesa, Gianandrea Gaiani, ha scritto in un editoriale l’epitaffio più chiaro sulla gestione Trenta durata 14 mesi: «Una visione assai limitata del comparto Difesa, pacifista da oratorio e Casa del popolo, ma oggi quanto meno inadeguata anche solo a comprendere le sfide attuali».

Camporini: "Questo cripto-pacifismo mette a rischio l'Italia". L'ex generale ed ex capo di Stato Maggiore analizza l'attività da Ministro della Difesa di Elisabetta Trenta. Luciano Tirinnanzi il 3 dicembre 2019 su Panorama. Si narra che, negli anni Settanta, il vertice di un apparato della sicurezza dello Stato poco prima di lasciare l’alloggio di alta rappresentanza, dove campeggiava un quadro d’autore d’immenso valore, lo abbia portato via e sostituito con una copia. Oggi quella «crosta» è sempre lì, a simboleggiare un malcostume italiano che, a giudicare dalla vicenda Trenta, è ancora in auge. Panorama intervista il generale Vincenzo Camporini, ex capo di Stato maggiore dell’Aeronautica militare e della Difesa. Il quale, alla domanda su Elisabetta Trenta, sospira: «Preferirei non commentare questa storia. Recentemente ho avuto un incontro con lei per ricucire il rapporto, dopo che aveva preso male una mia dichiarazione».

Cos’era successo?

«Semplicemente non condivido la visione politica che ha espresso durante il suo mandato, perché rappresenta un cripto-pacifismo che non ha ragione d’essere nel mondo di oggi. Io ritengo necessario, per la protezione della nostra società, prendere le necessarie precauzioni tra cui la disponibilità di uno strumento militare adeguato ai possibili rischi. Una visione non condivisa da lei né dal governo precedente».

E dell’alloggio che non voleva lasciare cosa ne pensa?

«Il problema della casa per i militari è tuttora molto sentito. Purtroppo, in passato, uno dei vezzi più comuni è stato pensare che, avendo ottenuto l’alloggio in ragione di un determinato incarico, il privilegio era perpetuo. Finisco il mandato? L’alloggio me lo tengo. Vado in pensione? Idem. Divorzio? Cambio casa, ma l’alloggio lo lascio all’ex moglie. Così facendo si è creata la figura giuridica dei «sine titulo», coloro cioè che occupano alloggi della Difesa senza averne diritto. Il problema è che contro questo malcostume abbiamo armi spuntate, cosicché del patrimonio immobiliare teoricamente disponibile per la Difesa è possibile poi utilizzarne solo una frazione».

Le è capitato mai di trovarsi in una simile situazione?

«Credo che l’esempio debba sempre venire dall’alto. Le poche volte che ho avuto una casa di servizio, l’ho lasciata immediatamente a fine incarico. Guardi, può controllare: mi sono congedato il 17 gennaio 2011 e il 31 gennaio ho fatto il trasloco, giusto il tempo di mettere insieme le cose».

L’immagine delle nostre forze armate ne esce deteriorata?

«Sì. Peraltro, nella nostra cultura, la difesa dello Stato non è mai stata espressione di orgoglio nazionale e di cura per mantenerne l’efficienza, come accade in Francia o Regno Unito. È un atteggiamento che risale agli anni della Guerra fredda, dove chi parteggiava per l’Est faceva di tutto per mettere in cattiva luce le forze armate, in quanto parte dell’Alleanza atlantica. È un retaggio che purtroppo ci portiamo dietro, e che tra i 5 Stelle ha trovato alimento».

Che ne pensa della capacità di governo grillina?

«Ho ascoltato sia dichiarazioni pubbliche che discorsi fatti in ambienti ristretti, dove veniva messo in discussione persino il concetto di gerarchia militare. Cosa che nella Difesa è ovviamente un principio fondamentale. I rischi che tale mestiere comporta si possono affrontare con serenità solo se c’è una chiara linea di comando e altrettanta assunzione di responsabilità. Se si mette in discussione questa «catena» - cosa che mi è sembrato di percepire con molta chiarezza dagli esponenti del passato governo - si mettono a rischio le forze armate e il Paese stesso».

Al vertice del ministero preferirebbe un generale?

«In linea di principionon ho alcuna obiezione. Storicamente però il miglior ministro della Difesa è stato per me Beniamino Andreatta, dunque un civile. Quando abbiamo avuto dei militari, vedi Domenico Corcione e Giampaolo Di Paola, nel primo caso non se ne è accorto nessuno. Mentre Di Paola, anche se molto bravo, ha preso decisioni che non ho affatto condiviso. La verità è, però, che bisognerebbe modificare per legge - e non serve cambiare la Costituzione - il mandato del consiglio supremo di Difesa, che oggi è organo di consulenza ma che per me dovrebbe diventare un organo decisionale. Nel passato troppe volte ho visto riunioni del consiglio in cui si dicevano certe cose e, appena finito, ognuno tornava a fare i fatti suoi. Ricordo che Giulio Tremonti non voleva avere alcuna influenza sulla sua gestione, anche dal punto di vista finanziario, perché lo considerava solo una simpatica presa di coscienza di opinioni altrui».  

Vittorio Zincone per “7 - Corriere della Sera” il 9 dicembre 2019. Lorenzo Fioramonti è il ministro pentastellato dell'Istruzione. Ha quarantadue anni, un corposo curriculum accademico e un insolito attivismo mediatico. Lo rivendica: «Penso che un ministro abbia anche il ruolo dell' opinion maker ». È diventato celebre perché vuole infilare lo sviluppo sostenibile nei programmi scolastici, perché sostiene di preferire le mappe del mondo ai crocifissi nelle classi e perché voleva introdurre la Sugar Tax, la cosiddetta tassa sulle merendine. Dopo qualche minuto che stiamo parlando del M5S dice: «Il Movimento ha subìto uno snaturamento dovuto a un'attenzione eccessiva ai sondaggi e al concentrarsi su alcune tematiche importanti ma non dirimenti».

Quali sarebbero queste tematiche?

«Il taglio dei parlamentari, i vitalizi...».

Le vostre battaglie di bandiera.

«Giustissime e indispensabili. Ma non costituiscono una visione di Paese. Ci si ottiene un consenso trasversale, a destra e a sinistra, poi però quando si tratta di governare, vengono al pettine i nodi creati dall'aver tenuto insieme persone con visioni opposte del Paese».

Fioramonti ha ricoperto il ruolo di viceministro ai tempi della maggioranza giallo-verde. Ora spiega: «L'anno di governo con la Lega ci ha logorati. Su molte questioni avremmo dovuto avere il coraggio di dire "no"».

Quali questioni?

«I decreti sicurezza, la legittima difesa, il caso Diciotti...».

Lei che cosa ci sta a fare in un M5S snaturato, logorato e con poco coraggio?

«Cerco di portare avanti i contenuti e la filosofia primordiale del Movimento, che nacque progressista e ambientalista. Se questa filosofia dovesse venire a mancare, faremo dei ragionamenti».

Una scissione? La creazione di un'altra creatura politica?

«Intanto provo a far ragionare il Movimento di cui faccio parte, poi si vedrà».

Alcuni retroscena la indicano come leader alternativo a Luigi Di Maio.

«Non ho questa ambizione. Ma secondo me il M5S, oltre a una carenza di visione del Paese, ha anche un problema di organizzazione interna. C'è un bellissimo studio degli anni Settanta di Jo Freeman che si chiama La tirannia dell'assenza di struttura: spiega che nei movimenti che si dicono fluidi, in cui si racconta che tutti partecipano e però c'è un solo leader, in realtà a decidere sarà solo il leader e chi gli sta intorno».

Sembra descrivere proprio il M5S.

«Oggi servirebbe una struttura. Serve un radicamento sul territorio e idee chiare di partecipazione non solo digitale. Mi chiedo: che relazione c'è tra noi e un'azienda privata che non si capisce a quale titolo gestisce parte delle nostre risorse e che si inserisce nell'agenda politica?».

Boom. Si riferisce alla Casaleggio Associati?

«Va benissimo un server provider che ci fa il sito web, ma questa situazione dimostra che il problema più che la leadership, è l'organizzazione del Movimento».

Lei come si è avvicinato al M5S?

«Attraverso i meet up bolognesi ai tempi dei primi V-day. Poi un paio di anni fa, Giorgio Sorial, ex parlamentare Cinque Stelle, che aveva letto il mio libro Presi per il Pil, mi ha invitato a presentarlo a Montecitorio».

Nel suo profilo Facebook sono stati trovati insulti del 2013 contro Daniela Santanchè e altri personaggi pubblici. Roba da haters grillini.

«Non ero un attivista Cinque Stelle, ma un semplice cittadino. È passato molto tempo e, in ogni caso, non vado fiero dei toni. Ho già chiesto scusa in pubblico e in privato».

Ha tuttora un buon rapporto con Beppe Grillo?

«Sono sempre stato un suo fan e lo considero un grande visionario. Ci siamo sentiti al telefono qualche giorno fa. Si voleva complimentare per la proposta di introdurre lo sviluppo sostenibile tra le materie di studio. Quando Grillo ha capito che ero un po' frustrato per come vengo trattato, mi ha rassicurato: "Non ti preoccupare. È il problema di noi elevati". Solo in Italia un provvedimento sulla didattica ecologista è considerato folkloristico».

Quando comincio a citare i commenti ironici dei suoi detrattori il ministro si sfoga: «Greta Thunberg ha fatto un tweet per complimentarsi con me. Ho ricevuto l'endorsement di Bernie Sanders. Grazie a questa proposta sono stato invitato alla conferenza dell'Onu sui cambiamenti climatici COP25 di Madrid. E il settimanale tedesco Sternha scritto: "Ecco perché la Germania ha bisogno di un ministro così". L'economia ecologica nel mondo è mainstream ed è candidata al Nobel, qui è ridotta a macchietta, con un ambientalismo spesso ancillare. Se è vero che siamo entrati nella sesta estinzione di massa, questi dovrebbero essere argomenti centrali in ogni decisione politica».

Lei ha proposto la tassa sulle merendine.

«Ho proposto la Sugar Tax. Il Green New Deal deve passare attraverso un fisco intelligente, altrimenti è fuffa. Ho seguito un principio elementare: rimodulare l'Iva aumentandola sui prodotti dannosi per la salute e per l'ambiente e diminuendola su altri prodotti. Più alta quella sulle bevande zuccherine e sui voli aerei, più bassa quella sui pannolini. E lo sa perché è saltata quest'idea di rimodulazione green del fisco?».

Perché?

«Perché Renzi si è opposto e Di Maio, invece di dire "Renzi non capisce nulla", gli è andato dietro. Avremmo dovuto tenere la barra dritta».

Lei quanto è ambientalista?

«Quando vivevo a Pretoria avevo una casa completamente ecosostenibile: riciclavo l'acqua piovana e la usavo per irrigare l'orto, l'energia veniva dai pannelli solari. Mia moglie oltre che vegana è anche un'attivista plastic free ».

Sua moglie Janine, tedesca.

«È bilingue, tedesco e spagnolo».

È vero che discutete in inglese?

«Viene spontaneo. Ma io parlo in inglese anche con i miei figli, Damiano che ha nove anni e Lukas che ne ha cinque».

Davvero? E perché?

«Ho sbagliato a dirlo? Tranquillizzo tutti: ho sempre parlato loro in italiano. Quando ho visto che lo sapevano bene, visto che con la madre parlano spagnolo, ho preferito tenere in allenamento l'inglese».

Le hanno rinfacciato di mandarli nelle scuole private, invece che nelle pubbliche.

«Frequentano da sempre scuole internazionali, in giro per il mondo. E ormai la loro continuità didattica e curriculare è legata a quel percorso. Ora comunque vivono in Germania. Con Janine, che deve seguire un po' i suoi anziani genitori, abbiamo deciso di tenerli lontani dai casini della nostra politica. Li raggiungo appena posso».

È per questo che, come ha raccontato durante la trasmissione Otto e mezzo, le capita di dormire spesso sul divano nella sua stanza ministeriale?

«Sì. A volte è più comodo che raggiungere casa, che si trova ai Castelli».

Perché, invece di usare un'abitazione romana che spetta a ogni ministro, ha una casa a sud-est della Capitale?

«Mio padre vive a Zagarolo e i miei fratelli a Frascati. Io sono collocato in quella zona. Sono cresciuto a Tor Bella Monaca».

Quartiere della zona sud-est di Roma, appunto. Mi racconti la sua infanzia.

«Papà era medico di pronto soccorso, mamma insegnava alle medie. Un'infanzia nella norma».

Miti giovanili?

«Poca roba. Giocavo a pallamano, allo Scientifico ero rappresentante d'istituto e scrivevo per il giornalino della scuola La finestra sul cortile».

A vent'anni flirtava con l'IdV di Antonio Di Pietro.

«Sì, durante gli anni dell'Università a Tor Vergata».

Master a Siena e dottorato a Fiesole.

«In mezzo il servizio civile internazionale a Gand, in Belgio».

A Gand?

«Non ero mai uscito dall'Italia. Mi sembrava un buon modo per andare all'estero. Finii in una Ong ambientalista: sgobbavo nel loro bed and breakfast. La sera piangevo, chiamavo mia madre... non pensavo che sarebbe stata così dura».

Il suo curriculum la vede rimbalzare da Londra all'Università di Pretoria, in Sud Africa, passando per Heidelberg in Germania. Il momento più duro da espatriato?

«Il momento più duro in realtà l'ho vissuto a Bologna, nel 2009. Janine era incinta. Io rischiavo di diventare disoccupato per aver sfidato l'Università presentandomi al concorso contro la richiesta avanzata dallo stesso dipartimento di non mettere in imbarazzo la commissione che doveva portare avanti un altro candidato. Avevamo investito tutti i nostri risparmi per costruire un'abitazione/centro di ricerca sullo sviluppo sostenibile, ma il terreno era andato distrutto durante i lavori per la variante di valico...».

Come ne uscì?

«Con un'offerta molto ben retribuita che arrivò da un'università tedesca».

Ora è ministro dell'Istruzione. Qual è il gol che vorrebbe realizzare entro la fine del mandato?

«Portare la scuola al centro della programmazione economica del Paese. La scuola come modello di sviluppo».

Spesso, oggi, il dibattito pubblico sulle scuole, è fatto di classifiche tra istituti. Lo sa che ci sono dirigenti scolastici che dicono agli studenti «se non siete in grado di tenere il ritmo del nostro istituto vi consigliamo di abbandonare»?

«Spero che non sia vero. È un fenomeno che si chiama self-selection bias: si selezionano alla base i più bravi per dimostrare che la scuola è buona. Ma la scuola ha un senso se accoglie chiunque e lo rende competente, se riattiva un ascensore sociale che in Italia è fermo da troppo tempo».

Lei ha detto che lascerà il ministero se non ottiene un aumento della spesa per la scuola di tre miliardi di euro.

«Ci sto lavorando, milioncino dopo milioncino. E mi importa poco di che cosa accadrà a me».

Davvero se ne andrà se non ottiene fondi adeguati?

«O colgo l'occasione per portare un cambiamento oppure è davvero inutile restare al ministero a scaldare la poltrona».

Il record della Trenta. Onorificenze e premi a pioggia per i fedelissimi. Paolo Bracalini, Domenica 01/12/2019, su Il Giornale. L'ex ministro della Difesa, Elisabetta Trenta (M5s), è stata in carica meno di 15 mesi ma ha stabilito un record, quello degli «encomi solenni» che ha distribuito ai suoi fedelissimi alla Difesa. Si tratta di un riconoscimento importante, che ha un peso anche nella futura carriera (e retribuzione) dei militari a cui viene assegnato, ma che è stato distribuito con grande generosità dalla Trenta: 130 encomi in pochi mesi, «un record assoluto assicurano fonti delle Forze armate» sentite dal Foglio, che ha scoperto il caso. «Un riconoscimento che in passato è stato consegnato ai reduci di guerra, agli eroi commenta il portale Infodifesa -. Uno schiaffo ai sacrifici di quei militari che nel mondo o per strada, tutti i giorni, rischiano la vita». Quel che colpisce non è solo il numero delle onorificenze ma anche i destinatari. Tra questi, il colonnello Francesco Greco, capo Ufficio Pubblica Informazione e Comunicazione del ministero, premiato dalla Trenta con un encomio «per la preziosissima e leale collaborazione assicurata ai vertici del Dicastero». Una onorificenza che arriva il 5 settembre 2019, cioè il giorno del giuramento del nuovo ministro della Difesa Lorenzo Guerini, che finora ha mantenuto Greco in quel ruolo. Ma nei 130 encomi ci sono altri fedelissimi dell'ex ministra. «Il sergente maggiore capo Mirko Lapi, allora consigliere del ministro per l'analisi strategia e la cyber security, il tenente colonnello Cristiano Pinna, ex aiutante di campo della ministra Trenta. A loro, come ance al colonnello Toni Caporrella e allo stesso Greco, il 2 giugno scorso è stata conferita l'onorificenza di Cavaliere della Repubblica. Quella di Ufficiale, invece, è andata nello stesso giorno al colonnello Massimo Ciampi, capo ufficio personale militare e Capo affari giuridici presso il gabinetto del ministro Trenta. Tutti e sei insieme al ministero» tutti e sei premiati con onorificenze prestigiose.

Non solo, c'è un altro caso. In via Flaminia a Roma c'è l'immobile della Difesa servizi Spa. Lì vivono il colonnello Greco, il colonnello Antonello Arabia, e il tenente colonnello Toni Caporrella. «Ossia il capo ufficio pubblica informazione nominato dalla Trenta nel 2018, l'ex capo ella segreteria nonché militante storico del M5s nel secondo Municipio di Roma, e poi il consigliere per le politiche delle alleanze dell'ex ministro - scrive il Foglio - Tutti insieme al ministero, tutti insieme in una zona esclusiva dove un appartamento in affitto costa tra i 2-3mila euro al mese. Una fortunata coincidenza considerando le migliaia di ufficiali e sottufficiali che attendono per anni un alloggio di servizio». Qualcuno lo avrebbe soprannominato «condominio Trenta», e non dal numero civico.

La casa della Trenta e la vergogna dei 5 stelle. L'ex ministro della difesa occupa ancora la casa in centro a Roma che le era stata assegnata quando era ministro, come un politico da Prima Repubblica. Panorama il 19 novembre 2019. L’evoluzione è quasi completa. Cadono governi, cambiano facce, spariscono partiti, eppure - dalla Prima alla Terza Repubblica - per i politici il vizietto immobiliare non tramonta mai. L’ultima a cascarci in ordine di tempo (altri ne verranno) è Elisabetta Trenta. La fu ministra della Difesa è passata alle cronache per essere una grande ballerina di tango e ora rischia di rimanere nella Storia come la prima 5 Stelle ad aver approfittato del suo status per occupare un immobile in una zona rinomata, un appartamento di pregio di proprietà pubblica. Come si dice: servire lo Stato per servire se stessi. Per la precisione, la casa è stata formalmente assegnata al marito, il maggiore dell’Esercito Claudio Passarelli. E infatti lei precisa che “nessuna legge è stata violata”, Però per molti la faccenda puzza terribilmente di escamotage, a cominciare dai suoi colleghi pentastellati. Se Luigi Di Maio definisce la faccenda “inaccettabile”, sui social il senatore Gianluigi Paragone è ancora più severo: “Ex ministro Trenta, molli la casa!!! Che c… (omissis di Panorama). La risposta è:“Non me ne vado, ho una vita di relazioni e mi serve l'appartamento più grande!!!”. Ora, immemore delle battaglie anti-casta del M5S, come un politico qualsiasi, Trenta rifiuta di andarsene. Evidentemente la storia non ha insegnato nulla. Gli italiani ai politici perdonano quasi tutto ma difficilmente dimenticano le speculazioni immobiliari, vere o presunte. Negli anni ci hanno lasciato le penne politiche in tanti, leader e semi-leader che hanno visto distrutta o rallentata la loro carriera: Gianfranco Fini, Claudio Scajola, Walter Veltroni, Ciriaco De Mita, Luciano Violante, Nicola Mancino e altri ancora, tutti però rimasti al loro posto, anche dopo le varie Affittopoli e Svendopoli. L’unico che ribaltò la situazione fu Massimo D’Alema, che mollò la casa pubblica ad affitto agevolato e ne comprò privatamente una, nel quartiere Prati di Roma. Una scelta tempestiva, che rafforzò la sua leadership nella sinistra e lo portò successivamente a guidarla anche a Palazzo Chigi, da premier. Oggettivamente, è difficile pensare a Elisabetta Trenta come novella D’Alema. Più facile immaginarla tra stucchi e tendaggi, seduta a bere un tè nel salotto di casa, mentre si affaccia su uno dei quartieri più belli di Roma e chiacchiera amabilmente con suo marito sulla loro vita a 5 Stelle, come il movimento che l’ha rilanciata in politica dopo che nei primi anni del Duemila era stata assessora di una giunta di centrodestra a Velletri, sui Castelli Romani. Ne ha fatta di strada Elisabetta. D’altronde da cosa nasce cosa. Anzi, da casa nasce casa. Nuova. 

Il tic moralista grillino Di Maio scarica la prof ma assume gli amici. Il leader M5s alla Trenta: "Lasci la casa". Ma riempie i ministeri di compagni di scuola. Domenico Di Sanzo, Martedì 19/11/2019, su Il Giornale. Via da quella casa. Il capo politico del M5s lo ha ripetuto anche ieri, nonostante la telefonata dell'ex ministro della Difesa in cui Elisabetta Trenta ha spiegato al leader grillino «che tutto è stato fatto correttamente». Luigi Di Maio ha consegnato l'avviso di sfratto in mattinata, dai microfoni di Rtl 102.5: «La ministra Trenta ha smesso di fare la ministra circa due mesi fa, aveva tre mesi per lasciare quella casa ed è bene che la lasci. Poi se il marito ufficiale dell'Esercito ha diritto all'alloggio può fare una domanda e sono sicuro che ne avrà diritto, quindi potrà accedere all'alloggio come tutti gli altri ufficiali dell'Esercito». L'ex vicepremier ha proseguito il ragionamento, discettando sulla presunta superiorità morale dei Cinque Stelle: «Questa cosa fa arrabbiare i cittadini e fa arrabbiare anche noi - ha aggiunto Di Maio senza mezzi termini - perché siamo sempre quelli che si tagliano gli stipendi, da ministro continuo a tagliarmi lo stipendio, come fanno tutti gli altri sottosegretari e parlamentari del Movimento». Un atteggiamento diverso rispetto ad altri casi in cui esponenti pentastellati si sono trovati in imbarazzo. Nella maggior parte delle situazioni Di Maio ha cercato di difendere i suoi uomini. Oppure si è chiuso in un silenzio altrettanto imbarazzato come nella vicenda dei gravi insulti sui social del ministro dell'Istruzione Lorenzo Fioramonti rivelati il mese scorso dal Giornale. Pazienza se, a taccuini chiusi, qualche parlamentare del M5s ieri mugugnava sul metodo di scelta del capo politico, che ha cooptato ministri, deputati e senatori dalla «società civile», digiuni di militanza grillina come la Trenta. Di Maio ora è deciso a sfrattare l'ex ministro. E anche se si tratta di fattispecie diverse, tanta durezza stride con alcune cose fatte dal leader da quando ha occupato le poltrone del governo. Una su tutte: le nomine. Nella settimana appena trascorsa il Giornale si è occupato dei super stipendi degli uomini di fiducia del capo politico alla Farnesina. Una spesa pubblica pari a 700mila euro all'anno. E fonti del ministero degli Esteri giurano che nessuno aveva mai osato spendere così tanto. Forse solo il ministro socialista Gianni De Michelis a cavallo tra gli anni '80 e '90. L'elenco dei fedelissimi alla Farnesina è abbastanza lungo. C'è il comunicatore Augusto Rubei (140mila euro), l'ex dipendente della Casaleggio Associati Pietro Dettori (120mila euro), l'addetta stampa Sara Mangieri (90mila euro), il social media manager Daniele Caporale (80mila euro), già con Di Maio a Palazzo Chigi. La lista prosegue con Alessio Festa che guadagna 11mila e 580 euro per seguire le relazioni istituzionali del ministro. Anche lui, come gli altri, vecchia conoscenza del capo politico, avendolo seguito prima alla vicepresidenza della Camera e poi a Chigi. Dal Mise invece Di Maio si è portato Cristina Belotti, adesso Capo segreteria alla Farnesina per un compenso annuo di 120mila euro. In «quota Pomigliano» c'è Carmine America, ex compagno di liceo di Di Maio, nominato come esperto di sicurezza, difesa e questioni internazionali a 80mila euro annui. Infine, tra i comunicatori abbiamo Giuseppe Marici, traslocato dall'ufficio stampa del M5s alla Camera, che percepisce 70mila euro l'anno. A questi otto vanno aggiunti altri sette fedelissimi. Rimasti a presidiare i vecchi ministeri di Di Maio, lo Sviluppo Economico e il Lavoro. Non sono pubblicati i compensi di tutti loro, ma molti sono campani, quindi conterranei dell'ex vicepremier. Come Assia Montanino, Daniel De Vito (149mila euro), Enrico Esposito (150mila euro), Luigi Falco (100mila euro). Intanto dal M5s sono piovute critiche nei confronti della Trenta. Il senatore Gianluigi Paragone, il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano e il sottosegretario alla Difesa Angelo Tofalo hanno chiesto all'ex ministro di lasciare l'abitazione di servizio. E ci è andato giù duro il Blog delle Stelle: «I nostri valori sono incompatibili con l'intenzione di mantenere l'appartamento, sono valori intoccabili e li facciamo rispettare». 

Di Maio, Taverna, Dessì... Il vizietto immobiliare dei 5s. Quella della Trenta è solo l'ultima furbata dei grillini alle prese con l'alloggio. Quando il capo cambiò casa. Domenico Di Sanzo, Martedì 19/11/2019, su il Giornale. Tutti a casa. E non è una metafora grillina contro la «casta» della politica. Perché il caso che ha coinvolto l'ex ministro della Difesa Elisabetta Trenta, che ha mantenuto l'abitazione di servizio ora assegnata al marito militare, non è l'unico che ha visto esponenti del M5s alle prese con vicende imbarazzanti collegate ai beni immobili. Ad esempio, a febbraio del 2018 aveva fatto discutere il cambio di domicilio del capo politico del Movimento, che di lì a poco sarebbe diventato ministro per la prima volta. Dopo aver abitato per anni a Trastevere, a ridosso delle elezioni politiche dell'anno scorso Luigi Di Maio decise di trasferirsi in una zona davvero prestigiosa. Da casta. In via del Colosseo, con vista esclusiva sui Fori Imperiali. Allo stesso indirizzo era indicata la sede del «legale rappresentante» del comitato pentastellato per le elezioni politiche del 2018, così come era scritto nel modulo per le donazioni al di sopra dei 5 mila euro scaricabile dal Blog delle Stelle. Tre anni prima, nel 2015, c'era stata la polemica sulle case dello Staff comunicazione del M5s al Senato pagate con i soldi del gruppo destinati a «scopi istituzionali». Ben 160mila euro spesi nel 2014 per pagare l'affitto ai comunicatori, alcuni spediti a Roma direttamente da Casaleggio. Tra di loro Rocco Casalino, attuale portavoce del premier Giuseppe Conte, che si era sistemato in un appartamento in via di Torre Argentina insieme a un collega, a due passi dal Pantheon. Per un esborso di denaro del gruppo di Palazzo Madama pari a 40mila euro in un anno. Ma non c'era solo Casalino. Tutti gli spin doctor grillini erano domiciliati in una zona centralissima e costosa, compresa tra il Pantheon e Via Giulia. Claudio Messora, altro comunicatore poi traslocato all'Europarlamento e in seguito entrato in polemica con il M5s, a Roma abitava in una casa nei pressi di Piazza Navona, per un canone di affitto di 1.600 euro al mese. Passando dagli appartamenti di lusso alle case popolari, come non menzionare l'abitazione della madre della vicepresidente del Senato Paola Taverna. Siamo al Quarticciolo, periferia della Capitale. La storia comincia alla fine del 2017, quando l'Ater del Lazio stabilisce che la signora ottantenne ha perso il diritto a occupare la casa popolare con canone di affitto agevolato. Perché? La famiglia, secondo gli uffici capitolini, è proprietaria di più di un immobile, tra cui uno sempre a Roma, nella borgata di Torre Angela. A ottobre del 2018 arriva l'avviso di sfratto. La pasionaria grillina protesta parlando di «accanimento». Ma, dopo ricorsi e carte bollate, la parola fine sulla vicenda arriva a gennaio di quest'anno: il Tribunale civile di Roma rigetta il ricorso della madre della Taverna e ribadisce che la signora Graziella Bartolucci non possiede più i requisiti per abitare in quella casa. La vicepresidente del Senato chiosa: «Sono così pulita che non trovano nulla su cui attaccarmi se non i miei affetti». Anche il senatore Emanuele Dessì, con tutte le differenze tra i due casi, è scivolato sull'edilizia popolare. La grana scoppia a febbraio 2018. Si scopre che il candidato a Palazzo Madama nel collegio plurinominale di Latina abita in una casa popolare a Frascati pagando 7,75 euro al mese di affitto, che fanno 93 euro all'anno. Lui si difende: «Non guadagno con il mio lavoro, non ho reddito, sono povero, non ho conto, non ho auto». Le cifre erano molto più alte per passare le vacanze nella villa di Beppe Grillo, a Marina di Bibbona in provincia di Livorno. Il fondatore di un Movimento ispirato al francescanesimo, nell'estate del 2013 finisce sui giornali non a causa della sua attività politica, ma per la decisione di affittare ai turisti la sua villa Corallina, in Toscana. L'annuncio compare sul sito dell'agenzia Emma Villas. In cui si possono trovare tutti i dettagli sulla lussuosa magione del comico, all'epoca in prima linea nella gestione del M5s. Due piani, otto camere da letto, sette bagni, cinque ettari di proprietà, parco suggestivo, piscina d'ordinanza. Il tutto a un costo faraonico compreso tra i 13mila e i 14mila euro a settimana.

Domenico Di Sanzo per “il Giornale” il 18 novembre 2019. Tutti a casa. E non è una metafora grillina contro la «casta» della politica. Perché il caso che ha coinvolto l' ex ministro della Difesa Elisabetta Trenta, che ha mantenuto l' abitazione di servizio ora assegnata al marito militare, non è l' unico che ha visto esponenti del M5s alle prese con vicende imbarazzanti collegate ai beni immobili. Ad esempio, a febbraio del 2018 aveva fatto discutere il cambio di domicilio del capo politico del Movimento, che di lì a poco sarebbe diventato ministro per la prima volta. Dopo aver abitato per anni a Trastevere, a ridosso delle elezioni politiche dell' anno scorso Luigi Di Maio decise di trasferirsi in una zona davvero prestigiosa. Da casta. In via del Colosseo, con vista esclusiva sui Fori Imperiali. Allo stesso indirizzo era indicata la sede del «legale rappresentante» del comitato pentastellato per le elezioni politiche del 2018, così come era scritto nel modulo per le donazioni al di sopra dei 5 mila euro scaricabile dal Blog delle Stelle. Tre anni prima, nel 2015, c' era stata la polemica sulle case dello Staff comunicazione del M5s al Senato pagate con i soldi del gruppo destinati a «scopi istituzionali». Ben 160mila euro spesi nel 2014 per pagare l'affitto ai comunicatori, alcuni spediti a Roma direttamente da Casaleggio. Tra di loro Rocco Casalino, attuale portavoce del premier Giuseppe Conte, che si era sistemato in un appartamento in via di Torre Argentina insieme a un collega, a due passi dal Pantheon. Per un esborso di denaro del gruppo di Palazzo Madama pari a 40mila euro in un anno. Ma non c' era solo Casalino. Tutti gli spin doctor grillini erano domiciliati in una zona centralissima e costosa, compresa tra il Pantheon e Via Giulia. Claudio Messora, altro comunicatore poi traslocato all'Europarlamento e in seguito entrato in polemica con il M5s, a Roma abitava in una casa nei pressi di Piazza Navona, per un canone di affitto di 1.600 euro al mese. Passando dagli appartamenti di lusso alle case popolari, come non menzionare l' abitazione della madre della vicepresidente del Senato Paola Taverna. Siamo al Quarticciolo, periferia della Capitale. La storia comincia alla fine del 2017, quando l'Ater del Lazio stabilisce che la signora ottantenne ha perso il diritto a occupare la casa popolare con canone di affitto agevolato. Perché? La famiglia, secondo gli uffici capitolini, è proprietaria di più di un immobile, tra cui uno sempre a Roma, nella borgata di Torre Angela. A ottobre del 2018 arriva l' avviso di sfratto. La pasionaria grillina protesta parlando di «accanimento». Ma, dopo ricorsi e carte bollate, la parola fine sulla vicenda arriva a gennaio di quest' anno: il Tribunale civile di Roma rigetta il ricorso della madre della Taverna e ribadisce che la signora Graziella Bartolucci non possiede più i requisiti per abitare in quella casa. La vicepresidente del Senato chiosa: «Sono così pulita che non trovano nulla su cui attaccarmi se non i miei affetti». Anche il senatore Emanuele Dessì, con tutte le differenze tra i due casi, è scivolato sull'edilizia popolare. La grana scoppia a febbraio 2018. Si scopre che il candidato a Palazzo Madama nel collegio plurinominale di Latina abita in una casa popolare a Frascati pagando 7,75 euro al mese di affitto, che fanno 93 euro all' anno. Lui si difende: «Non guadagno con il mio lavoro, non ho reddito, sono povero, non ho conto, non ho auto». Le cifre erano molto più alte per passare le vacanze nella villa di Beppe Grillo, a Marina di Bibbona in provincia di Livorno. Il fondatore di un Movimento ispirato al francescanesimo, nell' estate del 2013 finisce sui giornali non a causa della sua attività politica, ma per la decisione di affittare ai turisti la sua villa Corallina, in Toscana. L'annuncio compare sul sito dell' agenzia Emma Villas. In cui si possono trovare tutti i dettagli sulla lussuosa magione del comico, all' epoca in prima linea nella gestione del M5s. Due piani, otto camere da letto, sette bagni, cinque ettari di proprietà, parco suggestivo, piscina d'ordinanza. Il tutto a un costo faraonico compreso tra i 13mila e i 14mila euro a settimana. 

 Luca Fazzo per “il Giornale” il 16 novembre 2019. Era proprio una love story, quella tra i servizi segreti e la Link Campus, l' università romana fucina dei politici del Movimento 5 Stelle finita al centro dello scandalo del Russiagate. Dopo le rivelazioni sul ruolo nel complotto anti-Trump del professor Jospeh Mifsud, ormai irreperibile da tempo, ora salta fuori un dettaglio che riguarda la più nota tra gli esponenti grillini formatisi nell' ateneo fondato dall' ex ministro degli Interni Vincenzo Scotti. Si tratta di Elisabetta Trenta, laureata alla Link e nominata ministro della Difesa nel governo Conte 1. Che la Trenta avesse contatti nel mondo dell' intelligence per via familiare era noto: suo marito è un ufficiale dell' esercito che ha lavorato a lungo alle dipendente del generale Giovanni Caravelli, attualmente vicedirettore dell'Aise (l' ex Sismi). Ma evidentemente alla Trenta non bastava: voleva per se stessa un futuro da agente segreto in prima persona. Un atto interno all' Aise, che il Giornale ha a sua disposizione e di cui ha verificato l'autenticità, racconta che Elisabetta Trenta fece domanda di assunzione all' Aise all' epoca in cui gli 007 esteri erano guidati dal generale Alberto Manenti. La Trenta riuscì a fare prendere in esame la sua candidatura, superò il primo scoglio e quando era a un passo dall' arruolamento si scontrò sull' ostacolo più banale, il colloquio psico-attitudinale. Si tratta dell' esame cui tutte le aspiranti spie devono sottoporsi anche nel caso (come quello della Trenta) che non siano destinate ad attività operative sul campo o a infiltrazioni. Si tratta di verificare parlando con psicologi e psichiatri se i candidati abbiano la solidità caratteriale per reggere una professione comunque complessa. E la Trenta viene bocciata. I documenti dell' Aise dicono che alla dottoressa fu offerta a quel punto una sorta di premio di consolazione: l'assunzione come «articolo 7». L'articolo prevede una assunzione a tempo, per seguire progetti specifici alle dipendenze dirette del capo dell'agenzia. Quando il direttore cambia, gli «articoli 7» cessano automaticamente il servizio. E questo spiega perché la Trenta declina l'offerta: il suo referente sarebbe stato Manenti, il cui mandato alla testa dell'Aise era in scadenza. Appena il tempo di cominciare, e sarebbe rimasta a casa. L'esponente grillina, d'altronde, da lì a pochi mesi si consolò a livelli ben più alti, venendo designata a ministro della Difesa, e incamerando in questo modo rapporti con i servizi segreti ben più solidi di quelli che avrebbe avuto come semplice agente a tempo determinato. Certo, può apparire singolare che un soggetto che non ha superato l'esame psichico per una posizione di basso livello venga scelto come ministro della Difesa: ma per i membri del governo non sono previste visite attitudinali. Da notare c' è che nella nuova veste, il ministro Trenta utilizza e rinsalda i rapporti che aveva già nella sua vita precedente: sia con Caravelli, l' ex superiore gerarchico di suo marito, sia con l' altro vicedirettore dell' Aise nominato dal premier Giuseppe Conte (prima versione, governo gialloverde) ovvero il generale della Finanza Giuseppe Caputo. I rapporti della Trenta con Caravelli e Caputo sono di pubblico dominio. E non si sfilacciano neanche quando nel maggio scorso l'Espresso accusa Caputo di essere tra i responsabili dell' acquisto di un software di spionaggio chiamato Exodus, che la Procura di Roma considera in realtà un pericoloso malware. In estate il governo Conte 1 cade, e nel nuovo gabinetto la Trenta non viene confermata. Ma la storia della sua domanda di assunzione all' Aise rinfocola inevitabilmente gli interrogativi sul ruolo effettivo giocato dalla Link Campus nelle attività di intelligence del nostro governo. A partire dal ruolo di Alberto Manenti, che era a capo del' Aise quando i servizi americani chiesero l' aiuto italiano per frenare la corsa alla presidenza di Donald Trump, e che nei giorni scorsi La Verità ha indicato come il suggeritore della scomparsa di Mifsud. E che, nonostante sia in pensione, ha incontrato il capo della Cia in occasione della sua ultima visita a Roma.

 Sergio Rame per ilgiornale.it il 17 novembre 2019. "Chiarisca al più presto". Dopo le inchieste del Giornale e del Corriere della Sera il Movimento 5 Stelle e il Partito democratico pungolano l'ex titolare della Difesa Elisabetta Trenta. Ieri Luca Fazzo ha svelato la domanda di assunzione nei servizi segreti stoppata perché non era riuscita a passare i colloqui psico-attitudinali. Oggi Fiorenza Sarzanini ha, invece, rivelato che, una volta conclusa l'esperienza con il primo governo Conte, si è tenuta l'appartamento nel centro di Roma che da "ministra" aveva ottenuto come "alloggio di servizio". Lei si schermisce dalle inchieste dicendo che "il Paese non è al sicuro se escono certe notizie" e che aveva il diritto di rimanere in quella casa, ma in parlamento fioccano già le interrogazioni urgenti per farla venire a chiarire al più presto. "Da ministro ho chiesto l'alloggio di servizio perché più vicino alla sede lavorativa, nonché per opportune esigenze di sicurezza e riservatezza. L'alloggio è stato assegnato ad aprire 2019, seguendo l'opportuna e necessaria procedura amministrativa, esitata con un provvedimento formale di assegnazione da parte del competente ufficio". La Trenta usa la propria bacheca di Facebook per ribattere all'inchiesta del Corriere della Sera che ha acceso i riflettori sull'appartamento ottenuto dopo essere arrivata al ministero della Difesa. Al governo con Giuseppe Conte era stata portata dai Cinque Stelle. Ma adesso Luigi Di Maio è già corso a scaricarla: "Tengo a sottolineare che il M5s non ne sapeva niente". Anche lui, come tutti i partiti che siedono in parlamento, vuole un chiarimento "il prima possibile". "Vedremo cosa ha da dire - ha detto il capo politico grillino - ovviamente lei non è più nostro ministro". Dal canto suo la Trenta assicura che, da quando ha lasciato il ministero della Difesa, ha per regolamento tre mesi di tempo per poter lasciare l'appartamento. "Il termine ancora non è scaduto", ha commentato ricordando che la scadenza è il prossimo 5 dicembre e che questo temporeggiamento è stato dettato solo "per evitare ulteriori aggravi economici sull'amministrazione". "Come è noto - ha poi spiegato - mio marito è ufficiale dell'Esercito Italiano con il grado di maggiore e svolge attualmente un incarico di prima fascia, incarico per il quale è prevista l'assegnazione di un alloggio del medesimo livello di quello che era stato a me assegnato". Il suo chiarimento non ha, tuttavia, convinto nessuno. Tanto che non c'è soltanto Di Maio a chiedere all'ex titolare della Difesa ulteriori spiegazioni. Il presidente dei senatori piddì, Andrea Marcucci, ha già preannunciato una interrogazione urgente del gruppo. "Se le indiscrezioni risultassero vere - ha tuonato l'esponente dem - saremmo di fronte ad un comportamento molto grave, anche perché coinvolgerebbe una esponente di primissimo livello del Movimento 5 Stelle". Anche per il senatore di Forza Italia, Maurizio Grasparri, il caso della Trenta ricade sui Cinque Stelle, "moralisti un tanto a chilo" che ancora una volta si dimostrano "bugiardi e ipocriti". "Non bastava Di Maio che riempie i tanti ministeri, dove immeritatamente approda, di amici e sodali strapagati con soldi dei cittadini - ha commentato - non bastava il viceministro Cancelleri che si è fatto accompagnare da sorella e cognato, manco fosse Fini, a un incontro legato alla sua funzione". E, nel ricordare che l'ex titolare della Difesa ha un'altra casa a Roma, ha chiesto all'attuale ministro Lorenzo Guerini di indagare al più presto su quanto accaduto e di far sapere agli italiani "quale canone ha pagato la Trenta quando era ministro e quanto paga il maggiore marito". In commissione Difesa i parlamentari di Fratelli d'Italia Salvatore Deidda, Wanda Ferro e Davide Galantino si stanno già occupando da tempo delle assegnazioni degli alloggi per i militari. Un problema serio su cui sono già state presentate interrogazioni e risoluzioni. "La vicenda (della Trenta, ndr) è ancor più grave se si pensa alle odiose campagne del Movimento 5 Stelle contro i presunti privilegi. Privilegi che, a quanto pare, sono invece 'di casà per gli stessi grillini", hanno chiosato i tre.

Dall’account facebook di Elisabetta Trenta il 17 novembre 2019: "Gentilissima dottoressa Sarzanini, con meraviglia ho letto l’articolo di questa mattina. Ciò che non mi spiego è perché una giornalista seria come lei, l’ho sempre rispettata, prima di scrivere non senta la fonte principale. Comunque sapevo che ieri aveva chiesto il mio numero ed io ho autorizzato a fornirglielo, ma ha scritto prima di ascoltarmi. Non importa. Le spiego lo stesso. Da ministro ho chiesto l’alloggio di servizio perché più vicino alla sede lavorativa, nonché per opportune esigenze di sicurezza e riservatezza. L’alloggio è stato assegnato ad aprire 2019, seguendo l’opportuna e necessaria procedura amministrativa, esitata con un provvedimento formale di assegnazione da parte del competente ufficio. Quando ho lasciato l’incarico, avrei avuto, secondo regolamento, tre mesi di tempo per poter lasciare l’appartamento; termine ancora non scaduto (scadenza tre mesi dal giuramento del nuovo governo, vale a dire 5 dicembre 2019). Come è noto, mio marito è ufficiale dell’Esercito Italiano con il grado di maggiore e svolge attualmente un incarico di prima fascia, incarico per il quale è prevista l’assegnazione di un alloggio del medesimo livello di quello che era stato a me assegnato (infatti a me non era stato concesso un alloggio ASIR - cosiddetto di rappresentanza - ma un alloggio ASI di prima fascia. Pertanto, avendo mio marito richiesto un alloggio di servizio, per evitare ulteriori aggravi economici sull’amministrazione (a cui competono le spese di trasloco, etc.), è stato riassegnato lo stesso precedentemente concesso a me, previa richiesta e secondo la medesima procedura di cui sopra. Tanto per doverosa informazione. Le sarei grata se volesse pubblicare questa mia. Grazie Cordiali saluti Questa è la lettera da me inviata alla giornalista, strumento di qualcuno che da due giorni mi attacca. Mi chiedo il perché ma intanto credo che sia giusto chiarire. Buona domenica a tutti!

«Non me ne vado. Ho una vita di relazioni, l’appartamento grande adesso mi serve». Pubblicato domenica, 17 novembre 2019 su Corriere.it da Fiorenza Sarzanini. «Mio marito militare? È stato solo svantaggiato». «Sono molto arrabbiata. Questa storia mi porterà dei danni. È evidente che ormai sono sotto attacco». Elisabetta Trenta risponde al cellulare alle 9,30 di domenica mattina mentre prepara il post da pubblicare su Facebook. «Devo chiarire, è tutto regolare».

Vuol dire che rimarrà nell’alloggio che aveva da ministra?

«Ormai la casa è stata assegnata a mio marito e in maniera regolare. Per quale motivo dovrebbe lasciarla?».

E crede sia giusto tenerla?

«Mi faccia spiegare. Non ho chiesto subito l’alloggio pur avendone diritto, ma soltanto nell’aprile scorso. Ho resistito il più possibile nel mio. Un ministro durante la sua attività ha necessità di parlare con le persone in maniera riservata e dunque ha bisogno di un posto sicuro».

Lei ha una casa al quartiere Pigneto di Roma. Non poteva rimanere lì, sia pur con misure di protezione adeguate?

«No, c’erano problemi di controllo e di sicurezza. In quella zona si spaccia droga e la strada non ha vie d’uscita. E poi io avevo bisogno di un posto dove incontrare le persone, di un alloggio grande. Era necessaria riservatezza».

Ma ora non è più ministra.

«Ho l’atto di cessazione dell’esercito a me e ho tre mesi per andare via. Intanto mio marito ha fatto richiesta perché è aiutante di campo di un generale e per il suo ruolo può avere quell’appartamento».

Scusi ma se era così semplice e regolare, perché avete deciso di farlo solo adesso?

«Quando sono diventata ministra, mio marito è stato demansionato. Ora ha di nuovo i requisiti. E comunque noi prima facevamo una vita completamente diversa. Dopo la vita del marito ha seguito quella della moglie. Se vivevamo in due uno sull’altro poteva andare bene, poi le condizioni sono cambiate. E anche adesso continuo ad avere una vita diversa».

Che vuol dire?

«È una vita di relazioni, di incontri». Però avete una casa di proprietà e questo vi impedisce di poter usufruire dell’alloggio di servizio. «In realtà mio marito ha la residenza nella sua città dove ha una casa, ma ha diritto ad avere l’alloggio dove lavora. Invece l’appartamento di Roma al quartiere Pigneto è intestato soltanto a me. Finora è rimasto vuoto, non l’ho affittato. Continuo a pagare il mutuo e sono nella legalità e per questo non capisco gli attacchi. Crede davvero che se non fosse stato tutto in regola lo Stato maggiore avrebbe dato il via libera?».

Lei è stata ministra. Non ritiene che fosse difficile dire di no a suo marito?

«Potevano farlo. E comunque se avessi lasciato quell’alloggio di servizio per trasferirmi in un altro avrei dovuto fare un doppio trasloco visto che quello di mio marito era a carico dello Stato. Invece così lo Stato ha risparmiato».

Al momento della sua nomina lei aveva assicurato che suo marito sarebbe stato trasferito ad altro incarico. Come mai non è successo?

«L’avevo spostato e adesso è tornato a fare quello che faceva. Non è giusto che lui paghi le conseguenze del mio incarico. Posso assicurare che da questa mia nomina è stato solo svantaggiato: è andato in un altro ufficio per motivi di opportunità perché ero convinta fosse giusto. Quando ho cessato l’incarico è stato reintegrato».

Lei è stata nominata in quota 5 Stelle e il Movimento ha sempre dichiarato guerra ai privilegi.

«Non credo proprio che si tratti di un privilegio perché io l’appartamento lo pago e lo pago pure abbastanza».

Molti militari lamentano di non aver ottenuto l’alloggio pur avendo i requisiti.

«Durante il mio mandato io mi sono occupata delle esigenze di tutti i militari. E infatti è sempre stato detto e scritto che i generali mi osteggiavano e la base mi difendeva. Lasci stare, qui ci sono altre ragioni. Due giorni fa è stato pubblicato un documento riservato con il mio test attitudinale per l’Aise, l’agenzia dei servizi segreti. Poi è saltata fuori la storia della casa. È evidente che sono sotto attacco».

Da parte di chi?

«Non lo so. È un attacco al presidente Conte? All’Aise, al Movimento? Alla Link Campus, dove sono tornata a lavorare?».

Nel pomeriggio Luigi Di Maio le chiede pubblicamente di lasciare la casa. Vi siete parlati?

«Si, gli ho spiegato che tutto è stato fatto correttamente».

E quindi?

«Quando l’incarico di mio marito sarà terminato lasceremo la casa come dicono le regole».

Stefano Buffagni dice che lei non ha rispettato le regole del Movimento.

«Se mi avesse chiamato l’avrei spiegato anche a lui».

Quindi resterà nel M5S?

«Ho chiesto di essere una dei 12 facilitatori. Ci rimarrò di sicuro».  

Lo stratagemma della Trenta per tenersi la casa da ministra. L'ex titolare della Difesa resta nell'appartamento ottenuto come "alloggio di servizio" per la carica nel suo vecchio governo: era stato assegnato al marito militare. Mauro Indelicato, Domenica, 17/11/2019, su Il Giornale. Continua a suscitare polemiche il caso dell’alloggio romano assegnato, dopo la nomina a ministro della Difesa, ad Elisabetta Trenta. Il caso, venuto fuori dopo un’inchiesta de il Giornale, nei prossimi giorni potrebbe assumere anche un rilievo politico. Secondo quanto emerso, Elisabetta Trenta dopo il suo insediamento al dicastero della Difesa, all’interno del governo Conte I, ha chiesto l’assegnazione di un appartamento nella capitale. Una circostanza questa certamente ordinaria e consuetudinaria, visto che i ministri devono risiedere a Roma per poter raggiungere in qualsiasi momento sia la sede del ministero assegnato che Palazzo Chigi in caso di consiglio dei ministri. Tuttavia, come sottolineato da Il Giornale e come rimarcato anche da un articolo di Fiorenza Sarzanini de Il Corriere della Sera, per quanto riguarda il ministro Trenta si rintraccia subito una prima anomalia. Al momento del suo giuramento, avvenuto nel giugno 2018, il neo titolare della Difesa risulta già titolare di una casa, assieme al marito, nella capitale. Presidente del consiglio e presidente della Repubblica hanno appositi appartamenti all’interno delle rispettive sedi istituzionali, non è così per quanto riguarda i ministri: all’interno dei ministeri non ci sono appartamenti, i membri del governo possono chiedere sì un appartamento ma se hanno già casa a Roma di solito si decide semplicemente di rafforzare la sicurezza nel quartiere in cui si abita. Elisabetta Trenta, nonostante la sua casa nella capitale, ha deciso ugualmente di chiedere un appartamento. Ed alla fine le è stata assegnata un’abitazione all’interno di uno stabile del ministero, dove va a vivere assieme al marito. Si tratta di un appartamento di “Livello 1”, assegnabile cioè a personalità di alto livello, dunque anche ad un ministro. E se già questo risulta alquanto strano, visto che la Trenta aveva una casa a Roma, è ancora più inusuale che, nonostante dal settembre scorso non sia più un ministro, l’ex titolare della Difesa risulti ancora dentro quell’appartamento. Questo perché in realtà destinatario dell’alloggio non è Elisabetta Trenta, bensì il marito Claudio Passarelli. Quest’ultimo è maggiore dell’esercito e, al momento dell’ingresso della consorte all’interno del governo Conte I, risulta ufficiale addetto alla segreteria del vice direttore nazionale degli armamenti all'ufficio Affari generali. Ed i casi dunque potrebbero essere due: da un lato “etico”, visto che l’assegnazione fatta dalla stessa Trenta dell’alloggio al marito potrebbe apparire come un escamotage per continuare a risiedere nello stabile appartenente al ministero. Dall’altro lato però, potrebbe intervenire anche la Corte dei Conti: l’appartamento in questione, come detto, è di livello 1 ed il marito non ha una qualifica tale da giustificare l’assegnazione di un alloggio del genere. “Non è escluso che la magistratura contabile – si legge sul Corriere – sia chiamata a valutare eventuali danni erariali e quella ordinaria debba verificare la regolarità della procedura di assegnazione”. Ma il caso, come detto, potrebbe essere anche etico e politico: la Trenta è entrata nel Conte I su indicazione del Movimento Cinque Stelle, che della lotta a sprechi e privilegi per i politici ne ha sempre fatto un baluardo. E dalla base grillina c’è già chi vuol chiedere conto e ragione, anche ad alti livelli, del caso dell’appartamento in cui ancora oggi risiede l’ex ministro Trenta.

L’assegnazione? Al marito militare. Così Trenta si è tenuta la casa da ministra. Pubblicato domenica, 17 novembre 2019 su Corriere.it da Fiorenza Sarzanini. L’ex titolare della Difesa, scelta dal M5S, vive nell’appartamento nel centro di Roma che aveva ottenuto come “alloggio di servizio”. Avviate verifiche sulla procedura. Ha ottenuto l’alloggio «di servizio» poco dopo essere stata nominata ministra della Difesa. Ma in quell’appartamento in uno dei luoghi più suggestivi del centro di Roma, Elisabetta Trenta ha deciso di rimanerci anche adesso che non ha più alcun ruolo pubblico. E ci è riuscita facendolo assegnare al marito, il maggiore dell’Esercito Claudio Passarelli. Una vicenda che imbarazza il dicastero ma soprattutto il Movimento 5 Stelle che l’aveva indicata per l’esecutivo come «esperta di questioni militari» e da sempre è schierato — almeno a parole — contro i privilegi. Anche perché la concessione potrebbe essere avvenuta aggirando i regolamenti, visto che la coppia ha una casa di proprietà nella capitale e dunque non sembra avere necessità di usufruire dell’alloggio. In ogni caso il «livello 1» di dimora attribuito al momento di scegliere la casa per la ministra, è molto superiore a quello previsto per l’incarico e il grado del suo consorte. E dunque non è escluso che la magistratura contabile sia chiamata a valutare eventuali danni erariali e quella ordinaria debba verificare la regolarità della procedura di assegnazione. Senza contare che potrebbe essere il Movimento, primo fra tutti il capo politico Luigi Di Maio, a chiedere conto all’ex ministra di quanto accaduto. Si torna dunque al giugno 2018 quando Movimento 5 Stelle e Lega formano il governo guidato da Giuseppe Conte. Trenta viene scelta come responsabile della Difesa. In genere i ministri che risiedono a Roma o comunque hanno a disposizione un appartamento in città non ottengono l’alloggio di servizio. Si provvede a «blindare» la loro casa e a predisporre tutte le misure di sicurezza adeguate al ruolo mentre il trasferimento viene deciso soltanto in situazioni eccezionali di grave minaccia. Lei ha una casa al quartiere Pigneto, non sembra ci siano rischi particolari, però chiede una «residenza» dove si trasferisce con il marito. Si trova in uno stabile del ministero a poche centinaia di metri da piazza San Giovanni in Laterano. L’appartamento è al 2° piano, molto ampio, chi lo ha visto parla di «casa di alta rappresentanza». La procedura viene seguita dal V reparto della Stato Maggiore dell’esercito guidato dal generale Paolo Raudino. Ben prima che il governo gialloverde entri in crisi, la ministra decide di rendere definitiva l’assegnazione. E così si stabilisce che l’intestatario sia il marito. In realtà appena due giorni dopo l’arrivo alla Difesa il rapporto tra Trenta e il consorte era stato al centro delle polemiche su un possibile conflitto di interessi. Passarelli era infatti «ufficiale addetto alla segreteria del vice direttore nazionale degli armamenti all’ufficio Affari Generali» e questo aveva spinto l’opposizione a sollevare il problema di possibili incompatibilità. Con una nota ufficiale i collaboratori di Trenta avevano dunque comunicato che «la ministra ha chiesto il trasferimento del maggiore Claudio Passarelli per questioni di opportunità all’ufficio Affari Generali, retto da un dirigente civile, che sovrintende alle esigenze organizzative e logistiche del funzionamento del segretariato generale». Lo spostamento in realtà non risulta avvenuto, ma evidentemente Trenta non ritiene che il suo legame familiare possa crearle problemi. Dunque va avanti la procedura relativa all’appartamento. E quando a fine agosto il presidente del Consiglio Giuseppe Conte decreta la fine del governo gialloverde, Passarelli risulta intestatario dell’alloggio. Secondo le regole del ministero della Difesa - pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale - gli alloggi «di servizio» vengono assegnati in base all’incarico ricoperto. E il grado di maggiore di Passarelli non rientra tra quelli che possono ottenere un alloggio di primo livello, come è appunto quello occupato dalla ministra e ora rimasto nella disponibilità della coppia. E poi c’è da chiarire il problema della casa al quartiere Pigneto, visto che uno dei requisiti per entrare in graduatoria è dimostrare di non avere un’altra abitazione nel Comune di residenza. Circostanze sulle quali Trenta e suo marito dovranno fornire spiegazioni.

 Elisabetta Trenta: "Per l'alloggio a Roma pago 540 euro al mese". Elisabetta Trenta non intende rinunciare all'alloggio di servizio: "Non è un privilegio, perché mio marito ne ha diritto e paghiamo per quell'alloggio". Francesca Bernasconi, Lunedì, 18/11/2019, su Il Giornale.  È bufera sull'ex ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, destinataria di un alloggio di servizio, non ancora lasciato libero dopo la fine della sua esperienza al governo. La grillina, infatti, vive ancora, insieme al marito, nella casa in quartiere San Giovanni, nel centro della Capitale. L'ex ministro si era difesa, specificando di avere diritto a tre mesi, prima di lasciare l'appartamento, termine non ancora scaduto. Inoltre, il marito, essendo un ufficiale dell'Esercito, avrebbe comunque diritto ad un alloggio di pari grado. Così, per evitare allo Stato le spese del trascolo, al marito sarebbe stato riassegnato lo stesso appartamento. La spiegazione, però, non aveva convinto nemmeno i membri del suo stesso partito, primo fra tutti il leader Luigi Di Maio, che aveva le chiesto a gran voce di abbandonare il prima possibile quella casa. Ed è scontro nel Movimento 5 Stelle. Ma la Trenta non ci sta, perché, a parer suo, lei è nel giusto: "Non c'è nessun privilegio- ha detto l'ex ministro in un'intervista a Radio Capital- perché mio marito ne ha diritto. Sta nella legge". La Trenta ha dichiarato di sentirsi "la coscienza completamente a posto" e di essere nel giusto e non sembra voler cedere alle richieste dei 5 Stelle: "Il Movimento pensa alla sostanza o alla forma?", si chiede. Poi aggiunge: "Capisco che il Movimento voglia lottare contro i privilegi, ma questo non lo è". Infatti, l'ex ministro dichiara di pagare l'affitto per quell'alloggio. Allora, a quanto ammonterebbe la cifra? "Tra l'affitto e il condominio sono 540 euro al mese". E alla giornalista, che le fa notare come 540 euro a Roma sia il costo di una stanza per uno studente, Elisabetta Trenta risponde: "Lo so, ma è quello che viene richiesto e viene dato agli ufficiali per il lavoro che compiono". Infine, la pentastellata risponde anche alle polemiche relative alla presenza di un'altra proprietà della coppia: "La casa di proprietà è la mia, nella quale mio marito è venuto a stare ma non ha la residenza", specifica. Intanto, la procura militare di Roma ha aperto un fascicolo sull'appartamento di servizio assegnato all'ex ministro della Difesa. L'inchiesta, partita a seguito delle notizie date dai media circa il mantenimento dell'alloggio anche dopo la fine dell'esperienza di governo, avrebbe mero carattere conoscitivo. Il fascicolo aperto sarebbe infatti un modello 45, senza cioò né indagati né ipotesi di reato.

Elisabetta Trenta lascia la casa delle polemiche: "Io, cittadina comune". Perché sta mentendo. Libero Quotidiano il19 Novembre 2019. Sulla casa da 200 metri quadri sventola bandiera bianca. Si arrende, Elisabetta Trenta, e annuncia la resa in un'intervista a 24 Mattino su Radio 24: "Mio marito, pur essendo tutto regolare e sentendosi in imbarazzo, per salvaguardare la famiglia ha presentato istanza di rinuncia all'alloggio". Insomma, l'ex ministra grillina che per la casa è stata scaricata anche dai grillini, vende la sua decisione come una sorta di "piccolo atto eroico". E ancora, aggiunge: "Lasceremo l'appartamento nel tempo che ci sarà dato per fare un trasloco e mettere a posto la mia vita da un'altra parte. Sono una cittadina come gli altri, chiedo e pretendo rispetto", ha concluso. Peccato però che la Trenta non sia una cittadina come tutte le altre: è un ex ministro e godeva di una casa in zona San Giovanni di, come detto, circa 200 metri quadri. Ma soprattutto ne godeva a un canone ridicolo, 520 euro al mese. Il prezzo che pagano gli universitari per una stanza condivisa. Si pensi che, come sottolinea Il Tempo, per un appartamento di 35 metri quadri nella stessa zona di Roma, il canone d'affitto medio è di 800 euro. Altro che "cittadina come tutte le altre". E le parole di oggi della Trenta fanno il paio con quelle della vigilia, in cui aveva spiegato che avrebbe tenuto l'appartamento perché, dopo essere stata ministro, ha una vita di relazioni e dunque le serve un'abitazione sontuosa. Parole che hanno sollevato un polverone, tanto da aver peggiorato la situazione dell'ex ministro che grillina, che forse non a caso il giorno successivo ha optato per il passo indietro.

Casa Trenta, indaga la Procura militare: l’iter per la casa deciso in due giorni. Pubblicato lunedì, 18 novembre 2019 da Corriere.it. È accaduto tutto in poche ore nel settembre scorso. Mentre Elisabetta Trenta lasciava l’incarico di ministra della Difesa, suo marito Claudio Passarelli veniva trasferito a nuovo incarico e chiedeva l’assegnazione dell’alloggio «di servizio» dove la coppia già abitava da cinque mesi. Una pratica «perfezionata» appena un mese dopo con l’attribuzione definitiva. È su questa procedura che la procura militare ha deciso adesso di svolgere accertamenti. Ma il vero rischio potrebbe arrivare dai magistrati penali. Da circa un mese — su denuncia dello Stato Maggiore — è stata infatti aperta un’inchiesta su tutti i militari che rimangono negli appartamenti della Difesa senza avere i requisiti. E dunque anche i vari passaggi che segnano questa vicenda dovranno essere verificati proprio per stabilire se siano stati compiuti abusi. In attesa dell’esito delle indagini il Movimento 5 Stelle ha inviato un messaggio esplicito in linea con quanto già dichiarato da Luigi Di Maio: «Trenta lasci la casa e faccia presentare una nuova domanda a suo marito. Se ha diritto la otterrà». Per comprendere bene che cosa sia accaduto bisogna tornare all’insediamento del governo Lega M5S l’1 giugno 2018. Trenta va al dicastero della Difesa, all’epoca vive con il marito al quartiere Pigneto. «La casa non era adatta a svolgere incontri riservati», ha dichiarato due giorni fa in un’intervista al nostro giornale, sottolineando anche la «scarsa sicurezza». In realtà i vicini spiegano come tutta la zona fosse stata videosorvegliata, ma il trasferimento può comunque essere giustificato perché è responsabile di un dicastero «pesante». E così il 19 aprile 2019 la coppia entra nella nuova dimora da 180 metri quadri a poche centinaia di metri da piazza san Giovanni in Laterano: quattro camere, due bagni, salone doppio, cucina con terrazzo, posto auto e cantina. Il 5 settembre 2019 il governo Conte 1 si dimette, Trenta rimane senza incarico. Ma, come ha spiegato nell’intervista «la mia vita era ormai cambiata, ora ho incontri, relazioni». Evidentemente decide che al Pigneto non vuole tornare. Il 6 settembre il maggiore Passarelli, che secondo lei «era stato demansionato perché è mio marito», diventa aiutante di campo del generale Nicolò Falsaperna che proprio Trenta aveva fatto nominare un anno prima, esattamente il 14 settembre 2018, Segretario Generale della Difesa e Direttore Nazionale Armamenti. Appena poche ore dopo aver ottenuto il nuovo incarico Passarelli deposita la richiesta di assegnazione dell’alloggio dove i due già abitano. La risposta positiva arriva a metà ottobre. La pratica è chiusa. «È tutto in regola, io non me ne vado», dice ora Trenta. Già questa mattina i carabinieri potrebbero acquisire copia degli atti al ministero su delega del procuratore militare Antonio Sabino per verificare la regolarità della procedura. Un’attività che si affianca a quella dei pubblici ministeri romani. Circa un mese fa l’ufficio guidato da Michele Prestipino ha infatti ricevuto una denuncia dello Stato Maggiore con l’elenco degli alloggi che risultano occupati da chi aveva ottenuto la casa «per motivi di servizio» e poi ha trovato il modo di rimanerci pur avendo perso i requisiti. Esattamente come sembrano aver fatto Trenta e il marito. Un ulteriore motivo di imbarazzo per i 5 Stelle che hanno sempre sostenuto di voler combattere i privilegi. Ieri tutti i partiti hanno continuato ad attaccare Trenta e «la doppia morale dei grillini» e sul Blog delle Stelle è comparso il post che la invitava ad andare via «perché i nostri valori sono intoccabili e li facciamo rispettare. Sempre. Questo è ciò che ci distingue dai partiti». Secondo le voci interne la decisione è comunque presa: se l’ex ministra deciderà di resistere sarà denunciata ai probiviri e rischierà l’espulsione dal Movimento.

 Trenta: «Mio marito rinuncia all’alloggio, traslocheremo». Pubblicato martedì, 19 novembre 2019 da Corriere.it. «Mio marito, pur essendo tutto regolare, e sentendosi in imbarazzo, per salvaguardare la famiglia ha presentato istanza di rinuncia per l’alloggio». Così a 24 Mattino su Radio 24 l’ex ministra della Difesa, Elisabetta Trenta. «Lasceremo l’appartamento nel tempo che ci sarà dato per fare un trasloco e mettere a posto la mia vita da un’altra parte. Sona una cittadina come gli altri, chiedo e pretendo rispetto», ha dichiarato.

Trenta si arrende: "Mio marito ha presentato rinuncia per la casa, traslocheremo". La Repubblica il 19 novembre 2019. "Mio marito, pur essendo tutto regolare, e sentendosi in imbarazzo, per salvaguardare la famiglia ha presentato istanza di rinuncia per l'alloggio". Lo ha annunciato intervistata da Radio 24 l'ex ministra della Difesa grillina, Elisabetta Trenta. "Lasceremo l'appartamento nel tempo che ci sarà dato per fare un trasloco e mettere a posto la mia vita da un'altra parte. Sono una cittadina come gli altri, chiedo e pretendo rispetto", ha dichiarato l'ex ministra sfogandosi per le polemiche che l'hanno travolta a causa quell'alloggio di servizio passato da lei, ministra (con casa di proprietà a Roma), al marito militare. Un benefit rivendicato con forza in virtù della regolarità delle procedure, 180 metri quadrati in centro a Roma, per 540 euro al mese, composto da doppio salone di rappresentanza, quattro camere, due bagni, cucina con terrazza e posto auto nel garage condominiale. "Non ho violato nessuna legge - ha insistito anche oggi - è tutto in regola, mi sono attenuta alle regole. Hanno speculato sulla mia privacy. Forse da ministro - ha aggiunto amareggiata - ho dato fastidio a qualcuno, non lo so, ma non voglio alimentare polemiche, sono una donna di Stato". Quanto al M5s, che sembra averla 'scaricata' in questa vicenda, prima Trenta ha rassicurato dicendo "non sono stata trattata bene, ma io nei valori del Movimento ci credo e non ho nessuna intenzione di abbandonarlo"; poi però, ha ammesso: "Prendermi una pausa di riflessione da Movimento? Chissà, magari me la prendo". Scottano d'altronde le parole di Luigi Di Maio che ha definito "non accettabile" la sua permanenza nell’alloggio in via dell’Amba Aradan, e l'attacco diretto amplificato via Blog delle stelle. "Ho parlato con Di Maio - ha detto stamattina - credo che abbia capito le mie ragioni, poi non lo so che cosa vogliano fare...".Fastidiosa comunque agli occhi dei grillini quell'operazione che ha trasferito l'assegnazione dell'appartamento dall'allora ministra al consorte, maggiore Claudio Passarelli, addetto alla segreteria del generale Nicolò Falsaperna, a sua volta è segretario generale della Difesa. Ieri la Procura militare di Roma ha aperto un fascicolo sul caso. "Atto duvuto", ha spiegato il procuratore militare Antonio Sabino, per "sgomberare ogni dubbio, anche da un punto di vista amministrativo"; ma anche la magistratura ordinaria potrebbe intervenire dopo l’esposto del Sindacato dei militari. Trenta però ha spiegato ancora: "Non è una questione di grado, Maggiore, si può essere anche un Sergente: è una questione di incarico. Sono alloggi di incarico, temporanei. Un ufficiale si sposta di solito ogni tre anni, sposta la famiglia, i figli, e la moglie non può lavorare. Si sta lottando contro i privilegio, e io ho fatto tanto. Ma si sta facendo un 'caso Elisabetta Trenta' che non esiste. Si sta lasciando passare l'idea che l'ex ministro abbia mantenuto la casa di servizio: è falso. Quell'alloggio è stato assegnato temporaneamente a mio marito. Ci dormo perché sono la moglie". Infine l'ex ministra 5s, pur arrendendosi al pressing, ha continuato a difendere il suo operato. Anzi, prendendosela con la stampa che ha raccontato il caso, ha attaccato ancora: "Mentre c'è Venezia che affoga, e sappiamo il motivo, si parla per giorni sul nulla di un ex ministro. Vorrei che la stampa avesse un ruolo diverso. La mia colpa è essere una persona per bene".

"Al ministro toccava un alloggio più piccolo". Il predecessore La Russa: scelta inopportuna. Sabrina Cottone, Martedì 19/11/2019, su Il Giornale. Ignazio La Russa, avvocato, vicepresidente del Senato, esponente di Fdi, ministro della Difesa nel Berlusconi IV, racconta la sua esperienza: «Ero in affitto in zona Prati e avrei avuto diritto all'appartamento a disposizione del ministro, che è un bell'appartamento di meno di cento metri quadrati vicino al Colosseo, ma alla fine ho preferito rimanere a casa mia».

Come mai ha preso questa decisione?

«Sono andato a visitarlo nei primissimi giorni da ministro. Il ministro precedente, che legittimamente lo abitava, lo aveva già restituito. Io ho preferito non traslocare come molti ministri che abitano a Roma, anche se era un bell'appartamento. Ho pensato che non ci fossero ragioni particolari per cui un ministro dovesse avere un appartamento diverso».

L'ex ministro Trenta spiega che è per ragioni di sicurezza e riservatezza che ha chiesto l'alloggio in san Giovanni in Laterano.

«Premesso che non ho molto piacere di occuparmi di un ministro della Difesa perché da ex non mi sembra elegante, quando avevo bisogno di fare incontri riservati, li facevo al ministero della Difesa, con le misure di riservatezza che le Forze Armate sono in grado di assicurare».

Ma la Trenta ha sbagliato a chiedere l'assegnazione di quell'alloggio o ha sbagliato perché è poi subentrato il marito?

«Forse era lecito chiedere un appartamento più grande, come ha fatto lei non accettando l'appartamento al Colosseo. Di sicuro è stato poco opportuno il passaggio dell'appartamento al marito: per i militari so che c'è una graduatoria interminabile. Non so se sia reato ma c'è stata una certa leggerezza. Non è una storia edificante ma non è il suo atto più grave».

E quale ritiene l'atto più grave?

«Ho avuto buoni rapporti con tutti miei predecessori e successori alla Difesa, con l'eccezione della Trenta. Contro di lei ho fatto un intervento in aula quando decise di intitolare la manifestazione del 2 giugno all'accoglienza, cercando di polemizzare con Salvini e gli alleati sovranisti».

Solleva anche lei il tema dei privilegi della casta?

«La Trenta non è un politico e secondo me è un errore assegnare il ministero della Difesa a chi non lo è. Anche un militare non è indicatissimo, perché è abituato a prendere ordini. Invece con esperienza e un partito alle spalle, puoi permetterti scontri come il mio con Tremonti per difendere le prerogative delle Forze armate».

Quale sarebbe la morale della storia?

«La casta non esiste, esistono persone che sbagliano. Di fronte alla casa tutti commettono leggerezze. È peggio per chi predica bene e razzola male e la Trenta è stata scelta da chi, come M5s, fa della lotta ai privilegi la sua ragion d'essere». 

Francesco Cundari per linkiesta.it il 20 novembre 2019. Rimasta nel confortevole alloggio assegnatole quando era al governo nonostante al governo non sia più, l’ex ministra della Difesa Elisabetta Trenta ha dato ieri molte spiegazioni che meritano attenzione, anzitutto per il loro valore politico-letterario, indipendentemente dagli accertamenti della procura militare (che ha aperto un fascicolo). A dimostrazione della tesi si potrebbero citare mille perle, come l’impavido «Non credo proprio che si tratti di un privilegio perché io l’appartamento lo pago e lo pago pure abbastanza», dichiarato al Corriere della sera il giorno stesso in cui, ai microfoni di Radio Capital, precisa di sborsare ben «540 euro di affitto» (per 180 metri quadri, a Roma, in una zona «rinomata»); o il classico «è evidente che sono sotto attacco», seguito da una raffica mozzafiato di inquietanti interrogativi («È un attacco al presidente Conte? All’Aise? Al Movimento? Alla Link Campus, dove sono tornata a lavorare?»); o ancora la giustificazione che inevitabilmente dà il titolo all’intervista: «Ho una vita di relazioni». Il punto centrale della sua linea difensiva, tuttavia, sta nella risposta alla domanda sul perché, possedendo già una casa nel quartiere Pigneto, dovesse averne anche una di servizio. Non poteva restarsene lì? «No – risponde Trenta – c’erano problemi di controllo e di sicurezza. In quella zona si spaccia droga e la strada non ha vie d’uscita». Chiaro? Vado a capo per lasciarvi il tempo di rifletterci su, e riprendere fiato. Ricapitolando: sulle pagine del principale quotidiano del paese, con la nonchalance con cui voi rispondereste alla domanda «come va?», l’ex ministra della Difesa spiega che il motivo per cui aveva bisogno di un altro appartamento era che dove abitava lei si spacciava droga e c’erano conseguenti problemi di sicurezza. Un inconveniente che all’allora ministra, evidentemente, dev’essere sembrato un motivo ragionevole non già per chiamare la polizia, il sindaco di Roma, il presidente del Consiglio o l’esercito, allo scopo di cambiare la situazione del quartiere; bensì, semplicemente, per cambiare quartiere. Decisione ancora più significativa, considerando che l’ex ministra, il sindaco di Roma e il presidente del Consiglio erano e sono tuttora espressione dello stesso partito, nato e affermatosi proprio in nome della lotta contro i privilegi della «casta». Da questo piccolo apologo si ricava dunque, prima di tutto, una certezza. E cioè che non è affatto vero che i cinquestelle abbiano capito prima e meglio di tutti le ragioni profonde della rabbia popolare e dell’indignazione contro i privilegi della «casta»: con le dichiarazioni di Elisabetta Trenta si potrebbe riempire un intero manuale su tutto quello che non si dovrebbe dire, mai e poi mai, in situazioni del genere. Dunque è assolutamente inutile inseguirli, imitarli o chiedere consiglio a loro per le ricette. Dopo anni di isteria autodenigratoria, dopo aver tagliato a casaccio finanziamento ai partiti e numero dei parlamentari, piccoli odiosi privilegi e fondamentali garanzie costituzionali, almeno i politici del centrosinistra dovrebbero aver capito che nulla di tutto ciò è bastato né basterà mai, perché non è quello il punto. L’elettore arrabbiato non si arrabbia perché politici che si sono presentati come campioni della lotta ai privilegi ottengono case di lusso a prezzi stracciati, ma perché sotto casa sua si continua a spacciare indisturbati. Questo è il motivo per cui i cinquestelle perdono voti, e continueranno a perderli, nonostante tutti i tagli degli stipendi, dei rimborsi e dei parlamentari di cui possono vantarsi: perché non hanno proprio nient’altro di cui vantarsi. Il punto non è nemmeno che dopo essersi tagliati i compensi, raddoppino o triplichino le spese per i collaboratori (che comunque, intendiamoci, bello non è). Perché il problema di fondo non è quanto costano, ma quanto rendono. E come rendono le città e qualunque altra cosa si trovino ad amministrare, a cominciare da una Roma dove lo spaccio di droga è ormai l’unico servizio che funziona ventiquattro ore su ventiquattro, e non solo al Pigneto.

Trenta, ecco le 9 domande a cui l’ex-ministra grillina dovrà rispondere: dall’affitto all’iter. Il Secolo d'Italia mercoledì 20 novembre 2019. Sono 9 le domande, dall’ammontare dell’affitto dell’alloggio di servizio all’iter burocratico seguito, a cui l’ex-ministra della Difesa, la grillina Elisabetta Trenta, dovrà rispondere. Le ha messe in fila, una dietro l’altra, il senatore di Forza Italia, Maurizio Gasparri. Che ieri sulla vicenda dell’alloggio di servizio, occupato dalla Trenta e dal marito, il maggiore dell’Esercito, Claudio Passarelli, ha depositato a Palazzo Madama un’interrogazione. Gasparri chiede al successore della Trenta, l’attuale responsabile della Difesa, Lorenzo Guerini, di fare chiarezza sull’assegnazione dell’appartamento di servizio abitato dall’ex ministro Elisabetta Trenta, e da suo marito, il maggiore dell’Esercito, Claudio Passarelli. E pone una serie di questioni: dall’ammontare dell’affitto al numero dei metri quadrati. Gasparri prende spunto dalla notizia pubblicata dal Corriere della Sera il 17 novembre scorso sulla «disponibilità della famiglia dell’ex-ministro Trenta di un alloggio di proprietà della Difesa sito a Roma nel quartiere San Giovanni per conoscere «tutti i dettagli della vicenda relativa all’assegnazione dell’appartamento». Interrogazione di Gasparri: accertare quanto pagava di affitto la Trenta. Di qui le domande specifiche:

1: «se il maggiore» dell’Esercito, Claudio Passarelli, cioè il marito di Elisabetta Trenta, «avesse titolo per fare domanda per questo alloggio».

2: «Quale sia stato l’andamento amministrativo e burocratico della vicenda» chiede, inoltre, Gasparri. «Visto che ad aprile il ministro» Elisabetta Trenta, «in quanto tale, occupava l’appartamento a lei concesso per la sua carica ma, contemporaneamente, lo stesso veniva concesso al marito».

3: Il senatore azzurro chiede, inoltre, a Guerrini, «quale sia stata la sequenza delle decisioni e delle assegnazioni».

4: L’esponente di Forza Italia vuol «sapere», inoltre, «chi abbia firmato i relativi atti amministrativi». E questo «sia per quanto riguarda la precedente assegnazione al ministro, sia per quanto riguarda l‘assegnazione al Maggiore Passarelli».

5: Inoltre c’è la questione dell’importo dell’affitto. Secondo la Trenta, lei pagava 540 euro al mese. Praticamente una miseria per un appartamento di grande prestigio di 180 metri quadrati a San Giovanni. Si è scoperto, invece, che pagava, in realtà, 141 euro di affitto e 173 euro di mobilio. Da qui la richiesta di Gasparri di sapere «a quanto ammonti» realmente «l’affitto pagato sia da Trenta prima che da Passarelli successivamente».

6: Inoltre c’è la questione della grandezza dell’appartamento. Una casa di altissima rappresentanza di 180 metri quadri, perlomeno il doppio, se non il triplo di quanto hanno normalmente a disposizione le famiglie italiane. Accertare, sollecita Gasparri, «di quanti metri quadrati sia l’immobile».

7: L’interrogazione presentata da Gasparri invita Guerini ad accertare, inoltre, «se il ministro» Trenta «e il maggiore Passarelli siano proprietari di alloggi nella città di Roma». «O, comunque, in zone limitrofe». E «se non ritenga opportuno che il ministro e il maggiore Passarelli lascino l’immobile».

8: E ancora. Forza Italia vuol sapere «quali altri ufficiali, appartenenti alle Forze Armate, abbiano fatto domanda per lo stesso alloggio».

9: Infine «se vi siano delle graduatorie». «E quale sia la loro consistenza per quanto riguarda alloggi di servizio a Roma ed in altre città».

 Casta diva. Alessandro Sallusti, Martedì 19/11/2019 su Il Giornale. Quando si dice che la toppa è peggio del buco. L'ex ministra della Difesa Elisabetta Trenta - oggi cittadina comune - non ne vuole sapere di lasciare la casa che le era stata assegnata perché «la mia vita è cambiata e io devo tenere relazioni sociali dignitose». E aggiunge: «E poi ora pago l'affitto». Già, 540 euro al mese per 180 metri quadrati in un palazzo signorile nel centro di Roma. Arroganza e capricci da diva (non se ne va) più il privilegio da casta (il canone ridicolo): se il nome non fosse già stato scelto da un famoso resort di lusso, da oggi la Trenta andrebbe ribattezzata «Casta Diva», anche se le sembianze non sono proprio quelle di una star del cinema. Per intenderci, la Trenta abita e vive a sbafo, macchina e autista e segreteria a disposizione ventiquattr'ore al giorno, in quanto ex ministra. E lei a tornare nel nulla da cui era venuta non ci sta. In questo è simile alla maggior parte dei suoi colleghi di partito, e pure al premier Conte, che pur di non mollare la ribalta si presta a tutto: Lega e Pd pari sono purché se magni. Tanta determinazione a tutelare se stessi è il motivo principale per cui difficilmente si tornerà a votare presto. Altro che fini analisi politiche, ma quale senso di responsabilità, al diavolo i disoccupati dell'Ilva e gli alluvionati di Venezia. La casa, signori, è la casa in centro a Roma che insieme allo stipendio e alle comparsate in tv tiene in piedi la legislatura. I costi di tutto ciò? E che sarà mai, basta alzare un po' le tasse, andare al servile Tg1 e dire che non è vero, che tanto i fessi ci credono e tutto va avanti come se niente fosse. E c'è pure Di Maio che fa lo sdegnato: «È una vergogna, la Trenta deve lasciare quella casa», tuona ora, a caso scoppiato, facendo la parte di quello che cade dalle nuvole ma che paga una sua giovane segretaria più di quello che guadagna un primario ospedaliero a fine carriera. Ci piacerebbe sapere se anche gli altri ministri Cinque Stelle, tipo Toninelli e Lezzi, hanno mollato all'istante tutti i privilegi che avevano quando erano in carica. Perché la storia di questi anni insegna: con i Cinque Stelle a pensare male difficilmente si sbaglia. Comunque non si commette peccato.

Elisabetta Trenta, una della casta. La vicenda della casa dell'ex Ministro della difesa è la prova di come ormai anche il M5S sia diventato ciò che voleva combattere. Maurizio Belpietro il 19 novembre 2019 su Panorama. La vicenda dalla casa dell'ex Ministro della Difesa, la grillina Elisabetta Trenta, è uno spaccato perfetto della politica di oggi. Soprattutto di come è cambiato il Movimento 5 Stelle. Tutti le hanno chiesto di andarsene e lei ha tenuto duro fino ad oggi. Di tutta questa storia la cosa più surreale era l’intervista in cui diceva che “non me una vado perché ho una vita di relazioni ed ho bisogno di spazio…”. Ma che cosa significa una frase del genere? Tutti abbiamo bisogno di spazio ed abbiamo una vita di relazioni, ma non facciamo pagare tutto questo allo Stato. “Non posso tornare al Pigneto perché ci sono gli spacciatori”, diceva… Questa frase è la dimostrazione reale e classica della "casta". Si ha una poltrona e si diventa casta, si pretendono tutti i vantaggi, compreso l'appartamento a prezzo ridicolo in centro a Roma a 540 euro al mese. Roba da monolocale di periferia. E poi il discorso sul degrado. Con il suo atteggiamento la Trenta ci spiega come la gente comune può rimanere con gli spacciatori io che sono stata ministro invece voglio la casa in centro. Un ministro invece dovrebbe far qualcosa per mandare via gli spacciatori dai quartieri, non lasciarli alla gente comune ed andarsene a vivere in centro con una casa dello Stato, pagata da noi. Tutta la vicenda è incredibile, anche la procedura con cui sono avvenute le cose. Questa casa viene assegnata a lei anche se ha un’altra casa in centro. Dopodiché, nel giorno in cui non viene riconfermata, avviene che il marito passa sotto un certo comando e quel comando dispone di assegnare in poche ore la casa, la stessa casa, al marito. Ora voi pensate alla burocrazia italiana. Ci vogliono giorni, settimane per fare qualsiasi cosa, anche solo per trasferire un soldato semplice. Poi ecco che in poche ore un Capitano viene promosso Maggiore e gli viene data una casa nuova, in pieno centro a 540 euro al mese. In poche ore, mentre per una persona normale servono giorni, settimane per qualsiasi cosa: un documento, un trasferimento, un passaggio di proprietà. Qui sono bastata poche ore.

Elisabetta Trenta, Giorgia Meloni scoperchia un altro scandalo: "Anche il suo cane scortato con l'auto blu". Libero Quotidiano il 20 Novembre 2019. Elisabetta Trenta travolta dagli scandali. Dopo l'affitto più che agevolato della casa di Stato, è il turno del suo cagnolino. Da quanto rivela il Messaggero l'ex ministro della Difesa ha usufruito dell'auto blu per portare il suo amico a quattro zampe direttamente al Ministero. Una notizia che ha generato pesanti critiche da parte di Giorgia Meloni. "Dopo la faccenda della casa a cui non voleva rinunciare, ora si aggiunge la scorta con l'auto blu (pagata dai contribuenti) al cane dell'ex Ministro Trenta. Alla faccia della lotta ai privilegi del M5S" cinguetta al vetriolo la leader di Fratelli d'Italia. La grillina era finita nelle grinfie di destra e sinistra per essersi rifiutata (in un primo momento) di lasciare l'abitazione di Stato, concessole solo in veste di ministro. Casa che avrebbe dovuto abbandonare non appena finito il mandato. E invece la Trenta aveva ben pensato di assegnarla in incognita al marito in quanto militare. Ma la beffa non finisce qui perché la pentastellata, solo in via teorica contraria ai benefici della casta, ha mentito sul canone di affitto. 540 euro al mese come aveva riferito sotto accusa? Assolutamente no. Per lei solo 315 euro mensili.  

Mario Ajello per ilmessaggero.it il 21 novembre 2019. C’è stato e c’è ancora un altro inquilino, oltre a Elisabetta Trenta e al marito, nell’appartamento a San Giovanni. Da cui l’ex ministra ha deciso di traslocare, sotto il fuoco delle polemiche che rischiano di riportarla al Pigneto dove proprio non vuol tornare («Spacciano»). L’altro inquilino è Pippo. Un quadrupede, un cagnetto, un batuffolo peloso, insomma uno schnauzer nano. Fu donato alla Trenta da un ufficiale dell’esercito e lei ci si è affezionata tanto. Al punto che, da ministra della Difesa, lo voleva avere spesso al fianco, nei giorni in cui non era in missione in qualche parte del mondo. Un cane, cioè Pippo, scorrazzava al ministero della Difesa? Ma certo. Qualche militare lo andava a prendere con l’auto di servizio nella casa di via Amba Aradam e lo “scortava” fino al dicastero. Pur non essendo lui un quadrupede dall’aria marziale ma magari, sotto il pelo, nascondeva doti da consigliere politico d’area grillina, perché il grillismo in grigio-verde l’allora ministra cercava di creare. E comunque: che gioia avere Pippo nelle austere stanze istituzionali. I più fidati collaboratori della Trenta avevano il privilegio di poterci giocare con frasette così: «Pippo, vieni qui, daiiiii, fatti vedere.... Bacini? Sììì, bacini...bacini....bacini...». Gli veniva lanciata la pallina e lui la rincorreva - «Bravo Pippo, bravo... bravo...» - lungo il corridoio del primo piano. Pippo davanti a tanto affetto sembrava sorridere. Anche se non c’è niente da ridere, se non per il fatto - dicono al ministero - che la coppia Trenta&Pippo ha lasciato la sede della Difesa ma adesso dovrà lasciare anche il bel salotto di casa. E al povero Pippo toccherà, dopo le carezze dei generali, la compagnia degli spacciatori del Pigneto.

Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della sera” il 20 novembre 2019. Elisabetta Trenta ha deciso di traslocare prima di essere cacciata dai 5 Stelle. A convincerla sono state le pressioni dei vertici del Movimento, primi fra tutti Luigi Di Maio e Stefano Buffagni, ma soprattutto il rischio di essere sbugiardata in Parlamento. La relazione preparata al ministero della Difesa per rispondere alle interrogazioni di deputati e senatori sull' alloggio di servizio che aveva ottenuto quando era ministra e poi ha fatto assegnare al marito, svela infatti nuovi dettagli sulla procedura seguita. E soprattutto il canone mensile: 141,76 euro. Una cifra ben inferiore a quella che la stessa Trenta aveva sostenuto di pagare: «Oltre 540 euro, che è tanto». Si chiude dunque il «caso», ma rimane aperta l' inchiesta e soprattutto la ferita nei rapporti con i Cinque Stelle che l' avevano sfidata a «chiedere l' assegnazione di un nuovo appartamento, se davvero ha i titoli per averlo». Sono le 9 di ieri quando Trenta si arrende e parla anche a nome del coniuge, il maggiore dell' esercito Claudio Passarelli: «È tutto regolare, ma mio marito ha comunque presentato un' istanza di rinuncia per l' alloggio. Traslocheremo». A Radio24 aggiunge: «Nulla ci fa sentire in imbarazzo, lo facciamo per salvaguardare la serenità della famiglia, spero che questo atto di amore serva a tacitare la schifezza mediatica che è caduta su di me». Poi affronta il problema con il Movimento. Domenica aveva detto di aver «spiegato a Di Maio come stanno le cose», ora si sfoga: «Non sono stata trattata bene, ma nei valori del M5S ci credo, non ho nessuna intenzione di lasciare il Movimento. Mi è dispiaciuto che, prima di parlare e giudicare, nessuno mi abbia chiamata per chiedermi come stanno le cose. La mia faccia è pulita, non smetterò di fare politica e di essere del Movimento. Ma forse una pausa di riflessione me la prendo, non ho deciso nulla». E sul suo rapporto con il capo politico - al quale si era proposta come uno dei dodici «facilitatori» - aggiunge: «Credo che Di Maio, con cui ho parlato, abbia capito le mie ragioni. Io sono un militare e so che prima di comandare le persone ci si parla, so che un comandante difende i propri uomini». A questo punto saranno l'indagine amministrativa avviata dallo Stato maggiore e quella della Procura militare a dover stabilire se la procedura sia stata corretta. Quanto accertato finora dimostra che sono bastate poche ore per avere la certezza che l' assegnazione sarebbe stata trasferita dalla moglie al marito. Il 5 settembre, giorno delle dimissioni del governo Conte, ha segnato l' uscita dal dicastero di Trenta. Nemmeno 24 ore dopo il marito è stato infatti nominato aiutante di campo del segretario generale della Difesa. Trenta - così come prevede la legge - aveva 90 giorni per liberare l' alloggio e tornare nel proprio appartamento al quartiere Pigneto. Invece il 2 ottobre la pratica è stata chiusa e le carte relative a quella stessa casa sono state intestate a Passarelli. Secondo la versione fornita dallo Stato Maggiore «Passarelli aveva dichiarato di possedere un immobile a Roma e un altro a Campobasso che ai fini dell' assegnazione non rappresentava motivo ostativo perché il personale titolare di alloggio Asi può usufruire di un appartamento di servizio pur disponendo di proprietà alloggiativa nella stessa circoscrizione». Spetterà ai magistrati accertare se davvero questo iter sia legittimo, se possano esserci stati favoritismi. La Difesa stabilirà invece se Passarelli abbia diritto a un nuovo alloggio di servizio. Di certo rimane che la cifra pagata ogni mese dalla coppia è ben inferiore a quella comunicata pubblicamente dalla ex ministra. E anche questo sarà sottolineato in Parlamento. Secondo quanto risulta alla Difesa «il canone mensile è di 141,76 euro mentre vengono versati 173,19 euro per l' utilizzo del mobilio». Totale 314,95 euro, arredamento compreso.

Simone Canettieri per ilmessaggero.it il 20 novembre 2019. Era il golden boy del M5S. Non solo romano, non solo laziale. Ma anche nazionale. Al punto che per lui, Luigi Di Maio pensò anche a ruoli di primo piano. Ma Fabio Fucci, ex sindaco di Pomezia (comune di 63mila abitanti a sud di Roma) del M5S, da oggi è passato con la Lega di Matteo Salvini. Un cambio di casacca clamoroso, che segna la rottura definitiva tra i grillini e Fucci. Quest'ultimo alle comunali dell'anno scorso fece di tutto per poter essere ricandidato sotto le insegne dei pentastellati, nonostante avesse già concluso due mandati (il primo da consigliere comunale finito prima del tempo). Ma non c'è stato nulla da fare: le regole sono regole. Tanto che alla fine i vertici del M5S non gli hanno dato il via libera - Fucci ne parlò anche con Davide Casaleggio durante un blitz a Milano - e lui ha corso lo stesso a sindaco, ma con una lista civica, perdendo. Da oggi il consigliere comunale di Pomezia è passato con la Lega di Salvini.  

Federica Angeli e Maria Elena Vincenzi per ''la Repubblica - Cronaca di Roma'' il 20 novembre 2019. Quello che ieri ha portato a tre arresti domiciliari è solo il primo filone di una storia di corruzione che ora guarda al consigliere regionale grillino Davide Barillari. Se per i tre finiti in manette ieri, il maresciallo dei carabinieri Giuseppe Costantino, il sindacalista della Sicel Andrea Paliani (ex autista del fondatore di Avanguardia Nazionale Stefano Delle Chiaie) e il consulente del lavoro Alessandro Tricarico, la posizione è già piuttosto chiara, ora l' indagine vira verso la Pisana: bisogna capire per quale motivo il politico Cinquestelle, indagato, si fosse messo a disposizione della combriccola. Se dietro ci fosse qualcosa di illecito. Le carte dell' inchiesta dei carabinieri del nucleo investigativo, coordinata dal procuratore aggiunto Paolo Ielo e dal sostituto Luigia Spinelli, raccontano una storia di corruzione in cui non mancano, appunto, gli agganci con la politica. Vecchie simpatie di estrema destra e attuali collegamenti con i grillini. Al centro, il sindacalista e il maresciallo che facevano intendere a un imprenditore, Cristopher Faroni, proprietario di alcune cliniche convenzionate col Ssn e indagato in altro procedimento, di poterlo aiutare se avesse assunto un consulente. Insomma, gli promettevano di tirarlo fuori dai guai giudiziari in cambio di una parcella da 250mila euro all' anno a Tricarico: d'altronde il militare era quello incaricato a indagare su di lui. Tanto che è stato proprio Faroni, esasperato, a raccontare tutto al pm. Ed è proprio in questo contesto che spunta il nome di Barillari. Agli occhi dell' ex autista di Delle Chiaie, il consigliere regionale grillino, componente della VII Commissione, Sanità e Politiche sociali, è il Mister Wolf della Pisana: risolve problemi. È alla sua porta che bussa per la questione del gruppo Ini di Faroni, è a lui che si raccomanda per far commissariare immediatamente la società in modo da non far perdere ai suoi iscritti il posto di lavoro. È sempre a Davide Barillari che Andrea Paliani si rivolge per fare una ispezione nella clinica " Città Bianca" a Veroli, che appartiene a Faroni. « Te passo a prende io sotto la Regione ok amico mio?», gli dice al telefono il 30 aprile 2019. E così è stato. I due, Barillari e Paliani, vanno a Veroli e insieme fanno una denuncia alla Guardia di finanza di Frosinone. La querela contro il gruppo Ini va avanti, «procede bene » , lo rassicura il sindacalista, ricevendo in cambio dal consigliere regionale l'informazione che « il 14 giugno ci sarà in Regione una consulta per lavorare sul miglioramento della sanità nel Lazio». E, a quanto dichiara al telefono con un suo uomo fidato, sarà proprio il 5Stelle a dare a due quotidiani - Il Tempo e Il Fatto Quotidiano - in esclusiva la notizia sull' indagine in corso nei confronti di Faroni. La vicenda finisce anche sul tavolo dell' ex ministra Giulia Grillo. « Sono stato al ministero della Salute, ho parlato con la Grillo, spingi con lei su questa cosa » , sollecita Paliani. «Sento io lo staff della Grillo», lo rassicura il consigliere grillino. Insomma, non c' è dubbio che il loro contatto in Regione sia lui. Perché in fondo i due sono amici e se lo ricordano anche nel corso delle frequentissime telefonate. « Sei un grande Davide: quello che fai te è un po' quello che faccio io. Comunque sappi che il tuo amico accanto ce l' hai, e sono io. Davide io do la mia vita per te » , dice Paliani al telefono. Barillari lo ringrazia e subito dopo firma la lettera per commissariare la Ini. O almeno questo racconta in una telefonata successiva Paliani alla compagna.

Federica Angeli e Maria Elena Vincenzi per ''la Repubblica - Cronaca di Roma'' il 20 novembre 2019. Andrea Paliani, l'autista di Delle Chiaie, l'estremista nero Maurizio Boccacci, il capo ultrà Fabrizio Piscitelli. La destra estrema che si muove compatta per infilare i suoi uomini nella sanità grazie all' aiuto del Movimento 5 Stelle. Le trame che si intrecciano nell' ordinanza di 178 pagine con cui sono state arrestate tre persone ricalcano scenari già visti. In cui basta fare il nome di Diabolik per incutere terrore in chi si sta ricattando e per ottenere subito quello che si vuole. « Ci sono andato a parlare con Diabolik quindi ho alzato il tiro, capito?», confida al telefono Paliani a un suo consulente del sindacato. Ancora: a uno degli appuntamenti con l' amministratore delegato del gruppo Ini di Faroni, Paliani va insieme al carabiniere suo complice, Costantino, al consulente che vogliono far assumere, Tricarico e a Maurizio Boccacci. L' incontro avviene in un ristorante della capitale: Boccacci li accompagna proprio allo scopo di intimorire il manager. Ed è sempre all' estremista di destra che Paliani propone di andare a sollecitare l' assunzione altrimenti saranno guai seri e si procederà a farlo finire sul lastrico, accentuando fatti e denunce per cui procede la procura di Roma. Boccacci si rifiuterà. « Sai cosa dico al giudice? - si legge in un' intercettazione tra Paliani e la sua compagna - Che i Faroni hanno i libri di Delle Chiaie, così li arresta subito. Gli dico che a un incontro mi hanno detto che sono camerati, così se li inc...». Fu lo stesso Paliani a regalare quel libro di Delle Chiaie alla famiglia Faroni, con tanto di dedica. Un piano premeditato in ogni dettaglio. Tanto poi allo scacco matto col commissariamento della società «ce pensa Barillari».

Fico e la colf irregolare: il giudice dà ragione a Le Iene. Le iene il 18 ottobre 2019. Vi abbiamo raccontato della colf che lavorava senza alcun contratto nella casa dove il presidente della Camera Roberto Fico viveva con la sua compagna, quando stava a Napoli. Lui ci aveva detto che era falso, che era solo un’amica che aiutava la compagna Yvonne. E ci aveva querelato. Ma ora il giudice dà ragione a noi. Una vicenda di cui torneremo a raccontarvi prossimamente. Non era solo rapporto di amicizia quello tra  la compagna del Presidente della Camera Roberto Fico e Imma. La donna, come avevamo sostenuto nel servizio di Marco Occhipinti e Antonino Monteleone, che potete rivedere qui sopra, svolgeva il lavoro di colf nella casa dove viveva quando tornava a Napoli. Lavoro andato avanti per anni, ma senza un contratto regolare. Dunque Le Iene non lo hanno diffamato e adesso a confermarlo è il  giudice per le indagini preliminari che ha archiviato il procedimento, ma ancor prima a  sostenerlo è stato anche il magistrato della procura di Napoli al quale Fico si era rivolto per querelarci. Nel servizio di Antonino Monteleone vi abbiamo raccontato di una colf pagata in nero, senza contratti e senza contributi. A svelarlo è stata una persona che abbiamo intervistato, e che frequentava la stessa via dove vive a Napoli Roberto Fico. Una persona che spiega che Imma lavorava in quella casa tutti i giorni feriali e da anni: “Imma, una persona che conosco bene: fa la baby sitter e le pulizie, le viene promesso un contratto a tempo indeterminato che non le è stato mai fatto”. Non solo, ci sarebbe stato anche un altro giovane in nero: “Roman, un ragazzo ucraino senza permesso di soggiorno”,  che faceva lavoretti somatici e che poi sarebbe stato mandato via per evitare scandali subito dopo l’elezione a Presidente della Camera, che prevedeva la presenza della scorta e della polizia sotto la casa in cui Fico viveva quando tornava a Napoli...Con una scusa avevamo avvicinato proprio Imma che aveva confermato che lavorava come colf  proprio nella casa dove viveva Fico quando stava a Napoli, “da mezzogiorno alle tre e dalle sei alle sette e mezzo, dal lunedì al venerdì, per 5 giorni a settimana e da più di cinque anni, per 500 euro al mese”. Imma però aggiungeva anche che le pagavano  i contributi “perché loro a queste cose ci tengono”. Una circostanza che il presidente della Camera, avvicinato all’epoca  da Monteleone, ha però negato: “Quali contributi… se ci fosse un rapporto di lavoro allora ok…”. Questo lo scambio iniziale tra la Iena e il Presidente: “ha mai avuto collaboratori a qualunque titolo che fossero in una situazione di contratto “borderline”? nella casa in cui lei vive quando è a Napoli? “Sì, nella casa dove vivo quando a Napoli, della mia compagna”. “com'è la situazione?”, chiede la Iena. “Lì la situazione è tranquilla”. “Non ci sono collaboratori domestici?”. “Collaboratori domestici no, non ce ne sono, collaboratori domestici”. “Mai stati?” “No”. “Con contratto, senza contratto?” “No”, ha proseguito Fico, che al massimo parla di “una carissima amica della mia compagna Yvonne”. “Si aiutano a vicenda”. Ma anche un giudice, oltre ai nostri testimoni, come vi abbiamo anticipato, la pensa diversamente. E prossimamente a Le Iene vi racconteremo come sono andate le cose.

Fico e la colf in nero, il presidente perde contro Le Iene: abbiamo detto il vero. Le Iene il 22 ottobre 2019. Il presidente della Camera Roberto Fico perde contro Le Iene accusate di diffamazione. Aveva risposto con una querela ai servizi di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti sulla presenza di una colf in nero nell’abitazione dove vive a Napoli la compagna dell’esponente del Movimento 5 Stelle. Anche il giudice per le indagini preliminari ha riconosciuto che abbiamo detto solo cose vere. Il giudice dà ragione a Le Iene e archivia la querela per diffamazione del presidente della Camera Roberto Fico. Si conclude così la vicenda della colf in nero che ha prestato servizio nella casa di Napoli della campagna del rappresentante del Movimento 5 Stelle e in cui anche lui vive i giorni della settimana in cui torna a Napoli. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti hanno ricostruito che tipo di lavoro è quello svolto dalla colf baby sitter in quella casa. A distanza di un anno e mezzo, dopo il parere del giudice, vi raccontiamo com’è finita. Il 29 aprile 2018 abbiamo chiesto al presidente della Camera se avesse mai avuto collaboratori con situazione contrattuale borderline nella casa in cui lui vive quando è a Napoli (clicca qui per il primo servizio), Fico ci aveva risposto: “Sì, nella casa dove vivo quando a Napoli, della mia compagna, lì la situazione è tranquilla". Non ci sono collaboratori domestici? "Collaboratori domestici no, non ce ne sono, collaboratori domestici". Mai stati? "No". Con contratto, senza contratto? "No". Ora lo possiamo dire con certezza senza essere smentiti: il Presidente su questa questione ha detto il falso. Qualche giorno più tardi ci ha querelati. Così mentre noi abbiamo proseguito la nostra inchiesta con il secondo servizio (clicca qui per vederlo), anche la Procura di Napoli ha avviato le indagini per appurare che la sua accusa fosse fondata. A ottobre viene sentita la compagna di Fico: “Imma ha lavorato come baby sitter e come collaboratrice domestica”, ha detto la donna come emerge dalle carte. Agli inquirenti ha anche precisato che la domestica “era stata regolarmente retribuita per le mansioni svolte e che la mancata regolarizzazione del rapporto di lavoro”, tra le altre cose, “...dalla natura amicale dei rapporti intercorrenti tra loro...”. Quindi la stessa compagna di Fico ammette che i rapporti con la colf che lavorava in quella casa fossero senza un contratto regolare. Il presidente ci ha querelato perché lo avremmo definito come “datore di lavoro della signora Imma”. Ma il pubblico ministero incaricato di indagare Le Iene, ha messo nero su bianco che le espressioni utilizzate non possono essere interpretate” in tal senso, “ma solo che in quell’abitazione, dove vive (Fico) quando è a Napoli, lavorasse una colf in nero”. Noi lo abbiamo detto e anche il gip lo riconosce “la colf-babysitter non è stata assunta da Roberto Fico”, piuttosto abbiamo ricostruito come “lei lavorasse in nero in quell’abitazione dove vive quando Fico viene a Napoli”. Il magistrato ha poi sentito sentito anche la nostra fonte, che il giudice delle indagini preliminari ha  riconosciuto come “legata da rapporto parentale con Imma... circostanza che lascia dedurre una diretta conoscenza dei fatti denunciati”. Tutto questo ha permesso di riportare una notizia “senza carattere diffamatorio e denigratorio”, come conclude nell’ordinanza, e quindi la denuncia di Fico è stata archiviata in quanto “la fonte della notizia è risultata qualificata e la ricostruzione della vicenda è apparsa veritiera, in quanto è certamente consentito al giornalista operare accostamenti tra notizie vere...”. Allora perché il presidente della Camera dopo i nostri servizi ha deciso di querelarci? Antonino Monteleone è tornato da lui e citando Beppe Grillo gli ha chiesto se è ancora d’accordo con un intervento del leader dei 5 stelle: “Di solito si querela la verità, non la menzogna. Chi querela sono i politici e i rappresentanti delle cosiddette istituzioni, quando non hanno altre argomentazioni per finire sui giornali di regime e fare la figura dell’innocente”. Fico però non è completamente d’accordo: “Quando qualcuno pensa di essere stato diffamato, querela. I magistrati hanno scritto che io non ho alcuna colf a nero nella casa dove abito, dove ho la residenza...”. Ma qui il Presidente cerca di cambiare le carte in tavola: nessuno ha mai sostenuto che la domestica fosse nell’appartamento in cui lui ha la residenza. Come fa a confondere le due cose?

Fico e la colf in nero: perché ha querelato (e perso contro) Le Iene? Le Iene il 22 ottobre 2019. Siamo tornati dal presidente della Camera Roberto Fico. Un anno e mezzo fa ci aveva querelato dopo le vicende della colf in nero che lavorava nella casa di Napoli della compagna. Ora il giudice si è pronunciato: noi abbiamo detto il vero. E lui? Antonino Monteleone glielo ha chiesto citando anche Beppe Grillo…Un anno fa il presidente della Camera Roberto Fico ci ha detto il falso quando gli abbiamo chiesto della presenza di una colf in nero nella casa della compagna in cui a volte vive quando è a Napoli. Ora lo possiamo dire con certezza senza essere smentiti. Quando il 29 aprile 2018 gli abbiamo chiesto se avesse mai avuto collaboratori con situazione contrattuale borderline in quella casa, Fico ci ha risposto: “Sì, nella casa dove vivo quando sono a Napoli, della mia compagna, lì la situazione è tranquilla”. Non ci sono collaboratori domestici? “Collaboratori domestici no, non ce ne sono, collaboratori domestici”. Mai stati? “No”. Con contratto, senza contratto? “No”. Ora possiamo dire che ha detto il falso: in quella casa c’era una colf e per di più era sprovvista di contratto. Dopo avervelo raccontato, Fico ci ha querelato per diffamazione. A dire che avevamo ragione oggi non sono solo i nostri testimoni, ma anche un giudice per le indagini preliminari. Ha accertato che non abbiamo in alcun modo diffamato il presidente della Camera. Avevamo ricevuto una segnalazione da una persona che frequenta la via della casa in cui vive il presidente quando torna a Napoli. “Si chiama Imma cioè Immacolata”, ci aveva detto. La nostra fonte sembrava molto ben informata perché – oggi lo possiamo rivelare – frequentava la colf ed era in confidenza con lei tanto da raccogliere i suoi sfoghi: “Lei accettava quello che le veniva proposto perché aveva bisogno di lavorare e tutti sapevano quello che fa perché abita pure nel palazzo della compagna di Fico”, ci spiegava la fonte. La colf-baby sitter si occupava della spesa e dei bambini. La nostra fonte sembrava davvero ben informata anche sui compensi: “Prima prendeva 700 euro, poi ridotto a 500 perché le hanno diminuito le ore di lavoro perché si alterna con un ucraino, Roman. E la pagavano in contanti”. Antonino Monteleone allora aveva provato a incontrare il presidente per chiedergli informazioni: alla nostra vista non si era fermato imboccando anche strade contromano, nonostante lui gli chiedesse di fermarsi. Così lo abbiamo chiesto alla diretta interessata. Siamo andati a fare qualche domanda a Imma. “Io lavoro qua faccio la babysitter”, ci diceva sull’uscio della casa dove abita la compagna di Fico. Ci aveva parlato anche dei turni che faceva: “Da mezzogiorno alle 3 e dalle 6 alle 7 e mezza dal lunedì al venerdì”. E addirittura del suo compenso: “500 euro, come se fossero 5/6 euro all’ora. Sono rimasta qui per l’affetto verso la bambina perché me la sono cresciuta”. E quando le abbiamo chiesto se era in nero: “No, con contratto perché loro ci tengono molto a queste cose”, aveva risposto. Così lo scorso 29 aprile 2018 chiediamo conferma al presidente Fico: “Imma? La conosco bene. È una vicina di casa che abita dove c’è la mia compagna ed è una sua carissima amica”. E alla nostra richiesta se le venissero pagati i contributi, la risposta di Fico è inequivocabile: “Quali? Se ci fosse un rapporto di lavoro tra la mia compagna e lei, sì”. Dopo i nostri servizi, il presidente Fico ci ha querelati. La colf Imma invece è stata sostituita da un’altra domestica. Possibile che nessuno dal Movimento 5 Stelle sensibile alla legalità abbia detto nulla sulla vicenda? Beppe Grillo ha taciuto, Luigi Di Maio e Rocco Casalino pure. L’unico che ha commentato è stato Alessandro Di Battista: “Dovrebbe intervenire per far capire alla propria compagna che occorre sistemare questa situazione. Se una persona ricopre un ruolo pubblico ha il dovere di essere onesto e di apparire come tale”. Perché Fico dopo i nostri servizi ha deciso di querelarci? Antonino Monteleone ha incontrato il presidente della Camera e citando Beppe Grillo gli ha chiesto se è d’accordo con un intervento del leader dei 5 stelle: “Di solito si querela la verità, ma la menzogna. Chi querela sono i politici e i rappresentanti delle cosiddette istituzioni, quando non hanno altre argomentazioni per finire sui giornali di regime e fare la figura dell’innocente”. Fico però non è completamente d’accordo: “Quando qualcuno pensa di essere stato diffamato, querela. I magistrati hanno scritto che io non ho alcuna colf a nero nella casa dove abito, dove ho la residenza...”. Ma qui cerca di cambiare le carte in tavola: nessuno ha mai sostenuto che la domestica sia nell’appartamento in cui lui ha la residenza. Come fa a confondere le due cose? Anche un giudice ha scritto che questa sua dichiarazione è falsa: la colf Imma è in nero. E Fico prova a spiegare perché il giudice non gli ha dato ragione: “La diffamazione è stata archiviata perché è valso il diritto di cronaca”. Nelle carte si precisa che “la fonte della notizia è risultata qualificata e la ricostruzione della vicenda è apparsa veritiera. Nel caso specifico, gli indagati (cioè Le Iene, ndr) hanno riportato un dato logico e di interesse pubblico evidenziando la mancata regolarizzazione di un rapporto di lavoro della colf”. A queste obiezioni della iena Monteleone Fico si è opposto insistendo di aver ragione: “Tutti i giudici hanno scritto che io non ho alcuna colf a nero”. In tutto ciò a noi interessa che fine abbia fatto Imma, che è stata sostituita da un’altra collaboratrice. “Farà la sua vita”, risponde Fico. Ma come: non era tanto amica? E al di là di tutto rimane una domanda: può la terza carica dello stato liquidare come amicizia una colf in nero senza contratto e contributi? A casa cosa penseranno i tanti cittadini che rispettano la legge mettendo in regola i propri domestici e dipendenti? 

C'ERA UNA VOLTA "ONESTA’, ONESTA’". Valentina Errante per “il Messaggero” del 3 aprile 2019. Pressioni, ingerenze. Nel groviglio che si era creato in Campidoglio è difficile distinguere tra gli interessi privati delle figure istituzionali e quelli pubblici. Le consulenze e gli incarichi da parte degli imprenditori avrebbero creato corridoi speciali per i progetti facendoli passare per scelte politiche. Così Marcello De Vito lavorava ai fianchi i suoi compagni di partito, per convincerli della bontà dei progetti. E a sorpresa, dalle carte di due inchieste che inevitabilmente si intrecciano, emerge anche un vecchio rapporto professionale, tra un' azienda della famiglia Parnasi e l' ex assessore all' Urbanistica Paolo Berdini, nemico acerrimo del progetto Tor di Valle. Circostanze che confondono gli affari personali e l' interesse pubblico, almeno secondo Parnasi che sostiene che una parcella pagata a metà abbia scatenato l' avversione del futuro assessore. Non emerge con chiarezza, invece, come sia stato possibile che il progetto degli Ex Mercati generali, business dei fratelli Toti, non sia passato all' esame del Consiglio comunale, ma abbia ottenuto direttamente l' approvazione della giunta. Non lo chiarisce neppure l' assessore all' Urbanistica, Luca Montuori, sentito subito dopo gli arresti, così come gli altri testi, interrogati dai pm Barbara Zuin e Luigia Spinelli dopo l' ennesimo terremoto nel pianeta Cinquestelle. Così come un doppio ruolo lo avrebbe svolto Luca Lanzalone, imputato per corruzione, al quale la sindaca suggeriva di mandare «tutto il materiale sui Mercati generali», almeno secondo il verbale della presidente della commissione Urbanistica. È Alessandra Agnello, presidente della Commissione capitolina Lavori pubblici, sentita come testimone il 22 marzo, a raccontare alle pm Barbara Zuin e Luigia Spinelli delle pressioni di De Vito: «Con riferimento alla realizzazione del Nuovo stadio della Roma io ho avvertito un certo pressing da parte di De Vito. Notai che era particolarmente eccitato e sollecitava tutti ad andare avanti a votare favorevolmente». La consigliera del M5S ha aggiunto che, in occasione di una riunione di maggioranza preliminare alla delibera per la dichiarazione di pubblica utilità dell' opera, votò contro, «ma in sede consiliare mi sono adeguata alla maggioranza come da codice etico del Movimento. Nella riunione di maggioranza, effettivamente, De Vito era il più attivo per trascinare tutti a votare a favore. Rimasi colpita da questo atteggiamento, non mi vengono in mente altre riunioni nelle quali si fosse mostrato così determinato». Nel groviglio di rapporti intrecciati è stato lo stesso Luca Parnasi a riferire ai pm di una vecchia ruggine tra lui e l' ex assessore all' Urbanistica Paolo Berdini, nemico numero uno del progetto stadio. Spiegando così - fatture alla mano - la netta opposizione dell' assessore, poi sostituito da Montuori, al progetto Tor di Valle. L' incarico di progettazione per una convenzione edilizia in via Laurentina tra Parsitalia e la Regione risaliva al 2005. Berdini, allora vicino a Rifondazione comunista, nel 2008 avrebbe percepito solo il 50 per cento dell' incarico, che ammontava a oltre 78mila euro, per il mancato conseguimento degli obiettivi. L' assessore Luca Montuori, invece ha ricordato come nel Consiglio comunale De Vito spingesse perché il progetto Mercati generali andasse avanti. «La prima volta in cui lui mi chiese di incontrare gli investitori nel progetto dei Mercati Generali - ha detto a verbale - io restai perplesso». L' assessore cerca poi di spiegare come la delibera venne votata in giunta: «Mi sono confrontato con il mio staff in merito alla competenza della Giunta o del Consiglio per l' approvazione del progetto. Mi sono confrontato soprattutto con il direttore del Dipartimento, Roberto Botta, i funzionari che si occupano delle concessioni, altri funzionari interni all' amministrazione esperti di convenzioni, con l' Avvocatura capitolina e poi, in particolare, con il Segretario Generale, Pietro Paolo Mileti e il Vice Segretario Maria Rosa Turchi». Mileti, interpellato sul punto dai pm, dice di non ricordare.

Le regole del M5S ? Non valgono nulla! Il "caso De Vito" nella Capitale lo dimostra. Il Corriere del Giorno il 21 Luglio 2019. Sulla “posizione” di Marcello De Vito, quindi vige il codice di comportamento firmato nel 2016 e che prevede le dimissioni solo “se, durante il mandato, sarà condannato in sede penale, anche solo in primo grado. O se in seguito a fatti penalmente rilevanti venga iscritto nel registro degli indagati e la maggioranza degli iscritti al M5S mediante consultazione in rete ovvero i garanti del Movimento decidano per tale soluzione nel superiore interesse della preservazione dell’integrità M5S”. Il codice di comportamento firmato solennemente prima delle elezioni amministrative del 2016 da Virginia Raggi e Marcello De Vito non serve a nulla , o meglio serve a a tutelare De Vito presidente del Consiglio Comunale di Roma (attualmente agli arresti domiciliari) che non può essere espulso da un’associazione diversa da quella del 2009 con cui si era candidato ed è stato eletto in Assemblea capitolina. In poche parole, legalmente parlando, è come se nella Capitale in Campidoglio è come se ci fosse un partito diverso da quello che c’è in Parlamento, che quindi su base su altre logiche e regole e persino ad altri garanti uno dei quali è deceduto. E’ questa la vera ragione per la quale i nuovi probiviri del M5S non possono decidere e prendono tempo . Il “caso” del consigliere comunale del M5S  Marcello De Vito, che si trova agli arresti domiciliari per “corruzione” sulla vicenda del nuovo stadio della Roma Calcio , rischia di essere persino più complicato di quanto pensasse il solito Luigi Di Maio che parla tanto e dimostra ancora una volta di non sapere quello che dice. Venerdì scorso era attesa la decisione dei probiviri del M5S che a molti sembrava piuttosto scontata.  Ci si aspettava l’espulsione sopratutto a seguito delle dichiarazioni del capo politico del M5S  Di Maio, fatte il 20 marzo scorso due ore dopo l’arresto di De Vito, che lo aveva espulso in direttissima attraverso Facebook e televisioni vari  commettendo però ancora una volta un grande errore: non risulta scritto da nessuna parte che il capo politico del Movimento 5 Stelle  possa irrogare sanzioni,  e non c’è neanche la fattispecie per la quale Marcello De Vito si è beccato pubblicamente  un “calcio nel sedere”  che per il momento resta metaforico e mediatico. E niente di più. Di fatto quell’espulsione annunciata da Di Maio non è mai arrivata. Ed ancora non arriva. Al momento esiste solo un procedimento ancora pendente. Una dei nuovi probiviri del M5S Raffaella Andreola, consigliera comunale di Villorbo, piccolo paesino del Veneto, demandata a decidere sul presidente del Consiglio Comunale di Roma, si limita a dichiarare “Stiamo valutando“,  ma non dice cosa. E le assurdità di questa vicende non sono ancora finite. Infatti il Movimento 5 Stelle che ha partecipato alle elezioni politiche del 2018 in realtà è un partito diverso da quello che si era presentato e aveva vinto le elezioni amministrative a Roma, che  un’associazione politica costituita del 2009, che aveva un proprio simbolo che richiamava Beppe Grillo, che aveva fatto votare online sulla pagina del Movimento 5 Stelle,  il candidato sindaco a una determinata platea di iscritti. Invece Luigi Di Maio è il capo politico di un’altra associazione creata nel 2017 ed utilizzata in occasione delle ultime elezioni politiche del 2018. Dal punto di vista legale è come se fosse un altro partito, avendo un proprio statuto, che è stato scritto incredibilmente da un altro indagato , l’ avvocato Luca Lanzalone, ex-presidente dell’ ACEA spa (in quota M5S) anch’egli finito arrestato per la vicenda dello stadio della Roma. Con un nuovo simbolo da cui è scomparso il nome di Beppe Grillo ed al posto del suo blog iniziale, adesso  vi è  il Blog delle Stelle, che è creatura ed espressione di Davide Casaleggio che lo gestisce in maniera poco trasparente. Un movimento che raccoglie dati e fa votare i propri iscritti sulla piattaforma dell’ Associazione Rousseau, (c0ntrollata sempre da Casaleggio e dai suoi soci-adepti ) e quindi non  più sulle vecchie pagine del M5S dalle quali è stato necessario far migrare tutti i precedenti dati. Sulla “posizione” di Marcello De Vito, quindi vige il codice di comportamento firmato nel 2016e che prevede le dimissioni solo “se, durante il mandato, sarà condannato in sede penale, anche solo in primo grado. O se in seguito a fatti penalmente rilevanti venga iscritto nel registro degli indagati e la maggioranza degli iscritti al M5S mediante consultazione in rete ovvero i garanti del Movimento decidano per tale soluzione nel superiore interesse della preservazione dell’integrità M5S“.  Vi è anche un piccolo particolare su cui ha fatto giurisprudenza l’avvocato Lorenzo Borré, che assiste legalmente e vince quasi sempre i ricorsi degli espulsi “grillini”: il M5S del 2009 non ha più la disponibilità del sito e peraltro uno dei garanti è morto (Gianroberto Casaleggio) e l’ex-garante Beppe Grillo si guarda bene dal far smuovere le acque. Nel frattempo De Vito attraverso il suo legale ha inviato una memoria difensiva ai probiviri ed al momento nessuno sa o rivela le intenzioni del presidente dell’Assemblea capitolina (ancora in carica, nonostante gli arresti !) se restare o meno  fra gli iscritti del M5S. Il secondo grado di giudizio politico, dopo i probiviri,  è il Comitato di Garanzia dove siede Roberta Lombardi che è sempre stata molto vicina a De Vito.  L’ avvocato Borrè spiega  che “Non si potrebbero contestare a De Vito ipotetiche violazioni -tutte da dimostrare- di norme di un’associazione diversa da quella che pretende di irrogare sanzioni disciplinari .Tantomeno gli si possono contestare eventuali mancanze agli obblighi gravanti sugli eletti nel partito del 2017, perché appunto egli è consigliere eletto nelle liste di altra, antitetica associazione“. E la “barzelletta” sull’onestà del M5S continua  ancora….

MENTRE I GRILLINI FANNO I MANETTARI CON SIRI, DE VITO PARLA DAL CARCERE E GLI ROVINA LA FESTA GIUSTIZIALISTA: "LE DECISIONI SULLO STADIO SONO STATE PRESE DA TUTTO IL MOVIMENTO". Valentina Errante per Il Messaggero l'11 maggio 2019. Solo dichiarazioni spontanee, per dire che la delibera del progetto Tor di Valle era stata condivisa dall' intera maggioranza: «Tutte decisioni concordate nel rispetto dell' iter amministrativo». Marcello De Vito, ex presidente del consiglio comunale, in carcere per corruzione dallo scorso 20 marzo, incontra per la prima volta i pm che lo accusano di avere creato, insieme all' avvocato Camillo Mezzacapo, un «format» che prevedeva una corsia preferenziale in Campidoglio per i progetti delle aziende che affidavano incarichi professionali allo studio legale Mezzacapo. Sulle parcelle, poi, lo stesso De Vito avrebbe ottenuto una percentuale. «Non sono un corrotto né una persona corruttibile». E ai pm, l' ex presidente del consiglio comunale ha spiegato quali siano stato l' iter, all' interno dei Cinquestelle, per la formazione della maggioranza quando, nel giugno 2017, si era stabilito che lo Stadio dovesse avere il requisito dell' interesse pubblico. «Il nostro statuto prevede che si voti compatti». In attesa delle motivazioni del Tribunale del Riesame, che ha confermato le misure cautelari per gli indagati, le indagini intanto vanno avanti sui cellulari sequestrati al momento degli arresti anche all' influencer grillino Gianluca Bardelli, finito ai domiciliari. I carabinieri stanno recuperando tutte le chat, anche quelle cancellate, dalle quali ritengono di potere trovare altri elementi di indagine. Buona parte della deposizione di Marcello De Vito, durata circa un' ora e mezza, è stata dedicata alle questioni interne ai Cinquestelle, per chiarire che la delibera approvata in Consiglio comunale il 14 giugno 2017, e considerata dalla procura la contropartita ottenuta dall' imprenditore Luca Parnasi che aveva affidato incarichi allo studio Mezzacapo, era in realtà autentica espressione della maggioranza all' interno del Movimento, raggiunta anche dopo polemiche e defezioni. Così come prevede lo Statuto. Di certo, non sarebbe stato lui a spingere. Davanti ai pm Barbara Zuin e Luigia Spinelli, ha così ripercorso tutti i passaggi, partendo dalla prima crepa, al momento dell' esame del municipio. Anche sul progetto dell' ex fiera di Roma, che, secondo i pm, De Vito avrebbe spinto sulla base di incarichi legali affidati allo studio Mezzacapo dai fratelli Toti, il consigliere grillino ha respinto ogni addebito. «Tutto regolare». Così come ha potuto fornire la sua versione senza contraddittorio anche sul progetto dell' ex stazione Trastevere di Giuseppe Statuto, il terzo episodio di corruzione, secondo la procura. «Il nostro assistito - hanno spiegato gli avvocati Angelo Di Lorenzo e Guido Cardinali - ha fornito chiarimenti agli inquirenti, spiegando nel dettaglio i vari passaggi della procedura che ha portato alla delibera di Tor di Valle». Non è escluso che la prossima settimana i pm ascoltino Mezzacapo che, davanti al gip, aveva reso dichiarazioni spontanee ma adesso ha dato la propria disponibilità ad essere interrogato.

Mettetevelo in testa: onestà e competenza non bastano per governare. Lo spiegava già Tocqueville a metà Ottocento e oggi tanti leader politici farebbero bene a rileggerlo. Essere onesti è un prerequisito. E non ha alcun senso opporgli la presunta competenza, scrive Antonio Funiciello il 2 aprile 2019 su Panorama. L’oblio della politica è l’oblio delle idee della politica. Ramsay MacDonald, uno dei fondatori del Labour Party britannico e primo premier laburista della storia, diceva che i partiti mangiano idee, si nutrono di idee. Se privi un partito di idee, gli sottrai la possibilità stessa di nutrirsi e, quindi, di perseverare nei propri scopi e prosperare a beneficio di se stesso e della nazione. Più in generale, si potrebbe dire lo stesso riguardo alla politica, della quale nelle democrazie liberali i partiti sono i macchinari aziendali e gli attrezzi di bottega.

Chi di manette ferisce, di manette perisce, scrive il 21marzo 2019 Mirko Giordani su Il Giornale. Marcello De Vito, Movimento 5 Stelle, è innocente fino a prova contraria, e chiunque sia contrario a questo principio non vive nel 21esimo secolo ma nell’alto Medioevo. A dire la verità questo principio non è neanche vagamente accettato dai Cinque Stelle, che si sono dimostrati pronti ad impiccare chiunque in pubblica piazza anche per un semplice avviso di garanzia. Tradizione ereditata dalla sinistra manettara. Adesso che uno di loro è finito sul patibolo e non per una stupidaggine, ma per corruzione, c’è da sperare che De Vito ne esca pulito, c’è da essere garantisti fino all’ultimo, e di evitare di agire come dei lupi che mangiano delle carcasse morte. In poche parole, non dobbiamo comportarci come i pentastellati, sempre pronti con il cappio in mano e con la ghigliottina insanguinata. Che sia da monito per gli sbruffoni, che sia da monito a quel signore della politica che si chiama Giarrusso, che faceva il segno delle manette agli avversari politici. Mai come oggi la poesia di John Donne è attuale: per chi suona la campana? Ieri per i partiti tradizionali, oggi per i duri e puri dei 5 Stelle.

Dai "mariuoli" alle mele marce, scrive Francesco Maria Del Vigo, Giovedì 21/03/2019, su Il Giornale. C'è un'operazione in corso all'interno dei Cinque Stelle. Una grande, orchestrata e pianificata campagna mediatica per far passare un concetto: Marcello De Vito, presidente dell'assemblea capitolina finito in manette per tangenti sul nuovo stadio, è solo una mela marcia. Una solenne menzogna. Perché De Vito, ora scaricato come un pacco dai vertici del Movimento, era espressione del Movimento stesso. Assolutamente organico ai papaveri pentastellati, ortodosso, allineato con i duri e puri della prima ora. Ossessionato da tutte le parole d'ordine dei grillini: legalità, trasparenza, lotta alla corruzione e alla casta. Bellissime parole, a quanto pare tutte disattese. Almeno a giudicare dalla reazione di Di Maio che lo ha immediatamente espulso, al di fuori di ogni regola del partito. Ma basta dare un'occhiata agli ultimi spot elettorali di De Vito, per capire di avere davanti un grillino doc. Il tutto condito da una esibita ostilità nei confronti di tutte le grandi opere. Per poi - scherzo del destino - scivolare su quelle medie, come lo stadio della Capitale. A dimostrazione che il problema non è la dimensione di quello che si vuole costruire, ma la statura di chi presiede quei lavori. Bastano un piccolo uomo e un politico meschino per fare una grande truffa con un'opera modesta. E neppure i Cinque Stelle sfuggono a questa regola.

Con gli arresti di Roma hanno definitivamente perso la loro verginità, è crollato il mito di una presunta superiorità morale e financo antropologica. «Questa congiunzione astrale... è tipo l'allineamento della cometa di Halley, hai capito? Cioè è difficile secondo me che si riverifichi così... e allora noi, Marcè, dobbiamo sfruttarla sta cosa, secondo me, cioè guarda... ci rimangono due anni», si dicono al telefono l'avvocato Camillo Mezzacapo e Marcello De Vito, con un linguaggio astrale involontariamente ironico. E di fatto inserendo anche la corruzione nel firmamento fondato da Grillo e Casaleggio. E, ad essere malevoli, i sondaggi dimostrano che il Movimento non è lontano dalla sua notte di San Lorenzo. Non solo, avvisiamo il partenopeo Di Maio che bollare come mela marcia, come metastasi isolata senza pericolo di contagio, il compagno di partito che sbaglia, porta iella. E non esistono gesti apotropaici per scongiurarla. Lo insegna la storia recente. Dietro a un corrotto molto spesso se ne nasconde un altro, e così via. Il 17 febbraio 1992, il socialista Mario Chiesa, allora presidente del Pio Albergo Trivulzio, venne colto con le mani nella marmellata: una mazzetta di sette milioni di lire. Bettino Craxi lo definì: «un mariuolo isolato». Da quella stecca nacque l'inchiesta Mani pulite. Il sassolino che preludeva una valanga. E sappiamo tutti che fine hanno fatto Craxi e il Partito socialista.

''ROMA È IN MANO A UNA LOBBY OPACA''. Giuseppe Salvaggiulo per ''La Stampa'' il 20 aprile 2019. Roma in mano a una lobby opaca, che indirizza la sindaca Raggi. Grillo impotente. I dissidi interni. Le filiere di potere. Pinuccia Montanari racconta la sua verità. Chiamata a Roma a fine 2016, se ne è andata l' 8 febbraio, dopo che la giunta Raggi ha bocciato il bilancio di Ama, l' azienda comunale dei rifiuti, e poco prima del licenziamento del presidente, Lorenzo Bagnacani, che ha depositato gli esposti e gli audio della sindaca su cui indaga la Procura.

Che effetto le ha fatto ascoltarli?

«In pubblico la Raggi ci sosteneva. In privato, come dimostrano gli audio, mostrava un' altra faccia».

Bagnacani parla di pressioni. Le ha subite anche lei?

«Su di me non potevano esercitarle. Ma ho assistito a quelle di Franco Giampaoletti, direttore generale del Comune, su Rosalba Matassa, ottima dirigente del mio assessorato, perché cambiasse il suo parere positivo al bilancio di Ama».

La dirigente come reagì?

«Era disperata. Alla fine si è dimessa. Il suo successore ha poi fatto quello che Giampaoletti voleva».

La Raggi obietta: anche il collegio sindacale di Ama aveva dato parere negativo.

«Un' informazione inesatta. In un primo momento aveva dato parere favorevole. Ma a distanza di mesi, e nonostante fosse decaduto secondo pareri giuridici indipendenti e autorevoli, lo stesso collegio ha ribaltato il parere. Una vicenda non solo sorprendente e rarissima, ma anche inquietante».

In che senso?

«Durante la giunta dell' 8 febbraio chiesi a Giampaoletti se era vero che quel parere era stato cambiato dopo che lui aveva preso un caffè col presidente del collegio sindacale, Marco Lonardo. Lui confermò. E qui mi fermo, perché c' è un' inchiesta penale in corso».

Che altro successe in quella giunta, l' ultima per lei?

«Giampaoletti mi mostrò per la prima volta la delibera che bocciava il bilancio dell' Ama: "Assessore, c' è da firmare".

Una scorrettezza assoluta».

E gli altri assessori?

«Margherita Gatta condivideva le mie perplessità. Ma votò a favore dopo che Marcello De Vito (allora presidente dell' Assemblea capitolina, poi arrestato per corruzione, ndr), le si avvicinò sussurrandole qualcosa all' orecchio».

Fu stupita?

«Solo in parte. Negli ultimi mesi tra Raggi e De Vito c' era totale sintonia».

Poi cosa successe?

«Io votai contro e mi dimisi. Grillo, che avevo informato perché era stato lui a chiedermi di fare l' assessore a Roma nel 2016, mi disse che sulla mia rimozione erano irremovibili e lui non poteva essere d' aiuto».

Sa se Grillo ne ha parlato con la Raggi?

«Certo, l' ha anche tacciata di ingratitudine nei miei confronti. Poi mi ha detto che avevo fatto bene ad andarmene».

Per la sua esperienza, che ruolo ha Grillo nel M5S?

«Ne custodisce i valori, ma non può far nulla. Ha scarsa voce in capitolo, almeno su Roma».

Nei mesi precedenti aveva provato a parlare con la Raggi?

«Era totalmente inaccessibile, schermata dai suoi collaboratori».

Come comunicavate?

«Con il sistema delle chat. Un meccanismo terrificante che, all' occorrenza, serve a colpire implacabilmente le persone che dissentono, per delegittimarle».

Chi è Giampaoletti, con cui lei si era scontrata in Campidoglio?

«Direttore generale del Comune e più stretto collaboratore della sindaca. Come Lemmetti, portato a Roma dall' avvocato Luca Lanzalone, che nel suo ufficio lasciava la valigia ogni volta che passava da Roma».

A Genova vi eravate incrociati?

«Con Giampaoletti no. Con Lanzalone una volta. L'aveva chiamato il segretario generale del Comune per una consulenza sull' azienda trasporti».

Chi era il segretario generale?

«Mariangela Danzì, attuale capolista del M5S alle Europee nel Nord-Ovest. Altro personaggio importante. Molto amica di Pietro Paolo Mileti, segretario generale del Campidoglio, a sua volta legatissimo a Giampaoletti. Stessa, unica filiera».

Ovvero?

«Lanzalone, Lemmetti, Giampaoletti. Gli ultimi due hanno brindato alla buvette del Campidoglio la sera delle mie dimissioni».

Lanzalone l' ha poi ritrovato a Roma?

«Ce lo presentarono Bonafede e Fraccaro come un giurista a nostra disposizione».

Il suo ruolo nasce dal rapporto con Grillo?

«Non mi risulta. Ho ragione di credere che nasca a Milano, non a Genova».

Che idea si è fatta del licenziamento di Bagnacani?

«Vergognoso, come il mio isolamento. Cacciati perché portavamo avanti i valori del M5S».

Chi prende le decisioni in Campidoglio: la sindaca?

«No. Mi sono fatta l' impressione che a comandare sia una lobby opaca. Lei non conta più molto, a quanto vedo. Pare eseguire le direttive delle persone che la circondano».

Ama è un' azienda decotta?

«Sciocchezze. È solida e ricca. Dal punto di vista industriale può essere una macchina da guerra. Ma Lemmetti e Giampaoletti avevano altre mire».

Quali?

«Non lo so. Ma certo fa gola un business miliardario garantito per i prossimi 15 anni».

E quindi?

«Se paralizzata e sabotata, Ama può essere poi essere spolpata».

La Raggi dice: Roma era nella merda, per questo ho cacciato Bagnacani.

«Sciocchezze. Tutto quello che abbiamo fatto, con fatica, è stato condiviso con lei. E poi per strada la merda, per usare il suo linguaggio, c' è anche ora che lei si è liberata di noi.

Ma non se ne parla più».

Roma è un capitolo chiuso?

«Scriverò un libro. Titolo: Assesso' nun se po fa'».

Lorenzo D'Albergo per ''la Repubblica'' il 20 aprile 2019. Pinuccia Montanari è l' ex assessora all' Ambiente della giunta Raggi. Amica di Beppe Grillo, di Reggio Emilia come l' ex presidente di Ama Lorenzo Bagnacani, non ha dubbi: «Perché dannarsi per chiudere in rosso il bilancio dell' azienda? Perché dopo due rendiconti in rosso una società che vale 7 miliardi e che ha un affidamento per i prossimi 15 anni, dove la garanzia sono i soldi dei cittadini, può essere privatizzata. Ci ho provato in tutti i modi a farli ragionare, per il bene del Movimento. Ma la sindaca ha scelto un' altra strada». Uscita dal Campidoglio lo scorso 8 febbraio, alla bocciatura del rendiconto 2017 della municipalizzata, Montanari prefigura il futuro di un' Ama data in pasto ai privati: «Prenderebbero soltanto la parte in cui si fanno lauti guadagni, lasciando al pubblico il resto». Il business dei rifiuti da una parte, lo spazzamento e il decoro dall' altra.

Dottoressa Montanari, ma qualcuno le ha mai detto che il piano era questo?

«No, in caso il contrario. Ma qui parlano i fatti, non le intenzioni. E questo blocco su Ama non aveva senso per chi voleva il bene della capitale».

Deve pensarla così anche Grillo. Si è schierato dalla sua parte.

«Beppe, a livello nazionale, è l' unico che ha capito la situazione. Mi ha anche scritto che in Comune erano irremovibili e che avevo fatto bene ad andarmene. L' unico che conserva i valori 5S è lui. Ma non può far nulla».

E a Roma? I consiglieri difendono la sindaca.

«Molti di loro hanno espresso vicinanza alle mie posizioni. Ma non tutti si sentono di fare gli eroi. Peccato, la politica ha tempi brevi e l' etica dovrebbe prevalere».

Era presente alle riunioni finite nelle registrazioni pubblicate dall' Espresso?

«Sì, a un incontro».

E che effetto le fa risentire quegli scambi?

«Risentendoli ho pensato che la politica deve avere il massimo rispetto per l' autonomia dei manager. Ieri sera, in tv, ho sentito la sindaca dire che poteva fare quello che voleva su Ama in quanto partecipata al 100%. È la stessa teoria di Lemmetti (Gianni, assessore al Bilancio, ndr). Ma il controllo sulle partecipate è altro».

Lo dicono anche i pareri che Ama ha richiesto a diversi legali Però, poi, il cda è stato comunque allontanato. Quale passaggio le resta più oscuro?

«Il collegio sindacale ha cambiato opinione dopo un caffè con Giampaoletti (Franco, il dg del Comune finito sotto inchiesta per tentata concussione proprio sul caso Ama, ndr). È terribile quello che c' è scritto sull' articolo dell' Espresso. Se fosse vero che il presidente del collegio sindacale ha avuto qualcosa in cambio della modifica del parere, sarebbe gravissimo. Equivarrebbe a falsificare un parere sul bilancio, cambiandolo, per un vantaggio ».

Cosa le diceva Bagnacani in quelle ore?

«Che lui era corretto. E su questo non ho dubbi. Se si deve cambiare un bilancio, occorre farlo solo sulla base di idonea documentazione, che non c' era».

E ora?

«Penso che faranno molta fatica a far digerire quel bilancio in giunta, rischiano di approvare un falso. Io li ho avvertiti».

Se potesse tornasse indietro?

Cosa direbbe alla sindaca?

«Le suggerirei di esaminare tutti i pareri per farmi un' idea. Ma la sindaca ha scelto la via di Lemmetti e Giampaoletti. Per ora le ha portato lo stallo sul porta a porta, un' azienda senza cda e bilancio. Assistiamo alla lenta agonia di Ama e della città. Noi avevamo iniziato un cambiamento, ma qualcuno lo ha bloccato. A Reggio Emilia, dove il porta a porta è partito nel 2006, oggi la differenziata è all' 80%. Roma avrebbe potuto fare lo stesso. La sindaca non è stata lungimirante».

Ora, però, si difende.

«Stanno dicendo tante fesserie. La storia dei bonus ai dirigenti è falsa. E poi sono passati due mesi e il bilancio desiderato da sindaca, Lemmetti e Giampaoletti non è stato ancora approvato. Perché se il problema era Bagnacani?».

Virginia Raggi: «Roma è fuori controllo». Ecco gli audio finiti in procura nell'inchiesta su Ama. L'esposto di Bagnacani, ex ad dell'azienda dei rifiuti poi licenziato: «La sindaca ci ha fatto pressioni per chiudere il bilancio in rosso». Depositati registrazioni e chat. La grillina: «I romani si affacciano e vedono la merda». E al manager sui conti: «Devi fare quello che ti diciamo, anche se ti dicono che la luna è piatta». L'inchiesta esclusiva sulle pressioni del Campidoglio, scrive Emiliano Fittipaldi il 18 aprile 2019 su L'Espresso. A Roma la guerra della monnezza è senza quartiere. Si combatte nelle piazze e nelle strade, che una ricerca dell’Eurostat certifica come le più sporche d’Europa. Dentro i palazzi del potere, dove i nemici dell’amministrazione pentastellata, Matteo Salvini in primis, usano «i topi» e «il degrado mai visto prima» come armi da campagna elettorale. Si combatte negli impianti dell’Ama del Salario e di Rocca Cencia, andati a fuoco per cause misteriose nei mesi scorsi. Ma oggi il fronte che preoccupa di più Virginia Raggi e il suo cerchio magico è quello di Piazzale Clodio, sede della procura della Capitale. Se è noto che i magistrati hanno iscritto nel registro degli indagati alcuni alti dirigenti del Comune e il direttore generale del Campidoglio Franco Giampaoletti, L’Espresso ha scoperto che l’ex presidente e ad dell’Ama Lorenzo Bagnacani, che è stato licenziato in tronco dalla Raggi a febbraio, qualche giorno fa ha spedito ai pm un nuovo esposto, dove accusa la sindaca in persona. E lo raccontiamo sul nuovo numero in edicola da domenica 21 aprile e  in anteprima online su Espresso+. La Raggi, scrive Bagnacani ai pm, avrebbe infatti esercitato «pressioni» indebite su di lui e sull’intero cda dell’azienda, «finalizzate a determinare la chiusura del bilancio dell’Ama in passivo, mediante lo storno dei crediti per i servizi cimiteriali». Secondo la denuncia, in sintesi, la sindaca avrebbe spinto il manager a togliere dall’attivo dell’azienda (il bilancio era in utile per oltre mezzo milione di euro, un dato di poco inferiore rispetto a quello dell’anno precedente) «crediti che invece erano certi, liquidi ed esigibili», con l’unico obiettivo - sostiene Bagnacani - di portare i conti di Ama in rosso. Un’accusa grave e molto simile a quella che l’ex direttrice del dipartimento Rosalba Matassa ha lanciato contro Giampaoletti, attuale braccio destro della sindaca ora indagato per tentata concussione.

La rilevanza penale della vicenda è ancora tutta da dimostrare. Ma è un fatto che la storia rischia di creare più di un grattacapo alla sindaca. Anche perché Bagnacani a fine marzo ha allegato, insieme all’esposto, alcune registrazioni contenenti colloqui tra lui, Virginia Raggi e altri dirigenti comunali, oltre a centinaia di conversazioni a due fatte con la sindaca su Telegram e WhatsApp. L’Espresso le ha lette, e ha ascoltato anche altri file acquisiti dalla Guardia di Finanza. Negli audio la Raggi parla al suo amministratore con tono assertivo («Lorenzo, devi modificare il bilancio come chiede il socio... se il socio ti chiede di fare una modifica la devi fare!») e appare prona agli input degli uomini della sua struttura tecnica, composta da fedelissimi come il dg Giampaoletti, uomo vicino a Luca Lanzalone, e il super assessore al Bilancio e alle Partecipate, il potente Gianni Lemmetti. Così, al numero uno dell’Ama Bagnacani che le spiega come lui si sentirebbe in grande difficoltà a modificare il bilancio davanti a motivazioni «squalificate», la Raggi gli ordina secco: «Se tu lo devi cambiare comunque, lo devi cambiare. Punto. Anche se loro dicono che la luna è piatta». Le registrazioni svelano una sindaca inedita. Che, pur di far cambiare idea al suo amministratore delegato, arriva a promettergli un prestito in favore di Ama da ben 205 milioni di euro («così ti levi dalle palle le banche»). E che, spazientita, dice che Roma «è praticamente fuori controllo», che «i sindacati fanno quel cazzo che vogliono», e la Tari, la tassa sui rifiuti, non può essere aumentata perché «i romani oggi si affacciano e vedono la merda. In alcune zone purtroppo è così, in altre zone è pulito e tenete bene...in altre zone...cioè non c'è modo, non c'è modo. Allora...quando ai romani gli dico sì la città è sporca però vi aumento la Tari, ma io scateno, cioè mettono la città a ferro e fuoco altro che gilet gialli ». Bagnacani non ha mai voluto modificare il bilancio come chiesto dalla Raggi e dai suoi uomini, temendo di fare un falso in bilancio. «Virginia, così ci beccano...non possiamo fare quello che non può essere fatto», le dice). Lo scorso febbraio il manager e i membri del cda sono stati licenziati per «giusta causa». In pole position per prendere il posto di Bagnacani ora c'è l'avvocato Pieremilo Sammarco, che ha mandato il suo curriculum per diventare presidente di Ama. La Raggi ha lavorato nel suo studio prima di diventare sindaca. «Pieremilio? È il mio dominus», ha detto in passato.

«Devi cambiare il bilancio»: le parole che imbarazzano Raggi L’esposto dell’ex ad dell’Ama. Pubblicato giovedì, 18 aprile 2019 da M. Egizia Fiaschetti e Ilaria Sacchettoni su Corriere.it. «I romani si affacciano e vedono la m...» dice la sindaca Virginia Raggi, registrata da Lorenzo Bagnacani, ex amministratore delegato della municipalizzata dei rifiuti (Ama) licenziato dal Campidoglio lo scorso febbraio, quando la lite sul bilancio aziendale era esplosa in tutta la sua gravità. Parole agli atti della Procura, perché Bagnacani da manager defenestrato si è trasformato in grande accusatore dei vertici capitolini, prima depositando un esposto e, ora, integrando quella denuncia con gli audio delle sue conversazioni con la sindaca. Dal suo primo esposto, nei mesi scorsi, è partita l’inchiesta dei magistrati Paolo Ielo e Luigia Spinelli nella quale si ipotizza una tentata concussione — i vertici capitolini avrebbero premuto sul collegio sindacale dell’Ama affinché modificasse il bilancio — per la quale ci sono già i primi indagati, il direttore generale Franco Giampaoletti (che finora ha sempre smentito) il suo vice Giuseppe Labarile e l’ex ragioniere generale capitolino Luigi Botteghi. Ora, il nuovo materiale depositato in Procura dimostrerebbe non solo che le pressioni per far andare il bilancio in rosso ci furono, ma che a quelle pressioni avrebbe preso parte la stessa sindaca. Perché al di là della descrizione (più o meno colorita) della situazione rifiuti, dagli audio pubblicati dall’Espresso emerge anche il diktat della sindaca nei confronti del suo manager: «Devi modificare il bilancio. (...) Anche se loro dicono che la luna è piatta. (...) Il socio ti chiede di fare una modifica: la devi fare». Frasi che vanno lette anche alla luce di quanto è accaduto successivamente, quando Bagnacani è stato estromesso dalla municipalizzata, per non essersi adeguato agli ordini venuti dall’alto. Nei prossimi giorni è possibile che l’ex ad venga nuovamente ascoltato dagli investigatori. Monta così un nuovo caso che rischia di travolgere la prima cittadina pentastellata, dopo anni di bufere giudiziarie, avvicendamenti di assessori, processi politici. Parole, quelle di Raggi, che denunciano impotenza nell’amministrazione della Capitale. Secondo l’opposizione e non solo — anche gli alleati della Lega si lanciano all’attacco — si tratterebbe di un’ammissione di incapacità della sindaca. Il nuovo atto d’accusa di Bagnacani, intanto, potrebbe portare a un salto di qualità investigativo. Potenzialmente, infatti, le frasi di Raggi, acquisite dai magistrati, sono prove di una pressione esercitata nei confronti del suo ex dirigente. Ma la sindaca si difende su Facebook e lancia la controffensiva: «Molto rumore per nulla. Indagano il governatore dell’Umbria Catiuscia Marini per concorsi truccati nella sanità; il sottosegretario della Lega Armando Siri per una presunta tangente di 30 mila euro tra Sicilia e Liguria; il segretario del Pd e Governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, per finanziamento illecito... Ma parlano di me». E sul linguaggio disinvolto, non proprio istituzionale, emerso dalle registrazione ammette: «Uso parolacce, ma non me ne vergogno perché sono incazzata quando vedo chi pensa a prendere i premi aziendali piuttosto che a pulire la città. Perché questo è quello che si ascolta in quegli audio». Nel respingere gli attacchi, la sindaca insiste su quello che, a suo avviso, sarebbe stato il vero motivo di scontro: «Nessuna pressione, ma solo tanta rabbia per chi non ha fatto bene il lavoro per il quale era pagato. Si pretendeva che approvassi un bilancio con il quale i dirigenti di Ama avrebbero avuto centinaia di migliaia di euro in più. I vertici del Campidoglio hanno bocciato la proposta dell’ex ad Bagnacani. Ed io e la mia giunta abbiamo votato contro come avrebbe fatto qualsiasi romano». E ancora: «Addirittura si ipotizzava che aumentassi la tassa dei rifiuti, mentre in azienda sarebbero continuati ad arrivare i premi a pioggia. Mi sono ribellata e non me ne pento». Le opposizioni però, da Antonio Tajani (FI) a Roberto Morassut (Pd), la accusano di «fallimento» e ne chiedono le dimissioni.

L'ex ad Ama attacca la Raggi: "Sono stato vessato e cacciato". Bagnacani: "Sono stato allontanato per non essermi piegato a delle richieste che reputavo assolutamente non conformi", scrive Angelo Scarano, Venerdì 19/04/2019, su Il Giornale. "Questa vicenda mostra che ho sempre perseguito la via della legalità. Sono stato allontanato per non essermi piegato a delle richieste che reputavo assolutamente non conformi. Ho rispettato le regole anche davanti al rischio di essere cacciato". L'ex presidente di Ama, Lorenzo Bagnacani, in una intervista a la Repubblica torna a parlare delle vicende della municipalizzata romana dopo le rivelazioni del settimanale L'Espresso. "La prima cittadina ha sempre apprezzato il mio operato - dice Bagnacani - Anche fino a poche settimane prima del mio licenziamento, non sono mancati attestati di stima via sms. Ma anche su Facebook e Twitter... continuavano a rilanciare i risultati raggiunti da Ama. Il nostro lavoro quindi è stato apprezzato e rilanciato sui social dal Comune. Qualche rimpianto? Tanto è stato fatto, molto poteva essere ancora fatto. Rivendico di aver impostato il nuovo modello di raccolta differenziata su 320 mila abitanti, una media città italiana, in 8 mesi. Roma ne ha 2,8 milioni, serviva più tempo. Ma su quei 320 mila siamo arrivati al 70% di differenziata e il Conai (il Consorzio nazionale imballaggi, ndr) ci ha riconosciuto il premio 'Teniamoli d'occhiò. Un grandissimo lavoro". E ancora: "Quegli audio fanno capire chiaramente quello che ho vissuto. Sono stati 10 mesi molto duri. Non si riusciva a venire a capo di una situazione banale, facile da comprendere. Anche sui temi più complessi qualsiasi azienda investe una o due settimane, un mese. Qui siamo andati avanti per 10 mesi. La crisi del bilancio ha influito sul servizio offerto ai romani? È evidente. Mi hanno mandato via perchè non ho accettato di modificare il bilancio, come mi chiedeva arbitrariamente il Comune. Non per le performance, quelle le abbiamo migliorate".

In un'altra intervista, questa volta a La Stampa, l'ex ad Ama poi rincara la dose: "Per quindici volte la Raggi ha mandato deserta l'assemblea dei soci dell'Ama, non approvando il bilancio 2017, sebbene validato da Cda, collegio sindacale nella prima versione e società di revisione Ernst & Young in entrambi i progetti di bilancio. Non mi prestavo a chiudere il bilancio in passivo, mandare l'azienda in malora, aprire la strada ad altre soluzioni. Parlo solo di cose che posso documentare. Un fatto è che una delibera di Ignazio Marino, mai cancellata dalla Raggi, prevede la privatizzazione con due bilanci in rosso. Chi può avere interesse? Chi sogna un business con una concessione da 8 miliardi per i prossimi anni e rischio imprenditoriale pari a zero". Infine smaschera il sindaco: "Poco prima di cacciarmi mi mandava messaggi di stima e incoraggiamento. Era arrabbiata solo perché non mi piegavo e difendevo la legalità. Ho cominciato a registrare solo quando, avendo avuto il timore che si stessero prospettando ipotesi di illiceità, mi sono rivolto a degli avvocati. Loro mi hanno consigliato di registrare tutto a fini di giustizia e per tutelarmi".

Il manager Ama accusa:  «Dissi no alla modifica del bilancio e Raggi mi licenziò». La Lega: la sindaca lasci subito. Pubblicato giovedì, 18 aprile 2019 da Corriere.it. Esposto in procura dell'ex presidente e ad dell’Ama, Lorenzo Bagnacani, licenziato in tronco dalla Raggi a febbraio. Ai pm di piazzale Clodio lancia accuse precise contro la sindaca in persona. Le indiscrezioni arrivano da un servizio dell'Espresso. «La Raggi, scrive Bagnacani ai pm - si legge nelle anticipazioni pubblicate on line dalla testata -, avrebbe infatti esercitato "pressioni" indebite su di lui e sull’intero cda dell’azienda, "finalizzate a determinare la chiusura del bilancio dell’Ama in passivo, mediante lo storno dei crediti per i servizi cimiteriali"». La sindaca avrebbe insomma «spinto il manager a togliere dall’attivo dell’azienda crediti che invece erano certi, liquidi ed esigibili», con l’unico obiettivo - sostiene Bagnacani - «di portare i conti di Ama in rosso». A sostegno delle sue dichiarazioni, continua L'Espresso, Bagnacani avrebbe allegato «alcune registrazioni contenenti colloqui tra lui, Virginia Raggi e altri dirigenti comunali, oltre a centinaia di conversazioni a due fatte con la sindaca su Telegram e WhatsApp». Conversazioni che L'Espresso sostiene di aver ascoltato e che riporta nell'articolo. La Raggi sosterrebbe infatti con tono perentorio, anche di fronte alle difficoltà espresse da Bagnacani: «Lorenzo, devi modificare il bilancio come chiede il socio... se il socio ti chiede di fare una modifica la devi fare! Anche se loro dicono che la luna è piatta». Dai toni delle conversazioni si evincerebbe anche che la sindaca fosse particolarmente infastidita: «Roma è praticamente fuori controllo, i sindacati fanno quel cazzo che vogliono, i romani si affacciano e vedono la merda. In alcune zone purtroppo è così, in altre zone è pulito e tenete bene... cioè non c'è modo, non c'è modo. Allora... ai romani gli dico sì la città è sporca però vi aumento la Tari,: cioè mettono la città a ferro e fuoco altro che gilet gialli». «Se il contenuto delle intercettazioni della sindaca Raggi corrispondesse al vero, sarebbe la confessione di un grave reato e la chiara ammissione di una palese incapacità a governare. Per coerenza con le regole del Movimento ci aspettiamo le sue immediate dimissioni». È quanto dichiara il ministro per gli Affari regionali e le autonomie, la leghista Erika Stefani, in riferimento all'esclusiva pubblicata dall'Espresso.

Lorenzo D’Albergo per “la Repubblica” il 19 aprile 2019. Dopo il licenziamento «per giusta causa», ha fatto i bagagli. L' ex presidente di Ama, Lorenzo Bagnacani, è tornato nella sua Reggio Emilia. Ma continua a seguire con attenzione le vicende della municipalizzata dei rifiuti di Roma. Vuoi per gli esposti affidati alla procura, vuoi perché il manager fatica a chiudere con il passato. La testa è ancora lì. Alle richieste grilline di trasferirsi dalla Torino di Chiara Appendino alla capitale guidata da Virginia Raggi per salvare la città dal degrado e a tutto quello che è venuto dopo, dalle frizioni sul bilancio 2017 con la sindaca alle conversazioni pubblicate ieri dall' Espresso.

«Perché le ho registrate? Per difesa, penso si sia capito quello che stava succedendo. Ci sono state pressioni di un certo livello. Anche personali? La procura e la Corte dei Conti hanno tutto, su questo preferirei non dire altro».

Dottor Bagnacani, in quegli scambi la sindaca pare piuttosto decisa. Lei avrebbe dovuto modificare i conti dell' azienda secondo la prima cittadina.

«Questa vicenda mostra che ho sempre perseguito la via della legalità. Sono stato allontanato per non essermi piegato a delle richieste che reputavo assolutamente non conformi. Ho rispettato le regole anche davanti al rischio di essere cacciato».

Raggi ha commentato con un «molto rumore per nulla». I 5S in Campidoglio, ascoltate le registrazioni, dicono che la sindaca è stata fin troppo tenera. Che effetto le fa?

«Singolare. La prima cittadina ha sempre apprezzato il mio operato. Anche fino a poche settimane prima del mio licenziamento, non sono mancati attestati di stima via sms. Ma anche su Facebook e Twitter... continuavano a rilanciare i risultati raggiunti da Ama. Il nostro lavoro quindi è stato apprezzato e rilanciato sui social dal Comune».

E poi cos' è successo? La sindaca è stata mal consigliata? Negli esposti sono stati tirati in ballo l' assessore al Bilancio, Gianni Lemmetti, e il dg del Comune, Franco Giampaoletti.

«Questo va chiesto a lei. Resto nel mio perimetro, dico quello che ho fatto io. Ho solo rispettato le regole, a prescindere da quelle che potevano essere le conseguenze».

Qualche rimpianto?

«Tanto è stato fatto, molto poteva essere ancora fatto. Rivendico di aver impostato il nuovo modello di raccolta differenziata su 320 mila abitanti, una media città italiana, in 8 mesi. Roma ne ha 2,8 milioni, serviva più tempo. Ma su quei 320 mila siamo arrivati al 70% di differenziata e il Conai (il Consorzio nazionale imballaggi, ndr) ci ha riconosciuto il premio "Teniamoli d' occhio". Un grandissimo lavoro».

Perché, allora, la rottura?

«L' elemento degenerativo è stato il bilancio. Come azienda l' abbiamo subito e abbiamo fatto tutto quello che era nelle nostre possibilità. Abbiamo interpellato i migliori avvocati, dall' ex presidente dell' Antitrust Antonio Catricalà in giù. Ci hanno tutti detto che le nostre scelte erano giuste».

Che idea si è fatto, a questo punto, dell' insistenza del Comune? Perché il bilancio doveva chiudere in rosso?

«In Regione, in audizione, mi sono lanciato in un' interpretazione. Ho detto che la delibera che apre, dopo due rendiconti in perdita, alla privatizzazione di Ama non è mai stata cambiata. Quell' atto e l' ostinazione a portare l' azienda in una direzione... non decreto i motivi altrui, il mio è un ragionamento».

Si parla di Pieremilio Sammarco, dominus della sindaca, come suo successore.

«Quando un amministratore esce da un' azienda non è giusto che commenti. Sarebbe una scelta della sindaca».

Torniamo alle registrazioni. Le ha risentite?

«Quegli audio fanno capire chiaramente quello che ho vissuto. Sono stati 10 mesi molto duri. Non si riusciva a venire a capo di una situazione banale, facile da comprendere. Anche sui temi più complessi qualsiasi azienda investe una o due settimane, un mese. Qui siamo andati avanti per 10 mesi».

Quasi un anno di blocco. Che effetti ha avuto sul servizio?

«Si metta nei panni dei fornitori. Perché dovrebbero parlare con un' azienda in cui non hanno più fiducia? A ottobre e novembre sono mancati i ricambi dei mezzi per la raccolta. La crisi del bilancio ha influito sul servizio offerto ai romani? È evidente. Mi hanno mandato via perché non ho accettato di modificare il bilancio, come mi chiedeva arbitrariamente il Comune. Non per le performance, quelle le abbiamo migliorate».

Ernesto Menicucci per “il Messaggero” il 18 aprile 2019. Alle sei della sera, quando il sole sta per tramontare, l'unica Raggi visibile in Campidoglio è una sua sosia, reginetta della protesta delle femministe contro la sindaca. Lei invece, Virginia, è nel suo studio con affaccio sui Fori, davanti ad un manipolo di fedelissimi: gli avvocati che la difendono, lo staff nella forma più ristretta. Gli audio dell'ormai ex ad di Ama Lorenzo Bagnacani sono in circolo sul web da circa tre ore e il timore che aleggia nello studio, e nelle stanze del Campidoglio, è uno solo: «Quanti altri audio verranno resi noti? E quali? Li possono utilizzare?», chiede la sindaca ai legali. Il fatto che i suoi colloqui con il manager della municipalizzata dei rifiuti fossero registrati, infatti, non la coglie di sorpresa. Nè lei e neppure quelli del cerchio magico: «Lo sapevamo tutti che Bagnacani registrava con il suo I-pad: spesso li faceva sentire anche quei colloqui». Il problema, però, sotto la coltre del «va tutto bene», è capire quali file sono in possesso della Procura e anche della stampa. Perché è evidente che, nel Movimento Cinque Stelle romano e nazionale, sembra di essere tornati ai primi mesi del mandato Raggi: lì erano le chat a preoccupare sindaca ed entourage, oggi è cambiato solo il supporto digitale. Una ripetitività di situazione che imbarazza i vertici nazionali grillini, che ieri non si sono certo sperticati in difese della sindaca. Ufficiosamente, la vicenda viene bollata con «è una cavolata, il nulla», ma Luigi Di Maio con i suoi ha reagito quasi con un moto di stizza: «Con la Raggi è sempre così...», l'hanno sentito dire. E, nel corso del pomeriggio, capo politico e sindaca si sono scambiati una serie di messaggi: «Com'è questa vicenda di Ama?», la domanda di Di Maio. «Riguarda il bilancio non approvato», la risposta. Per i pentastellati il tema era una chiaro: «Ma su Siri possiamo continuare ad attaccare?». Il rischio-boomerang era dietro l'angolo. Da oggi, i cinquestelle sono spiegano «tra l' attesa e l' irritazione». Gli esponenti pentastellati di spicco sono alla finestra: «Quell' audio è illegittimo ragiona uno di loro poi si vedranno gli sviluppi. Su questa vicenda non c' è un' indagine, se poi ci fosse si vedrà il da farsi». Raggi, con i consiglieri di maggioranza, tace. Nessun intervento nelle chat interne, nè su questo, né su altri argomenti. Le opposizioni, Pd e FdI, chiedono che vada in aula a riferire, tre consigliere dem occupano simbolicamente l' aula Giulio Cesare, il presidente facente funzioni Enrico Stefàno (che ha preso il posto dell' arrestato Marcello De Vito) chiude un occhio e neppure le espelle dall' aula. Riti stanchi, di una stanca politica romana, dove certe scene con attori, protagonisti e ruoli diversi si ripetono da oltre un decennio. Virginia, al suo tavolo, prepara la strategia difensiva. Lei, e i suoi legali, si affrettano a far sapere: «La sindaca non è indagata». E ad alcuni consiglieri viene un dubbio: «Ma ci sono stati contatti con la Procura?». Lei studia cosa dire, per quando andrà la sera a Piazza Pulita e per i giorni successivi. L' imbarazzo, comunque, è tangibile. Anche per il linguaggio che emerge da quei colloqui: «Sì, ho detto delle parolacce perché sono incazz...», si sfoga Raggi su Fb. Mentre sul resto, la linea difensiva ripetuta anche ad alcuni dirigenti capitolini, è sempre la stessa: «Non ho detto nulla di strano. Bagnacani doveva approvare il bilancio, perché avevo fior di pareri legali che supportavano questa scelta. E quando dico che la città è una m... sto criticando il lavoro dell' ad di Ama». L' affondo, anche con i collaboratori, è tutto sugli alleati-avversari: «Se pensano di mischiare un chicco d' uva con tutto il grappolo, si sbagliano di grosso», la rincuorano i grillini. Dove il chicco sarebbe la vicenda Ama, il grappolo l' inchiesta sul sottosegretario leghista Siri. Raggi, a telecamere spente, insiste: «Non mi dimetto, non riusciranno a farmi cedere». Ma le ombre, sul rapporto sempre più complicato tra M5S e Lega, si allungano.

Il modello Raggi non si sconfigge in procura. Pubblicato sabato, 20 aprile 2019 da Il Foglio. La lettura delle registrazioni dei colloqui tra Virginia Raggi e l’ex presidente dell’Ama lascia sbigottiti. E’ uno squarcio di realtà che si sovrappone e si contrappone alle dichiarazioni ufficiali, in cui si sente prevalere la disperazione privata, esattamente il contrario delle autoesaltazioni esibite in pubblico. La prima cittadina di Roma fa quasi tenerezza: si sente assediata da poteri e interessi che non controlla, dai sindacati dei netturbini al suo sempre più stringente circolo di sostenitori, e chiede disperatamente aiuto, anche se questo dovesse significare la stesura di un bilancio falso. Naturalmente se la persona Raggi in questa vicenda appare come una vittima intrappolata in una ragnatela dalla quale non riesce a uscire, l’amministratrice e l’avvocato Raggi, al contrario, dimostra un’incompetenza e un’inadeguatezza sconcertante. E’ un avvocato, quindi sa che stilare un bilancio non corrispondente ai dati è un reato, ma si infila in una tortuosa trattativa in cui prevede persino di avviare una sorta di finta controversia tra comune e amministrazione dell’Ama. Soprattutto è evidente il suo tentativo di manomettere i dati della realtà contabile per farli aderire a un presunto interesse politico, che peraltro non è in grado di controllare. Se esistono o no gli elementi giuridici per indagarla per qualche reato spetta ai magistrati, ma per giudicare la sua adeguatezza politica al ruolo di prima cittadina di Roma bastano le sue stesse parole. E l’ammissione di essere ostaggio di un modello politico immobile e consociativo che lei stessa ha alimentato. Si può lasciare ai giustizialisti a orologeria discettare se per il caso di inchiesta a carico debba o no dimettersi. Quello che invece si può dire senza troppi problemi è che dovrebbe lasciare un ruolo che non è in grado di esercitare, come dimostra il fatto stesso che questo famoso bilancio tuttora non è stato presentato e approvato, che dalla girandola di assessori, consiglieri, presidenti e commissari non si riesce a far emergere qualcuno che si assuma la responsabilità di dare risposte concrete a problemi concreti, come dovrebbe fare e fa altrove qualsiasi amministrazione degna di questo nome.

Roma e il caso Ama. Ecco perché Raggi non poteva bloccare i bonus ai manager. Pubblicato venerdì, 19 aprile 2019 da Andrea Arzilli e Lorenzo Salvia su Corriere.it. Con le sue pressioni per far girare in passivo il bilancio dell’Ama, la sindaca di Roma Virginia Raggi poteva evitare che l’azienda romana dei rifiuti distribuisse ai suoi dirigenti un bonus, e cioè il premio di risultato? Dopo la lettura dei contratti di settore, degli accordi aziendali e del bilancio stesso, si arriva alla conclusione che le cose non stanno così. Per due motivi. Il primo è che il bonus — in base al contratto nazionale per i dipendenti, in base a una delibera del consiglio d’amministrazione del 23 ottobre scorso per i dirigenti — non è legato all’utile dell’azienda. Ma a un altro indicatore, e cioè al Mol, il margine operativo lordo, che fotografa in maniera più raffinata la redditività dell’azienda. Nel calcolo del Mol entra anche l’utile ma non si tratta dell’unica variabile. Il Mol dell’Ama sarebbe stato positivo anche se non fossero stati conteggiati quei 18 milioni di euro, e cioè i crediti per i servizi cimiteriali dovuti proprio dal Comune di Roma che, secondo l’ex amministratore delegato dell’azienda Lorenzo Bagnacani, la sindaca Raggi non voleva fossero messi nel bilancio. Non solo. Anche se quei 18 milioni non fossero stati conteggiati, il loro peso, come le aziende fanno sempre, poteva essere spalmato su più anni alleggerendone l’impatto. Quindi i requisiti per il premio a dipendenti e dirigenti, ci sarebbero stati lo stesso. A prescindere dall’utile dell’azienda e dal conteggio oppure no di quei crediti per 18 milioni di euro. Ma qui arriviamo al secondo motivo per cui l’accusa della sindaca non regge. Per i dirigenti, che sono quelli di cui lei parla, le regole ci sono ma i premi non vengono pagati dal 2011. E questo in base uno specifico accordo rinnovato più volte nel tempo, che tra il 2014 e il 2016 portò anche alla riduzione degli stipendi dei dirigenti, del 5 o del 10% in base alla fascia di reddito. «Non conosco i dettagli della vicenda — premette il magistrato Alfonso Sabella, assessore alla Legalità nella giunta Marino — ma c’è da chiedersi perché l’anno prima la sindaca quel credito l’avevano riconosciuto mentre quest’anno non voleva». E ancora: «Forse voleva portare l’Ama verso il concordato preventivo, cosa che può essere anche fatta nell’interesse della città. Ma per Atac, che al concordato preventivo c’è già arrivata, non mi pare che il servizio ai cittadini sia migliorato». Il giorno dopo la tempesta sollevata dalla diffusione dei file audio in cui la sindaca invita Bagnacani a modificare il bilancio di Ama, Virginia Raggi passa al contrattacco. Sul piano politico-amministrativo facendo trapelare che a breve verrà riempita la casella ancora scoperta di amministratore delegato della municipalizzata per sostituire proprio Bagnacani. In pole position ci sarebbe Pieremilio Sammarco, titolare dello studio in cui Raggi cominciò la sua carriera da avvocato. Sul piano penale con la querela annunciata contro l’ex manager per diffamazione e calunnia in risposta al suo esposto sulle pressioni ricevute (all’interno del quale ci sono i file audio). Da novembre i pm Spinelli e Terracina, col procuratore aggiunto Paolo Ielo, indagano sulla vicenda per la quale hanno iscritto tra gli indagati il dg del Campidoglio Franco Giampaoletti, l’ex ragioniere del Comune, Luigi Botteghi, e il capo ad interim della Governance Giuseppe Labarile. L’accusa per tutti è tentata concussione. Un’ipotesi già scartata per la Raggi e in questo senso nulla aggiungerebbero le frasi rivolte a Bagnacani. Quanto al mancato riconoscimento del credito, non si configura l’ipotesi di falso in bilancio. Gli accertamenti della guardia di finanza però continuano e dopo Pasqua Bagnacani potrebbe essere convocato in procura.

“VOLEVA FAR RISULTARE UNA PERDITA CHE NON C’ERA”. Emiliano Fittipaldi per “la Repubblica” il 19 aprile 2019. La battaglia della monnezza, a Roma, fa un salto di livello. E si sposta dalle strade più sporche d' Europa (come certifica una ricerca di Eurostat) ai palazzi del potere e della giustizia. E soprattutto al Campidoglio, travolto dall' inchiesta dell' Espresso sulla gestione della municipalizzata dei rifiuti, Ama spa, da parte di Virginia Raggi e i suoi uomini. Il settimanale ha infatti scoperto che l' ex presidente e amministratore delegato Lorenzo Bagnacani, che è stato licenziato in tronco dalla Raggi a febbraio, qualche giorno fa ha spedito ai pm un esposto, dove accusa la sindaca in persona. La Raggi, scrive Bagnacani ai pm, avrebbe esercitato « pressioni » indebite su di lui e sull' intero cda dell' azienda, « finalizzate a determinare la chiusura del bilancio dell' Ama in passivo, mediante lo storno dei crediti per i servizi cimiteriali ».

Il rosso e il nero (in bilancio). Secondo quest' accusa, in sintesi, la Raggi avrebbe spinto il manager a togliere dall' attivo dell' azienda (il bilancio era in utile per oltre mezzo milione di euro, un dato di poco inferiore rispetto a quello dell' anno precedente) circa 18 milioni di euro di crediti dei servizi cimiteriali. Un credito « che invece era certo, liquido ed esigibile ». Con l' unico obiettivo - sostiene Bagnacani - di portare i conti di Ama in rosso. Un' accusa grave e molto simile a quella che l' ex direttrice del dipartimento Rosalba Matassa ha lanciato contro Franco Giampaoletti, attuale braccio destro della sindaca ora indagato per tentata concussione. La rilevanza penale della vicenda è ancora tutta da dimostrare. Ma è un fatto che la storia rischia di creare più di un grattacapo alla Raggi. Anche perché Bagnacani ha allegato, insieme all' ultimo esposto (il primo lo aveva depositato lo scorso novembre) alcune registrazioni contenenti colloqui tra lui, Virginia Raggi e altri dirigenti comunali, oltre a centinaia di conversazioni a due fatte con la sindaca su Telegram e WhatsApp.

Gli audio degli incontri. L' Espresso le ha lette e ha ascoltato anche altri file acquisiti dalla Guardia di Finanza. Negli audio la Raggi parla al suo amministratore con tono assertivo («Lorenzo, devi modificare il bilancio come chiede il socio... se il socio ti chiede di fare una modifica la devi fare! » ) e appare prona agli input degli uomini della sua struttura tecnica, composta da fedelissimi come l' allora Ragioniere generale Luigi Botteghi ( anche lui indagato per tentata concussione), il dg Giampaoletti e il super assessore al Bilancio e alle Partecipate, il potente Gianni Lemmetti. Così, al numero uno dell' Ama Bagnacani che le spiega come lui si sentirebbe in grande difficoltà a modificare il bilancio davanti a motivazioni « squalificate » , la Raggi gli ordina secco: « Se tu lo devi cambiare comunque, lo devi cambiare. Punto. Anche se loro dicono che la luna è piatta » . E che, spazientita, dice che Roma «è praticamente fuori controllo » , « i sindacati fanno quel cazzo che vogliono », e la Tari, la tassa sui rifiuti, non può essere aumentata perché « i romani oggi si affacciano e vedono la merda».

"Ti faccio avere 205 milioni". Gli incontri registrati sono due. Il 26 novembre scorso Raggi e Bagnacani sono soli. La sindaca prova a partire con il piede giusto. Facendo al manager, a sorpresa, promesse da sogno: « Lorenzo, tu hai il sacro terrore delle banche creditrici preoccupate dalla mancata approvazione del bilancio. Allora, io ho una soluzione: le banche ti danno 205 milioni? Io ti trovo i soldi che ti servono. Te li presto, tu chiudi quelle linee di credito, ti levi dalle palle queste banche, trovi altre banche, rinegozi tutti i mutui, tutti i tassi, alle condizioni che ti pare », spiega la Raggi. «Ma se io ti trovo i soldi, che succede? Mi approvi il bilancio, mi sistemi il bilancio e tutto, e andiamo avanti?». Bagnacani sembra spiazzato. Sia perché non capisce come mai la sindaca, per superare un contenzioso di appena 18 milioni, sia disposta a prestargliene dieci volte tanto. Sia perché nessuno ha mai immaginato che la sindaca potesse far uscire dalle casse comunali oltre 200 milioni di euro di soldi pubblici così, su due piedi. Ma quando il manager chiede per l' ennesima volta che Giampaoletti gli dia delle giustificazioni plausibili sul no ai crediti, la Raggi perde la pazienza: «Scusami però, tu me devi dà 'na mano Lorenzo. Perché così non mi stai aiutando. Io ho la città che è praticamente fuori controllo, i sindacati che fanno quel cazzo che vogliono!». Bagnacani gli ribatte che «per darci una mano non possiamo fare quello che non è possibile fare», e Virginia, esausta, gli propone di modificare il bilancio come richiesto, e nel caso di farselo poi bocciare dal collegio sindacale. «E a quel punto faremo un contenzioso... non mi stai dando neanche un cazzo di appiglio Lorenzo? Che devo fare? Come faccio? Questo è il sistema, è il sistema! Deve funzionare così altrimenti è il sistema che è sbagliato. Ma cazzo portami in giudizio! Fai quello che ti pare!». Il siluramento del manager Bagnacani non ha mai voluto modificare il bilancio come chiesto dalla Raggi e dai suoi uomini, temendo di fare un falso in bilancio. « Virginia, così ci beccano... non possiamo fare quello che non può essere fatto», le dice più volte). Lo scorso febbraio il manager ( che ora dice che il bilancio in rosso «serve a privatizzare l' azienda») e i membri del cda sono stati licenziati per «giusta causa». L'azienda è stata affidata ad interim a Massimo Bagatti, l' ex direttore operativo. Nemmeno lui per adesso ha firmato il bilancio che piace tanto al Comune. Tutti, così, aspettano la nomina del prossimo presidente. Al Campidoglio è arrivato a sorpresa anche il curriculum di Pieremilio Sammarco. Avvocato amico di Cesare Previti, vicino a Raffaele Marra, consigliere personale della sindaca a cui segnalò l' amico Raffaele De Dominicis come assessore al Bilancio, Sammarco è stato il datore di lavoro della Raggi prima che diventasse sindaca. «Pieremilio è il mio dominus », ammise Virginia.

Registrazione dell’incontro tra la sindaca Virginia Raggi e l’amministratore delegato di Ama, Lorenzo Bagnacani del 30 ottobre 2018. Sono presenti anche l’allora assessora all’Ambiente Pinuccia Montanari e altri dirigenti del Comune. Dal “Corriere della Sera – ed. Roma” il 19 aprile 2019.

Bagnacani : «Se toccasse a me scegliere tra uno e due, io scelgo il secondo. Si fa un' assemblea, il socio viene ed esprime perché non va bene il bilancio così scopriamo anche questo mistero che sta nel cloud al momento non va bene ma non sappiamo perché. Ci sarà l' obbligo di dire perché non va bene, quindi il Cda prende atto dall' assemblea dei soci di questa cosa e farà i passi di conseguenza».

Dirigente : «Che sono?».

Bagnacani : «Devo studiare».

Raggi : «Beh, che sono modificare il bilancio come chiede il socio. C' è un' altra opzione?».

Bagnacani : «La mia difficoltà è che è certo (il credito, ndr) , liquido ed esigibile, dopodiché se io, se la legge mi dice che io devo farlo io sono appostissimo, lo farò, lo farò, è molto semplice. Ma se la legge mi dice che mantengo la prerogativa dell' amministratore e, nonostante le pretese di controparte, io devo valutare la qualità del credito che è certo, liquido ed esigibile».

Raggi : «No no, non devi valutare. Il socio ti chiede di fare una modifica: la devi fare».

(Cinque minuti più tardi) Bagnacani : «Perché se loro (il direttore generale del Campidoglio Franco Giampaoletti e l' assessore a Bilancio e Partecipate Gianni Lemmetti, ndr ) tirino fuori dal cilindro un perché il mio numero non va bene, ma io lo cambio alla velocità della luce. Perché io non posso non cambiarlo, mi sentirei in difficoltà se le ragioni che trovano sono ragioni».

Raggi : «Però se tu Ok, però se tu lo devi cambiare comunque, lo devi cambiare. Punto.

Anche se loro dicono: perché la luna è piatta».

Bagnacani (rivolto a un legale del Comune presente alla riunione): «Avvocato, ma lei lo sa questo? Perché è il mio quesito di prima, perché non ho studiato fino all' ultimissimo passaggio. Cioè: diventa un imperativo che devo».

Avvocato : «A mio parere il socio si assume la responsabilità».

Raggi : «La giurisprudenza va in questo senso».

Bagnacani : «Se è quello che dicono, io farò, se è così Purché».

Raggi : «Però io suggerisco Suggerisco su questo di fare un approfondimento che poi Questa operazione va a buon fine, tutta la giurisprudenza che noi abbiamo te la diamo, tu la fai esaminare se vuoi, ma se c' è qualcosa che balla noi la risolviamo, perché io non vado in assemblea, faccio questa cosa e poi il Cda mi dice "no"».

Bagnacani : «No, no, ecco questo». Raggi : «Cioè, l' operazione dev' essere blindata, eh».

Raggi : «Scusa, tu mi devi da' una mano, Lorenzo, perché così non mi stai aiutando. Io ho la città che praticamente è fuori controllo, i sindacati che fanno quel cazzo che vogliono, e io cioè non riesco ad arrivare».

Bagnacani : «Virginia, se per darci una mano Cioè non siamo controparti».

Raggi : «Ma se tu».

Bagnacani : «Però dobbiamo tener presente, Virginia, che per darci una mano non possiamo fare quello che non è possibile».

Raggi : «Bene, ma scusami, fattelo dire dal collegio sindacale. Se tu provi a modificare il tuo progetto di bilancio sulla scorta di quella che è una contestazione che secondo noi è analitica e che secondo voi è generica, non importa, provi a fare una bozza di modifica dal tuo progetto Fattelo dire dal collegio che non si può fare perché è generica. A quel punto apriamo un contenzioso».

Bagnacani : «No, perché». Raggi : «Non mi stai dando neanche un cazzo di appiglio, Lorenzo. Che devo fare? Come faccio?».

Raggi : «Io oggi però non posso chiedere ai romani di aumentargli non posso aumentare la Tari grazie anche a quest' opera dei sindacati, degli operai che non hanno voglia di fare. E se loro si affacciano e vedono la merda in città In alcune zone purtroppo è così, in altre zone è pulito e tenete bene in altre zone, cioè, non c' è modo. Allora quando ai romani gli dico "sì, la città è sporca però vi aumento la Tari", ma io scateno cioè, mettono la città a ferro e fuoco altro che gilet gialli».

“QUESTI AUDIO SONO UN PO’ CRUDI…”. Francesca Schianchi per “la Stampa” il 19 aprile 2019. «Se dovessero esserci degli illeciti, sarà la Procura a deciderlo. Io mi limito a dire che questi audio sono un po' crudi». A sera, dopo che la politica per tutto il pomeriggio non ha fatto che parlare del "caso Raggi", interviene anche Roberta Lombardi, capogruppo M5S in Regione Lazio. E alla sindaca con cui non ha mai avuto grande sintonia non chiede «in questo momento» le dimissioni. A meno che, mette in chiaro però, non arrivi un' indagine: in quel caso «cambierebbe tutto».

La Raggi rigetta l'accusa di aver fatto pressioni: il no al bilancio Ama, spiega via Facebook, era per evitare premi ai dirigenti. La convince?

«Io vengo dal mondo delle aziende e so che il meccanismo di premialità dei manager lo definisce il Consiglio di amministrazione espresso dal socio».

Che è il Campidoglio.

«Appunto. Se il socio ha dato l'input che, a fronte di un determinato risultato, ci deve essere il premio, forse ha sbagliato a monte».

«Ho la città praticamente fuori controllo - ammette la Raggi - in alcune zone i romani vedono la merda».

«Da romana me ne rendo conto».

Non le sembra una dichiarazione di impotenza sconcertante da parte di un sindaco?

«Che Roma sarebbe stata una sfida improba lo sapevamo da quando, nel 2013, siamo entrati in consiglio comunale. All'epoca c'era una relazione assidua tra noi romani, tra il Campidoglio e gli altri livelli, e io chiesi e ottenni che ci fosse un minidirettorio, proprio perché avevamo capito che Roma o la affronti come una testuggine compatta o non la governi. Il fatto che il M5S in Comune si sia isolato è un problema».

Che rapporti ha con il Campidoglio lei oggi?

«Nessun rapporto personale con la sindaca, ma un rapporto politico con assessori e consiglieri che si occupano di temi che interessano anche la Regione. Tra noi la relazione sarebbe bene che fosse stretta, ma non sempre è così».

La Raggi ha detto ieri in un' intervista al Fatto che il M5S in Regione non ha una linea: una frecciatina a lei?

«Evidentemente la sindaca era occupata a tenere sotto controllo la città e non si è accorta che siamo riusciti a far passare vari provvedimenti del nostro programma. Abbiamo istituito una commissione speciale sui piani di zona, messo in bilancio cinque milioni di euro per Roma per rifare il manto stradale, abbiamo tutelato un' area sottraendola al rischio di una grande speculazione immobiliare. Ma forse la sindaca era in altre faccende affaccendata».

Bisognerebbe affiancarle di nuovo un minidirettorio?

«Oggi non credo ci siano più le condizioni. La Raggi che non lo ha voluto all' epoca deve assumersi le sue responsabilità».

E quindi qual è la soluzione per evitare una città «fuori controllo»?

«Voglio continuare a essere fiduciosa che il lavoro fatto nei primi due anni e mezzo, per quanto non evidente agli occhi dei romani, porti i suoi frutti».

Altrimenti meglio le dimissioni come chiede la Lega? Per inadeguatezza, dice Salvini.

«Salvini sta portando avanti da mesi un'Opa su Roma. Noto che proprio oggi (ieri, ndr) che un suo sottosegretario viene indagato, la Lega lancia la richiesta di dimissioni per una persona non indagata. Se poi la sindaca sia adeguata o meno lo decideranno i cittadini».

Tra due anni e mezzo? O dovrebbe dimettersi e consentire ai cittadini di valutarlo al più presto?

«Io non credo che la Raggi debba dimettersi in questo momento. Inciampi ed errori ne sono stati fatti, penso anche a questi audio, ma solo la rilevanza penale cambierebbe tutto».

Dice? Ma l'obbligo di dimissioni nel M5S non scatta solo con una condanna in primo grado?

«È vero, ma oggi (ieri, ndr) Di Maio ha giustamente chiesto al sottosegretario Siri, indagato per corruzione, di valutare il passo indietro. Ci sono reati su cui anche solo l' indagine è particolarmente odiosa. Io non ho chiesto le dimissioni della Raggi per falso ideologico, se fosse però coinvolta da indagini di altro tipo allora cambierebbe lo scenario. Ma spero che questo non avvenga».

Roma, l'ex presidente Ama a Raggi: "Così si rischia la bancarotta preferenziale" - L'audio della conversazione, scrive il 20 aprile 2019 Repubblica Tv. Nelle registrazioni in possesso della procura e della Guardia di Finanza, confluite nel fascicolo aperto per tentata concussione sull'approvazione del bilancio di Ama e anticipate dall'Espresso, spuntano altri scambi tra la sindaca Virginia Raggi e l'ex presidente di Ama, Lorenzo Bagnacani. Il manager avverte la prima cittadina che un prestito per togliersi di torno i debiti con le banche potrebbe condurre al reato di "bancarotta preferenziale". Poi il passaggio sul bilancio 2017, tema dello scontro tra il Campidoglio e i vecchi vertici della municipalizzata dell'ambiente: "Non me lo approvano in giunta", spiega Raggi. "C'è qualcuno che tiene un punto non sostenibile o cosa?", le chiede Bagnacani. Chiude Raggi, con un monologo: "I risultati di questo bilancio non mi interessano. Non sono un tecnico, non sono un contabile, sono un sindaco. Lo devo approvare. Come me lo devono dire altri".

Caso rifiuti a Roma, ecco che cos'è l'Ama e quali sono i suoi problemi. La società pubblica che gestisce la raccolta dei rifiuti nella Capitale è da due mesi senza Cda, revocato dalla sindaca Virginia Raggi. Tra impianti a fuoco e buchi di bilancio la situazione critica di un'azienda che ha più dipendenti di Alitalia, scrive Sergio Rizzo il 18 aprile 2019 su La Repubblica. L'Ama, società pubblica che gestisce la raccolta dei rifiuti a Roma è l'azienda di questo settore più grande d'Europa. Considerando anche la controllata Multiservizi ha più dipendenti dell'Alitalia e ha in pancia una concessione da 8 miliardi con il comune di Roma. Da due mesi è senza consiglio di amministrazione che è stato revocato dalla sindaca Virginia Raggi perché si era rifiutato di cambiare il bilancio del 2017 secondo le direttive del Campidoglio chiudendolo in perdita anziché in leggero utile. Ma da due mesi Roma è a che senza assessore all'ambiente: Pinuccia Montanari si è dimessa in polemica con la sindaca sostenendo le ragioni del cda. La ragione è che l'azienda sostiene di vantare nei confronti del Comune un credito per i servizi commerciali che il Comune si rifiuta di riconoscere. Così il bilancio 2017 da oltre un anno non viene approvato con le difficoltà dell'Ama che sono sempre più vistose: anche perché nel frattempo sono andati a fuoco, per cause evidentemente dolose, due impianti di trattamento dei rifiuti indifferenziati. Il risultato è che la città è sommersa dai rifiuti e l'azienda dai reclami: ne arriva uno ogni minuto e mezzo, mentre la raccolta differenziata è sostanzialmente ferma. La vicenda del bilancio è piena di episodi singolari, a partire dal fatto che il collegio sindacale ha prima approvato il bilancio in utile e poi ha cambiato il proprio giudizio sposando le tesi del Comune. E la cosa è finita anche alla Procura della Repubblica di Roma, dove ci sono due esposti. Il primo l'ha presentato una dirigente dall'Assessorato all'ambiente, sostenendo di avere ricevuto pressioni per incuria a ritirare una delibera con cui riteneva corretta la versione del bilancio proposta dal cda. Il secondo esposto porta invece la firma di tutti i tre consiglieri, cominciando dal presidente Lorenzo Bagnacani: anche loro affermano di aver ricevuto pressioni per chiudere il bilancio in perdita. E ascoltando la registrazione scovata sull'Espresso se ne può intuire il peso. Resta da capire che senso ha tutto questo. Ma una cosa é certa:  chiudendo il 2017 in perdita, e di conseguenza anche il 2018 e magari il 2019, si porrebbero le basi per chiudere l'azienda o anche solo revocare la concessione. Con quale obiettivo? I maligni vedono profilarsi l'ombra dell'Acea...

Quel pasticciaccio brutto sulla monnezza tra la Raggi e l’Ama. Lo scontro sul Bilancio, il licenziamento di Bagnacani e le dimissioni della Montanari: storia e registrazioni finite in procura, scrive Luigi Irdi il 20 Aprile 2019 su Il Dubbio. È il 1 febbraio 2019 e Giovanni Vivarelli, responsabile del settore ambiente dell’Acea ( l’azienda romana per l’elettricità e l’acqua) incontra Lorenzo Bagnacani, allora presidente di Ama ( l’azienda dei rifiuti di Roma) e il consigliere di amministrazione Andrea Masullo...“Ho un accordo con la sindaca Raggi”, esordisce Vivarelli squadernando un luminoso rendering in power point. “Realizzeremo un nuovo impianto di selezione della plastica a Ponte Malnome ( appena fuori Roma, sulla via Portuense n. d. r.). L’Ama raccoglie la plastica, ce la porta, e noi la lavoriamo”. Bisogna sapere che nel variopinto universo dei rifiuti la plastica è molto preziosa. Se ne ricavano polimeri destinati all’industria dei chips. Così Bagnacani e Masullo rilanciano: “Interessante. Potremmo metter su una società mista. Non può essere che noi dell’Ama raccogliamo la plastica a spese delle tasse dei romani e voi ve la rivendete”. “ Vivarelli esita, e poi: “Non erano questi gli accordi con la sindaca. Arrivederci”. E allora quali erano? Non si sa. Il progetto è finito nel freezer come in freezer sembra sonnecchiare il futuro dell’Ama, quell’aziendona da 8 mila dipendenti di proprietà di Roma Capitale che col fiato grosso insegue rifiuti e cassonetti per tutta la città, rimanendo sempre un metro indietro e che non risparmia mai colpi di scena, come quelli degli ultimi giorni. Il problema è che nemmeno il Comune di Roma sembra sapere che pesci prendere, mentre l’Ama soffre con due bilanci ancora da approvare ( 2017 e 2018), le linee di credito delle banche bloccate, e soprattutto una città di tre milioni di abitanti da pulire ogni giorno. Nell’incertezza del futuro c’è invece un recente e chiaro passato di guerriglia che l’amministrazione di Virginia Raggi ha combattuto contro l’Ama e il suo gruppo dirigente, nominato dalla stessa Raggi a metà del 2017 e licenziato il 18 febbraio scorso, una storia punteggiata da episodi stravaganti e di cui, nonostante i titoloni sui giornali e i talk show televisivi, ancora non si capisce bene il senso. C’è l’idea di affondare l’Ama? di agevolare l’ingresso di nuovi azionisti ( eventualità negata con determinazione in Comune), di lasciarla friggere a fuoco lento? di fonderla con una società più grande, come ( esempio a caso) l’Acea, dove brillano cospicui interessi privati? Nonostante la scarsa reputazione, l’Ama può far gola a molti se non altro per il contratto di servizio che la lega al Comune di Roma. Il Campidoglio versa all’azienda 780 milioni di euro l’anno, e chi la controlla ha in tasca poco meno di 8 miliardi assicurati per i prossimi dieci anni. E la mole di rifiuti che Roma produce ( 2,3 milioni di tonnellate l’anno), se ben trattati, possono trasformarsi in bei milioni di profitti. Il nodo dello scontro tra Comune e azienda è nel bilancio di esercizio relativo al 2017 ( per il 2018 c’è ancora un po’ di tempo) che il Campidoglio, azionista unico di Ama, si rifiuta di approvare. Non è un dettaglio da poco, perché in assenza di un bilancio approvato e certificato succedono le seguenti cose: le banche limitano il credito, la crisi di liquidità può mettere a rischio gli stipendi, i fornitori chiedono di essere pagati in anticipo, e non partecipano alle gare d’appalto perché non si fidano, gli investimenti si bloccano, l’azienda si paralizza e la città annega nei rifiuti. Eppure, almeno fino al maggio del 2018 sembrava che tutto potesse filare liscio. Il presidente Lorenzo Bagnacani, insediato nel 2017, nota sì talvolta episodi un po’ sinistri, come qualche strana verbalizzazione delle sedute del consiglio, ma per un’azienda che è stata al centro degli scandali Mafia Capitale è il minimo sindacale e poi con la nuova assessore all’ambiente Pinuccia Montanari ( nominata dalla sindaca su indicazione di Beppe Grillo) si lavora bene. Così il 23 aprile del 2018 vien convocata l’assemblea societaria per dare disco verde al bilancio. L’azionista, ovvero il Comune della sindaca Raggi, non si presenta. Silenzio. E’ l’inizio della guerriglia. Prima voci, poi qualche telefonata, all’Ama arriva la notizia che il Comune ( assessore al bilancio il 5 Stelle livornese Gianni Lemmetti) non vuole pagare a Ama 18 milioni di euro. Si tratta di soldi che Ama chiede per “servizi cimiteriali”, voce funesta che comprende la costruzione di tombe e loculi, la manutenzione dei cimiteri di Roma, le cremazioni ( nel bilancio 2016 si registrano 33mila 631 romani defunti e 14.322 cremazioni, in lieve aumento sul 2015), tutto ciò che gira intorno all’industria dei decessi. Il Comune è irremovibile: non ti pago. Lorenzo Bagnacani e il resto del consiglio di amministrazione ( Vanessa Ranieri e Andrea Masullo) rimangono interdetti. Ma come? Il bilancio è stato certificato dalla società di revisione Ernst & Youg, lo stesso Collegio sindacale ( presidente Mauro Lonardo) ha dato il suo benestare, i 18 milioni di credito erano già presenti nei bilanci precedenti e non sono mai stati contestati da nessuno. Perchè dunque eliminare questa posta, mandando così il bilancio in rosso? Su questi 18 milioni si innesta una commedia tra il tragico e il ridicolo. Per un bel po’ nessuno, dal Comune, contesta il debito con comunicazioni ufficiali. Girano solo voci di corridoio. Un giorno però il direttore generale del Campidoglio Franco Giampaoletti apostrofa la consigliera di amministrazione Ama Vanessa Ranieri: “Dottoressa. Dobbiamo metterci d’accordo sui numeri”. Ranieri: “In che senso? Se avete numeri diversi venite a spiegarceli in assemblea dei soci”. Giampaoletti, che è tipo ruvido replica: “Dottoressa Ranieri, lei forse è più intelligente di me, ma io sono più vecchio e ho anche la prostata”. Ranieri, allibita, incassa la battuta sessista. Respinto, Giampaoletti non si arrende e mette sotto pressione quotidiana la dirigente del dipartimento Tutela Ambiente, Rosalba Matassa, che lavora con l’assessore Pinuccia Montanari. Telefonate nervose, estenuanti riunioni per trovare il modo di eliminare i 18 milioni dal bilancio. Giampaoletti ordina militarmente a Matassa di firmare una lettera ufficiale di contestazione del bilancio indirizzata all’Ama e la Matassa risponde “la firmi lei che è il mio capo, io non sono d’accordo”. Toni alti, sempre più aspri, e alla fine di una telefonata tempestosa Ma- tassa va all’ospedale San Giovanni a farsi misurare la pressione a mille. Poi, a dicembre, se ne va. Dimissioni. Per tutta l’estate e fino all’autunno la marea monta. Lorenzo Bagnacani sente puzza di bruciato e si convince che, per qualche motivo, in Comune si lavori affinchè il bilancio 2017, che dovrebbe chiudere con un attivo per circa 650 mila euro chiuda invece in rosso. Rassicurati da pareri legali di luminari del diritto societario e contabile, nonché dalla società di revisione Ernts & Young, i consiglieri di amministrazione tengono la linea e così, dopo estenuanti tira e molla, propongono di sospendere la questione dei 18 milioni creando nel bilancio un fondo rischi da sottoporre poi, a bilancio approvato a una analisi più meticolosa. E qui, una piccola astuzia contabile. Il fondo figurerà nello stato patrimoniale e non nel conto economico dell’anno 2017. In Comune sono tutti felici e partono comunicati alla stampa che annunciano l’approvazione del bilancio. Poi qualcuno capisce. Collocare la posta dei crediti cimiteriali nello stato patrimoniale della società e non nel conto economico dell’esercizio 2017, lascerà inalterato il risultato in utile. E invece in Campidoglio vogliono il risultato in rosso. Il Campidoglio dice niet. E perfino il collegio sindacale, che fino a quel momento aveva confermato la sua appr0vazione, fa marcia indietro. Il presidente del collegio, Mauro Lonardo cambia improvvisamente opinione dopo aver preso un caffè col direttore generale di Roma Capitale Franco Giampaoletti. Ed è riconfermato nel suo incarico ( nel frattempo scaduto). La battaglia continua. A fine 2018 viene presentata alla sindaca la bozza del nuovo piano industriale Ama. Un piano ambizioso che prevede fino al 2021 la realizzazione di 13 impianti di smaltimento e riciclo, da finanziare con l’emissione di “green bond” ( approvati dalla consulenza di J. P Morgan). Nel progetto c’è anche la realizzazione di due centri di digestione anaerobica dei rifiuti organici con cui produrre oltre 20 tonnellate l’anno di metano con cui si potrebbe coprire il 70 per cento del fabbisogno di carburante degli autobus della città. Il piano prefigura una Ama del tutto nuova, completamente pubblica, dotata di impianti di lavorazione dei rifiuti, in grado di diventare un player di assoluto rilievo nel campo del “waste management” e di far concorrenza ai più importanti poli industriali. Forse qualcuno comincia a preoccuparsi. Anche l’Acea ( posseduta al 51 per cento da Roma Capitale, ma con azionisti privati pesanti come la società franco belga Suez e il costruttore Gaetano Caltagirone) ha programmi simili. Alle parole “nuovi siti” però, la sindaca Raggi sobbalza e spiega a Bagnacani: “Per carità, che non si parli di nuovi siti e nuovi impianti fino alle elezioni europee di maggio”. Altrimenti gli elettori si innervosiscono. Lo showdown ha luogo l’ 8 di febbraio 2019. Quel giorno sono in programma una riunione della Giunta comunale in Campidoglio e contemporaneamente l’assemblea dei soci di Ama. Pochi minuti prima della giunta, l’assessore Pinuccia Montanari si vede porgere dal direttore Franco Giampaoletti una delibera bell’e pronta in cui si boccia definitivamente il bilancio Ama che Montanari, in qualità di assessore all’ambiente, dovrebbe firmare. Lei si rifiuta. “Ma volete scherzare? Ora sospendiamo per quattro cinque ore, io chiamo i miei consulenti e me la leggo parola per parola. Non firmo al buio”. Letto e digerito, Montanari conferma il suo dissenso. La sindaca Raggi: “O sei fuori o sei dentro e se non firmi sei fuori”. Montanari molla tutto e va a scrivere la lettera di dimissioni immediate. Nella sede dell’Ama, poco più tardi, ha luogo un siparietto gustoso. Comincia l’assemblea societaria e telefona un collaboratore di Giampaoletti, il responsabile delle società partecipate Giuseppe Labarile, e dice: “Sono io che rappresento il Comune in assemblea. Posso farlo in teleconferenza telefonica?”. “Veramente dobbiamo identificarla con un documento di identità”, è la risposta. “Allora un momento che vedo come fare”. La telefonata viene messa in attesa ma qualcuno, invece di premere il tasto giusto, schiaccia quello del viva voce. Così, i consiglieri di amministrazione Ama ascoltano un dialogo surreale: “Questi mi chiedono il documento, che devo fare? Il documento qui non ce l’ho, l’ho lasciato nella pratica della promozione”. L’assemblea Ama, boccia dunque il bilancio, che rimane sospeso. La situazione non può che precipitare. Il 18 febbraio 2019 Lorenzo Bagnacani e gli altri consiglieri di amministrazione Vanessa Ranieri e Andrea Masullo vengono revocati dai loro incarichi. In Campidoglio c’è molto nervosismo. Si sa che Bagnacani in novembre, visto come si mettevano le cose, è andato in Procura della Repubblica a presentare un esposto. Non vuole trovarsi invischiato in un eventuale falso in bilancio. Ricevuto dal procuratore Giuseppe Pignatone, e dalle due sostitute Luigia Spinelli e Claudia Terracina, Bagnacani comincia a illustrare la sua denuncia, ma Pignatone nemmeno lo lascia finire: “Lei mi sta dicendo che a suo giudizio vogliono mandare la società in rosso, vero?”. “Esatto”, replica Bagnacani. E questo è dimostrato con sufficiente evidenza dai fatti. Ciò su cui ancora non c’è chiarezza sono i motivi di questa scelta, difesa strenuamente e forse imposta dall’assessore al bilancio di Roma Capitale Gianni Lemmetti. Cosa c’è sullo sfondo? Se i due bilanci ancora da approvare il 2017 e il 2018 chiudessero entrambi in rosso, Ama potrebbe essere dichiarata in qualche modo antieconomica per Roma Capitale che la controlla al 100 per cento. In questo caso si aprirebbero nuove prospettive, come l’eventuale ingresso nel capitale di Ama di soci privati che ovviamente porterebbero in azienda i loro interessi. Non si può dimenticare che Ama incassa e incasserà nei prossimi dieci anni circa 8 miliardi di euro, ovvero i corrispettivi del contratto di servizio che la società ha con Roma Capitale. E a chi non dispiacerebbe disporre di 8 miliardi di euro garantiti fino al 2029? La scena è ancora in movimento, ravvivata in queste dai dialoghi di Lorenzo Bagnacani e Virginia Raggi pubblicati dall’Espresso. Fino a ieri, l’ultimo fotogramma ritraeva l’assessore al bilancio Gianni Lemmetti, il direttore generale di Roma Capitale Franco Giampaoletti e il presidente del Collegio Sindacale di Ama Mauro Lonardo che, all’indomani della defenestrazione del consiglio di amministrazione Ama, si sono presentati nella sede dell’Ama, si sono fatti accompagnare nell’ufficio di Lorenzo Bagnacani e lo hanno smontato pezzo per pezzo cercando qualcosa. Cosa, non si sa.

Stadio della Roma,  nuove indagini  su Virginia Raggi. Pubblicato sabato, 20 aprile 2019 da S. De Santis e I. Sacchettoni su Corriere.it. Dopo gli audio con l’ex manager Ama, si profila un nuovo guaio per Virginia Raggi, stavolta dal filone relativo allo stadio di Tor di Valle. Il gip Costantino De Robbio ha respinto la richiesta di archiviazione nei confronti della sindaca e prescritto alla Procura indagini più approfondite. Raggi potrebbe essere nuovamente indagata e in questo caso per questioni direttamente collegate all’affaire stadio. La vicenda riguarda la mancata approvazione in Consiglio comunale del verbale conclusivo della Conferenza dei servizi in merito al progetto stadio e i denuncianti, l’architetto Francesco Sanvitto del «Tavolo della libera urbanistica» assistito dall’avvocato Edoardo Mobrici, si erano opposti all’archiviazione richiesta dalla Procura. L’associazione denunciava un’omissione nell’iter amministrativo, una «scorciatoia» che, a loro giudizio, avrebbe favorito il costruttore Luca Parnasi. Il verbale della conferenza dei servizi sarebbe dovuto, a loro avviso, passare per l’assemblea capitolina che avrebbe dovuto discutere apertamente l’opportunità di una variante urbanistica. Invece, il 12 aprile 2018 viene pubblicato il progetto e successivamente depositato presso l’Albo Pretorio che completa l’ufficializzazione. Per la prima volta è l’iter amministrativo, finora rimasto estraneo agli accertamenti della procura sul presunto giro di mazzette elargite da Parnasi, presidente di Eurnova, società proprietaria dei terreni di Tor di Valle sui cui dovrebbe sorgere l’impianto. Le verifiche sono destinate a intrecciarsi con i controlli condotti dagli uffici del Campidoglio. Scrive il gip: «Occorre approfondire la sussistenza e le eventuali ragioni di una evidente violazione di legge che, laddove ravvisata, supererebbe le argomentazioni del magistrato inquirente in tema di dolo intenzionale e dall’altra parte far luce sul tema della mancata convocazione e acquisizione del parere sulla commissione urbanistica nell’iter per l’approvazione della delibera in questione, anche attraverso l’audizione del presidente della Commissione Urbanistica e del consigliere comunale indicati dall’opponente».

Marcello De Vito e la morte del mito dell'onestà del Movimento 5 Stelle. L'arresto per corruzione del presidente dell'assemblea capitolina è un duro colpo all'immagine costruita negli anni dai pentastellati a colpi di selfie e foto discutibili. E la sua espulsione non basterà a riconquistare l'innocenza perduta, scrive Mauro Munafò il 20 marzo 2019 su L’Espresso. Marcello De Vito è innocente fino a quando un tribunale non avrà stabilito il contrario. Questa ovvietà è bene precisarla, proprio perché si tratta di un'ovvietà troppo spesso dimenticata di recente. Ma se il presidente dell'assemblea capitolina del Movimento 5 Stelle avrà i suoi modi e tempi per difendersi, quello che oggi muore senza dubbio è il mito dell'onestà dei 5 Stelle. Perché i miti si alimentano di suggestioni, simboli, immagini e non di fatti. Si alimentano di fotografie di tuoi parlamentari che fanno il gesto delle manette o di tuoi consiglieri comunali che si fanno i selfie con le arance per augurare la galera a un avversario politico. E queste immagini e suggestioni così superficiali possono essere spazzate vie con facilità da altre immagini e suggestioni ben più rilevanti. Come appunto la notizia di un tuo esponente di primo piano nel territorio più importante che amministri, la Capitale d'Italia, che viene arrestato per tangenti e corruzione. L'accusa è pesante: De Vito avrebbe incassato direttamente o indirettamente delle elargizioni dal costruttore Luca Parnasi. Per agevolare il progetto collegato allo stadio della Roma. Pochi minuti dopo la notizia, Luigi Di Maio si è affrettato a cacciare “con motu proprio” De Vito dal Movimento 5 Stelle, spiegando che “De Vito non lo caccio io, lo caccia la nostra anima, lo cacciano i nostri principi morali, i nostri anticorpi”. Operazione inutile: a ben pochi di quegli elettori che per anni hai alimentato a pane e qualunquismo interessa un'operazione puramente di facciata come espellere qualcuno dal Movimento. Il mito dell'onestà, una volta che lo perdi, non lo recuperi con un'espulsione e un post di poche righe su Facebook. Chissà se oggi quelle foto con le mani che imitano le manette o i selfie con le arance faranno arrossire qualcuno degli ex onesti.

«I soldi? Dividiamoceli subito!». Ecco le intercettazioni che fanno tremare il M5S. Nuovo stadio della Roma: una nuova ondata di arresti travolge un altro pezzo dei Cinque Stelle capitolini. Per Marcello De Vito, presidente dell'Assemblea, la Procura ipotizza il reato di corruzione. L'amico: «Prima di incassare meglio che tu finisca il mandato», scrivono Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian il 20 marzo 2019 su L’Espresso. Ci sono le Cinque Stelle del Movimento, simbolo di trasparenza e onestà. E poi c'è la «cometa di Halley», metafora di un'occasione da non perdere: quella di chiudere affari e incassare tangenti mascherate da consulenze da centinaia di migliaia di euro. «La congiunzione astrale, come quando passa la cometa di Halley» è la frase simbolo intercettata dai carabinieri del Nucleo investigativo di Roma e contenuta nell'ordinanza di custodia cautelare in carcere firmata dal gip del tribunale di Roma che ha portato in carcere Marcello De Vito, il presidente dell'assemblea capitolina. Un pezzo da Novanta del partito guidato da Luigi Di Maio, che ha subito annunciato di averlo cacciato. L'accusa è pesante: corruzione. Oltre a lui sono finiti nella rete della procura di Roma - l'indagine è coordinata dal pm Paolo Ielo, Barbara Zuin e Luigia Spinelli - altre tre persone: tra questi l'avvocato e “procacciatore” Camillo Mezzacapo. Amico e sodale di De Vito. Ed è proprio Mezzacapo in un dialogo intercettato a suggerire al grillino di cogliere l'attimo politico favorevole, visto che il movimento Cinquestelle è maggioranza nel governo nazionale e della Capitale. Dice Mezzacapo: «Guarda, c'è una congiunzione astrale che è come quando passa la cometa di Halley...cioè, state voi al governo qua di Roma e anche al governo nazionale in maggioranza rispetto alla Lega, è la cometa di Halley, allora adesso hai un anno, se adesso non facciamo un cazzo in un anno però allora voglio dire mettiamoci il cappelletto da pesca, io conosco un paio di fiumetti qua ci mettiamo là ci mettiamo tranquilli con una sigarettella un sigarozzo là, con la canna e ci raccontiamo le storie e ci facciamo un prepensionamento dignitoso». Come dire, non lasciamoci sfuggire i vantaggi del momento. Perché oggi siamo al potere, domani chissà. «Ci rimangono due anni, due anni», ribadisce l'avvocato. E stando agli atti della procura e del gip la coppia grillina si è mossa davvero con rapidità e grande abilità, dentro e fuori le istituzioni. L'inchiesta su De Vito è un nuovo filone d'indagine dell'istruttoria che portò in carcere Luca Lanzalone, ex presidente di Acea e legale che curava per la giunta Raggi l'iter per la realizzazione del nuovo Stadio della Roma. Oltre al Mr Wolf di Virginia, finì in manette anche il costruttore Luca Parnasi, l'imprenditore che doveva realizzare il nuovo impianto. Parnasi, si scopre adesso, avrebbe corrotto anche De Vito. Ecco cosa scrive il gip sul grillino: «La funzione pubblica svolta viene mercificata e messa al servizio del privato al fine di realizzare il proprio arricchimento personale, che è l'obiettivo al quale appaiono finalizzate tutte le condotte dei citati indagati». E ancora: «L'ufficio pubblico di De Vito appare non occasionalmente, ma costantemente strumentale alla realizzazione di tale arricchimento, che è la filosofia che dirige l'azione del pubblico ufficiale e del suo compartecipe, azione inequivocamente indirizzata alla realizzazione del massimo dei profitti». De Vito, infatti, avrebbe usato una società intestata ad altri, la Mdl, per incassare le prebende. Che arrivavano dai costruttori (sono indagati anche i Toti e le aziende di Giuseppe Statuto, che sarebbero stati favoriti nei loro affari dal grillino) attraverso consulenze legali fittizie a Mezzacapo: «Va beh, distribuiamoceli subito questi», dice De Vito intercettato mentre parla con il suo mediatore. Secondo gli investigatori il politico si riferisce ai soldi entrati nelle casse della società a lui riferibile. Mezzacapo gli risponde, invitandolo alla cautela: «Ma adesso non mi far toccare niente, lasciali lì, a fine mandato se vuoi ci mettiamo altro sopra se vuoi...». Alla fine l'avvocato riesce a placare la richiesta del presidente dell'assemblea capitolina, e lo convince ad aspettare la fine della legislatura. «Cioè la chiudiamo, distribuiamo poi, liquidi e sparisce tutta la proprietà, non c'è più niente e allora però questo lo devi fa quando hai finito quella cosa siccome mo ci stanno facendo sponsorizzazioni...». Per la procura è una conversazione «illuminante», che chiarisce «in maniere inequivocabile il patto scellerato tra De Vito e Mezzacapo, dando chiara dimostrazione di come le somme confluite nella Mdl, formalmente riconducibile solo al secondo, siano invece anche del pubblico ufficiale, che appare, peraltro impaziente, di entrarne in possesso». Un format, prosegue il gip che ha firmato l'ordinanza di custodia cautelare, assolutamente riuscito, grazie alla «congiunzione astrale e alla spregiudicatezza di chi ritiene di potersi muovere liberamente e impunemente in ambiti criminali». Tra un affare e un favori ai costruttori coinvolti, però, De Vito e il suo complice hanno il tempo di discutere anche di politica. Mezzacapo:«Non credo che alle prossime elezioni a Roma il movimento rivada al governo della città, te lo dico proprio sinceramente...va beh tutto può succedere». E De Vito: «Mah vediamo, a noi basta andare al ballottaggio...comunque noi...loro dovrebbero fare un deroga alla regola dei due mandati». L'avvocato si dice convinto che si voterà i primi mesi del 2020, «quella è la finestra». D'accordo De Vito, che però aggiunge: «Devono solo fare le nomine Eni...Enel... credo ( si voti ndr) maggio, giugno 2020».

Ilaria Sacchettoni e Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” il 21 marzo 2019. Quali fossero i rapporti tra il presidente del consiglio comunale di Roma e gli imprenditori ben si comprende ascoltando le parole del costruttore Luca Parnasi, che a un amico rivela: «Ho ritenuto di affidare un incarico allo studio Mezzacapo per non scontentare Marcello De Vito». Eccola la «messa a disposizione della funzione pubblica» che ha convinto il giudice a ordinare l' arresto del politico pentastellato.  Il resto lo fanno i soldi che De Vito e il suo socio Camillo Mezzacapo (con l' aiuto della «sua persona di fiducia» Virginia Vecchiarelli) avrebbero fatto arrivare su conti della Mdl srl, che condividevano e gestivano, trovati grazie alle indagini dei carabinieri del Nucleo investigativo. Ma anche quelle conversazioni durante le quali pensano al futuro: «Allora voglio dire, mettiamoci il cappelletto da pesca, io conosco un paio di fiumetti qua ci mettiamo là... ci mettiamo tranquilli con una sigarettella, un sigarozzo, con la canna e ci raccontiamo le storie e ci facciamo un prepensionamento dignitoso...». De Vito e Mezzacapo erano soci di studio e da quando il primo è entrato in politica, l' altro sembra essersi ritagliato un ruolo di mediatore tra lui e gli imprenditori. E così, quando emergono problemi, Mezzacapo rassicura Parnasi «che per superare le difficoltà abbiamo chiamato il nostro amico per farlo intervenire con forza» ed è stato lo stesso costruttore «nel corso dell' interrogatorio del 3 ottobre 2018 a confermare che si trattasse proprio di De Vito», più volte in altri colloqui definito «l' amico potente». Lo schema messo in piedi era semplice. E avrebbe consentito a De Vito di ottenere 260 mila euro, più una promessa per altri 140 mila. Scrive il giudice: «Dall' esame dei conti bancari intestati agli avvocati Vecchiarelli e Mezzacapo sono emersi i pagamenti ricevuti per la consulenza (a Parnasi, ndr ) e la destinazione finale di tale provvista. Sul conto intestato a Vecchiarelli è stato individuato un primo bonifico in ingresso in data 10 agosto 2017 da Capital Holding spa di 24.582 euro con causale Saldo preavviso parcella. La relativa provvista risulta essere stata impiegata il 14 agosto 2017 in un bonifico da 19.665 euro in favore di Mezzacapo. Altri due bonifici da 35.270 euro ciascuno arrivano a Vecchiarelli il 13 e il 16 aprile 2018. Il giorno dopo vengono ordinati due bonifici in favore di Mezzacapo: uno da 21.376 euro, uno da 18.300 euro». De Vito, questo dice il giudice, è il terminale di una parte del denaro. Su un suo conto personale Mezzacapo accredita 8.550 euro il 6 settembre 2017 e 4.275 il 12 marzo 2018. Non è finita. Perché, questa è una delle accuse «sul conto corrente intestato a De Vito si registrano alcuni picchi di prelevamento contanti riferibili ai mesi di giugno 2017 per 1.700 euro, di settembre 2017 per 3.500 euro e ad ottobre per 1.500 euro». Per far approvare le delibere, De Vito evidentemente sa che non può contare solo su sé stesso. Il giudice lo dice in maniera chiara lasciando intendere che le indagini non sono affatto concluse e potrebbero presto portare ad altri clamorosi sviluppi: «La funzione pubblica esercitata da De Vito è oggetto di mercimonio, stabilmente asservita agli interessi dei privati... Nel promettere per il tramite di Mezzacapo il suo intervento lo modula a seconda delle necessità. Quando non può farlo direttamente si rivolge agli assessori competenti per materia, ovvero ai consiglieri comunali, ovvero ancora si avvale di tutta la sua rete di relazioni in modo da poter comunque sollecitare l' intervento di altri pubblici ufficiali che operano all' interno dell' amministrazione capitolina».

Il 31 maggio De Vito parla al telefono con Parnasi «sulla possibilità di influenzare le scelte di consiglieri e altre cariche capitoline».

Parnasi : «Gli dico, parlo con Daniele (Frongia ndr)».

De Vito : «rinvialo questo passaggio senza...no? Dell' Eurobasket».

Parnasi :«Glielo sfumo, glielo sfumo! Siccome Daniele è uno che è una volpe, ha una velocità in testa che...! Io con Daniele ho un buon rapporto lui onestamente è un po' è un po' come si dice a Roma "rintorcinato" termine giusto, mi sbaglio?».

De Vito : «Ha la modalità del giocatore di scacchi russo».

La giudice sottolinea come De Vito e Mezzacapo «sono sempre a caccia di un modo per ampliare il loro "portafoglio clienti"». E tra le conversazioni che lo dimostrano ne cita una del 31 maggio scorso, quando si affronta il problema dello stadio. De Vito appare preoccupato, vuole sapere «noi come ci entriamo?». E Parnasi non si scompone: «Usiamo il solito schema».

Vale a dire «fatture emesse da Vecchiarelli con una duplice finalità: giustificare formalmente la percezione del prezzo della corruzione e consentire alle società del gruppo Parnasi l' evasione delle imposte».

De Vito e Mezzacapo cercano di eludere i controlli e la loro cautela aumenta dopo l' arresto di Luca Parnasi a giugno 2018. In una circostanza escogitano, telefonicamente, un appuntamento da un concessionario di Jaguar per simulare la scelta di una Range Rover. Gli investigatori «osservavano nel parcheggio dell' autosalone le auto di Mezzacapo e De Vito e dopo circa un' ora li vedevano uscire dalla concessionaria insieme a una terza persona e allontanarsi».

In qualche caso si pongono il problema di non essere visti assieme, il politico si preoccupa. Così De Vito obietta la scelta di un pranzo al Matriciano di via dei Gracchi perché è molto frequentato e c' è la possibilità che qualcuno li avvisti ma Mezzacapo lo rassicura: «Entriamo dal coso, c' è l' ascensoretto che ti porta su adesso lo vedi c' è la saletta, non ti vede nessuno siamo noi quattro, noi quattro e il cameriere....».

Ilario Lombardo per “la Stampa” il 21 marzo 2019. Un giorno, non molto lontano, basterà semplicemente la frase pronunciata dall' avvocato Camillo Mazzacapo a Marcello De Vito, «Marce', dobbiamo sfruttarla sta cosa», per ripiombare nell' atmosfera di ieri, di oggi, di questa Terza Repubblica già moralmente ammaccata, un po' come avviene quando sentiamo la mitica «A Fra' che ti serve» e subito ritorniamo alla Prima Repubblica, ai suoi mondi di maneggioni e favori, di imprenditori e politici che facevano comunella di potere e di soldi. Della biografia politica del presidente del consiglio comunale di Roma Marcello De Vito si può dire in poche righe quello che ora tutti nel M5S tacciono: che oggi poteva essere il sindaco di Roma, se non fosse stato (forse) per una brutta storia di dossier e non ci fosse stato (certamente) lo zampino di Gianroberto Casaleggio che gli preferì Virginia Raggi perché aveva più sicurezza e più presenza in video. Ma De Vito dava garanzia di purezza nel M5S, come dimostra lo choc generalizzato dei colleghi. «Marcellone», per gli amici che gli riconoscevano la stazza fisica e la bontà, era da sempre considerato il più ortodosso a Roma, l' altra metà di Roberta Lombardi a cui è indissolubilmente associato. Emerso dalla truce guerra tra bande che erano i meet-up romani e laziali, fu il candidato sindaco perdente contro Ignazio Marino nel 2013. Tre anni di consiliatura, poi la giunta Pd che cade e la speranza questa volta di farcela, ammazzata, confidava lui, dal dossier a uso interno raccolto - disse Lombardi ai pm - dagli altri tre consiglieri grillini Daniele Frongia, Enrico Stèfano e la futura sindaca Raggi. Non l' ha mai davvero mandato giù quel boccone avvelenato, nonostante il premio di consolazione dell' assemblea capitolina, forte del massimo dei voti presi da un candidato 5 Stelle a Roma. Dissimulava una serenità inesistente, come spesso si fa nel M5S straziato e abituato alle faide: «Sto zitto per il bene del Movimento». Raccontano che era a lui che faceva riferimento Beppe Grillo nei giorni peggiori della tormentata giunta Raggi, già prima degli arresti del braccio destro Raffaele Marra e dell' imprenditore messo a capo di Acea Luca Lanzalone. Ma Roma è sempre Roma, il suo microcosmo asfittico, la sua gola frettolosa di guadagni. «A Fra' che ti serve» fu la frase di rito degli Anni Ottanta, che tutto conteneva, attribuita a Gaetano Caltagirone, re dell' edilizia romana, quando riceveva una telefonata da Franco Evangelisti, uomo ombra di Giulio Andreotti. Quel saluto un po' annoiato un po' indolente («A Fra'...»), sempre disincantato e sbrigativo come è la romanità nel suo spirito più profondo, è lo slogan del principio di scambio fondativo di un impero politico finanziario finito in briciole con Tangentopoli, per rinnovarsi sotto altre forme e altri nomi. E così oggi in quell' avvertimento fraterno a De Vito - «Noi Marce' dobbiamo sfruttarla sta cosa, ci rimangono due anni» - l'avvocato Mazzacapo sta inconsapevolmente incarnando lo spirito dei tempi nuovi, la precarietà della politica, il mordi e fuggi della tribù che si sa a breve scadenza, perché improvvisata e fortuita. Un'altra contrazione dialettale in romanesco che dice meglio di mille analisi: razziare finché si è in tempo, perché quando ti ricapita il governo nazionale e di Roma assieme? E chi lo può sapere se mai il M5S tornerà a guidare il Campidoglio? Il M5S teorizza che siamo tutti passeggeri in politica e il potere svanisce nelle mani di chi lo possiede. Eppure De Vito sembrava essersi affezionato al suo ruolo, in una città dove ci sono sempre due, tre città dentro. Nove giorni fa, il 12 marzo, è arrivato persino a dire sulle Olimpiadi: «Non farle è stata scelta prudenziale, oggi forse sarebbe stato diverso». Si trovava di fronte a una platea di costruttori romani. Due anni di amministrazione irrobustiscono la fiducia e le relazioni. Basta tornare indietro, però, alle carte del primo filone di inchiesta sullo stadio della Roma, lo scorso giugno, per capire che erano già state lasciate le tracce di questo epilogo. A quando il gip appuntava che De Vito e l' ex capogruppo Paolo Ferrara si erano attivati per chiedere all' imprenditore Luca Parnasi «di promuovere la campagna elettorale» di Lombardi alla Regione Lazio. Ferrara, che si era mosso anche per spingere un progetto di restyling della sua Ostia, è ancora indagato. De Vito, invece, ha continuato a rispondere al telefono a chi lo chiamava affettuosamente «Marce'... ».

Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” del 21 marzo 2019. Le arance! Chissà se certe anime pure grilline, furenti per l' abietta visita in Campidoglio dei «neri» di CasaPound con le arance per Marcello De Vito, hanno rivissuto ieri il giorno in cui quella visita la fecero loro. Era il 3 dicembre 2014 e a portare beffardi gli agrumi, spiegando che si trattava di un dono simbolico per i carcerati, c' erano Luigi Di Maio, Alessandro Di Battista e lui, il presidente del consiglio comunale ora a Regina Coeli. Venuti a chiedere le istantanee dimissioni di Ignazio Marino. Chi di arance ferisce, di arance perisce. Era proprio il grillino appena ammanettato e inchiodato da quella telefonata sui quattrini («distribuiamoceli, questi»), uno dei più accaniti fustigatori dei cattivi costumi capitolini. Basti risentire il suo spot elettorale: «Le mani libere del Movimento 5 Stelle rappresentano un valore importantissimo per Roma. Per la prima volta possiamo andare a colpire gli sprechi, i privilegi e la corruzione con cui i partiti di destra e di sinistra, indifferentemente, hanno campato per anni sulle spalle dei cittadini romani». O rileggere alcuni dei tweet lanciati in questi anni, soprattutto dal 2013 (quando fu il candidato a sindaco del MoVimento) al 2016, quando corse alle nuove «comunali» al fianco, si fa per dire, di Virginia Raggi: «Rapporto choc: corruzione in ogni settore! Ecco perché servono le nostre mani libere!», «Spazzeremo via sprechi privilegi e corruzione», «Mafia capitale, corruzione, conti fuori controllo, disservizi E vogliamo anche organizzare le Olimpiadi?!» «Ecco cosa lasciano il Pd e il Pdl nelle municipalizzate di Roma: sprechi, privilegi, corruzione e Parentopoli!» «Buche a Roma. Tangenti e intercettazioni: tutti corrotti!» Tutti meno lui, ovvio. Rigido. Rigidissimo. Un gendarme dell'ortodossia. Anche se, a proposito di Parentopoli, non è mancato chi gli ha rinfacciato la carriera parallela della sorella Francesca De Vito. Eletta consigliera l'anno scorso alla Regione Lazio (indovinate con chi?) facendo immaginare ai più maliziosi una sorta di zuccherino per addolcire la sua grinta combattiva contro Virginia Raggi, vista in famiglia come una specie di usurpatrice. Dice tutto uno sfogo pubblicato su Facebook alla fine di agosto 2016. Siamo nel pieno delle risse intestine sulla sindaca e il suo cerchio magico. Cui viene attribuito a torto o a ragione, citiamo l'Ansa, un «presunto dossier contro De Vito», su possibili irregolarità in una pratica di sanatoria, «che a fine 2015 avrebbe danneggiato la sua possibile candidatura a sindaco di Roma». Vero? Falso? Certo è che Francesca, sventagliando raffiche di punti esclamativi, attacca: «Adesso basta!!! Dovevamo dimostrare la differenza e la non continuità con il passato e io da attivista lo pretendo!!! Che Virginia abbia sentito il bisogno di circondarsi di "persone di fiducia" ci può anche stare... malgrado alcune scelte lascino il boccone amaro in bocca a molti.... che poi però ogni persona di fiducia, compreso Daniele (Frongia, ndr ) debba circondarsi di "amichetti di merende"...questo diventa inaccettabile!!!!» Quindi (punteggiatura e stile sono a carico suo) la consigliera regionale insiste: «Nessuno ha mai pensato di arricchirsi con il movimento né tanto meno di fare "piaceri" a qualcuno. ...non vi permettete di cominciare voi... non ce lo meritiamo e non se lo merita Roma. Ciò che sta avvenendo è inaccettabile!!...e noi saremo il vostro peggior nemico!!»  preferisco perdere e poter continuare a criticare gli altri piuttosto che vincere e dover ingoiare simili bocconi!!!!» Un capolavoro. Che convince i compagni di partito, un anno e mezzo dopo, a far spazio alla fumantina parente elevandola a Vice Presidente della Commissione Sviluppo economico e attività produttive regionale. Come se la caverà, vedremo. Chi difficilmente riavremo occasione di vedere all' opera, dato l'«infortunio giudiziario», è proprio il fratello, Marcello. Il quale, certo nel 2013 di esser destinato alla vittoria dato il successo grillino alle Politiche nei collegi capitolini, diede al nostro Fabrizio Roncone, per Style, un' intervista traboccante di scenari luminosi. Spiegò d'aver deciso di far politica spinto da Beppe Grillo: «Ognuno deve prendere una parte della propria vita e dedicarla agli altri». D'esser nato a Monte Sacro. Di avere una utilitaria che però non usava: meglio i mezzi pubblici. «Quando sarò sindaco perciò», promise, «è chiaro che arriverò in ufficio con il bus, come un cittadino qualsiasi. Anzi, il viaggio sarà occasione per ascoltare richieste, lamentele, suggerimenti». Niente auto blu e «anche allo stadio pagherò il biglietto». Respinta la domanda su chi votasse prima («Preferirei che il mio vecchio orientamento politico restasse segreto»), rivelò volentieri il programma, una volta arrivato a comandare in Campidoglio: rivedere tutti i conti in rosso lasciati da Gianni Alemanno e dai sindaci precedenti, cambiare l' Ama (rifiuti), cambiare l' Acea (acqua ed energia), far sì che «quelle società tornino a esser pubbliche» e «rivoluzionare la viabilità» puntando su bus e tram. «Ma non basta», aggiunse, «Abbiamo intenzione di attuare un piano per realizzare 1.000 chilometri di piste ciclabili». Mille. Su e giù pei colli E poi promise «una raccolta differenziata al 60%» e senza inceneritori e discariche e un «formidabile attacco» all' abusivismo edilizio e «meno vigili dietro le scrivanie e più vigili per strada» «Un programma ambizioso», gli obiettò Roncone. «Noi vogliamo, letteralmente, far svoltare Roma». Già che c' era, precisò anzi che i Fori Imperiali e Trastevere andavano pedonalizzati. Ma tutto, certo, sarebbe stato deciso insieme con i cittadini: «Le sedute del consiglio comunale saranno tutte date in streaming». Trasparenza, trasparenza, trasparenza E come va a finire, tutto questo? Col giustizialista giustiziato, il giorno della copertura in Senato a Matteo Salvini, senza un filo di dubbio garantista.

Tor di Valle: famo sto carcere, scrive il 20 marzo 2019 Gianfranco Turano su L’Espresso. Il primo commento sull'arresto di Marcello De Vito, presidente del consiglio comunale di Roma che avrebbe smazzettato per favorire lo stadio della Roma, non riguarda la pretesa di onestà (Honestah!1!) dei grillini. Solo un ebete può pensare che una sigla cambi l'antropologia e l'etologia italica rispetto alla cosa pubblica. Nelle questioni di amministrazione politica l'italiano non è ladro, è cleptomane e dovrebbe godere dell'infermità mentale parziale o completa. Più che lo slogan tottiano "famo sto stadio", bisognerebbe dire "famo sto carcere", magari proprio a Tor di Valle. Ma l'importanza dell'operazione "Congiunzione astrale" sembra altrove. Fin dall'arresto di Luca Parnasi, questa specie di punching ball preso in mezzo fra interessi di banche (Unicredit), hedge-funder Usa assatanati di plusvalenze immobiliari (Pallotta) e presunti moralizzatori a cinque stelle (Raggi & co), la Procura di Roma aveva affermato con chiarezza che il progetto dello stadio non era a rischio e che il club non c'entrava nulla con l'inchiesta. Secondo questa impostazione, Parnasi e i suoi accoliti erano una banda che operava in modo indipendente e senza mandati da chicchessia. In un contesto di politici, manager e finanziatori dediti esclusivamente al bene dei colori giallorossi, il capobanda Parnasi distribuiva soldi ad angolo giro fra fondazioni democrat e leghiste, tra esponenti forzisti e avvocati scesi apposta da Genova con bolla papale di Grillo, come Luca Lanzalone. Parnasi faceva così per un puro automatismo ereditato dal suo Dna palazzinaro. I gradi di separazione hanno consentito di isolare, sotto il profilo giudiziario, gli imbrogli di Parnasi da un'opera nobile e doverosa. Nel frattempo, si sono perse per strada le decine di milioni di euro che i privati dovevano versare per la realizzazione di opere stradali e ferroviarie ossia di quelle infrastrutture che avrebbero dato al progetto la corona della pubblica utilità. Il risparmio non era poi dispiaciuto ai privati che contavano, nel giro di qualche settimana, di ottenere la delibera di giunta che avrebbe appunto sancito la pubblica utilità dell'impianto di Tor di Valle e delle sue cubature aggiuntive. Adesso la delibera torna in alto mare, proprio mentre Pallotta si accingeva a rilevare i terreni di Tor di Valle da Eurnova con una qualche forzatura delle norme di diritto fallimentare che avrebbero imposto la revocatoria. Inoltre "Congiunzione astrale" pone un problema alla Procura. È possibile che tutto questo sia accaduto, e che sia continuato ad accadere fino a pochi giorni fa con Parnasi tagliato fuori da mesi agli arresti, senza una corresponsabilità quanto meno oggettiva degli attori principali? Certo, è possibile. È possibile come l'onestà con marchio M5S. Ma non è molto probabile.

Tangentopoli romana a 5 Stelle. Anche l'assessore allo Sport Daniele Frongia indagato per corruzione, scrive il 21 Marzo 2019 il Corriere del Giorno. L’indagine è quella della Procura di Roma ha portato in carcere l’ex presidente di Acea Luca Lanzalone e l’imprenditore Luca Parnasi. “Confido nell’archiviazione. Non ho compiuto alcun reato” si difende l’assessore penstastellato.  Continua il terremoto del Movimento Cinque Stelle in Campidoglio. Dopo l’arresto del presidente del Consiglio comunale grillino Marcello De Vito, anche l’assessore Daniele Frongia, un “fedelissimo” della sindaca Raggi, risulta indagato con lo stesso capo d’imputazione, cioè “corruzione” nell’ambito dell’inchiesta sullo stadio della Roma.  Frongia, che ha ricoperto anche la carica di vicesindaco di Roma, prima dell’indagine che nel 2016 aveva travolto Raffaele Marra e per la quale aveva deciso di fare un passo indietro, è indagato nell’ambito dell’inchiesta che ha portato in carcere l’ex presidente di Acea Luca Lanzalone ed il noto imprenditore romano Luca Parnasi.  è stato anche vicesindaco .

Puntualmente Frongia da buon esponente grillinodifeso dagli avvocati Alessandro Mancori ed Emiliano Fasulo del Foro di Roma si è sottratto alle domande dei cronisti affidandosi ad una nota: “Con il rispetto dovuto alla magistratura inquirente, avendo la certezza di non aver mai compiuto alcun reato e appurato che non ho mai ricevuto alcun avviso di garanzia, confido nell’imminente archiviazione del procedimento risalente al 2017“, ha commentato con una nota. La donna che Frongia voleva far assumere a Parnasi è una collaboratrice del Campidoglio . Il costruttore chiese all’assessore  che avendo la delega allo Sport, si occupava dello stadio della Roma,  se avesse qualcuno da presentargli per farlo lavorare in una delle sue società e Frongiaimmediatamente gli propose questa dipendente del Comune. L’assessore Frongia ha sempre negato di “aver chiesto alcun favore ma di essersi limitato a presentare quella persona perché mi era stato chiesto”. A seguito di una dovuta serie di accertamenti la Procura di Roma ha però deciso di iscriverlo nel registro degli indagati per corruzione. Una mossa che certamente mette ancora più in difficoltà la Giunta guidata da Virginia Raggi considerato che Frongia è ritenuto il più “fedelissimo” della sindaca. Nel frattempo questa mattina, il presidente del consiglio comunale a 5 stelle, Marcello De Vitoè comparso  davanti al gip della Capitale, Maria Paola Tomaselli per l’interrogatorio di garanzia e convalida del suo arresto, ma come facilmente prevedibile si è avvalso della facoltà di non rispondere. A renderlo noto è stato il suo nuovo legale, Angelo Di Lorenzo che  è subentrato all’avvocato Franco Merlino il quale ha rinunciato all’incarico. Di Lorenzo ha aggiunto  che “De Vito chiederà di essere ascoltato nei prossimi giorni per chiarire la sua posizione“. Prima di De Vito sempre nello stesso carcere di Regina Coeli , è stato sentito l’avvocato Camillo Mezzacapo. “Non ho percepito nessuna tangente, ma solo compensi per attività professionali, curavo transazioni e attività che si svolgono di norma nella pubblica amministrazione” ha dichiarato al gip, secondo quanto riferito dal suo difensore, l’ Avv. Francesco Petrelli, dopo l’interrogatorio di garanzia . Nel corso dell’interrogatorio di garanzia, Camillo Mezzacapo “ha chiarito che la ‘Mdl srl’ non è una società “cassaforte” e non è in alcun modo riconducibile a De Vito“.

«I soldi? Dividiamoceli subito!»....Corruzione, indagato l’assessore Frongia: trema il Campidoglio. Il braccio destro della sindaca Raggi avrebbe suggerito al costruttore Parnasi, fulcro dell’inchiesta sulla costruzione del nuovo stadio, il nome di un’amica da far assumere , scrive Simona Musco il 22 Marzo 2019 su Il Dubbio. Nemmeno il tempo di digerire l’arresto del presidente dell’assemblea capitolina Marcello De Vito che alla squadra di Virginia Raggi tocca fare i conti con un nuovo scossone. La Procura di Roma ha infatti iscritto sul registro degli indagati l’assessore allo Sport Daniele Frongia, fedelissimo della sindaca 5 Stelle, anche lui accusato di corruzione nell’inchiesta sul nuovo Stadio della Roma a Tor Di Valle. La sua posizione sembra già destinata all’archiviazione, ma intanto la notizia fa traballare ulteriormente la giunta capitolina. A tirare in ballo Frongia è stato il costruttore Luca Parnasi, fulcro del filone principale dell’inchiesta, che qualche mese dopo l’arresto ha iniziato a parlare con i magistrati della Procura di Roma, raccontando quello che agli occhi degli inquirenti è apparso come un vero e proprio sistema, fatto di continue ricerche di coperture politiche per soddisfare fini privati. Un giro del quale, secondo le indagini, anche De Vito sarebbe parte attiva, con un ruolo speculare a quello di Parnasi. Il costruttore, durante i suoi interrogatori, ha raccontato agli inquirenti di aver chiesto a Frongia di segnalargli il nome di qualcuno da assumere in Ampersand, una delle sue società, come responsabile delle relazioni istituzionali. E il politico gli consegnò il curriculum di una 30enne sua amica, dipendente del Comune. L’assunzione, però, non si concretizzò a causa dell’arresto di Parnasi. L’assessore ha sempre negato di aver chiesto «alcun favore, ma di essersi limitato a presentare quella persona perché mi era stato chiesto». Così come lo stesso costruttore nega di aver mai subito pressioni dal politico. «Ho appreso di essere coinvolto nell’indagine “Rinascimento” del 2017, per la quale non ho mai ricevuto alcuna comunicazione, elezione di domicilio o avviso di garanzia – ha dichiarato Frongia – Con il rispetto dovuto alla magistratura inquirente, avendo la certezza di non aver mai compiuto alcun reato e appurato che non ho mai ricevuto alcun avviso di garanzia, confido nell’imminente archiviazione». Parnasi, pochi mesi fa, descriveva Frongia come «una persona per bene» : «non mi ha mai chiesto favori personali, denaro o altro – ha dichiarato Ricordo solo che in una occasione mi diede un curriculum di una dipendente o consulente del Comune di Roma. Mi parlò di questa ragazza dicendomi che poteva corrispondere alle mie esigenze. Era una ragazza gradevolissima di circa 30 anni». Con lui Parnasi parlò una settimana prima di essere arrestato, per spiegargli dell’ «idea che avevo avuto di realizzare un potenziale impianto per il basket, presso la sede della ex Fiera di Roma». La consegna del curriculum avvenne al Campidoglio, «quando lo andai a trovare, mi parlò di questa ragazza, di cui non ricordo il nome, che però ho incontrato nel mio ufficio, gli ho fatto fare un colloquio anche con l’ingegnere che si occupa del personale – ha raccontato il costruttore poi però non c’è stato nessun seguito». Ma, aggiunge al pm Barbara Zuin che glielo chiede esplicitamente, «non mi ha mai detto “assumimi questa persona perché è amica mia, mi interessa” o cose di questo genere. Mi ha dato il curriculum e poi io credo che la mia segretaria abbia organizzato l’incontro ed è venuta nel mio ufficio…L’ho incontrata e poi l’ho presentata al direttore del personale che gli ha fatto un altro pezzo di colloquio». Ma l’intento di Parnasi di ottenere quanta più copertura politica possibile all’interno del Campidoglio emerge chiaramente dall’inchiesta “Congiunzione astrale”, che assieme al primo filone relativo alla costruzione del nuovo Stadio fotografa, scrive il gip, «il grave fenomeno corruttivo che si è realizzato ai vertici di Roma Capitale». Compito di De Vito è quello di intervenire, a seconda delle necessità, per indirizzare gli atti del Consiglio e della giunta, rivolgendosi, talvolta, direttamente agli assessori o ai consiglieri secondo i bisogni del privato. Camillo Mezzacapo, dal canto suo, rappresenta l’elemento di raccordo: è tramite gli incarichi professionali conferiti a lui e alla cognata e collaboratrice Virginia Vecchiarelli che i privati versavano le «tangenti», poi spostate attraverso un sistema di false fatturazioni sui conti della Mdl Srl, riconducibile a De Vito e Mezzacapo. E il costruttore «sollecita in maniera esplicita ed ottiene il favore di De Vito non solo in relazione all’operazione dello Stadio ma anche in relazione agli ulteriori progetti coltivati evidenziando al Presidente del Consiglio Comunale l’esigenza di allargare il consenso politico attraverso l’interlocuzione con altri esponenti del Movimento 5 Stelle come noto al governo della città di Roma». E sarebbe stato lo stesso presidente dell’Assemblea capitolina ad esprimere «l’intenzione di ricercare il sostegno di soggetti quali Ferrara ( Paolo, ndr) e Frongia appartenenti alla sua parte politica», così «da avere dalla loro parte la maggioranza consiliare».

Michela Allegri per www.leggo.it il 21 marzo 2019. Daniele Frongia, assessore allo Sport del Comune di Roma e fedelissimo e mente politica della sindaca Virginia Raggi, è indagato per corruzione nell'ambito dell'inchiesta sul giro di tangenti e favori all'imprenditore Luca Parnasi per la realizzazione dello stadio della Roma a Tor Di Valle. Si tratta dello stesso procedimento da cui è scaturito il filone di indagine che ieri ha portato all'arresto di Marcello De Vito, presidente dell'assemblea capitolina in quota M5S. L’iscrizione dell’assessore Frongia è scattata dopo uno degli interrogatori di Parnasi. L’imprenditore, finito in carcere lo scorso giugno per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, grazie alla collaborazione con gli inquirenti si era guadagnato prima i domiciliari e poi l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, misura cautelare alla quale è ancora sottoposto, mentre attende l'udienza preliminare a suo carico, fissata il 2 aprile. In relazione a Frongia, Parnasi ha raccontato all’aggiunto Paolo Ielo e alle pm Barbara Zuin e Luigia Spinelli che, poco prima di essere arrestato, aveva chiesto all’assessore il nome di una persona da inserire come responsabile delle relazioni istituzionali in una delle sua società, la Ampersand. Il politico avrebbe proposto l’assunzione di una donna di circa 30 anni, una collaboratrice del Campidoglio. Poi, il blitz dei carabinieri nel Nucleo investigativo aveva fatto sfumare l’ingaggio. In una intercettazione agli atti dell'inchiesta,, l'11 marzo 2018, il costruttore parlava proprio di quella società: «Dice che con Ampersand ha strizzato l'occhio ai Cinquestelle, facendo progetti», annotano i carabinieri in un'informativa. Parnasi ha però sempre specificato di non avere mai ricevuto pressioni o richieste di favori da parte di Frongia. «Con il rispetto dovuto alla magistratura inquirente, avendo la certezza di non aver mai compiuto alcun reato e appurato che non ho mai ricevuto alcun avviso di garanzia, confido nell'imminente archiviazione del procedimento risalente al 2017», spiega Frongia in una nota.

L'assessore aggiunge di aver «appreso di essere coinvolto nell'indagine "Rinascimento" del 2017, per la quale non ho mai ricevuto alcuna comunicazione, elezione di domicilio o avviso di garanzia. A seguito di informazioni assunte presso la Procura il procedimento a mio carico trarrebbe origine dall'interrogatorio di Parnasi del 20 settembre 2018, già uscito all'epoca sui giornali, in cui lo stesso sottolineava più volte di non aver mai chiesto né ottenuto favori dal sottoscritto».

Simone Canettieri per “il Messaggero” il 22 marzo 2019. Solo tre settimane fa festeggiava il ritorno nelle stanze che contano. Daniele Frongia aveva traslocato a due passi dagli uffici di Virginia Raggi. E con la calma di chi conosce i rischi del mestiere, dopo anni di trincea raccontava a questo giornale: «Io e Virginia abbiamo ancora nove e dico nove procedimenti aperti in cui siamo parte offesa per le denunce e gli esposti che abbiamo fatto quando eravamo all' opposizione. Incredibile, no?». Io e Virginia. Frongia e Raggi. Un binomio che va avanti da anni. Una coppia politica che ha iniziato a fare squadra dai tempi dell' opposizione: loro da una parte, Marcello De Vito dall' altra. E non a caso, nel 2016 Raggi riuscirà a diventare la candidata del M5S alle primarie del blog grazie al passo indietro di «Dany» che si sottrae alla corsa. Un favore che la grillina sarà pronta a contraccambiare appena vinte le elezioni: nominandolo capo di gabinetto, incarico da 120mila euro all' anno. Ma l' operazione, siamo sempre alle prese con la guerra tra bande all' interno del M5S, salta. E dunque il dirigente dell' Istat ripiega su un altro ruolo: vicesindaco. Sembra ancora di rivederli il giorno dell' ingresso del primo sindaco donna di Roma al Campidoglio. Fa caldo, i giornalisti sono accalcati dietro le transenne e i due arrivano a bordo di una mini-car elettrica di color turchese. Da mesi il grillino «più lucido del Campidoglio» prepara nei minimi particolari l' assalto al cielo. Innanzitutto scrive un libro. Dal titolo che è un manifesto politico: E io pago - tutti i soldi che gli italiani pagano per mantenere la capitale più corrotta e inefficiente d' Europa. Dentro ci sono numeri e fatti, la specialità di Frongia, soprattutto da profondo conoscitore della macchina amministrativa ci sono anche ricette: come quella di un piano segreto per rimettere in sesto le malandate casse pubbliche con risparmi per 1 miliardo di euro. Una chimera, certo. Ma che «Virginia» ripeterà con costanza in tutti i dibattiti. Nei mesi che precedono la grande scalata, si unisce alla compagnia anche Salvatore Romeo, funzionario del Campidoglio ed esperto di partecipate. Diranno: «Passavamo le notti a studiare carte e delibere, che tempi». C' è anche un' altra persona che li accompagna in questo percorso verso la gloria: si chiama Raffaele Marra, è un dirigente pubblico, un mister Wolf che spacca al centesimo tutte le carte. Eccoli, sono i «quattro amici al bar», come da celebre chat dove comunicano in maniera compulsiva, ma dove si scambiano, come fanno tutti, anche emoticon e foto simpatiche. Ma nel dicembre 2016 scatta l' arresto di Marra e a uscirne ridimensionato è anche Frongia: gli vengono tolti, su volere di Beppe Grillo, i gradi di vicesindaco e viene retrocesso ad assessore allo Sport. Allontanato anche Romeo e la diaspora dei 4 amici al bar. Si tratta di un fatto formale, perché la sintonia con la sindaca rimane altissima. Entrambi vengono comunque dal mondo del volontariato di sinistra. Lui prima di impegnarsi in politica col MoVimento è stato attivo nel volontariato, collaborando con Emergency e Libera, lei nel commercio equo e solidale. Girano anche voci di un flirt tra i due. Lo scrive il settimanale Chi, condannato lo scorso mese a risarcire le parti. Il mondo del maestro di arti marziali (è cintura nera di judo) Frongia è fatto di calcoli e mosse. Anzi contromosse: «Bisogna sempre capire cosa fare dopo». Lo dice da campione di scacchi. Un' altra leggenda narra di una partita vinta con Davide Casaleggio. Stratega, veloce di testa, mai nervoso e molto calcolatore. E soprattutto con un cellulare pieno di segreti.

Le ruspe della Procura di Roma contro la giunta di Virginia Raggi. Stavolta non è servito un intervento di Luigi Di Maio: nessuna nuova espulsione, Frongia si autosospende. Ma ai piani alti del movimento si teme il ciclone giudiziario, scrive Rocco Vazzana i 22 Marzo 2019 su Il Dubbio. «Per una questione di opportunità politica, ho deciso di autosospendermi dal M5S e di riconsegnare le deleghe attribuitemi dal sindaco Virginia Raggi in qualità di assessore allo Sport di Roma Capitale». Questa volta non serve un intervento di Luigi Di Maio. Daniele Frongia, assessore allo Sport finito sotto i riflettori della procura di Roma, si auto sospende dal Movimento. Secondo i magistrati, l’esponente pentastellato, indagato per corruzione, avrebbe suggerito a Luca Parnasi il nome di una dipendente comunale da assumere in una delle aziende del costruttore. E anche se Frongia si dice sicuro dell’archiviazione del caso, consapevole «di non aver mai compiuto alcun reato e appurato che non ho mai ricevuto alcun avviso di garanzia», per il Movimento 5 Stelle si apre un nuovo fronte interno. Se con De Vito la sindaca ha gioco facile nel rivendicare la sua «risaputa» distanza dall’ex presidente dell’assemblea, di Frongia Virginia Raggi non può certo dire la stessa cosa. Il rapporto tra l’assessore allo Sport e la prima cittadina è strettissimo fin dai tempi dell’opposizione a Ignazio Marino. E nella prima fase del nuovo corso grillino in Campidoglio, i due si muovono in simbiosi. Raggi prima lo nomina capo di Gabinetto, ma è costretta a revocare l’incarico per incompatibilità, poi lo incorona vice sindaco. Pochi mesi dopo un nuovo colpo di scena: la Giunta è nella bufera per l’arresto di Renato Marra, la sindaca è accusata dalla minoranza interna di amministrare la Capitale in maniera poco collegiale, condividendo le decisioni importanti con soli “quattro amici al bar”, come il nome della chat in cui si scambiavano messaggi la prima cittadina, Marra, Salvatore Romeo e Frongia. La maggioranza sembra a un passo dal crollo e Beppe Grillo è costretto a costanti incursioni romane per evitare il peggio. E per scongiurare il tritacarne mediatico il leader di allora, oggi solo “garante”, impone una scelta drastica: il duo Raggi- Frongia va sciolto immediatamente. E il vice sindaco è costretto a rinunciare alla carica, mantenendo però la pesantissima delega allo Sport, quella attraverso cui deve passare necessariamente il “report stadio”. Per questo motivo la notizia di un’indagine a carico del proprio braccio destro è una doccia gelata per l’inquilina del Campidoglio. Ma non solo. È tutto il movimento che rischia di finire sotto i riflettori, anche se i big evitano di commentare in pubblico. «Questa verrà archiviata, semplice», si limita a commentare Francesco Silvestri, vice capogruppo M5S alla Camera. E su un eventuale passo indietro dell’assessore, dice che «valuterà lui» ma sull’argomento «non voglio parlare prima della sindaca. Penso che si stiano parlando Raggi e Di Maio, vedono loro se è il caso… se è un’indagine d’ufficio. Valuteranno loro due», aggiunge l’onorevole pentastellato.

Di Maio teme ulteriori ripercussioni elettorali da questa vicenda e spera di non essere costretto a operare nuovi provvedimenti disciplinari. Non saranno di certo altre espulsioni a proteggere l’immagine, ormai non più immacolata, del Movimento. «Io non credo che a Roma ci sia un sistema M5S. Se noi avessimo voluto che ci fosse un sistema M5S avremmo detto sì alle Olimpiadi», insiste Silvestri. «Se avessimo voluto un sistema o qualcosa in cui sguazzare, con le Olimpiadi avremmo fatto la qualunque». All’ombra del Campidoglio, è il ragionamento, al massimo c’è qualche furbetto che agisce alle spalle della sindaca e del Movimento, non una nuova “mafia capitale”. «Il gruppo M5S ha investito e continua a investire tantissimo su Virginia Raggi. Per me Virginia è una persona eccezionale, ha una ossatura incredibile», dice ancora il vice capogruppo grillino alla Camera. «I consiglieri che stanno lì dentro li conosco benissimo, sono bravissime persone. Io credo e spero che la cosa rimanga circoscritta a De Vito. Se rimane circoscritta a Marcello, io in primis penso che debba andare tutto avanti», conclude l’esponente di un partito che ha già emesso sentenza per il presidente dell’assemblea capitolina.

Attenzione: anche gli honesti vanno difesi! Tangenti, arrestato Marcello De Vito, presidente dell’assemblea capitolina del M5s. È accusato di corruzione. L’intercettazione: «sfruttiamola sta congiuntura astrale, ci rimangono due anni», scrive Simona Musco il 21 Marzo 2019 su Il Dubbio. «Questa congiunzione astrale è tipo l’allineamento della cometa di Halley, hai capito? Cioè è difficile secondo me che si riverifichi così. E allora noi, Marcè, dobbiamo sfruttarla sta cosa… ci rimangono due anni». Per il magistrati di Roma si racchiude in questa frase il «manifesto programmatico» della collaborazione criminale tra il presidente del Consiglio comunale di Roma Capitale, Marcello De Vito, e l’avvocato Camillo Mezzacapo, suo intermediario. Il politico, ieri, è finito in carcere, con l’accusa di corruzione. Per lui il gip Maria Paola Tomaselli ha ritenuto sussistente il rischio di reiterazione del reato e di inquinamento probatorio, dato il ruolo ricoperto in seno all’assemblea capitolina. Un ruolo che gli avrebbe consentito, in cambio di un profitto personale, di mettersi a disposizione dei privati, a partire da Luca Parnasi, uomo simbolo dell’inchiesta sulla costruzione del nuovo Stadio, che lo scorso anno aveva assestato un primo scossone alla tranquillità del Campidoglio, con l’arresto del tuttofare dei 5 Stelle Luca Lanzalone. Sarebbero oltre 230mila euro i soldi effettivamente erogati da vari imprenditori e altri 160mila promessi. Tangenti consegnate sotto forma di consulenze a Mezzacapo, dirottate in buona parte sul conto della società Mdl srl, utilizzata come «cassaforte» per custodire i profitti raccolti dai due. In cambio, il politico avrebbe dovuto tentare di indirizzare il Consiglio ad approvare tutta una serie di delibere in grado di agevolare il progetto collegato allo Stadio della Roma e altri interventi urbanistici in città. Parnasi, tramite l’appoggio di Lanzalone prima e De Vito poi, mirava a raggiungere altri esponenti del Movimento 5 stelle, data la posizione di preminenza politica non solo a livello locale, ma anche e soprattutto nazionale. «Nessun coinvolgimento delle attività del governo a livello centrale», ha chiarito in conferenza stampa il procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo. Ma quella frase «è rilevante perché ci permette di provare l’esigenza cautelare». Le parole usate dal gip per De Vito sono durissime, addirittura più di quanto non lo siano quelle della stessa procura, che nei casi non direttamente conducibili a Parnasi contesta a De Vito il solo traffico di influenze. Per il giudice, infatti, la corruzione sarebbe più che evidente, essendo il suo ruolo «costantemente strumentale» per il raggiungimento «del massimo dei profitti». De Vito e Parnasi sono, dunque, due facce della stessa medaglia, tanto da dimostrare «una straordinaria coincidenza di obiettivi ed interessi». Sono stati mail, messaggi, intercettazioni e, soprattutto, le dichiarazioni collaborative di Parnasi a chiarire il sistema descritto dall’inchiesta “Congiuntura astrale”. Un sistema ampissimo di relazioni con il mondo politico tessute dall’imprenditore tramite «operazioni di finanziamento sia lecite che illecite, così da garantirsi in ogni ambito un trattamento di favore». Le indagini fotografano quello che il giudice definisce «il grave fenomeno corruttivo che si è realizzato ai vertici di Roma Capitale», un quadro «desolante», in cui il privato, cercando favori, trova un pubblico ufficiale pronto a soddisfare le richieste, ma anche alla ricerca, in prima persona di «conoscenze che possano essere interessate ai favori che lui è in grado di procurare». Una «totale mercificazione della funzione pubblica» portata avanti con una vera e propria attività promozionale, finalizzata a sfruttare la fortunata congiuntura politica. In tale contesto, Mezzacapo è non solo l’intermediario di De Vito, ma anche il suo «procuratore», cercando in maniera continua e costante contatti utili ai quali offrire un «format» ormai collaudato. E le stesse modalità, infatti, vengono utilizzate anche con il gruppo imprenditoriale dei fratelli Pierluigi e Claudio Toti ( presidente della squadra di basket Virtus Roma) e quello di Giuseppe Statuto, indagati per traffico di influenze. Le tre vicende riguardano la realizzazione del nuovo stadio della Roma, il progetto di riqualificazione dei Mercati di Roma Ostiense e la realizzazione di un albergo presso la ex stazione di Roma Trastervere, questione che inevitabilmente coinvolgono l’amministrazione capitolina. Compito di De Vito era quello di intervenire, a seconda delle necessità, per indirizzare gli atti del Consiglio e della giunta, rivolgendosi, talvolta, direttamente agli assessori o ai consiglieri secondo i bisogni del privato. Mezzacapo, dal canto suo, rappresenta l’elemento di raccordo: è tramite gli incarichi professionali conferiti a lui e alla cognata e collaboratrice Virginia Vecchiarelli – talvolta inutili e, comunque, più costosi del necessario che i privati versano le «tangenti», poi spostate attraverso un sistema di false fatturazioni sui conti della Mdl Srl, riconducibile a De Vito e Mezzacapo. Soldi che De Vito avrebbe voluto dividere subito, decidendo di attendere, su insistenza di Mezzacapo, a fine mandato. «Cioè la chiudiamo – risponde Mezzacapo a De Vito – distribuiamo, liquidi e sparisce tutta la proprietà… Non c’è più niente e allora però questo lo devi fà quando hai finito quella cosa». Una conversazione, secondo il gip, che chiarisce «in modo inequivocabile il patto scellerato che lega i due» e la riconducibilità dei soldi sul conto della società ad entrambi». La realizzazione, nella zona della ex Fiera di Roma, di un campo di basket e di un polo per la musica richiedeva una delibera che consentisse di superare le limitazioni imposte dalla delibera Berdini, che limitavano la realizzazione a 44mila metri cubi. Ed è per questo che Parnasi avrebbe affidato, su richiesta di De Vito, «lucrosi incarichi» a Mezzacapo. Il politico, in cambio, aveva assicurato di interessare il capogruppo del M5s in Consiglio, Paolo Ferrara, «così da avere dalla loro parte la maggioranza consiliare», nonché l’assessore Daniele Frongia. A Mezzacapo e alla Vecchiarelli sono andati un incarico da 90mila euro per il perfezionamento di una transazione tra la Acea ed Ecogena e un ulteriore incarico professionale non formalizzato a Mezzacapo per la verifica della fattibilità di un accordo transattivo tra Parsitalia e Roma Capitale, del valore di 10 milioni di euro. Una transazione importante, in vista del progetto di trasferimento della sede Acea presso il Business Park del Nuovo Stadio della Roma. Di questo affare i tre ne parlano il 31 maggio 2018, quando De Vito e Mezzacapo chiedono conto di come entrare nell’affare. Parnasi fa riferimento al «solito schema che conosciamo». L’importante è ottenere «la copertura politica della città», utilizzando la legge sugli stadi, attraverso l’adozione di una specifica delibera da parte del Comune di Roma. Ma gli stessi meccanismi sono stati utilizzati da De Vito anche con il gruppo Toti, in relazione al progetto di riqualificazione degli ex mercati generali di Roma Ostiense, di interesse della Lamaro Appalti, società del gruppo Toti. Progetto per il quale De Vito e Mezzacapo avrebbero ricevuto, in cambio di un intervento sull’iter amministrativo, 110mila euro, sotto forma di incarichi professionali allo studio legale di Mezzacapo. E anche con Giuseppe Statuto, che in cambio di un intervento per il rilascio del permesso di costruire, con cambio di destinazione d’uso ed ampliamento, di un edificio a Trastevere, avrebbe conferito allo studio di Mezzacapo due incarichi, uno da 24mila euro e uno da 20mila.

Povero De Vito, linciato dai suoi e dai giornalisti…La novità, però, è che per la prima volta da tanti anni i principali partiti dell’opposizione (Pd e Forza Italia) decidono di non speculare e scelgono una linea garantista, scrive  Piero Sansonetti il 21 Marzo 2019 su Il Dubbio. Ci sono volute neanche un paio d’ore, ieri mattina, per emettere la sentenza definitiva: Marcello De Vito è un truffatore, un corrotto, un tangentaro ed è finito nel posto dove è giusto che stia: in prigione. Ci resti! La Corte che si era riunita appena informata dell’arresto, era costituita da un drappello cospicuo e potente di giornalisti e da alcuni politici. In particolare dai politici dei 5 Stelle che hanno immediatamente espulso il reprobo dal partito, o dal movimento, o dalla piattaforma Rousseau, non so bene, e hanno deciso che la sua colpevolezza è fuori discussione. Non c’è stato bisogno neppure di riunire i probiviri. L’espulsione è stata decretata da Di Maio. Povero De Vito, processato e condannato in due ore, dai suoi e dai giornalisti. Mi ricordo che nel vecchio partito comunista, quello decrepito e stalinista, per espellere qualcuno occorrevano mesi. : riunioni in sezione, poi in federazione e se era deputato o dirigente nazionale ancora riunioni del comitato centrale ( anzi della commissione centrale di controllo che era una specie di collegio dei probiviri). I candidati all’espulsione venivano convocati, interrogati, si difendevano. Nessuno aveva il potere personale di espellere, neppure Berlinguer, o prima ancora Longo o Togliatti. Era un partito stalinista ma non monarchico. Tantomeno lo erano la Dc o il Psi. La novità del M5S sta proprio in questo: nella struttura monarchica del movimento. Il problema però non è solo di procedure. E’ di sostanza, di rispetto dei principi della democrazia e della Costituzione. Noi per ora sappiamo soltanto che alcuni Pm e un Gip hanno deciso di indagare De Vito per reati di corruzione abbastanza gravi, e sappiamo che i Pm hanno in mano alcune intercettazioni, e che di queste intercettazioni hanno fornito qualche brandello alla stampa e che però, francamente, questo brandello non sembra davvero prova inoppugnabile di colpevolezza. Ma allora perché Di Maio ha espulso De Vito? Le possibilità sono due: o sa qualcosa che noi non sappiamo, cioè è convinto per ragioni non dette che De Vito sia colpevole, e già era convinto di questo prima dell’arresto, ma allora forse avrebbe dovuto intervenire prima. Oppure ha un’idea vaghissima di cosa sia la giustizia. E anche – va detto una idea altalenante: perché Virginia Raggi, che fu inquisita e rinviata a giudizio e poi assolta, al momento dell’avviso di garanzia non fu espulsa dal movimento, ma anzi invitata a restare sindaca. Fu una scelta giusta? Certo che fu una scelta giusta, giustissima e sacrosanta, e lo sarebbe stata anche se la Raggi fosse stata poi condannata; solo che quella scelta ebbe un difetto: il difetto di essere e restare una scelta isolata. I 5 Stelle decidono – sembrerebbe – dimissioni ed espulsioni a seconda delle convenienze del momento. E infatti proprio non si capisce caso De Vito a parte – come i 5 Stelle possano avere chiesto, l’altra sera, le dimissioni di Zingaretti sulla base di una voce di iscrizione all’ufficio degli indagati per finanziamento illecito. Naturalmente, quando si valuta la politica, bisogna dare per scontata, e accettare, una certa dose di faziosità e di propagandismo. Ma la richiesta di dimissioni di Zingaretti va molto oltre questa dose. E una richiesta surreale.

A questo proposito è giusto registrare, finalmente, una presa di posizione garantista da parte del Pd. In passato non è stato sempre così. Io penso che non sia stata garantista nemmeno, proprio ieri, la decisione di votare per l’autorizzazione a procedere contro Salvini. Un partito garantista davvero non doveva dare quella autorizzazione. Un partito garantista si oppone alle invasioni di campo della magistratura che ci sono, sono frequenti, sono devastanti, mettono in discussione l’autonomia della politica e quindi la sua libertà. Però la novità c’è: per la prima volta i principali partiti dell’opposizione, e cioè il Pd e Forza Italia, decidono di non speculare sull’arresto di un avversario politico e di non utilizzare a proprio favore le iniziative della magistratura. Tacciono ( al massimo sorridono un po’ visto che appena qualche giorno fa il 5 Stelle Giarrusso agitava contro di loro polsi ammanettati) e spiegano che la giustizia avrà i suoi tempi, che dovrà accertare, provare, rendere conto, e che De Vito dovrà e potrà difendersi. Complimenti. Naturalmente è difficile sperare che questo atteggiamento, profondamente e seriamente liberale, si riproduca automaticamente nello schieramento opposto, e cioè lambisca e contagi il M5S o la Lega. Però la novità c’è. E se verrà confermata, cambierà comunque i rapporti tra la politica e la magistratura, perchè, almeno in parte, smonterà il potere che una parte della magistratura ha usato fin qui: e cioè la possibilità di trovare sempre una sponda politica nello schieramento opposto a quello del quale fa parte l’inquisito. Così è nata e ha vinto “mani pulite”, così è dilagato il populismo giudiziario. Se le opposizioni di destra e sinistra fanno muro, anche gli altri partiti – gli attuali partiti governativi – dovranno rivedere alcune loro posizioni, perchè tutto il circo politico giudiziario rischia di saltare, e il giustizialismo rischia di non portare più il consenso che ora, ancora, garantisce come rendita di posizione.

Marco Travaglio elogia il M5s dopo l'arresto di Marcello De Vito: si fa ridere dietro da tutta Italia, scrive il 21 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Avvocato Marco Travaglio, presente. Poteva esimersi il direttore del Fatto Quotidiano nonché capo-ultrà del M5s dal difendere i tanto cari grillini all'indomani dell'arresto clamoroso di Marcello De Vito, presidente dell'assemblea capitolina? Ovviamente no. La difesa, altrettanto ovviamente viaggia sulla prima pagina del quotidiano che dirige, dove certo parte da premesse dure, in cui afferma che "L'arresto per corruzione" di De Vito "è una notizia gravissima. E il fatto che non sia la prima volta - era già toccato nel 2015, per Mafia Capitale, a quello del Pd Mirko Coratti, poi condannato a sei anni - non la sminuisce". Insomma, subito Travaglio "piazza" un riferimento al Pd. Così fan tutti? Poi, dopo aver snocciolato qualche riferimento circa l'inchiesta, arriviamo al cuore della difesa. Scrive il direttore: "Luigi Di Maio ne ha subito annunciato l'espulsione, marcando la diversità da tutti i partiti che gridano al complotto, alla giustizia a orologeria, alle manette elettorali per rifugiarsi nella comoda scusa della presunzione di innocenza fino alla Cassazione". E la lettura dell'editoriale di Travaglio può interrompersi qui. Per due ragioni: la prima, quando fu indagata Virginia Raggi i grillini gridarono proprio a quel complotto di cui ha parlato il direttore. La seconda, leggere un passaggio quale "marcando la diversità da tutti i partiti" scatena una incontenibile ilarità. Così diverso, il M5s, che il signor De Vito, pezzo grossissimo del partito con le Cinque Stellette, è stato arrestato.

Estratti dall'articolo di Annalisa Chirico per “Il Foglio”' del 21 marzo 2019. Danilo Toninelli ha sempre ragione. Quando, a proposito del caso Sarti, il titolare delle Infrastrutture dichiara urbi et orbi: “Il M5S non accetta ricatti da nessuno”, è difficile dargli torto. I grillini non accettano ricatti, al massimo li praticano. Se Toninelli parla, c’è da credergli, lui non spara mai cose a vanvera, anche quando sostiene pubblicamente, lo scorso 23 febbraio, che, eccezion fatta per la Tav, “non c’è una sola opera bloccata in questo paese”. Non una ma seicento, replica l’Associazione nazionale dei costruttori edili. Ma a Toninelli si perdona tutto, pure il ricatto o il ricattino, arma antica come la storia dell’uomo. Il ricatto non è un’esclusiva né un'invenzione pentastellata: i grillini sono però il primo movimento politico fondato sul ricatto come strumento ordinario di gestione dei rapporti interni ed esterni. Ancor prima del bonifico per finta, i 5 Stelle sdoganano la prassi della registrazione audio e video, del microfono nascosto, del dossier anonimo, della spiata a scopo di minaccia, dello screenshot a tua insaputa, dell’email conservata a futura memoria. Per i grillini questi metodi al limite del lecito, lungi dall’essere un’eccezione, rappresentano la regola: non sono un incidente patologico ma la normale conduzione della vita di un partito che, in nome di una concezione totalitaria della democrazia, pretende il controllo assoluto sui propri eletti e, a tale scopo, inserisce nel codice etico  una multa da 100mila euro per il parlamentare che osi dissentire. Una sanzione salata che, se non è un palese ricatto, denota tuttavia una forma mentis, una sorta di disciplina estorsiva che punta alla coazione morale dietro l’ombra della minaccia, più o meno esplicita. Se non ti attieni agli ordini impartiti, vieni fatto fuori e devi pagare (poco importa che il valore giuridico di questa clausola sia pari a zero). La multa a carico dei “traditori” viene sperimentata dapprima con i consiglieri comunali torinesi, bersaglio di una multa di 2mila euro per ogni mese di ribellione; in seguito, si replica con gli eletti in Campidoglio per un importo di 150mila euro, sempre meno dei 250mila previsti dal Codice di comportamento per i candidati a Strasburgo. Un esempio illuminante della prassi pentastellata la offre il famigerato Rocco Casalino, il portavoce del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che, stando alla versione di Giulia Sarti, le avrebbe consigliato di denunciare Bogdan Tibusche, poi prosciolto, allo scopo di scagionarsi dalle accuse dei finti rimborsi; Casalino ha negato ogni implicazione (“Sarti si è coperta dietro il mio nome”), poco ha potuto invece  rispetto all’audio, diffuso ad arte, in cui l’ex GF preannuncia ad un anonimo interlocutore una “cosa ai coltelli” contro i funzionari di viale XX Settembre: “Domani, se vuoi uscire con una cosa simpatica, la metti che nel m5s è pronta una mega vendetta: c’è chi giura che, se non dovessero uscir fuori i soldi per il reddito di cittadinanza, tutto il 2019 sarà dedicato a far fuori una marea di gente del Mef. Non ce ne fregherà veramente niente”. Governare con i 5 Stelle? Una fatica di Sisifo. Anche stare in Parlamento con loro non è una passeggiata. Secondo Giovanni Favia, uno dei primi attivisti espulsi da Beppe Grillo, il caso Sarti avrebbe poco a che fare con il revenge porn: “Credo che sia una vendetta politica interna al M5S. Lì dentro c’è una cyberguerra. Alla Casaleggio avevano una fobia nei miei confronti e tutti quelli che erano stati vicini a me erano visiti con sospetto e subivano uno spionaggio stile Stasi”. Sarti, un tempo vicina a Favia, avrebbe installato le telecamere in casa per tutelarsi da un “covo di serpi”, altro che porno.  Chissà se le parole del vicepremier Matteo Salvini, “Io non accetto ricatti”, nei giorni in cui aleggia l’ipotesi di uno scambio su Tav e caso Diciotti, contengano un riferimento all’abitudine degli alleati di governo. Un leghista di rango racconta che, sin dall’esperienza nei consigli regionali, gli esponenti del Carroccio hanno imparato a difendersi dai metodi pentastellati: “Con loro devi parlare e scrivere sapendo che, nove volte su dieci, ti registrano. Ogni virgola ti si può ritorcere contro”. Quando affiora sulla stampa la notizia di una fantomatica “operazione scoiattolo”, lanciata dal Cavaliere in persona per reclutare nuove leve tra i grillini infedeli, Luigi Di Maio intima ai suoi: “Fingetevi interessati e registrate”. Rievocando i suoi trascorsi a Palazzo Vecchio,  l’ex premier Matteo Renzi ricorda un episodio succulento: Alfonso Bonafede, da consigliere non eletto, si presentava nell’aula consiliare armato di telecamera, e una volta inseguì il sindaco fin sulla porta del bagno...Il fatto è che, nel magico mondo pentastellato, spifferi, veleni e leggende si affastellano: sui rapporti tra Bonafede e il di lui professore Giuseppe Conte, sui rapporti tra Conte e il di lui professore Guido Alpa, sulla vita non professionale di Di Maio eccetera eccetera. Una canea di chiacchiere, pettegolezzi, sospetti che, sin dagli albori, percorre l’intera parabola del M5S. Di recente, l’odore mefitico del ricatto invade il sacro blog quando, all’indomani della consultazione online che incorona la linea, impressa da Di Maio, contraria all’autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini, Grillo, sempre più lontano dal nuovo corso governativo, fa trapelare un grappolo di scarne parole: “Io conosco tutto di lui”. Dall’ideologia della trasparenza alla prassi del bieco ricatto, il passo è breve. Nel pianeta pentastellato l’“intercettateci tutti” è diventato il grimaldello per intercettare le vite degli altri. Amorazzi, amplessi, ogni dettaglio: persino i messaggini Telegram, quelli che si autoelidono, vengono fotografati, all’occorrenza. Il caso dell’ex presidente della commissione Giustizia della Camera, finita al centro di uno scandalo di foto osé e hackeraggi sospetti, è soltanto l’ultimo in ordine di tempo. Esistono ricatti e ricatti: in questa sede limiteremo l’analisi a quelli pubblici, approdati nelle aule di tribunale e sui giornali. Si parte dalla provincia partenopea. “Rosa, tu hai un problema”,  il consigliere pentastellato di Quarto, Giovanni De Robbio, si rivolge così al sindaco pentastellato Rosa Capuozzo. “Mi mostrò la foto aerea di casa mia sul suo cellulare – racconta in procura il primo cittadino - e mi disse che dovevo stare tranquilla perché dovevo essere meno aggressiva, non dovevo scalciare, dovevo essere più tranquilla con il territorio”. Il “problema” al quale De Robbio allude riguarda presunte irregolarità urbanistiche nell’abitazione di proprietà del marito del sindaco. Una vicenda torbida nella quale si affaccia l’ombra della camorra. De Robbio finisce sotto indagine per tentata estorsione (nei confronti di Capuozzo) e per voto di scambio aggravato in concorso con Alfonso Cesarano, titolare di una ditta di pompe funebri e, secondo gli inquirenti, esponente di una famiglia vicina al clan camorristico Polverino.

Ad Agrigento il terremoto ruota attorno al nome di Fabrizio La Gaipa, il candidato all’Assemblea regionale siciliana finito agli arresti domiciliari con l’accusa di estorsione. La Gaipa, immortalato in una celebre foto con Di Battista, il luogotenente siculo Giancarlo Cancelleri e lo stesso Di Maio, risulta primo dei non eletti alle scorse elezioni regionali. La Gaipa è titolare dell’albergo Costazzurra dove la vita procede tranquilla fin quando due suoi dipendenti lo accusano di essere stati costretti a restituire, con la minaccia del licenziamento, oltre un terzo dello stipendio formalmente erogato. Ad incastrare l’imprenditore alberghiero è un sodale di partito, Ivan Italia, ex dipendente con la stessa passione politica (candidato pentastellato al Consiglio comunale agrigentino nel 2015). Italia consegna in questura due registrazioni effettuate con il cellulare, risalenti al 13 e al 19 gennaio 2017. Stando alle indagini coordinate dal procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio, i file “acclarano, in modo incontrovertibile, la restituzione, da parte del lavoratore regolarmente assunto, oltre che della tredicesima, anche di una parte abbastanza consistente della retribuzione mensile, visto che a fronte di una busta paga di 1.634 euro, l’impiegato, suo malgrado, si vede costretto a restituire al proprio datore di lavoro la somma di 780 euro”.

Per molti versi, Roma è il capolavoro grillino per antonomasia. Dal grido “onestà-tà-tà” contro il Cupolone di Mafia capitale il movimento si converte al garantismo peloso per tutelare la poltrona del primo cittadino e la sopravvivenza di una giunta i cui componenti cambiano a una velocità pari a quella con cui Di Maio licenzia le fidanzate. Dei ricatti in Campidoglio si conosce soltanto la punta dell’iceberg: nessuna pretesa di esaustività, dunque. Tuttavia, un paio di episodi meritano di essere raccontati. Il Raggio magico capitolino si compone di tre persone, a parte il sindaco: Raffaele Marra, Salvatore Romeo e Daniele Frongia. I quattro, quando devono parlare, salgono sui tetti per godersi il panorama. Su Repubblica Carlo Bonini lo definisce il “tavolo di bari tenuto insieme dal ricatto”: Marra e Romeo fanno la parte dei padroni, tracotanti e triviali. Il primo è in ogni luogo, sa che può trafficare come gli pare, il sindaco lascia fare. Nel gennaio 2016 Romeo accende una polizza sulla vita di 30mila euro, la beneficiaria è Raggi Virginia, la donna che, sei mesi dopo, divenuta nel frattempo sindaco, gli triplica lo stipendio di dipendente comunale nominandolo a capo della sua segreteria. Dalle indagini condotte dal procuratore aggiunto Paolo Ielo, si scopre che Romeo di polizze ne ha accese tre, per un valore di 90mila euro, sempre prima che, in occasione delle comunarie pentastellate, Raggi sbaragli a colpi di dossier l’avversario più temibile, Marcello De Vito. Al di là degli esiti giudiziari ad oggi inconsistenti (caduta l’imputazione per abuso d’ufficio, il sindaco è stato assolto nel processo per falso), intorno alle stravaganti premure di Romeo si dipana il nastro del presunto ricatto o, quantomeno, dell’accordo inconfessabile. E se quelle tre polizze fossero la “fiche” puntata sulla giovane avvocata grillina contro la cordata De Vito-Lombardi? Del resto, è una generosità piuttosto singolare per un signore che all’epoca guadagna 39mila euro l’anno.

A Torino, agli inizi di febbraio, si scopre che Luca Pasquaretta, ex portavoce del sindaco Chiara Appendino, è indagato per estorsione ai danni del primo cittadino, traffico illecito di influenze e turbativa d’asta. L'inchiesta scaturisce non già da una denuncia ma da una intercettazione telefonica sull’utenza riconducibile a Pasquaretta. Dopo essere stato allontanato dagli uffici di Palazzo Civico per lo scandalo di una consulenza da 5mila euro relativa ad una prestazione inesistente per la fondazione del Salone del Libro, l'uomo viene “premiato” con un posto da assistente del viceministro dell’Economia, la grillina Laura Castelli. “Non ho mai ricattato Chiara Appendino. È tutto un equivoco che chiarirò nelle sedi opportune. Vorrei ricordare che siamo tutti innocenti fino a prova contraria”, si difende lui. I rapporti tra gli esponenti torinesi del M5S disegnano un quadro a tinte fosche. Secondo l’ipotesi accusatoria, rappresentata dal pm Gianfranco Colace, il “pitbull” di Appendino si è trasformato da portavoce a ricattatore. Dopo la sua uscita, infatti, egli avrebbe ricattato il sindaco, ora parte lesa dell’inchiesta, minacciando rivelazioni compromettenti, relative all’attività politica e amministrativa della giunta pentastellata, se non lo avesse aiutato a trovare un nuovo incarico. Tra le notizie più fresche, la procura di Torino avrebbe deciso di sentire come persona informata dei fatti  l’attrice porno Heidy Cassini la quale aveva così commentato il post pubblicato dal sindaco su Facebook:  “Cara Chiara, dovevi informarti bene di chi ti stavi mettendo a fianco…Noi lo sapevamo…ma giustamente ognuno deve fare la propria esperienza…ora ci sei passata anche tu…auguri sinceri”. Un riferimento al passato di Pasquaretta come ufficio stampa di Torino Erotica.

TIRA UNA BRUTTA CORRENTE. Maria Elena Vincenzi e Giovanna Vitale per “la Repubblica” il 22 marzo 2019. Marcello De Vito non è mai stato un tipo loquace. Carattere ombroso, sempre attento a centellinare le parole, dacché ha varcato la soglia di Regina Coeli sembra essersi chiuso ancora di più. Per uno che fino a ieri guidava l' assemblea capitolina la prima notte in prigione dev'essere stata un trauma. Le accuse sono pesanti. E rischiano di travolgere, oltre a lui, altri pezzi del M5S. A cominciare dalla cordata nazionale di cui faceva parte, e che fa capo a Roberta Lombardi: nelle carte dei pm De Vito è accusato di aver ricevuto soldi dal costruttore Parnasi per la campagna delle regionali 2018, dove Lombardi correva da candidata presidente. De Vito divide la cella nel reparto " nuovi arrivati" con un ragazzo di colore. Quando alle sette di sera la deputata pd Patrizia Prestipino passa lì davanti lui le lancia un' occhiata stupita: «Ci conosciamo, vero? » sorride. Tuta grigia e occhiali, «ho un gran mal di testa, è possibile avere un Aulin?» chiede ai secondini. « E mi raccomando lo spesino », aggiunge. La lista dei generi di prima necessità, a partire dalle amate sigarette, sono fondamentali in un posto così. «Come stai?» domanda la parlamentare. «Ma sì dai, ce la posso fare, chiarirò tutto, tornerò a casa presto » replica di getto: « Certo tira proprio una brutta aria fuori » , si lascia andare. L' unico momento di cedimento. Quello che non ha invece mostrato davanti ai magistrati venuti a interrogarlo: si è avvalso della facoltà di non rispondere, «gliel' ho consigliato io per darmi il tempo di organizzare la difesa», preciserà poi l' avvocato. «Sono dispiaciuto, ma sereno» ripete De Vito. « Noi siamo garantisti » , cerca di rassicurarlo Prestipino, « si è colpevoli solo dopo il terzo grado di giudizio, forse anche voi del M5S dovreste riflettere » . Ma l' ormai ex presidente dell' Aula Giulio Cesare guarda altrove.

Gli sviluppi dell' inchiesta. La chiave di tutto erano le fatture per operazioni inesistenti, il metodo col quale i costruttori finanziavano De Vito per il tramite dell' avvocato Camillo Mezzacapo. Che il legame tra i due fosse molto stretto lo ha spiegato lo stesso Luca Parnasi, il costruttore finito in manette a giugno, dalle cui dichiarazioni è scaturito questo secondo filone di inchiesta. Spiega l' imprenditore ai pm, in un verbale riportato in un' informativa dei carabinieri del nucleo investigativo: « Conobbi Mezzacapo in occasione di un incontro con De Vito da Vanni Ho percepito immediatamente che De Vito gradisse l' avvio di un rapporto professionale con lo studio Mezzacapo, ma voglio precisare che non c' è stata alcuna imposizione in tal senso (...) De Vito, pur non avendomi detto nulla, ha sponsorizzato, sin da quel primo incontro, la nascita del nostro rapporto professionale. Non siamo entrati nello specifico quel primo giorno, però abbiamo parlato della possibilità di affidare degli incarichi allo studio alla presenza di De Vito».

La strategia condivisa. Da quando Mezzacapo diventa consulente di Parnasi, quest' ultimo sa di aver trovato le chiavi del Campidoglio. Spingendosi a condividere col presidente dell' aula piani e strategie. Come nel caso del contenzioso di una delle sue società, Ecogena, con Acea. Il costruttore spiega al procuratore aggiunto Paolo Ielo e ai pm Luigia Spinelli e Barbara Zuin: « Non volevo avere un contenzioso con Acea in vista della questione più grande, che era quella dello spostamento della sua sede nel Business Park. Ho sicuramente parlato di ciò con Mezzacapo e con De Vito, anche in presenza di entrambi e l' avvocato si è dato da fare, sfruttando le sue relazioni, per verificare se ci fossero i presupposti. Ho parlato di questo anche a De Vito ed ho promosso il mio progetto parlando anche con lui. Ricordo che lui concordò sul fatto che era una bella idea e che bisognava lavorarci. Ho ritenuto di parlarne anche con De Vito perché lo spostamento della sede Acea avrebbe certamente richiesto l' avallo del Campidoglio». E per "assicurarsi" quel placet il costruttore ha pagato a Virginia Vecchiarelli, cognata di Mezzacapo, un parcella da 95mila euro. D' altronde il costruttore era un teorico del "foraggiare la politica": nell' informativa i carabinieri scrivono che ci sono «elementi che permettono di affermare che il presidente del consiglio comunale, Marcello De Vito, ha chiesto ed ottenuto da Luca Parnasi un supporto per la campagna elettorale di Roberta Lombardi » , candidata governatore del M5S alle ultime regionali. "Telefoni sotto controllo" Dopo l' arresto di Luca Lanzalone, le trattative proseguono, ma con più cautela perché « stanno tutti con i telefoni sotto controllo». Una precauzione tuttavia inutile.

DE VITO, DEVITALIZZATO! Ilaria Sacchettoni e Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” il 22 marzo 2019. Appena pochi giorni prima di essere arrestato, Marcello De Vito si mostrava disponibile con costruttori e immobiliaristi per agevolare i loro affari. Il 5 febbraio scorso Camillo Mezzacapo, suo socio nella Mdl srl - società che custodisce i proventi delle intermediazioni - racconta all' amico Gianluca Bardelli il pranzo d' affari che si è tenuto proprio quel giorno. L' intercettazione è documentata dai carabinieri del Nucleo investigativo: «Mezzacapo riferisce di avere appena pranzato con tale Paola Santarelli la quale avrebbe in corso un rilevante progetto immobiliare. Nel corso della colazione la predetta imprenditrice avrebbe chiesto, con ogni evidenza al De Vito, un intervento in ordine a una questione afferente i Beni culturali». Mezzacapo sottolinea il peso dell' interlocutrice: «Ma lei ci sta intima con i Torlonia, i Bulgari li conosce tutti, Nicola, Paolo...» La «congiuntura astrale» come sottolineano fra loro è favorevole - i Pentastellati governano a livello locale e centrale - e spesso De Vito e Mezzacapo ragionano sull' opportunità di prendere altri incarichi «per alimentare i bilanci della Mdl». Mezzacapo : «Lo so bisognerebbe cercare di avere qualche bel mandato... nel mandato Enea della fusione, una cosa 200 mila euro da dare a tu... è normale, cominciamo a staccare una cosa oppure un discorso con Fabrizio ...Terna e tu di Poste e tu vai dentro a fare Poste e ti danno oppure "guarda ti piglio e ti metto a fare il consiglio di Terna"». De Vito : «Sì». Luca Parnasi è il primo a capire l' importanza del ruolo di De Vito e la sua disponibilità: «Io ho fatto una chiacchierata con Marcello, ovviamente domani farà una chiacchierata con quello che era dello studio legale con cui lavorava... per questo ti dovevo parlare per dirti che se mettiamo insieme i nostri rapporti io l' ho incontrato e ci ho parlato, intanto domani lui incontra questa persona...». In qualche caso a mettere in contatto De Vito con gli imprenditori provvedono altri politici. Il 29 maggio 2017 è Davide Bordoni, forzista, ex assessore capitolino, a organizzare un pranzo fra Davide Zanchi, interessato all' area degli ex Mercati generali, e il presidente dell' assemblea capitolina: «Nei giorni successivi al loro primo incontro documentato De Vito e Zanchi si sono sentiti in diverse occasioni» scrivono gli investigatori. Ma c' è un' altra ragione per registrare quella tavolata: nel corso del pranzo, De Vito telefona all' assessore all' Urbanistica Luca Montuori per tentare di sbloccare la questione degli ex Mercati generali che tanto interessa i costruttori Claudio e Pierluigi Toti. Qualche volta si tratta di dialogare con la persona giusta in Campidoglio. Così per facilitare i progetti nel centro storico dell' immobiliarista Giuseppe Statuto «De Vito s' impegna a discutere della questione con tale Gabriella (Acerbi, ndr ) evidentemente un referente dell' ufficio che sta bloccando la pratica afferente la realizzazione dell' hotel da parte del gruppo Statuto o comunque del Comune di Roma». Come ha ben capito il costruttore Luca Parnasi il problema risiede tutto nei via libera che le istituzioni devono rilasciare a seconda delle circostanze. «Purtroppo scomparire dalla mattina alla sera così...poi...no. Se c' avessimo tutto approvato nessuno più a rompere i coglioni potrei pure...potrei pure...capito fare... il no? Il fuggiasco... poi alla fine». In un' altra occasione Parnasi valuta gli interlocutori: «Zingaretti? Un cacasotto. I 5 Stelle non è che sono meglio però o ti dicono sì o no». A giugno 2018 Parnasi finisce agli arresti e si dimette dalla società che deve costruire il nuovo stadio. Gli subentra Giovanni Naccarato. I costruttori Toti, ora indagati, lo avvicinano, ignari di essere intercettati dai carabinieri. Parlano di inchieste, sembra che possano contare su una o più «talpe»: «Al termine di uno di tali incontri Pierluigi Toti, nel corso di un' altra conversazione fra presenti, parla esplicitamente di notizie riservate inerenti un' indagine che riguarderebbe i gruppi imprenditoriali Toti e Parnasi acquisite in epoca molto recente». Naccarato e Claudio Toti si parlano di nuovo il 16 gennaio scorso: «L' altro soggetto che invece ci premeva di più c' ho messo un po' più di tempo a vederlo perché stava fuori, ci siamo visti, abbiamo parlato, mi ha chiesto tempo un po' per riflettere per dettare un po' la linea...». In un altro colloquio è Pierluigi Toti angosciato dalle indagini e si confida con un amico. Uomo : «Mah finché si tratta di studiare un paracadute eh?». Toti : «Per questo l' Uruguay non va venduto, per questo? C' è l' estradizione in Uruguay chi lo sa?». In realtà sono anche alcune verifiche della Guardia di finanza a preoccupare Pierluigi Toti e l' imprenditore nato a Montevideo ne parla con varie persone all' interno del suo ufficio. Il problema riguarda i bilanci della società che controlla il centro commerciale «Porta di Roma»: «In finale - spiega - sono stati messi soldi finché è stato possibile mettere i soldi poi i soldi non sono stati più messi. Sono stati distribuiti 160 milioni...». Toti si sforza di trovare il modo di acquisire informazioni sulle indagini: «Non credo possiamo avere notizie aggiuntive, non sappiamo neanche qual è il Nucleo che sta esaminando....».

UNA SINDACA IN BALÌA DEI MARPIONI. Carlo Bonini per “la Repubblica” il 22 marzo 2019. Un appalto e una tangente più di altre rendono impossibile alla sindaca Virginia Raggi separare le proprie responsabilità politiche dal traffico di denaro e influenze che ha travolto Marcello De Vito. Si tratta della riqualificazione dell' area degli ex Mercati generali. Ottantottomila metri quadrati dismessi di suolo pubblico nel quadrante sud-ovest della città, destinati, nel 2003 (sindaco Veltroni), a regalarle un gioiello architettonico - "il polo dei giovani" - rimasti ibernati per 15 anni in un kafkiano abisso di insipienza politica (due varianti di progetto, con Alemanno e Marino), burocrazia, e appetiti imprenditoriali, prima di essere sbloccati, nel settembre 2017, dagli "uomini nuovi" arrivati in Campidoglio con un progetto che di quello originario è un irriconoscibile parente e al prezzo di una "stecca" di 110 mila euro pagata a De Vito e al suo esattore Camillo Mezzacapo dai fratelli Claudio e Pierluigi Toti, i costruttori che quell' appalto da 500 milioni di euro si sono aggiudicati. Una storia che conviene prendere dalla fine. Dal 22 settembre del 2017 quando Raggi, con accanto l' assessore all' Urbanistica Luca Montuori, annuncia con enfasi che la sua "Giunta del fare" ha sbloccato i cantieri che arrugginiscono lungo la via Ostiense. «Finalmente - dice - un pezzo della città torna a nascere. Abbiamo un nuovo progetto di riqualificazione degli ex Mercati generali, che si erano trasformati nell' ennesima opera incompleta. Il Campidoglio ha ricominciato a dettare le regole, anche sull' urbanistica. Purtroppo, in passato, l' urbanistica è stata moneta di scambio, schiacciata da interessi che non avevano nulla a che vedere con i cittadini». È una retorica fuori luogo, quella di Raggi. Con il senno di poi, persino grottesca. Perché le «regole urbanistiche» non le hanno dettate né lei, né la Giunta. Ma i fratelli Toti. E tuttavia, anche riportando la macchina del tempo a quel settembre, Raggi appare come al solito giocare una partita insincera. A metà tra dabbenaggine e manipolazione. Omette infatti di dire che lei e la sua Giunta sono stati chiamati a decidere sotto la spada di Damocle di una penale di 100 milioni di euro da versare ai Toti qualora i cantieri non avessero avuto il via libera. Non dà spiegazioni delle curiose ragioni per cui, in Campidoglio, insieme al Pd e a Fratelli di Italia, uno dei principali sponsor dell' opera sia Davide Bordoni, ex assessore della Giunta Alemanno, capogruppo di Forza Italia in Consiglio e cavallo su cui, con i Toti, ha scommesso anche un altro costruttore, Luca Parnasi. Liquida come irrilevante la circostanza che l' assessore all' Urbanistica che ha avuto accanto fino a sette mesi prima, Paolo Berdini, avesse ritenuto il nuovo progetto «irricevibile». Interrogato dalla Procura dirà: «Il progetto non era conforme alla legge, doveva essere modificato e sarebbe di nuovo dovuto passare in Consiglio comunale. Sicuramente fino a febbraio 2017 l' intera giunta era contraria all' approvazione del progetto». Raggi omette di spiegare le ragioni per cui il padre di quel progetto del 2003, l' archistar olandese Rem Koolhaas, abbia nel frattempo ritirato la sua firma. Non dice, insomma, che quello che sta per regalare alla città è uno spazio dove un auditorium e spazi per gallerie, sono stati cancellati per essere sostituiti da un mastodontico centro commerciale e una residenza per studenti, dove il rapporto tra cemento e verde, cultura e commercio (il nuovo progetto incrementa dal 41 al 45% le cubature destinate a uso commerciale e raddoppia dal 6 al 12% quelle del terziario), sono stati rivisti a esclusivo vantaggio di chi l' opera deve costruirla e la avrà in concessione per 60 anni. La "Lamaro" dei fratelli Toti e la "Società Generale Immobiliare Italia srl.", subconcessionaria del progetto, di cui è amministratore Davide Zanchi, altro manovratore della cui esistenza non è dato sapere se Raggi sappia o meno. «A me il progetto piace», dice Raggi nel settembre 2017. Di più, «piacerà anche a Roma», aggiunge con sillogismo azzardato. Sicuramente piace ai Toti e ai loro nuovi soci nell' impresa, gli immobiliaristi francesi De Balkany. Che forse non sanno che per ammorbidire l' ostinazione Cinque Stelle ci si è dovuti prima sedere a un tavolo del ristorante "Aroma" con quel furbacchione di Davide Bordoni («Ci penso io a parlare con quelli del Pd», dice) e con De Vito (lo ha fatto il felpatissimo subconcessionario Davide Zanchi), lasciare quindi che De Vito agganciasse l' assessore Luca Montuori, ma, soprattutto, firmare un contratto di consulenza fittizia con un tale indicato da De Vito, Camillo Mezzacapo. Un avvocato con incarichi professionali da 2 mila euro, che i Toti non avrebbero contrattualizzato neanche per una lite condominiale, ma che fanno "ridere" con una parcella concordata di 180 mila euro (poi scesi a 110 mila). E un contratto che, nella chiarezza dell' oggetto, disciplina tempi e condizioni di pagamento della tangente. Lo firmano il 29 maggio 2017, tre mesi e mezzo prima che Raggi rimanga "folgorata" dal nuovo progetto. Dispone - si legge - che l' incarico di Mezzacapo per la "consulenza sugli ex Mercati generali" si "intenderà risolto ove entro il 30 luglio 2017 non sarà approvato dalle Autorità competenti il progetto definitivo di riqualificazione, ovvero quello esecutivo entro il 15 gennaio 2018". De Vito e Mezzacapo ci danno dentro. In settembre, Raggi annuncia il via al progetto esecutivo. Il 24 ottobre, la "Silvano Toti Holding" bonifica 110 mila euro. «Una mano lava l' altra ed entrambe lavano il viso», avrebbe detto Salvatore Buzzi. Ma quella, pardon, era Mafia Capitale, mica una storia di «mele marce».

INDAGINI SU UN CAMPIDOGLIO AL DI SOTTO DI OGNI SOSPETTO.

(ANSA il 24 marzo 2019) - "Acea, ribadendo ancora una volta la sua piena fiducia nella Magistratura" in merito all'iscrizione nel registro degli indagati dell'ad Stefano Donnarumma "sottolinea con forza che questa, stante l'atto notificato, non ha nulla a che vedere con il futuro stadio della Roma ne' con le vicende riguardanti l'asserito progetto di spostare la sede del gruppo nel futuro "Business Park", che dovrebbe sorgere nei pressi dell'opera". "Quella di Donnarumma è una estraneità assoluta, e non ha comportato alcun specifico addebito da parte delle Autorità inquirenti".

(ANSA il 24 marzo 2019) - "L'unica contestazione che viene rivolta" dalla Magistratura all'ad di Acea Stefano Donnarumma "riguarda due sponsorizzazioni, del valore di 25mila euro ciascuna, realizzate nel 2017 e nel 2018". E' quanto afferma l'azienda dopo l'iscrizione nel registro degli indagati dell'amministratore delegato di cui afferma "la totale estraneità: le due sponsorizzazioni sono state decise dall'allora Presidente che aveva i poteri in materia". "Volendo andare sul punto, l'azienda precisa che tra le varie deleghe che il Consiglio di Amministrazione ha attribuito all'ingegner Donnarumma non vi è mai stata quella riferita alle sponsorizzazioni, che invece, fin dall'insediamento dell'attuale CdA (3 maggio 2017), erano nella responsabilità della Presidenza".  "Successivamente, dal 21 giugno 2018 - spiega Acea - la competenza sulle sponsorizzazioni è stata attribuita ad un Comitato Esecutivo appositamente creato e presieduto da un consigliere indipendente espressione della minoranza. Un dato di fatto che il Gruppo ha portato subito all'attenzione delle Autorità inquirenti attraverso una dettagliata relazione consegnata già nella serata di ieri. Tra la documentazione messa a disposizione degli investigatori c'è anche quella relativa proprio alle sponsorizzazioni oggetto dell'indagine" conclude l'azienda.

Edoardo Izzo per ''La Stampa'' il 24 marzo 2019. Dopo Luca Alfredo Lanzalone, ex presidente di Acea in quota 5 Stelle, trema un altro super dirigente della Multiutility Capitolina. Si tratta dell' amministratore delegato, Stefano Donnarumma, che - dopo essere stato perquisito nei giorni scorsi - ora sarà iscritto sul registro degli indagati con l' accusa di corruzione. La stessa contestazione per la quale tre giorni fa è finito in manette l' ex presidente dell' Assemblea Capitolina, Marcello De Vito. Ed era stato proprio l' ormai ex grillino a caldeggiare la nomina di Donnarumma in Acea. L' inchiesta è quella dei carabinieri del Nucleo Investigativo, coordinata dalla procura, sul nuovo stadio della Roma calcio. In particolare - secondo quanto filtra da ambienti investigativi - l' indagine riguarderebbe il progetto di spostamento della sede di Acea dalla storica struttura di via Ostiense al «Business Park», adiacente al futuro stadio, tanto voluto dal costruttore romano, Luca Parnasi. Ed era stato proprio l' imprenditore, arrestato lo scorso 13 giugno, a definire in una chat con l' avvocato, Camillo Mezzacapo, il «Business Park» come: l' affare «più grande». Proprio nei messaggi WhatsApp, tra il costruttore e Mezzacapo, spunta fuori il nome di Donnarumma definito: «un caro amico». I due, subito dopo, si accordano per «una cena insieme», utile per dialogare sull' affare «Acea». Parnasi e Mezzacapo, intercettati dai carabinieri nel marzo 2018, gongolano. «La cosa più importante è il progetto Acea - spiega il costruttore - da quello che dice Lanzalone, e anche Donnarumma». «C' è un consenso, c' è un consenso!» aggiunge Mezzacapo. E Parnasi: «Allora qui lo stadio. Bisogna farlo molto bene! Acea diventa il trader principale del progetto, e diventa una società che ha importanza. Però su questo tema è importante che venga coinvolta anche la sindaca». Ma, ben più della Raggi, l' avvocato Mezzacapo coinvolge De Vito. «Abbiamo chiamato il nostro amico per farlo intervenire con forza», dice al telefono rassicurando Parnasi sull' intervento dell' ormai ex presidente del Consiglio Comunale. In merito Acea fa sapere che «mai un Consiglio di amministrazione ha esaminato o discusso di un qualsivoglia documento o piano per spostare la direzione generale sui terreni di Parnasi». Intanto De Vito, in carcere da tre giorni, farà ricorso al tribunale della Libertà. «Faremo ricorso al Riesame. E solamente successivamente il mio cliente chiederà di essere ascoltato dai magistrati», spiega il legale di De Vito, l' avvocato Angelo Di Lorenzo. «De Vito sta bene - aggiunge - e non vede l' ora di chiarire la sua posizione». Le indagini dei carabinieri, coordinate dall' aggiunto Paolo Ielo e dai pm Luigia Spinelli e Barbara Zuin, intanto vanno avanti. Ieri fino a tarda sera sono state ascoltate come persone informate sui fatti due consigliere dei 5 Stelle: si tratta della presidente della Commissione Urbanistica, Donatella Iorio, e quella della Commissione Lavori Pubblici, Alessandra Agnello. Le audizioni sono legate al fatto che le Commissioni si sono occupate di alcuni progetti al centro della indagine, tra cui proprio il nuovo stadio della Roma. In base a quanto si apprende, inoltre, è stata interrogata anche Gabriella Raggi, indagata nel procedimento, e capo segreteria dell' assessorato capitolino all' Urbanistica.

Valentina Errante per ''Il Messaggero'' il 24 marzo 2019. Marcello De Vito sapeva come procedere per assicurarsi l' approvazione dei progetti che gli stavano a cuore, quelli dei suoi clienti. E quando il via libera dell' Assemblea capitolina era a rischio, per le posizioni dell' ala più intransigente del Movimento Cinquestelle, riusciva a bypassarla, orientando la giunta e garantendo un voto favorevole. Così, per il gip Maria Paola Tomaselli, che tre giorni fa ha arrestato il politico, sarebbe accaduto a settembre 2017 per il via libera al progetto Mercati generali dei fratelli Toti, che hanno pagato una parcella di 110mila euro all' avvocato Camillo Mezzacapo, sorprendendosi che l' approvazione non fosse passata dall' aula. Una parte di quei soldi sono finiti nella Mdl, la «cassaforte - scrive il gip - nella quale occultare gli illeciti profitti della corruzione». L' ex presidente del Consiglio comunale sarebbe riuscito ad esercitare la sua influenza sull' assessore all' Urbanistica Luca Montuori attraverso i rapporti con l' allora capogruppo del Movimento Cinquestelle, Paolo Ferrara, e grazie all' intervento dell' ex sindaco ombra, Luca Lanzalone, ormai a processo per corruzione. Gabriella Raggi, la caposegreteria dell' assessore, indagata e perquisita tre giorni fa, è stata interrogata a lungo ieri dai pm Barbara Zuin e Luigia Spinelli, che hanno convocato in procura, come testimoni, anche Donatella Iorio, presidente della Commissione Urbanistica e Alessandra Agnello presidente della Commissione Lavori Pubblici. L' attività di De Vito sarebbe andata avanti fino alla vigilia degli arresti, per nulla scoraggiata dalla bufera dell' inchiesta Parnasi: il 12 febbraio, l' oramai ex presidente del consiglio comunale incontrava Giovanni Naccarato, nominato amministratore di Eurnova - la società di Parnasi che avrebbe dovuto realizzare lo stadio della Roma - dopo gli arresti di giugno. È il 22 gennaio 2019 quando Pierluigi Toti, parlando del progetto di riqualificazione degli ex Mercati Generali, spiega come abbia ottenuto un iter inaspettato e rapido: «Abbiamo avuto un' accelerazione urbanistica tra ottobre e dicembre che non pensavo neanche io, per cui siamo arrivati», dice. Un' accelerazione dovuta - aggiunge il gip - «al mancato passaggio della pratica in Consiglio e all' adozione della decisione da parte della Giunta», dove gli equilibri erano cambiati a febbraio 2017, dopo le dimissioni del precedente assessore all' Urbanistica, Paolo Berdini, e dunque fosse più facile ottenere il via libera. «L' intervento di De Vito - si legge nell' ordinanza - è stato quindi duplice: da un canto di carattere omissivo, non avendo egli rivendicato la decisione all' aula e, dall' altro, fattivo, avendo egli speso la propria influenza interloquendo con i soggetti (Lanzalone, Ferrara e Montuori) che avrebbero potuto incidere sulla situazione per indirizzare la decisione della Giunta» Sarebbe spettato al Consiglio occuparsi del progetto, visto che dall' ultima approvazione era intervenuta in commissione una significativa variante. Spiega il gip: «Vi erano forti insistenze da parte dell' ala più radicale del Movimento, che osteggiava l' approvazione dell' intervento di riqualificazione, affinché la decisione fosse nuovamente rimessa al Consiglio». La cassaforte, dove sarebbero finite le tangenti divise tra De Vito e Camillo Mezzacapo è la Mdl srl. La società dove l' avvocato raccomandato agli imprenditori dal politico metteva parte delle sue parcelle, ossia la quota destinata al presidente del Consiglio comunale. Nata nel 2016, la Mdl è controllata da due società - il cui fatturato è all' esame dei carabinieri - che fanno capo alla famiglia del legale finito in manette. L' amministratore è Sara Scarpari, segretaria di Mezzacapo. Ma nella compagine sociale compaiono anche la moglie del legale, Veronica Vecchiarelli, e la mamma, Paola Comito, finita sotto inchiesta per false fatturazioni. Il 10 per cento, invece fa capo a un commercialista, Gianluca Laconi. Indagata anche l' avvocato Virginia Vecchiarelli, cognata di Mezzacapo, utile come prestanome per non comparire in caso di consulenze sospette. Per il giudice l' esistenza della «cassaforte dà la misura della professionalità dagli indagati in tutte le fasi che caratterizzano le operazioni illecite. Dal primo contatto con gli imprenditori fino al momento percettivo dell' utilità». Così ai soci viene contestato anche l' autoriciclaggio.

Simone Canettieri e Stefania Piras per ''Il Messaggero'' il 24 marzo 2019. Il timore che non sia finita qui c' è. Anche se i vertici del M5S, da Luigi Di Maio a Beppe Grillo, serrano le fila intorno a Virginia Raggi per spronarla ad «andare avanti». La sindaca, ancora sotto choc per l' arresto del presidente del consiglio comunale Marcello De Vito, sta valutando intanto la fattibilità di una mossa dirompente: chiedere a tutti i dirigenti comunali di avanzare una richiesta alla procura (ex art. 335 del codice di procedura penale) per sapere se sono indagati. Attraverso la risposta alla richiesta si verrà a conoscenza del numero di procedimento, nome del pubblico ministero competente, data di commissione del fatto e l' articolo di legge violato, sempre che sia già in atto un procedimento nei confronti del richiedente. Una forma di autotutela, quella della grillina, per scacciare l' incubo di nuove inchieste che si potrebbero annidare tra gli uffici del Comune (23mila dipendenti). Attenzione, però. Per le ipotesi di reato più gravi, la comunicazione all' indagato potrebbe non essere possibile. Ma in queste ore, il Campidoglio cerca di vagliare tutti gli scenari per uscire dall' angolo. L'«ipotesi 335» è spuntata ieri dopo il vertice tra Raggi e il suo capo di gabinetto Stefano Castiglione. Fin qui la reazione amministrativa, ma la situazione nel Comune della Capitale appare quanto mai complessa. Non ci sono solo l' arresto di De Vito, la spinta dei consiglieri ad «azzerare la giunta». Sul tavolo della sindaca c' è anche la posizione di Daniele Frongia: l' assessore, indagato per corruzione, si è confrontato a lungo con lei giovedì sera. Un vertice - alla presenza del braccio destro di Di Maio, Max Bugani, e della consigliera regionale Valentina Corrado come responsabile degli enti locali - con picchi di tensione. L' assessore ha chiesto alla sindaca di respingere le dimissioni («Virginia, sarà presto tutto archiviato: devi fidarti di me»), ma ha trovato davanti a sé un muro: «No, Daniele, dopo tutto quello che ho passato, non se ne parla». Sul braccio destro della pentastellata pesa anche la comunicazione «tardiva» ai vertici M5S e alla sindaca dell' indagine a suo conto. «Lo sapevi da giorni, Daniele, ma ce lo hai comunicato solo quando stava per uscire sui giornali». Alla fine la situazione è questa: Raggi ha accettato con riserva le dimissioni dell' assessore allo Sport, ma prende tempo prima di formalizzarle in attesa degli sviluppi auspicati dai legali di Frongia. Ovvero: l' archiviazione. Al momento la pratica è congelata. Anche per evitare ulteriori scossoni. La linea del M5S è che, come spiega il vicecapogruppo alla Camera Francesco Silvestri, «non esiste un sistema-grillino». Ma in queste ore tutti si interrogano: De Vito agiva da solo o aveva sponde tra gli assessori e i consiglieri comunali? In attesa di risposte negative, non rimane che «andare avanti». Ed è proprio Di Maio a scandire la sua certezza di prima mattina, in tv. Poco dopo, in un lungo post su Facebook - rilanciato sul blog da Beppe Grillo, che così «rompe» il suo silenzio sulla vicenda - Raggi espone la sua trincea. «Non si torna al passato.  Il giorno in cui sono stata eletta sapevo che il vecchio sistema che insieme al M5S sto scardinando con ogni mia forza, avrebbe opposto ogni tipo di resistenza», scrive la sindaca. Come annunciato da Il Messaggero in queste ore torna più che in bilico la costruzione dello stadio a Tor Di Valle, padre di tutte le disgrazie giudiziarie. Ma il Movimento rimane una pentola in ebollizione. Roberta Lombardi, storica nemica di Raggi e considerata la madre politica di De Vito, si difende da chi la tira in ballo per i presunti rapporti con il costruttore Luca Parnasi: «Gli dissi 4 volte no, non sono ricattabile, né in vendita: Sarò nemica di chi, anche dentro M5s, tradisce cittadini». 

La procura chiede l’archiviazione per Daniele Frongia. L’ex assessore era indagato nell’inchiesta sullo stadio della Roma, scrive il 28 Marzo 2019 Il Dubbio. La procura di Roma ha chiesto al gip di archiviare la posizione di Daniele Frongia indagato per corruzione nell’ambito di uno dei tanti filoni scaturiti dall’inchiesta sul nuovo stadio che dovrebbe sorgere nell’area di Tor di Valle. Frongia, nella veste di assessore allo Sport al Comune, su sollecitazione di Luca Parnasi, avrebbe segnalato il nome di una persona che avrebbe dovuto lavorare in una delle società riconducibili allo stesso imprenditore. Non se ne fece niente perché di lì a poco (era il 13 giugno del 2018) Parnasi venne arrestato assieme ad alcuni suoi collaboratori per associazione per delinquere e corruzione. Frongia, dopo aver saputo nei giorni scorsi di essere indagato, si era sospeso dal Movimento Cinque stelle e aveva rimesso le deleghe alla sindaca.

De Vito, lettera dal carcere  alla Raggi: «Non mi dimetto». Pubblicato mercoledì, 24 aprile 2019 su Corriere.it. «Sono pronto per il giudizio. Non sono corrotto né corruttibile e confido nel pieno e positivo accertamento in tal senso da parte della magistratura. Nell’immediato ho provato rabbia e delusione per le parole di abbandono degli “amici”. Posso dire che ho ricevuto maggiore solidarietà delle persone in queste retrovie che in qualsiasi altro posto». È quanto scrive Marcello De Vito, arrestato il 20 marzo scorso per corruzione nell’ambito dell’inchiesta per lo Stadio della Roma, in una lettera inviata dal carcere al sindaco di Roma, Virginia Raggi, che da subito dopo l’arresto ha dichiarato: «Chi sbaglia deve pagare, nessuna indulgenza». Aggiunge De Vito nel suo messaggio dal carcere: «È complesso far comprendere quanto queste mura possono insegnarti e farti ragionare sui valori di base. Posso dire che sono più forte di prima. In questo periodo ho pensato spesso, per il rispetto che ho verso l’istituzione, di dimettermi da presidente dell’Assemblea capitolina, carica che ho amato e che ritengo di avere svolto con onore e con piena cognizione dei suoi equilibri e tecnicismi. Ma non posso, non voglio e non debbo farlo! Credo con forza nella Giustizia e Giustizia con forza chiedo!». E prosegue: «Care colleghe e cari colleghi considero privo di presupposti qualsiasi atto che mi abbia privato di qualcosa: sia esso la libertà personale, la carica (anche in via temporanea), la stessa iscrizione dagli M5S. Darò tutte le mie forze per tutelare la vita della mia famiglia e la mia. Ai sensi del regolamento del consiglio considero le assenze dal 20 marzo 2019 contrarie e comunque non imputabili alla mia volontà nonché la sospensione e la temporanea sostituzione prive di presupposti». Ma sembra che in Campidoglio non ci sia alcuna intenzione di tornare sulla decisione di esonerare De Vito dalla presidenza del Consiglio comunale. Anzi, si sottolinea che la decisione dell’ormai ex grillino di non dimettersi spontaneamente ha solo rallentato i tempi dell’iter per l’elezione del nuovo presidente, che invece così avrà tempi inevitabilmente più lunghi, secondo quanto previsto dalle norme del Regolamento comunale sulla revoca del mandato. Anche il presidente del Consiglio Giuseppe Conte è intervenuto nella vicenda, parlando con i cronisti in piazza Colonna: «I 5s hanno una particolare concezione della giustizia, lo hanno dimostrato anche sulla propria pelle in questo caso. Sulla questione di De Vito ho dichiarato che sia pure tenendo fermo il principio della presunzione di innocenza quella decisione mi sembra giusta».

De Vito fa il rompiballe del M5S anche dal carcere: «Io abbandonato, non mi dimetto». Scrive mercoledì 24 aprile Michele Pezza su Il Secolo D'Italia. Vero è che lui è stato arrestato mentre Siri è solo indagato, ma a scatenare la rabbia di Marcello De Vito, presidente grillino del Consiglio comunale di Roma, è la differenza tra l’imperforabile quadrato eretto dalla Lega di Salvini a protezione del sottosegretario e la sua espulsione dal MoVimento decretata un secondo dopo il clic delle manette. Uguale il reato contestato – corruzione – ma diverso l’orientamento della magistratura e, soprattutto, opposto il trattamento politico: Siri ancora al governo, lui nel limbo.

Il grillino De Vito scrive a Virginia Raggi. Ora, però, ha deciso di uscirne fragorosamente con l’obiettivo di rendere pan per focaccia ai suoi vecchi compagni grillini, Di Maio in testa. Ha preso carta e penna e attraverso una lettera inviata dal carcere fa sapere a Virginia Raggi, al vicepresidente vicario Enrico Stefàno e ai consiglieri comunali che lui non, a non mollare la poltrona di presidente, non ci pensa proprio. «In questo periodo – vi si legge – ho pensato spesso alle dimissioni dalla carica di presidente dell’assemblea capitolina. Ma non posso, non voglio e non debbo farlo. Darò tutte le mie forze per tutelare la vita della mia famiglia e la mia».  Ai colleghi dell’assemblea capitolina De Vito scrive di considerare «privo di presupposti qualsiasi atto che mi abbia privato di qualcosa». Non solo la libertà personale, ma anche «la carica (seppur in via temporanea)» e «la stessa iscrizione agli M5S». Solo la restrizione in carcere gli impedisce di esercitare le sue funzioni. «Ai sensi del regolamento del consiglio – scrive ancora De Vito – considero le assenze dal 20 marzo 2019 contrarie e comunque non imputabili alla mia volontà nonché la sospensione e la temporanea sostituzione prive di presupposti. Credo con forza nella giustizia».

«Provo rabbia e delusione». Rispetto all’accusa che lo ha colpito, De Vito si è detto «pronto» per il giudizio. «Non sono corrotto né corruttibile e confido nel pieno e positivo accertamento in tal senso da parte della magistratura», si legge nella sua lettera prima di ammettere di aver «provato rabbia e delusione per le parole di abbandono degli “amici”». «Posso dire – ha concluso – che sono più forte di prima».

LA REGINA DEI TAVERNICOLI. Giancarlo Perna per ''la Verità'' il 23 marzo 2019. Detta Anna Magnani del parlamento, Paola Taverna, incarna la robusta oratoria romanesca trapiantata dai mercati rionali al seggio senatorio. Fiera popolana dai bei capelli sciolti, la neocinquantenne senatrice grillina (mezzo secolo il 2 marzo) è una sapiente lanciatrice di invettive che pare uscita dai versi di Trilussa. «Ma va a morì ammazzato», gridò dal palco a un contestatore di Virginia Raggi, sindaco di Roma, «potevi fa' la metro e ora rompi li cojoni perché volemo fa la funivia?». Sempre accesa come un prospero, ha incendiato i dibattiti di Palazzo Madama con urla appassionate, accusando destra e manca di ruberie in contrasto con l' illibatezza dei 5 stelle. Ha invitato il collega del Pd, Stefano Esposito «de sputatte allo specchio ogni mattina» e minacciato l' allora senatore, Silvio Berlusconi: «Un giorno de' questi je sputo». Tra i suoi talenti, la vena facile. Le consente, come il suo concittadino settecentesco, Pietro Metastasio, di improvvisare quartine. La seguente è dedicata a non so quali degli avversari che il suo moralismo popolano le fa intravedere ovunque: «Ma le bucìe c' hanno le gambe corte/ se dice a Roma e forse nell' Italia intera/ la verità è qui, dietro le porte/ le uniche pe' voi aperte quelle della patria galera». Di fronte a un senatore del suo partito che studiava un piano politico da proporre agli altri schieramenti, lei, che per queste cose non ha pazienza, ha vergato: «Proponi accordi strani e vedi prospettive/ mentre io guardo 'ste mmerde e genero invettive». Del governo Gentiloni ha detto: «È 'na torta de letame». Reagendo alla mancata promessa di Matteo Renzi e Maria Elena Boschi di mollare tutto alla sconfitta referendaria (4 dicembre 2016), Taverna previde «un' inondazione di vomito da chi con un No pensava di esserseli levati dalle palle». Maurizio Gasparri, d' accordo sul concetto ma disgustato dall' immagine, sentenziò da destra: «La senatrice Taverna è la prova vivente che il Senato va abolito». Tutto ciò accadeva nella scorsa legislatura, quando la nostra Paola spiaggiò a Palazzo Madama con la prima ondata grillina (2013-2018). Oggi, alla seconda esperienza, Taverna è nientemeno che uno dei 4 vicepresidenti del Senato. Sensibile al fascino del ruolo, come spesso accade nelle barricadiere di successo, fa ogni sforzo per istituzionalizzarsi. Ha studiato la Costituzione, il Regolamento, gli interventi dei Costituenti. Finita la lettura, ha fatto un' ammissione: «I nostri padri fondatori non erano poi così cretini». Debolezza che fa già intravedere dietro il vulcano che fu, la fumarola che potrebbe diventare. Finora, ha avuto una sola ricaduta. Accadde, quando Fi designò Maria Elisabetta Casellati, alla presidenza del Senato, e Anna Maria Bernini, capo gruppo. La grillina approvò: «Ha fatto bene Berlusconi, così dimostra che non frequenta solo mignotte». Voleva fare un complimento ma è rispuntata la Taverna vecchia.  Prima di farla vicepresidente, i 5 stelle chiesero a Paola se preferisse diventare ministro. Volle restare al Senato. Governare impegna, vicepresiedere gratifica. Ma non è solo questo. Paola Taverna è uno dei capicorrente del M5s, quello dei romani, forse il gruppo più potente. Gli altri sono ballerini. Il vicepremier, Luigi Di Maio, capo politico pro tempore, è circondato di reggicoda pronti a sparire con il crollo del traballante governo gialloblù. Dopo, lo aspetta un lungo purgatorio solitario. Alessandro Di Battista è più un caciarone che un leader di domani. Resta Roberto Fico, il presidente della Camera. È il capo della sinistra interna e perciò il più precario. Rischia di perdere uomini e voti in favore del Pd da cui molti provengono. Il neosegretario, Nicola Zingaretti, che promette un berlinguerismo di ritorno, con una spruzzata di falce e martello, potrebbe infatti spingerli a un salto della quaglia a ritroso. Svetta dunque Taverna, reginetta di numerosi tavernicoli. Basterà citarne due. Il barbuto, Fabio Massimo Castaldo, oggi vicepresidente dell' assemblea di Strasburgo. Nella scorsa legislatura, da semplice militante, fu il suo consigliere giuridico. È balzato alle cronache in febbraio per aver partecipato, con Di Maio e Di Battista, in quota Taverna, all' incontro anti Macron con i gilets jaunes. Rappresenta il respiro internazionale della corrente tavernicola. Poi, Pierpaolo Sileri, senatore e chirurgo futuribile. Specialista di robotica applicata al colon, ha la cattedra alla facoltà di medicina e a quella di ingegneria. Rappresenta i tavernicoli nella Sanità cittadina e negli incontri con gli Ufo. I voti su cui Paola può contare nella Capitale sono diverse decine di migliaia. Se solo vorrà, sarà il prossimo candidato sindaco del Movimento. Sono infatti nulle le possibilità di conferma della disastrosa collega di partito, Raggi. Tra le due, rapporti solo formali con qualche stilettata. Nota, tuttavia, un' opinione di famiglia sulla prima cittadina. È quella della sorella di Paola, Annalisa Taverna, pure lei attivista dei 5 stelle, che tempo fa scrisse di Raggi su Facebook: «Hai rotto il c..zo, smettila di fare la bambina deficiente, altrimenti te appendemo pe le recchie sui fili de li panni».  I Taverna erano papà, mamma e le due sorelle. Abitavano in periferia, prima a Torre Maura poi, alla morte del babbo, al Quarticciolo. Questa perdita fu lo spartiacque per Paola. Il papà, tappezziere, guadagnava bene. Mancato, la ragazza, diciassettenne, che voleva laurearsi dovette accontentarsi del diploma di perito industriale. «Non si lasciano così tre donne nel panico», fu il suo rancore verso il pover' uomo, come ha raccontato. Poi lo perdonò ma aveva ormai interiorizzato il meccanismo del mondo ingiusto. Al motto, «io me la cavo sempre», entrò dattilografa in uno studio di fotocomposizione e ne uscì per mettersi in proprio come grafico editoriale. Sposò un odontotecnico e ne ebbe un figlio, Davide, oggi sedicenne. Si separò poi dal marito ma rimasero amici e hanno allevato il ragazzo insieme. Da tempo, ha un compagno più giovane, collega di partito e di parlamento, Stefano Vignaroli, attivista dei rifiuti zero e fiero combattente della discarica romana di Malagrotta. La prima cotta politica di Paola fu per Italia dei valori. Passò poi da Totò Di Pietro a Beppe Grillo, affine ma più mattacchione. Sua mamma, Graziella, era stata invece berlusconiana. Dopo, votò per la figlia. La signora, oggi ultraottantenne, sta dando grattacapi, causa uno sfratto dalla casa popolare che abita da un ventennio. Colpa dell' aumento dei redditi familiari oltre i limiti fissati per un' abitazione pubblica a prezzi ridotti, 150 euro mese. Paola non si è piegata e ha spinto la mamma al ricorso. Poi, su Youtube si è pianta addosso. «Alla sua età, mia madre ha tutto il diritto di desiderare di morire nel posto in cui ha vissuto», ha sentenziato. Tipico di Roma (ci vivo), confondere il diritto di tutti con il desiderio di ognuno. Il capriccio divora la regola. Un tizio molla l' auto sulle strisce. «Embè? », gli fai. Quello replica: «Sto a lavora', c' ho prescia». E chi s' è visto, s' è visto. Lo sfratto è stato confermato e la casa dovrebbe essere liberata. Si spera che Paola ricordi di essere vicepresidente del Senato.

Di Battista querelato dagli imprenditori Sì Tav. Il grillino in tv parlò di «tangenti» e «'ndrangheta» dietro i cantieri: «Ma non ho le prove», scrive Domenico Di Sanzo, Sabato 09/03/2019, su Il Giornale. Da una vita in vacanza a una vita in contumacia. Alessandro Di Battista, sparito dai radar da circa un mese, sembra un condannato al silenzio. Il linguaggio giuridico è giustificato dall'ultima disavventura di Dibba, querelato da un gruppo di imprenditori piemontesi Sì Tav per le sue affermazioni, rilasciate a Che Tempo che Fa qualche giorno prima della scomparsa mediatica, su non meglio precisati legami tra la 'ndrangheta e alcuni comitati favorevoli all'Alta velocità Torino-Lione. «Non ho le prove», aveva detto di fronte a Fabio Fazio la sera del 20 gennaio, esibendosi in una surreale parodia pasoliniana. Il Che Guevara di Roma nord l'aveva sparata grossa: «Io non c'ho le prove, però ricordo quando due 'ndranghetisti furono intercettati e dicevano «adesso ci tocca fondare un comitato Sì Tav «». Aggiungendo un altro sospetto su fantomatiche «tangenti» da restituire. Inevitabile la reazione del mondo produttivo, tra cui Unione industriale di Torino, Confindustria Piemonte e Confagricoltura Piemonte. Arrivata ieri con il deposito di una querela nei confronti dell'ex deputato grillino «in ragione delle sue affermazioni» secondo cui «esisterebbe un legame tra 'ndrangheta e comitati Sì Tav, oltre ad accenni a non meglio precisati episodi di corruzione». Una decisione, quella degli imprenditori piemontesi, già presa qualche giorno fa, ma che solo poche ore prima della presentazione della denuncia ha visto compattarsi tutte le principali sigle di categoria. Inutile dire che il solitamente loquacissimo Di Battista non ha proferito parola, come ormai accade dal 13 febbraio. Giorno della pubblicazione sulla pagina Facebook di un post con il filmato dell'intervista rilasciata a Di Martedì di Giovanni Floris. Proprio in quella circostanza c'era stata un'altra gaffe, rivelatrice dell'indole narcisistica del personaggio. Ai mancati applausi da parte del pubblico in studio, l'eroe dei due mondi del M5s si era infastidito: «Oggi non applaudite... nessuno?». Poi il silenzio. Anche sul social preferito da Dibba, ovvero Instagram. L'ultima traccia risale al 4 febbraio. Ed è uno spezzone dell'ospitata da Fazio, con il fu condottiero pentastellato intento a strappare il Franco delle colonie francese. In questo mese si sono susseguiti i pettegolezzi sugli ultimi movimenti di Di Battista. C'è chi dice sia rintanato nella sua casa romana, Il Giornale domenica scorsa lo ha pizzicato al Gran Bazar di Istanbul, dove si trovava per un viaggio di piacere. Ma c'è chi dice: «Prima di andare in India si farà vivo, ora sta creando l'aspettativa attorno all'evento».

"La Tav un'opera essenziale M5s incapaci di intendere". L'ex ministro delle Infrastrutture: «Ci vogliono uomini competenti. Ma non è colpa di Toninelli, non ce la fa», scrive Carmelo Caruso, Lunedì 25/02/2019, su Il Giornale. È arrivato il momento di fare i conti con la storia. E con i vinti. È arrivato il momento di telefonare ad Antonio Di Pietro. Si discute di Tav, (Di Pietro è stato ministro delle Infrastrutture dal 2006 al 2008). C'è voglia di manette, (inutile dire che Di Pietro è «Mani Pulite»). Si vota sulla piattaforma Rousseau, (Di Pietro è stato il primo ad «assumere» Gianroberto Casaleggio e ad affidargli la comunicazione del suo partito, l'Idv). Insomma, ci proviamo.

Siamo de «Il Giornale»...

«Avete sicuramente sbagliato».

No, no. Proprio lei.

«Mi sto preoccupando...».

La cercavamo in veste di ex ministro delle Infrastrutture, anzi, a sentire gli esperti «il ministro che ha cambiato la gestione delle Infrastrutture».

«Vedo che il tempo è galantuomo. Vi ascolto».

Innanzitutto. Che fa oggi?

«Sono iscritto al partito dei combattenti e reduci. Sono testimone del tempo che fu. Ragiono su quello che ho fatto e riconosco che ho fatto tante cavolate».

Torniamo alle sua gestione del ministero.

«Durante la mia gestione, unico caso, non è mai stato arrestato nessuno. Sa cosa ho fatto? Ho spostato tutti i funzionari geograficamente. Quelli di Torino li spedivo a Napoli, quelli di Napoli li trasferivo a Torino. Io ho la capacità di capire l'antropologia dai volti».

Una qualità indiscutibile. Che ne pensa del ministro Danilo Toninelli?

«Non ha colpe. Bisogna separare il ministero da Toninelli».

Rischia di far pagare all'Italia milioni di penali.

«Mi spiego. Toninelli è un uomo incapace di intendere e di volere. Per gestire un ministero ci vogliono uomini competenti. Per avere responsabilità, dice un fondamento del diritto, bisogna avere capacità intellettive. Ma Toninelli non ce la fa. Ripeto. Incapace di intendere e di volere».

Famose sono le sue gaffe, tanto che, perfino lei, gli ha dovuto impartire delle ripetizioni.

«Quando è caduto il ponte di Genova ha dichiarato: Ci costituiremo parte civile. Gli ho spiegato che non poteva in quanto responsabile era proprio il ministero che non aveva vigilato. Non sa neppure dove stanno i tunnel. E infatti sbaglia».

Ma a proposito, qual è la sua idea sulla Tav?

«Io sono quello che ha sbloccato la Gronda di Genova, la variante di Valico e favorito l'Alta velocità. La Tav va assolutamente fatta. È un corridoio che arriva fino a Kiev. Vi sembra normale che arriviamo noi e blocchiamo tutto? E finiamola anche con l'analisi costi-benefici. Quando ero ministro ne avevamo fatte già otto».

Per Toninelli «chi se ne frega di andare a Lione».

«E certo! Non va nessuno perché non c'è! Si sta buttando tutto in caciara e nessuno ha spiegato agli italiani cosa sia la Tav. Io invece ho fatto questo esperimento. Ho chiesto a una mia amica: Ma tu sei a favore della Tav?. Non sapeva neppure cosa fosse».

Veniamo alla famiglia Casaleggio. Ci ha lavorato fianco a fianco, anzi, è stato lei a fargli annusare la politica.

«Gianroberto ha creato il M5s sugli errori dell'Idv. Non a caso mi disse: Antò, io non mi faccio fregare come hai fatto tu. Non mi metto dentro gente che mi sputtana. Il figlio lo conosco poco».

Il M5s sta per diventare partito e si pensa perfino di derogare il vincolo del doppio mandato.

«Sbagliano. Si rimane vergine finché non si cade la prima volta. Quando si deroga inizia la fine».

In Italia stanno tornando i manettari. Immaginiamo che lei, almeno in quello non è cambiato.

«Sempre quello. L'ultimo dei mohicani».

Ma «reduce».

«Sì, ormai la politica la guardo in tv. Appunto, fatemi andare che sta per iniziare il tg. Cordialità».

Otto e Mezzo, Elena Fattori sconvolge Lilli Gruber: soldi e magheggi, demolisce Davide Casaleggio, scrive il 22 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Che razza di roba sia il M5s lo spiega in modo piuttosto chiaro una grillina. Si tratta di Elena Fattori, senatrice grillina, una di quelle bollate come dissidenti. E la Fattori era ospita a Lilli Gruber ad Otto e Mezzo, su La7. E ha picchiato durissimo contro Davide Casaleggio, la piattaforma Rousseau che ha stabilito la linea sul caso-Diciotti e, dunque, contro la baggianata della cosiddetta democrazia diretta. La Gruber la incalza: "È vero che Casaleggio riceve 90mila euro al mese dal Movimento per la piattaforma?". "Corretto", risponde la Fattori. Dunque si parla di ricevute e rendiconti: "Ne ha mai ricevuto uno?", chiede ancora la conduttrice: "Io da grillina della prima ora, ho chiesto ogni mese ricevute e rendiconto per i soldi versati alla piattaforma Rousseau. Mi sono arrivati ieri, finalmente". Insomma, caso chiuso. Ma per lungo tempo, i grillini hanno pagato senza sapere che fine facessero quei soldi. Ma le considerazioni più dure della Fattori devono ancora piovere, e arrivano quando si parla di uno degli argomenti più dibattuti in questi ultimi giorni, quello del voto su Rousseau: quanto può essere credibile? La democrazia può delegare le sue decisioni a un simile strumento? Semplice: per la Fattori no. "Il problema - riprende la senatrice grillina - è che questa piattaforma è gestita da un privato per conto di un’associazione privata". Ovvero da Casaleggio. "È ottima per la gestione interna del Movimento - riprende - ma non è assolutamente opportuna per prendere decisioni sull'amministrazione del Paese, a decidere cose governative o addirittura a vincolare i parlamentari su un voto così delicato. Perché non c’è nessuna garanzia esterna di controllo". Parole pesantissime, quelle della Fattori. Che si riserva infine un ultima stoccata: "Quando ci avevano chiesto di dare 300 euro al mese eravamo contenti, la piattaforma era piena di problemi e speravamo venissero risolti. Ma l'ultimo voto ha dimostrato che così non è stato". Casaleggio e grillini demoliti dalla senatrice M5s, sotto agli occhi di una stupefatta Lilli Gruber.

Etruria, Boschi: ''Di Maio e Di Battista? Responsabili in prima persona nelle società dei genitori'', scrive il 27 febbraio 2019 Repubblica Tv. Ospite a Di Martedì insieme alla sottosegretaria leghista ai Beni Culturali Lucia Bergonzoni, Maria Elena Boschi ha parlato del caso Banca Etruria. Pierluigi Boschi, padre dell'ex ministra dem e membro del cda della banca tra il 2011 e il 2014, è stato assolto. "La differenza è che Di Battista e Di Maio sono responsabili in prima persona perché Di Battista era amministratore della società del padre e di Maio proprietario della società del padre. A me non interessano i genitori, interessano loro". Il padre di Luigi Di Maio, Antonio, imprenditore edile, avrebbe pagato in nero dei suoi operai. La società del padre di Alessandro Di Battista, che costruisce impianti igienico sanitari, è finita invece sotto accusa per il bilancio del 2016, dove ci sarebbero debiti con fornitori e dipendenti per centinaia di migliaia di euro.

Gianluca Paolucci per “la Stampa”l'8 ottobre 2019. Pier Luigi Boschi dice di aver sempre operato per il bene di Banca Etruria e smentisce fermamente di aver mai agito, nel periodo nel quale è stato prima consigliere e poi vicepresidente dell' istituto, in conflitto d' interesse. La versione di Boschi delle vicende che hanno portato al crac dell' istituto aretino è contenuta in 30 pagine di una memoria depositata nel procedimento civile in corso a Roma per l' azione di responsabilità contro gli ex amministratori e manager di Etruria. È un documento che va al di là del processo in corso perché in quelle 30 pagine è contenuta la versione di colui che di tutta la vicenda nata con la risoluzione della banca, nel novembre del 2015, è il protagonista principale. Da quel novembre 2015, il padre dell' allora ministro Maria Elena Boschi non ha mai parlato per dare la sua versione dei fatti. Esistono altre memorie depositate nei vari procedimenti scaturiti dal crac dell' istituto, che riguardano specifiche contestazioni. Ma questa è la più completa, che replica alle accuse mosse dai commissari della banca, le quali a loro volta coprono i principali punti critici dell' intera storia di Etruria. E la memoria di Boschi, redatta dall' avvocato Paolo Cesare Pecorella, ricostruisce anche le ragioni che portarono Boschi nel board di Etruria. Chiamato, spiega nel documento, dopo 40 anni nell' organizzazione della Coldiretti provinciale per le sue esperienze nel mondo dell' agricoltura toscana e per la particolare conoscenza delle imprese agricole del territorio di Arezzo. Per questa ragione, spiega il documento, non possono imputarsi a lui scelte squisitamente tecniche inerenti a specifici profili, altrettanto tecnici, estranei all' ambito delle sue competenze professionali o che hanno riguardato rapporti con imprese di settori diversi. Tradotto: Boschi risponde di eventuali responsabilità solo per i prestiti al settore agricolo. Malgrado la posizione ricoperta nel cda (consigliere dal 2011 al maggio 2014 e poi vicepresidente fino al commissariamento del febbraio 2015). Secondo la ricostruzione, inoltre, non possono essere imputati a Boschi interessi «confliggenti» dai quali Boschi stesso non avrebbe avuto nessun tornaconto, di nessun genere, nel favorire interessi che non fossero quelli della banca. Le operazioni contestate, secondo il memoriale dell' ex vicepresidente, risultavano dunque non solo perfettamente legittime ma disposte nell' esclusivo interesse della banca. Boschi respinge anche l' accusa di non aver saputo, come consiglio, gestire la crescente mole di sofferenza dell' istituto, elencando tutte le sedute del cda nelle quali il tema è stato affrontato tra il febbraio del 2012 e il gennaio del 2015. Ma, ancora, sottolineando che non possono essere imputate a lui operazioni di competenza delle strutture della banca. Ancora, Boschi contesta la ricostruzione della mancata fusione con la Popolare di Vicenza fatta dai commissari con l' azione di responsabilità. Operazione disgraziata non solo «col senno di poi» ma anche con il «senno di allora». E che, secondo Boschi, non era basata su un'offerta vincolante non perfezionata per volontà del cda di Etruria, come sostenuto dai commissari nell'azione di responsabilità. Ma di un' offerta che non era affatto e che, comunque, mai avrebbe potuto andare in porto e non certo a causa del cda di Etruria.  Il riferimento è alle difficoltà della Popolare di Vicenza, emerse drammaticamente dopo la fine della trattativa con Etruria nel giugno del 2014. A sostegno della infattibilità dell' operazione, Boschi cita anche la testimonianza resa dell' ex capo della Vigilanza, Carmelo Barbagallo alla Commissione d' inchiesta sulle banche. Secondo il quale in ottobre 2014, dopo la pubblicazione dei risultati del comprehensive assessment della Bce che fece emergere le carenze di Vicenza, l' operazione non si sarebbe potuta realizzare.

Politica, non è l'ora dei dilettanti. La situazione volge al brutto e chi ci governa non è all'altezza. La soluzione? Drastica, scrive Giampaolo Pansa il 26 febbraio 2019 su Panorama. Qualche giorno fa Corrado Formigli, il comandante di Piazzapulita, ottima trasmissione de La7 di Urbano Cairo, mi ha invitato a parlare di quanto accade in Italia, a cominciare dal governo gialloverde. Guardo la tivù di continuo poiché la considero una buona fonte di notizie e tutto sommato imparziale, ma evito di fare l’ospite dei talk show come succedeva un tempo. Per fortuna con mia moglie Adele Grisendi abitiamo in un paese lontano da Roma e se qualche canale continua a cercarmi rispondo sempre di no. Non mi va di diventare uno dei soliti personaggi che affollano i dibattiti televisivi. Quasi sempre sono colleghi giornalisti che non si rendono conto di essere diventati delle maschere destinate ad annoiare i telespettatori. Volete un nome per tutti: lo Scanzi del Fatto quotidiano, un noioso al cubo grazie alla simpatia che ha per lui una donna speciale: Lilli Gruber. Sento già Adele sgridarmi: «Lascia stare Lilli, una grande donna e una grande professionista. Altrimenti rischi che non parli più dei tuoi libri...». Sono un signore di 83 anni e lavoro nei giornali dal 1960, quando il direttore della Stampa di allora, il tiranno Giulio De Benedetti, mi assunse perché voleva iniziare lo svecchiamento della redazione. Da quel momento ho cambiato molte testate, passando anche per due colossi come il Corriere della sera di Piero Ottone e la Repubblica di Eugenio Scalfari, il più grande dei direttori della nostra epoca che mi volle accanto a sé per la bellezza di quattordici anni. Con questo passato alle spalle, che cosa volete che mi importi se una tivù parla o no di un mio libro? I libri si vendono per altri motivi: la stima del pubblico nei confronti di un autore e il significato della sua fatica in un determinato contesto storico. Comunque sia, quella sera Formigli mi mandò una squadra di ottimi tecnici de La7 e all’inizio della trasmissione mi chiese come la pensassi sul governo in carica. Me ne stavo tranquillo nel mio studio e tra i miei libri, sentendomi molto rilassato. E parlai fuori dai denti: «La mia opinione è che quello guidato da Conte e in mano a Di Maio dei Cinque stelle e a Salvini, il capitano della Lega, sia un governo di terroristi. Non è un banale esecutivo di centrodestra, nato dall’alternanza delle formule politiche e delle maggioranze. No, quello attuale vuole fare piazza pulita dell’Italia, della nostra democrazia, della nostra possibilità di avere un futuro normale. Guidato da una squadra di politicanti che non hanno rispetto per nessuno!». Mi sono reso subito conto degli effetti di quanto avevo detto. Il giorno successivo cominciai a ricevere applausi e fischi a non finire. Gli applausi erano più numerosi di fischi, come sempre accade. Ma entrambi mi fecero riflettere su una parola che avevo trascurato di dire: mortifero. Sì, il governo giallo-verde cela un virus nascosto che, prima o poi, lo farà morire con lui tutti noi. L’ho compreso quando si è cominciato a parlare di una patrimoniale in arrivo e di un aumento feroce dell’Iva. Per farla corta, dentro e attorno a Palazzo Chigi c’è un sentore di cadavere che ci ammorba l’esistenza. E rende l’Italia la nazione più infelice in Europa. Esiste una via d’uscita? Il Bestiario ne vede una sola: un governo di tecnici supportato e difeso dai militari. Di tecnici in grado di dar vita a un esecutivo di rinascita nazionale ne abbiamo tanti, a cominciare da Mario Draghi e non soltanto da lui. Quanto ai militari, di certo non sono tutti golpisti. Del resto l’emergenza che rischia di soffocarci sta diventando una malattia cronica che non si guarisce con un colpo di Stato. Non vedo un’altra strada diversa da questa. Ce lo confermano anche le figure e i comportamenti dei signori che oggi ci comandano. I Cinque stelle di Di Maio sono dei dilettanti allo sbaraglio. Per di più il loro numero uno, un signorino super loquace che non ha mai svolto un lavoro in grado di fargli capire come gira il mondo, oggi si accompagna a un personaggio come Alessandro Di Battista, il grottesco Dibba, che passa da una gaffe all’altra. E a sentire Fabrizio Roncone del Corriere della sera sogna di diventare il ministro degli Esteri. E se a Dimartedì il pubblico non lo applaude, si incupisce e diventa nervoso. Confesso che Dibba mi sta sul gozzo. Nel 2016 e 2017 la Rizzoli, il mio editore librario, pubblicò ben due volumi di questo signore: A testa in su. Investire in felicità per non essere sudditi e Meglio liberi. Lettera a mio figlio sul coraggio di cambiare. Il capo della saggistica rizzoliana di quel tempo aveva ben valutato l’inconsistenza del personaggio. Ma alle obiezioni mie e di altri replicava: «Però va forte sui social!». Quante copie abbiano venduto i due titoli nessuno l’ha mai saputo. Per il momento, non risulta che abbia mai scritto un libro l’altro padrone del governo: Matteo Salvini, il capitano della Lega. Ma vedrete che, prima o poi, lo farà. Oggi ha troppi guai da affrontare. Vuole stravincere, sul fronte italiano, le elezioni europee. Vuole diventare il capo del primo partito in casa nostra, a spese dell’alleato grillino. Vuole risolvere senza danni il dilemma della Tav o non Tav. Vuole accrescere la collezione di divise che ama indossare, da travestito provinciale. Vuole comprendere se ha ancora un posto nel cuore della bella Elisa Isoardi, reginetta televisiva della Prova del cuoco. Ecco un altro personaggetto mortifero che, prima o poi, sparirà dai nostri radar. Se andrà in questo modo, che cosa resterà nell’armadio del Bestiario? Un’idea ce l’ho: il lento suicidio della sinistra italica.

Cirino Pomicino: «Cari Tria e Moavero lasciate questo governo del grande imbroglio». Intervista all’ex ministro andreottiano, scrive Simona Musco il 28 Febbraio 2019 su Il Dubbio. Un governo inadeguato, un’opposizione debole, una sinistra che non c’è più. «L’Italia è in declino da ogni punto di vista», dice al Dubbio Paolo Cirino Pomicino, ex parlamentare della Dc. Ma – rilancia – «qualcosa si può ancora recuperare», purché si ricostruisca un’offerta per i moderati, «che sono la maggioranza del Paese». Un’analisi impietosa, quella dell’ex ministro del Bilancio, secondo cui i tecnici del governo dovrebbero fare una scelta: «Imporre la propria linea o andarsene, senza rendersi complici di questo disastro».

Qual è la situazione politica attuale?

«Gli italiani stanno scoprendo il grande imbroglio del Movimento 5 Stelle. Un movimento autoritario, dove c’è quasi un’entità religiosa, che è il giullare Grillo, e con una organizzazione societaria che chiede soldi ai deputati della Repubblica e li comanda in maniera quasi ossessiva. Il capo politico Di Maio è un prodotto del sottobosco napoletano, dove il grande imbroglio vive, cresce, si agita, ma poi viene puntualmente scoperto. La mia non è un’offesa, è un giudizio politico. Dire, dinanzi ai risultati economici che stanno portando l’Italia in recessione, che questo sarà un anno bellissimo, oppure che gli obiettivi che il governo si pone faranno crescere il Paese, è una bugia grande quanto una casa, detta con il linguaggio di un imbroglione, nel tentativo di confondere l’opinione pubblica».

L’imbroglio è stato svelato dalle regionali?

«Le elezioni in Abruzzo e in Sardegna hanno determinato un crollo del M5s che continuerà, perché, come si dice, non si può prendere in giro tutti per tantissimo tempo. Un elemento che caratterizza l’attuale sistema politico è la frantumazione. Le coalizioni sono composte da partiti o partitini che arrivano al 10- 12 per cento, in Sardegna il primo partito è il Pd, con il 13 per cento. Questo è il segnale di una difficoltà dell’intero sistema a ricomporre partiti di massa, come esistono ancora oggi in altri paesi europei».

Da cosa nasce questa difficoltà?

«I partiti non hanno più una cultura di riferimento, sono fortemente personalizzati e privi di democrazia interna. Siamo gli unici a non avere un partito socialista, un partito popolare, un partito dei Verdi, un partito ideologico, liberale o finanche un partito comunista. Non c’è più nessuna delle culture del ‘ 900. Ma non c’è più cultura in generale, questo è il tema per cui ci sono forze centrifughe che frazionano il sistema politico e, naturalmente, creano problemi al sistema governo».

E come può uscire da questa confusione?

«È tempo che i ministri tecnici abbiano la forza culturale e politica di fare una correzione di marcia rispetto alle sciocchezze che l’esecutivo sta portando avanti. Tria oggi ha dato una dimostrazione vera, secca, forte, probabilmente anche avendo alle spalle la saggezza del presidente della Repubblica. Ma non solo lui, anche Moavero Milanesi deve farlo. Non può diventare il sottosegretario di un ministro degli Esteri che di fatto è Salvini o Di Maio. Deve essere lui a imporre la linea, non può assistere in silenzio alla rottura diplomatica con la Francia. Davanti ad un atteggiamento come quello dei mesi scorsi si sarebbe dovuto dimettere. Così come dovrebbero dimettersi tutti gli altri tecnici se non riescono a correggere la direzione di marcia in un Paese che si è messo in una condizione di isolamento internazionale nell’Europa comunitaria, occhieggiando ad un’area grigia e certamente non tradizionale per la storia italiana. Mi riferisco a quel tentativo di prendere le distanze dall’Europa e avvicinarsi alla Russia di Putin. I tecnici, se non vogliono essere complici del disastro, devono assumere una linea nell’ambito delle loro competenze e difenderla fino alle dimissioni. E così è possibile che il governo riprenda un po’ di saggezza».

È questo l’unico problema, l’invasione di campo di Di Maio e Salvini?

«C’è un tema più generale: non c’è una visione di quello che potrà accadere e di quello che bisognerebbe fare, in particolare nell’economia del Paese. Tutta la giornata dei diarchi è costellata dalla propaganda. E in più c’è una cosa che non so se deve inquietare o far ridere: siamo l’unico Paese in cui un ministro si presenta in divisa di Polizia. O è un gioco di ragazzi o è un sentimento profondo che offende. E in questo clima di stagnazione e recessione, l’unica cosa che il governo fa è una commissione d’inchiesta sulle banche. Invece di avviare un confronto sereno e costruttivo con il sistema finanziario italiano e discutere in termini di ammodernamento, efficacia e trasparenza, mette sotto inchiesta un elemento importante della vita economica. È sintomo di irresponsabilità e assenza di visione politica».

Le opposizioni non hanno responsabilità?

«I tre partiti di opposizione devono capire che non si può corteggiare questo tipo di formazioni politiche. Certo, il governo di centrodestra ha alle spalle tenuta democratica e errori, come tutti i governi, ma oggi rischia di assumere una linea profondamente diversa da quella degli ultimi 25 anni. Bisogna essere molto vigili, perché Salvini ha fatto anche qualcosa di positivo, riportando l’attenzione dell’Europa sui problemi dei migranti, però lo ha fatto male e senza aggiungere un’offensiva di persuasione diplomatica amichevole verso gli Stati membri, dedicandosi agli insulti dalla mattina alla sera. Questa non è la caratteristica di un uomo di Stato».

La situazione è irrecuperabile?

«È tutto ancora recuperabile. Ma Forza Italia deve capire che non può continuare a invitare la Lega a rompere con il M5s: deve andare all’opposizione, ma dura, a livello nazionale. E lo stesso deve fare il Pd. Se anche arrivasse al 33 per cento, con chi farebbe l’alleanza? Come farebbe ad essere di nuovo una forza di governo? L’errore antico fu quella della cosiddetta vocazione maggioritaria di veltroniana memoria. Il nostro sistema politico impone coalizioni, con chi potrebbe allearsi per salvare questo paese? I moderati dicono i loro dirigenti, ma chi raccoglie i moderati?»

Cosa manca?

«Un’offerta per i moderati, che sono la maggioranza del Paese. In assenza di questa offerta finiscono per votare Salvini o Forza Italia, prevalentemente Salvini. E manca un partito di sinistra che venga percepito come tale. Intanto l’Italia sta declinando da ogni punto di vista: infrastrutturale, finanziario, sociale, con rotture e odi all’interno della società mai avvenuti prima, perché la coesione sociale è stata sempre l’obiettivo di fondo dell’intero sistema politico italiano fino al 92- 93. Oggi manca lungimiranza e mancano i fondamentali della politica, che sono stati purtroppo smarriti da almeno 25 anni».

Marco Travaglio, il lucido analista che non ha mai perso un'elezione. Le recensioni senza inutili millanterie del giornalista e autore comico Luca Bottura per L'Espresso: ogni settimana la graffiante satira sull'attualità, scrive Luca Bottura il 27 febbraio 2019 su L'Espresso. Marco Travaglio. Lucido analista. Nel suo fondo dopo il cosiddetto voto sulla cosiddetta piattaforma Rousseau, in realtà un blog mal realizzato che è hackerabile da chiunque sia in grado di digitare il pin dello smartphone senza svenire faccia in avanti, il direttore del Giornale dei Giusti ha decretato la morte del MoVimento Cinque Stelle sostenendo che è bastato un anno a farlo infettare dal virus del berlusconismo. Se è concessa una considerazione di segno blandamente critico, la maggioranza degli elettori grillini - a parte qualche nostalgico bertinottiano e diversi esasperati, a pieno titolo, da ciò che resta del Pd - arriva proprio da lì. Gente che non ha mai fatto i conti col Ventennio del presunto Cavaliere così come in tempi appena più antichi nessuno aveva elaborato il doppio decennio alla corte del bungee-jumper di Piazzale Loreto (episodio invero esecrabile). Da Ilvo Diamanti della mutua, diciamo un Ilvo Bigiotteria, mi permetto di sospettare che del fu 30 per cento di Forza Italia si giovino or ora la Lega e i grillini. I quali rappresentano due diverse rappresentazioni di un’antica attitudine italiana: voterebbero anche i nazisti dell’Illinois, ma la sinistra mai. Tanto che per premiarla nelle urne hanno dovuto spaventarsi di finire in bancarotta, affidandosi due volte a un pacioso Dc come Prodi. Che rispetto ai progressisti odierni è comunque un incrocio tra Che Guevara e Renato Curcio. La sinistra ne ha preso atto e nel frattempo si è estinta. Ma accorgersi oggi che l’italiano medio non è che somigli a Berlusconi, è proprio lui, soprattutto se elevato al potere, o quantomeno finge di esserlo finché gli conviene, rasenta la caduta dal pero. Alto da qua a Saturno. Ma in fondo non è colpa sua: non essendo mai stato parte di queste lande tristi e minoritarie, Travaglio non ha mai perso un’elezione. Noi che le abbiamo perse quasi tutte, conosciamo meglio il tema e probabilmente abbiamo le idee più chiare.

Siamo comunisti. Luca De Carolis per il “Fatto quotidiano” il 28 febbraio 2019. È stata la prima capogruppo alla Camera, quella dello streaming con Pier Luigi Bersani in cui nel 2013 respinse così l'offerta di un patto più o meno di governo: "Sono vent' anni che sentiamo queste cose, mi sembra di stare a Ballarò". E sei anni dopo, Roberta Lombardi è capogruppo del M5S in Regione Lazio, governata da quel Nicola Zingaretti che vuole prendere proprio il ruolo che fu di Bersani, quello di segretario del Pd, e che nei primi mesi da governatore si è tenuto a galla anche con i voti dei Cinque Stelle. "Ma solo su punti condivisi" precisa più volte Lombardi, grillina dal 2007, quando il M5S ancora non esisteva.

In questi anni come è cambiato il rapporto tra Movimento e Pd?

«Io parto dalla mia esperienza personale, quindi dallo streaming con Bersani, in cui lui non ci propose di fare un governo assieme, ma di adottare tecniche parlamentari per far nascere un suo esecutivo. Insomma, di far alzare un po' di nostri senatori al momento del voto di fiducia. Un'offerta non proprio irresistibile, anche se oggi sarei più diplomatica».

Ma quel no fu giusto?

«Certamente, e gli anni del renzismo lo hanno dimostrato».

E invece in Regione Lazio?

«In Regione dopo il 4 marzo si era verificata una situazione inedita, con Zingaretti vincitore di un soffio e senza maggioranza in Consiglio. Così provai a fare un discorso al centrosinistra, partendo dal fatto che c'erano diversi punti in comune tra i nostri programmi. Per questo proponemmo al governatore di lavorare assieme su alcuni temi condivisi. E ci siamo riusciti, su ambiente, lavoro e trasparenza».

Qualche esempio?

«È stato avviato un percorso per il piano regionale dei rifiuti, che nelle linee guida recepisce i principi cardine del M5S, dal riciclo al riuso, bandendo il ricorso agli inceneritori. E abbiamo ottenuto sei milioni in tre anni per i lavoratori di imprese in crisi, per permettere loro di creare cooperative e rilevare e rilanciare la loro azienda».

Verrebbe da dire che ha ragione Massimo Cacciari, ossia che il M5S ha molti più punti in comune con il Pd che con la Lega.

«Tra i nostri abbiamo sicuramente più gente con una storia di sinistra che persone vicine alla Lega o al centrodestra. Ma ciò perché sono soprattutto i cittadini di sinistra a essersi sentiti traditi, e che hanno ritrovato certi valori nei nostri programmi, dalla lotta alla povertà alle battaglie per il diritto alla casa».

Si arrenda: nei programmi avete tanti temi di sinistra.

«Non è una bilancia. Gianroberto Casaleggio diceva che non esistono idee di sinistra o di destra, ma che esistono buone o cattive idee».

Sarà. Però ora il M5S di governo si sta schiacciando sulla Lega.

«Bisogna evitare che la paura di far cadere il governo mini l'identità del M5S. E la nostra identità è realizzare buone idee».

Nel contratto di governo quante ce ne sono?

«Molte, sia nostre che della Lega. Ma noi eravamo e restiamo equidistanti. E non dimentichiamo che noi il contratto di governo lo avevamo proposto sia al Pd che al Carroccio».

Però vi siete accordati con Matteo Salvini.

«È falso dire che abbiamo preferito la Lega. L'accordo con il Pd era praticamente chiuso, ma Matteo Renzi lo fece saltare».

Quindi?

«Quindi non si può escludere che un domani il Movimento torni a dialogare con il Pd come è avvenuto nel Lazio, dove Zingaretti ha avuto l'intelligenza di capire che il renzismo era morto, e di assorbire alcuni dei nostri temi».

Però proprio Zingaretti ripete sempre che non si alleerà mai con i 5Stelle. È sincero?

«Non lo so. Ma ogni volta che dice questa frase io la segno sulla mia agendina».

Intanto Luigi Di Maio vuole riorganizzare il M5S. È d'accordo?

«Sì, c'è l'esigenza di farlo. Siamo passati da gruppo di cittadini auto-organizzati a forza di governo. Ma riorganizzazione non vuol dire struttura».

Di Maio vuole creare proprio una struttura, con referenti regionali e una segreteria politica.

«Il capo politico ha giustamente capito che è il metodo a caratterizzare il Movimento. Quindi invece di calare una serie di nomi in conferenza stampa ha aperto un percorso condiviso, con tutti noi.

Quindi, no a una riorganizzazione calata dall' alto?

«Assolutamente no».

Di Maio multa i transfughi ma sorvola sugli scontrini. Rocco Vazzana il 27 Settembre 2019 su Il Dubbio. Tra I parlamentari più distratti, la neo iscritta a Italia Viva, Gelsomina Vono, non presenta rendicontazioni da un anno, ultima scheda consultabile: settembre 2018. Luigi Di Maio, da New York, prova a frenare la potenziale emorragia di deputati e senatori M5S, rispolverando un vecchio cavallo di battaglia: il vincolo di mandato per «mettere fine a questo mercato delle vacche». Ma visto che l’alleato di governo non vuol sentire nemmeno parlare di proposte simili, il capo politico prova a sfoggiare un’altra arma con i potenziali parlamentari grillini in uscita: chiedere un «risarcimento di 100mila euro» ai “traditori”, come previsto dalla clausola di salvaguardia del Movimento sottoscritta da ogni eletto al momento della candidatura. Insomma, Di Maio si appella agli antichi valori pentastellati per contenere le perdite: onestà, fedeltà e trasparenza. Ma a ben guardare, l’ultimo dei tre valori indicati non sembra più rappresentare un dogma per cinquestelle. E non solo perché le assemblee politiche in diretta streaming sono ormai un lontano ricordo, ma perché l’ossessione della chiarezza con i cittadini sembra essere venuta meno. Un esempio? Le rendicontazioni, ovvero le pezze d’appoggio richieste dal partito ai parlamentari sulle spese sostenute nell’esercizio del loro mandato e pubblicate sul sito pentastellato tirendiconto. it. Nonostante da tempo non sia più possibile visualizzare i dettagli dei costi sostenuti da deputati e senatori, l’obbligo alla rendicontazione e alle restituzioni resta, ed è addirittura regolato da un comitato ad hoc composto da Luigi Di Maio, Stefano Patuanelli e Francesco D’Uva. Ma non sembra che l’organismo agisca con solerzia nei confronti dei propri eletti. Se un tempo un ritardo nella presentazione degli scontrini poteva costare l’espulsione ( chiedere all’ex sentarice Serenalla Fucksia) ora il Movimento sembra più disposto a chiudere un occhio. Se il capo politico non rendiconta da maggio ( l’ultimo mese consultabile sul sito è agosto), altri colleghi della composita squadra pentastellata di governo non presentano “ricevute” dal dicembre dello scorso anno. È il caso, ad esempio, di Riccardo Fraccaro, uomo di fiducia di Di Maio, è importantissimo sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Nelle stesse condizioni del sottosegretario è anche il neo ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti: ultima scheda consultabile: dicembre 2018. Fa un po’ meglio la titolare del Lavoro, Nunzia Catalfo, le cui rendicontazioni si interrompono però allo scorso gennaio. Si spingono fino al mese successivo, febbraio, Fabiana Dadone e Manlio Di Stefano, rispettivamente ministra per la Pubblica amministrazione e sottosegretario agli Esteri. Quasi nessun membro del governo si spinge oltre maggio. Fa eccezione solo Lucia Azzolina, sottosegretaria all’Istruzione, le cui spese sono visionabili fino a luglio, penultimo mese consultabile. Dando un’occhiata oltre i confini del governo si scoprono altre dimenticanze eccellenti. Sono più di una trentina, infatti, i parlamentari che non aggiornano il loro profilo dal dicembre dello scorso anno. Tra loro, spicca uno dei senatori più critici nei confronti della gestione Di Maio come Michele Giarrusso. Ma non sono da meno Carla Ruocco, Dalila Nesci. E poi ci sono quelli le cui tracce si perdono da tempo. Il primo nome che salta agli occhi è di Gelsomina Vono, la cui posizione appare ancora tra i parlamentari M5S nonostante abbia appena abbracciato Italia Viva, il Movimento di Matteo Renzi. La multa di 100 mila euro annunciata da Di Maio era proprio riferita a lei, neo transfuga di Palazzo Madama. La senatrice non aggiorna le sue spese da un anno, dal settembre 2018. Allo stesso mese sono fermi altri cinque parlamentari. L’ultima scheda consultabile di Marta Grande risale invece al novembre scorso. Vince la classifica generale. Lello Ciampolillo, senatore da tempo considerato con un piede fuori dal Movimento, che non rendiconta sul sito grillino dal giugno dello scorso anno. Infine, menzione speciale meritano gli zelanti, i portavoce più attenti alla trasparenza, le cui rendicontazioni figurano fino a luglio. In tutto 14 eletti, oltre alla già citata Lucia Azzolina. E anche in questo elenco compaiono nomi noti. Francesco D’Uva, capogruppo grillino alla Camera e Gianluigi Paragone, molto vicino ad Alessandro Di Battista e da molti indicato a capo della fronda anti Di Maio a Palazzo Madama. Un piccolo drappello di virtuosi, in mezzo a tanti parlamentari un po’ distratti.

Tre milioni di euro in pranzi e cene, 10 milioni per gli alloggi. Ecco tutti i rimborsi dei parlamentari 5 Stelle. Ristoranti, appartamenti, alberghi, viaggi e consulenti: costa cara la vita dei deputati e senatori grillini. Nel 2013 dissero che avrebbero restituito i 9 mila euro di diaria mensile e trattenuto solo quello realmente necessario e speso. Ma gli scontrini non ci sono più. Tutto avviene a piè di lista. E da metà 2014 le restituzioni sono crollate, scrive Claudia Fusani, giornalista parlamentare, il 19 febbraio 2018 su Tiscali. Qualcuno lo ricorderà quel disperato post su Facebook. Era aprile 2013, i 5 Stelle erano da poco sbarcati in Parlamento pronti ad aprirlo “come una scatoletta di tonno” (cit.Grillo). Roberta Lombardi, appena nominata capogruppo, denunciò il furto della borsa e la noia immane non solo di rifare i documenti ma di dover ricostruire le spese fin lì sostenute per determinare gli effettivi rimborsi. “Poichè è mia intenzione trattenere dalle voci di rimborso che compongono il mio stipendio solo quelle effettivamente sostenute e documentate e restituire il resto, cosa faccio? Aspetto vostri consigli” scriveva Lombardi.

Il vortice dei numeri. Cinque anni dopo abbiamo Ivan Della Valle, ormai ex per via dei bonifici taroccati con photoshop (ha trattenuto 270 mila euro), che denuncia: “Ho restituito più io di molti altri. Non guardate solo le restituzioni al fondo delle piccole e media imprese. Andate a vedere i rimborsi della diaria, quelli che dovevano restituire con tanto di rendiconto e scontrini…Ecco quasi nessuno ha restituito più nulla. Ed è impossibile spendere 8-9 mila euro al mese”. Molti ex, anche se in tempi diversi, puntano oggi il dito sul tema rimborsi/diaria.  Artini, Barbanti, Turco, sono molti oggi a dire che la vera “ipocrisia” è lì, in quelle spese portate a piè di lista ma senza giustificativi e rimborsate al buio. Ogni mese mille euro di viaggi (quanto i parlamentari hanno treni e aerei gratis), mille e passa euro di ristoranti, gli affitti che variano, un mese 1.400 e quello dopo 2.500 ma poi tornano a 1.700.

Restituzioni & rimborsi. Il caos soldi che da due settimane funesta la campagna elettorale di Di Maio riguarda due diverse tipologie di rimborsi. Ha a che fare con le regole interne del Movimento e non con il codice penale. Con la credibilità e l’affidabilità.  La prima tipologia ha tenuto banco in questi giorni e coinvolge l’indennità di ciascun parlamentare, circa 5 mila euro. La regola interna prevede che ogni eletto – in Parlamento o nei consigli regionali – doni circa duemila euro a un fondo il cui conto corrente è attivo al Ministero economia e finanze. Quindici eletti, è il dato aggiornato a ieri, hanno taroccato i bonifici mensili e simulato di donare soldi che in realtà non sono mai arrivati al Mef. Di Maio li ha espulsi dal Movimento (è ancora sub iudice Giulia Sarti) e promette che, una volta eletti (sono tutti in posizioni sicure) rinunceranno al seggio. Vedremo.

Le spese quotidiane. La seconda tipologia di rimborsi ha a che fare con la diaria, quei 9 mila euro che in media ogni mese vengono dati a ciascun eletto per far fronte alle spese quotidiane del mandato parlamentare. Su questa voce i parlamentari grillini si erano tutti impegnati a ricevere solo i soldi effettivamente utilizzati nell’arco del mese. Avrebbero dovuto far fede gli scontrini, i giustificativi di quelle spese. Adesso però, come dicono molti, emerge che pochi portavoce hanno effettivamente restituito i soldi della diaria. E che alla fine molti si sono tenuti quei 9 mila euro. Giustificandoli a piè di lista. Senza il dettaglio. Esattamente come fanno i parlamentari degli altri partiti che però non rivendicano una presunta diversità.

Tutto on line. Bisogna armarsi di tanta pazienza, mettere in conto qualche ora di tempo e spulciare due siti, tirendiconto.it (attivato dai 5 Stelle dove ciascun parlamentare pubblica le sue spese) e il sito maquantospendi.it che, attivato da ex 5 Stelle, analizza i dati pubblicati. Onore ai 5 Stelle che, unico movimento, fa un’indubbia operazione di trasparenza e rende disponibili i dati. Ma non c’è dubbio che questi dati raccontano una realtà come minimo molto diversa dal francescanesimo politico sbandierato dai 5 Selle. Una realtà che dimostra che fare politica costa. Anche a Di Maio, a Lombardi, a Taverna e Alessandro Di Battista.

Case, consulenze, viaggi. Soprattutto affamati. Da aprile 2013 a novembre 2017, i 130 parlamentari 5s hanno speso in cibo tre milioni e 460 mila euro. E’ la somma di tre voci inserite nella rendicontazione: cene/pranzi lavoro; pranzo/cena/bar; alimentari. Tra i più affamati Mattia Fantinati (46,391.65), Silvia Chimenti (41,649.26) e Danilo Toninelli ( 40,659.80). Praticamente a digiuno Massimiliano Bernini (contestato per le restituzioni) e quasi gandhiani il deputato Luigi Gallo (poco più di 6mila euro di pasti) e Roberta Lombardi. Queste cifre sono giustificate (il documento con la rendicontazione è consultabile nella pagina web di ogni parlamentare) da una serie di scontrini. Ma – attenzione – non esiste specifica: non è scritto da nessuna parte con chi è stata consumata la cena e per quale motivo. Rimborsi a piè di lista, basta presentare ricevute e scontrini. Per tutte le voci rimborsabili, circa venti tra cui consulenze, collaboratori, attività sul territorio, vitto, viaggi, telefono, alloggio.  

Affitti e hotel. Ad esempio, accadono certamente cose strane con gli appartamenti presi in affitto e gli alberghi. Quasi che uno possa dormire contestualmente nella casa presa in affitto e in hotel. Da aprile 2013 a dicembre 2017 i parlamentari grillini hanno speso 10 milioni e 300 mila euro per la voce alloggi. Di questi, 613 mila euro se ne sono andati in hotel e nella top five dei consumers ci sono Enzo Ciampolillo (86.500), Petraroli (60 mila), Federico D’Inca (50 mila) Giulia Grillo. Oltre 9 milioni se ne sono andati in affitti, al netto di romani e dintorni che non dovrebbero aver bisogno della casa in centro a Roma. Anche qui emergono alcune curiosità. La top five vede al primo posto la deputata uscente Marta Grande: ha certificato 131 mila euro di spesa per l’affitto, vive a Civitavecchia, un’ora di treno da Roma e il Parlamento lavora 4 giorni su sette. Segue Barbara Lezzi (120mila euro), Andrea Cioffi (119 mila), Del Grosso e Bianchi (117 mila). Massimiliano Bernini, che però preferiva rientrare a Viterbo tutte le sere, è costato alle casse pubbliche zero euro. Tra le sistemazioni più esose, figurano quelle di Nicola Bianchi (73.601,14), Barbara Lezzi (quasi 67mila euro) e Nicola Morra (61mila), mentre Luigi Di Maio si è limitato a spendere 16mila euro. Il leader Cinque Stelle guida però la classifica delle missioni non ufficiali: 42mila euro in tre anni. E quella della cancelleria: 7mila e 500 euro in penne e matite.

Consulenze. Nella hit delle consulenze (spese complessive per quasi tre milioni e 200 mila), spiccano i 136mila euro di Lello Ciampolillo. Lo stesso che fino a ottobre 2017 ha speso 90mila euro in hotel e 70mila euro di trasporti, di cui quasi 30mila in taxi. Le contraddizioni emergono anche alla voce spese sanitarie. Nel 2017 il deputato Riccardo Fraccaro esultò perché l'assistenza sanitaria dei parlamentari non sarebbe più stata a carico dei contribuenti. Peccato che il mese prima Danilo Toninelli aveva fatto in tempo a farsi restituire 5.480 euro di assicurazione sanitaria integrativa mentre il più morigerato Di Battista ne chiedeva indietro soltanto 90. Dibba si è rifatto con la voce consulenze: 68 mila euro, quasi tutti per questioni legali. Nonostante treni e aerei gratis, i 135 parlamentari 5 Stelle spendono 3 milioni e 400 mila euro per le voci “viaggi e trasporti” dunque auto, carburante, taxi e mezzi pubblici (pochi a giudicare dalla spesa). Nella top ten ci sono Ciampolillo (68 mila), Rizzo e D’Inca (66 mila) e anche Giarrusso, Toninelli, Taverna e Lezzi.  Federico D'Incà, ricandidato dal M5s, ha speso in mobilità 39.772 euro, di cui 32mila per rimborsi chilometrici. Insomma, dopo 5 anni possiamo dire che i 5 Stelle hanno aperto la scatoletta ma il tonno che c’era dentro gli è piaciuto e parecchio, anche.

Gli ex francescani. Dunque, francescani e morigerati i 5 Stelle lo sono stati ma solo per pochissimo tempo. Quello necessario per capire che fare politica costa. Anche per i teorici della decrescita felice. Dicono che c’è stato un momento, nella primavera 2014, in una riunione con Grillo (all’epoca era spesso in Parlamento) in cui i Parlamentari manifestarono le loro perplessità sul meccanismo degli scontrini, complicato ma soprattutto antieconomico per le loro tasche. Da allora i rimborsi sono stati chiesti a forfait e le restituzioni sono quasi del tutto azzerate come dimostrano le schede sul sito tirendiconto.it. Ne prendiamo qualcuna, a caso, tra i parlamentari più noti. Molti sono fermi a settembre 2017. Qualcuno arriva fino a dicembre. Nessuno ha rendicontato per ora, i mesi del 2018.

Dibba fermo a settembre. L’ultimo resoconto di Alessandro Di Battista risale a settembre 2017. Al netto di ritardi nell’aggiornamento del sito, è come se, una volta deciso di non ricandidarsi, il front man grillino avesse smesso di resocontare. Non solo sulla diaria mensile ma anche sull’indennità, e dunque sulla restituzione al Fondo piccole e medie imprese. Comunque Di Battista è tra i più virtuosi. Nel 2017 ha ricevuto una diaria mensile di circa 7.500 euro al mese. Ha restituito qualcosa nei primi quattro mesi (2.800 euro) e poi più nulla. Le voci più costose sono vitto (mille euro al mese), trasporti, attività sul territorio e consulenze. Fino a metà del 2014 restituiva anche 3-4 mila euro al mese. Poi sempre meno fino allo zero degli ultimi mesi.

Michele Giarrusso. Il senatore di Catania è in pari fino a dicembre 2017. Ma in tutto l’anno non ha mai restituito neppure un centesimo della ricca diaria (circa 9 mila euro di media). Trasporti (eppure treni e aerei sono gratis) e vitto le voci più caricate. Va allo stesso modo anche nel 2016. Nel 2015 restituisce fino a luglio.

Il leader politico e il quasi ministro della Giustizia. Luigi di Maio e Alfonso Bonafede sono tra i più virtuosi. Di Maio è in pari fino a dicembre 2017, restituisce poche centinaia di euro tranne che in agosto (1259 euro) e a dicembre (2.052). Gli altri mesi sono 200-300 euro. La voce più costosa per lui sono le attività sul territorio che assorbono 4-5 mila euro al mese. Bonafede è fermo a settembre ma è costante negli anni e restituisce cifre sempre alte, una media di duemila euro al mese.  

Carla Ruocco. Capolista a Roma, non restituisce mai nel 2017, neppure nel 2016 e solo due mesi (gennaio e febbraio) nel 2015. “Attività sul territorio” e un generico “altre spese” le voci più ricorrenti e più impegnative: 66 mila euro, seconda solo a Di Maio che in questi anni ha investito 204 mila nel territorio per costruire il profilo del leader.

La sorella del quasi governatore siciliano. Maria Azzurra Cancelleri spende molto per mangiare, una media di mille euro al mese in ristoranti, circa 50 mila euro in cinque anni. Però è virtuosa e restituisce oltre mille euro ogni mese. Tranne a dicembre 2017, ultimo mese rendicontato quando la restituzione è zero.  

Il candidato alla guida della Farnesina. Manlio Di Stefano riceve una diaria pari a circa 9 mila euro al mese. Restituisce poche centinaia di euro nel 2017, fino al mese maggio: 320 a gennaio, 859 a febbraio, 255 a marzo, 367 in aprile. Anche per lui “vitto” e “attività sul territorio” sono le voci più pesanti: a luglio spende 1774 euro in ristoranti e difficilmente va sotto i mille euro. Nel 2015, a fronte della stessa diaria, restituisce circa mille euro al mese. Da giugno 2016 si limita a 3-400 euro al mese.  Il resto della diaria è tutto rimborsato.

Paola Taverna e Roberta Lombardi. Analogo l’andamento scontrini della senatrice Taverna: fino a giugno 2015 restituisce circa mille euro al mese di una diaria pari a circa 9 mila mensili. Nel 2016 versa fino a metà anno; nel 2017 restituisce solo a febbraio (1534), aprile (2699) e agosto (511). Quello di agosto è uno dei misteri più strani: come è noto il Parlamento è chiuso, la diaria corre ugualmente ma i parlamentari sono in ferie in genere fino alla prima settimana di settembre. Roberta Lombardi spende molto per la voce “collaboratori” (circa seimila euro ogni mese) e questo depone bene perché sono posti di lavoro. Anche la candidata alla guida della regione Lazio restituisce pochi spiccioli nel 2017 (1.400 euro in quattro mesi) e circa quattromila euro nel 2016.

La parabola di Toninelli. Racconta l’andamento standard della maggior parte dei parlamentari: virtuoso nel 2014 con restituzioni mensili fino a duemila euro; nel 2015 la vita del parlamentare costa molta di più e le restituzioni crollano fino ad azzerarsi nel 2016 e nel 2017. Vitto (49 mila), trasporti (45 mila) (e consulenze (43 mila) le voci più onerose.

Barbara Lezzi. Il suo destino è ancora incerto. E’ entrata e uscita due volte dalla black list dell’inchiesta delle Iene che ha riguardato il fronte delle donazioni al fondo delle piccole e medie imprese. Sul fronte diaria/rimborsi, la senatrice segna alcuni record: è seconda in assoluto (rispetto al gruppo) per la spesa in consulenze (105 mila euro in cinque anni) e seconda anche per i costi dell’alloggio (119 mila). Le spese per la casa variano di mese in mese passando da due e tremila euro. E comunque la senatrice restituisce con una certa costanza circa 500 euro al mese. L’arte di fare bella figura con poco.

Laura Castelli. L’economista del gruppo, che si è imposta negli anni anche rispetto a Carla Rocco, ha smesso di restituire nel 2017. Fino al 2016 era stata capace di restituire più di mille euro al mese. E questo nonostante i 43 mila euro spesi per i trasporti, i 24 mila per il vitto e i 36 mila per eventi sul territorio.  I 5 Stelle sono arrivati in Parlamento pronti, come dissero, “ad aprirlo come una scatoletta di tonno”. Poi quel tonno gli è piaciuto e la scatoletta è rimasta vuota.      

Casta a 5 Stelle a Bruxelles: 8 portaborse per ogni deputato. Alla faccia del risparmio. I pentastellati sfruttano al massimo i rimborsi per i collaboratori: quasi 270mila euro al mese, scrive Domenico Di Sanzo, Domenica 10/02/2019, su Il Giornale.  «Ogni portavoce può spendere fino a 21mila euro in contratti. E molti di loro li usano fino all'ultimo euro». Parola di Claudio Messora, blogger ed ex capo della comunicazione del M5s al Parlamento europeo. La dichiarazione è stata concessa a Panorama a gennaio del 2017 e, nonostante l'attuale campagna contro gli sprechi europei, le cose non sono cambiate granché. A Roma, come documentato dal Giornale il 30 gennaio scorso, mentre il Movimento va all'assalto sul taglio del numero e degli stipendi dei parlamentari, prospera la «casta invisibile» dei dipendenti pagati a peso d'oro. E all'Europarlamento i pentastellati non badano a spese per collaborazioni, consulenze e assunzioni di portaborse. Dando fondo, in moltissimi casi, a tutti i soldi pubblici messi a disposizione per pagare gli assistenti. Una cifra che nel 2018 è aumentata: massimo 24.526 euro al mese per ciascun deputato. I compensi di portaborse e collaboratori non sono pubblicati sul sito del Parlamento europeo, ma i numeri delle assunzioni dei grillini sono nella media dei parlamentari degli altri partiti. E molto spesso superiori anche rispetto ad alcuni big dell'emiciclo di Bruxelles. Il gruppo del M5s conta 11 «portavoce» e 85 collaborazioni, 8 portaborse per ogni eurodeputato. «Io ho sempre avuto solo quattro collaboratori - dice al Giornale Marco Affronte, ex parlamentare europeo dei 5s transitato a gennaio 2017 nel gruppo dei Verdi - ma molti miei colleghi del Movimento ne avevano e ne hanno di più». E spiega che è molto difficile restare sotto il budget dei 24.526 euro se, ad esempio, si assumono dieci collaboratori: «Io sono stato sempre sotto, ora ho alzato gli stipendi e arrivo al massimo». Dunque, dice una fonte nel Parlamento Europeo, «la soluzione consiste nell'accontentare più persone possibili, mantenendole però con stipendi bassi e facendo ricorso all'utilizzo di stagisti». Quindi se gli undici parlamentari del Movimento spendessero tutti i fondi disponibili, si arriverebbe a una cifra complessiva di 269.786 euro mensili, che fa tre milioni e 237mila euro all'anno. Di fronte alla ciurma dei portaborse a Cinque Stelle, Affronte non si meraviglia più di tanto: «Il M5s è da molto tempo che si comporta come gli altri, soprattutto in Europa dove c'è sempre stata più libertà e meno controllo da parte della stampa». Così, se alcuni big di Bruxelles come l'ex vicepresidente del Front national Florian Philippot (cinque collaborazioni) o il leghista Mario Borghezio (quattro collaborazioni), non gonfiano troppo gli staff, i grillini dalla squadra più scarna si fermano a sei assistenti. Mentre i campioni sono Piernicola Pedicini e Dario Tamburrano, a quota 12 e 11 collaboratori. Addirittura Antonio Tajani, presidente del Parlamento europeo, non è andato oltre gli otto assistenti personali. Ma nel Movimento non mancano nemmeno gli amici e i trombati. Giuseppe Lomonaco, candidato non eletto alle regionali siciliane del 2012, tra i fondatori del M5s in Sicilia, è assistente accreditato dell'eurodeputato Ignazio Corrao. Fabio Romano, in lizza alle ultime elezioni politiche per la Camera, sfumato il seggio a Montecitorio è tornato a lavorare per Tiziana Beghin (sette collaborazioni all'attivo). Dello staff di Marco Zullo, composto da sette portaborse, fanno parte Andrea Busetto e Alessandro Corazza. Il primo ha collaborato in passato con i gruppi del Pdl e di Ncd, il secondo è stato consigliere regionale in Friuli per l'Italia dei valori di Antonio Di Pietro. Altre coincidenze interessanti si trovano nella categoria dei prestatori di servizi. Tra questi lo storico attivista pentastellato Simone Pennino, collaboratore della Beghin. Secondo l'Espresso, nel 2013 faceva parte, insieme alla cognata e all'autista di Beppe Grillo, di una società straniera che avrebbe dovuto costruire un villaggio in Costarica. Pennino nel 2015 è stato anche uno degli autori dell'inno del M5s «Lo facciamo solo noi». Arcangelo Munciguerra, invece, è sia l'addetto stampa del sottosegretario a Palazzo Chigi Vincenzo Spadafora, fedelissimo di Di Maio, sia consulente dell'eurodeputata Isabella Adinolfi.

M5s: le nomine di parenti, amici, amici degli amici. Anche i grillini in fatto di poltrone, non sono diversi dagli altri partiti. Ecco chi fa carriera. Alla faccia della trasparenza, scrive Antonio Rossitto il 23 gennaio 2017 su Panorama. "Tantissime persone vorrebbero collaborare con noi. E vi promettiamo che faremo del nostro meglio per scegliere persone adeguate all’obiettivo: lavoratori trasparenti, onesti e volenterosi, competenti e puliti" gongolava a marzo del 2013 l’allora capogruppo dei Cinque stelle alla Camera, Roberta Lombardi, di fronte ai 18 mila curriculum che avevano intasato la casella di posta elettronica del movimento. Scegliere i migliori. Rimarcare la diversità dai partiti tradizionali. Quelli con le segreterie politiche piene di amici e amici degli amici. Non è andata così. La rivoluzione pentastellata è rimasta lessicale: portavoce al posto di onorevoli, collaboratori invece che portaborse, cittadini e non galoppini. Ma le logiche di reclutamento in molti casi non sono state dissimili da quelle vituperate. Sodali, parenti, attivisti. Dai palazzi di Bruxelles a quelli romani, passando per le assemblee regionali e i consigli comunali e di quartiere, l’ormai mitologica trasparenza grillina è spesso rimasta solo uno slogan. Come a Roma, dove lo scorso giugno è stata eletta Virginia Raggi. Le ultime polemiche sono divampate qualche giorno prima di Natale per la nomina di Alessandra Manzin, assunta da Linda Meleo, assessore ai Trasporti. Manzin è fidanzata con Dario Adamo, assistente di Rocco Casalino, influente capo della comunicazione dei Cinque stelle in Senato. Simile solfa nelle care, vecchie, circoscrizioni. Il caso più dibattuto è quello di Giovanna Tadonio, moglie di Marcello De Vito, presidente del consiglio comunale di Roma, vicinissimo a Roberta Lombardi. Tadonio è diventata assessore al Personale nel Municipio III. Mario Podeschi, assistente alla comunicazione del deputato Enrico Baroni, è stato nominato vice presidente del Quinto. Veronica Mammì, fidanzata del consigliere comunale Enrico Stefano e già assistente della parlamentare grillina Federica Daga, è diventata assessore alle Politiche sociali nel Settimo. Nell’Undicesimo, la delega all’Ambiente e ai Lavori pubblici è andata a Giacomo Giujusa, consulente dell’onorevole Stefano Vignaroli, compagno della verace senatrice Paola Taverna. Nel Municipio VIII divampano, invece, i caminetti familiari. In consiglio siedono Teresa Leonardi ed Eleonora Chisena: madre e figlia. Sugli stessi banchi ci sono i Morazzano: Giuseppe è il capofamiglia, Luca è il rampollo. Da Roma, i venti del rinnovamento sono arrivati pure a Genzano, a una ventina di chilometri dalla capitale, dove i Cinque stelle hanno trionfato lo scorso giugno. Il nuovo sindaco è Daniele Lorenzon. Che, appena insediato, fa un contratto di collaborazione a Daniela Gabriele, nipote della senatrice Elena Fattori. La replica è perentoria: "Non è una parente in quanto nipote del marito, ergo un’affine". Intimissima è invece Daniela Fattori, sorella della succitata parlamentare pentastellata, eletta in consiglio comunale. Dove siedono anche Elena Mercuri e Luigi Nasoni: moglie e marito. Del resto, però, il M5s è da sempre un affare di famiglia. A partire dai vertici. Davide Casaleggio, dopo la morte del padre Gianroberto, ha preso in mano le redini. Lo stesso leader carismatico, Beppe Grillo, ha creato l’Associazione movimento cinque stelle, che controlla il partito, seguendo uguali logiche. Presidente è il comico. Suo vice è il nipote: il brillante avvocato Enrico Grillo. Segretario è il suo commercialista Enrico Maria Nadasi. Che, poco più di un anno fa è stato nominato nel cda della Filse, la finanziaria della regione Liguria, su indicazione dei Cinque stelle. Dunque: Grillo, il nipote e il commercialista detengono blog e associazione. Il cui scopo è quello di determinare la politica nazionale "attraverso la presentazione alle elezioni di candidati e liste indicati secondo le procedure di diretta partecipazione attuate attraverso la rete". È successo anche in Europa. Gli eletti erano 17. Ma, dopo il pasticcio del tentato passaggio nel gruppo dell’Alde, due onorevoli hanno abbandonato il M5s: Marco Affronte e Marco Zanni. Gli eurodeputati pentastellati sono dunque rimasti in 15. Ognuno dotato, salvo rare eccezioni, di un plotone ministeriale di assistenti. Come David Borrelli, contestato per aver perorato il mancato accordo con i liberali di Guy Verhofstadt. Tra assistenti accreditati e locali, prestatori di servizi, terzi erogatori e tirocinanti per l’onorevole vicinissimo a Casaleggio lavorano 12 persone.  In totale, rivela il sito del Parlamento di Bruxelles, i 15 eurodeputati grillini hanno 103 collaboratori: una media di sette persone a testa. Così fan tutti del resto. Il blogger Claudio Messora, capo della comunicazione del movimento a Bruxelles fino al novembre 2014, spiega: "Ogni portavoce può spendere fino a 21 mila euro in contratti. E molti di loro, a dispetto dei proclami contro l’uso di fondi pubblici, li usano fino all’ultimo euro". Di certo, il numero degli assistenti è nutrito. Ex attivisti, candidati o dipendenti vengono recuperati e compensati con una poltroncina. L’eurodeputato Ignazio Corrao, già assistente all’Assemblea regionale siciliana, attivissimo e votatissimo, ha nel suo staff diversi volti noti del grillismo isolano. Come Giuseppe Lo Monaco, già in corsa alle regionali e fondatore dell’Associazione M5S Sicilia. Oppure Luigi Sunseri, militante dal 2010, candidato a sindaco di Termini Imerese, nel Palermitano, a luglio 2014. E anche Adriano Varrica: fondatore del meetup di Palermo, già collaboratore parlamentare, ha appena ritirato la sua candidatura dalle «comunarie» che sceglieranno il prossimo candidato sindaco del capoluogo siciliano. Nello staff dell’europarlamentare genovese Tiziana Beghin ha invece trovato spazio uno storico pentastellato: Simone Pennino. L’Espresso, a marzo del 2013, rivelò che il suo nome compariva accanto a quello di Walter Vezzoli, autista di Grillo, e della cognata del comico, Nadereh Tadjik, in una società estera che avrebbe dovuto costruire un "ecovillaggio" in Costarica. Le nomine di assistenti e collaboratori sono spesso avversate dalla stessa base. Spese ne ha fatto pure l’eurodeputato Marco Zullo. Le critiche per la scelta dei suoi collaboratori sono finite sul Messaggero Veneto per la scarsa pubblicità nelle selezioni. Del suo staff fa parte Andrea Busetto, ex collaboratore del Pdl e dell’Ncd. Poi Francesco Vanin, candidato senza successo alle regionali in Friuli-Venezia Giulia. E Alessandro Corazza, di Pordenone, già consigliere regionale dell’Italia dei Valori. Anche a Palazzo Madama e Montecitorio molte nomine sono state contestate. Giuseppe Rondelli è collaboratore della senatrice Vilma Moronese. Ed è pure il suo compagno. Un’altra pentastellata a Palazzo Madama, Barbara Lezzi, aveva assunto come portavoce Libera Zaminga, figlia del compagno. Le successive polemiche l’hanno però costretta alla retromarcia. La moglie del deputato Emanuele Cozzolino, Maria Grazia Sanginiti, è assessore all’Ecologia a Mira, nel Veneziano, uno dei primi comuni a guida grillina. Anche qui, come a Roma e dintorni, in consiglio comunale siedono un marito e una moglie pentastellati: Allen Biasiotto ed Elisa Marchiori. In Parlamento, invece, le tribù familiari si sono progressivamente sfaldate. La senatrice Ivana Simeoni resta l’amorevole madre del deputato Cristian Iannuzzi. Solo che, espulsi dal movimento a gennaio del 2015 per le loro critiche a Grillo e Casaleggio, adesso sono iscritti al Misto. S’è trasferita nello stesso gruppo pure Cristina De Pietro, sorella di Stefano, consigliere comunale di Genova. Uguale percorso ha fatto Laura Bignami. A ruota, sono seguite le dimissioni del marito, Giampaolo Sablich, ex leader dei grillini in consiglio comunale a Busto Arsizio, nel Varesotto. Anche Giovanna Mangili, moglie di Walter Mio, capogruppo dei Cinque Stelle a Cesano Maderno, in Brianza, viene eletta in Senato. Ma le critiche al presunto attivismo del marito la spingono poi a rassegnare le dimissioni da Palazzo Madama. Alla Camera, invece, siede Azzurra Cancelleri, sorella di Giancarlo, deputato dell’Assemblea regionale siciliana, candidato governatore in pectore. Nell’isola, l’altro astro nascente è il sindaco di Ragusa: Federico Piccitto. Lo scorso settembre Grillo, durante il raduno nazionale dei Cinque stelle a Palermo, l’ha definito bravo come Chiara Appendino, pluridecorato primo cittadino di Torino. Eppure anche Piccitto è scivolato su presupposti favoritismi. A dicembre del 2015 s’è dimessa dalla sua giunta Stefania Campo, assessore alla Cultura. S’era scoperto che il marito era stato assunto da una cooperativa che gestisce l’acqua per conto del Comune. Il programma di Piccitto, come da manuale pentastellato, prometteva: partecipazione al solito bando telematico e assessori scelti in base al curriculum. Ma, eletto a giugno 2013, dopo meno di un anno il sindaco manda a casa tre dei sei selezionati. E, come nuovo assessore al nevralgico Ambiente, chiama Antonio Zanotto, già in corsa nel M5S alle ultime Europee. Prima del Natale del 2016, l’ultima disputa: alla Ragioneria del comune viene chiamata Giuliana Raniolo, attuale assessore al Bilancio di Grammichele, nel Catanese, quaranta chilometri a nord: un altro comune amministrato dai grillini. E poi c’è Antonio Calogero Bevilacqua, 28 anni: occhialini da intellettuale, volto pulito e modi garbati. Candidato dal M5s, a giugno del 2015 è eletto sindaco di Pietraperzia, in provincia di Enna. "In famiglia leggiamo quattro quotidiani al giorno" spiegò in un’intervista alla Sicilia. Ed eccola, la famiglia. Il nonno, Calogero, già sindaco del paesino. Il padre, Salvatore, ex presidente del consiglio provinciale di Enna. Il fratello, Filippo, consigliere comunale dei Cinque stelle. Li chiamano già i Kennedy di Pietraperzia.

Il capo staff di Toninelli adesso guadagna il triplo. La carriera di Marzulli, da ricercatore universitario a responsabile della segreteria delle Infrastrutture, scrive Pasquale Napolitano, Lunedì 23/07/2018, su Il Giornale. Il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Danilo Toninelli «premia» un ex consulente parlamentare del M5s. Il 14 giugno 2018, due settimane dopo il giuramento al Quirinale, il ministro grillino ha affidato l'incarico di responsabile della segreteria a Gaetano Marzulli che dal 2015 è un collaboratore parlamentare del gruppo pentastellato in Senato e alla Camera dei Deputati. Originario di Bari, Marzulli, laureato in Scienze Giuridiche, avrà sia l'incarico di segretario particolare che di responsabile della segreteria al dicastero dei Trasporti. Non c'è infatti la distinzione tra le due poltrone. A differenza della collega, Assunta Montanino, assunta dal vicepremier Luigi di Maio al Mise e al ministero del Lavoro, Toninelli ha imposto al proprio assistente di pubblicare subito il curriculum. Prima di essere folgorato lungo la strada del grillismo, Marzulli aveva intrapreso la carriera universitaria nella propria città, Bari. Nella Facoltà di Giurisprudenza dell'Università «Aldo Moro», il segretario particolare del ministro delle Infrastrutture ha svolto un dottorato di ricerca, dal 2008 al 2011, e poi è stato cultore della materia di diritto dal 2012 al 2014: un'esperienza sicuramente formativa ma che ha lasciato un brutto ricordo. Nel 2015 il nome del segretario particolare del ministro Toninelli spunta in un'inchiesta della Procura di Bari su uno scandalo all'interno dell'Università. I pubblici ministeri baresi, Renato Nitti e Luciana Silvestris, accendono i riflettori sul presunto utilizzo privato dei fondi pubblici (Prin) destinati agli Atenei. Al centro dell'inchiesta finisce la professoressa Marina Calamo Specchia, all'epoca dei fatti docente ordinario di Diritto pubblico comparato a Giurisprudenza, che viene indagata per peculato, falso, abuso d'ufficio e truffa. Tra gli indagati, oltre alla docente e al marito, c'è anche il nome del segretario di Toninelli e di altri ricercatori universitari. L'inchiesta ha dato vita a un processo che è ancora in corso mentre la posizione di Marzulli è stata stralciata già in fase di indagine preliminare. Solo un incidente di percorso, dunque, nella carriera di un avvocato dalla condotta limpida e specchiata. Accantonato il sogno di diventare professore universitario, Marzulli si è dedicato all'attività parlamentare come consulente dei grillini a Palazzo Madama e alla commissione Affari costituzionali della Camera. Prima del balzo di carriera con la chiamata nello staff di Toninelli. Con l'approdo al ministero guadagnerà almeno il triplo dei suoi ex colleghi ricercatori universitari. Il compenso è chiarito nell'atto di nomina e oscillerà tra i 60 e gli 80mila euro l'anno, agganciandosi ai parametri fissati nell'articolo 7 del decreto del Presidente della Repubblica n. 212 del 2008. C'è però un giallo sul compenso: Marzulli avrà - come è spiegato nell'atto di nomina - in attesa del decreto ufficiale il trattamento economico previsto per il Capo della segreteria del ministro delle infrastrutture. Ai tempi del governo Gentiloni e Renzi, Umberto Spadoni, capo della segreteria del ministro Graziano Delrio percepiva un compenso di 110.917,34 l'anno. Il successore Marzulli guadagnerà un po' meno. Ma sicuramente avrà uno stile di vita più agiato rispetto ai tempi in cui trascorreva le giornate con gli studenti all'Università.

Luigi Di Maio promuove e dà l'aumento al suo amico dei tweet omofobi e sessisti. Alcuni mesi fa L'Espresso rivelò i messaggi vergognosi dell'ex collega di Università del ministro, piazzato allo Sviluppo Economico. Esposito, nonostante le polemiche non si dimise. E ora, calmate le acque, ha ottenuto un avanzamento di grado (e di stipendio), scrive Mauro Munafò il 26 febbraio 2019 su L'Espresso. "Non c'è modo migliorare di onorare le donne che mettere una mignotta in quota rosa", "In un Paese serio Vladimir Luxuria andrebbe in galera e non in Parlamento", "Con le quote rosa al Governo almeno le togliamo dalla strada". È una selezione dei tweet omofobi e sessisti prodotti tra il 2013 e il 2014 da Enrico Esposito, rivelati dall'Espresso lo scorso ottobre, poco dopo la decisione del ministro dello Sviluppo Economico Luigi Di Maio di nominare proprio Esposito vice capo dell'Ufficio Legislativo del suo ministero. Ex collega di Università di Di Maio, Esposito è stato assunto negli uffici di diretta collaborazione del ministro il luglio scorso ottenendo, per il suo lavoro, un contratto di un anno con un emolumento di 65mila euro. La notizia dei suoi tweet omofobi aveva però scatenato le polemiche di stampa e opposizione: l'onorevole di Forza Italia Michaela Biancofiore, nominata in uno di questi tweet, annunciò l'intenzione di querelare Esposito, mentre molti esponenti del Pd chiesero le dimissioni dello staffista del ministro e le scuse di Di Maio. Non è arrivata nessuna delle due cose. Esposito, dopo la pubblicazione dell'articolo dell'Espresso, decise di replicare via social sostenendo di essere "vittima della macchina del fango" e affermando di non aver scritto lui quei tweet ma un suo "alter ego" razzista, omofobo e sessista che aveva creato per un programma radiofonico e chiamato "Gianni il Riccone". Una replica che si dimostrò fallace e smentita dalla comparsa di nuovi commenti sui social caratterizzati dagli stessi toni. Fine della storia? Tutt'altro. Spenti i riflettori e una volta essere riuscito a evitare dimissioni o scuse pubbliche, Di Maio ha deciso di premiare il suo amico Esposito, promuovendolo e aumentandogli lo stipendio. Sì, perché dal 22 gennaio scorso Enrico Esposito è capo (e non più vice capo) dell'Ufficio legislativo del ministero dello Sviluppo Economico. Una qualifica che arriva dopo le dimissioni del precedente dirigente dell'ufficio e che permette a Esposito di essere promosso dopo appena 5 mesi dalla sua assunzione. Non solo: il suo precedente contratto aveva durata annuale: quello nuovo invece si estende per tutta la durata del mandato governativo. Con il nuovo ruolo arriva poi anche un aumento. Il nuovo stipendio di Enrico Esposito risulta ancora in fase di definizione dai documenti del ministero. Ma con ogni probabilità il ritocco verso l'alto sarà assai cospicuo: secondo la legge infatti il capo dell'ufficio legislativo può guadagnare quanto un "dirigente generale", ovvero circa 150mila euro l'anno. Si tratterebbe di uno stipendio più che raddoppiato. Forse il nome "Gianni il Riccone" era una profezia.

Diffamò Fassino su Facebook: Laura Castelli, sottosegretaria M5s all'Economia, a processo con 18 followers. Laura Castelli (Cinque Stelle), sottosegretaria all'Economia. Il post, seguito da decine di commenti volgari, insinuava intrecci politici, economici e sentimentali tra l'allora sindaco di Torino e una candidata Pd, scrive Ottavia Giustetti il 31 gennaio 2019 su L'Espresso. "Che legami ci sono tra i due?" la domanda era tendenziosa, sotto la foto di una giovane abbracciata a Piero Fassino, e corredata dalla pacifica insinuazione: "Fassino dà un appalto per il bar del tribunale a un'azienda fallita tre volte, che si occupa di aree verdi, con un ribasso sospetto. La procura indaga. Fassino candida la barista nelle sue liste. Quantomeno inopportuno... che ne dite?". Era il 7 maggio 2016: Piero Fassino, in piena campagna elettorale per la rielezione a sindaco di Torino, e Laura Castelli, l'autrice del post, era deputata del Movimento 5 stelle. La sorridente protagonista dell'immagine, scattata accanto al sindaco e tagliata ad arte per escludere il resto del gruppo, era Lidia Lorena Roscaneanu, romena di 31 anni, candidata con il Pd alla Circoscrizione 3 del capoluogo piemontese. Per quel post Laura Castelli, oggi sottosegretaria all'Economia, finisce a processo con l'accusa di diffamazione aggravata. E con lei altri 18 membri della sua comunità di riferimento (quelli che gli inquirenti sono riusciti a individuare come persone reali) che hanno risposto a ruota al messaggio della deputata con un diluvio di insulti pesantissimi il cui tenore era: "sono dei delinquenti ", "basta aprire le gambe" , solo per citare i meno volgari. Lidia Lorena Roscaneanu, assistita dall'avvocato Gianluca Orlando, ha denunciato il fatto in procura, e il pm Barbara Badellino è arrivata solo oggi, dopo due anni, alla citazione diretta a giudizio, perché il gip Paola Boemio ha respinto la sua richiesta di archiviazione e ha disposto per Castelli l'imputazione coatta. L'identificazione di tutti i commentatori, poi, non è stata impresa semplice, e di quaranta che avevano messo anche solo un like ne sono stati individuati diciotto: gli altri erano profili fake non riconducibili a persone reali. La procura inizialmente aveva raccolto le giustificazioni portate dalla deputata: dopo aver cancellato il post dal proprio profilo, Castelli sosteneva di aver esercitato legittimamente il proprio diritto di critica politica, e soprattutto di non essere responsabile dei commenti volgari lanciati in coda dagli "amici". Durissima, invece, la giudice che nella sua imputazione coatta ha accolto l'opposizione dell'avvocato di Roscaneanu e ha scritto: "Il post pubblicato dalla Castelli, tra l'altro in qualità di parlamentare (tale da costituire agli occhi dei più non tanto la titolare del diritto di critica politica quanto una fonte privilegiata di notizie politiche) e con modalità leggibili a ogni utente, è dolosamente diffamatorio nei confronti della Roscaneanu". Non importa se la notizia dell'inchiesta sull'appalto del bar fosse autentica e neppure che la candidata Pd avesse lavorato davvero in quel bar. "Il post che esordisce con un eloquente 'che legami ci sono tra i due?' - scrive ancora il giudice - e che è accompagnato da una foto, manipolata ad arte, volta a sostenere un legame sentimentale tra i due, violando tutti e tre i canoni della veridicità, dell'interesse pubblico e della continenza, sposta illecitamente quella che vuole sembrare una innocua critica politica sul piano personale" . Ne è dimostrazione il fatto che la provocazione viene colta a piene mani dal popolo del web e che alcuni dei commentatori pubblicano post a dir poco volgari.

Torino, estorsione alla sindaca Appendino: indagato l'ex portavoce Pasquaretta, voleva un nuovo posto di lavoro. Gravissime accuse per l'ex braccio destro della prima cittadina 5 Stelle: dopo la sua uscita, avvenuta in seguito all'inchiesta su una falsa consulenza, minacciava rivelazioni compromettenti. Ora è l'assistente della viceministra M5s Laura Castelli, scrive Ottavia Giustetti l'1 febbraio 2019 su La Repubblica. Un ricatto a Chiara Appendino da parte del suo ex fidato braccio destro: un "affaire" che rischia di trasformarsi in una bufera su tutta l'amministrazione a 5 Stelle torinese. Nuovi guai per l’ex portavoce della sindaca, Luca Pasquaretta, cui i carabinieri della procura di Torino oggi hanno perquisito l’abitazione e sequestrato computer e cellulare, notificandogli un avviso di garanzia con accuse pesantissime di estorsione, traffico di influenze illecite e turbativa d’asta. I fatti che gli vengono contestati sarebbero avvenuti dopo che Pasquaretta ha dato l’addio agli uffici di Palazzo Civico perché travolto dallo scandalo di una consulenza da 5mila euro per una prestazione inesistente alla Fondazione del Salone del Libro. Il pm Gianfranco Colace ha proseguito le indagini sul suo conto e nell’inchiesta è spuntata una nuova grave accusa: Pasquaretta, dopo la sua uscita, avrebbe ricattato proprio la sindaca Chiara Appendino, ora parte lesa nell'inchiesta, minacciando rivelazioni compromettenti se non lo avesse aiutato a trovare un nuovo incarico. I carabinieri vogliono capire se l'estorsione sia andata a buon fine. Oggi Luca Pasquaretta ha un incarico come assistente della viceministra dell’Economia, Laura Castelli, esponente torinese del Movimento 5 Stelle, appena rinviata a giudizio per diffamazione, con altre 18 persone, per ingiurie su Facebook all'ex sindaco Fassino. Gli investigatori hanno acquisito anche tutta la documentazione relativa a questo nuovo compito assegnato a Pasquaretta. Nell'inchiesta sull'estorsione alla sindaca Appendino è stato anche ascoltato dal pm, come persona informata dei fatti, l'assessore torinese al Commercio, Alberto Sacco. L'ex portavoce, che ai tempi del lavoro fianco a fianco con Appendino si era guadagnato il soprannome di "pitbull", risulta indagato anche per apertura abusiva di luoghi di spettacolo e invasione di terreni, a proposito della sistemazione a Parco Dora, nella periferia torinese, di un maxischermo in occasione della finale di Champions League Juventus-Real Madrid, la stessa sera della tragedia di piazza San Carlo.

La metamorfosi del "Pitbull" di Appendino: da portavoce a ricattatore della sindaca. Il suo peso è aumentato quando è caduto l'altro angelo custode: Paolo Giordana, scrive Diego Longhin l'1 febbraio 2019 su La Repubblica. C'è una foto che li ritrae sorridenti tutti e tre in galleria San Federico, nel pieno cuore di Torino. In mezzo la sindaca 5 Stelle Chiara Appendino, ai lati i due angeli custodi: a destra Paolo Giordana, capo di gabinetto, e a sinistra Luca Pasquaretta, il portavoce. Davvero un'immagine da album dei ricordi. Soprattutto ora che Pasquaretta è indagato per estorsione nei confronti della sindaca. Già prima dell'uscita di scena di Giordana, Pasquaretta, 41 anni, nominato capo ufficio stampa a luglio 2016, aveva preso sempre più spazio, togliendo la terra sotto i piedi dello stesso ex capo di gabinetto. Era stato proprio Giordana, il "Rasputin" di Appendino a sceglierlo a poco più di due mesi dal voto. E la sindaca d'accordo. "Il mio pitbull", lo definiva Appendino, sottolineando il carattere da mastino di Pasquaretta. Ora lo ha scoperto a sue spese. Uscito di scena Giordana, lui aveva aumentato il suo potere a Palazzo di Città: non si occupava solo dei rapporti con i media e con i giornalisti, ma provava a imbastire trattative politiche, cercava di fare da mediatore e teneva i contatti. Tanto che lo stesso Pasquaretta, quando è stato ascoltato dai magistrati proprio sulle vicende di piazza San Carlo, forse per mutuare le affettuose parole di Chiara Appendino, si è definito come "il bodyguard" della sindaca. Come ama spesso raccontare è arrivato da Forenza, in Basilicata, a Torino non solo per fare l'università - Economia e commercio - ma per seguire la "sua" Juve. Una malattia trasformata in lavoro. Pasquaretta, prima di sposare la causa di Appendino, ha seguito i bianconeri per diverse testate: Messaggero, Secolo XIX, Nazione, il Giorno e Resto del Carlino. La Juve con cui Appendino ha buoni rapporti e dove ha lavorato prima di passare all'azienda del marito e incrociare la politica. Quello di corrispondente sportivo non era l'unico lavoro di Pasquaretta. Ha fatto l'addetto stampa per locali, alberghi e anche per la fiera a luci rosse "Torino Erotica". Molte le comparsate nelle tivù locali, sempre in trasmissioni di calcio. Una di queste gli è costata una polemica senza fine con la tifoseria napoletana, apostrofata in malo modo. Al contrario di Giordana, Pasquaretta non è stato liquidato dalla sindaca e dalla maggioranza nel giro di poche ore, ma alla fine lo scandalo della falsa consulenza per il Salone del libro ha convinto Appendino a rinunciare a lui.

Chiara e Virginia, le sindache inguaiate dagli "uomini neri". Dopo Marra a Roma, l'ex portavoce di Appendino indagato per estorsione a lei e licenziato dal governo, scrive Domenico Di Sanzo, Domenica 03/02/2019, su Il Giornale. Sono gli «uomini neri» che imbarazzano le donne del Movimento Cinque Stelle. A Roma come a Torino. Il caso di ieri riguarda Luca Pasquaretta, ex portavoce di Chiara Appendino, indagato dalla Procura del capoluogo piemontese per estorsione ai danni della sindaca, traffico di influenza illecita e turbativa d'asta, ora cacciato dallo staff del viceministro dell'Economia Laura Castelli, per la quale si occupava di comunicazione dopo il licenziamento da Palazzo Civico. Sotto la Mole, a maggio, era caduto l'altro «guardaspalle» di Appendino, il capo di gabinetto Paolo Giordana, indagato per il disastro di Piazza San Carlo e nell'occhio del ciclone per aver chiesto di togliere una multa a un amico. Pasquaretta «il pitbull» e Giordana «Richelieu» come i «quattro amici al bar» del Campidoglio. Personaggi spesso scelti al di fuori del Movimento, in virtù di rapporti personali e circoli trasversali che, secondo i puristi del grillismo, avrebbero infiltrato i pentastellati. A Roma il concetto lo aveva espresso chiaramente l'ex deputata Cinque Stelle Roberta Lombardi, ora capogruppo al consiglio regionale del Lazio. «Il virus che ha infettato il Movimento» secondo la Lombardi era Raffaele Marra, dirigente del Comune sotto varie giunte capitoline, infine assurto a ruolo di «braccio destro» della Raggi. Il 16 dicembre del 2016 Marra viene arrestato con l'accusa di corruzione nell'ambito del processo sulla compravendita delle case Enasarco insieme al discusso immobiliarista romano Sergio Scarpellini. In un altro processo, quello sulle nomine, Marra viene indagato per abuso d'ufficio in relazione alla nomina di suo fratello Renato al vertice del Dipartimento del turismo del Campidoglio. Nello stesso procedimento è coinvolta Virginia Raggi, accusata di falso in atto pubblico e assolta a novembre scorso. E fuori dal M5s è stato pescato anche Luca Pasquaretta. Giornalista pubblicista di 41 anni, nato a Forenza, in Basilicata, e trapiantato a Torino durante il periodo universitario. Alla fine non si è mai laureato, ma in compenso ha cominciato a seguire la Juventus, il club bianconero dove per un periodo ha lavorato Appendino, per svariati quotidiani, tra cui Il Messaggero e Il Secolo XIX. Prima di approdare al Comune, Pasquaretta ha fatto molti lavori tra cui l'addetto stampa per la fiera «Torino Erotica» ed è stato direttore di una rivista sul mondo dell'erotismo, tant'è che qualche collega aveva cominciato a chiamarlo, più o meno simpaticamente, «direttore». Poi è diventato il «pitbull» o «bodyguard» che non si separava mai dalla sua sindaca. Una storia finita con l'uscita di scena di Pasquaretta da Palazzo Civico, ad agosto, dopo l'inchiesta sulla dubbia consulenza del giornalista al Salone del Libro di Torino. Subito dopo, secondo la procura, ci sarebbe stato il presunto ricatto ai danni di Appendino per costringerla a trovargli una nuova sistemazione lavorativa. Arrivata con l'incarico a Roma nello staff della Castelli e con una consulenza a Bruxelles per l'europarlamentare di Alessandria Tiziana Beghin. Il «virus» dei manovratori esterni non vuole staccarsi dal M5s.

Casaleggio in soccorso dell'ex portavoce indagato per estorsione. Pasquaretta scaricato anche da Di Maio cerca uno stipendio nell'azienda del guru, scrive Domenico Di Sanzo, Lunedì 04/02/2019, su Il Giornale. Scoppiata la bomba dell'inchiesta della Procura di Torino sulla presunta estorsione dell'ex portavoce Luca Pasquaretta ai danni della sindaca Chiara Appendino, in città sono cominciate a circolare domande, voci, rumors sul prossimo approdo professionale del giornalista. Se Luigi Di Maio, da Roma, non ha preso affatto bene la notizia del processo torinese, e ha chiesto informazioni su possibili altri indagati grillini nel procedimento, lo stesso Pasquaretta sembra non voler abbandonare il carro del M5s. Dopo le dimissioni dallo Staff di Appendino, l'ex capo Ufficio Stampa a Palazzo Civico aveva trovato una sistemazione nella squadra di Laura Castelli, sottosegretario al Mef, da cui è stato appena scaricato. In più aveva incassato una consulenza dall'europarlamentare alessandrina Tiziana Beghin e, non contento, è riuscito ad ottenere un incarico al Consorzio di Bonifica della Basilicata, la sua regione di origine. Indagato per turbativa d'asta anche in riferimento a questa ultima vicenda, per Pasquaretta ora la strada sembra davvero in salita. Restano le intercettazioni in cui minaccia di andare in Procura e «raccontare tutto» per «far venire giù Palazzo Civico». E alcuni consiglieri comunali grillini parlano della consuetudine dell'ex portavoce nell'uso di un linguaggio duro e colorito. Una volta calmata la bufera e abbassata l'attenzione mediatica, si vocifera che al giornalista lucano rimarrebbe ormai una sola carta da giocare: una collaborazione con la Casaleggio Associati. Il percorso, al momento, è disseminato di ostacoli, perché i maggiorenti pentastellati sono molto infastiditi dall'ennesima inchiesta che mette in difficoltà un'amministrazione a Cinque Stelle. Ma resta comunque l'ultima opportunità per rimanere agganciati al carro del grillismo di governo. Pasquaretta, nei mesi scorsi, e durante il suo periodo alla corte di Chiara Appendino, si sarebbe recato spesso a Milano nei vecchi uffici di via Gerolamo Morone numero 6, allora sede dell'azienda guidata da Davide Casaleggio. E, oltre al figlio del fondatore, vanta la conoscenza di Pietro Dettori, ex dipendente della Casaleggio Associati, adesso a Palazzo Chigi con Luigi Di Maio. Proprio un ruolo simile a quello svolto da Dettori a Milano, social media manager e curatore dei post del Blog di Grillo (ora Blog delle Stelle), sarebbe compatibile con il curriculum e l'esperienza da comunicatore accumulata da Pasquaretta negli ultimi anni. L'ipotesi di una «riparazione» del portavoce sotto l'ombrello aziendale di Casaleggio Jr. era circolata anche ad agosto, subito dopo l'allontanamento dall'Ufficio Stampa del Comune di Torino. Ma poi era arrivata la sistemazione al Mef a fianco della torinese Laura Castelli. In città i grillini sussurrano che le porte degli uffici di Milano sarebbero aperte, così come lo erano l'estate scorsa. Anche se attualmente bisogna fare i conti con un forte imbarazzo dello stato maggiore del Movimento nei confronti dell'ex giornalista sportivo. Ma magari ci penserà il tempo a rimettere tutto a posto.

Paragone a processo per istigazione. Il senatore incitò i detenuti a "fare la festa" al "giustiziere dei disabili", scrive Fabrizio Boschi, Venerdì 18/01/2019, su "Il Giornale". A conti fatti avrebbe fatto meglio a fare il giornalista e basta. Ma si sa, cambiare casacca paga, e Gianluigi Paragone (nel tondo) lo sa bene. Ha sempre saputo intercettare i carri dei vincitori per poi salirci al volo, per cui non gli è parso il vero, lui ex leghista convinto, di buttarsi tra le braccia dei Cinque stelle. E da quando i grillini lo hanno piazzato al Senato vola a mezzo metro da terra, libero di dire e fare quello che gli pare. Un atteggiamento che il giornalista varesino ha sempre tenuto, ma che adesso gli costa un processo per una performance degna del suo sconfinato ego. Un video che Paragone e Gilberto Penza di Radio 105 pubblicarono su Youtube il 18 luglio 2016 e nel quale esprimevano, pur senza far nomi, giudizi su una vicenda ben nota alle cronache di quel periodo. Un episodio per il quale i due giornalisti auspicavano che fossero i detenuti delle carceri sarde a fare giustizia: «Questa è gente di m..., non si può parlare di bullismo, devono finire in carcere e stare sette anni. E quando sono dentro in carcere devono fare la mamma di qualcuno, per chi capisce il gergo». L'episodio in questione è quello di un ventinovenne di Sassari condannato per lesioni e diffamazione nei riguardi di un 37enne con problemi psichici aggredito a San Teodoro-Olbia Tempio, al termine di una festa, nel luglio 2016. Il ragazzo, che ai tempi dei fatti aveva 27 anni, venne arrestato dai carabinieri e sottoposto a due mesi di custodia cautelare in carcere eseguita in isolamento, secondo il suo legale, «per i pericoli rappresentati dagli altri carcerati aizzati da un clima d'odio mediatico». Compreso quello istigato da Paragone e il suo amichetto della radio. Il giovane passò un mese all'interno del carcere di massima sicurezza Badu 'e Carros, e un mese, sempre in isolamento a Uta, la casa circondariale Ettore Scalas di Cagliari. Una vicenda che arrivò sulle cronache nazionali, soprattutto per il video che vedeva l'aggressore, con un braccio al collo, colpire la vittima affetta da disturbi mentali. I giornali locali si occuparono del caso dopo l'arresto del giovane. Il caso arrivò poi su Facebook e su di esso intervenne anche l'allora ministro Maria Elena Boschi. Adesso, il giudice monocratico di Varese, ha mandato a processo i due geni dell'informazione per «istigazione a delinquere». Le espressioni usate da Paragone avrebbero influito a generare un clima di forte intimidazione all'interno delle carceri, nonostante l'isolamento. «Aggressioni per fortuna non ne ho subite, ma mi sono sentito più volte in pericolo per quello che gli altri detenuti mi dicevano», ha raccontato ieri il ragazzo in aula a Varese. Il difensore di Paragone ovviamente minimizza: «Ma quale istigazione, si tratta di un commento, magari anche con toni forti, come Paragone ci ha abituati col suo piglio da polemista, e inserito in un contesto di profonda indignazione». Chissà cosa direbbe allora Paragone circa l'arresto di Cesare Battisti.

Le Iene dal papà di Di Battista: ha un lavoratore in nero. Il pentastellato: "Non lo sapevo". L'esponente M5s su Facebook: "Mi sono arrabbiato moltissimo con lui, a noi fanno le pulci su tutto. Ma ora trovino il coraggio di andare anche da Berlusconi", scrive il 26 gennaio 2019 La Repubblica. Il precedente. Quando il programma svelò le irregolarità del padre di Di Maio. Di Battista come Di Maio, ma anche come Renzi, nel mirino delle Iene. Per la stessa ragione: anche il padre dell'esponente pentastellato, rientrato in Italia per tornare nell'agone politico di casa nostra, ha al suo servizio un lavoratore in nero. Ed è lo stesso Alessandro Di Battista a parlarne su Facebook. "Questa mattina mi ha chiamato mio papà e mi ha detto che era stato avvicinato da Filippo Roma de 'Le Iene', che gli ha fatto delle domande in merito a una piccola impresa familiare che abbiamo. A un certo punto gli ha chiesto: 'Ma lei ha o ha avuto un lavoratore in nero?'. Mio padre gli ha detto: 'Sì'". "Per me Le Iene fanno il loro mestiere, non me la sono mai presa - prosegue Di Battista -. Sono andati dal papà di Di Maio, di Renzi, da mio papà e lo dico senza polemica: adesso è pure tempo che possano trovare il coraggio per andare da Berlusconi". "Ora, questa cosa qui - ha aggiunto 'Dibba' - io l'ho saputa qualche giorno fa. Sono usciti degli articoli di giornale piuttosto diffamatori, con notizie diffamatorie rispetto allo stato dell'azienda di famiglia che non se la passa bene. Qualche giorno fa sono andato con mio papà dall'avvocato per dargli in mano tutti gli articoli che erano stati pubblicati per vedere se ci fosse la possibilità di azioni legali e l'avvocato, tra l'altro, mi ha detto di sì". "Quando eravamo in macchina - ha raccontato Di Battista - ho detto: Papà, è tutto a posto?. Io adesso mi rimetto un po' in pista, anche se non da candidato. Lui mi ha detto: 'No'. Io mi sono incazzato, in primis, perché è una cosa profondamente sbagliata. Mi sono proprio arrabbiato a morte, perché a noi fanno le pulci su tutto. Ormai sapete come vive un esponente dei Cinquestelle, si vive in questo modo. Poi mi sono arrabbiato, perché non mi ha chiesto una mano". 

Luigi Di Maio fatto a pezzi da Filippo Facci 9 Gennaio 2019 su Libero Quotidiano: ecco l'elenco di tutte le sue vergognose balle. Questo articolo va in stampa in forma ridotta per venire incontro alle capacità mentali dei grillini, ma soprattutto perché - in una pagina - tutte le promesse tradite da Di Maio proprio non ci stanno. Troppe le parole rimangiate: senza contare ciò che Di Maio dice di aver fatto e invece non ha fatto manco per niente. Del caso Carige, per dire, si parla ampiamente in altre pagine di questo giornale: in pratica il governo ha salvato una banca esattamente come altri governi ne avevano salvato altre, e quanto la base grillina non colga differenze tra altri governi e questo (rispetto al salvataggio di una qualsiasi banca Etruria, per esempio) è desumibile dai commenti che si possono leggere in queste ore nelle pagine Facebook di Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista, tra altri. Quindi andiamo oltre. E azzardiamo un elenco parziale di stupefacenti fanfaronate.

1) Di Maio disse: «Mai alleanze con la Lega Ma vi pare possibile che un meridionale come me possa fare un'alleanza con uno che canta "Vesuvio lavali col fuoco?"». Sì.

2) Di Maio disse: «Basta premier non eletti. Il sottoscritto è stato votato da 11 milioni di italiani». Era il 30 marzo scorso. Giuseppe Conte non era stato votato da nessuno. È premier.

3) Di Maio disse: rimetteremo l'articolo 18. Meglio: «Noi il Jobs Act lo vogliamo abolire, crediamo che sotto i 15 dipendenti non serva l'articolo 18». Data: 17 dicembre 2017. Ricordiamo che l'articolo vietava alle aziende sopra i quindici dipendenti di licenziare i lavoratori senza giusta causa. E ricordiamo che ai grillini non mancò l'occasione per reintrodurlo: alla fine di luglio Liberi e Uguali presentò un emendamento proprio per questo e Roberto Speranza disse a Di Maio: «Ministro, questa è la grande occasione». La proposta ottenne 13 sì, 191 astenuti e 317 contrari, cioè Lega e grillini.

4) Di Maio disse: mai condoni edilizi. Meglio: «Cercate una mia proposta di legge di condono che riguarda Ischia o qualche altra regione: se la trovate mi iscrivo al Pd». L' ha detto il 23 agosto 2017. Ancora prima, all' indomani del terremoto di agosto 2017 che colpì l'isola campana, fu implacabile: «Forza Italia e Pd sono la causa di tutti gli abusi e sanatorie in Italia Per l'abusivismo edilizio noi non abbiamo nessuna tolleranza». Morale: i grillini hanno inserito il condono per Ischia nel decreto per Genova. Per il resto la storia dei condoni edilizi di cui ha beneficiato l'intera famiglia di Maio ormai la conoscono anche i sassi.

5) Di Maio e compagnia: «No ai vaccini obbligatori». Poi il governo ha cambiato idea più volte: prima cancellando il rinvio dell'obbligo, poi confermando la circolare del ministro della Salute Giulia Grillo che consente ai bambini di poter iniziare l'anno scolastico grazie a un'autocertificazione che varrà fino al 10 marzo. Le proteste dei No Vax non si sono contate.

6) Di Maio, da anni, parlava di una Taranto senza Ilva e pienamente bonificata dal punto di vista ambientale. Disse: «La nostra posizione è chiara, la riconversione economica passa dalla chiusura delle fonti inquinanti senza le quali le bonifiche sarebbero inutili». Un accidente: l'Ilva c'è ancora ed è più forte di prima, anche se questa morale ha fatto seguito a settimane di annunci estivi, stop, pareri dell'avvocatura e atti secretati. Il contratto con il colosso dell'acciaio Arcelor Mittal è ancora lì, perfetto. Rispetto all' accordo del precedente governo, i sindacati sono riusciti a tenersi 300 lavoratori in più. Di Maio allora ha commentato: «È il risultato migliore possibile nelle peggiori condizioni possibili». Magra consolazione per una città che aveva votato i grillini portandoli al 44 per cento.

7) Di Maio diceva e ridiceva e stradiceva: reddito di cittadinanza. Probabilmente ci ha vinto le elezioni, e si vantava pure di avere le coperture. Dopodiché - è noto - gli aggiornamenti sul tema cambiano ogni 12 secondi. Doveva essere un sussidio di 780 euro al mese per ogni persona in condizione di povertà, anzi, poteva arrivare a 1680 euro al mese in caso di due figli a carico. Faceva una platea potenziale da 5 milioni di persone. Poi? Poi si è arrivati a uno stanziamento netto di 5,8 miliardi di euro a cui va aggiunto quanto stanziato dai governi precedenti (il «Rei») e insomma a una cifra che, divisa per tutta la platea annunciata, fa circa 133 euro al mese per persona.

8) Di Maio, in stereofonia con Alessandro Di Battista, diceva a proposito del Tap, il gasdotto trans-adriatico che attraverserà Grecia e Albania per approdare in Italia, nella provincia di Lecce: «Con il governo a 5 stelle, in due settimane non si farà più». Morale: si farà. Notare che a Lecce i grillini hanno conquistato il 67 per cento, stesso luogo dove, a fine ottobre scorso, alcuni grillini hanno bruciato le bandiere del Movimento dopo la decisione di dare il via libera all' opera.

9) Di Maio e i grillini hanno sempre sostenuto che avrebbero bloccato ogni trivellazione petrolifera nell' Adriatico. Il Movimento, in particolare, nel 2016 aveva ampiamente sostenuto il cosiddetto referendum sulle trivelle. Bene: ora il governo, dopo non averne bloccata nessuna, ha autorizzato altre tre trivellazioni nel mar Ionio, che in effetti non è l'Adriatico. Il via libera è contenuto in tre decreti di fine dicembre con cui il dicastero guidato da Luigi Di Maio accorda a una compagnia americana trivellazioni per 2.200 km quadrati da Leuca a Isola Capo Rizzuto, fra Puglia, Basilicata e Calabria. Notare che sono tutte zone dove i grillini hanno ottenuto consensi facendo gli ecologisti integerrimi. In tutta la Puglia i «No-Triv» hanno preso quasi il 43 per cento.

10) Di Maio diceva, assieme ai due amigos di governo: «Deficit al 2,4 per cento». Nel dettaglio, Di Maio ha detto: «Il 2,4 per cento non si tocca, primo perché siamo uno stato sovrano, secondo perché manteniamo le promesse». Realtà: il premier Conte ha chiuso faticosamente un accordo con l'Europa portando il deficit al 2,04 per cento.

11) Di Maio diceva, sostenendo il tentennante Danilo Toninelli: «Il Terzo Valico va messo da parte e va preferito il potenziamento della linea ferroviaria esistente». Di Maio lo disse in campagna elettorale. Poi Toninelli, in una delle sue sgangherate uscite, ha recentemente concluso: «L' analisi costi-benefici, insieme all' analisi giuridica, ha previsto che il totale dei costi del recesso ammonterebbe a circa 1 miliardo e 200 milioni di euro. Di conseguenza il Terzo Valico non può che andare avanti». Cioè si farà.

12) Di Maio ha sempre detto che avrebbe bloccato l'acquisto dei costosissimi jet militari F35. Poi ora, cioè il mese scorso, il sottosegretario alla Difesa Angelo Tofalo ha detto che «non si può rinunciare a questa tecnologia che è la migliore al mondo». Panico nel web. Di Maio si è poi detto «perplesso» ma ha lasciato intendere che il programma d' acquisto andrà comunque avanti, magari, ecco, acquistando otto aerei in meno. Se possibile. Otto.

13) Di Maio e i grillini (soprattutto siciliani) hanno sempre detto che avrebbero bloccato l'ultimazione del Muos, il sistema satellitare americano realizzato all' interno della riserva della Sughereta in provincia di Caltanissetta. «Smantelleremo il Muos» era la partola d'ordine dei vari comitati grillini. Sino a un annuncio di Claudio Fava, presidente della Commissione antimafia siciliana: «Da oggi è una certezza: il governo è favorevole al Muos. All'udienza di oggi l'avvocatura dello Stato non si è presentata, mantenendo la posizione ufficiale del governo che esprime un chiaro "sì" all'impianto. Sono quindi smentiti in modo evidente gli annunci fatti da Di Maio e dai suoi portavoce».

14) Di Maio e compagnia hanno sempre detto peste e corna contro il Tav, il treno ad alta velocità che dovrebbe passare dalla Val di Susa. Si farà? Tutto depone ampiamente per il sì, compreso il tormentato ministro Toninelli secondo il quale «l'opera è stata concepita male ma ora si può rimediare rendendola più sostenibile». L' unico a scommettere che non se ne farà nulla è rimasto Beppe Grillo. Sta di fatto che in Val di Susa i Cinque Stelle hanno ottenuto percentuali da capogiro: a Venaus, uno dei centri simbolo della lotta, il 60 per cento; a Mompantero, negli scorsi anni teatro di scontri, quasi il 46; a Bussoleno, il 44 per cento. In tutta la valle i grillini hanno superato abbondantemente il 30 per cento. Ora gli elettori, come per molte altre promesse, si preparano a una tranvata ad altissima velocità. Filippo Facci

·         Casalino il comunicativo.

Rocco Casalino guadagna il doppio di Conte: ecco i nuovi costi degli staff di Palazzo Chigi. Cambiano le maggioranze a sostegno dell'esecutivo e i collaboratori a supporto dei vari ministri. Ma il portavoce del presidente del Consiglio resta per distacco la figura meglio retribuita. Ecco tutte le nuove cifre. Mauro Munafò il 6 dicembre 2019 su L'Espresso. In una sua recente intervista a Sette, Rocco Casalino ha dichiarato che in futuro potrebbe anche pensare all'idea di candidarsi. Ma per l'attuale portavoce e capo ufficio stampa del presidente del Consiglio ottenere un incarico politico significherebbe dover anche ridurre i propri compensi. Sì, perché l'uomo che gestisce la comunicazione di Giuseppe Conte è di gran lunga meglio retribuito anche del suo capo. Lo era nel primo esecutivo Conte, e lo è anche in questo secondo governo, come confermano i nuovi dati sui costi degli staff consultati dall'Espresso. Grazie a uno stipendio lordo di poco superiore ai 169mila euro, Casalino si conferma come il collaboratore meglio pagato di Palazzo Chigi. Il suo emolumento si compone di tre voci: 91.696 mila euro di “trattamento fondamentale” a cui si aggiungono 59.500 mila euro di “emolumento accessorio” e 18.360 euro di “indennità diretta di collaborazione”. La stessa cifra che percepiva durante il primo governo Conte e in linea con quanto incassato dai suoi predecessori nello stesso ruolo. Curioso tuttavia notare come il suo “capo”, il presidente del Consiglio, al momento risulta guadagnare la metà. Conte dovrebbe infatti percepire 110mila euro l'anno ma ha chiesto una riduzione del 20 per cento del suo emolumento e al momento guadagna quindi 88mila euro per il ruolo di premier. Il nuovo elenco degli staffisti di Palazzo Chigi, cioè i collaboratori assunti per chiamata diretta negli uffici di collaborazione e i cui contratti decadono con la caduta del governo, presenta tante conferme e qualche novità. Intanto il numero di collaboratori è crollato rispetto al primo governo Conte, passando dai 101 nomi dello scorso luglio agli attuali 48. Le ragioni sono almeno due: nel precedente esecutivo c'erano infatti le segreterie dei vicepremier Luigi Di Maio e Matteo Salvini con relativi staff a Palazzo Chigi, mentre oggi non ci sono vicepremier. Inoltre Conte aveva assunto l'interim degli affari europei con relativo staff. In carico ai sottosegretari del primo governo Conte c'erano poi anche delle deleghe di peso, come quella alle pari opportunità, che nel Conte 2 sono state invece distribuite in un ministero ad hoc. Il paragone diretto tra i due governi non è quindi ancora realizzabile. Anche perché molte cifre dei compensi dei nuovi staff sono ancora in fase di definizione. Dietro Rocco Casalino, il secondo posto di staffista meglio pagata lo mantiene Maria Chiara Ricciuti, vice capo ufficio stampa, che conserva la retribuzione complessiva di 129mila euro lordi annui. Nell'ufficio stampa anche il videomaker Filippo Attili (con un aumento di 8mila euro lordi annui), il coordinatore amministrativo Carmelo Dragotta (74mila euro), i collaboratori Massimo Prestia e Laura Ferrarelli (68mila euro), il responsabile dei social Dario Adamo (115mila euro) e le new entry Giuseppe Coeta (60mila euro) e Giuseppe Dia (40mila euro). Interessante invece il percorso di Dario De Falco, capo segreteria particolare del vicepremier Di Maio (e suo amico di lungo corso) nel primo governo Conte, con uno stipendio di 100mila euro. Diventato ora, che Di Maio è in altro ministero, “consigliere per le questioni istituzionali” del sottosegretario Riccardo Fraccaro, con uno stipendio ancora in via di definizione. Nell'Ufficio di Conte vengono confermati il segretario particolare Andrea Benvenuti (84mila euro), l'assistente del capo di gabinetto Giulio Bonifacino (con aumento di 3mila euro rispetto al primo governo Conte), l'esperto Domenico Bottega (aumento di 5mila euro), l'esperto Giacomo Bracci (55mila euro, con aumento di 20mila euro), i consiglieri a titolo gratuito Gerardo Capozza, Vincenzo Cerulli Irelli, Tommaso Donati, l'esperto Edoardo De Riu (33mila euro, con aumento di 7mila euro), Giulio Ginetti (25mila euro, con aumento di 5mila euro), il capo di gabinetto Alessandro Goracci. Entrano nello staff Concetta Baratta, Guglielmo Bevivino e Paolo Rametta.

 “TOGLIETECI TUTTO MA NON ROCCO (CASALINO)!”. Fabrizio Roncone per Sette – Corriere della Sera il 24 agosto 2019. Sia chiaro che potete continuare con tutti i vostri soliti inciuci, inventarvi governi, trovare nuove maggioranze solide o fasulle, oppure potete portare il Paese al voto. Siete liberi di fare – come sempre – tutto e il contrario di tutto. Toglieteci tutto ma non Casalino Ma non dovete azzardarvi a toccare Rocco Casalino. Portarlo via da Palazzo Chigi sarebbe un’autentica, inspiegabile crudeltà. Per centinaia di cronisti politici e conduttori tivù, parlamentari e portaborse, sarebbe ormai impossibile rinunciare ai WhatsApp e ai messaggi vocali spediti ogni ora, ogni minuto dal gran capo della comunicazione a 5 Stelle, nonché portavoce del premier uscente Giuseppe Conte, nonché portavoce di tutti gli altri portavoce, nonché ex memorabile partecipante al Grande Fratello (recluso 92 giorni, h 24, 2.200 ore totali, «ma quando rividi la luce ero diventato un ragazzo perbene e intelligente»; perché il Grande Fratello, come noto, rende intelligenti). Con Rocco sono stati mesi stupendi: Rocco allude, tratta, corteggia, annuncia, rimprovera, minaccia, drammatizza e quasi sempre, poi, perdona. Facilmente irritabile, pignolo fino all’ossessione, narratore sfrenato (Lele Mora, suo ex agente: «Ha talento, è solo un filo pettegolo»). Ha anche una laurea in ingegneria ingiustamente tenuta nel cassetto, 47 anni, e un fidanzato cubano di cui, dicono, è molto innamorato. Per restare con lui e non rovinargli le vacanze, l’anno scorso di questi tempi – le macerie del Ponte Morandi ancora fumanti, la morte, lo sgomento di un intero Paese – si lamentò con i giornalisti: «Basta, non mi stressate. Chiamate come pazzi. Io ho pure diritto di farmi un paio di giorni, che già m’è saltato Ferragosto, Santo Stefano, San Rocco…». C’era l’audio, chiese scusa. Sparita invece la pagina Linkedin in cui vantava un master in business administration all’università di Shenandoah, in Virginia («Mai avuto uno studente con il cognome Casalino», dissero dagli Usa). Grandioso Rocco. E furbissimo. Come quando lo beccarono Le Iene: «Hai mai provato a portarti a letto un rumeno? Se gli fai dieci docce, continua ad avere un odore agrodolce». Spiegò che stava recitando. Di certo però non recitava a Palazzo Chigi, quando lo chiamavi e ti diceva che «domani io e Conte saremo a colazione con Emmanuel… Come chi è Emmanuel? Ma Macron, no?».

CASALINO PARTY. Susanna Turco per “l’Espresso” il 10 agosto 2019. È - banale ma necessario - l' apoteosi del Grande Fratello. Il reality show dell' Italia gialloverde col suo primo ministro: Rocco Casalino. L' ultima piroetta comunicativa che ha fatto fare al premier in Aula per il Russiagate è stata di grande maestria, segno dell' evoluzione, dell' approdo ulteriore. Un' incoronazione che potrà solo essere bissata dagli ultimi fuochi attesi prima dell' estate, ossia la recita sulle mozioni Tav e il voto al decreto sicurezza bis. Casalino ormai infatti non solo teleguida, smista, annuncia, convoca, fustiga, spedisce messaggi vocali ai giornalisti, gestisce le sue 73 chat, ma si concentra pure sulle sfumature: ogni media, come poi si dirà, ha raccontato il pirandelliano intervento del premier in modo diverso. Ed è per questo che del dominus della comunicazione grillina, prima per il Movimento Cinque stelle poi per Palazzo Chigi , di cui pure tanto s' è detto, tocca parlare proprio adesso. In questo governo sgangherato, ormai insensato, dove nessuno crede più a niente, né a se stesso, né agli altri, né tanto meno all' ultimo retroscena contenente l' ultima data della caduta, l'unico rimasto a incarnare se stesso e lo Zeitgeist è proprio lui, Rocco, «l' omo dell' anno», come lo incoronò Libero con la solita eleganza. Il più implausibile, arrogante, volgare, portavoce della presidenza del Consiglio che la storia ricordi è forse il solo che, alla fine, abbia conservato un suo senso dentro uno spirito del tempo così imbarazzante: per paradosso ormai pare un tipo ordinario, quello in grisaglia mentre tutti gli altri seguendo i suoi consigli si mostrano in costume e rotoli in spiaggia. Perché, fatto ancora più terrificante, dàgli e dàgli Casalino, a forza di fare lo spin doctor a destra e a sinistra, questo suo spirito del tempo l' ha contagiato all' intera truppa - premier, vicepremier, ministri, sottosegretari, parlamentari fino a larghe fette del giornalismo stesso - che ormai gli somiglia più di quanto lui avrebbe pensato, e chiunque altro mai potuto sospettare. Insomma siamo allo scavalco: al punto che, poveri noi, Casalino sembra quello normale. Del resto nell' Era in cui la comunicazione è l' unico dio, il sacerdote chiamato ad amministrarne i sacramenti è il solo che conti qualcosa. Visto il contesto, altri due passi e ci parrà un Cavour. Nella Casa del governo Conte - là dove governa Casalino - nulla ci è risparmiato, proprio come accade da diciannove anni nel reality più famoso d' Italia. Scenari incrociati, scene raddoppiate, intrecci, imbrogli, bende, prebende, riassunti giornalieri e riassunti settimanali, confessionali, nomine e uscite, ciascuna cosa pronta a diventare tutto o, improvvisamente, niente. A capovolgersi in una mera questione di parole, qualcosa con cui riempire l' aria - come ha fatto Salvini derubricando il giro del figlio quindicenne a bordo della moto d' acqua della polizia a un «errore da papà», qualsiasi cosa significhi. Un andazzo che Giancarlo Giorgetti, inaugurando il nuovo centro di distribuzione di poste italiane a Cazzago Brabbia, ha perfettamente fotografato: «Il governo è come questa bella giornata: l'altro ieri qua c'era un temporale che sembrava venisse giù il mondo. Ieri era nuvoloso, oggi c' è sereno. Le giornate passano così. Anche in Val di Susa c'era il temporale, ma è venuto fuori il sole». Metereologia politica. Ecco, nell'esecutivo dove ormai un vicepremier chiama il suo omologo «quell'altro là», il premier sconfessa l' altro in Parlamento, il ministro dell' Interno dalla spiaggia spiega come «ciò che dice Conte mi interessa meno di zero», e il ministro dei Trasporti non firma il via libera alla Tav (lo fa firmare ai suoi funzionari) per presentarsi invece a celebrare la riapertura dei quattro chilometri della Strada provinciale 23 Coccorino-Joppolo esclamando: «Sono queste le opere che la gente vuol vedere finite: altro che Tav!», ecco di tutto questo Casalino è spesso il regista, e sarebbe comunque il più efficace interprete. Quando nel 2000 era concorrente del Grande Fratello stette sotto le telecamere 92 giorni consecutivi, h24, per un totale di 2.200 ore, e ne è uscito (parole sue) «come un ragazzo perbene e intelligente»: di lì in avanti nessun confine poteva essergli d' ostacolo, e infatti non lo è stato. Basta vedere il piglio col quale registra i suoi celeberrimi messaggi vocali, o convoca i tre-quattro giornalisti amici, magari per una intervista collettiva. Oppure la naturalezza con la quale propose al direttore di un giornale di riprendere con le telecamere un incontro informale con il premier, lasciando tuttavia cadere tutto quando gli fu controproposta anche la presenza delle telecamere del quotidiano. «Porre un limite alla finzione? E allora anche al black humor o alla satira?», rispose in una delle rare interviste nel novembre scorso, quando per l' ennesima volta scoppiò una polemica per un suo vecchio intervento pseudo razzista durante un corso di giornalismo del 2004 (anche quella era, appunto, una recita). Proprio in quel periodo, il giornalista Mediaset che aveva organizzato il pomeriggio con Casalino, spiegò essere rimasto colpito dalla bravura dell' ex gieffino, non ancora approdato al giornalismo, nel «fare un personaggio» e manipolare la platea: «Aveva gestito gli interlocutori portandoli dove voleva lui. Mi colpì la sua capacità di essere regista delle emozioni altrui». Capolavoro, come si diceva, all'indomani dell' intervento di Conte sul Russiagate, quando ciascun quotidiano pareva avesse assistito a una scena diversa, come si evince dai titoli di prima pagina di quel giorno: «Conte sfida Salvini» , «Conte scarica Salvini», «Conte salva Salvini», «Conte sbugiarda Salvini», «Conte attacca, Salvini lo sfida», «Salvini sbugiardato», «Salvini trionfa sulle macerie M5S». E via, declinando, nemmeno si trattasse del Re Sole della democristianità, invece del solito azzimato premier che, appunto, solo grazie alle manipolazioni casaline è diventato di volta in volta avvocato del popolo, aspirante successore di Di Maio alla guida dei Cinque stelle, aspirante successore di se stesso (cosiddetto Conte bis), aspirante riserva della Repubblica (quando s' è capito che dal Quirinale filtrava a mo' di sibilo una specie di: «Ma quale bis»). Ma non è sempre stato così. All' inizio, Casalino era molto più grossier. Ai giornalisti diceva solo: fai così (esempio: «È stata una giornata importante, è giusto che il presidente esca molto bene»). Adesso, a iussività invariata, «quel fai» così lo modula sulla inclinazione politica dell' interlocutore, almeno. I suoi audiomessaggi, del resto, sono strepitosi per come pattinano sulla superficie di universi sostanzialmente ignoti (esempio, quello della giustizia-organo: «Come sapete in Italia la giustizia è un organo indipendente, quindi non è che ci può essere una interferenza dell' esecutivo sulla giustizia»). L' uomo resta l'ossessivo di sempre (ha contribuito a fare la sua fortuna): anche adesso, instancabile, passa e ripassa ogni mezz' ora in sala stampa, a chiarire netto ciò che è notizia e ciò che non lo è, cosa si può scrivere e cosa no. Come un arbitro, un regista, il padrone del copione, colui che decide chi entra in scena e chi no, chi intervista e chi no e quali domande fa e come le articola. Non un portavoce: la voce della verità, il narratore di un mondo composto da un impasto inscindibile di cose accadute e mai accadute, cronaca e propaganda, fatti credibili e incredibili. Uno Starace, ma elegante. Del resto Casalino si occupa non solo della politica, ma anche di tutti gli annessi e connessi. Le foto, come quella (pubblicata qui sopra) comparsa in piena notte nel mezzo della trattativa a Bruxelles per la presidenza della commissione europea: al tavolo fra gli altri Macron, Conte, Merkel, e lui stesso (il portavoce Rocco parla pure tedesco, la lingua del futuro, per certi versi). Le drammatizzazioni utili, come il post su Facebook uscito sull' account del premier a mezzanotte passata, dopo la camera ardente del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega. Il costume. È lui ad aver orchestrato, tra gossip, servizi fotografici e ospitate, l' andirivieni comunicativo delle fidanzate di Luigi Di Maio, in un crescendo tale per cui non solo il debutto dell' ultima è stato direttamente annunciato via whatsapp («Domani di maio va con la sua nuova fidanzata al teatro dell' opera»), ma ai due sono stati inflitti, quasi sadicamente, ripetuti servizi in costume da bagno, nonché un' intera rappresentazione dell' Orfeo e Euridice di Gluck. Ora: tutto questo pareva lunare, appena due anni fa. Ma era prima, quando Casalino ancora non aveva operato. Adesso, nell' orizzonte volgarissimo, lui ormai svetta come un Roberto Bolle, un Karl Largerfeld al limite, almeno per via della lingua.

·         Rimborsopoli. La Spesopoli dei 5 Stelle. Il caso Sarti.

Quanti grillini morosi: solo un consigliere su 114 versa le quote al M5s. I 5 Stelle eletti nelle Regioni hanno smesso di "restituire". Di Maio s'infuria (ma non paga). Domenico Di Sanzo, Sabato 07/12/2019, su Il Giornale. Uno su 114. Non sono soltanto i parlamentari del M5s ad essere indietro con le restituzioni degli stipendi. Il problema tocca anche i consiglieri regionali eletti nelle fila grilline. E i solleciti, da parte del capo politico Luigi Di Maio, sono arrivati a tutti i morosi, compresi quelli sparsi nelle varie assemblee delle Regioni. I vertici del Movimento, ora, hanno indicato un nuovo termine per mettersi in regola con la pubblicazione dei bonifici sul sito Tirendiconto.it. Si parla della fine del mese di dicembre, pena la segnalazione al collegio dei probiviri e i primi provvedimenti disciplinari. Che se così fosse sarebbero centinaia solo a livello locale. Mentre deputati e senatori non comunicano i tagli alle indennità e, come anticipato dal Giornale, protestano contro i versamenti e lo strapotere dell'Associazione Rousseau di Casaleggio, i «portavoce» regionali fanno gli gnorri nel silenzio dei media. Eppure si tratta di ben 114 eletti in tutta Italia. Dal Friuli Venezia Giulia alla Sicilia. Vale la pena cominciare dall'unico in regola con i versamenti. È il consigliere regionale del Veneto Jacopo Berti. Che ha battuto i suoi colleghi di Camera e Senato pubblicando sul portale le restituzioni fino al mese di novembre. Un'eccezione. Perché gli altri consiglieri fanno come i parlamentari, e in alcuni casi peggio. Gli eletti in Regione Lazio Gaia Pernarella e Valerio Novelli sono fermi addirittura a novembre del 2018. Poco meglio fa il deputato regionale siciliano Sergio Tancredi, bloccato a dicembre 2018. Vuota la stringa dell'anno in corso anche per Carla Cuccu, che ha conquistato lo scranno in Sardegna ad aprile e da allora non ha mai reso noti i bonifici del taglio dello stipendio su Tirendiconto.it. Tra i campioni dei mancati versamenti ci sono Andrea Fiasconaro, Lombardia, che non rendiconta da febbraio. Così come la siciliana Elena Pagana. In Friuli Venezia Giulia Andrea Ussai si è fermato a marzo. Ha comunicato solo i tagli di tre mesi il consigliere regionale della Basilicata Gino Giorgetti, eletto a maggio, moroso da luglio. Due versamenti anche per Sean Sacco, approdato nel consiglio regionale del Piemonte a luglio, ha smesso di pubblicare i bonifici ad agosto. Performance deludente per il deputato regionale della Sicilia Francesco Cappello, fermo ad aprile. La situazione delle restituzioni nelle Regioni è analoga a quella in Parlamento. Proprio come accade a livello nazionale, la maggior parte dei consiglieri regionali ha smesso di rendicontare ad agosto. Compresi alcuni nomi noti. La campana Valeria Ciarambino, fedelissima di Di Maio apparsa in alcune trasmissioni televisive nazionali, ha comunicato i versamenti fino ad agosto. Ferma allo stesso mese Roberta Lombardi, ex deputata, attuale capogruppo in Regione Lazio. In Lazio sono più al passo con le regole il «ribelle» anti Pd Davide Barillari e Francesca De Vito, sorella del presidente dell'assemblea capitolina Marcello, entrambi hanno pubblicato le restituzioni fino al mese di ottobre. Rientra nella media di agosto, la morosità di Alice Salvatore, considerata la fedelissima di Beppe Grillo in Regione Liguria. Restano solo 24 giorni di tempo per mettersi in regola, fino alla deadline del 31 dicembre stabilita da Di Maio. Poi «partiranno i provvedimenti disciplinari». Il capo politico è seccato. E l'avvertimento vale anche per lui stesso. Sì, perché perfino Di Maio è fermo ad agosto, come la stragrande maggioranza degli eletti. Poi dicono che uno non vale più uno...

M5s, sette grillini su dieci si tengono lo stipendio: l'ultima gatta da pelare per Luigi Di Maio. Salvatore Dama su Libero Quotidiano il 29 Novembre 2019. Oramai i probiviri del Movimento 5 stelle hanno la scrivania invasa dai fascicoli. Perché nel partito di Luigi Di Maio i casi di insubordinazione non si contano più. Erano una macchina perfetta. Sulla carta. I parlamentari dovevano essere una truppa di esecutori. Svolgere il proprio mandato come un servizio civile, restituire una parte dell' indennità, attenersi alla disciplina, rispettare le decisioni "superiori" e, infine, tornare con il sorriso all' attività di prima (se ne avevano una). La realtà è che sta andando proprio tutto al contrario. Con il capo politico accerchiato da fronde, congiurati e traditori. Ieri l' ultimo episodio a Strasburgo. Dove una parte degli eurodeputati grillini si è ribellata all' ordine di scuderia, votando no alla Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen. Le motivazioni dei rivoltosi sono state tutte spiattellate, con violenza, sui social. Chi ha rifiutato l' indicazione arrivata da Roma ha definito il Movimento «una copia sbiadita del Pd», prono al «potere di Bruxelles», servo del «potere e delle logiche spartitorie».

«LOGICHE SPARTITORIE». Ai casi di coscienza poi si associano anche i fatti di soldi. Più prosaici e più diffusi. A oggi il 70 per cento dei parlamentari grillini non è in regola con le restituzioni dell' indennità. Tanti non versano un euro da maggio. E non è solo la manovalanza, magari quella arrabbiata perché finita fuori dall' elenco dei posti di governo. Tra i morosi c' è un ministro che finora ha versato zero. E un altro che ha degli arretrati da saldare e che, secondo una gola profonda interpellata dall' Agi, siede tra i probiviri. Ovvero il collegio dei censori che dovrà sanzionare gli "sbadati" e i tirchi. I "controllori" sono tre: Jacopo Berti, Raffaella Andreola, Fabiana Dadone. I primi due non hanno cariche di governo. Per mettersi in pari c' è tempo fino al 31 dicembre, informa una circolare intercettata dall' AdnKronos, dopo scatterà la gogna: «Le ricordiamo che gli impegni da Lei assunti, all' atto della sua candidatura con il MoVimento 5 Stelle, oltre a costituire una vera obbligazione giuridica, come di recente affermato dall' Agenzia delle Entrate, costituiscono anche e soprattutto un impegno morale nei confronti di tutti i cittadini italiani e, in particolare, di quelli che l' hanno votata». I toni della lettera non sono proprio amichevoli.

DI MAIO SOPRASSIEDE. Ma il clima è questo. E si ritorna alla giornata nera di Strasburgo. Dove due eurodeputati si sono astenuti (Rosa D' Amato e Eleonora Evi) e altri due hanno votato contro la von der Leyen (Ignazio Corrao e Piernicola Pedicini). «In questo ultimo anno ho perso praticamente il sorriso e l' entusiasmo, mi sono dovuto vergognare spesso di decisioni che ho dovuto accettare e difendere, ma che non mi appartengono», si sfoga Corrao, «siamo un movimento anti-establishment che si sta comportando come la sbiadita copia del Pd che invece sistema lo è e dal sistema riceve innumerevoli vantaggi». Accuse che fanno il paio con quelle della D' Amato («Non era assolutamente possibile sostenere questa Commissione»), della Evi («Il M5s non può appiattirsi alle logiche di spartizione di poltrone e potere») e di Pedicini: «Non dobbiamo svendere l' identità». Di Maio? Fa sapere che era stato avvertito in anticipo dell' ammutinamento dei suoi e ha lasciato correre. Forse non saranno neanche deferiti. Per il momento. Salvatore Dama

La mail ai grillini morosi: "Restituzioni entro il 31 dicembre". Ultimatum a deputati e senatori pentastellati. L'avvertimento in caso di inadempienza: "I probiviri si attiveranno senza ulteriore indugio". Luca Sablone, Giovedì 28/11/2019 su Il Giornale. Un vero e proprio ultimatum. I grillini morosi hanno fatto perdere la pazienza ai vertici del Movimento 5 Stelle: sono diversi coloro che non hanno ancora provveduto a sistemare la restituzione dei soldi che ora andranno necessariamente versati entro e non oltre il 31 dicembre. Parla chiaramente la mail inviata a deputati e senatori pentastellati: "Le ricordiamo che gli impegni da Lei assunti, all'atto della sua candidatura con il Movimento 5 Stelle, oltre a costituire una vera obbligazione giuridica, come di recente affermato dall'Agenzia delle Entrate", costituiscono "anche e soprattutto, un impegno morale nei confronti di tutti i cittadini italiani e, in particolare, di quelli che l'hanno votata". Nella mail targata "Staff"- stando a quanto appreso e riportato dall'Adnkronos - è stato ricordato come il M5S "contrariamente agli altri partiti politici, non percepisce nemmeno un euro da tali restituzioni che sono state devolute in passato al “Fondo per il Microcredito” e, attualmente, a seguito di votazione online degli iscritti, al “Fondo per la povertà educativa infantile”, al “Fondo per il diritto al lavoro dei disabili” e infine al “Fondo contro la violenza sulle donne".

L'avvertimento. Perciò i grillini sono stati invitati a "ottemperare agli impegni giuridici e morali da Lei assunti entro e non oltre il 31 dicembre 2019". L'avvertimento, in caso di inadempienza, è netto, diretto, senza giri di parole e mezzi termini: "Il mancato tempestivo riscontro a tale invito integra una grave violazione disciplinare per la quale i probiviri, che leggono per conoscenza la presente, si attiveranno senza ulteriore indugio". Da qualche tempo si è aperta anche la questione delle restituzioni all'interno del Movimento 5 Stelle: non sono pochi coloro che non riescono a digerire i 300 euro mensili da versare per la piattaforma web Rousseau. Pochi giorni fa, infatti, fonti grilline avevano fatto sapere: "Il collegio dei probiviri è pronto a sanzioni contro gli eletti non in regola con le restituzioni". E ci sarebbe addirittura chi avrebbe rivendicato a gran voce il proprio essere moroso: "Non ho pagato perché non ritengo giusto pagare". Potrebbe dunque trovare conferma l'indiscrezione svelata da alcuni eletti pentastellati: "In diversi vogliono solo tenersi il denaro". Come se non bastasse si era aperto anche il caso Lorenzo Fioramonti: il ministro dell'Istruzione sarebbe fermo a dicembre 2018; invece il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano non rendiconterebbe da febbraio di quest'anno. Ma non sono soli: a fare loro compagnia vi sono anche altri 30 parlamentari circa.

Anche Fioramonti è moroso: ferme le restituzioni grilline. I versamenti interni del ministro bloccati da dicembre Altri trenta parlamentari M5s nella stessa posizione. Domenico Di Sanzo, Giovedì 07/11/2019 su Il Giornale. C'è un sito internet che funge da ottima cartina di tornasole per avere un'idea del caos che regna nel M5s. Stiamo parlando di Tirendiconto.it, il portale su cui tutti gli eletti pentastellati sono tenuti a rendicontare le spese effettuate nell'esercizio del mandato e, soprattutto, a pubblicare l'ammontare delle restituzioni dai loro stipendi. Una regola aurea del Movimento, rifondere parte dei soldi dei parlamentari alla «collettività», ultimamente un po' trascurata. Tanto che tra i «morosi» più impenitenti, almeno da quanto si può consultare sul sito, risultano persino due esponenti del governo giallorosso. Il discusso ministro dell'Istruzione Lorenzo Fioramonti, fermo a dicembre 2018. E il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano, che non rendiconta da febbraio di quest'anno. Fioramonti, salito alla ribalta delle cronache per gli insulti su Facebook rivelati dal Giornale e per alcune proposte che hanno fatto discutere, è però in buona compagnia. Con lui ci sono trenta parlamentari, tutti reticenti dalla fine dell'anno scorso. Quelli messi meglio hanno aggiornato la loro posizione fino ad agosto, altri si sono fermati prima. Tra di loro alcuni ministri del Conte-bis: Vincenzo Spadafora (Sport), Fabiana Dadone (Pa), il capo politico Luigi Di Maio (Esteri) sono bloccati a maggio. Nella stessa situazione due importanti sottosegretari: Stefano Buffagni (Mise) e Riccardo Fraccaro (Presidenza del Consiglio). Nel mondo grillino le giustificazioni sono varie, anche a fronte di una deadline per mettersi in regola che secondo alcune voci interne ai gruppi parlamentari è stata fissata al 31 ottobre scorso. Un deputato dice: «Se hanno messo questa scadenza io nemmeno me lo ricordo». Altri parlamentari parlano di «procedura complicata» per inserire le rendicontazioni nel sistema. «La verità è che molti non vogliono versare per protesta», si sfoga un altro, protetto dall'anonimato. Nel frattempo le caselle di posta elettronica di deputati e senatori che non hanno ancora versato le eccedenze degli stipendi sono state inondate da una serie di mail di reclami provenienti da un indirizzo riconducibile al Meet Up di Diamante, in Calabria provincia di Cosenza. La lettera di protesta, visionata dall'agenzia AdnKronos, recita così: «Tu sarai il/la prossimo/a a scappare senza restituire quanto promesso? Quando pensi di metterti in regola con le restituzioni?». Nel testo si invitano tutti quelli che hanno prodotto e inoltrato le rendicontazioni, seppure non ancora pubblicate, a darne prova concreta. I morosi non avrebbero preso molto bene il sollecito, che ha provocato un ulteriore aumento della tensione all'interno del Movimento. Poco meno di un mese fa, si vociferava di punizioni esemplari da parte dello stato maggiore per chi si fosse attardato nell'invio dei bonifici di restituzione e nella rendicontazione delle spese sostenute. Addirittura si era arrivati a parlare di un possibile pignoramento per i più discoli. «Fossimo stati in un altro periodo sarebbero già partiti i provvedimenti», sussurrano i parlamentari nei capannelli. La verità, questo è il tono delle riflessioni, è che anche su questo fronte la pistola dello stato maggiore appare scarica. Una selva di richiami per chi non ha versato potrebbe compromettere ancora di più la tenuta dei gruppi parlamentari. Già in perenne fibrillazione e percorsi periodicamente da voci su possibili abbandoni di portavoce eletti con il M5s.

Simone Canettieri per “il Messaggero” l'11 ottobre 2019. Un parlamentare su quattro del M5S è fermo con le restituzioni da marzo 2019. Addirittura c'è una cinquantina di irriducibili che non si taglia lo stipendio - il minimo sono 2mila - dalla fine dello scorso anno. Anche le rendicontazioni - consultabili sull'apposito sito internet tirendiconto.it - vanno in ordine sparso. E restituiscono, è proprio il caso di dirlo, questa fotografia del cavallo di battaglia dei grillini: una totale deregulation. Con una quota di morosi che rischia - sulla carta - l'espulsione. L'ultimo Restitution day è dello scorso maggio, prima delle Europee: circa di 2 milioni di euro al fondo per la povertà educativa infantile. Da quel momento - nonostante ci sia un gruzzolo di oltre 2,5 milioni di euro - gli iscritti di Rousseau non hanno ancora deciso a chi destinare l'ingente somma raccolta finora, seppur in molti facciano gli gnorri. Tra il caos delle crisi di governo e la rivolta interna ai gruppi alcune nobili intenzioni sono bloccate. Come quella solenne presa da Luigi Di Maio lo scorso 27 luglio. Ecco cosa scrisse sui social: «In questi giorni di dolore per la tragica scomparsa del vice brigadiere Mario Cerciello Rega, il MoVimento 5 Stelle vuole raccogliere l'appello dell'Arma e dare il suo contributo di solidarietà. Come sapete noi continuiamo a tagliarci gli stipendi, per questo chiederò agli iscritti di dare le nostre restituzioni di questo mese alla famiglia del carabiniere». Peccato però che la famiglia del carabiniere ucciso da due ragazzi americani nel centro di Roma non ne sappia nulla, stesso discorso l'Arma che tra pochi giorni, anzi, chiuderà il conto con la raccolta fondi. Al momento senza il contributo dei grillini, seppur annunciato su Facebook dal capo politico nei giorni del dolore e dell'emozione collettiva del Paese. «I soldi ci sono - spiega un esponente pentastellato di spicco a Il Messaggero - siamo in ritardo con il voto su Rousseau, questo sì». La storia dell'aiuto alla famiglia del carabiniere racconta però altro: la difficoltà della macchina grillina in questo momento a tenere in vita il caposaldo della sventolata diversità antropologica dei 5 Stelle. Ecco perché Luigi Di Maio vuole passare alle maniere dure con i morosi. Fino ad arrivare all'estremo atto: il pignoramento ai parlamentari che non sono in regola con gli impegni presi al momento della sottoscrizione della candidatura. Attenzione: di questo fiume di denaro non fa parte la quota di 300 euro che deputati e senatori sono obbligati tutti i mesi a versare a Rousseau. Qui si parla del taglio degli stipendi, e basta. E il responso dell'Agenzia delle Entrate va in soccorso del capo politico. Il braccio dipendente dal ministero dell'Economia ha stabilito che quelle degli oltre 300 parlamentari non sono donazioni (quindi non vanno tassati) ma «l'adempimento di un obbligo giuridico che gli eletti della XVIII legislatura sono tenuti ad assolvere proprio in virtù della qualifica soggettiva di eletti quali parlamentari». Dunque si tratta, scrive l'Agenzia delle Entrate, «di un preciso obbligo giuridico di fonte convenzionale». Con questa cartuccia in mano, Di Maio ha dato mandato allo staff legale di passare al contrattacco. Dopo la festa di Napoli si metterà in piedi un piano a tre velocità: prima partirà una lettera bonaria per chi non è in regola, poi una citazione in tribunale e infine la richiesta di pignoramento. La regola che il capo politico ha in mente di far rispettare vale anche per i transfughi. Anzi, in un certo senso, soprattutto per loro. Ovvero per chi vorrebbe o potrebbe passare a un'altra forza politica. Un tema che rimane sullo sfondo: dopo la senatrice Silvia Vono con Matteo Renzi, l'altro giorno è toccato a Davide Galantino salutare tutti per abbracciare Giorgia Meloni. In questi casi ci sarà un passaggio ulteriore: sarà richiesto agli ex - a suon di carte bollate - anche di continuare a versare il minimo sindacale mensile (2mila euro) fino alla fine della legislatura. Si erano presi un impegno politico. Diverso invece l'approccio con Rousseau: anche qui sono in molti a tirarsi fuori dai 300 euro destinati alla creatura di Davide Casaleggio. Un mese fa in piena crisi di governo e con la possibilità di ritornare alle urne una gentile mail dello staff ricordò agli inadempienti che in caso di voto anticipato chi non si fosse messo in regola non sarebbe stato ricandidato. Passato lo spauracchio, è tornata l'anarchia. Che si porta dietro anche solenne promesse non ancora rispettate.

I nuovi furbetti dei rimborsi M5s: Pure Fico e Toninelli nella black list. Ci sono 36 parlamentari indietro di mesi con le restituzioni Un grillino: «Non è giusto versarli su un conto corrente privato». Paolo Bracalini, Mercoledì 10/07/2019 su Il Giornale. Ci sono ancora problemi con le «restituzioni» dei parlamentari Cinque Stelle, nel senso che molti grillini si sono dimenticati di farle e sono indietro di mesi con i pagamenti. Il sistema di rendicontazione interno è stato cambiato dopo lo scandalo della rimborsopoli M5s, quando si era scoperto che molti deputati (tra cui la Sarti, misteriosamente mai sanzionata dai vertici) e senatori facevano finta di bonificare la quota ma poi revocavano il bonifico e si intascavano lo stipendio pieno. Il sistema è cambiato ma i problemi rimangono, si vede che alla truppa M5s non piace molto versare 2mila euro al mese (sui 17mila che ricevono dallo Stato) sul conto corrente intestato a Di Maio e soci. La mancata restituzione viene usata come pretesto per cacciare quelli che non vanno bene a Di Maio, come le ultime due espulse Gloria Vizzini e Veronica Giannone, eppure ci sono 36 parlamentari indietro con i versamenti dal 2018 ad oggi, senza che nessuno dica niente. E tra loro ci sono pezzi da novanta del Movimento, come il presidente della Camera Roberto Fico e il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli. Le informazioni sono pubbliche sul sito Tirendiconto.it, basta scorrere le pagine dei singoli parlamentari per vedere che il sistema funziona senza una logica. Alcuni parlamentari hanno rendicontazioni aggiornate al giugno scorso, altri si fermano invece a settembre del 2018 come appunto Fico e Toninelli, altri addirittura non pagano niente da un anno, come il senatore Lello Ciampolillo, tecnico di rete a Bari, uno di quelli che secondo i rumors sarebbe prossimo all'espulsione. Ciampolillo, stando al sito del M5s, non rendiconta nulla dal luglio 2018. Diversi parlamentari giustificano l'assenza di rendicontazioni con un semplice ritardo nel caricamento dei dati (così fanno sapere gi entourage di Fico e Toninelli), una spiegazione che non convince affatto. Altri infatti fanno capire chiaramente che dietro i mancati pagamenti c'è un problema interno al Movimento. Il deputato M5s Davide Galantino, fermo con le restituzioni a settembre 2018, non si nasconde dietro fantomatici ritardi tecnici: «È vero, non ho versato. Ma molti di noi hanno scelto di non farlo perché non condividono il fatto che i nostri soldi finiscano ad un conto corrente privato» spiega al Mattino, riferendosi al cc su cui finiscono i versamenti, intestato a Di Maio e ai due capigruppo Patuanelli e D'Uva. «Abbiamo chiesto soluzione alternativa in questi mesi, ma niente. Nessuna risposta. La fiducia deve essere reciproca» commenta ancora il deputato Galantino. La questione dei pagamenti verso un conto corrente gestito da tre persone del Movimento è già emersa. I peones grillini (molti dei quali prima di vincere la lotteria parlamentare non avevano mai visto 10mila euro tutti insieme in vita loro) non vogliono sganciare la grana e si appellano alla non regolarità del versamento in assenza di un atto pubblico di un notaio. L'appiglio legale è l'articolo 782 del Codice civile secondo cui l'atto pubblico è richiesto, a meno che non si tratti di donazioni di «modico valore». E trattandosi di migliaia di euro ogni mese in questo caso il valore non sarebbe affatto modico. Il sistema non convince la truppa e quindi molti chiudono i bonifici, senza che i vertici intervengano. A meno che non vogliano cacciarne qualcuno, a quel punto hanno un ottimo pretesto per farli fuori.

Francesco Specchia per “Libero quotidiano”  il 10 luglio 2019. Se c' è un'epica che contrassegna il grado di civiltà dei politici, quella è l' epica del "rimborso al partito". "Rimborso" è lemma rotondo, pregno di morale, è segno di democrazia. I Cinque Stelle, soprattutto, hanno sempre fatto fiero vanto dei 3000 euro netti sfilati eticamente - e secondo statuto - al proprio stipendio da parlamentare, per finire nei flussi di cassa destinati ad opere meritorie come il microcredito per le piccole e medie imprese. Sicché, oggi, suona sgraziato che nella lista di deputati e senatori M5S per i quali risulta una «mancata restituzione forfettaria dal mese di ottobre 2018», risultino nomi possenti come Roberto Fico e Danilo Toninelli. Secondo il quotidiano Il Mattino che riporta i dati del sito tirendiconto.it che analizza i flussi di cassa delle restituzioni grilline, il presidente della Camera e il ministro dei Trasporti sarebbero morosi. La loro situazione debitoria nei confronti del partito comincia a diventare un tantino imbarazzante. E, a rigor di regolamento interno - un tantino talebano, certo -, andrebbero espulsi. Come espulse d'imperio sono state, per esempio, le onorevoli Gloria Vizzini e Veronica Giannone, a mezzo agenzia di stampa; e non solo per non aver votato il decreto sicurezza, ma anche per via della mitica "mancata restituzione forfettaria", appunto. Idem per il senatore al secondo mandato Lello Ciampolillo, oramai sulla via dell' abbandono, vuoi perché ribelle oltremisura, vuoi perché mancato restitutore addirittura dal luglio 2018. Ora, se Ciampolillo serviva alla causa perché ballando la maggioranza di soli tre voti Di Maio non si poteva permettere d'asfaltarlo (ma ora dovrebbero arrivare due nuovi senatori gialloverdi), per gli altri la situazione è grave ma non è seria. Pare che, tra gli zelanti fustigatori di costume, all' atto di pagare ci sia stata una sorta di amnesia collettiva. Alla Camera gli smemorati sono Nadia Aprile, Carlo Ugo De Girolamo, Rina De Lorenzo, Paola Deiana, Daniele Del Grosso, Federica Dieni, Francesca Galizia, Angela Ianaro, Luigi Iovino, Dalila Nesci, Marco Rizzone, Roberto Rossini, Elisa Siragusa, Arianna Spessotto, Patrizia Terzoni, Giorgio Trizzino e Andrea Vallascas. Inoltre, non avrebbero pagato - ma da novembre - Massimo Enrico Baroni, Gianluca Rizzo, e il sottosegretario ai Beni culturali Gianluca Vacca. Fuori, ma a partire da dicembre, sarebbero poi Diego De Lorenzis, Massimiliano De Toma e Federico D' Incà. senatori morosi Al Senato i desaparecidos del rimborso risultano Cristiano Anastasi, Luigi Di Marzio, Fabio Di Micco, Franco Ortolani Gelsomina Vono e Vittoria Deledda Bogo; e, da novembre, Cinzia Leone. Ci rendiamo conto che la lista è noiosa, che la mera compilazione di umane dimenticanze risulta stucchevole. Ma quel che ci colpisce non è il mancato rimborso in sé: quella è una faccenda che pertiene esclusivamente al "foro interno" del Movimento e dei suoi iscritti. Soldi - e fatti - loro. No. Quel che ci impressiona è il lento, progressivo, legittimo adeguamento dei politici M5S alla comune etica del parlamentare, da sempre considerata dal Movimento peste della democrazia. Intendiamoci: questa metamorfosi dei grillini non è di oggi. Il Che Guevara Di Battista nel 2014 conferì al M5S la somma record di 33. 319; nel 2017 la somma era di 3500 euro, il 90% in meno. Oggi Dibba è fuori dal Parlamento, ma provate a chiedergli un prestito nel nome del popolo grillino. Idem per Paola Taverna o Manlio Di Stefano, giusto per citare i Savonarola. Eppoi, c'è Fico. L'anno scorso, per dire, Roberto Fico vide calare le proprie donazioni, negli ultimi quattro anni, da 28.424 a 6.142 euro. Poi ci fu quella faccenduola dell' uso molto pop e molto fotografato del treno, del tram e della metropolitana. Fico è un fico, diamine è "uno di noi" commentarono giustamente gli elettori, per poi essere spiazzati dalla notizia del solito sito tirendiconto.it: Fico spendeva sì 314 euro di bus e metro, ma ne pagava 15.180, 60 di taxi. La qual cosa, capiamoci, per un'alta carica dello Stato è perfettamente legittima. Ora, a parte la tendenza secondo noi sempre più spinta dei parlamentari M5S a volersi fare espellere e finire nel Gruppo Misto per smetterla con l'odioso rimborso, la sensazione, nell'osservare i pentastellati, è che siano esattamente diventati come gli altri. Se questo sia un male, lo lasciamo decidere a loro, magari invocando la piattaforma Rousseau…

VOLEVI SOLO SOLDI, SOLDI. Domenico Di Sanzo per “il Giornale” 24 aprile 2019. Pagare stanca. E la polemica ritorna ciclica, a ogni assemblea di Luigi Di Maio con i parlamentari del Movimento Cinque Stelle. Come se non bastassero gli scontri quotidiani con gli alleati di governo della Lega, i pentastellati continuano a essere percorsi, a intervalli di tempo ormai regolari, da tensioni interne che minano la tenuta dei gruppi di Camera e Senato. Eletti al primo mandato contro «portavoce esperti», peones contro ministeriali, ortodossi contro governisti. Sono tante le faglie di frattura che non fanno che acuire le distanze tra lo stato maggiore e la pletora di onorevoli catapultati a Montecitorio e Palazzo Madama. Tra tutte le questioni ce n' è una, trasversale, e potenzialmente più dannosa rispetto a quelle dai connotati più ideologici o di contenuto politico. Ed è collegata alla gestione «verticale» del Movimento dell' uno vale uno, da tempo organizzato con una cinghia di trasmissione che segue un tracciato univoco: Davide Casaleggio, Luigi Di Maio, parlamentari. Il focolaio di rivolta più pericoloso riguarda i soldi. Tra bonifici per le restituzioni con importo forfettario, «donazione» mensile alla piattaforma Rousseau e periodici contributi per eventi e campagne elettorali, serpeggia nei gruppi un fastidio che unisce tutte le «correnti» di quello che una volta era il monolite a Cinque Stelle. A risvegliare le proteste, seppure anonime e mugugnate nei capannelli, sono state le voci di un nuovo «prelievo» dagli stipendi; 2mila euro da versare al comitato per le elezioni europee 2019 per il finanziamento della campagna elettorale. «Ancora non ci hanno detto niente - dice al Giornale un deputato - ma basta guardare i precedenti per credere che la notizia sia vera». Dei precedenti, l' ultimo, chiacchieratissimo tra i parlamentari, è il contributo per l' organizzazione di Italia 5 Stelle, la kermesse nazionale grillina svoltasi il 20 e 21 ottobre del 2018 al Circo Massimo di Roma. Anche in quel caso «ci hanno chiesto 2mila euro per finanziare la manifestazione, inserendoli nella quota eventi». Poi ci sono le spese fisse, tolte dallo stipendio ogni mese. Si tratta dei famosi e contestati «2mila e 300 euro mensili», comprensivi di bonifico di restituzione e 300 euro da versare all' Associazione Rousseau «per il mantenimento della piattaforma». Per quanto riguarda Rousseau, ci si chiede come venga utilizzata la donazione, stando ai continui rallentamenti e problemi tecnici dell' urna virtuale della democrazia diretta dei grillini. Sulle restituzioni il punto è un altro: deputati e senatori, in seguito alla modifica delle modalità di versamento del bonifico, hanno cominciato a sborsare 2mila euro mensili su un conto intestato al capo politico Luigi Di Maio e ai capigruppo nei due rami del Parlamento, Francesco D' Uva e Stefano Patuanelli. Ma dai gruppi confermano di non sapere ancora dove verranno destinati questi soldi, né si capisce se ci sarà una votazione su Rousseau per stabilirlo. Tutto in un contesto in cui il grosso dei parlamentari si sente escluso dalle decisioni che contano. E più di qualcuno lamenta di essere considerato solo per alzare la mano durante le assemblee che il capo politico tiene con gli eletti delle due Camere. Una mera funzione ratificatrice. Il modus operandi è stato inaugurato all' inizio della legislatura, come raccontato dal Giornale il 13 maggio 2018, quando, durante le trattative per la formazione del governo, i neo eletti erano stati invitati dai big a stare lontani dal Palazzo. E le «tasse interne» potrebbero essere la goccia in grado di far traboccare il vaso, perché, come dice un altro deputato «non possiamo versare tutti questi soldi».

La Spesopoli dei 5 Stelle. Panorama ha esaminato i giustificativi dei 50 milioni di rimborsi chiesti dai grillini. Scoprendo un uso smodato di diarie, vitto, affitti e trasporti, scrive Antonio Rossitto il 4 marzo 2019 su Panorama. Il grande bluff della morigeratezza grillina è stato svelato. Nell’ultima settimana, giornali e tv hanno messo in dubbio le decantate restituzioni dei Cinque stelle di una parte dello stipendio. Avete presente quei mitologici versamenti al fondo per le piccole e medie imprese italiane? Bene, al conto finale manca un milione e mezzo. Una decina di parlamentari avrebbe effettuato falsi versamenti con l’espediente più bambinesco: annullare il bonifico entro 24 ore, per intascare la ventilata resa. È seguito l’imbarazzato mea culpa e l’autosospensione di qualche interessato. Insomma, è scoppiata la rimborsopoli grillina. Ma in realtà, come verificato da Panorama, il problema non riguarderebbe solo un manipolo di furbetti. È tutto il sistema che vacilla, sotto i colpi di rendiconti spericolati e improbabili. Usando un’altra semplificazione giornalistica: è la spesopoli il vero baco. Perfino ad agosto, quando l’attività parlamentare è quasi nulla. Premessa fondamentale. L’11 agosto 2011 nel «Comunicato politico numero quarantacinque», pubblicato sul suo blog, Beppe Grilloratifica: «Ogni eletto percepirà un massimo di 3.000 euro di stipendio, il resto dovrà versarlo al Tesoro, e rinunciare a ogni benefit parlamentare». Ossia: alla diaria (3.503 euro al mese), ai rimborsi per l’esercizio del mandato (3.690 euro), alle spese per andare dall’aeroporto al Parlamento (1.107 euro), a quelle telefoniche (500 euro), oltre che a trasporti illimitati e gratuiti. Il totale è 8.800 euro al mese: di questi, solo 2 mila euro deve essere giustificato da scontrini o ricevute. Per il resto, quasi 7 mila euro, non serve nessun giustificativo. Criterio che non ha eguali in nessuna azienda o amministrazione pubblica. Una manna, per gli eletti di tutti gli schieramenti. Grillini compresi: che però, a differenza dei vituperati colleghi, hanno fatto voto di francescanesimo politico. Intendimento che permette al Movimento di professarsi agli antipodi dalla banda di manigoldi che, a suo giudizio, siederebbe a Montecitorio e a Palazzo Madama.  Facile proclama. Anche i Cinque stelle, però, non sono soggetti a nessun controllo né obbligo. Il sito Tirendiconto.it pubblica le note spese di deputati e senatori del M5s da marzo 2013, mese d’elezione, al dicembre 2017, ultimo mese di consuntivo. Dai calcoli di Panorama, i 123 «cittadini» hanno usato più di 50 milioni di euro: una media di più di 7 mila euro al mese. Sommati ai 3 mila euro auspicati ab origine, si raggiunge cifra tonda: 10 mila euro. Più di tre volte quanto indicato dal fondatore nel 2011. Il diavolo però si nasconde nei dettagli. Ovvero nei singoli resoconti dei grillini. Che prevedono una quarantina di specifiche voci: dagli «alberghi e simili» ai «servizi postali». Uno degli esempi che fa vacillare la loro buona fede sembra il consuntivo durante le vacanze estive. Agosto 2017, per esempio. Dagli archivi di Camera e Senato si apprende, ovviamente, che i lavori in aula hanno latitato. Appena due giorni di sedute: l’1 e il 2 agosto. Poi deputati e onorevoli sono filati in ferie fino a settembre. Sarebbe dunque logico ipotizzare che gli indennizzi dei Cinque stelle si limitino all’indispensabile: due giorni di trasferta a Roma. Punto. E invece anche sotto il Solleone, a leggere le loro ipertrofiche note spese, pare che tantissimi pentastellati non abbiano goduto di un attimo di riposo. Il regolamento parlamentare spiega: «La diaria viene riconosciuta a titolo di rimborso delle spese di soggiorno a Roma». Quindi, ad agosto 2017, andrebbe parametrata sui due giorni di sedute. Eppure decine di parlamentari grillini hanno utilizzato fino all’ultimo centesimo possibile. Esattamente come nei mesi di normale attività parlamentare. Con alcuni eclatanti eccessi, che fanno fortemente dubitare della genuinità dei ristori ottenuti. La rendicontazione più strabiliante è quella del senatore barese Lello Ciampolillo. Alla voce «alberghi» annota 2.604 euro: vista l’esiguità dei lavori d’aula, fanno 1.300 euro a pernottamento. Lo stipendio mensile di un operaio. Altri 1.681 euro li ha spesi in «trasporti»: di cui 768 euro per taxi. Sempre sotto la dizione trasporti, il collega siciliano Mario Giarrusso, che ha perfino saltato le votazioni del 2 agosto 2017, ha appuntato 1.026 euro. Poco più di quanto appuntato dal mitologico Alessandro Di Battista, leader dell’ala antagonista: 1.021 euro. Un altro recorman del ramo è il deputato siciliano Gianluca Rizzo, che ha intascato 1.103 euro solo di «rimborsi chilometrici». Mentre la senatrice romagnola Elena Fattori ha annotato 780 euro alla voce «Ztl Roma». Lo scorso agosto, sono stati cospicui pure i costi per il «vitto». L’onorevole Carlo Sibilia, noto tra le altre cose per aver definito una «farsa» lo sbarco sulla Luna, ha speso 1.425 euro. Il collega Mattia Mantero, bontà sua, s’è fermato a 1.356 euro, di cui ben 617 euro di generi alimentari. Entrando ancora di più nel dettaglio: alla voce «pranzi e cene di lavoro» primeggia con 640 euro la senatrice Paola Taverna, indomita pasionaria del Movimento. Nemmeno il suo fidanzato, l’onorevole Stefano Vignaroli, ha lesinato su bar e ristoranti: 795 euro euro. Fra le varie ed eventuali, si potrebbero poi inserire i 457 euro investiti in «abbonamenti o ricariche telefoniche» dall’ormai celebre Andrea Cecconi, capogruppo del M5s alla Camera, vicinissimo al leader Luigi Di Maio, al centro della Rimborsopoli grillina dopo il servizio delle Iene. Chi ha ottenuto di più lo scorso agosto è stato però il deputato Cosimo Petraroli: ha giustificato la bellezza di 11.319 euro, tra cui spiccano i 3.600 euro incassati sotto la vaghissima dizione «altre spese». Anche la contabilità generale è però di tutto rispetto. Sulla base dei resoconti grillini, Panorama ha calcolato che dall’inizio della legislatura a dicembre 2017 i parlamentari del M5s hanno ottenuto 50 milioni di euro di rimborsi. La somma più cospiscua è quella impiegata per l’alloggio: più di 10 milioni. Piuttosto esigente in fatto di immobili è Marta Grande, blogger, la più giovane deputata dei Cinque stelle, ricandidata dopo aver sbancato alle Parlamentare laziali. Per la sua magione ha pagato 132 mila euro: una media di 2.200 euro al mese. Nota a margine: Grande è di Civitavecchia, ad appena una cinquantina di chilometri dalla capitale. C’è chi però di una casa non s’accontenta. Il già citato Ciampolillo ha sborsato fino a ottobre 2017 ben 90 mila euro per soggiornare in hotel. E quasi 25 mila solo negli ultimi dieci mesi. Il parlamentare pugliese, già mattatore dell’agosto 2017, è indiscusso recordman in diverse categorie. Quasi 70 mila euro li ha utilizzati per trasporti: noleggio auto, rimborsi chilometri, parcheggio e ben 28 mila euro di taxi. Un lusso che pochi militanti potrebbero permettersi.  Così come i quasi 39 mila euro investiti dal deputato veneto Mattia Fantinati in pranzi, cene e bar. O i 28 mila euro spesi in generi alimentari dal senatore Carlo Martelli, anche lui coinvolto nella Rimborsopoli che sta travolgendo il Movimento. Le consulenze, vituperatissime dai grillini, sono un altro record dell’ineffabile Ciampolillo: 183 mila euro, fino a ottobre 2017. E quasi 47 mila negli ultimi dieci mesi, con picchi di 6.200 euro, come a gennaio 2017. Segue a ruota la senatrice Barbara Lezzi, pure lei finita nel tritacarne dei falsi bonifici, con quasi 106 mila euro.  Nell’assistenza legale brilla invece Di Battista: 56 mila euro, più di mille al mese. Mentre Di Maio, come rivelato da Panorama, ha speso ben 171 mila euro in «attività ed eventi sul territorio». Il candidato premier adesso promette pulizia, mentre sgrana gli occhi da cerbiatto: «Cacceremo le mele marce» assicura. Si mostra sorpreso che cotanto clamore insozzi i gigli parlamentari che rappresenta. Dimentica però uno dei capisaldi della Prima repubblica. Lo consegnò ai posteri il leader socialista Pietro Nenni: «A fare il puro c’è sempre qualcuno che ti epura».

Rimborsopoli, il vero problema sono Le Iene, non i cinquestelle. Il M5s è solo il fratello scemo del grillismo, scrive Emanuele Boffi il 14 febbraio 2018 su Tempi. La radice del problema è la malapianta del risentimento che da anni è coltivata dai mass media e di cui i grillini sono solo l’epifenomeno più chiassoso, effimero e passeggero. Voglio scrivere una cosa contromano e impopolare: il problema non sono quegli sciamannati dei grillini, il problema sono Le Iene. Riassunto per chi si fosse perso la notizia. Le Iene hanno scoperto e sputtanato due parlamentari grillini che hanno presentato per anni bonifici fittizi: fingevano di restituire una parte del loro stipendio, ma, in realtà, dopo aver fatto il versamento, essersi fatti il selfie e aver postato sul sito tirendiconto.it la ricevuta, lo annullavano. Per il Movimento che ha fatto della retorica sull’onestà la propria stella polare è una mazzata. Scoprire di essere come tutti gli altri, per il partito che ha fatto fortuna mandando affanculo tutti gli altri, è la cosa peggiore che potesse capitare. Va bene, ben gli sta e io godo. Ma terminato l’orgasmo politico per quei marrani dei cinquestelle, che rimane? Rimane il problema di fondo. Ieri su Repubblica Sebastiano Messina se l’è presa coi “furbetti dello scontrino” pestando nel mortaio delle contraddizioni pentastellate. “Non è vero che restituivano i soldi”, avete visto? “Anche loro sono marci”, vi rendete conto? è il senso del ragionamento di Messina mentre fa l’elenco delle marachelle degli onesti. Così, però, si vagabonda sempre nello stesso labirinto logico: Messina non è nemmeno sfiorato dal dubbio che l’idea del “rimborso” sia una solenne pagliacciata propagandistica in sé, che poi questa venga assolta o meno. È l’idea stessa di poter far politica a costo zero a essere lunare. Ci sono due truffe, una nascosta e una palese: quella palese, scoperta dalla Iene, è che anche i grillini fanno i furbi con gli scontrini. Quella nascosta è l’idea che se restituisci parte del tuo stipendio da parlamentare, l’Italia andrà a posto. Non è vero. Non è vero perché la politica costa, e se tu non metti in condizione chi la esercita di poterla pagare allora le alternative sono solo due: o la fanno solo i ricchi o il politico dovrà trovare un modo (magari illecito) per sostenere il suo impegno. Si può anche pensare che se togliamo gli stipendi a deputati a senatori, poi il paese riparta, ma è una balla, rendiamocene conto. Ieri sul Foglio, Claudio Cerasa ha scritto parole di buon senso e condivisibili. Rimborsopoli è l’esempio del «grillismo demolito dai mostri alimentati dal grillismo». Scrive Cerasa: «La storia dei rimborsi tarocchi dei due parlamentari Andrea Cecconi e Carlo Martelli – e forse non solo loro – può essere raccontata utilizzando due chiavi di lettura. La prima è quella utilizzata da gran parte degli osservatori che in queste ore ci hanno raccontato che ah, quanto era bello il grillismo delle origini. È una chiave di lettura a sua volta grillina. (…) La seconda chiave di lettura, invece, è più sofisticata. Ovverosia: non esiste una forma di moralizzazione buona e una forma di moralizzazione cattiva e non esiste un grillismo buono e uno cattivo. Esiste, molto semplicemente, una dannosa truffa politica chiamata moralismo, che un pezzo importante del nostro paese ha scelto da anni di considerare non un virus letale ma al contrario un utile antibiotico da somministrare all’Italia per provare a guarirla dai suoi mali». Ci stiamo avvicinando alla questione. Cerasa fa bene a ricordare il celebre motto di Nenni (arriva sempre uno più puro di te che ti epura) e la saggia osservazione di Benedetto Croce (l’onestà in politica non è altro che la capacità politica), ma qui si vorrebbe provare a spingersi oltre e dire che, quand’anche il partito delle cinque stelle andasse a gambe all’aria; quand’anche a Di Maio capitasse quel che è successo ad Antonio di Pietro, che dopo anni di lotta ai “ladri” fu inchiodato da Report sui suoi affarucci immobiliari; quand’anche Di Battista fosse beccato con le mani nel sacco a non pagare il caffè alla buvette del Transatlantico; ecco, quand’anche accadesse tutto ciò, noi non avremmo risolto il busillis. Perché il problema – la radice del problema – è costituita dalla malapianta del risentimento che da anni è coltivata dai mass media e di cui i grillini sono solo l’epifenomeno più chiassoso, effimero e passeggero. Il problema sono Le Iene, è Striscia la notizia, è Report. Sono loro che ogni volta soffiano sul fuoco con spirito distruttivo, aizzando gli animi contro “i politici”. Il fenomeno Grillo l’ha inventato il Corriere della Sera, ricordiamocelo sempre. I Cinquestelle sono i figli della propaganda sulla Casta, il libro di Rizzo e Stella. Accendete la tv, ascoltate la radio, leggete i giornali: di cosa vive oggi l’informazione? Di denunce, di sputtanamento, di fiele riversato contro tutto e tutti. Non sto dicendo che non bisogna dire, scrivere, sottolineare cosa non va. Sto dicendo che esiste ormai un genere letterario giornalistico che fa politica nel modo peggiore possibile. Ed è un genere letterario che ha il solo scopo di disfare, martellare, solleticare istinti di vendetta, ricevere l’applauso della platea e incassare i soldi del biglietto. Il grillismo è più grande e diffuso del M5s, che ne è solo la parte più pittoresca e scalcagnata, la meno furba. Il M5s è il fratello scemo del grillismo. È ora di iniziare a mettere sul banco degli imputati i corifei di questa mentalità, questo grillismo diffuso che sta fuori dal blog di Grillo e che ammorba l’Italia dai tempi di Mani Pulite (è una vecchia storia, insomma) e che si può permettere di tutto senza mai sentirsi in dovere di ritrattare, chiedere scusa, tornare sui propri passi (la vicenda Stamina, da questo punto di vista, è esemplare). Spremuto il fiele da Di Pietro, sono arrivati i grillini. Spremuti i grillini, ne arriveranno altri. Le Iene continueranno a ridere nel loro cantuccio, aspettando la prossima preda.

Caso Sarti, cosa fanno oggi i «furbetti» M5S delle restituzioni, scrive Riccardo Ferrazza su Il Sole 24 ore il 4 marzo 2019. La vicenda di Giulia Sarti, l’esponente del Movimento 5 Stelle che si è autosospesa e si è dimessa da presidente della commissione Giustizia della Camera dopo che i pm hanno chiesto di archiviare le sue accuse nei confronti dell’ex fidanzato Andrea Tibusche Bogdan per l’utilizzo di circa 23mila euro destinati al Fondo per il microcredito, si arricchisce di nuovi dettagli. Come per tutta la storia “Rimborsopoli” a Cinque stelle deflagrata lo scorso anno, anche stavolta sono state “Le Iene” a svelare i nuovi dettagli. Nella puntata di ieri è Bogdan a confermare di essere un mero esecutore delle disposizioni della sua ex fidanzata. «Io non vedo l’ora di arrivare al processo» ha affermato, aggiungendo poi di sapere come sono stati spesi quei soldi che Sarti non ha restituito: «Ha anche prestato del denaro, 7mila euro, a suo padre per l’acquisto di un’autovettura e la ristrutturazione della casa avvenuta nel 2017». Spunta un’ipotesi: parte di questi soldi potrebbero essere stati spesi per le riprese di alcuni filmini hard a casa dei due. Filmini - sostengono le Iene - in possesso di Bogdan. La storia ribattezzata “rimborsopoli” cominciò alla vigilia delle elezioni del 4 marzo. La trasmissione tv di Italia 1 scoprì che diversi esponenti del Movimento 5 Stelle facevano i bonifici per restituire parte del loro stipendio da parlamentare, come previsto dal regolamento interno, ma quei versamenti venivano annullati. Alcuni spiegarono e rimediarono, altri furono sospesi. A un anno di distanza, ecco cosa fanno oggi alcuni di loro.

Andrea Cecconi, nel 2018 era deputato uscente al primo mandato e già presidente del gruppo alla Camera, inserito nelle liste M5S per le politiche del 4 marzo, comparve nell’elenco dei “morosi” del Movimento 5 Stelle. Deferito al collegio dei probiviri, annunciò che avrebbe rinunciato alla sua elezione. Al collegio uninominale a Pesaro sconfisse il candidato Pd, l’allora ministro dell’Interno Marco Minniti. «Manterrò la mia parola» disse, assicurando che avrebbe dato le dimissioni dopo la proclamazione degli eletti. Quindici giorni più tardi la marcia indietro: «Ho firmato con Luigi (Di Maio, ndr) un impegno che prevedeva le mie dimissioni una volta eletto, ma poi ho anche chiamato una mia amica in Cassazione e lei mi ha detto che quel documento lo posso anche cestinare». Oggi Cecconi è iscritto al gruppo Misto-Maie. Lo scorso 21 febbraio ha annunciato il suo voto favorevole alla proposta di legge costituzionale in materia di referendum, uno delle misura-bandiera del movimento.

Carlo Martelli era nella lista di quanti avevano realizzato degli ammanchi nelle donazioni al Fondo per le Pmi (nel suo caso 81mila euro). Senatore uscente e ricandidato, cercò di rimediare («Purtroppo non posso rimettere la frittata nelle uova»): riconobbe la mancata donazione per 8.016,16 euro e fece un bonifico di 80mila euro andando oltre «a quanto effettivamente avrei dovuto donare, per un totale di 216.714,84 euro». Rieletto a Palazzo Madama, è iscritto al gruppo misto. Votò la fiducia al governo di Giuseppe Conte (che incassò 171 sì).

Anche Maurizio Buccarella fu “pizzicato” dalla trasmissione di Italia 1: cercò di spiegare l’ammanco di ben 130mila euro («i poco più di 3mila euro mensili netti che i parlamentari M5S si sono attribuiti come retribuzione effettiva, non mi avrebbero permesso, alla mia età, di tornare alla mia vita, nel mio studio professionale - dopo uno stacco di cinque anni senza alcun “paracadute” o vantaggio acquisito per i contatti professionali - con una accettabile serenità») e venne “scomunicato”. Comunque rieletto al Senato, si iscrisse al gruppo Misto e, come l’altro ex pentastellato Martelli, assicurò che avrebbe sostenuto «le scelte del governo nel corso della legislatura». Il suo apporto è stato prezioso per controbilanciare la dissidenza dei parlamentari a cinque stelle, come nel caso del decreto sicurezza dello scorso novembre.

A Silvia Benedetti, padovana, furono imputati mancati versamenti per circa 23mila euro. Eletta alla Camera come capolista al plurinominale nel collegio di Padova, è stata allontanata dal movimento. È iscritta al gruppo Misto ma ha votato la fiducia al governo giallo-verde. In seguito non ha però partecipato al voto di fiducia sul milleproroghe e non ha votato la legge di bilancio. «Il Movimento 5 Stelle - ha detto - si è subito dimostrato uguale al Pd».

Nella graduatoria delle restituzioni Ivan Della Valle, “No Tav” e pro-acqua pubblica, risultava uno dei parlamentari più generosi con 283.911 euro versati. «Taroccavo i bonifici con Photoshop» ammise però il deputato che venne espulso. Dopo le elezioni, disse: «Da una parte c’era la mia situazione personale che è stata la causa dei problemi economici», ma «dall’altra parte c’era la mia posizione divergente con quella del MoVimento». Già prima dello scandalo non risultava candidato: era arrivato al secondo mandato (uno al Comune di Torino, l'altro alla Camera). A Montecitorio è stato eletto un suo collaboratore, Luca Corbetta, ingegnere energetico esperto di nuove tecnologie.

Luigi Di Maio e la "rimborsopoli M5s". Spese pazze in Parlamento: come ha usato 131mila euro Marta Grande, scrive il 4 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Spese pazze in Parlamento, anche nel Movimento 5 Stelle. Il Giornale parla di una "rimborsopoli" che coinvolge direttamente la "casta" grillina, che sperpera soldi pubblici in modo decisamente fantasiosi e non convenzionali. Secondo i dati del sito maquantospendi.it, il recordman è Lello Ciampolillo, barese riconfermato al Senato, che nella scorsa legislatura ha speso 176.548 euro in consulenze. L'enfant prodige Marta Grande, al secondo mandato da deputata, ha invece speso 131.000 euro in alberghi e alloggio. Oggi, non a caso, è presidente della Commissione Affari esteri della Camera. La ministra per il Sud Barbara Lezzi ha richiesto allo Stato 27.258 euro in benzina, mentre il vicepremier Luigi Di Maio ne ha spesi 24.690 euro tra materiale informatico, francobolli e cancelleria. E la sottosegretaria all'Economia Laura Castelli? In taxiha speso 26.825 euro, poco più dei 24mila euro spesi dal deputato Mario Michele Giarrusso in pranzi e cene.

Manuel Spadazzi per “il Resto del Carlino” (intervista del 28 aprile 2013). «Non Ho Nulla da nascondere, io. Stanno provando a denigrarmi con questi argomenti, perché non ne hanno altri per attaccarmi dal punto di vista politico». Giulia Sarti è un fiume in piena. Dopo che un gruppo di sedicenti ‘hacker del Pd’ è riuscito a entrare nella posta della parlamentare riminese e di altri colleghi del M5S, ieri sono uscite alcune indiscrezioni secondo cui, in quei file ‘rubati’ ai deputati grillini, ci sarebbero anche foto a luci rosse.

Onorevole Sarti, ci sono anche sue foto tra quelle dello scandalo Grilloleaks?

«Non lo so, perché non sono riuscita a vedere i file pubblicati in Rete. Ma rendere pubblici quei contenuti, e adombrare poi che vi sia del materiale compromettente, è puro ricatto».

Ma lei, in quelle mail, che cosa aveva scritto e inviato?

«Senta... mi hanno ‘rubato’ sette anni di posta privata. Sono sette anni di vita. Nella mia casella di posta, che ora è sotto sequestro e vigilata dalla polizia postale a cui ho sporto denuncia, c’era di tutto: le mail inviate agli amici, agli altri attivisti del M5S, quelle a Grillo. Sicuramente c’erano anche delle foto, ma non certamente immagini scandalose».

Come ha preso tutta questa faccenda?

«Male, malissimo. Sono una ragazza di 27 anni, ho avuto dei ragazzi anch’io, ho una vita privata anch’io: le pare giusto sbatterla in pasto così, a tutti? Io, comunque, non ho nulla da nascondere. Ho sempre condotto una vita normale, pari a quella di tante altre ragazze riminesi. Che ci provino a pubblicare le mie foto, se hanno il coraggio».

Ritiene che sia uno scandalo provocato ad arte per screditare il Movimento?

«Assolutamente sì. Mi difenderò, lo sto già facendo. Querelerò chiunque ha accostato la mia immagine alla notizia delle foto hard. Ma mi difenderò soprattutto con il mio lavoro, come ho sempre fatto da quando sono entrata alla Camera. Perché non si parla di quello che faccio come parlamentare, dell’iniziativa che ho portato avanti sulle carceri con Ilaria Cucchi e Patrizia Aldrovandi?».

Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” il 7 marzo 2019. «A questo punto dobbiamo soltanto decidere se presentare una denuncia per calunnia contro Sarti o una richiesta di risarcimento danni». Pochi minuti dopo aver saputo che il giudice ha archiviato l'inchiesta, Bogdan Tibusche parla con il suo avvocato Mario Scarpa e pianifica le prossime mosse. «Ha mentito - dice - mi ha accusato ingiustamente e deve pagare». La guerra tra i due fidanzati dunque continua e potrebbe coinvolgere alcuni esponenti di primo piano del Movimento 5 Stelle se è vero che, come Tibusche ripete da giorni, «tutti sapevano che la sua era una denuncia falsa». Rimborsi non versati, ripicche tra innamorati, filmini: la lite tra i due adesso si sposta anche di fronte ai probiviri che dovranno decidere sull' espulsione di Giulia Sarti chiesta dal capo politico Luigi Di Maio. E in quella sede l'onorevole, che si è già dimessa da presidente della commissione Giustizia, dovrà difendersi anche dall' accusa di aver utilizzato i soldi destinati al Movimento - così come prevede lo statuto interno - per acquistare auto, pagare affitti e installare telecamere in camera da letto. Spese di cui si parla nelle chat consegnate dallo stesso Tibusche al pubblico ministero di Rimini. «Ho restituito più di 170 mila euro. Se il Movimento, dopo aver letto tutte le memorie e i riscontri con le evidenze bancarie riterrà di dovermi espellere senza motivo, deciderò. Ma fino a quel momento, rimango», ha scritto lei su Facebook. Scrive il giudice motivando la decisione di archiviare l'accusa di appropriazione indebita e truffa contro Tibusche: «Sarti ha sempre avuto la possibilità di controllare i movimenti del conto corrente. Tibusche era stato autorizzato ad operare sul conto anche attraverso l'utilizzo del token che gli permetteva di effettuare bonifici e altre operazioni bancarie. Non emerge in alcun modo che avesse superato i limiti previsti dagli accordi intercorsi tra le parti, infatti soltanto dopo lo scoppio dello scandalo l'onorevole ha contestato all' indagato l'appropriazione di somme di denaro». Non solo: «Emerge che alcuni bonifici furono effettuati dalla stessa onorevole, la quale è riuscita anche a ricostruire i movimenti bancari sin da 2014, dunque non ci sono elementi idonei per ritenere che Bogdan abbia sottratto le somme di danaro senza che l'onorevole Sarti avesse autorizzato o approvato quantomeno implicitamente tali operazioni». Due giorni fa Sarti ha presentato una memoria cercando di ribaltare il giudizio dei magistrati, ma il giudice ha ritenuto che non fosse in alcun modo credibile. Scrive il giudice: «Sostiene che non avrebbe mai autorizzato Tibusche a prelevare somme per pagare il canone di locazione dell'appartamento e che fino al 13 febbraio 2018 avrebbe riposto piena fiducia nel suo allora fidanzato e solo il 14 febbraio si sarebbe resa conto dell'asportazione di ingenti somme da parte dell' indagato. Le osservazioni sono agevolmente superabili ribadendo che la stessa Sarti ammette di avere effettuato controlli sui bonifici e non aver riscontrato irregolarità». Tibusche ieri ha dichiarato all' Adnkronos , rilanciato da alcuni siti, che consegnerà all'avvocato l' elenco delle spese: «Dei 17.800 euro "imputati a me", 5 mila euro sarebbero stati accantonati per pagare il Tfr della collaboratrice di Giulia: dovevo metterlo da parte prima della campagna elettorale, dato che lei non aveva la certezza di essere rieletta e quei soldi li doveva"; 600 euro sarebbero stati spesi per un sistema microfonico wireless Sennheiser G2 per fare i suoi video politici e per i social e altri mille per due telefoni Samsung S6». Infine i 4 mila euro per il sistema di telecamere di videosorveglianza installato a casa della Sarti. Il giovane non scende nel dettaglio ma sibillino annuncia: «Ho le prove di acquisto».

L'ex fidanzato incastra la Sarti: "Sapeva dei bonifici". L'offensiva di Bogdan contro la deputata che l'aveva accusato di aver sottratto i rimborsi a M5s, scrive Fabrizio Boschi, Giovedì 07/03/2019, su Il Giornale. La serie tv Giulia Sarti contro Andrea Bogdan Tibusche è giunta alla quarta puntata e la guerra tra i due ex fidanzatini si fa sempre più avvincente. Ieri il gip di Rimini ha depositato il provvedimento di archiviazione per la denuncia di appropriazione indebita presentata dalla deputata romagnola nei confronti del suo ex compagno rumeno, dopo il coinvolgimento della deputata M5s nel caso «Rimborsopoli». Adesso l'informatico salernitano, in arte Andrea De Girolamo, vuole andare fino in fondo, e si toglie parecchi sassolini dalle scarpe. «Ho la prova che alcuni bonifici a mio carico, oggetto di accusa di appropriazione indebita, sono stati eseguiti da lei. Di sicuro non finisce con un'archiviazione. Anche perché basta una sola mail per dimostrare il marcio e la malafede», minaccia Bogdan Tibusche mostrando lo screenshot di una mail inviatagli dalla Sarti il 7 giugno 2017 alle 13.25. L'oggetto è «ricevuta affitto». All'interno, un file pdf nominato «Ricevuta bonifico Andrea», copia di un bonifico di 1.400 euro effettuato dalla Sarti lo stesso giorno a Gianfranco I., proprietario della casa di Salerno in cui Bogdan Tibusche vive. Secondo l'ex compagno della deputata si tratta della «prova» che «non solo lei sapeva benissimo dei soldi per l'affitto, ma che addirittura me lo pagava lei e mi mandava le ricevute». Su dove siano finiti gli altri soldi Bogdan Tibusche sa tutto. Dei 17.800 euro «imputati a me», 5mila euro sarebbero stati accantonati per pagare «il tfr della collaboratrice di Giulia: dovevo metterlo da parte prima della campagna elettorale, dato che lei non aveva la certezza di essere rieletta e quei soldi li doveva»; 600 euro sarebbero stati spesi «per un sistema microfonico wireless per fare i suoi video politici sui social» e altri mille «per due telefoni Samsung S6». Poi 4mila euro per il famoso «sistema di telecamere di videosorveglianza» a casa della parlamentare, sul quale Bogdan Tibusche non aggiunge altro. E anche ieri la Sarti dà in pasto a Facebook il suo amaro sfogo giurando di «non aver intascato un centesimo» ma, anzi, di aver restituito «più di 170mila euro» al M5s. «Se il Movimento, dopo aver letto tutte le memorie e i riscontri con le evidenze bancarie, riterrà di dovermi espellere senza motivo, tutti saranno informati. Fino a quel momento io non abbandono il Movimento in cui credo e per cui ho dato tutta la mia vita in questi 12 anni». E invece che con il suo ex che spiffera tutto a tutti, se la prende coi soliti giornalisti cattivi: «Non inventatevi più bugie». Mah...

Antonio Atte per “Adnkronos” il 6 marzo 2019. "Di sicuro non finisce con un'archiviazione. Anche perché basta una sola mail per dimostrare il marcio e la malafede". Andrea Bogdan Tibusche, in arte Andrea De Girolamo, adesso vuole andare fino in fondo. Il Gip di Rimini oggi ha depositato il provvedimento di archiviazione per la denuncia per appropriazione indebita presentata l'anno scorso dalla deputata Giulia Sarti nei confronti del suo ex fidanzato, dopo il coinvolgimento della parlamentare romagnola nel caso "rimborsopoli". E ora l'informatico salernitano vuole iniziare a togliersi qualche sassolino dalla scarpa. "Ho la prova - annuncia all'Adnkronos - che alcuni bonifici a mio carico, oggetto di accusa di appropriazione indebita, sono stati eseguiti da lei". De Girolamo ci mostra lo screenshot di una mail inviatagli dalla Sarti il 7 giugno 2017 alle ore 13.25. L'oggetto della mail è "ricevuta affitto": all'interno, un file Pdf dal titolo "Ricevuta bonifico Andrea", che è la copia di un bonifico di 1.400 euro effettuato dalla Sarti lo stesso giorno al signor Gianfranco I., proprietario della casa di Salerno in cui Bogdan vive. Secondo l'ex compagno della deputata, si tratta della "prova" che "non solo lei sapeva benissimo dei soldi per l'affitto, ma che addirittura me lo pagava lei fisicamente e mi mandava la ricevuta". Tra l'altro, sottolinea Bogdan, "in quel periodo non ero nemmeno in Italia. Sono partito per la Romania il 2 giugno per poi rientrare in Italia il 12 luglio". E a sostegno della sua affermazione l'informatico allega lo screenshot del biglietto aereo Roma Fiumicino-Bacau andata e ritorno. Per contestualizzare il tutto bisogna avvolgere il nastro e tornare indietro di un anno. A un mese circa dalle elezioni politiche del 2018 scoppia il caso delle finte rendicontazioni grilline e il nome della Sarti finisce nell'elenco dei furbetti de Le Iene. All'appello mancano 23.500 euro e la parlamentare scarica tutta la colpa sull'ex fidanzato, accusandolo di essersi appropriato di quella cifra. Sarti allega nella denuncia alcuni bonifici, tra cui quelli indirizzati al proprietario della casa di Salerno dove Tibusche vive, precisando di non essere a conoscenza delle operazioni in questione. Tra l'altro nel dispositivo dell'archiviazione di Bogdan (visionata dall'Adnkronos) si fa riferimento a una memoria depositata da Sarti il 5 marzo 2019, nella quale "si sostiene che la Sarti non avrebbe mai autorizzato Tibusche a prelevare somme per pagare il canone di locazione dell'appartamento di Salerno". "Ma lei sapeva perfettamente dei bonifici", ribatte Bogdan mostrando la mail di giugno 2017 con il bonifico ("uguale a tutti gli altri fatti", sostiene l'informatico). Su dove siano finiti gli altri soldi che - stando alla denuncia di Sarti - mancherebbero all'appello, Bogdan ha le idee chiare. Dei 17.800 euro "imputati a me", spiega all'Adnkronos, 5mila euro sarebbero stati accantonati per pagare "il tfr della collaboratrice di Giulia: dovevo metterlo da parte prima della campagna elettorale, dato che lei non aveva la certezza di essere rieletta e quei soldi li doveva"; 600 euro sarebbero stati spesi "per un sistema microfonico wireless Sennheiser G2 per fare i suoi video politici e per i social" e altri mille "per due telefoni Samsung S6". Poi - sostiene sempre Tibusche - ci sarebbe una spesa di 4mila euro riconducibile all'ormai famoso "sistema di telecamere di 'videosorveglianza'" installato a casa della parlamentare, sul quale Tibusche non vuole scendere nel dettaglio. "Ho le prove di acquisto", si limita a dire. Oggi la Sarti (che nel frattempo si è autosospesa dal M5S lasciando anche l'incarico di presidente della Commissione Giustizia) è intervenuta con un post su Facebook. "Finché c'è il procedimento in corso con i probiviri non me ne vado da nessuna parte - è lo sfogo della deputata - perché avevo già dimostrato un anno fa di non aver intascato un centesimo e quindi non ho mai danneggiato l'immagine del Movimento cui appartengo da 12 anni. Anzi, ho restituito più di 170.000 euro, tutti certificati e verificabili sulla nostra piattaforma di rendicontazione". Se il Movimento "dopo aver letto tutte le memorie e i riscontri con le evidenze bancarie che invierò, riterrà di dovermi espellere senza motivo, tutti saranno informati su quella che sarà la mia decisione. Fino a quel momento, io non abbandono il Movimento", chiosa Sarti. Ma il suo destino sembra ormai segnato. Per i vertici grillini l'espulsione della deputata dal M5S è "doverosa".

Giulia Sarti: "Non lascia il Movimento". Vertici M5s: "Al lavoro probiviri, espulsione doverosa". Intanto la deputata grillina Francesca Businarolo eletta nuova presidente della commissione Giustizia al posto di Sarti, scrive il 5 marzo 2019 La Repubblica. La grillina Francesca Businarolo è il nuovo presidente della commissione Giustizia della Camera. La deputata prende il posto di Giulia Sarti, anche lei grillina, che ha lasciato l'incarico dopo che è venuta alla luce una complica vicenda relativa ai rimborsi elettorali del M5S. "Se mi dimetterò da deputata o passerò al Misto? Non c'è motivo, io non sono espulsa dal M5S", precisa l'ex presidente Sarti. Ma a stretto giro fonti vicine ai vertici del M5s hanno fatto sapere alle agenzie di stampa che l'espulsione è "doverosa", riecheggiando le parole di Di Maio dei giorni scorsi. "Nei confronti della deputata M5S si è avviato il procedimento disciplinare davanti al collegio dei probiviri. E le è stato comunicato il 4 marzo 2019. Si attende l'esito". Sarti: "Io ho fatto nascere il Movimento". Continua Sarti: "Confido di rimanere nel Movimento perché non ho fatto assolutamente niente. Io non lascio il M5s, io l'ho fatto nascere". Per Sarti, infine, "non c'è bisogno" di chiedere un incontro con Di Maio. "C'è un provvedimento dei probiviri in corso", ricorda. La Businarolo è stata eletta con 24 voti a favori, quelli di Lega e Movimento Cinque Stelle. Padovana di origine, Businarolo compirà 36 anni a luglio, è nei 5 Stelle dal 2009 ed è al suo secondo mandato parlamentari Il Pd ha votato per la deputata Lucia Annibali, mentre Forza Italia non ha votato per protesta. Al voto ha partecipato anche la Sarti che da tempo non si vedeva a Montecitorio. 

Giulia Sarti, la grillina silura Di Maio e il Movimento cinque stelle: "Nessuno mi ha espulsa", scrive il 5 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Non ha nessuna intenzione di farsi da parte la deputata grillina Giulia Sarti, travolta dallo scandalo sul caso "rimborsopoli". La Sarti si è dimessa dalla presidenza della Commissione giustizia alla Camera ma, come ha ribadito al fattoquotidiano.it, ha deciso di restare al suo posto nel M5s: "Se passerò al gruppo misto? Non c'è motivo, io non sono espulsa dal M5s". Anzi, la Sarti è sicura che non andrà via, anche perché "non ho fatto assolutamente niente. Io non lascio il M5s, io l'ho fatto nascere". E poco importa alla parlamentare grillina di essere stata di fatto scaricata da Luigi Di Maio a tempo record. Non appena era emerso che la Sarti aveva ingiustamente accusato il suo ex fidanzato, il leader grillino aveva parlato di "espulsione doverosa". Secondo la deputata: "Avrà avuto i suoi motivi. Un incontro con lui? Non c'è bisogno. C'è un provvedimento dei probiviri in corso". Un procedimento però che sembra durare più del solito, visto che in precedenti casi, in apparenza meno gravi, gli organi interni del M5s si sono mossi con grande rapidità e severità, vedi per esempio l'espulsione del senatore Gregorio De Falco. 

La grillina Giulia Sarti si dimette da presidente della Commissione Giustizia: aveva fatto una denuncia falsa al fidanzato per nascondere i suoi finti rimborsi, scrive il 26 febbraio 2019 Il Corriere del Giorno. Dopo l’archiviazione della querela da lei sporta contro l’ex fidanzato. La deputata si autosospende dal M5S dopo la rivelazione di una chat in cui Sarti annunciava al fidanzato la querela strumentale per togliersi dall’imbarazzo delle restituzioni ‘fantasma’. In una chat: «Rocco e Ilaria mi chiesero di denunciarti per salvarmi la faccia». “A seguito delle notizie riportate sulla stampa in merito alla richiesta di archiviazione per la querela da me sporta nei confronti di Andrea Tibusche Bogdan, annuncio le mie dimissioni da presidente della Commissione giustizia della Camera e, a tutela del M5S, mi autosospendo”. Così, in una nota, Giulia Sarti, deputato del M5S e presidente della Commissione Giustizia. “Preciso che né Ilaria Loquenzi né Rocco Casalino mi hanno spinto a denunciare nessuno, ma si sono limitati a starmi vicino nell’affrontare una situazione personale e delicata”. A renderlo noto è la stessa deputata grillina, finita nella bufera nel febbraio 2018 per il cosiddetto scandalo rimborsopoli, quando il suo nome era comparso nell’elenco dei grillini finiti nel mirino per i mancati versamenti al fondo per il microcredito, destinato a piccole e medie imprese. Esploso il caso, la Sarti aveva sistemato subito la sua posizione con il MoVimento, versando le somme dovute, circa 23mila euro. Ma il passo successivo era stato quello di denunciare l’ex fidanzato, imputando a lui non solo i bonifici mancati, ma anche l’appropriazione di altre somme dal suo conto corrente. Tutto falso! La deputata Giulia Sarti, non ha avuto vita facile nel movimento 5 Stelle. Entrata in Parlamento nel 2013, circondata dai sospetti: era stata la fidanzata di Giovanni Favia, cacciato l’anno prima dal Movimento, ed era considerata vicina a Federico Pizzarotti. Nel 2013, quando alcune sue foto private e intime vengono scaricate e diffuse, si accusano fantomatici «hacker del Pd». Poi Angelo Tofalo (componente del Copasir) le suggerisce di usare le competenze di Bogdan. Il quale all’epoca si faceva chiamare Andrea De Girolamo e dal suo canale Social Tv diffondeva bufale, alcune a sfondo razzista. Per la Procura di Rimini la deputata M5s Giulia Sarti non fu ‘derubata’ dall’ex fidanzato Andrea Tibusche Bogdan, 32enne consulente informatico di origini romene, alias Andrea De Girolamo che ha rilanciato a muso duro: “Vedremo come va a finire perché la verità è tutta un’altra, usciranno diverse conversazioni e forse non vi conviene esporvi ora. Vedrai che fine fa la querela. Vedrai i messaggi e le email, io in pubblico non rilascio nulla ma dritto in procura, perché ho un brutto vizio: Andrea De Girolamo”. La Sarti ostentava “massima tranquillità”, ma la questione si è tramutata in una resa dei conti personale, senza esclusione di colpi. E l’ex-fidanzato ha avuto ragione e sbugiardato la parlamentare grillina. Come riporta la stampa locale è stata infatti depositata la richiesta di archiviazione del fascicolo, per appropriazione indebita, nato dalle denuncia della presidente della commissione Giustizia della Camera alla Squadra Mobile di Rimini, con una particolareggiata querela in cui si ipotizzava la responsabilità di Bogdan su mancati bonifici al fondo per il micro credito. La vicenda era emersa dopo che il nome di Sarti era spuntato nell’elenco delle ‘Iene’ di deputati M5s che da eletti non avevano restituito gli stipendi al fondo. Sette i bonifici partiti dal conto della Sarti, destinati a quello del Mef, che però risultavano annullati. Quando fu interrogato dal pm Davide Ercolani, un anno fa, Bogdan spiegò che se aveva agito, sul conto corrente online della deputata, lo aveva fatto con la consapevolezza di lei e avendone le password. Inoltre consegnò alla Procura una chat in cui Sarti gli annunciava la querela per togliersi dall’imbarazzo delle restituzioni ‘fantasma’. Ieri scoppia il caos. Viene a galla la versione del fidanzato. E vengono fuori le chat, con molti particolari pericolosi e inquietanti che coinvolgono i massimi rappresentanti della Comunicazione del Movimento. Succede infatti che in una chat tra i due, la Sarti avverte che ha intenzione di denunciare il fidanzato. Il quale replica, stupito: «Te l’hanno chiesto le Iene?». E lei risponde: «No no, me lo ha chiesto Ilaria (Loquenzi n.d.r.) con Rocco (Casalino n.d.r.). Per salvarmi la faccia». Frase che sembrerebbe alludere al fatto che i due responsabili della Comunicazione fossero al corrente delle responsabilità della Sarti. Che però li difende: «Non mi hanno spinto a denunciare nessuno. Si sono limitati a starmi vicino nell’affrontare una situazione personale e delicata». Filippo Roma l’inviato delle Iene, nel pomeriggio, intercetta Casalino, lo incalza e gli chiede di mostrare le chat tra loro. Lui lo fa, ma le chat risultano cancellate: «Le cancello tutte, anche quelle con mia madre». Poi chiama la Sarti e lei dopo qualche secondo di conversazione, una volta messa in viva voce, scopre di essere ascoltata dalle Iene e scoppia in lacrime. Il resto sono le dimissioni, l’autosospensione e la comunicazione del capogruppo Francesco D’Uva che «è già stato avviato l’iter per la sostituzione» (compito che, in realtà, spetta al presidente della Camera). Il Pd chiede le dimissioni di Casalino. Per il procuratore capo di Rimini, Elisabetta Melotti e il pm Ercolani, che hanno firmato la richiesta di archiviazione, dunque non vi furono reati. Ora sarà il Gip a decidere e al momento non ci sono opposizioni alla richiesta.

Giulia Sarti, nuovo scandalo dalle chat: quei 7mila euro per la macchina del papà, scrive il 28 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. A Giulia Sarti non basta l’autosospensione dal Movimento 5 Stelle per uscire dal polverone di "Rimborsopoli". Come riporta Il Giorno, dalle chat spuntate durante l’interrogatorio da Bogdan Andrea Tibusche esce una nuova storia di soldi, quelli per aiutare il padre ad acquistare un’auto nuova. L'ex compagno della Sarti ha raccontato che la grillina ha prestato circa 7 mila euro al genitore per l’acquisto di una macchina, anziché destinare quella quota al fondo del Movimento come previsto dallo statuto. "Giulia mi disse: Con quale faccia non aiuto mio padre a comprare l’auto nuova dopo che sono cinque anni che sono in Parlamento?”. 

RETTIFICA - Bogdan Andrea Tibusche ha scritto a Libero per precisare quanto segue: "Mai detto di aver prelevato per dare soldi al padre. Il bonifico lo ha eseguito la titolare del conto ed io sono solo stato informato dopo l'esecuzione dell'operazione".

Le Iene, scandalo rimborsopoli: Filippo Roma mette al muro Casalino e Di Maio, terremoto in tv, scrive il 4 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Filippo Roma incalza Giulia Sarti sullo scandalo dei mancati rimborsi e meno di un'ora dopo la deputata Cinque Stelle si dimette dalla presidenza della Commissione Giustizia. Noi abbiamo raggiunto il suo ex fidanzato Bogdan, che ci ha pure parlato di presunti filmini hard. Giulia Sarti, alfiera dello slogan pentastellato “onestà, onestà”, è caduta sullo scandalo Rimborsopoli svelato da Le Iene. Uno scandalo di cui vi avevamo parlato un anno fa, raccontando come 14 parlamentari non avevano restituito ai Cinque stelle (come promesso e raccontato a tutti gli italiani) parte del loro stipendio. Giulia Sarti aveva dovuto restituire al Movimento 23.500 euro. Dopo che lei ha accusato il suo ex fidanzato e collaboratore di essere il responsabile di questa mancata restituzione la Procura ha archiviato la sua denuncia. Noi vi mostriamo anche i messaggi di una chat, in cui la Sarti spiega che la denuncia le era stata chiesta da Rocco Casalino e Ilaria Loquenzi, responsabili al tempo della comunicazione del Movimento. Filippo Roma va allora da Casalino, e dal suo telefono riesce a parlare con Giulia Sarti, invitandola ad un incontro. Lei è tesa per la vicenda, e scoppia quasi in un pianto. E meno di un’ora dopo, annuncia in aula le sue dimissioni dalla commissione Giustizia. Per approfondire leggi anche: Giulia Sarti, le intercettazioni che hanno inchiodato la grillina manettara. Noi abbiamo parlato anche con Bogdan, che sostiene la sua estraneità: “Io non gestivo un cavolo, io le davo una mano a fare i conti quando mi veniva chiesto”. E tra i messaggi delle chat di Telegram spunta pure un’ipotesi tanto suggestiva quanto "pruriginosa": Bogdan sostiene con un amico che parte di questi soldi non restituiti da Giulia Sarti potrebbero essere stati spesi per le riprese di alcuni filmini hard a casa dei due. Filmini in possesso di Bogdan. Sono gli stessi "video controlli di dedo e luca" di cui lui vuole parlare con la Sarti prima che presenti la denuncia, di cui si parla nelle chat acquisite dalla Procura? Sono entrati a far parte di una trattativa che ha preceduto la denuncia di Giulia Sarti a Bogdan?

M5S, Rocco Casalino: "Sarti si è nascosta dietro il mio nome". L'ex compagno: "Falso, sapeva", scrive il 28 febbraio 2019 Il Corriere del Giorno. Il portavoce “grillino” a Palazzo Chigi cerca di smentire il suo coinvolgimento sul caso della parlamentare coinvolta nella rimborsopoli a 5Stelle: “Se avessi saputo di questi ammanchi l’avrei riferito al capo politico e ai probiviri”. Resta il fatto che un colloquio via Telegram la Sarti scriveva all’ex fidanzato: “Sono stati Rocco e Ilaria a chiedermi di denunciarti”. Il “caso” di Giulia Sarti diventa sempre più imbarazzante per il Movimento 5Stelle. E sopratutto per il loro capo della comunicazione Rocco Casalino attuale portavoce del presidente del Consiglio, che interviene sul caso della deputata Giulia Sarti, coinvolta nella “Rimborsopoli” a 5Stelle. “Sarti si è probabilmente coperta dietro il mio nome con l’allora compagno, se avessi saputo di questi ammanchi o di giri strani l’avrei immediatamente riferito al capo politico e ai probiviri. Io non tutelo i parlamentari, ma il Movimento, come sanno tutti”, sostiene Casalino in una nota. Interviene sulla vicenda   anche il vicepremier Luigi Di Maio, che è lapidario: “Giulia Sarti si è dimessa dalla presidenza della Commissione Giustizia, e si autosospesa. Ora il Movimento dovrà decidere l’espulsione, che credo doverosa”. Nel frattempo però Casalino viene smentito dall’ex compagno della Sarti: “Ora fa lo gnorri ma sapeva”. Un caso complicato quello di Giulia Sarti. Ieri aveva dichiarato: “Preciso che né Ilaria Loquenzi (altra responsabile comunicazione M5S, ndr) né Rocco Casalino mi hanno spinto a denunciare nessuno, ma si sono limitati a starmi vicino”. Allora perché sono tirati in ballo Casalino e la Loquenzi? E in cosa consiste lo scandalo dei rimborsi? Proviamo a ricostruire i fatti. Il caso era scoppiato nel febbraio 2018 quando – in seguito a un servizio delle Iene – era emerso che alcuni parlamentari, tra cui proprio la Sarti, non avevano restituito parte dello stipendio, come invece previsto dal regolamento interno M5S. La Sarti non contenta… di aver mentito, presentò una denuncia “strumentale” nei confronti del suo ex-compagno Bogdan Andrea Tibusche accusandolo di appropriazione indebita: Una denuncia a cui ha fatto seguito un’indagine della Procura di Rimini, avviata un anno fa e che ora si è definita con una richiesta di archiviazione per l’ex compagno della Sarti. Dalle indagini svolte secondo i magistrati, non fu lui a rubare soldi dai conti della parlamentare riminese. Né tantomeno fu lui a impedirle di restituire i rimborsi. La denuncia altro non è stato stata quindi che soltanto uno squallido tentativo, da parte della deputata “grillina”, di salvare la propria reputazione e probabilmente anche il suo personale futuro politico. Dalle chat verificate dai magistrati di Rimini emerge che c’era un accordo tra Sarti e il suo ex compagno Bogdan Andrea Tibusche (che in rete si fa chiamare Andrea De Girolamo) per far ricadere su di lui la colpa dei mancati versamenti. Ma non soltanto. Secondo quanto riferito dalla stessa parlamentare M5s nella sua chat via Telegram con Bogdan, la richiesta di sporgere denuncia nei suoi confronti sarebbe arrivata proprio dai responsabili della comunicazione del movimento, Ilaria Loquenzi e Rocco Casalino. “Le Iene hanno i nomi da mesi e mi hanno chiesto se denuncio te perché mi stanno chiedendo come uscire da questa storia” (…) “me l’ha chiesto Ilaria con Rocco. Per salvarmi la faccia…Cinque sono fuori ma ho detto di no. Però tesoro è finita, ora devo restituire quei 23.500 euro. Stasera ho parlato con la comunicazione. Domattina devo fare un post su Facebook, avrò lo stesso trattamento di Cecconi e Martelli”. Tibusche: “Io mi sparo”. Sarti: “No è inutile che fai così forza dai, si affronta. Devo firmare il foglio in cui rinuncio ad essere eletta. Cioè tutto il restituito non conta nulla?”. Tibusche: “Sono penosi mi dispiace tesoro, sono a pezzi”. Giulia Sarti: “Devo scrivere un post domattina e Ilaria lo controlla. Nei Tg è già uscito il mio nome stasera. Mi stanno tempestando. Ora bisogna capire come tutelare Marco e tutto il gruppo di Rimini. Faccio quello che mi ha detto Ilaria. Un post su Facebook domattina” Poi arriva la denuncia e tra i due scoppia la guerra. Nelle carte dei magistrati di Rimini che hanno indagato e scagionato Tibusche dal reato di appropriazione indebita in realtà viene alla luce il “mea culpa” della deputata grillina. In una mail indirizzata a Luigi (Di Maio), la Sarti scriveva: “La situazione è molto grave e io mi scuso per non averla mai controllata prima di oggi (…) Ora ho 9mila euro sul mio conto ma mi farò aiutare dai miei per fare domani mattina tutti i bonifici. Il totale che manca è 23.443,81 euro”. In una chat del 15 febbraio del 2018 tra Giulia Sarti e Casalino, che pare dare ragione a quest’ultimo. “Sei sicura che sia stato lui? Sei sicura al 100% della sua colpevolezza? Perché se denunci un innocente commetti reato”, si legge in messaggio inviato dal portavoce del premier all’ex presidente della commissione Giustizia. Nelle chat, il cui testo è stato visionato dall’Ansa, l’allora portavoce del M5S chiedeva all’esponente pentastellata se fosse sicura della colpevolezza dell’ex fidanzato. “Se è stato davvero lui è giusto che denunci, ma se non è così stai facendo una cosa grave”, scriveva Casalino in un altro messaggio inviato sempre il 15 febbraio dello scorso anno. Messaggi che si aggiungono a quelli scambiati dalla deputata 5 Stelle con il suo ex e visionati dai magistrati riminesi. “Le Iene hanno i nomi da mesi e mi hanno chiesto se denuncio te perché mi stanno chiedendo come uscire da questa storia” (…), scriveva la Sarti via Telegram. Tibusche: “Denunciare me… Te l’hanno chiesto le Iene?”.  La Sarti: “No no, me l’ha chiesto Ilaria con Rocco. Per salvarmi la faccia…” A tenere aperto il “caso” arrivano le accuse a Casalino dall’ex compagno di Sarti: “Ho letto sui giornali che Casalino fa lo gnorri e scarica la Sarti. Sapete qual è il bello? Il messaggio con il quale mi si informava che sarebbero stati lui e Ilaria a spingere la querela, Casalino lo ha avuto (screeshots), da me, il 15 febbraio del 2018. Ho sempre lo stesso vizio: salvo e registro tutto. Non sapeva nulla fino ad oggi? Lo sapeva eccome”. Tibusche lo scrive su Facebook, poi cancella il post. Casalino si arrampica sugli specchi: “Non c’è stata alcuna richiesta da parte mia, o di Ilaria Loquenzi, di denunciare l’ex fidanzato. La Sarti all’epoca si proclamava innocente e scaricava tutte le colpe sull’allora compagno. Se è così denuncialo”, ed aggiunge “Gentilmente pubblichi cosa ti ho risposto”. Quindi apre il fronte alla lite social. “Ma chi se ne frega? Perché non ti sei mosso un anno fa e lo fai ora?”, domanda Tibusche. “Tu – obietta il portavoce del presidente del Consiglio – avevi una tua versione. Lei una versione totalmente diversa. Non spettava a me decidere di chi fosse la ragione. La cosa più giusta era che fosse la magistratura a valutare”. “Fare il finto tonto può funzionare con i più ma non con me. – contro-replica l’ex compagno della Sarti – Tu oggi caschi dal pero accusando lei ma di tutto questo eri a conoscenza da oltre 1 anno. E non hai detto/fatto nulla. Qui non si discute sul cosa ma sul come. Il cosa arriva dopo”. Il post (con tutto il botta e risposta) poi all’improvviso sparisce, ma oramai è troppo tardi. E le menzogne grilline continuano.

Giulia Sarti autosospesa da M5S dopo la telefonata con Casalino e Filippo Roma, scrive il 26 febbraio 2019 la redazione de Le Iene. Filippo Roma era andato a chiedere a Rocco Casalino se avesse spinto lui Giulia Sarti a denunciare il suo ex fidanzato Bogdan per uscirne "pulita" dall'affaire Rimborsopoli. Giulia Sarti si è autosospesa dal Movimento Cinque stelle. E qualche minuto prima di questa decisione era al telefono con Rocco Casalino, che la informava che davanti a lui c'era Filippo Roma de Le Iene con in mano i messaggi che potrebbero scagionare il suo ex fidanzato Bogdan Andrea Tribusche dall'affaire Rimborsopoli. Ma andiamo con ordine. Alle 17.40 Giulia Sarti annuncia tramite le agenzie che si autosospende dai Cinque stelle per "tutela del movimento" e dalla carica di presidente della Commissione giustizia della Camera. E spiega che ha preso questa decisione "a seguito delle notizie riportate sulla stampa in merito alla richiesta di archiviazione per la querela da me sporta nei confronti di Andrea Tibusche Bogdan". Già. Giulia Sarti aveva denunciato il suo ex convivente e assistente Bogdan un anno fa, a seguito dell'inchiesta de Le Iene sulla Rimborsopoli grillina. La deputata, infatti, era accusata di non aver provveduto a effettuare diversi bonifici di una parte del suo stipendio da parlamentare nel fondo dei Cinque stelle per le piccole e medie imprese. Il metodo era quello usato da altri parlamentari: eseguire il bonifico e poi revocarlo, così da pubblicare la ricevuta sul sito tirenticonto.it. Alla fine la Sarti aveva dovuto restituire ai Cinque stelle 23.500 euro, ed era stata perdonata. Ma, colpo di scena, decise di denunciare Bogdan, accusato di aver sottratto lui i soldi dal fondo dei Cinque stelle a insaputa della parlamentare. La procura di Rimini ha chiesto l'archiviazione da tutte le accuse, perché non c'era niente di quello che lui faceva che lei non sapesse o potesse verificare in ogni momento. E come ulteriore prova la procura porta un messaggio che Giulia Sarti inviò ad Andrea Tibusche Bogdan con scritto: "Tesò, mi hanno chiesto di denunciarti per salvarmi la faccia". Nella chat di Telegram lei gli spiega che è affranta dall'inchiesta de Le Iene ribattezzata Rimborsopoli. Lui le chiede se a dirle di denunciarlo fossero state Le Iene. E, come riportato oggi dal Corriere di Romagna, lei risponde: "No, no, me lo ha chiesto Ilaria con Rocco per salvarmi la faccia". Arriviamo così a qualche ora fa, quando Filippo Roma incontra Rocco Casalino fuori dal Parlamento proprio per chiedergli se a consigliare a Giulia Sarti di fare la furbetta fosse stato lui. La Iena incalza e chiede di poter vedere i messaggi del portavoce del presidente Conte con la deputata grillina, ma la chat mostrata da Casalino è stata cancellata. Allora Casalino chiama Giulia Sarti, che informata che c'è lì Filippo Roma scoppia a piangere. E poco dopo esce l'agenzia con le dimissioni. Accompagnata da una precisazione: "Né Ilaria Loquenzi né Rocco Casalino mi hanno spinto a denunciare nessuno, ma si sono limitati a starmi vicino nell'affrontare una situazione personale e delicata". Avremmo voluto farle ulteriori domande, e le avevamo dato appuntamento proprio fuori dalla Camera dei deputati terminati i lavori. Ma a quel punto è scomparsa e non è stata più reperibile. 

Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” il 28 febbraio 2019. Ci sono chat e registrazioni sul «caso Sarti» rimaste finora riservate che coinvolgono altri esponenti del M5S. Sono nelle mani di Bogdan Andrea Tibusche, il fidanzato della parlamentare 5 Stelle che potrebbe renderle pubbliche già la prossima settimana. Dopo aver consegnato ai magistrati di Rimini la copia delle sue conversazioni con Giulia Sarti dimostrando così di non averle mai rubato i soldi che lei doveva versare al Movimento, ora è pronto a una nuova contromossa. Le carte processuali svelano tutte le bugie che la deputata ha raccontato al pubblico ministero quando ha presentato la denuncia. Ma lo sfogo di Tibusche con il suo avvocato Mario Scarpa fa ben comprendere come la storia non sia affatto chiusa. L' uomo deve decidere se presentare una denuncia per calunnia. E di questo sta discutendo con il legale: «Tra i 5 Stelle tutti sapevano che cosa era accaduto, è incredibile che adesso tutti scarichino lei. La prossima settimana deciderò che cosa fare, voglio reagire a tutte queste falsità con il materiale che ho a disposizione». Il resto lo scrive su un post di Facebook che cancella poco dopo: «Ho letto sui giornali che Casalino fa lo gnorri e scarica la Sarti. Sapete qual è il bello? Il messaggio con il quale mi si informava che sarebbero stati lui e Ilaria (Loquenzi, una delle portavoci, ndr) a spingere la querela, Casalino lo ha avuto (screenshots), da me, il 15 febbraio del 2018. Ho sempre lo stesso vizio: salvo e registro tutto. Non sapeva nulla fino ad oggi? Lo sapeva eccome». Si torna dunque a un anno fa quando la deputata grillina finisce nell' elenco di chi non versa i contributi al Movimento. E concorda con il fidanzato una versione da fornire ai vertici.

Sarti: «Ho chiamato Mantero, il capogruppo. Devo mandargli una mail urgente con la spiega di quanto accaduto. Vogliono distinguere tra i furbi e gli errori».

Tibusche: «Mi sembra chiaro».

Sarti : «Ho provato a chiamare anche Luigi su suo consiglio ma non mi risponde.

Ora neanche Bugani. C' è Di Battista a Forlì, io devo prima inviare questa mail e dimostrare che si è trattato di un errore».

Alla fine scrive la lettera indirizzata anche a Di Maio con tutto l'elenco degli errori. E la legge al fidanzato.

Tibusche: «È perfetta».

Poco dopo lei gli dice che dovrà denunciarlo «come mi hanno chiesto Ilaria con Rocco», lui forse pensa a dichiarazioni pubbliche. Due giorni dopo Sarti presenta l'esposto e racconta una versione totalmente falsa. Ammette di essere stata lei ad affidargli la gestione economica «consegnandogli i codici di accesso al conto corrente», ma nega di essere stata consapevole degli ammanchi. Tra le bugie che racconta c' è anche quella di essersi accorta soltanto il giorno prima «che le somme non erano state versate e per questo ho controllato tutti i bonifici fino al 2014». Quanto basta per scatenare la reazione di Tibusche che le manda un messaggio fin troppo esplicito: «Hai preso una posizione di guerra e io mi devo difendere... Ora chiamo i giornali pure io, cominciamo la guerra».

In realtà l'uomo chiede al procuratore di Rimini Davide Ercolani di essere interrogato. Nega di aver mai utilizzato i soldi, racconta dell'accordo tra lui e Sarti per effettuare i bonifici e annullarli subito dopo aver mandato la ricevuta al M5S. Un vero e proprio falso che avevano «deciso insieme» per fare fronte ai debiti. Poi aggiunge: «I componenti del M5S facevano a gara a chi rendicontava di più». In realtà Sarti aveva fatto spese superiori alle proprie possibilità e «aveva tra l'altro due collaboratori per i quali, fino al 2014, venivano pagati solo gli stipendi con esclusione dei contributi. Per questo l'Agenzia delle Entrate chiese il pagamento di alcune cartelle da 9, 10 e 12 mila euro da pagare per tasse e contributi».

M5s, la Rimborsopoli travolge Giulia Sarti. Le chat col fidanzato la incastrano: "Ilaria e Rocco mi dicono di denunciarti". Giulia Sarti, M5s, presidente dimissionaria della Commissione Giustizia alla Camera. Accusò l'ex compagno di averle sottratto dal conto i soldi che doveva restituire al gruppo. Ma la procura ha 'prosciolto' l'uomo svelando le pressioni dei portavoce Casalino e Loquenzi e il retroscena politico della denuncia, scrivono Giuseppe Baldessarro e Rosario Raimondo il 27 febbraio 2019 su La Repubblica. Non fu l'ex compagno a rubare soldi dai conti della parlamentare riminese del Movimento 5 Stelle Giulia Sarti. Non fu lui a impedirle di restituire i rimborsi, in ossequio al regolamento grillino. E anche la denuncia nei suoi confronti, presentata dalla parlamentare, altro non era che un modo per venire fuori dallo scandalo, per "salvarsi la faccia ". La procura di Rimini chiede di archiviare l'inchiesta su Bogdan Andrea Tibusche, denunciato un anno fa per appropriazione indebita da uno dei volti più noti della galassia pentastellata. La protagonista di questa storia, travolta dallo scandalo dei rimborsi, si arrende: " Annuncio le mie dimissioni da presidente della Commissione giustizia della Camera e, a tutela del M5S, mi autosospendo. Preciso che né Ilaria Loquenzi né Rocco Casalino mi hanno spinto a denunciare nessuno, ma si sono limitati a starmi vicino nell'affrontare una situazione personale e delicata". Alcuni minuti prima della nota, diffusa ieri, ha parlato in lacrime al telefono con Rocco Casalino, il portavoce del premier Conte. Ma la parola fine non c'è ancora. È lei, adesso, che rischia di essere trascinata in tribunale. Perché in questa vicenda di soldi, accuse e tradimenti, non ci sono soltanto 23mila euro spariti nel nulla. Bisogna tornare al 13 febbraio del 2018. Le elezioni nazionali sono alle porte e scoppia il caso della Rimborsopoli a 5 Stelle: alcuni eletti non hanno restituito parte dei soldi, le Iene denunciano lo scandalo, partono le epurazioni. Sarti è nel mirino. " La cosa verrà fuori ", confida in chat a Bogdan, l'attivista e consulente informatico campano conosciuto alcuni anni prima. "Le Iene hanno i nomi da mesi e mi hanno chiesto se denuncio te. Perché mi stanno chiedendo come uscire da questa storia ". Chi preme per andare in procura? " Me lo ha chiesto Ilaria con Rocco per salvarmi la faccia". I capi della comunicazione grillina. Il 14 febbraio, alle 19.42, Sarti scrive: " Ti devo denunciare, ci sono più di 12mila euro da ottobre a oggi che ti sei versato". L'ex compagno cade dalle nuvole: " Denunciare per cosa? Mai preso un cent senza che tu lo sappia". E ancora: "Te ne vuoi uscire così, va bene, ma sai che non è così". "Pensaci bene se puoi dimostrare la truffa (...) Abbiamo sbagliato entrambi tesoro. Nessuno ha truffato nessuno". Lei insiste: "Sono sotto un treno. Sto passando come una ladra quando non ho intascato un solo centesimo...". La denuncia parte e stavolta è Bogdan a reagire: " Chiamo i giornali pure io... cominciamo la guerra? " . E pensare che fra i due era cominciata diversamente. La parlamentare e l'attivista si conoscono quando la prima ha bisogno di un consulente per via di alcune foto compromettenti finite online. Come emerge dalle carte del procuratore capo di Rimini Elisabetta Melotti e del pm Davide Ercolani, il consulente diventa un aiutante e ha libero accesso al conto corrente. Lei paga anche il suo affitto a Salerno, lo aiuta per alcune spese. Lui gestisce i rimborsi, anche perché, dice lui, gli eletti " facevano a gara" a chi rendicontava di più. Ma sul conto di Sarti non sempre i soldi ci sono. Così si usano degli escamotage: a volte fanno partire un bonifico per pubblicare la ricevuta, salvo annullare il pagamento poco dopo. Altre volte, invece, le transazioni vengono rifiutate dalla banca per mancanza di liquidità. A un certo punto Sarti presta anche soldi ai genitori per comprare un'auto ("Con quale faccia non aiuto mio padre", confida in chat). Bogdan, tirato in ballo, si precipita dai pm e parla fino alle 4 del mattino. Mostra chat, consegna documenti. Ieri al suo avvocato Mario Scarpa ha confidato: " Mi è arrivata addosso una marea di fango, sono stato insultato, mi hanno fatto terra bruciata intorno". Per il legale non finisce qui: " Lui è feroce. Quella denuncia fu strumentale. Valuteremo come reagire, anche con un'azione civile". Il capogruppo M5S Francesco D'Uva ha già avviato l'iter per sostituire Sarti in Commissione giustizia. E il Pd chiede le dimissioni di Casalino, che appare come un "mandante" della denuncia al consulente, anche se Sarti afferma il contrario: " Una vergognosa messinscena, una presa in giro nei confronti degli elettori", accusa il deputato Ubaldo Pagano.

M5S, Casalino: "Sarti si è nascosta dietro il mio nome". L'ex compagno: "Falso, sapeva". Di Maio: "Espulsione doverosa". Il portavoce di Palazzo Chigi si difende sul caso della parlamentare coinvolta nella rimborsopoli 5Stelle: "Se avessi saputo di questi ammanchi l'avrei riferito al capo politico e ai probiviri". In un colloquio via Telegram Sarti scriveva all'ex fidanzato: "Sono stati Rocco e Ilaria a chiedermi di denunciarti", scrive il 27 febbraio 2019 La Repubblica. Il caso di Giulia Sarti diventa sempre più un problema per i 5Stelle. E per Rocco Casalino. Il portavoce del presidente del Consiglio, uomo chiave nella comunicazione del Movimento, interviene sul caso della deputata, coinvolta nella Rimborsopoli 5Stelle. "Sarti si è probabilmente coperta dietro il mio nome con l'allora compagno, se avessi saputo di questi ammanchi o di giri strani l'avrei immediatamente riferito al capo politico e ai probiviri. Io non tutelo i parlamentari, ma il Movimento, come sanno tutti", dice Casalino in una nota. Ma a intervenire è anche il vicepremier Luigi Di Maio. Ed è netto: "Giulia Sarti si è dimessa dalla presidenza della Commissione Giustizia, e si autosospesa. Ora il Movimento dovrà decidere l'espulsione, che credo doverosa". Ma intanto l'ex compagno di Sarti smentisce Casalino: "Fa lo gnorri ma sapeva".

Come nasce il caso Rimborsopoli. Un caso complicato quello di Giulia Sarti. Solo ieri aveva dichiarato: "Preciso che né Ilaria Loquenzi (ndr, altra responsabile comunicazione) né Rocco Casalino mi hanno spinto a denunciare nessuno, ma si sono limitati a starmi vicino". Ma perché sono tirati in ballo Casalino e Loquenzi? E in cosa consiste lo scandalo dei rimborsi? Proviamo a riepilogare. Tutto nasce da un'indagine della procura di Rimini, partita un anno fa, e che ora si è conclusa con una richiesta di archiviazione per Bogdan Andrea Tibusche, ex compagno di Sarti. Tibusche fu denunciato per appropriazione indebita proprio dalla deputata. Ma secondo i magistrati non fu lui a rubare soldi dai conti della parlamentare riminese. Né fu lui a impedirle di restituire i rimborsi. E la denuncia era solo un tentativo, da parte della deputata, di salvare la reputazione e probabilmente anche il futuro politico. Il caso era scoppiato nel febbraio 2018 quando - in seguito a un servizio delle Iene - era emerso che alcuni parlamentari, tra cui proprio Sarti, non avevano restituito parte dello stipendio, come invece previsto dal regolamento interno M5S.

In chat Sarti parla di Casalino e Loquenzi. Dalle chat - esaminate dai magistrati - emerge che c'era un accordo tra Sarti e il suo ex per far ricadere su di lui la colpa dei mancati versamenti. Ma c'è dell'altro. Secondo quanto riferito dalla stessa parlamentare M5s nel colloquio via Telegram con Bogdan, la richiesta di sporgere denuncia nei suoi confronti sarebbe arrivata proprio dai responsabili della comunicazione del movimento, Ilaria Loquenzi e Rocco Casalino. "Le Iene hanno i nomi da mesi e mi hanno chiesto se denuncio te perché mi stanno chiedendo come uscire da questa storia"(...) "me l'ha chiesto Ilaria con Rocco. Per salvarmi la faccia...". Nelle carte dei pm di Rimini che hanno indagato e scagionato Tibusche dal reato di appropriazione indebita emerge in realtà anche il mea culpa della deputata. In una mail indirizzata a Luigi (forse Di Maio), Sarti scrive: "La situazione è molto grave e io mi scuso per non averla mai controllata prima di oggi (...) Ora ho 9mila euro sul mio conto ma mi farò aiutare dai miei per fare domani mattina tutti i bonifici. Il totale che manca è 23.443,81 euro".

L'ex compagno di Sarti contro Casalino. A complicare il caso, le accuse dell'ex compagno di Sarti a Casalino: "Ho letto sui giornali che Casalino fa lo gnorri e scarica la Sarti. Sapete qual è il bello? Il messaggio con il quale mi si informava che sarebbero stati lui e Ilaria a spingere la querela, Casalino lo ha avuto (screeshots), da me, il 15 febbraio del 2018. Ho sempre lo stesso vizio: salvo e registro tutto. Non sapeva nulla fino ad oggi? Lo sapeva eccome". Tibusche lo scrive su Facebook, poi cancella il post. Casalino insiste: "Non c'è stata alcuna richiesta da parte mia, o di Ilaria Loquenzi", di denunciare l'ex fidanzato. Sarti all'epoca si riteneva innocente e addossava tutte le colpe sull'allora compagno. Se è così denuncialo", le avrò detto. E all'ex compagno di Sarti replica: "Gentilmente pubblichi cosa ti ho risposto. Tu avevi una tua versione. Lei una versione totalmente diversa. Non spettava a me decidere di chi fosse la ragione. La cosa più giusta era che fosse la magistratura a valutare". Intanto Bogdan Andrea Tibusche fa sapere che sta valutando una querela per calunnia o una richiesta civile di risarcimento danni nei confronti di Sarti.

Il Pd a Conte: "Casalino lasci". Il Pd attacca Casalino e chiede al premier Conte di intervenire. Lo fa con un'interrogazione del deputato Carmelo Miceli, componente della commissione Giustizia, per sapere "se il presidente del Consiglio non ritenga doveroso effettuare opportune verifiche sul reale comportamento tenuto da Casalino sul caso Sarti, prima ancora che a farlo siano i magistrati". E chiede la sospensione del portavoce dall'incarico. Intanto fonti della procura di Rimini fanno sapere che Casalino e Loquenzi non saranno sentiti. La loro audizione sarebbe stata ritenuta irrilevante: l'indagine era su una presunta sottrazione di somme e non su eventuali suggerimenti alla deputata via chat.

Quella lettera di Giulia Sarti ai vertici M5s: "Le scuse non bastano, c'è solo da vergognarsi". Nel mirino per la "Rimborsopoli" dei 5 Stelle, la parlamentare scrisse una mail per spiegare il mancato versamento di 23mila euro e la fece leggere all'ex compagno (che poi denunciò), scrivono Giuseppe Baldessarro e Rosario Di Raimondo il 27 febbraio 2019 su La Repubblica. "C'è solo da vergognarsi". Il 13 febbraio 2018 la parlamentare grillina Giulia Sarti scrive in chat all'ex compagno Bogdan Andrea Tibusche la bozza di una mail che sta per inviare ai vertici del Movimento. Sono i giorni caldi della "Rimborsopoli" a 5 Stelle: alcuni eletti grillini non hanno versato una parte dello stipendio al fondo per il microcredito, come previsto dall'ortodossia pentastellata. Sarti è nei guai, mancano all'appello 23mila euro, le elezioni del 4 marzo sono alle porte e lo scandalo finisce in diretta tv. Nelle carte dei pm di Rimini che hanno indagato e scagionato Bogdan dal reato di appropriazione indebita, un'accusa mossa dalla stessa Sarti, emerge dunque il mea culpa della deputata. La mail è indirizzata, tra gli altri, a Luigi, ed è naturale pensare all'attuale vicepremier. "La situazione è molto grave e io mi scuso per non averla mai controllata prima di oggi (…) Ora ho 9mila euro sul mio conto ma mi farò aiutare dai miei per fare domani mattina tutti i bonifici. Il totale che manca è 23.443,81 euro (…) Dopo quello che mi è successo nel 2013 con le mie foto private scaricate e postate ovunque da più di 3000 utenti, sono abituata alla gogna mediatica. Il movimento viene prima di qualsiasi altra cosa per me. E' sempre stato così. Dtemi se devo fare un post, un video o altro per sospendermi o per autoaccusarmi di coglioneria. Vi chiedo scusa anche se so che le scuse non basteranno mai e c’è solo da vergognarsi". Sempre in chat chiede un parere a Bogdan. Gli confida che i vertici del Movimento le hanno consigliato di denunciarlo per salvarsi la faccia. Assicura che lei, però, ha detto di no. Meno di 24 ore dopo parte un altro messaggio in chat. Sarti scrive all'ex compagno: "Ti devo denunciare, ci sono più di 12mila euro da ottobre a oggi che ti sei versato".

LE CARTE DEL PROCESSO.

Giulia Sarti, l'accusa dell'ex fidanzato al M5s: "Tutti sapevano tutto", scrive il 28 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Altre chat e altre registrazioni al momento ancora riservate sul caso di Giulia Sarti che riguardano altri membri del Movimento 5 stelle sono in possesso del suo fidanzato Bogdan Andrea Tibusche, che, riporta Fiorenza Sarzanini sul Corriere della Sera, potrebbe renderle pubbliche già settimana prossima. Sarebbe la sua prossima mossa dopo la consegna ai magistrati di Rimini della copia delle sue conversazioni con la Sarti per dimostrare di non averle mai rubato i soldi che lei doveva versare al M5s. Insomma, da quanto emerge dalle carte processuali la deputata ha mentito al pm quando ha presentato la denuncia.  Bogdan, assistito dall'avvocato Mario Scarpa, dovrà decidere se denunciarla per calunnia: "Tra i 5 Stelle tutti sapevano che cosa era accaduto, è incredibile che adesso tutti scarichino lei. La prossima settimana deciderò che cosa fare, voglio reagire a tutte queste falsità con il materiale che ho a disposizione". E ancora su facebook, in un post poi cancellato: "Ho letto sui giornali che Casalino fa lo gnorri e scarica la Sarti. Sapete qual è il bello? Il messaggio con il quale mi si informava che sarebbero stati lui e Ilaria (Loquenzi, una delle portavoci, ndr ) a spingere la querela, Casalino lo ha avuto (screenshots), da me, il 15 febbraio del 2018. Ho sempre lo stesso vizio: salvo e registro tutto. Non sapeva nulla fino ad oggi? Lo sapeva eccome". Ecco la conversazione, riportata dal Corriere - di un anno fa quando si scopre che la Sarti è nell'elenco di chi non versa i contributi al Movimento. E concorda con il fidanzato una versione da fornire ai vertici.

Sarti: «Ho chiamato Mantero, il capogruppo. Devo mandargli una mail urgente con la spiega di quanto accaduto. Vogliono distinguere tra i furbi e gli errori».

Tibusche: «Mi sembra chiaro».

Sarti: «Ho provato a chiamare anche Luigi su suo consiglio ma non mi risponde. Ora neanche Bugani. C' è Di Battista a Forlì, io devo prima inviare questa mail e dimostrare che si è trattato di un errore».

(Alla fine scrive una lettera indirizzata anche a Di Maio con tutto l'elenco degli errori. La legge al fidanzato).

Tibusche: «È perfetta». Lei gli dice poi che dovrà denunciarlo «come mi hanno chiesto Ilaria con Rocco». Due giorni dopo Sarti presenta l'esposto e racconta una versione totalmente falsa. Dice di aver affidato a Bogdan la gestione economica «consegnandogli i codici di accesso al conto corrente», ma nega di essere stata consapevole degli ammanchi. Dice di essersi accorta solo il giorno prima "che le somme non erano state versate e per questo ho controllato tutti i bonifici fino al 2014". Tibusche è furioso: «Hai preso una posizione di guerra e io mi devo difendere... Ora chiamo i giornali pure io, cominciamo la guerra». Si fa quindi interrogare dal procuratore di Rimini Davide Ercolani e racconta dell'accordo con la Sarti per effettuare i bonifici e annullarli subito dopo aver mandato la ricevuta al M5S. «I componenti del M5S facevano a gara a chi rendicontava di più».  

L’altolà: «Non diffondete quelle foto». Per impedire la pubblicazione di video e foto dell’onorevole Giulia Sarti si è reso necessario l’intervento del garante della Privacy, Antonello Soro. La solidarietà di tutta la politica, scrive Rocco Vazzana il 14 Marzo 2019 su Il Dubbio. Cosa c’entra col giornalismo la diffusione di immagini intime di una deputata? E che interesse pubblico esisterebbe per giustificare la divulgazione di contenuti privati? Nessuno. Eppure per impedire la pubblicazione di video e foto dell’onorevole Giulia Sarti si è reso necessario l’intervento del garante della Privacy, Antonello Soro, costretto a richiamare «l’attenzione dei mezzi di informazione al rispetto della normativa in materia di protezione dei dati personali e del codice deontologico dei giornalisti». La censura dell’Authority arriva tempestiva, mentre sulle chat di molti giornalisti l’intimità di una persona viene violata. Mentre quelle immagini che già qualche tempo fa la parlamentare era riuscita a far sparire dal web, dopo un furto, ricominciano a circolare saltando da telefono a telefono. Materiale che con Rimborsopoli, il caso per cui Sarti è finita di nuovo al centro delle attenzioni mediatiche e dei probi viri del Movimento 5 Stelle, non ha proprio alcuna attinenza. L’evidenza però non basta, Soro è costretto a ricordare agli operatori dei media le regole che «impongono al giornalista di astenersi dal diffondere dati riguardanti la sfera intima di una persona per il solo fatto che si tratti di un personaggio noto o che eserciti funzioni pubbliche». E la politica, questa volta, capisce la gravità della situazione prima della stampa. Così, nei confronti dell’ex presidente della commissione Giustizia alla Camera piovono messaggi di solidarietà da tutto l’arco parlamentare. Manifesta vicinanza – non scontata, considerando la retorica aggressiva del passato – il partito da cui rischia di essere espulsa, ma anche l’alleato di governo, la Lega, tutti i partiti d’opposizione. «Diffondere immagini private per vendetta o per un fare volgare giornalismo è una barbarie dei nostri tempi che va condannata senza esitazioni e va fermata», scrive su Twitter il vice presidente Pd della Camera, Ettore Rosato. E di «vergognoso atto di cyber- bullismo», parla anche un’altra vice presidente a Montecitorio, la forzista Mara Carfagna, che dice di non aver «parole per esprimere» il suo «totale disprezzo per chi ha organizzato un attacco così infame». Non è da meno Giorgia Meloni, secondo cui «a prescindere dalle idee politiche o dalle interpretazioni della vicenda, è deplorevole e inconcepibile che vengano divulgati dettagli della propria intimità. Una violenza sulla quale mi aspetto una condanna netta da parte di tutta la politica italiana», twitta la leader di Fratelli d’Italia. L’ex presidente della Camera e attuale deputata di Leu, Laura Boldrini, parla invece di un attacco indecente: «Non si può tollerare la diffusione di immagini intime senza il consenso della persona interessata. Basta Revenge Porn», scrive sui social. Anche dal mondo pentastellato Sarti incassa attestati di solidarietà molto pesanti. Assicurano vicinanza Francesco D’Uva e Stefano Patuanelli, rispettivamente capogruppo alla Camera e al Senato, puntando il dito contro «atteggiamenti meschini che mirano a fare del male “gratuitamente” a Giulia», scrivono in una nota congiunta. Paola Taverna definisce tutto questo «vomitevole. Giulia ha tutta la mia solidarietà». Anche il presidente della Camera, Roberto Fico, interviene pubblicamente: «È un atto vigliacco», dice, «e bene ha fatto il Garante della privacy a richiamare l’attenzione dei mezzi di informazione al rispetto della normativa. A Giulia la solidarietà mia e quella della Camera dei deputati», dice Fico. Ma chi ha rimesso in circolo il materiale che già anni fa era stato sottratto alla deputata Sarti? Bogdan Tibusche, l’informatico ed ex collaboratore tuttofare della parlamentare grillina assunto anni fa proprio per ripulire il web delle sue immagini, sostiene di non avere nulla a che fare con questa storia. Il suo nome è tornato alla ribalta nei giorni scorsi, quando il l gip di Rimini, Benedetta Vitolo, ha disposto l’archiviazione del fascicolo a suo carico. L’uomo era stato accusato da Sarti, su suggerimento di Rocco Casalino secondo la stessa deputata, di appropriazione indebita per l’ammanco di circa 23mila euro dalle rendicontazioni. Ma a Tibusche la decisione del gip non basta, passa al contrattacco mediatico e lascia intendere con le Iene di avere materiale particolarmente compromettente sulla sua ex datrice di lavoro. Compresa la copia di tutte le registrazioni della video sorveglianza installata in ogni stanza dell’abitazione di Sarti. «Sono pronto a querelare chiunque metta in giro la voce su un mio coinvolgimento nella diffusione delle sue foto private», dice adesso Tibusche.

Le foto private di Giulia Sarti scuotono la politica. Espulsione, M5S frena. Pubblicato mercoledì, 13 marzo 2019 da Corriere.it. Potrebbero esserci in circolazione altre foto e filmini privati della parlamentare grillina Giulia Sarti, ma anche registrazioni di incontri con politici ed esponenti di primo piano del Movimento 5 Stelle. E tanto basta per far scattare la psicosi di un ricatto contro la deputata costretta a dimettersi dieci giorni fa da presidente della commissione Giustizia della Camera perché si è scoperto che aveva denunciato il fidanzato accusandolo falsamente di essersi appropriato dei fondi del Movimento pur sapendo che non era vero. E il timore che il materiale possa essere utilizzato anche contro altri parlamentari e ministri. Dopo la diffusione sui cellulari di politici e giornalisti di otto immagini — rubate da un hacker qualche anno fa — e di un falso video porno, scatta la solidarietà dell’intero Parlamento nei confronti di Sarti. Deputati e senatori di tutti i partiti parlano di «cyberbullismo», esprimono «condanna per quanto sta accadendo». Ma il clima è di massima tensione, tanto che il garante della Privacy interviene per «richiamare l’attenzione dei mezzi di informazione invitando all’astensione dal diffondere dati riguardanti la sfera intima di una persona per il solo fatto che si tratti di un personaggio noto o che eserciti funzioni pubbliche, richiedendo invece il pieno rispetto della sua vita privata quando le notizie o i dati non hanno rilievo sul suo ruolo e sulla sua vita pubblica». Un monito condiviso dal presidente della Camera Roberto Fico che parla di atti «vigliacchi e vergognosi». Nelle prossime settimane Sarti dovrà essere giudicata dai probiviri e quell’espulsione che era stata data per scontata, primo fra tutti dal «capo politico» Luigi Di Maio, adesso sembra tornare in discussione. Quanto sta accadendo potrebbe convincere il M5S a usare maggiore cautela. «Si tratta di un dossier estremamente complesso, ci prenderemo tutto il tempo necessario a valutare la situazione», avrebbero fatto sapere i probiviri. Anche tenendo conto della personalità di Bogdan Tibusche, l’ex fidanzato che per primo aveva parlato dell’esistenza del materiale fotografico e delle registrazioni con parole che suonavano quasi come un avvertimento: «Nel Movimento tutti sapevano che Giulia mi ha denunciato pur sapendo che ero innocente. Ho le registrazioni che lo provano». Quanto basta per comprendere che il caso è tutt’altro che chiuso e possa essere veicolato altro materiale proprio per alimentare tensioni e ricatti.

Il caso Sarti terrorizza il M5s: registrati gli incontri politici? Non solo foto hot. Il timore è che siano stati filmati pure vertici di lavoro. I probiviri: espulsione non scontata, scrive Domenico Di Sanzo, Giovedì 14/03/2019, su Il Giornale. Condannata a livello unanime la violazione della privacy sulle foto private di una donna e di una parlamentare, resta l'imbarazzo politico. Telefoni staccati, messaggi visualizzati e non risposti, virgolettati a mezza bocca sulla «fragilità» di Giulia Sarti e la «delicatezza» della situazione. L'argomento è da evitare, perché nell'intrigo, nel pasticciaccio brutto di bonifici truccati e telecamere nascoste, sono finiti, lateralmente e senza essere coinvolti in prima persona, i vertici del M5s. A partire da Luigi Di Maio, al quale la deputata era considerata molto vicina politicamente, che all'inizio della vicenda non aveva sospeso ed espulso la Sarti. Perché si era fidato della denuncia per appropriazione indebita da lei presentata ai danni dell'ex collaboratore Andrea Bogdan Tibusche, informatico di origini romene. E anche ora, l'espulsione, a quanto si apprende da diverse fonti, non sarebbe affatto scontata. Il collegio dei probiviri ha messo in stand by i procedimenti relativi alle senatrici Paola Nugnes ed Elena Fattori e si è concentrato sul caso Sarti. I dubbi dei «giudici» del Movimento sono tutti sulla figura di Andrea Bogdan Tibusche, descritto come un «personaggio complicato». «La vicenda è complessa - spiegano i probiviri - ci prenderemo tutto il tempo per dare un giudizio che sia il più equilibrato più possibile». Captando gli atteggiamenti dei parlamentari, il punto che più crea imbarazzo nel mondo grillino è un altro, rivelato dall'ex collaboratore durante l'intervista con le Iene, ovvero l'installazione di un impianto di videosorveglianza h24 in tutte le camere dell'appartamento romano della deputata. Infatti, oltre a incontri intimi e privati, potrebbero essere state riprese anche discussioni politiche. Non summit decisivi, Sarti non è un'esponente di primissimo piano nel M5s, ma era inevitabile che in quella casa si parlasse di politica, soprattutto con gli allora collaboratori della «portavoce». «Chissà chissà, tutto può essere», dice sul tema Filippo Roma, inviato delle Iene che sta seguendo il caso. Certa la falsità di un filmato di sesso, che sta girando insieme alle foto osé, che ritrarrebbe una ragazza mora, molto vagamente somigliante alla Sarti. «Non c'entra nulla con la Sarti», ha detto Roma a Un Giorno da Pecora su Rai Radio 1. Nella giornata di ieri è tornato a parlare Bogdan Tibusche, che all'Adnkronos ha spiegato: «Non provo alcun tipo di rancore per la Sarti. Pronto a querelare chiunque metta in giro la voce su un mio coinvolgimento nella diffusione delle sue foto private».

Otto e Mezzo, bomba di Lilli Gruber sulle foto hard della grillina Giulia Sarti: "Sapete...", scrive il 13 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Il caso delle presunte foto hard della grillina Giulia Sarti irrompe a Otto e Mezzo di Lilli Gruber. Già, perché una frase della conduttrice de La7 scatena un vero e proprio terremoto: "Chi di spada ferisce di spada perisce", ha detto Lilli nel suo studio, dove erano ospiti anche Carlo Verdelli e Paolo Mieli. Si parla del primo caso nella storia della nostra repubblica di immagini scabrose che ritrarrebbero una parlamentare, un caso alimentato dalla mancata messa in onda del servizio de Le Iene domenica sera. Due giorni dopo, le parole della Gruber sulle "foto osè" della Sarti che girerebbero sui cellulari, su WhatsApp per la precisione, di tutti i giornalisti. Sui social, però, c'è chi sostiene che "non c'è alcuna novità, quelle immagini circolano da cinque anni". Circostanza in qualche misura confermata proprio da Mieli a Otto e Mezzo, il quale conferma di averle ricevute, quelle fotografie. Scatti che, per la cronaca, sarebbero tornati a circolare dopo l'archiviazione di Bogdan Tibusche, ex fidanzato della grillina che lei stessa aveva cercato di trascinare in tribunale.

Giulia Sarti e il video hard, Filippo Roma: «È fake». Le Iene: «Estranei a diffusione foto», scrive Mercoledì 13 Marzo 2019 Il Messaggero. Giulia Sarti, tutta Italia parla del caso delle foto hot. «Stanno circolando due tipi di cose. Le vecchie foto dell'onorevole Sarti, a suo tempo rubate dall'hacker, e ora nuovamente in circolo, magari da qualcuno che le aveva conservate e che ora, visto che si è tornati a parlare dell'argomento, le ha nuovamente distribuite. E poi c'è un filmato fake, un video con una ragazza dai capelli mori che non c'entra nulla con la Sarti, non è lei e nemmeno gli somiglia, che si accoppia con un tizio e viene filmata con un cellulare». Lo dice a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, Filippo Roma, l'inviato de le Iene che ha realizzato l'intervista a Bogdan Tibusche sul caso Giulia Sarti, andato in onda ieri sera. Dagospia ha scritto che il servizio andato in onda ieri a 'le Iene' è stato tagliato di un minuto. “E' stato tagliato tagliato probabilmente solo per motivi di scaletta – ha spiegato l'inviato a Rai Radio1 - per dare più ritmo al pezzo, non per motivi contenutistici o perché non dovessimo mandare in onda certi contenuti”. Lo stesso Dagospia sostiene che la parte tagliata si riferirebbe a filmati a casa della Sarti in cui erano presenti anche politici. “No, assolutamente no, non è vero, lo smentisco. Le cose più importanti comunque le abbiamo messe”. Quanto è durata l'intervista integrale? “Arrivava quasi ad un'ora”. E' possibile che in quella casa si siano filmati anche incontri politici dove si può esser detto qualcosa che non si voleva venisse fuori? “Chissà, chissà. Tutto può essere”. Lo avete chiesto a Tibusche? “Lo abbiamo chiesto – ha concluso Roma a Un Giorno da Pecora - ma lui tendeva a giocare sulla difensiva dicendo il meno possibile sull'argomento filmati”.

La precisazione delle Iene. «Il caso Giulia Sarti, sollevato da Le Iene, domina il dibattito politico. Anche troppo e non sempre sui nodi centrali della vicenda. Noi indaghiamo su questioni di pubblico interesse, su dove potrebbero essere finiti i soldi che la parlamentare aveva dichiarato di aver restituito al fondo per il microcredito e che sarebbero stati dedicati anche all'eventuale acquisto di apparecchi di videosorveglianza forse per girare filmini privati. Questo non c'entra nulla con la diffusione del materiale rubato all'onorevole anni fa dalla sua posta elettronica». È quanto precisano sul sito de Le Iene gli autori del programma che ha indagato sul caso Sarti. «La diffusione delle sue foto intime, oltre che un reato, è una vera violenza. Gli scatti rubati starebbero girando sulle chat di giornalisti, politici e non solo. Attenzione: sta compiendo un reato non solo chi li diffonde, ma anche chi li conserva» avvertono le Iene che ribadiscono: «queste foto non c'entrano niente con l'inchiesta delle Iene e risalgono a molti anni fa».

La polemica in Parlamento. Si tratta forse del primo caso di «revenge porn» politico. Una pratica, stigmatizzata dalle forze politiche dell'intero arco costituzionale, che ora il M5s intende debellare avviando la discussione di un disegno di legge per prevenire e punire la pubblicazione e diffusione di materiale sessualmente esplicito senza il consenso della persona coinvolta. Il Garante della Privacy interviene per richiamare i media ad uno scrupoloso rispetto del codice deontologico che, neanche a dirlo, impone ai giornalisti di «astenersi dal diffondere dati riguardanti la sfera intima di una persona per il solo fatto che si tratti di un personaggio noto o che eserciti funzioni pubbliche». Il Pd si rivolge al Presidente della Camera, Roberto Fico, per chiedere di verificare se sia vero che a casa dell'ex presidente della commissione Giustizia della Camera del M5s venissero «effettuate riprese video di incontri politici» o a carattere istituzionale. Una polemica che non offusca tuttavia la solidarietà che arriva alla parlamentare e che vede colleghe di tutti gli schieramenti, da Da Alessia Rotta a Paola Taverna, da Laura Boldrini a Giorgia Meloni e Mara Carfagna, manifestare vicinanza per questo «vergognoso atto di cyber-bullismo». Non solo. Mentre dalle forze politiche arrivano attestati di solidarietà bipartisan nei confronti della deputata, al Senato il M5s parte al contrattacco. La senatrice pentastellata Elvira Evangelista annuncia l'inizio della discussione in Commissione Giustizia del ddl sul Revenge Porn. «Spesso questi comportamenti sono frutto di vendette da parte di ex partner. È un fenomeno drammatico che ha ormai assunto una portata preoccupante» lancia l'allarme la senatrice che avverte: «accade ovunque in Italia, dobbiamo intervenire con urgenza per punire questa violenza». E ricorda il caso di Tiziana Cantone, la giovane napoletana suicida dopo la diffusione di un video hard che la riguardava.

Che fine ha fatto il servizio su Sarti? Le Iene rispondono, scrive l'11/03/2019 adnkronos.com. "Nessun problema politico, solo un incidente tecnico", assicura all'Adnkronos Davide Parenti. Ma la mancata messa in onda della puntata di ieri sera delle Iene dell'intervista all'ex di Giulia Sarti, Bogdan Tibusche, sul 'caso rimborsopoli', ampiamente annunciata e anticipata alla stampa, ha sollevato un polverone di polemiche. "Purtroppo - spiega l'ideatore e capo degli autori delle Iene - c'è stato un problema di file corrotto, di cui ci siamo resi conto solo al momento della messa in onda in diretta. Ma tutti lo vedranno in onda nella puntata di domani". Parole che arrivano a stretto giro dalle affermazioni del deputato dem Michele Anzaldi, che in lungo post su Facebook stamattina si chiedeva che fine avesse fatto il servizio. "Ieri pomeriggio è stata annunciata un'intervista esclusiva all'ex fidanzato della deputata, accusato secondo i magistrati di Rimini ingiustamente di essersi intascato i rimborsi, ma poi il servizio non è andato in onda - ha tuonato Anzaldi -. Ci sono addirittura le anticipazioni dell'intera intervista, che però non è stata trasmessa. Disguido tecnico, mancanza di tempo o c'è altro? Parliamo di una vicenda che ha visto tirare in ballo anche il portavoce del presidente del Consiglio, Rocco Casalino, e dove si parla di videocontrolli h24 nell'abitazione privata di una parlamentare, è bene che venga fatta chiarezza". Ma andiamo con ordine. Nella puntata in onda ieri sera, Filippo Roma è tornato a occuparsi di Rimborsopoli, il caso legato alla mancata restituzione dei rimborsi da parte di alcuni esponenti del Movimento 5 Stelle. Un caso politico che ha raggiunto l'apice quando a finire sotto i riflettori dello scandalo è stata Giulia Sarti, presidente – da poco dimissionaria – della Commissione giustizia della Camera, che non avrebbe restituito almeno 23mila euro. L'inviato delle Iene ha sentito direttamente Bogdan Tibusche, la cui denuncia a proprio carico, da parte di Giulia Sarti, è stata archiviata dal tribunale di Rimini. Nella lunga intervista, Bogdan dichiara di aver installato, su richiesta della Sarti, l’impianto di videosorveglianza nell’abitazione della grillina: "Le telecamere in casa di Giulia Sarti erano in tutte le stanze, anche in camera da letto. Registravano 24 ore su 24 tutto e tutti. Giulia ne era a conoscenza, lei ha le schede e io le copie di backup". Quanto alla decisione di revocare i 23mila euro, ha sottolineato Bogdan, "l'idea è stata congiunta". "Tibusche è un gran paraculo, parla e non parla, nega l'evidenza. Gli abbiamo fatto domande su tutte le questioni principali: sui mancati bonifici, sulla denuncia della Sarti nei suoi confronti, e sui famosi filmini 'intimi'. Quella tra lui e la Sarti è una spy story dove politica ed amore si intrecciano". Lo dice a Rai Radio1 'Un Giorno da Pecora' Filippo Roma, inviato del programma 'Le Iene' e autore del servizio. "Perché non è andato in onda? Non lo so. Il servizio era previsto alle 23.25, ho saputo che non sarebbe andato in onda attraverso un messaggio della produzione, il motivo non mi è stato spiegato". Di Tibusche "la Sarti dice che sono stati insieme 4 anni. Io credo più a lei - ha detto Roma -, lui dice che non sono stati fidanzati perché sta con un'altra da 8 anni...". "A lei faccio un appello: se vuole fare chiarezza io sono qui, a sua disposizione, in qualsiasi momento della giornata, per intervistarla e farle raccontare la sua versione dei fatti", conclude Roma.

Filmini hard a casa di Giulia Sarti? Parla l'ex Bogdan, scrivono il 13 marzo 2019 Le Iene. Filippo Roma ha sentito l’ex collaboratore e fidanzato della parlamentare M5S Giulia Sarti, al centro dello scandalo Rimborsopoli. Che, sulla vicenda dei “videocontrolli” pagati con parte dei soldi non restituiti, si contraddice più volte. “Mi è stato richiesto di installare un sistema di videosorveglianza a casa suae abbiamo speso insomma 4mila euro e installai quel sistema”. Parla a Le Iene Andrea Bogdan Tibusche, l’ex fidanzato e collaboratore della parlamentare Cinque Stelle, Giulia Sarti, nell’occhio del ciclone per la vicenda “Rimborsopoli”. Parliamo dello scandalo dei mancati rimborsi effettuati da 14 parlamentari grillini al fondo per il Microcredito, come previsto dal Movimento, utilizzando un trucco tanto semplice quanto geniale: ordinare i bonifici, pubblicare le ricevute sull’apposito sito e poi revocarli. Con questo sistema Giulia Sarti avrebbe evitato di restituire 23.500 euro,4mila dei quali sarebbero andati a coprire le spese degli ormai famigerati “video controlli di Dedo e Luca”. Una denominazione, come risulta da una chat di Telegram tra Bogdan e la Sarti, acquisita agli atti, che trova riscontri in dei messaggi privati di Bogdan scovati in esclusiva dalle Iene, che alluderebbero a un sistema di videosorveglianza nella casa di Giulia Sarti, per la realizzazione di filmini intimi e in generale per registrare tutti gli incontri che avvenivano in quella casa, di qualsiasi natura fossero, 24 ore su 24. E un’altra chat, a conferma di questa spesa, è emersa in occasione dell’archiviazione della denuncia per appropriazione indebita che la stessa Giulia Sarti ha fatto nei confronti di Bogdan. In quel messaggio, scritto proprio il giorno in cui il Movimento Cinque Stelle aveva scoperto grazie alla nostra inchiesta le irregolarità dei suoi bonifici, Bogdan chiede a Giulia Sarti se tra i 20mila euro che lui avrebbe rubato lei abbia conteggiato anche i 4mila euro spesi, appunto, “per i video controlli di dedo e luca”. Le Iene hanno allora deciso di approfondire questa storia dei filmini hard andando a sentire lo stesso ex fidanzato e collaboratore della grillina. Ma le sue risposte non fanno che infittire il mistero. Bogdan resta sulla difensiva, ma noi abbiamo scovato alcuni messaggi che ha scambiato con un amico, e questo lo spiazza. L’uomo infatti ai nostri microfoni parla di “una videosorveglianza in ambito, insomma, privato, per filmare l’interno dell’abitazione”. “Le ho detto guarda che costa, non sono giocattolini”, prosegue Bogdan al microfono di Filippo Roma. “Mi ha detto non ci sono problemi, nel senso prendili”. Bogdan spiega ancora che “si trattava telecamere collegate in tutte le camere, anche in quelle da letto. Telecamere che secondo Bogdan erano in vista, una delle quali era montata come un obiettivo sopra un televisore che era visibile, uno lo guardava e la vedeva". Però poi ammette che erano "telecamere molto piccole, con un obiettivo delle dimensioni di una moneta da due euro”. Tanto che a domanda precisa risponde che non sa se chi frequentava quella casa sapeva di essere video registrato. Sull’uso di quelle telecamere Bogdan precisa: “Io ti sto spiegando che io ho montato un sistema di videosorveglianza che registrava. Cosa, quando, quanto e chi, è la proprietaria che vi può rispondere, non io”. Peccato però che in un’altra chat di cui siamo entrati in possesso, lo stesso Bogdan a un amico dice che la Sarti voleva fare sesso con uno, ma “aveva paura che questo potesse fare foto” e così, sempre Bogdan in quella chat, dice che lei “registrava tutto… e ci sono i filmati”. “Tu sei certo che Giulia Sarti fosse consapevole che ci fosse questo sistema di videosorveglianza?”, chiede all’uomo Filippo Roma. “Assolutamente al 100% - risponde Bogdan -, tanto che ha copia di quello che veniva registrato, nel senso che aveva accesso al sistema di videosorveglianza”. E poi aggiunge: “Lei aveva l’accesso a quello che registrava, io non ho accesso ai file e non mi interessa quello che c’è sopra”. Filippo Roma però contesta a Bogdan che, da quello che scriveva nella chat con l’amico, sembra che i filmati ci fossero davvero: “Li ho io, li ha lei…”, scriveva. E lo stesso Bogdan a Filippo Roma fa un’altra rivelazione: “…io ho fatto delle copie di backup e io ce l’ho su un hard disk, ok?” Sempre nella chat di Bogdan con l’amico, il misterioso interlocutore gli chiede se sono i filmati “di lei con lui” e lui risponde di sì. “Chi è sto lui?”, incalza Filippo Roma. È Luca? È Dedo? Ma Bogdan: “Ma non lo so!!” Sull’identità dei due uomini dei “video-controlli” Bogdan sembra cadere nell’ennesima contraddizione. “Che tu sappia Luca e Dedo sono uomini sposati?”, chiede la Iena. “E che ne so io, non lo so”, ribatte Bogdan. “Come fai a sapere i nomi se poi non sai chi sono”, gli chiede Filippo Roma. “No, ti ripeto: io Luca come persona l’ho conosciuta, non so i dettagli di questa persona, e i nomi lo so perché mi diceva guarda ho un incontro con questa persona domani mattina”, conclude Bogdan. Secondo Bogdan insomma chiunque sia passato da quella casa negli scorsi anni per motivi privati, per motivi di lavoro o per motivi politici, sarebbe stato video registrato. Ed erano tutti ignari. Sempre lui sostiene che sia lui che la deputata sarebbero ancora in possesso di una copia di quei filmati. Un mistero insomma. E dopo l'intervista a Bogdan, che racconta che avrebbe collaborato con mezzo M5S e che oltre al blog della Sarti avrebbe curato anche quello di Di Battista, riceviamo una segnalazione su chi fosse uno dei due presunti soggetti dei videocontrolli citati nel messaggio di Bogdan alla Sarti. E allora la facciamo una chiamata a uno dei due di cui parlano Bogdan e la Sarti come video controllati, per sapere se ne era al corrente. Ma lui senza nega di essere la persona che stiamo cercando: “evidentemente c’è un errore, non so come dirtelo però se tu insisti insomma, eh… dispiace dirti che non sono la persona che cerchi”. Peccato che a darci il suo numero sia stata una persona che conosce bene e che conferma la sua frequentazione con Giulia Sarti. Pochi giorni fa vi avevamo raccontato come fossero state archiviate proprio le accuse a carico di Andrea Bogdan Tibusche. Secondo i giudici “la Sarti ha sempre avuto la possibilità di controllare i movimenti del conto corrente” ed è emerso come “alcuni bonifici furono effettuati da lei stessa”. Bogdan, dal canto suo, proseguono i giudici, “non avrebbe mai superato i limiti previsti dagli accordi intercorsi tra le parti”. E se la Sarti ha dichiarato che Bogdan avrebbe sottratto dei fondi in modo non autorizzato per pagare l’affitto dell’appartamento dei due, i giudici fanno notare come lei stessa ha ammesso di aver effettuato controlli sui bonifici, senza rilevare irregolarità. Il che equivale a dire che approvò anche il pagamento dell’affitto per l’appartamento. Ma Bogdan rilancia e spiega che consegnerà al suo legale l’elenco delle spese effettuate da quel conto, aggiungendo che dei 17.800 euro che lui (stando alle accuse) avrebbe sottratto, ben 5.000 sarebbero stati usati per pagare il Tfr della collaboratrice di Giulia Sarti. La reazione di Bogdan all’archiviazione non si è fatta attendere, e l’uomo sta valutando adesso se sporgere a sua volta una denuncia per calunnia nei confronti dell’ex fidanzata. E a proposito delle accuse che gli sono state mosse, non ha dubbi: “tutti sapevano che la sua era una denuncia falsa”. L’inchiesta Rimborsopoli è nata un anno fa proprio da una nostra inchiesta. Ne era nato un caso politico, che ha raggiunto di nuovo l’apice proprio in queste settimane quando a finire sotto i riflettori dello scandalo è stata proprio Giulia Sarti, oggi presidente dimissionaria della Commissione giustizia della Camera, che non avrebbe restituito almeno 23mila euro. Le Iene erano tornate dai Cinque Stelle a seguito della rivelazione di alcuni messaggi tra la Sarti e il suo ex collaboratore Bogdan, messaggi nei quali lei spiegava perché aveva dovuto denunciarlo: "Tesò, mi hanno chiesto di denunciarti per salvarmi la faccia". E a chiedere a Giulia Sarti di denunciare per appropriazione indebita Bogdan sarebbero stati, sempre stando a quei messaggi, il potentissimo Rocco Casalino e Ilaria Loquenzi, responsabili della comunicazione del Movimento. Filippo Roma decide allora di incontrare Rocco Casalino fuori dal Parlamento, proprio per chiedergli se a consigliare a Giulia Sarti di fare la furbetta fosse stato lui. Casalino chiama proprio Giulia Sarti, e quando Filippo Roma insiste per incontrarla lei scoppia a piangere... Meno di un’ora dopo, in aula, Giulia Sarti annuncia le sue dimissioni dalla Commissione Giustizia. Le Iene non si sono arrese e hanno sentito proprio Bogdan, che non aveva mai parlato prima con nessuno. Lui sostiene di essere solo un mero esecutore delle volontà della sua ex fidanzata: “Io non gestivo un cavolo, io le davo una mano a fare i conti quando mi veniva chiesto”. “Quindi tu per esempio non facevi bonifici a sua insaputa?”, gli chiede Filippo Roma. Lui replica secco: “No, cioè i bonifici se praticamente dovevo anche, che ne so, pagargli la tipa di casa, lei mi scriveva un’email: guarda c’è da pagare questo paga questo, guarda questa bolletta, paga quest’altro”. “La Sarti sostiene che non sapeva nulla di queste operazioni”, spiega Filippo Roma, “mentre se non ho capito male tu sostieni che invece lei sapeva eccome, o no”. “Eeeh hehehe, sarà bello sto processo”, replica l’ex collaboratore, “io non vedo l’ora di arrivare al processo”. In realtà un’idea su dove siano finiti quei soldi che la Sarti avrebbe dovuto restituire, Bogdan ce l’ha e l’avrebbe spiegata agli stessi inquirenti: “Ha anche prestato del denaro, 7.000 euro, a suo padre per l’acquisto di un’autovettura e la ristrutturazione della casa avvenuta nel 2017 e quindi questi soldi sono venuti a mancare dal suo conto e che ci hanno messo in difficoltà per la rendicontazione e sarà un caso ma proprio ‘per l’anno 2017 non risultavano essere state versate le somme relative ai mesi di maggio luglio agosto ed ottobre’”. Sicuramente ci saranno nuovi interessanti sviluppi della vicenda. Non resta dunque che aspettare la nuova puntata di questa infinita telenovela, e scoprire se alla fine sarà lei a dimettersi dal M5S o verrà cacciata dal Movimento, come ormai da più parti si chiede. Sperando che non segua la sorte di Cecconi, Martelli e Buccarella, gli altri “furbetti” che non hanno restituito i soldi ai Cinque Stelle. Ve li ricordate? Di Maio a Barbara d'Urso aveva detto: “Gli chiederò di firmare la rinuncia alla loro elezione, altrimenti li denuncerò per danno di immagine”. E invece sono ancora in Parlamento. La stessa felice sorte che toccherà forse a Giulia Sarti?

DAGONOTA 13 marzo 2019: ''Se salta la Sarti, salta Casalino''. Questa la battuta che gira in Transatlantico…. (AdnKronos) - Nonostante i vertici M5S abbiano ribadito a più riprese la volontà di procedere con l'espulsione di Giulia Sarti dalle file del Movimento per via del caso rimborsopoli che ha visto coinvolta la deputata riminese, dal collegio dei probiviri chiamato a decidere sul futuro dell'ex presidente della Commissione Giustizia emergono dubbi sul 'cartellino rosso' finora dato per scontato. I giudici grillini stanno valutando il caso, che rischia di far slittare anche altri provvedimenti disciplinari all'ordine del giorno: sono infatti scaduti i termini -non perentori, viene rimarcato- per decidere eventuali sanzioni per le senatrici 'ribelli' Elena Fattori e Paola Nugnes, in odore di espulsione. Ma i probiviri, viene spiegato all'Adnkronos da autorevoli fonti, sarebbero concentrati sulla vicenda Sarti, gli altri casi sarebbero stati messi al momento in stand by. E dietro i tempi dilatati, viene assicurato, non ci sarebbero i numeri risicati del M5S in Senato. La vicenda Sarti, viene spiegato, è estremamente complessa, i probiviri chiamati a fare il punto su un dossier corposo, comprensivo anche delle carte processuali. E i dubbi su Andrea Bogdan Tibusche, l'ex fidanzato di Giulia Sarti che ha visto il Tribunale di Rimini archiviare il fascicolo sul suo conto, si sarebbero fatti strada tra i probiviri: "un personaggio complicato - così viene descritto Tibusche - di sicuro estremamente complesso". Il verdetto sulla deputata riminese, viene dunque riferito, "non è così scontato" per i probiviri: "la vicenda è complessa, ci prenderemo tutto il tempo necessario per far luce e dare un giudizio che sia il più equilibrato possibile".

Da Ansa 13 marzo 2019. Continua a far discutere la vicenda di Giulia Sarti, ex presidente della commissione Giustizia della Camera M5s, nella polemica per la vicenda di alcuni rimborsi elettorali non restituiti dopo l'archiviazione dell'ex fidanzato Bogdan Tibusche da lei accusato dei mancati versamenti. Secondo quanto riferito alle 'Iene' da Tibusche nella casa della Sarti sarebbe stato installato un impianto di videosorveglianza. E alcune di tali immagini starebbero circolando tra i mezzi d'informazione, secondo quanto ha detto ieri sera Lilli Gruber a Otto e mezzo. Sulla vicenda interviene il Garante. 'Con riferimento a notizie relative alla possibile circolazione di immagini molto personali della deputata M5s Giulia Sarti, il Garante per la privacy richiama l'attenzione dei mezzi di informazione al rispetto della normativa in materia di protezione dei dati personali e del codice deontologico dei giornalisti'. 'Tali regole - ricorda il Garante nella nota - impongono al giornalista di astenersi dal diffondere dati riguardanti la sfera intima di una persona per il solo fatto che si tratti di un personaggio noto o che eserciti funzioni pubbliche, richiedendo invece il pieno rispetto della sua vita privata quando le notizie o i dati non hanno rilievo sul suo ruolo e sulla sua vita pubblica'. 'Voglio manifestare con forza la mia solidarietà a Giulia Sarti per il vergognoso atto di cyber-bullismo ai suoi danni. Non ho parole per esprimere il mio totale disprezzo per chi ha organizzato un attacco così infame', scrive su twitter Mara Carfagna. E solidarietà alla Sarti arriva anche dalla leghista Barbara Saltamartini. Intanto il Pd con Ubaldo Pagano chiede di intervenire al presidente della Camera Roberto Fico: "E' vero - scrive su Facebook Ubaldo Pagano - che a casa dell'ex presidente della commissione Giustizia della Camera Giulia Sarti venivano effettuate riprese video di incontri politici? Nell'abitazione privata della deputata M5s si svolgevano anche incontri di carattere istituzionale? Ci sono parlamentari coinvolti? Su questi aspetti sarebbe opportuno che il presidente della Camera Fico chiedesse immediati chiarimenti ed effettuasse verifiche".

Da Le Iene 13 marzo 2019. “Le foto sono arrivate anche a me eh! Io le ho qua nel telefonino. Però sono arrivate indirettamente da amici che l’avevano avuto. Oggi è una giornata impazzita per queste foto nel senso che mi aspetto che, se non è stanotte sarà domani o dopodomani, qualcosa di queste foto, magari castigate, uscirà”. L’ex direttore del Corriere della Sera, Paolo Mieli, è intervenuto ieri, martedì 12 marzo, nel corso della puntata di Otto e Mezzo su La7 sul tema delle foto osé della parlamentare del Movimento 5 Stelle, Giulia Sarti. In questi giorni, nelle chat WhatsApp di giornalisti, politici e non solo, starebbero girando foto hot della parlamentare. E noi ci teniamo a ricordare che diffondere queste foto è un reato e una violenza nei suoi confronti. Per chi dovesse riceverle: una volta aperto e visualizzato il contenuto, le foto vanno cancellate e non possono essere conservate sul proprio telefono, altrimenti si compie un reato. Per questo consigliamo anche a Paolo Mieli di disfarsene il prima possibile. Ribadiamo che queste foto non c’entrano niente con l’inchiesta delle Iene e risalgono a molti anni fa. Noi de Le Iene abbiamo affrontato questo tema, anche nella puntata di ieri nel servizio che vi riproponiamo qui sopra, in relazione all’inchiesta di Filippo Roma e Marco Occhipinti ribattezzata la Rimborsopoli M5S, cioè lo scandalo scoperto da Le Iene delle false restituzioni dello stipendio di 14 parlamentari grillini al fondo per il Microcredito per aggirare la rinuncia volontaria prevista dalle regole del Movimento. I 14 parlamentari pentastellati utilizzavano un trucco tanto semplice quanto geniale: ordinare i bonifici, pubblicare le ricevute sull’apposito sito e poi revocarli (qui sotto potete vedere tutti i servizi e gli articoli sul caso). Con questo sistema anche Giulia Sarti avrebbe evitato di restituire 23.500 euro, 4mila dei quali sarebbero andati a coprire le spese degli ormai famigerati “video controlli di Dedo e Luca”. Una denominazione, come risulta da una chat di Telegram tra Andrea Bogdan Tibusche, l’ex fidanzato e collaboratore della parlamentare Cinque Stelle, e la Sarti, acquisita agli atti, che trova riscontri in dei messaggi privati di Bogdan scovati in esclusiva dalle Iene, che alluderebbero a un sistema di videosorveglianza nella casa della deputata, per la realizzazione di filmini intimi e in generale per registrare tutti gli incontri che avvenivano in quella casa, di qualsiasi natura fossero, 24 ore su 24. Le domande che con la nostra inchiesta stiamo portando avanti sono esclusivamente legate a temi di interesse pubblico, che non riguardano quindi le foto o video hard in sé, cose che riguardano esclusivamente la vita privata di Giulia Sarti e che, ripetiamo, è un reato far circolare e conservare. Le domande che ci poniamo sono innanzitutto su come sono stati spesi i soldi che Giulia Sarti ha dichiarato di aver restituito alle piccole imprese. Secondo: affrontiamo il problema dei video che sarebbero stati registrati a casa di Giulia Sarti esclusivamente perché è una questione di pubblico interesse se, come ha sostenuto Bogdan, un onorevole, per di più con un ruolo delicato prima in Commissione Antimafia, poi in Commissione Giustizia, abbia o meno registrato tutte le persone che entravano a casa sua, a maggior ragione se a loro insaputa. E’ vero che Giulia Sarti ne era conoscenza? O è stata ancora una volta vittima di qualcuno tecnologicamente più esperto di lei. Infine, la questione diventa ancora più rilevante nel caso in cui, come raccontato dall’ex Bogdan, se questi video fossero veramente finiti nelle mani di una terza persona, che dichiara di essere in possesso di una copia di tutti i filmati e che però nulla ha a che fare con i soggetti ripresi e non ha alcun diritto su quelle immagini. La nostra inchiesta si basa su queste domande, che nulla c’entrano certo con il “revenge porn” o con la diffusione di materiale privato dell’onorevole. Sono temi delicatissimi, che come sappiamo in alcuni casi hanno portato addirittura alla morte di chi ne è stato vittima, come nel caso di Tiziana Cantone, di cui anche noi ci siamo occupati. Nell’ultimo capitolo dell’inchiesta, abbiamo approfondito la vicenda dei presunti filmini hard andando a sentire lo stesso ex fidanzato e collaboratore della Sarti. Ma le sue risposte non fanno che infittire il mistero. L’uomo infatti ai nostri microfoni ha parlato di “una videosorveglianza in ambito, insomma, privato, per filmare l’interno dell’abitazione”. Bogdan ha spiegato che “si trattava telecamere collegate in tutte le camere, anche in quelle da letto”. Telecamere che secondo Bogdan erano in vista, salvo poi ammettere che erano "telecamere molto piccole, con un obiettivo delle dimensioni di una moneta da due euro”. Tanto che a domanda precisa risponde che non sa se chi frequentava quella casa sapeva di essere video registrato. Sull’uso di quelle telecamere Bogdan ha precisato che riguardo al contenuto delle registrazioni “cosa, quando, quanto e chi, è la proprietaria che vi può rispondere, non io”. Ma che Bogdan non ne fosse a conoscenza sembra smentito da un’altra chat di cui siamo entrati in possesso, dove Bogdan dice che lei “registrava tutto e ci sono i filmati”. Alla domanda di Filippo Roma se Bogdan fosse certo che Giulia Sarti sapesse del sistema di videosorveglianza, l’ex risponde sicuro: “Assolutamente al 100%, tanto che ha copia di quello che veniva registrato, nel senso che aveva accesso al sistema di videosorveglianza”. Sarebbe importante scoprire il prima possibile come stanno veramente le cose, anche perché lo ripetiamo, la domanda che fa Bogdan a Giulia Sarti, prima che lei depositi la denuncia per appropriazione indebita suona molto come una minaccia: “Bogdan: prima di depositare la denuncia credo sarebbe meglio che ci parlassimo io, te e il tuo avvocato… Ci sono molte cose di cui parlare prima di scriverla una denuncia. Ma nei 20.000 euro che ti avrei rubato hai conteggiato anche i 4.000 euro che abbiamo speso per i video controlli di Dedo e Luca? Così so cosa scrivere. Giulia: non c’entrano nulla le stronzate che vedi sui siti. Bogdan: per me c’entrano ora. Tu hai preso una posizione di guerra e io mi devo difendere. Ora chiamo i giornali pure io”. Ripetiamo qui le nostre domande ancora rimaste senza risposta: quei soldi sono stati veramente spesi così? Si trattava di “video controlli” legali e autorizzati? Dedo e Luca ne erano a conoscenza? E l’onorevole lo era? Perché quei “video controlli” sarebbero dovuti essere qualcosa di cui era conveniente parlare con Bogdan e un avvocato prima che l’onorevole presentasse la sua denuncia? Oltre Dedo e Luca quante altre persone sono state video registrate? A loro insaputa?

Giulia Sarti, le foto e i video in Rete: «Basta, non vi occupate più di me». Pubblicato giovedì, 14 marzo 2019 da Corriere.it. Un anno fa, il giorno dopo aver denunciato il fidanzato per appropriazione indebita, l’onorevole Giulia Sarti decise di tornare dai magistrati. Raccontò — integrando l’esposto — di aver saputo che stavano circolando sul web le sue foto private, già diffuse via Internet nel 2013. E ciò alimentò il sospetto, riemerso proprio in queste ore dopo l’invio su chat di WhatsApp di politici e giornalisti delle stesse istantanee, che il materiale sia gestito da qualcuno a lei molto vicino che lo utilizza per ricattarla, ma anche per tenere sotto pressione il Movimento. Su questo si concentrano le indagini che vengono svolte adesso dalla polizia postale. Senza escludere che una o più persone possano avere altre immagini e video, girati nel suo appartamento, che la ritraggono in pose intime, ma anche nel corso di incontri con altri politici M5S. La parlamentare grillina sta cercando di giocare in difesa, consapevole di rischiare una denuncia per calunnia o una richiesta di risarcimento dei danni proprio da parte di Bogdan Tibusche, dopo la decisione della Procura di Rimini di archiviare l’inchiesta nella quale l’uomo era stato accusato di averle sottratto i soldi destinati al Movimento. E dunque attraverso gli amici ripete quello che aveva già scritto una settimana fa su Facebook, chiede di smettere «di occuparvi di me, perché sono state dette troppe menzogne e cattiverie», e dice che «ogni mia parola viene strumentalizzata per far apparire l’opposto della realtà». Le prime verifiche effettuate dagli specialisti della Postale escludono che le immagini stiano circolando in Rete, mentre è confermato il passaggio via WhatsApp. E tanto basta a confermare come ci sia qualcuno che in tutti questi anni ha ritenuto di dover conservare quel materiale. Nel 2013 era stato proprio Tibusche, su richiesta dell’attuale sottosegretario alla Difesa Angelo Tofalo, ad occuparsi di «ripulire» il web dalle foto che un hacker aveva rubato alla Sarti. «Bogdan ha consegnato il suo computer e il suo telefonino ai magistrati che indagavano sulla vicenda dei rimborsi e una perizia ha stabilito che era tutto in regola», dichiara l’avvocato Mario Scarpa che assiste l’uomo. E anche il diretto interessato ci tiene a far sapere che «nonostante quanto accaduto tra di noi, voglio far notare che i criminali in possesso di queste immagini tornano fuori ogni volta che Giulia è in difficoltà, la mettono alla gogna in maniera vergognosa». Una gogna che non sembra destinata a terminare in tempi brevi.

Altri scatti hard di politici? Il governo chiama la polizia. Salvini e Di Maio: Sarti vittima di una vicenda schifosa Rumors su nuove fotografie sottratte a una leghista, scrive Chiara Giannini, Venerdì 15/03/2019, su Il Giornale. Il caso delle foto osé della parlamentare grillina Giulia Sarti, diffuse qualche tempo fa da un presunto hacker che si sarebbe impossessato degli scatti, torna alla ribalta e fa tremare l'intero Parlamento, tanto che anche il vicepremier Matteo Salvini accorre in difesa della giovane pentastellata. La verità è che quelle immagini stanno nuovamente circolando tra parlamentari e giornalisti, si dice perché tra qualche tempo la deputata riminese dovrà essere giudicata dai probiviri in seguito alle sue dimissioni dalla presidenza della commissione Giustizia per lo scandalo sulla «Rimborsopoli» del Movimento. Ma è possibile che i pentastellati ci ripensino, visto il polverone. Il timore è che, usando l'impianto di videosorveglianza di casa della Sarti, qualcuno abbia potuto riprendere anche incontri con politici 5S al fine di ricattare lei e altri esponenti grillini. Il ministro dell'Interno ha chiesto verifiche alla Polizia postale, che però non ha rilevato la presenza in rete di nuove foto e video dell'onorevole. «È una vicenda disgustosa - ha chiarito ieri Salvini - e molto grave. È nostro dovere proteggere la libertà e la privacy di Giulia Sarti e delle altre persone, spesso giovani, che subiscono o hanno subito lo stesso vergognoso trattamento». Concetti ripresi dal collega Di Maio: «Quello che sta succedendo è uno schifo. I probiviri seguiranno tutte le procedure sulla Sarti, di certo non su queste foto di cui non ci frega niente». L'argomento è talmente scottante che è stata anche convocata in fretta e furia la commissione Giustizia del Senato per discutere dell'introduzione «dell'articolo 613 ter del Codice penale in materia di pubblicazione e diffusione di immagini o video privati sessualmente espliciti senza il consenso delle persone rappresentate». L'idea è quella di velocizzare l'iter di introduzione di un disegno di legge atto a debellare la pratica del revenge porn, ovvero la diffusione di immagini a sfondo sessuale senza il consenso della persona ripresa. Ieri a Palazzo Madama è stata infatti presentata la relazione introduttiva del disegno di legge a firma della senatrice grillina Elvira Evangelista, che introduce la nuova fattispecie di reato. Ma ci sono altre tre proposte di Forza Italia sull'argomento, più una petizione da 100mila firme.

Il leghista Andrea Ostellari, presidente della commissione, ha chiesto «l'inasprimento delle pene per chi pubblica materiale senza consenso». Il caso della Sarti, oltretutto, non è l'unico a far tremare il governo. Da alcuni mesi, infatti, sui cellulari di parlamentari e giornalisti girano le foto non proprio caste di un'esponente leghista. La giovane, negli scatti evidentemente diffusi da qualche pretendente poco serio o a caccia di elogi per il bel trofeo, si mostra a seno nudo e allo specchio, con il fondoschiena coperto da un microscopico perizoma. Per adesso le immagini sono rimaste sui telefonini privati ma i commenti dei maschietti si sprecano. Il Garante della privacy, allarmato, ha richiamato i media al rispetto del codice deontologico, invitando i giornalisti a «non diffondere dati riguardanti la sfera intima di una persona per il solo fatto che sia famosa o che eserciti funzioni pubbliche». Sul tema è intervenuto anche Luca Robustini, autore insieme a Romina Farace del libro inchiesta Uccisa dal web, sulla storia di Tiziana Cantone, che nel 2016 si tolse la vita dopo che qualcuno aveva diffuso le sue immagini hot: «Una legge sul revenge porn - ha detto - è ormai indispensabile, non più rinviabile». Forse lo si è capito un po' tardi, visto che per anni c'è chi ha diffuso foto private e rovinato l'immagine di politici ben più blasonati della Sarti e di altre vittime del nuovo fenomeno social. Ma d'altronde, si sa, la regola delle «tre S» (sesso, sangue e soldi) non vale solo per il giornalismo, ma anche per l'opinione pubblica. E gli scandali fanno vendere i giornali più che qualsiasi altra notizia.

Il nuovo gioco: linciate Giulia Sarti! Contro di lei vecchio maschilismo e “nuova gogna”, scrive Angela Azzaro il 14 Marzo 2019 su Il Dubbio. Nuova gogna e vecchio, purtroppo inossidabile, maschilismo: è tra questi due poli che si incastra la terribile vicenda che sta coinvolgendo la deputata Cinque stelle Giulia Sarti. Da giorni circolano sui telefonini dei giornalisti italiani le foto e i video privati della deputata. Era già accaduto 5 anni fa, le immagini furono ritirate e ora ritornano dopo lo scandalo di “rimborsopoli”. Per screditare Sarti si usa la tecnica del “revenge porn”: immagini legate alla sfera intima diffuse all’insaputa della diretta interessata. Tiziana Cantone, una giovane di 31 anni, nel 2016 si è suicidata per lo stesso motivo. Questa volta tocca a Sarti: è il primo caso di revenge porn legato alla politica in Italia e per fortuna è arrivato prontamente lo stop del Garante per la privacy. Ma è una deriva che va contrastata fortemente e subito, agendo su entrambi i fronti: continuare nella messa in discussione della cultura maschilista e puntare sul rilancio dell’informazione. La diffusione di immagini private è un problema, che con le nuove tecnologie, riguarda tutti. Può travolgere, devastare, rovinarti per sempre la vita. Ma è soprattutto contro le donne che questa “nuova gogna” si concentra, perché fa leva sui pregiudizi nei confronti della loro libertà sessuale: in gioco infatti ci sono il corpo, la sessualità, l’intimità. Non si critica Sarti sul piano politico, né si attende di capire quale sarà il corso della vicenda giudiziaria che riguarda i rapporti con l’ex collaboratore: si mettono in piazza le sue foto, si solletica il voyeurismo dei giornali, si fa appello alla terribile, ma ancora viva convinzione, che in fondo se una donna finisce in mezzo a uno scandalo sessuale, un po’ se la è cercata…Ma se “qualcuno” – e sarebbe davvero interessante capire chi – ha mandato le foto ai giornalisti è perché, purtroppo, sa che in questi anni l’informazione italiana è stata complice: pur di vendere qualche copia in più, pur di avere qualche spettatore in più non si è avuto timore di sbattere la vita delle persone in prima pagina o in prima serata tv. Le Iene è uno dei programmi che, in questa vicenda di Sarti, sta rimestando con maggiore passione. Il programma Mediaset è tra gli inventori del giornalismo stalking: un giornalismo che perseguita, non molla l’osso, pensa che tutto sia lecito. Ogni tanto beccano pure qualche buona notizia, ma nel frattempo hanno sdoganato il linciaggio. L’ultima intervista ad Andrea Bogdan Tibusche non aggiunge nulla a ciò che si sa del caso rimborsopoli, ma insinua, ammicca, fa l’occhiolino al telespettatore a proposito delle foto e dei video. C’è chi pensa che la deputata dei Cinque stelle si meriti questo trattamento perché fa parte di una forza politica che ha molto puntato sull’attacco personale e sul moralismo. Ma è un ragionamento misero se si pensa che stiamo parlando della vita di una giovane donna e di principi fondamentali della nostra democrazia. In molte e molti stanno esprimendo la loro solidarietà a Giulia Sarti: non posso che unirmi a loro. Giulia, coraggio, non sei sola! 

Otto e Mezzo, supercazzola grillina di Marco Travaglio? Clamoroso: Lilli Gruber lo incenerisce, scrive il 14 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Come ogni giovedì sera, in studio a Otto e Mezzo da Lilli Gruber su La7, c'è Marco Travaglio. Il capo ultrà grillino nonché direttore del Fatto Quotidiano si lancia nelle sua analisi, ripete che la Lega e Matteo Salvini sono il male, mentre i grillini ovviamente sarebbero il meglio su piazza. E ancora, spiega quelle che sarebbero le differenze tra il Carroccio e i pentastellati. E parla, parla, parla, un profluvio di parole con cui cerca di rimettere in carreggiata i grillini, ad oggi un tentativo che appare piuttosto disperato. Troppe parole, però. Tanto che anche una esasperata Gruber, circostanza con pochi precedenti nel suo pacatissimo salottino, ad un certo punto, visibilmente spazientita, gli intima: "Concludi, Marco". E poco dopo, Travaglio, conclude la sua intemerata pentastellata. Meglio così, anche se troppo tardi.

Sarti per signore. Editoriale di Marco Travaglio Pubblicato su Il Fato Quotidiano il 14 Marzo 2019. Questa è la prima e spero l’ultima volta che scrivo del “caso” di Giulia Sarti, che dopo le sue dimissioni dalla commissione Giustizia non è più né politico, né giudiziario, né morale: è soltanto una vomitevole schifezza che nasce dalla diffusione in rete di video e immagini intime senza il consenso dell’interessata nella forma più infame: quella del revenge porn, cioè della porno-vendetta che ha già portato al suicidio Tiziana Cantone e altre povere ragazze, e che contro la Sarti assume dimensioni ancor più mostruose per la notorietà del personaggio, la sua appartenenza alla forza politica più invisa al sistema e il conseguente surplus di morbosità dei media. Nel Paese in cui i garanti della Privacy evocavano la riservatezza anche quando un presidente del Consiglio pagava prostitute minorenni dopo aver comprato o fatto comprare finanzieri, giudici, sentenze, testimoni e senatori, accade che le sue tv diventino il megafono di possibili o probabili ricatti contro la Sarti, nella beata impotenza del cosiddetto Garante della Privacy (fervorini a parte). Nel Paese in cui bastava un attacco social al presidente della Repubblica (“dimettiti”: terribile) per mobilitare le Procure e l’Antiterrorismo, o un insulto via web alla presidenta della Camera per proclamare lo stato d’emergenza e scomodare la Polizia postale, da giorni e giorni migliaia di giornalisti, politici e altri addetti ai lavori e ai livori ricevono da gruppi social foto e filmati sui momenti più intimi della vita della deputata. E non accade nulla, perché nulla si può fare: neppure dopo un eventuale processo con eventuali condanne. Intanto, in tv capita pure di sentir dire che, certo, è roba brutta, ma in fondo questi grillini se la sono cercata, perché chi di web ferisce di web perisce (come se l’email e WhatsApp li avesse inventati Casaleggio e la piattaforma Rousseau servisse a raccogliere filmini hard sugli amplessi degli avversari). Così si continua a parlarne, aumentando il danno e il prezzo del ricatto, con la scusa di ragioni politiche, giudiziarie e morali che non esistono più da un mese: la Sarti s’è dimessa dalla commissione Giustizia (atto doveroso, essendo ricattata o ricattabile) ed è stata deferita ai probiviri M5S che dovranno decidere sull’eventuale espulsione per un paio di bonifici ritirati (non si sa se da lei o dall’ex fidanzato che aveva accesso ai suoi conti). Ovviamente la deputata ha sbagliato a fidarsi di chi non lo meritava e ora lancia oscuri messaggi dagli studi moralizzatori delle Iene (a proposito: a quando una bella puntatona sugli amori trentennali fra B. e i boss di Cosa Nostra, magari con qualche video hard di fonte interna?). Ha sbagliato a non effettuare o almeno verificare i versamenti al fondo per il microcredito che i parlamentari M5S sono tenuti a finanziare con una parte dei loro stipendi. Ma non ha commesso alcun reato (i giudici, oltre all’appropriazione indebita dell’ex compagno, hanno escluso anche la calunnia di lei a lui): quei soldi erano suoi; se fosse eletta in qualunque altro partito nessuno ne avrebbe mai parlato; e ciascuno ha diritto di fare sesso come, quanto e con chi gli pare, se non viola la legge. Il resto lo decideranno i probiviri M5S: se verrà fuori che ha trattenuto consapevolmente per un paio di volte ciò che avrebbe dovuto versare, la sanzioneranno. Come han fatto con altri 5Stelle presi a violare una regola magari bizzarra, ma liberamente sottoscritta, e poi espulsi. Ora però la Sarti ha già pagato, per gli effetti collaterali di quelle eventuali irregolarità (ripeto: perfettamente legali, se non ai fini dello Statuto interno), un prezzo terrificante. I giudici romagnoli hanno archiviato le sue denunce al fidanzato senza neppure sentirla, né fare nulla per privare il tizio di possibili armi di ricatto. I media la stanno massacrando peggio che se avesse rapinato una banca o stuprato un bambino. E da settimane circolano sue vecchie foto intime rubate nel 2013 dalla sua mail da appositi hacker (mai individuati e mai neutralizzati col loro materiale venefico), con l’aggiunta dei filmati sessuali trasmessi ieri ai guardoni delle redazioni e del Parlamento: una sequenza e un dosaggio che fanno pensare a una campagna studiata a tavolino da menti malate e pericolose, ansiose di rovinarle la vita per sempre. Qualunque cosa emerga sulle famose “restituzioni”, oggi l’espulsione non sarebbe un atto di equità, ma di viltà: in un momento così drammatico, per lei e la sua famiglia, Giulia Sarti va difesa e protetta in ogni modo da tutto il Movimento e dalle altre forze politiche, almeno quelle che conservano un pizzico di umanità (e ieri finalmente alcune voci han cominciato a levarsi anche da partiti avversari, da Mara Carfagna in giù). Le appioppino una bella multa, anche pari al quintuplo della somma eventualmente sottratta. Ma evitino di isolarla ancor di più. Anzi, i 5Stelle dovrebbero fare di lei, come delle altre vittime superstiti del revenge porn, le testimonial di una legge che punisca duramente questo orribile delitto e fornisca alle forze dell’ordine e ai magistrati gli strumenti per scoprirne gli autori, ma soprattutto per fermarli in tempo reale e poi imporre l’oblio perpetuo a quella macchina schizza-merda che è ormai il web. Oggi tutto questo è impossibile, tant’è che dopo Tiziana non è cambiato nulla: nemmeno quando la vittima muore suicida, nemmeno quando è una parlamentare della Repubblica. C’è un progetto di legge della pentastellata Elvira Evangelista, ad altri stanno lavorando FI e la Boldrini: si potrebbe subito unirli in un decreto del governo con l’approvazione dell’intero Parlamento. I requisiti di necessità e urgenza sono evidenti. O vogliamo aspettare il prossimo 8 marzo?

Sarti per signore di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 14 Marzo 2019.

Le foto hot di Giulia Sarti e l’ipocrisia di Travaglio, scrive Nicola Porro il 14 marzo 2019. 05:04 Le foto hot di Giulia Sarti e l’ipocrisia di Travaglio che attacca le Iene, ma si dimentica che tirar fuori la vicenda è stata la sua amichetta Gruber. Il vero scandalo della Sarti è la questione dei rimborsi.

Giulia Sarti, Augusto Minzolini: "Marco Travaglio un boia che piange con la mannaia", scrive il 14 Marzo 2019 Libero Quotidiano. "Chi diffonde le foto di Giulia Sarti sul web è privo di ogni umanità e rammenta il monito dantesco fatti non foste a viver come bruti...". Augusto Minzolini con un post sul suo profilo Twitter difende la pentastellata per le immagini osè e commenta: "Indubbio. Ma sentir questa giusta morale sulla bocca di Marco Travaglio fa impressione, come scorgere le lacrime sul viso del boia che usa la mannaia". Leggi anche: "Hanno ripreso anche loro". Giulia Sarti, panico M5s: il terrificante sospetto sui video piccanti privatissimi. "Questa è la prima e spero l' ultima volta - attacca Travaglio nel suo editoriale sulFatto quotidiano - che scrivo del caso di Giulia Sarti, che dopo le sue dimissioni dalla commissione Giustizia non è più né politico, né giudiziario, né morale: è soltanto una vomitevole schifezza che nasce dalla diffusione in rete di video e immagini intime senza il consenso dell' interessata nella forma più infame: quella del revenge porn, cioè della porno-vendetta che ha già portato al suicidio Tiziana Cantone e altre povere ragazze, e che contro la Sarti assume dimensioni ancor più mostruose per la notorietà del personaggio, la sua appartenenza alla forza politica più invisa al sistema e il conseguente surplus di morbosità dei media. 

Vittorio Feltri contro Otto e Mezzo e Lilli Gruber: "Giulia Sarti? Roba meschina e indegna", scrive il 14 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Lilli Gruber è una brava giornalista televisiva, dirige con successo da anni Otto e mezzo, programma serale de La 7 sbilanciato a sinistra e per questo apprezzato dai progressisti benestanti, i più fessi della compagnia. Qualche giorno fa la conduttrice diventata famosa poiché sbieca, ha portato alla ribalta una questione non politica, bensì di mutande. Ha parlato a lungo delle foto osé in circolazione sul web di Giulia Sarti, ex presidente grillina della commissione giustizia della Camera. Le sue parole in pratica incorniciavano uno scandalo doppio. Intanto perché la deputata ha fatto casino sui rimborsi di denaro destinati al Movimento 5 Stelle, poi in quanto la gentile signora ha immesso, volontariamente o no, non sappiamo, immagini spinte del proprio bel corpo, cosa di cui a me personalmente non importa nulla e che viceversa a Lilli sta a cuore, suscitando chissà quali pensieri. Nello studio della Gruber si è acceso un dibattito sulle cosce (e dintorni) della parlamentare. Al centro della attenzione più che i rimborsi mai avvenuti sono così finite le forme plastiche della pentastellata, contro la quale sono stati lanciati strali velenosi quasi fosse un reato mostrar le chiappe chiare. Io non sono né bigotto né moralista pertanto non me la sento di dare addosso e neppure di deplorare una ragazza, pur impegnata a Montecitorio, soltanto perché espone le nudità su internet. E trovo scandaloso che qualcuno invece si indigni per simile faccenda. È noto che la mania di fotografarsi in atteggiamenti spinti è entrata a far parte del costume, e che su qualsiasi social sono visibili istantanee che reclamizzano seni e culi di ogni foggia. È una abitudine consolidata e non stupisce più sebbene gli esiti non mi esaltino. Ma non me la sentirei di mettere alla berlina una donna che si è lasciata ritrarre in pose lubriche. Non mi periterei di esporla al pubblico ludibrio per quattro scatti arrapanti. Condannare la Sarti giacché grillina mi sta bene, tuttavia trafiggerla per essersi esibita biotta mi pare una operazione meschina e indegna di un programma tv che se la tira da perla dell'informazione. Mi domando per quale motivo sia lecito distruggere la reputazione di una donzella che ha avuto l'ardire di presentare le proprie grazie. Sarebbe più opportuno sputtanare i giornalisti col birignao che si permettono di sfruttare la beltade di una fanciulla per fare uno scoop del cacchio. Ciascuno è libero di usare il fisico come gli garba senza l'obbligo di giustificarsi. I debiti sono altra faccenda, quelli è meglio pagarli. Vittorio Feltri

Fiorenza Sarzanini per “il Corriere della sera” il 15 marzo 2019. Un anno fa, il giorno dopo aver denunciato il fidanzato per appropriazione indebita, l'onorevole Giulia Sarti decise di tornare dai magistrati. Raccontò - integrando l'esposto - di aver saputo che stavano circolando sul web le sue foto private, già diffuse via Internet nel 2013. E ciò alimentò il sospetto, riemerso proprio in queste ore dopo l'invio su chat di WhatsApp di politici e giornalisti delle stesse istantanee, che il materiale sia gestito da qualcuno a lei molto vicino che lo utilizza per ricattarla, ma anche per tenere sotto pressione il Movimento. Su questo si concentrano le indagini che vengono svolte adesso dalla polizia postale. Senza escludere che una o più persone possano avere altre immagini e video, girati nel suo appartamento, che la ritraggono in pose intime, ma anche nel corso di incontri con altri politici M5S. La parlamentare grillina sta cercando di giocare in difesa, consapevole di rischiare una denuncia per calunnia o una richiesta di risarcimento dei danni proprio da parte di Bogdan Tibusche, dopo la decisione della Procura di Rimini di archiviare l'inchiesta nella quale l'uomo era stato accusato di averle sottratto i soldi destinati al Movimento. E dunque attraverso gli amici ripete quello che aveva già scritto una settimana fa su Facebook, chiede di smettere «di occuparvi di me, perché sono state dette troppe menzogne e cattiverie», e dice che «ogni mia parola viene strumentalizzata per far apparire l'opposto della realtà». Le prime verifiche effettuate dagli specialisti della Postale escludono che le immagini stiano circolando in Rete, mentre è confermato il passaggio via WhatsApp. E tanto basta a confermare come ci sia qualcuno che in tutti questi anni ha ritenuto di dover conservare quel materiale. Nel 2013 era stato proprio Tibusche, su richiesta dell'attuale sottosegretario alla Difesa Angelo Tofalo, ad occuparsi di «ripulire» il web dalle foto che un hacker aveva rubato alla Sarti. «Bogdan ha consegnato il suo computer e il suo telefonino ai magistrati che indagavano sulla vicenda dei rimborsi e una perizia ha stabilito che era tutto in regola», dichiara l'avvocato Mario Scarpa che assiste l'uomo. E anche il diretto interessato ci tiene a far sapere che «nonostante quanto accaduto tra di noi, voglio far notare che i criminali in possesso di queste immagini tornano fuori ogni volta che Giulia è in difficoltà, la mettono alla gogna in maniera vergognosa». Una gogna che non sembra destinata a terminare in tempi brevi.

Da Adnkronos il 15 marzo 2019.  "Non provo alcun tipo di rancore per la Sarti. E sono pronto a querelare chiunque metta in giro la voce su un mio coinvolgimento nella diffusione delle sue foto private. Se qualcuno si permette di affiancare il mio nome a questo schifo, lo denuncio". Lo dichiara in un'intervista all'Adnkronos Andrea Bogdan Tibusche, ex fidanzato di Giulia Sarti, a proposito degli scatti privati della deputata riminese, tornati a circolare nelle ultime ore. Le foto in questione, spiega Tibusche, "non sono mai sparite dalla rete. Nel 2013, quando fui incaricato dalla Sarti di farle sparire, lavorai al caso per mesi. E solo dopo sei mesi riuscii a far sparire tutto, anche con segnalazioni alla Polizia Postale". "Qualche criminale ha salvato evidentemente quelle foto e quelle foto hanno continuato a girare. La stessa Sarti tempo fa mi segnalò che sul suo territorio, nei pressi di Rimini, quelle foto giravano su un Google Drive. Io le ho sempre consigliato di rivolgersi alla Postale per far acchiappare queste carogne", rimarca l'ex compagno della parlamentare, nei cui confronti la Sarti - coinvolta nel caso rimborsopoli - ha presentato una denuncia per appropriazione indebita, archiviata recentemente. "I criminali che sono in possesso di queste immagini - insiste Tibusche con l'Adnkronos - le ricaricano senza alcun minimo problema e ogni volta che la Sarti torna alla ribalta, anche per le sue battaglie politiche, quel materiale indecente esce fuori. Ora, da gran bastardi, se ne approfittano per sottoporre una persona a una gogna mediatica che non si merita nessuno. Queste persone andrebbero punite. Io ho lavorato tanto per debellare questo 'virus', non per infettare la rete". L'informatico salernitano racconta poi un dettaglio della battaglia legale che lo ha visto contrapposto alla sua ex fidanzata: "Il giorno dopo la mia dichiarazione spontanea al Pm, Sarti ha presentato una integrazione alla sua denuncia, sottolineando il fatto che ricominciavano a girare le sue foto private. Secondo me è stata una forzatura, perché quel materiale non ha mai smesso di girare. Sono state fatte delle indagini e la Procura ha escluso un mio coinvolgimento nella vicenda". La nuova 'ondata' di scatti privati di Giulia Sarti diffusi tramite smartphone "è ancora più infame di quella del 2013 perché sta girando sul sistema WhatsApp. Non ho saputo di siti che stanno veicolando queste foto: so che c'è un passaggio di mano in mano tramite contatti Whatsapp, il che è ancora più infame. La magistratura dovrebbe attivarsi immediatamente", conclude Bogdan.

Caso Sarti, un ex deputato 5S: "Il furto delle foto da un pc in dotazione alla Camera". Nuove rivelazioni de "Le Iene": l'hacker aveva accesso ai database della Casaleggio associati, scrive Matteo Pucciarelli il 20 marzo 2019 su La Repubblica. Non è tanto e solo un caso di revenge porn, quello di cui è vittima Giulia Sarti. Politicamente parlando la questione sarebbe un'altra: chi aveva accesso ai database del sistema operativo della Casaleggio associati rubò le password degli iscritti e le utilizzò per provare ad entrare nelle mail dei deputati, riuscendoci con quelli che utilizzavano la stessa chiave di accesso. E non solo, i tentativi avvennero da un pc in dotazione alla Camera dei deputati. Ipotesi e rivelazioni delle Iene, che con un servizio di Filippo Roma sono tornati sulla questione risalente al 2013. Ma che pone nuovi e pesanti dubbi sulla gestione interna al primo partito politico italiano. Un ex deputato la cui identità è anonima ha raccontato che allora "ci si accorse che poteva essere una cosa interna, per questo nessuno disse niente e rimase tutto così, in un limbo. Nessuno volle andare avanti a denunciare perché si pensò che poteva essere un danno d'immagine per tutto il Movimento". Continua la fonte: "Loro - gli hacker - hanno verificato su varie caselle se la password che era inserita nell'archivio della Casaleggio era uguale a quella che era messa sulle caselle di posta elettronica. Dove l'hanno trovata funzionante sono entrati direttamente nelle caselle e da lì hanno recuperato tutte le informazioni, e stanno ancora girando mail, messaggi, cazzate eccetera". Si fanno anche i nomi di possibili detentori delle chiavi di accesso: l'attuale sottosegretario Vito Crimi, o l'ex deputato dei 5 Stelle Riccardo Nuti. Nel servizio delle Iene parla Alessandro Di Battista - pure lui vittima del furto - che ricorda poco ma ammette la possibilità di aver avuto la stessa password di accesso per la posta elettronica e il vecchio sistema della Casaleggio; mentre Rocco Casalino appare in forte imbarazzo. Ma è il deputato Stefano Vignaroli a confermare la scoperta fatta sei anni prima di un Ip (l'etichetta che identifica un pc connesso al web) riconducibile alla Camera come autore dell'hackeraggio. "Ricordo bene che allora si disse che ad aver trafugato le mail potesse essere stato un interno - dice Lorenzo Battista, ex del M5S e tra quelli che fecero scoppiare il caso Rimborsopoli raccontando la storia dei bonifici annullati - ma poi risalire a quale computer e utilizzato da chi era praticamente impossibile. Voglio dire, parliamo del Parlamento, mica di un luogo qualsiasi...". Di certo, aggiunge Battista, "il clima di controllo su noi eletti era fortissimo, con Casalino e Claudio Messora (quest'ultimo già nello staff comunicazione, ndr) che partecipavano a riunioni dove di solito i comunicatori non possono accedere". Lorenzo Andraghetti è stato tra i fondatori del meetup bolognese, prima candidato e dopo entrato nello staff di Giulia Sarti; poi lei lo cacciò per far posto a Bogdan Tibusche, il quale diventò il fidanzato della deputata. Parla di quello che fu un vero e proprio "Watergate", a cui un altro ex portavoce dei 5S, Massimo Artini, professione informatico, provò a metterci una pezza. "Disse: "Creiamo un sistema di mail interno, di cui possiamo fidarci". Cercò di far nascere parlamentari5stelle.it, Casaleggio lo affossò. Non voleva che un portale di democrazia diretta, sganciato dal loro controllo".

Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 16 marzo 2019. I fautori dei propri guai non recitano quasi mai il mea culpa. Non dicono a se stessi di aver sbagliato, bensì puntano su altri l' indice accusatore. È una pratica diffusa che difficilmente sarà stroncata. Mi riferisco in particolare alle fotografie osé sparpagliate sul web, fatalmente sotto gli occhi di tutti. L' ultimo caso, mi riferisco alla parlamentare Sarti, ritratta ignuda sui social, ripresa dal fidanzato e data in pasto al popolo, dimostra che l' unico modo per non essere sputtanati su internet è semplice: evitare con cura di spogliarsi davanti a un telefonino azionato da un amico o da un' amica. Se invece non resisti alla tentazione narcisistica di farti immortalare devi immaginare a quali rischi vai incontro, per esempio quello di ritrovare le tue immagini rilanciate sui tablet. Perfino un cretino è costretto a sapere che se ti offri biotto o biotta agli scatti furbi di un tizio può accadere che questi li pubblichi da qualche parte facendoti rimediare una figura barbina. Inutile lamentarsi e protestare quando la frittata è sul piatto. Mi stupisco che tante oche si spoglino come se bevessero un bicchiere di acqua, non esitino a farsi dei selfie o addirittura a esporsi all' obiettivo volontariamente nell' intento di ottenere un giudizio estetico del pubblico. Non c' è nulla di male. Ciascuno del suo corpo fa ciò che gli garba, ciononostante dopo aver saltato il fosso del pudore è da fessi pentirsi e protestare perché vieni immortalato in effigie. Bisogna accettare le conseguenze, sebbene sgradevoli, delle proprie scelte, benché emotive o dettate dal desiderio di apparire. Qualche tempo fa a Napoli, mi pare, una trentenne si fece filmare dal ganzo mentre gli forniva un servizietto erotico. Pochi giorni più tardi la prestazione incriminata fu diramata via telematica e chiunque ebbe la possibilità di guardarla. Orribile ma ovvio. A mandare in rete la scenetta era stato il fruitore della operazione, e la ragazza, ferita, piena di vergogna si uccise. Un episodio doloroso, però perdio, se fai l' amore in un sottoscala per nasconderti e, tuttavia, consenti al partner di documentare l' avvenimento col telefonino, sei obbligata, se non sei sciocca, a pensare che prima o poi lo spettacolino al quale hai partecipato con entusiasmo venga divulgato. Altrimenti sei talmente ingenuo o ingenua da non meritare una assoluzione.

M5S, dalle campagne anticorruzione e antimafia al rischio di espulsione: la strana parabola di Giulia Sarti. Riminese, 33 anni. La deputata coinvolta nella rimborsopoli M5S era considerata una risorsa sul piano mediatico. Ha superato diversi infortuni politici ma ora i vertici sembrano aver emesso la loro sentenza, scrive Matteo Pucciarelli il 27 febbraio 2019 su La Repubblica. Molto si può dire o raccontare della 33enne riminese Giulia Sarti, ma non che all'inizio fosse salita sul carro per opportunismo. La sua storia nei 5 Stelle infatti viene da lontano, attivista antimafia iscritta al primo meetup di Bologna, quando ancora Beppe Grillo non aveva lanciato il partito. Già, perché fu proprio in Emilia-Romagna che il Movimento entrò per la prima volta nelle istituzioni, con l'elezione di due consiglieri regionali nel 2010: Giovanni Favia e Andrea Defranceschi. Del delfino Favia poi epurato da Grillo e Gianroberto Casaleggio, Sarti era stata la fidanzata. E degli emiliani, prima espressione pura e coerente del grillismo e poi trattati da traditori, tipo il sindaco di Parma Federico Pizzarotti, per lungo tempo era rimasta amica. Troppo, forse. Così quando venne eletta deputata nel 2013 dalla sua casella di posta qualcuno, nessuno ha mai saputo chi e come, tirò fuori numerose mail e messaggi. Si parlava di dissapori interni al Movimento, difficoltà nel rapportarsi con il famigerato staff, ma in mezzo c'erano anche foto hard della stessa parlamentare. Che cominciarono a girare in rete. Allora il collega Angelo Tofalo le indicò il nome di Bogdan Tibusche, esperto di informatica, per aiutarla a rimuoverle. Da quella collaborazione nacque poi una relazione. Sul piano politico Sarti sapeva giocare sul filo del rasoio: ortodossa o pragmatica, critica o replicatrice del verbo, alla bisogna. Di sicuro era considerata una risorsa spendibile a livello mediatico, spinta da Rocco Casalino e company nelle partecipazioni ai dibattiti televisivi. Telegenica, parlata romagnola, la perfetta retorica della cittadina entrata nelle istituzioni e pronta a scardinare i privilegi della Casta. Solo che poi, chissà se accorgendosene o meno, è diventata casta anche lei. Come quando praticamente obbligò un collaboratore parlamentare, storico attivista del Movimento, a dimettersi inviandogli via mail il foglio di dimissioni in bianco da compilare (in quel periodo "era fortemente provata dall'hackeraggio delle mail - ha raccontato Lorenzo Andraghetti su Lettera43 - e dalla vergognosa ricostruzione che certi giornali avevano fatto relativamente ad alcune sue foto. Lei, disperata per questa situazione, si affidò completamente alla persona che le stava promettendo di risolvere in breve tempo i suoi problemi. Giulia mi parlò di Bogdan come un hacker che collaborava saltuariamente con la polizia postale italiana e perfino con i servizi segreti, che da giovane aveva avuto un addestramento militare (pilotava i Mig in Romania e aveva studiato negli Usa). E poi tutta la spinosa sulle false rendicontazioni, i bonifici per le restituzioni inviati e poi annullati, la colpa scaricata su Tibusche e così il perdono riconquistato dai vertici. Era riuscita a scamparla, quindi. Rieletta, era andata a presiedere la commissione Giustizia della Camera. Fino a pochi giorni fa, fedele al proprio personaggio, su Facebook faceva le pulci ai sindacalisti della Uil che avevano speso 20mila euro del sindacato per una crociera di lavoro, "grazie allo Spazzacorrotti chi sbaglia adesso paga". Per adesso, se sarà davvero espulsa dal Movimento, toccherà a lei. 

PERCHE' GIULIA SARTI NON E' ANCORA STATA ESPULSA, COME AVEVA ANNUNCIATO DI MAIO? Domenico Di Sanzo per "Il Giornale" il 9 aprile 2019. I vertici del M5s conoscevano già un anno fa il modo in cui la deputata Giulia Sarti e il suo ex collaboratore Bogdan Tibusche gestivano l`attività parlamentare e i soldi delle restituzioni? E nonostante questo hanno promosso la Sarti alla presidenza della Commissione Giustizia a Montecitorio? Due domande legittime che, come ricostruito anche dal Foglio il 14 marzo in un racconto molto simile, potrebbero trovare risposta nella testimonianza di un ex attivista del Movimento che ha conosciuto Bogdan «per motivi di lavoro». La fonte contatta il Giornale dopo aver letto il nostro articolo del 6 aprile scorso sull`espulsione annunciata e ancora non arrivata della parlamentare di Rimborsopoli. E ricostruisce un episodio precedente, in cui il M5s aveva minimizzato il modus operandi della Sarti e del tecnico informatico salernitano di origini rumene. La storia raccontata dall`ex attivista è molto dettagliata e risale al mese di aprile del 2018. All`epoca la «portavoce» era stata già coinvolta nello scandalo dei bonifici truccati, scoppiato a febbraio, ricandidata alle elezioni politiche del 4 marzo e non ancora nominata presidente della Commissione Giustizia alla Camera. A quel punto l`ex attivista sostiene di «sapere dove sono i soldi spariti della Sarti». Poi dice di aver chiesto un incontro a Vito Crimi, allora senatore del M5s e attuale sottosegretario a Palazzo Chigi con delega all`editoria. Siamo alla fine di aprile e i due si sarebbero incontrati «due volte in un bar vicino al Senato». L`attivista racconta di aver scoperto che «Tibusche ha avuto accesso a tutto quello su cui lavorava la Sarti, compresi documenti della Commissione Antimafia», il senatore avrebbe chiesto «di capire cosa ha in mano Tibusche». Quindi, prosegue la storia, «gli racconto tutto e Crimi mi dice che non sarà espulsa, ma che comunque non avrà incarichi importanti». Si concretizza la prima frase, infatti Sarti non viene espulsa e ancora oggi, dopo l`archiviazione di Bogdan e i proclami di Di Maio, fa parte del M5s. Mentre non si realizza la seconda promessa. Certamente Sarti non è rientrata nell`elenco dei ministri penta stellati, ma comunque gli è stata assegnata una poltrona di prestigio. In ossequio al suo lungo interesse per i temi giuridici, compresa la militanza nel Movimento Agende Rosse di Salvatore Borsellino, e alle precedenti nomine della scorsa legislatura nelle commissioni Giustizia e Antimafia, conquista la carica di presidente della Commissione Giustizia a Montecitorio. Succede il 21 giugno del 2018, esattamente due mesi dopo gli incontri che racconta la nostra fonte con l`attuale sottosegretario Vito Crimi. Con lui, afferma, anche «i piani alti sapevano tutto». Nel frattempo le espulsioni, compresa quella della Sarti, all`inizio data per scontata, rimangono congelate fino a data da destinarsi. Paola Nugnes ed Elena Fattori, sottoposte a procedimento per non aver votato la fiducia al governo sul Decreto Sicurezza, continuano a «sparare sulla dirigenza» attraverso dichiarazioni e post su Facebook. E tra i parlamentari ex grillini che invece sono stati cacciati fuori dai gruppi parlamentari di Camera e Senato comincia a insinuarsi un dubbio, così esplicitato: «Tanto hanno deciso a tavolino che non espelleranno più nessuno». Forse la nuova offensiva nei confronti del Carroccio di Matteo Salvini ha bisogno di truppe parlamentari il più compatte possibili, e i dissidenti e la Sarti restano sospesi.

I GRILLINI DALLA TRASPARENZA ALLE TRASPARENZE. Giacomo Susca per “il Giornale” il 15 maggio 2019. La buona notizia è che i Cinque Stelle almeno una promessa l' hanno mantenuta. Avevano garantito la massima trasparenza con gli italiani e infatti adesso ci tocca vederli come mamma li ha fatti. Casaleggio, abbiamo un problema: il concetto sta sfuggendo un po' di mano. Se in queste ore sulla bacheca di Facebook avete intravisto un selfie di Dino Giarrusso con in mostra i «gioielli di famiglia», non era certo per dichiarare il proprio patrimonio in vista della discesa in campo. Perché il grillino che in un' altra vita faceva la Iena in tv oggi è in lista alle Europee, dice di essere stato colto in una trappola mediatica e quindi denuncerà tutto alla polizia postale. Una nemesi emblematica per chi aveva sollevato, da inviato della trasmissione di Italia 1, il polverone delle molestie sessuali nel mondo del cinema italiano (finito poi in nulla nelle aule di tribunale). Davvero un brutto intoppo per la campagna elettorale. Giarrusso, come prima conseguenza dello scandalo, non potrà più far stampare i suoi «santini», dato che a giudicare da quelle immagini non pare certo un santerello. Ma ben più interessante dell' aitante candidato desnudo a sua insaputa, comunque, è la deriva tragicomica che sta prendendo l' impeto di limpidezza tipico del Movimento, naturalmente solo a parole, visto che su rendiconti dei parlamentari e manovre dentro Rousseau più di un velo lo stendono eccome. Siamo d' accordo: il Palazzo deve avere le finestre «di vetro», il cittadino deve vederci chiaro dall' esterno, però sarebbe preferibile che prima i nostri rappresentanti si infilassero la biancheria intima. I grillini volevano cambiare i costumi della politica, forse sarà per questo che molti di loro ci appaiono in quello... adamitico. Un conto è scagliarsi contro i dinosauri in giacca e cravatta, un altro è farlo dimenticandosi di indossare le mutande. Giarrusso, purtroppo, è in buona compagnia. Anche la deputata pentastellata Giulia Sarti era stata vittima di revenge porn: le sue foto private sono finite nel tritacarne di alcune chat Whatsapp fino a diventare di pubblico dominio. Una vicenda molto grave e, come si deduce dagli ultimi sviluppi, non isolata. Trasparenza, anzi trasparenze a ogni costo pure per l' onorevole «cittadina» Valentina Corneli, fresca protagonista nell' aula della Camera di un dimenticabile discorso sui tagli alla casta, se non fosse per il fatto che lei per prima ha voluto dare l' esempio facendo spending review sulla stoffa del vestito, esibendo una scollatura da quinta Repubblica abbondante. In precedenza aveva fatto lo stesso la capogruppo dei pentastellati in Consiglio regionale della Sardegna Desirè Manca, che si era presentata all' insediamento mettendo in evidenza il bipolarismo perfetto del suo décolleté. Abbiate pazienza, questi grillini sono giovani e si faranno (speriamo il guardaroba). Giuravano di raccontarci la nuda verità sul potere, è finita che ci hanno rifilato il nudismo al potere.

FULVIO ABBATE IN LODE DELLA “CIOLLA” DI DINO GIARRUSSO. Fulvio Abbate per l'Huffingtonpost il 15 maggio 2019. “Inviata”! E la foto del cavaliere Dino giunse alla dama lì in, si suppone, trepidante attesa. Il cavaliere, lo si sappia, forse, nello scatto si mostrava nudo in effigie. I fatti? Improvvisamente, qualcuno, gaglioffo, pensò bene di pubblicare una foto di Dino Giarrusso, già “Iena”, poi mancato candidato del Movimento 5 Stelle alle recenti politiche e infine, storia di questi giorni, volto perfetto agli occhi dell’elettorato grillino per le elezioni europee. Uno scatto, un selfie, da quel che si apprende, dove Dino nostro apparirebbe nel pieno della sua nudità, pare addirittura che la foto abbia dimorato, indisturbata, su un profilo Facebook comunemente frequentato, lì per circa un’ora, prima d’essere rimossa e dunque negata agli sguardi di un popolo della rete attento alle pubbliche spigolature erotiche, sessuali, attitudinali. Pure evidenze virili. Anche la collega di partito Giulia Sarti, tempo addietro, poté vantare d’essere apparsa nel medesimo palmarès esibizionistico, così suo malgrado, nulla di scandaloso, semmai pura vita, posto che in verità si tratti di doni, offerte private all’altrui sguardo che li attende, li brama. Nel caso di Giarrusso, va detto, c’è però un supplemento: alcuni infatti rimproverano all’uomo d’essere stata Iena “persecutrice” verso il regista Fausto Brizzi, accusato, e poi prosciolto, quest’ultimo, di molestie, ciò nonostante, perfino in assenza del Giarrusso, ormai riparato sotto i bianchi gazebo della militanza pentastellata, hanno continuato a sostenere discutibile le modalità di approccio del regista in ambito sentimentale. Tornando invece a Dino, le stesse Iene, non molto tempo dopo, si sono rivolte all’ex collega pregandolo altresì di depennare quel titolo di inviato del format di ItaliaUno dai manifesti elettorali e possibilmente anche l’outfit di scena, abito nero e cravatta in tinta, citazione di una sobrietà da “sicario-giornalista”, come dire: a ciascuno il suo compito. Tornando però al motivo delle spasmodiche nudità, accade ora che Dino Giarrusso, se davvero dovesse risultare credibile quel traffico zampillante di selfie adamitici, sia accusato di predicare bene e razzolare male. Scatti che, conoscendo l’avvenenza sicula del nostro protagonista, potrebbero suggerire, almeno ai più colti in tema di gallerie fotografiche, i leggendari ritratti che il barone tedesco Von Gloeden realizzava all’inizio dello scorso secolo in terra di Taormina ai procaci ragazzi locali, senza omettere di mostrarne le possenti “ciolle”, si trattava, va da sé, di modelli consenzienti, di più, facenti il verso alla grazia preraffaelitica. Non è il caso di Dino Giarruso che, iconograficamente parlando, assai bene potrebbe invece, da attore provetto qual è, reinterpretare il Gennarino Carunchio di “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto”, capolavoro di Lina Wertmuller, oggetto di remake anche da parte di Madonna. Tuttavia, ben al di là di Giarrusso, cui va tutta la nostra vicinanza e calorosa solidarietà, il punto intero della questione trascende sia il caso Brizzi sia Dino stesso, sia l’onore e il buon costume dei 5stelle, assodato che nottetempo, o magari perfino in pieno giorno, la rete, tra dispositivi fissi, tablet, smartphone e altro ancora, offre all’universo mondo sia maschile sia femminile sia fluido l’immensa opportunità di far guizzare centinaia di foto o selfie-omaggio dove, fuori dagli antichi pudori vittoriani, il ragazzo offre alla ragazza, l’adulto offre alla coetanea, la propria nudità, le proprie forme, le proprie grazie, le proprie misure, poco ora in stato di quiete ora addirittura, accade anche questo, in piena erezione. Chiarito che, poco prima, a sua volta, non meno consensualmente, lei ha provveduto a fornire al proprio (non meno) oggetto del desiderio i propri scatti, i propri selfie, materiali del sublime anatomico fotografico destinati al reciproco piacere, forse addirittura alla prassi onanistica. Sappiamo per certo che si tratti di uno scambio, di una corrispondenza, di una forma di “strategia del dono” erotico assai comune, del tutto ricorrente, una disciplina platealmente praticata, chi dovesse negarlo rischia, lo si sappia, d’essere ritenuto falso, se non spergiuro. Dai, se solo, nottetempo, fosse possibile scostare con le gru del voyeurismo le facciate degli edifici, così mettendo a nudo in sezione l’interno degli appartamenti e delle singole stanze, gli occhi subito pronti a penetrare nelle vite degli altri, come nel mondo romanzesco di Georges Perec con “La vita istruzioni per l’uso”, accanto ai ritratti di famiglia, ai souvenir lì su mensole e comò, agli orologi fissati ai muri, agli arredi Ikea e ogni altro genere di mobilia e suppellettili, vedremmo sia lui sia lei, questo e quella, quell’altro e quell’altra ancora, intenti, cellulare in mano, a scattare là dove possiamo immaginare, per poi subito inviare, come nelle vere e ardenti dediche amorose; d’altronde, anche a occhio nudo, molte pagine dei social appaiono, almeno agli occhi di chi sappia leggere le intenzioni già presenti nelle foto-profilo, un bacino, di più, un cosmodromo pullulante di vocazioni felicemente esibizionistiche e, s’intende, per estensione onanistiche, rampe di lancio di una conversazione erotica permanente, remake digitali del celebre capolavoro libertino “Les liaisons dangereuses”; chiarito che da sempre, come recita più bassamente un noto canto goliardico, da che mondo è mondo a un certo punto del giorno “il popolo bruto snuda il banano”, chiarito tutto ciò, ammesso pure che Dino Giarrusso abbia davvero nottetempo recapitato a una sua corrispondente la foto del proprio pisello, tutto ciò resta materia assolutamente privata, ginnastica amorosa, per dirla con De Amicis, che appartiene all’al di là d’ogni peccaminosa responsabilità, ciò che il maestro dell’erotismo surrealista definirebbe “istinto desiderante”. Al momento dello scambio delle missive amorose con acclusa foto-verità, ammesso che per il nostro le cose siano andate davvero così, siamo tutti Giarrusso, siamo tutti, salvo i renitenti, gli ipocriti, gli inibiti, lì pronti, il dito già in arrivo sul pulsante di invio.

Ultima furbata sui rimborsi degli onorevoli: presentano spese per notaio e formazione. Di tutto nelle «consulenze», dagli avvocati ai social. Conti da 10mila euro, scrive Carmelo Caruso, Giovedì 14/02/2019, su Il Giornale. Per mettere ordine ai loro scontrini hanno assunto un reggimento di commercialisti mentre per imparare a governare inseriscono tra le spese i loro corsi di formazione. I parlamentari del M5s hanno ripreso a pubblicizzare i rimborsi ma soprattutto a documentare le uscite. Bloccata per mesi, da ieri, è infatti ripartita la piattaforma «Ti rendi Conto» ed è subito chiara una cosa: gli unici conti in ordine sono quelli dell'Associazione Rousseau di Davide Casaleggio che ogni mese riscuote 300 euro dagli onorevoli. Per cominciare, la quota di indennità da restituire è ormai di solo 2mila euro al mese e le restituzioni si sono in realtà fermate a settembre. Ma è tra le pieghe dei rendiconti, alla voce «consulenze», che ormai si cela di tutto. Da gennaio 2018, il deputato Giuseppe Brescia, ogni mese, dichiara di spendere ben 10mila euro per «formazione e ricerche». Stando a quanto riporta, ha finora impiegato 90mila euro per formarsi e ricercare, ma purtroppo non ci è dato sapere cosa. Più parsimonioso è stato il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, che si limita a spendere 1.850 per non rimanere indietro negli «studi». Parlando di giustizia non sono pochi i 3.952 euro che carica come spese di formazione il deputato Nunzio Angiola in passato condannato dalla Corte dei Conti per danno erariale. Perfino il tesoriere del M5s, di fatto il responsabile di questo inferno tecnologico, Sergio Battelli, deve ricorrere al commercialista per fare quadrare i (suoi) conti e corrispondergli 786,66 euro. Ed è davvero un dispiacere che il sottosegretario agli Esteri, Manlio Di Stefano, utilizzi 2.573 euro, sempre al mese, per i «social» e quindi per condividere le sue posizioni a favore del despota venezuelano Maduro. Tra i deputati del M5s c'è chi ha compreso che a furia di bloccare le grandi opere il rischio è di finire in tribunale e che è meglio procurarsi un buon avvocato. Angela Ianaro ogni mese si assicura la protezione «legale» per 2.927 euro, ma chi non bada al denaro è la senatrice Felicia Gaudiano che, a dirla tutta, avrebbe anche l'immunità. Il suo avvocato costa 5.075 euro al mese. Se si scorrono invece i giustificativi della senatrice Anna Orrico c'è da credere che il suo ufficio sia un laboratorio informatico. Ogni 30 giorni, acquista pc e tablet per 2.007 euro. Occorrerebbe invece avvertire il deputato Filippo Perconti che 2.196 euro che dice di spendere per i social sono mal spesi, ha visibilità zero. Tuttavia la vera sorpresa è sapere che pur detestando i giornalisti ci sono senatori del M5s che ne stanno garantendo la fortuna. Sono Gianluca Perilli e Stefano Patuanelli che pagano i loro collaboratori dell'ufficio stampa rispettivamente 5.515 euro uno e 4.977 euro l'altro. Chi non ha rimborsato né rendicontato è invece la deputata Flora Frate che, preoccupatissima, ha però già preparato una memoria difensiva sul suo profilo Facebook: «Sto predisponendo il secondo bonifico». Naturalmente non si poteva che finire con Danilo Toninelli, il ministro dei costi e dei benefici, il ministro che ha studiato ogni singola cifra della Tav ma che quando si è trattato di dettagliare le sue ha preferito rimanere sul vago: 3.606 euro al mese definiti semplicemente «Altre spese». E di questi si può, almeno, dire che sono solo costi.

·         5 Stelle ... rotte.

5 Stelle ... rotte, scrive Angelo Consoli. “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Bertolt Brecht. "Durante una riunione del Meet Up 5 Stelle di Mesagne nel 2014, Piero Francioso, all'epoca attivista di Ceglie Messapica, sparò una domanda secca che mi risuona nella testa fin da allora. La domanda era "esiste una pedagogia del M5S?" Cioè, Piero voleva sapere se il M5S insegnasse qualcosa e che cosa a chi ne faceva parte a livello valoriale e culturale, sociale personale. Tenete presente che all'epoca il M5S si batteva ancora per un diverso modello economico e energetico, c'erano parole d'ordine per una transizione ecologica dell'economia e della società e si era davvero convinti di cose come "nessuno deve rimanere indietro" e "uno vale uno". Poi arrivarono una serie di voltafaccia, il tradimento sulle questioni ambientali e climatiche, il cambiamento repentino di strategia sulle questioni europee fino alla accettazione supina di un Fiscal Compact che manco Monti, il governo del "cambiamento" con Salvini e, soprattutto, l'episodio chiave: la cancellazione nottetempo del M5S per la sua sostituzione con il Blog delle Stelle e un nuovo Statuto praticamente copiato dalla famosa "Legge del Capo" (Ricordate? Art.1 Il capo Ha ragione. Art. 2 Il Capo ha sempre ragione. Art. 3 Nella improbabile ipotesi che il capo avesse torto entreranno immediatamente in vigore gli artt. 1 e 2... ). Alla luce di questi sviluppi temo di dover concludere che la risposta alla domanda di Piero sia che alla maggior parte degli attivisti è arrivato un insieme di messaggi devastanti che trasmettono valori e in linea con i più noti difetti dell'italietta peggiore. Intendiamoci, c'è anche una contrapposta Italia di grandi valori che ha insegnato al mondo creatività, eroismo, spirito di sacrificio, originalità, coraggio umanità, intraprendenza. Ma non è quella che emerge oggi dal M5S. Insomma il movimento ha subito una mutazione genetica e le 5 Stelle (acqua pubblica, ambiente, connettività, rifiuti zero, trasporti pubblici... do you still remember?) hanno lasciato il posto cinque nuovi valori fondamentali che possiamo riassumere in questo modo:

1 Negazione. Qualunque argomento pericoloso per il Movimento va negato. Ci penserà chi gestisce il web a far sparire le prove che quell'argomento sia mai esistito e se qualcuno ha fatto uno screenshot dell'ultima cazzata detta da Di Maio o da Toninelli, va accusato di essere un troll che diffonde fake news. Negare, negare e ancora negare. Di Maio dice che c'è il boom economico? Negate la crisi, la disoccupazione e tutte quelle altre storie negative messe in giro dai cacadubbi per stroncare il cambiamento. E se vi dimostrano che la crisi c'è davvero, negate che Di Maio abbia detto che c'è il boom economico... Naturalmente questo non vale per Beppe Grillo, perchè lui è "il Garante".

2 Opportunismo. Vedi qualcosa che non va? Ti stai zitto per non disturbare il manovratore, e prima o poi verrà il tuo momento. Il tuo silenzio verrà ricompensato con una candidatura o una posizione di rilievo anche se non hai la capacità, la competenza, l'esperienza necessaria a ricoprire quel ruolo. In fondo Casaleggiolo ha detto che anche una casalinga può fare il ministro. Se invece parli sei "out"! Naturalmente questo non vale per Beppe Grillo, perchè lui è "il Garante".

3 Diversione. Qualcuno sta criticando il Movimento? Qualcuno dice che le votazioni sul blog sono una farsa? Attaccalo sul piano personale con argomenti come "sputi nel piatto dove hai mangiato", oppure, "fai come la volpe che non è arrivata all'uva", oppure insinua che sia un piddino camuffato ed esortalo a andare nel PD. Qualunque cosa purchè la discussione si allontani dal suo oggetto sconveniente per il movimento (tipo il voltafaccia sull'ilva, la tap, le trivellazioni, gli inceneritori, gli F35, i condoni edilizi, gli sversamenti di fanghi...). Naturalmente questo non vale per Beppe Grillo che può dire quello che vuole perchè lui è "il Garante".

4 Mistificazione. E' sempre colpa di qualcun altro. Il PD principalmente, ma anche "gli elettori che non ci hanno dato la maggioranza assoluta costringendoci ad allearci con la Lega", i "poteri forti", le lobby, la stampa venduta "dei giornaloni", le penali concordate prima di noi (anche se è falso funziona sempre!) il maltempo, le cavallette, lo sciopero, il terremoto. Non dire mai che qualcosa è responsabilità del Movimento. Mai! Naturalmene questo non vale per Beppe Grillo che può dire quello che vuole perchè lui è "il Garante".

5 Abiura. Hai osato esprimere un pensiero critico su una delle politiche del governo o le scelte del m5s? Gravissimo. Sei spacciato. A meno che tu non ti penta. Platealmente. Clamorosamente. Fustigandoti materialmente e metaforicamente. Rimangiati immediatamente la critica e giura che non lo farai mai più. E forse (dicesi forse!) il Movimento ti perdonerà e ti ri accoglierà sotto le sue ali benevole. Naturalmente questo non vale per Beppe Grillo che può dire quello che vuole perchè lui è "il Garante"...E adesso vai con gli insulti..."Angelo Consoli

" ... Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!..." Antonio Giangrande Movimento Cinque stelle ... Cadenti - 2018

Movimento Cinque Tranelli. Votare no per dire sì, scrive Francesco Maria Del Vigo, Lunedì 18/02/2019, su Il Giornale. Dici no per dire sì. È il governo del cambiamento. Semantico. Volevano aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno, invece stanno solo attentando alla ragionevolezza della lingua italiana. Così, adesso, se sei iscritto a Rousseau e vuoi dire no alla gogna giudiziaria per Salvini cosa devi votare? Ovviamente sì. Cioè il contrario di quello che i senatori grillini dovranno fare in Giunta per l'autorizzazione. È il mondo alla rovescia dei Cinque Stelle. Un tranello continuo, un ossimoro costante, un gioco di parole per decidere di non decidere. Ma non è una novità. Quando il gioco si fa duro i grillini iniziano a barare. Scaricano tutto sulla giuria popolare. Sull'aiuto da casa. Come in un quiz. Come un Ponzio Pilato 2.0, che se ne lava le mani nel lavacro della democrazia diretta. Ottima scusa per taroccare sempre tutto al loro volere. Per esempio: siamo favorevoli ai vaccini sì o no? Eh beh, scelta troppo complessa e divisiva. Meglio sostenere la linea dell'«obbligo flessibile». Che, ovviamente, non vuole dire un cavolo. O obblighi qualcuno a vaccinarsi o fai l'esatto contrario. Tertium non datur. L'obbligo - lo dice la parola stessa - è rigido, non si piega, non è creta da plasmare a proprio piacimento. D'altronde quando hanno chiesto a Di Battista se suo padre era un camerata, lui ha gelato tutti: è un fascista liberale. Ineffabile. E la linea pentastellata è un po' tutta così, un vorrei ma non posso, un sottinteso e un malinteso. Ai grillini piacciono tantissimo Chavez e Maduro, ma poi cercano di fare gli equilibristi sullo scacchiere internazionale, per non scontentare nessuno. Perché altrimenti si sputtanano a sostenere un dittatore comunista. Un passo avanti e due indietro. Come in un valzer. E così adesso Matteo Salvini, alleato di governo e vicepremier omologo (o alter ego, come direbbe lui) di Gigino Di Maio, è lì, appeso al calembour di un movimento che, non sapendo cosa decidere, sottopone i suoi elettori a una pilatesca supercazzola. «Noi non siamo né a destra né a sinistra, noi stiamo sopra», diceva anni fa, con grande orgoglio, Beppe Grillo dal palco dei suoi spettacoli. E aveva ragione, probabilmente senza saperlo. Era profetico, stava tracciando un programma politico. Cinque Stelle e mille posizioni. Più democristiani dei democristiani. Senza averne il talento politico.

Tensione per il voto su Salvini, Grillo e Di Maio in rotta di collisione. Dopo il tweet provocatorio sul voto online sul caso Diciotti Beppe Grillo corregge il tiro: "Piena fiducia nel capo politico del Movimento". Ma secondo i bene informati la rottura tra il comico genovese e Luigi Di Maio sarebbe dietro l'angolo, scrive Cristina Verdi, Martedì 19/02/2019, su Il Giornale. “Piena fiducia nel capo politico Luigi Di Maio". Così ieri Beppe Grillo, garante del Movimento 5 Stelle, aveva corretto il tiro sulle parole pronunciate a proposito del voto online sul caso Diciotti. Eppure quel tweet al vetriolo sul quesito posto agli attivisti sulla piattaforma Rousseau – “Se voti Si vuol dire No. Se voti No vuol dire Si. Siamo tra il comma 22 e la sindrome di Procuste!” – ha alimentato la tesi di chi sostiene, al contrario, che tra il comico e il leader grillino i rapporti non siano proprio idilliaci. Secondo alcune indiscrezioni pubblicate dal Corriere della Sera, tra i due da tempo ci sarebbe maretta. Nessuna stima e nessun affetto, insomma. E il tweet che ha smontato il voto voluto da Di Maio per uscire dall’impasse della decisione sull’autorizzazione a procedere ne sarebbe l’ennesima dimostrazione. “Vedo che ci sono state polemiche sul dire no per dire sì e dire sì per dire no, ma è lo stesso quesito che verrà posto ai senatori. Grillo? Ci sta, ci sta, ci si scherza su”, ha commentato il vicepremier e ministro del Lavoro. Ma in realtà quel tweet lo avrebbe messo in difficoltà, e non poco. Del resto è lo stesso Grillo che nel suo spettacolo, Insomnia, si vanta di essere l’unico a saperlo fare. "Conosco tutto della sua vita", avverte nel suo show. E i bene informati dicono che dietro le quinte il comico genovese sia solito apostrofarlo con epiteti ironici. “Il piccoletto”, lo chiamerebbe con la vecchia guardia che non condivide le scelte del capo politico del Movimento. Anche le ultime conversazioni private dei due, secondo le stesse fonti, sarebbero state all’insegna del nervosismo. Per ora, però, la partita l’ha vinta il giovane leader grillino. “Il caso Diciotti è chiuso”, ha potuto finalmente affermare Di Maio. L’esecutivo giallo-verde è salvo e l’opposizione interna incassa: “Ci sono tante altre cose fa fare per il paese. Il governo va avanti, come tanti italiani ci chiedono”.

Chi nasce rivoluzionario sopravvive poltronista. Arrivati al potere, i movimenti per il cambiamento difendono solo lo status quo, scrive Francesco Alberoni, Domenica 03/02/2019, su Il Giornale. Durante tutta la mia vita ho studiato i movimenti collettivi che si sono succeduti nel corso della storia e ho potuto constatare che tutti hanno qualcosa in comune: nascono come rivolta, contro l'ordine esistente, nel loro stato nascente elaborano l'utopia di un futuro felice. Poi si organizzano in partito, si forma una leadership forte, carismatica. Se vanno al potere quelli che sono al comando del partito occupano tutte le cariche dello Stato e intendono conservare il potere conquistato. Perciò giungono ad accordi e compromessi con le forze economiche e culturali presenti. Questo suscita le proteste e l'opposizione di coloro che rifiutano il compromesso e sognano di realizzare integralmente l'ideologia degli inizi. Questo ciclo lo vediamo bene nel comunismo, che era rivoluzionario negli anni '30 ma, quando Togliatti è ritornato in Italia, è diventato una forza stabilizzante. Il Movimento Cinque stelle nasce dal mito apocalittico di Gianroberto Casaleggio che vuole tutto il potere per distruggere la democrazia parlamentare e fare governare tutti i cittadini direttamente attraverso il web. Per questo, dopo la vittoria del 2013 i grillini rifiutano ogni dialogo con gli altri partiti, in particolare umiliano Bersani. Morto Casaleggio padre, la spinta utopico- rivoluzionaria si attenua. I grillini vincono le elezioni ma fanno subito un accordo con la Lega di Salvini. Poiché i programmi dei due partiti sono diversissimi, il loro di tipo socialista e assistenziale e l'altro di sviluppo economico, sembra che il governo non possa reggere. Ma il piccolo e coeso gruppo dirigente grillino vuole restare al potere e abbandona gradualmente le posizioni utopiche facendo compromessi. La parte legata alla utopia delle origini ed esclusa dal governo cerca continuamente di ribellarsi, ma si ha l'impressione che, giorno dopo giorno, perda terreno. Qualcuno, quando esploderanno le difficoltà economiche, si aspetta una frattura del partito, ma la mia impressione è che il gruppo dirigente grillino sia molto duttile e pronto a cambiamenti e trasformazioni pur di restare al governo. Il futuro è sempre più imprevedibile di come noi lo immaginiamo perché gli uomini cambiano, e oggi cambiano molto in fretta.

·         Il Sistema Casaleggio.

 Le consulenze della «Casaleggio Associati» alle aziende anti M5S. Pubblicato giovedì, 17 ottobre 2019 su Corriere.it. Consulenze e polemiche. La Casaleggio Associati e Davide Casaleggio finiscono aal centro di un caso per un eventuale conflitto di interessi. L’imprenditore, fondatore del M5S, ha tra i suoi clienti alcune aziende come Lottomatica, Philip Morris e Moby, con contratti di consulenza in alcuni casi siglati pochi mesi prima delle elezioni Politiche del 2018, che hanno visto trionfare i Cinque Stelle. La questione — sollevata dal Fatto Quotidiano — è focalizzata proprio su quelle aziende di gioco d’azzardo, tabacco (e navi) che hanno posizioni contro cui si è schierato in passato il Movimento. Per Lottomatica il rapporto con la società milanese è legato al portale di “Generazione Cultura”, un concorso che mette in palio stage retribuiti per giovani laureati in collaborazione con la Luiss. Philip Morris ha chiesto una consulenza sulla comunicazione digitale in Italia, una consulenza pagata , secondo la ricostruzione oltre 500.000 euro. Cifra simile anche per l’iniziativa di Moby Lines «“naviga italiano» per sollecitare la politica a intervenire sulle norme per i marittimi comunitari. Moby è un’ azienda di Vincenzo Onorato, armatore napoletano, che possiede anche Tirrenia e Toremar. Recentemente, il 9 ottobre, il tribunale fallimentare di Milano ha rifiutato un’istanza di fallimento nei confronti della compagnia. Le tre consulenze rappresentano una buona fetta dei ricavi della Casaleggio , che ha dichiarato 1,17 milioni di euro di ricavi nel 2017 e 2,04 nel 2018 . «Non ci relazioniamo con il governo o forze politiche per svolgere il nostro lavoro, né per acquisire clienti. Consigliamo le aziende per cui lavoriamo su come utilizzare al meglio la tecnologia dal 2004 e già da allora eravamo tra i primi in Italia posizionati sul mercato come società di consulenza strategica per la Rete. Anche il Fatto Quotidiano si rivolse alla Casaleggio Associati per avviare la sua presenza online alla sua nascita», ha replicato la Casaleggio Associati. Ma la vicenda ha assunto anche un contorno politico. Per Anna Maria Bernini di Forza Italia si tratta di «un palese conflitto d’interessi che i Cinque Stelle fingono però di ignorare». E argomenta: «La Casaleggio, inoltre, lucra su settori come il gioco e il tabacco contro cui il Movimento ha condotto violente battaglie ideologiche. Siccome Di Maio mette sempre ai primi punti del programma grillino proprio il conflitto d’interessi, non potrà sfuggire a questa gigantesca contraddizione».

Casaleggio all’Onu per conto di Rousseau. Pd e opposizioni: «C’è conflitto di interessi». Il Dubbio il 28 Settembre 2019. Polemiche per l’annunciata partecipazione di Davide Casaleggio all’Onu per promuovere una risoluzione «i diritti di cittadinanza digitale». Andrea Marcucci: « Chi lo ha deciso?». Davide Casaleggio annuncia al Corriere della sera che il primo ottobre sarà all’Onu per promuovere una risoluzione «a difesa dei diritti di cittadinanza digitale» e scoppia la polemica politica. «L’evento è stato organizzato e promosso dal governo italiano, attraverso la Rappresentanza Permanente italiana alle Nazioni Unite. Finalmente l’Italia guarda al futuro», dice il presidente dell’Associazione Rousseau, prima di specificare: «Naturalmente non viaggerò con la delegazione del governo e le mie spese le gestirò in autonomia. Per altro sono già negli Stati Uniti da ieri per lavoro». Ma opposizione e alleati vogliono vederci chiaro sul perché un manager di un’associazione privata partecipi a un incontro promosso dal governo. «Casaleggio è stato multato dal Garante per la privacy, incredibile che parli ad un evento collaterale all’Onu a nome del governo italiano. Chi lo ha deciso?», si chiede su Twitter il capogruppo del al Senato, Andrea Marcucci. Di conflitto d’interessi parla invece Matteo Orfini, che scrive sui suoi canali social: «Capisco che ora siamo al governo insieme ma proprio per questo dobbiamo dirci la verità: che il governo italiano organizzi la presenza di Casaleggio all’Onu per promuovere la sua associazione non è normale. A proposito di conflitto di interessi». Ancora più critica la grillina eretica, e sempre a un passo dall’espulsione, Elena Fattori, che senza mezzi termini commenta: «Casaleggio all’Onu rappresenta un vergognoso conflitto di interessi. Davide oltre a essere fondatore del Movimento 2.0 è anche imprenditore. Rousseau non è un asset pubblico ma appartiene a una Associazione. Non è a disposizione dei cittadini italiani a seguito di una gara pubblica ma è pertinente a una singola forza politica». E sul conflitto di interessi si concentra anche la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni. «Il governo in cui siede Di Maio, ministro degli Esteri e capo politico del M5S, organizza all’Onu un evento sulla cittadinanza digitale e invita Davide Casaleggio a promuovere il progetto Rosseau», è la premessa del suo ragionamento. «Nessuno ha niente da dire su questo enorme conflitto di interessi? Cercasi coerenza Cinquestelle». Gli ex alleato della Lega invece si sono accorti di una «pericolosa commistione tra le attività istituzionali dell’esecutivo e una realtà giuridicamente privata che con il M5s intrattiene rapporti di natura così strutturale e consolidata che è difficile definire dove inizi l’uno e dove finisca l’altro». Per queste ragioni, «giovedì l’ argomento sarà oggetto di Question Time urgente in commissione esteri dove come Lega chiederemo al governo di definire i contorni di questa ben poco chiara vicenda», annuncia il leghista Eugenio Zoffili.

Jacopo Iacoboni per “la Stampa” l'1 ottobre 2019. Alla fine, Davide Casaleggio parlò. All' Onu. Un grande spot della piattaforma Rousseau come «tool», strumento della democrazia diretta, senza fare riferimento ai tanti gravissimi problemi della piattaforma (hackeraggi e varie sanzioni del Garante per i dati): «La terza rivoluzione industriale che stiamo vivendo, quella tecnologica, ha portato all' emersione di nuovi diritti fondamentali. In Italia, grazie a Rousseau, li stiamo già esercitando: 80 mila persone hanno votato online per l'attuale governo». Il voto online, ci ha ricordato, è già una realtà nientemeno che «in Estonia». Ha citato Grillo: «Nel 2007, al primo Vday, solo grazie a Internet raccogliemmo 300 mila firme per la legge "Parlamento Pulito"». Ha menzionato anche l'articolo 23 della Dichiarazione universale dei diritti dell'Uomo, che in questo excursus è parso una specie di esperienza precorritrice dell'Associazione Rousseau. Reduce da un viaggio nella Silicon Valley, Casaleggio ha dunque coronato un suo obiettivo: proporsi come un player globale nel mercato delle piattaforme di voto online. Poco prima, il rappresentante permanente del Bangladesh all'Onu, Masud Bin Momen, aveva espresso preoccupazioni sul bisogno globale di cybersecurity, «la protezione dei dati è fondamentale, come lo è la privacy». Casaleggio, sanzionato in Italia proprio per mancata protezione di dati, era seduto subito alla sua sinistra, ma non ha fatto una piega. Anir Chowduri ha spiegato che «il problema numero uno è la privacy». Jarmo Sareva ha esposto la necessità di «rigidi protocolli etici». Tutte frontiere sulle quali la piattaforma ha registrato qualche lievissimo problema. Il blog delle stelle sostiene che «la partecipazione (di Casaleggio) era già stata programmata con l' allora ministro degli Esteri Moavero». Il quale ha però ha precisato di non aver mai invitato Casaleggio, aveva solo accettato un invito sul digitale suggerito da Di Maio, che si era guardato dal dirgli che ospite sarebbe stato Casaleggio.

Casaleggio spiega Rousseau all’Onu: «Finiti gli esperimenti». Pubblicato martedì, 01 ottobre 2019 su Corriere.it da Massimo Gaggi. Il presidente dell’associazione Rousseau: «Va sviluppata la democrazia digitale». Con lui la ministra Pisano: «Spingeremo i servizi online». «Il tempo degli esperimenti è finito»: dobbiamo usare le tecnologie digitali per consentire ai cittadini di godere realmente dei diritti garantiti dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. È partito da qui l’intervento di Davide Casaleggio al dibattito sulla cittadinanza digitale tenutosi ieri all’Onu in margine ai lavori dell’Assemblea generale per iniziativa della delegazione italiana insieme a quella dell’Unione europea e di altri Paesi come Finlandia e Bangladesh. Le polemiche italiane sull’evento non sono arrivate fino dentro l’aula 6 dell’Onu dove Casaleggio, intervenuto dopo la ministra Pisano come rappresentante della società civile in quanto presidente del’associazione Rousseau, ha discusso con altri rappresentanti di governi, aziende e centri di ricerca e consulenza come McKinsey, delle implicazioni delle tecnologie digitali per la democrazia e lo sviluppo sociale. L’imprenditore ed esponente del M5S ignora le accuse di conflitto d’interessi ricevute in Italia : «Ne so poco, fino a ieri ero in Silicon Valley a visitare centri di ricerca e imprese innovative». A New York sostiene la sua tesi sulla tecnologia che cambia tutto, anche i meccanismi della democrazia, e per farlo parte dalle rivoluzioni industriali degli ultimi due secoli - vapore, elettricità, motore a combustione interna, Internet - che hanno inciso non solo sul benessere e la struttura sociale, ma anche sull’esercizio dei diritti politici. Per Casaleggio è quindi necessario agire con determinazione su tre fronti - identità digitale, accesso a Internet libero e neutrale, educazione digitale - per sviluppare una democrazia digitale con la piena partecipazione dei cittadini alle decisioni politiche con la delega della rappresentanza o, quando possibile, con la partecipazione diretta. Avviene già in molte realtà, compresa la città di New York dove i cittadini possono decidere sull’allocazione di certe risorse di bilancio. La discussione dell’Onu, introdotta da Maria Francesca Spatolisano, vicesegretario generale per gli Affari sociali delle Nazioni Unite (Undesa), è stata aperta da Paola Pisano che ha spiegato la filosofia del nuovo ministero dell’Innovazione e della digitalizzazione del quale è titolare: l’Italia crede nel digitale sia a livello di cooperazione (partner nei piani Onu per ridurre il digital divide) sia di sviluppo sul suo territorio; «il nostro Paese ha una buona copertura di banda larga: il nostro problema è di uso, più che di infrastrutture. Molti servizi pubblici sono stati digitalizzati, ma pochi cittadini ne approfittano. Un problema di penetrazione che stiamo cercando di affrontare anche col progetto Repubblica digitale per creare partnership pubblico-privato a sostegno di iniziative per ridurre il digital divide». Joao Vale de Almeida, ambasciatore della Ue all’Onu, ha giudicato quello dato dall’Italia col ministero della digitalizzazione «un esempio importante anche per altri Paesi. Dobbiamo imparare a difenderci, ma anche a beneficiare di queste tecnologie». Gestire, non ritirarsi.

Casaleggio a New York ma l’ex Canestrari attacca: «Fa solo affari». Rocco Vazzana l'1 Oct 2019 su Il Dubbio. Polemiche sull’intervento alle Nazioni Unite. Marco Canestrari autore del “Sistema Casaleggio”: «Da quando il movimento è al governo, la sua azienda ha raddoppiato il fatturato». Mentre il Movimento 5 Stelle prova a stemperare «polemiche inutili e pretestuose» sull’intervento di Davide Casaleggio all’Onu, alleati e opposizioni continuano a parlare di «conflitto d’interessi». I grillini assicurano che «la partecipazione era già stata programmata con l’allora ministro degli Esteri, Enzo Moavero», ma fonti della Farnesina, citate dal Messaggero, smentiscono la ricostruzione. E nel giallo dell’invito si arricchisce di sospetti il quesito degli avversari politici: a che titolo il figlio del “fondatore” M5S ha parlato a New York? Secondo Marco Canestrari, ex dipendente della Casaleggio Associati e autore, insieme a Nicola Biondo di Supernova ( Ponte alle Grazie, 2018) e Il sistema Casaleggio ( Ponte alle Grazie, 2019), le anomalie di questo intervento sono più d’una. A partire dai ruoli ricoperti dall’imprenditore 5S. «Davide Casaleggio indossa due casacche: la prima come presidente dell’Associazione Rousseau, ente commerciale che gestisce l’omonima piattaforma e unità organizzativa del Movimento 5 Stelle, la seconda come presidente della Casaleggio Associati, azienda di famiglia che si occupa di ricerche nello stesso ambito degli argomenti che andrà a trattare a New York», spiega Canestrari. «Per questo è incredibile che il governo italiano, di cui il suo partito è primo azionista, gli organizzi uno speech su temi verso i quali sia la sua associazione che la sua società potrebbero avere interessi economici», dice l’ex dipendente della società milanese, che ci tiene a sottolineare la natura commerciale dell’associazione che gestisce la piattaforma Rousseau. «È un ente commerciale perché lo è a livello fiscale, cioè paga l’Iva per un servizio che rende ai parlamentari». Di conseguenza, «è evidente che Casaleggio ha tutto l’interesse a promuovere i suoi servizi e un palcoscenico come le Nazioni unite è un’opportunità che i suoi concorrenti non possono avere perché non hanno un partito», è il ragionamento del programmatore/ scrittore. Eppure, il capo di Rousseau non è andato a New York per vendere un prodotto, è stato invitato all’Onu per parlare di cittadinanza digitale, argomento sul quale ha pieno titolo per intervenire. La democrazia diretta su una piattaforma on line sperimentata in Italia ha fatto scuola anche all’estero, e in molti guardano a Rousseau come a un esempio intressante da approfondire. Anche su questo, però, Canestrari ha qualcosa da ridire. «Casaleggio non è un esperto di partecipazione dal basso, non è un tecnico, è laureato in Economia alla Bocconi», insiste, «e il suo esperimento è stato per certi versi disastroso: la piattaforma Rousseau è stata multata due volte dal garante della privacy per carenze tecniche e manageriali sulla gestione dei dati». Approcciarsi al figlio di Gianroberto come a un intellettuale della cittadinanza digitale, secondo lo scrittore, è dunque un errore. Casaleggio andrebbe considerato prevalentemente un imprenditore.

La società di famiglia «si occupa di consulenze nell’ambito della comunicazione e della tecnologia», aggiunge. «Il punto però non è ciò che produce, ma chi sono i clienti della Casaleggio e chi sono gli sponsor degli eventi: società pubbliche, banche, riviste. Tutti soggetti con interessi importanti nel nostro paese. Magari sarà un caso, ma nell’ultimo anno, cioè da quando il Movimento 5 Stelle sta al governo, il fatturato della sua azienda è raddoppiato e l’utile quasi decuplicato», ricorda Canestrari, convinto anche della possibilità di conflitti di interesse potenziali. «Se una multinazionale di qualunque paese ha interessi economici in Italia, da chi va a farsi fare una consulenza sulla comunicazione? Dal più bravo o dall’imprenditore che gli può presentare il ministro?», si chiede. I grillini, dal canto loro, dicono di guardare «al futuro» e lavorare a «difesa dei più deboli che ancora non possono accedere ai diritti fondamentali», come accesso libero alla rete, identità digitale ed educazione alla cittadinanza digitale. «Ma c’è ancora chi in Italia continua, imperterrito, a creare ad arte polemiche sterili e strumentali, utili solo a fare un po’ di rumore». Ma il boato, ormai, si è sentito.

Francesco Merlo per “la Repubblica” il 30 settembre 2019. Sceglie ministri e sottosegretari, incassa 300 euro da ogni 5stelle eletto, punisce l'infedeltà, dà la linea al Movimento e a metà governo. Contro la democrazia parlamentare pretende "pieni poteri" alla piattaforma web "Rousseau": la sua. Fenomeno di eversione del baraccone Italia, Casaleggio-figlio è un Salvini nascosto: fascisteria aum aum. Il minimo che si possa fare è esporlo all' Onu come prototipo di ducetto digitale.

La battaglia del M5S contro il contante: è bufera sulla Casaleggio Associati. Il Secolo d'Italia sabato 28 settembre 2019. La crociata contro il contante ingaggiata dal M5S avrebbe una motivazione precisa. Altro che lotta all’evazione. La Casaleggio Associati,  fondazione che fa riferimento a Davide Casaleggio e che gestisce il M5s, avrebbe ricevuto finanziamenti da due colossi del pagamento digitale: Nexi e Poste Italiane. La storia viene ricostruita dal Giornale e risale all’ aprile 2018, quando Casaleggio presenziò alla presentazione del tredicesimo studio sull’e-commerce a Milano. L’evento era finanziato dall’azienda di pay tech Nexi, azienda di pay tech che offre infrastrutture di pagamento digitale, pos e  carte di credito.  Se ne occupò anche il Fatto Quotidiano in un’inchiesta che collegò l’evento con i liberi contributi che la Casaleggio Associati avrebbe incassato. La donazione in quell’occasione fu di 7.500 euro (la quota stabilita era intorno ai 10 mila), con tanto di logo di Nexi sul rapporto presentato da Casaleggio. Secondo il quotidiano milanese figurerebbe  anche Poste Italiane  come finanziatrice di  altri eventi organizzati dalla Casaleggio Associti sulla blockchain (una struttura dati crittografata, atta a rendere più sicure e trasparenti le transazioni). Lo confermò anche lo stesso Casaleggio in alcune interviste. Anzi, Nicola Biondo e Marco Canestrari, rispettivamente ex capo della comunicazione del M5s ed ex dipendente della Casaleggio Associati, nel loro libro Il Sistema Casaleggio avrebbero definito Poste Italiane uno “sponsor affezionato“. Nel 2018, alcuni quotidiani tra cui La Stampa avanzarono l’ombra del conflitto d’interesse. In ballo c’erano i finanziamenti del ministero dello Sviluppo Economico (allora a guida Di Maio). 45 milioni di euro in tre anni per  interventi e applicazione di intelligenza artificiale e blockchain. Casaleggio aveva negato con forza l’utilizzo di quei 45 milioni. Ora la polemica riaffiora.

M5s, la battaglia contro il contante? "Casaleggio finanziata dai colossi del pagamento digitale". Libero Quotidiano il 28 Settembre 2019. Sospetti sulla Casaleggio Associati, la fondazione che fa riferimento a Davide Casaleggio e che gestisce il M5s. Secondo quanto riportato Il Giornale, dietro al sostegno dei grillini ai pagamenti tramite carte di credito anziché denaro contante (con tanto di commissione del 2% per chi si ostina a prelevare al bancomat) potrebbero giocare un ruolo i finanziamenti che avrebbe ricevuto la società di Casaleggio da due colossi del pagamento digitale: Nexi e Poste Italiane. Secondo il quotidiano milanese, uno dei casi in questione risale ad aprile 2018, quando Casaleggio presenziò alla presentazione del tredicesimo studio sull'e-commerce a Milano, un evento finanziato dall'azienda di pay tech Nexi, la quale si occupa di offrire infrastrutture di pagamento digitale (i giornalisti del Fatto Quotidiano Carlo Tecce e Stefano Feltri collegarono l'evento con i liberi contributi che la Casaleggio Associati avrebbe incassato). La donazione in quell'occasione fu di 7.500 euro (la quota stabilita era intorno ai 10 mila), con tanto di logo di Nexi sul rapporto presentato da Casaleggio, anche se nessuno dei rappresentanti dell'azienda intervenne sul palco durante l'evento. A dare man forte a Casaleggio nella sponsorizzazione dei pagamenti in digitale ci sarebbe anche Poste Italiane, le quali hanno finanziato altri eventi organizzati dal socio fondatore del M5s sulla blockchain (una struttura dati crittografata atta a rendere più sicure e trasparenti le transazioni), come confermato anche dallo stesso Casaleggio in alcune interviste. Anzi, Nicola Biondo e Marco Canestrari, rispettivamente ex capo della comunicazione del M5s ed ex dipendente della Casaleggio Associati, nel loro libro Il Sistema Casaleggio, avrebbero definito Poste Italiane uno "sponsor affezionato". Nel 2018, alcuni quotidiani come La Stampa avanzarono perplessità sulla cosa, tanto da paventare un'ipotesi di conflitto d'interesse, con in ballo 45 milioni di finanziamenti del ministero dello Sviluppo Economico e del Lavoro (all'epoca guidato da Luigi Di Maio) in tre anni per interventi e applicazione di intelligenza artificiale e blockchain. Casaleggio aveva negato con forza l'utilizzo di quei 45 milioni, nel frattempo, però, si resta vigili in attesa di ulteriori sviluppi della vicenda.

QUEI FINANZIAMENTI ALLA CASALEGGIO CHE SPINGONO LA LOTTA AL CONTANTE DEI 5 STELLE. Carmelo Caruso per ''il Giornale'' il 28 settembre 2019. Maledetto contante! Criptovalute e dunque bitcoin. Ma poi è arrivata Libra, moneta di Facebook, che Davide Casaleggio ha subito salutato come una bellissima notizia, anzi, per dirla con sue parole, «una buona mossa». Nel mondo, secondo il «governatore» del M5s, bisogna avere immaginazione perché, come ha scritto in un articolo sul Corriere della Sera, «se immaginiamo che entro trent' anni il contante sarà sostituito dalla blockchain, le uniche vie percorribili sono Libra o una delle valute convertire in criptovalute». Coincidenza, convergenza? Il fatto sicuro è che il nuovo governo ha tra le sue missioni quella di tassare, limitare il contante, impedirne al minimo il suo utilizzo. A sostituirlo, per il momento, non ancora cripto-euro, ma le carte di credito e per scoraggiare chi si ostina a prelevarlo in qualche sportello ecco l' idea di una commissione del due per cento. Del resto, e lo scrive sempre Casaleggio, non c' è dubbio: «Non useremo più contanti per pagare il caffè». Ma che male gli hanno fatto le banconote? Non lo hanno sponsorizzato come hanno fatto le multinazionali del credito e le Poste italiane. Era l' aprile dell' anno scorso quando, in un articolo degli scrupolosi Stefano Feltri e Carlo Tecce del Fatto Quotidiano, si dava conto dei liberi contributi che la Casaleggio Associati aveva incassato. L' occasione era la presentazione, a Milano, del tredicesimo studio sull' e-commerce, materia che poi sarebbe (ripete Casaleggio) il suo solo business e a causa della sua passione politica (sia chiaro da «libero attivista del M5s») pure in perdita. A correre all' evento, e finanziarlo, c' era, tra gli altri, Nexi, azienda di pay tech che offre infrastrutture di pagamento digitale. Per capire: pos, carte di credito... Quella volta la donazione fu di 7.500 euro (la quota stabilità era di 10 mila) perché Nexi si accontentò di avere il logo sul rapporto che Casaleggio presentava, ma non se la sentì di intervenire sul palco con uno dei suoi oratori. E a guardare con attenzione gli studi della società di Casaleggio, c' è su tutti Poste Italiane. Nel loro libro Il sistema Casaleggio l' ex capo della comunicazione del M5s, Nicola Biondo, e l' ex dipendente della Casaleggio Associati, Marco Canestrari, definiscono Poste uno «sponsor affezionato». Sempre al Fatto, e per un altro degli eventi organizzati da Casaleggio sulla blockchain, fonti dell' azienda riferirono che da «tre anni finanziamo questi studi». Nelle poche interviste rilasciate, Casaleggio del resto non ha smentito ma ha confermato di aver ricevuto delle sponsorizzazioni da parte delle Poste, ma garantito, «in passato». Per questa ragione, nel 2018, quotidiani come La Stampa avanzarono perplessità e l' ombra del conflitto d' interesse. In ballo c' erano (ci sono) i finanziamenti del ministero dello Sviluppo Economico (allora a guida Di Maio). 45 milioni di euro in tre anni per interventi e applicazioni di intelligenza artificiale e blockchain. «Posso dire che noi non utilizzeremo quei 45 milioni di euro» ha replicato Casaleggio che intanto si accontenta del denaro mensile che i parlamentari M5s sono costretti a versare alla piattaforma Rousseau di cui è presidente. Quella sì moneta vera. Altro che virtuale.

Emanuele Buzzi per il ''Corriere della Sera'' il 28 settembre 2019.

Davide Casaleggio, è vero che interverrà a un incontro a margine dell' Assemblea Onu?

« Interverrò nel corso di un evento dal titolo "Digital Citizenship: Crucial Steps Towards a Universal and Sustainable Society" nel corso del quale parleranno rappresentanti istituzionali di vari Stati oltre che, come nel mio caso, professionisti e rappresentanti della società civile provenienti da ogni parte del mondo che si occupano di nuove tecnologie e innovazione».

Perché un incontro al Palazzo di vetro?

«L' Associazione Rousseau è da sempre in prima linea per difendere i diritti che possono essere esercitati attraverso Internet e per questo motivo ha sostenuto questa iniziativa presso l' Onu propedeutica alla presentazione di una risoluzione a difesa dei diritti di cittadinanza digitale».

Che tipo di risoluzione intendete promuovere?

«La rivoluzione del web, del digitale e delle tecnologie dell' informazione ha fatto emergere l' esigenza di riconoscere ai cittadini di tutto il mondo il diritto a esercitare diritti loro già riconosciuti - come quello alla partecipazione anche diretta alla vita politica del Paese - attraverso strumenti nuovi, più efficienti e più democratici e, al tempo stesso, l' esigenza di individuare nuovi diritti caratteristici della nuova dimensione di vita dell' uomo».

Ossia?

«La risoluzione intende promuovere un percorso di riconoscimento nella comunità internazionale di questi diritti. Il riferimento è, solo per fare alcuni esempi, al diritto all' accesso a Internet come pre-requisito di ogni altro diritto o al diritto all' uso di piattaforme online di democrazia partecipativa, come irrinunciabile requisito per l' effettività del diritto alla partecipazione degli uomini al governo del Paese già riconosciuto dall' articolo 21 della dichiarazione dei diritti dell' uomo. Ma anche ai diritti all' educazione digitale e all' identità digitale».

È un' iniziativa personale?

«Parlerò in qualità di presidente dell' Associazione Rousseau. In Italia non siamo mai troppo bravi a promuovere le iniziative di "casa nostra" ma all' estero il progetto Rousseau è diventato un case study in diversi Paesi e ci guardano con grande interesse, dovremmo esserne orgogliosi».

Il governo italiano ha un ruolo in questa iniziativa?

«L' evento è stato organizzato e promosso dal governo italiano, attraverso la Rappresentanza Permanente italiana alle Nazioni Unite. Finalmente l' Italia guarda al futuro. Naturalmente non viaggerò con la delegazione del governo e le mie spese le gestirò in autonomia. Per altro sono già negli Stati Uniti da ieri per lavoro».

Non le sembra da presidente di Rousseau e al tempo stesso da fondatore del Movimento che il suo intervento possa creare perplessità su possibili interferenze con il governo?

«A questo evento si parla dei diritti di tutti. In particolare della difesa dei più deboli che ancora non possono accedere a diritti fondamentali. Credo che ogni tanto dovremmo uscire dalla dialettica politica locale e aprire i nostri orizzonti. Questa è un' occasione per farlo. Nel corso dell' evento, oltre a me, interverranno molti altri esponenti della società civile, esperti della tematica, che porteranno il proprio contributo alla discussione».

Perché è importante a suo avviso agire ora su queste tematiche?

«Forse per la prima volta nella storia dell' umanità, le nuove tecnologie consentono di garantire l' effettività di diritti fondamentali dell' uomo sin qui, troppo spesso, rimasti appannaggio di pochi. Credo che abbiamo tutti - governi e società civile - il dovere, anche nei confronti di chi verrà dopo di noi, di fare in modo che questa straordinaria occasione non vada sprecata, che le nuove tecnologie siano occasione e strumento di massimizzazione del benessere collettivo. Se non orientiamo lo sviluppo tecnologico al bene comune attraverso il riconoscimento di nuovi diritti, corriamo il rischio di rimanerne travolti».

Parlando di governo, lei si era espresso per il voto. Ha cambiato idea? Che prospettive ha questo esecutivo?

«Come ho detto in passato l' auspicio è che la forza politica con la quale il Movimento collabora attualmente si dimostri più affidabile della precedente. Al Movimento interessa avere la possibilità di lavorare per attuare il programma che è stato presentato e risolvere i problemi dei cittadini».

Ha fatto parte di un tavolo decisionale durante la crisi: il canale rimarrà aperto?

«Nel Movimento collaboriamo tutti costantemente».

Che ha detto a Di Maio? Serve un altro leader?

«Luigi è il capo politico del Movimento ed è stato confermato pochi mesi fa dalla stragrande maggioranza dei nostri iscritti con un voto online su Rousseau, così come è stata approvata la sua proposta di costituire un team del futuro. Stiamo ultimando i dettagli per far partire il processo con cui tutti potranno proporre il proprio progetto e candidarsi per far parte di questo team».

Si parla di scissioni, i senatori hanno chiesto cambiamenti. Non teme altri addii o addirittura una implosione del Movimento?

«Mi piacerebbe che qualcuno contasse gli articoli scritti sulla base di voci di discussioni e scissioni interne al Movimento dal 2013 ad oggi. Credo che avrebbe un bel da fare».

LE STELLE DI DAVIDE. Massimiliano Panarari per “la Stampa” il 2 settembre 2019. L' ex campione di scacchi sta adesso sotto scacco. E, in queste giornate, si sta giocando la partita della vita, con l' obiettivo di non farsi dare lo scacco matto di un governo giallorosso con Giuseppe Conte nettamente al timone e Luigi Di Maio pesantemente ridimensionato. Già, perché gli avversari dall' altra parte della scacchiera di Davide Casaleggio sono il presidente del Consiglio incaricato e Beppe Grillo (con Roberto Fico). Infatti, le idee sul futuro del partito-movimento, che doveva «aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno» e ora, invece, si situa al centro di una manovra tutta parlamentare di cambio della maggioranza, si sono divaricate. E potrebbero non essere mai più delle convergenze parallele. Classe 1976, Davide Federico Dante Casaleggio, alla tenera età di 12 anni era un enfant prodige, che si piazzava tra i primi 5 scacchisti under 16 d' Italia. Crescendo, il Jr. si è laureato in economia aziendale all' Università Bocconi con una tesi sull' impatto del web sul settore dei corrieri espresso - una premonizione della sua attività futura - e si è preso poi un master a Londra. Si è anche via via appassionato agli sport estremi, un passatempo impegnativo che condivide con la moglie Paola Gianotti - e, forse, data l'indole e le predilezioni autentiche anche la politica rientra in quell'ambito. Taciturno, beneducato e dai modi gentili, un po' nerd, con un look sempre manageriale (quando non fa immersioni subacquee e non scala rocce), Davide è innanzitutto un imprenditore, che si è trovato a ereditare dal padre un' azienda e, con essa, un ruolo da azionista di maggioranza del Movimento. Personalità sfingica e impenetrabile, per usare l' ormai famosa formula di Grillo, sarà anche un «Elevato», ma di sicuro non è (mai stato) un eletto. E, nondimeno, influenza moltissimo il destino di una formazione politica nata antisistema e oggi alla vigilia di una possibile istituzionalizzazione, dove le teste si pesano, e non si contano. Insomma, una situazione di trasmissione dinastica del potere tipicamente Ancien régime, in linea con la tendenza del postmoderno a riesumare alcuni aspetti della premodernità. Come mostra anche quella caratteristica della politica postmoderna che il neopatrimonialismo, che va dal partito-azienda di Silvio Berlusconi della metà degli anni '90 del Novecento all' azienda-partito della Casaleggio Associati negli anni '10 del Duemila. L' uno e l' altra sintesi di impresa privata, organizzazione politica leggera, partito-network e forme di comunicazione all' avanguardia nella propria stagione (nel caso del berlusconismo la neotelevisione commerciale, in quello del casaleggismo il web), dove i confini tra la sfera pubblica e gli interessi privati risultano assai fluidi (e a volte poco trasparenti), e le porte parecchio girevoli.

I geni della politica. Il padre aveva la politica (ancorché in versione new age e distopica) nel sangue, il figlio no. Perciò, la sua scomparsa prematura - avvenuta il 12 aprile del 2016 - ha lasciato il gruppo dirigente pentastellato orfano del suo vero stratega, oltre che creatore, aprendo largamente la strada alla lotta tra le correnti interne. E Davide, per taluni versi impolitico, e molto più pragmatico e business-oriented, si è trovato quasi obbligato a immedesimarsi nel ruolo, orientando le sue predilezioni per l' imprenditoria in una chiave sempre più politica e pubblica. Di qui, la promozione di convegni sull' innovazione digitale, l' e-commerce, le criptovalute e la blockchain, con una funzione a metà tra il lobbying e le pr per la propria azienda e le relazioni istituzionali con vari establishment a beneficio dell' universo pentastellato di orientamento più governista. Le kermesse annuali del «Sum» a Ivrea, per celebrare la memoria paterna, fra passerelle di potenti, esercizi di futurologia (cari, appunto, a Gianroberto) e tentativi di appropriazione - indebita - dell' olivettismo. E, ancora, le teorizzazioni sull' esigenza del superamento di ogni figura di mediatore e l' insofferenza verso le categorie e le associazioni di rappresentanza del mondo produttivo, a riconferma di una visione del mondo di destra e protoleghista, che lo ha portato a sponsorizzare fortemente l' alleanza con Matteo Salvini. Non a caso, quella mitologia della disintermediazione che costituisce uno dei fondamenti del discorso pubblico populista, ed è alla base di Rousseau, inusitata sede - a corrente alternata, e a seconda della bisogna - di una parte della legittimità politica e della titolarità decisionale della vita interna all' organizzazione. Il mezzo per attuare la democrazia diretta - che sarebbe meglio chiamare col suo vero nome di ideologia del direttismo democratico -, e per archiviare quella liberale e rappresentativa, spazzando via i «vecchi partiti moribondi», come affermava perentoriamente Casaleggio in un intervento sul Washington Post nel marzo 2018. Ma, soprattutto, e più prosaicamente, la piattaforma di consultazione online e l' omonima Associazione che lo gestisce - per il cui mantenimento ciascun parlamentare grillino è tenuto a versare un obolo mensile (in euro sonanti, e non in bitcoin) - sono il fondamento del potere di Davide Casaleggio sul Movimento. Che adesso si ritrova in minoranza, insieme al suo alleato e "protetto" Luigi Di Maio, ai tavoli dove Grillo è tornato a dare le carte. E lo sta facendo all' insegna di un progetto «Verde Futuro», come ha raccontato su queste pagine Andrea Malaguti, che punta alla nascita del governo grillodem come "nuovo centrosinistra" e contaminazione tra un M5S di sinistra e il Pd, nella prospettiva di un (postmoderno) polo progressista. Un vasto programma, viene da dire, ma la fluidità del sistema politico italiano in transizione permanente non ne esclude affatto la possibilità. Esattamente agli antipodi, quindi, della scommessa che Casaleggio jr. aveva fatto sul governo sovranista gialloverde. E, così, oggi, Davide ha in mano una puntata perdente. Ma fino a che ci sarà Rousseau - e la relativa dottrina del maoismo digitale - non si potrà dire che abbia perso del tutto anche la partita.

 “IL SISTEMA CASALEGGIO”. Paolo Bracalini per “il Giornale” il 29 marzo 2019. Forse è eccessivo dire che Davide Casaleggio sia in questo momento l' uomo più potente d' Italia, ma «è certamente il titolare della lobby più influente, potendo contare su Luigi Di Maio che si comporta come se fosse il suo procuratore personale». Sfuggente, ombroso, riservato, Davide Casaleggio sembra il contrario di un uomo di potere, ma di fatto si ritrova per caso e per via dinastica al vertice del M5s pur senza alcuna carica formale né elettiva. Di Maio? «È il suo avatar», la controfigura che ne esegue le direttive, così lo descrivono Nicola Biondo e Marco Canestrari, giornalista il primo e sviluppatore informatico il secondo, entrambi due ex della galassia Cinque Stelle, nel loro nuovo libro-inchiesta sui misteri del M5s, Il sistema Casaleggio. Esautorato ormai Beppe Grillo, le decisioni chiave del Movimento partono, quasi sempre nell' ombra, dal silente Casaleggio. Come quella da cui è nato il governo M5s-Lega, nell' aprile 2018. «Era già tutto pronto: il governo che avrebbe istituzionalizzato il Movimento. La regia saldamente nelle mani di Mattarella, il dispositivo di protezione internazionale affidato all'ambasciata americana, un nome di peso fuori dai giochi come presidente del Consiglio, alcuni ministri di garanzia». E una maggioranza parlamentare insieme al Pd. Ma è a quel punto, ricostruiscono i due autori attraverso «una fonte di altissimo livello», che arriva lo stop di Casaleggio jr. Con queste parole rivolte a Di Maio: «Ti ricordi cosa disse mio padre tanto tempo fa? Se andate con il Pd, io lascio il Movimento. Ti sembra possibile, Luigi, accettare questa proposta o altre simili?». È sempre lui che decide per un governo con la Lega (una vecchia idea del padre Gianroberto) ed è ancora lui, in una telefonata con Pietro Dettori che dà il via all' assalto grillino al Quirinale dopo il no di Mattarella a Savona ministro del Tesoro. «Devi chiedere l'impeachment. Ho parlato con Davide» dice Dettori a Di Maio. Gli interessi della Casaleggio Associati e quelli del governo si sovrappongono con frequenza e tempismo sospetti. La ditta si concentra su blockchain, venture capital e intelligenza artificiale? Per coincidenza, anche il ministro Di Maio sviluppa proprio quei tre settori. Notano Biondo e Canestrari: «Questa commistione di affari e politica è stata evidente fin dalle prime mosse di Di Maio, quando in diretta televisiva fece un inaudito spot alla banca Widiba. Poche settimane dopo, Casaleggio avrebbe incontrato a Milano l'amministratore delegato della banca, Andrea Cardamone». Del resto Casaleggio offre apertamente i propri sponsor e clienti, come benefit, «il network e i contatti che l'azienda può fornire». Nel governo innanzitutto. Ma anche al Comune di Roma se serve. Il libro ricostruisce la rete internazionale di Casaleggio, anche questa occultata il più possibile. «Un'ultima cortesia, Mr Bannon. Gradirei che questo nostro incontro rimanesse riservato». Questa la traduzione testuale, rivelata dai due autori, delle parole di Casaleggio a Steve Bannon, guru dell'ultradestra Usa, dopo un incontro a Roma nel 2018. Tenuti nascosti anche gli incontri con Vincenzo Scotti, vecchia volpe della Prima Repubblica e presidente della Link University, da cui arriva il ministro della Difesa Elisabetta Trenta. Anche sulla via della Seta, l' abbraccio del M5s con Pechino, c' è l' impronta di Casaleggio: «La Cina è una di quelle tappe d' affari che Casaleggio senior ha coltivato nel tempo». Qui il contatto è l' ambasciatore cinese Ding Wei. Un ruolo centrale ma al contempo invisibile quello di Casaleggio. Inquietante: «Siamo di fronte a una nuova forma di potere, formalmente legittima, che sfugge a qualsiasi controllo democratico e che ha finalità estranee all' interesse pubblico. Lo Stato, attraverso il M5s, è diventato un asset».

Davide Casaleggio, ecco quanto incassa ogni mese il monarca M5s, scrive Azzurra Noemi Barbuto il 22 Gennaio 2019 su "Libero Quotidiano". Chiamare "riservatezza" il silenzio ieratico in cui vive abbottonato Davide Federico Dante Casaleggio, 43 anni, erede per vincolo di sangue - come si addice ai casati reali - di Gianroberto Casaleggio, cervello politico dei grillini che per conto loro non ne hanno, sarebbe una sorta di eufemismo. C' è chi non parla per mancanza di contenuti poiché, qualora interloquisse, dissiperebbe ogni dubbio circa la sua stupidità; e c' è chi tace per convenienza, dato che alcune cose è sempre meglio non farle sapere. Ma Davide, fondatore insieme a suo padre e presidente nonché tesoriere dell'Associazione Rousseau a cui fanno capo e riferimento il M5S ed i suoi eletti, i quali per statuto hanno l'obbligo di versare 300 euro mensili all' associazione stessa per un totale di svariati milioni di euro a legislatura, resta muto in quanto, a suo dire, non si fida dei giornali. Quei mostri che garantiscono il pluralismo delle voci, il diritto dei cittadini ad essere informati, la libertà di espressione e robaccia simile. Del resto, non è cosa nuova che il movimento da lui controllato a pieno titolo mediante l'Associazione Rousseau mal digerisca la carta stampata e quei quotidiani che minaccia e di cui si augura il decesso Luigi Di Maio, portavoce dei cinquestelle che paragonato a Davide è un microbo anaerobico di cui, sempre per statuto, Casaleggio junior può liberarsi in un battito di ciglia. Persino Beppe Grillo è una nullità in confronto a colui che non parla e non si mostra: Davide Casaleggio. Quest' ultimo ha anche il potere di rimuovere - sempre per statuto - il garante dei cinquestelle, ossia il comico genovese. Casaleggio può liberarsi di tutti ma nessuno può liberarsi di lui ed i grillini, papino incluso, non sono altro che sudditi riuniti intorno alla figura del loro monarca assoluto, l'inafferrabile Davide I.

NIENTE DOMANDE. Il presidente dell'Associazione Rousseau esalta la democrazia, eppure non gli fa specie rifiutare il contraddittorio. La democrazia diretta va bene, le domande dirette invece un po' meno. I più autorevoli quotidiani di mezzo mondo cercano invano di intervistarlo. Lui si nega. Sempre rifilando la solita scusa: mancanza di fiducia. È stato rincorso dal Financial Times, che si stava occupando del conflitto d' interessi da Davide incarnato nonché del suo ruolo senza precedenti storici rispetto al partito M5S, e dal New York Times, che lo ha definito «l'uomo più potente in Italia», almeno in potenza, sottolineando che «pochi sanno chi sia». E quei pochi non si sa neanche chi diavolo siano. Con il Washington Post Davide I è stato più generoso, occorre riconoscerlo. Non si è sottoposto ad un terzo grado ma ha scritto di suo pugno - abituato com' è da accentratore a formulare lui gli interrogativi da rivolgere a se stesso - un intervento che ha elargito al quotidiano americano, spiegando ciò che ha determinato il successo clamoroso del suo movimento. Davide ha discusso della piattaforma Rousseau e della democrazia diretta, che sovvertirà quella tradizionale grazie all' esistenza della Rete, la quale creando mobilità dal basso consente ai cittadini di votare senza muovere il culo dalla poltrona nonché di auto-gestirsi. Web che ormai ha reso superflui, dispendiosi e desueti i partiti, a giudizio del monarca illuminato Davide. Eppure, sebbene i grillini ci tengano a specificare che si tratta di un mo-vi-men-to, il loro altro non è che un partito politico, il cui fondatore ed ideatore quattro giorni prima di morire, ossia l'8 aprile del 2016, mediante atto notarile ha passato lo scettro del potere al figlio, divenuto dominus indiscusso ed indiscutibile.

CONFLITTO DI INTERESSI. Queste sono solo alcune delle inquietanti contraddizioni di cui è permeato il M5S, alla luce delle quali Di Maio, Di Battista, Fico, Lezzi, Grillo & Co., suscitano persino un sentimento di tenerezza, vicino alla pena. Luigino, ad esempio, sembra uno di qui ragazzetti devoti a chi ha trovato loro il lavoretto. Magari ci crede sì, nel movimento, ma chissà se si interroga mai sul conflitto di interessi concentrato nella persona di Casaleggio junior, presidente della Casaleggio Associati, società informatica ed editoriale di famiglia, e dell'associazione privata Rousseau, a cui lo stesso Di Maio, come tutti i deputati e senatori grillini, invia una sorta di tassa di 300 euro al mese detratta dal suo stipendio! E chi si oppone è fuori senza ma e senza se. Il movimento, ossia chi ne è a capo, espelle i sovversivi senza pensarci su due volte, ma sempre per statuto, quindi per legge. I cinquestelle ci hanno riempito le orecchie con la storia dei mai specificati "poteri forti", ignorando o facendo finta di ignorare che il potere forte è Davide Casaleggio. Nei cui confronti persino i media italiani hanno un rispetto quasi reverenziale. Stanno attenti, allorché ne hanno la possibilità per generosa concessione del medesimo, di porre a Davide le domande che più gradisce facendo in modo di evitare quelle che non gradisce, cercando sempre di metterlo a suo agio e di non urtarne la sensibilità: potrebbe non rispondere mai più e perdere ancora più fiducia nei media, lui che ha fiducia solo nella perfezione della Rete e di quella piattaforma Rousseau a cui egli ha accesso esclusivo. Dobbiamo a Davide un atto di estrema magnanimità: nel 2017 ha accettato di essere intervistato in TV esordendo da Lilli Gruber su La7 all' interno del programma "Otto e mezzo". Non era neanche solo, c' erano addirittura due ospiti: il sociologo Domenico De Masi, che stava svolgendo in quel periodo una ricerca per conto - guarda caso, come è piccolo il mondo - del M5S e il giornalista Gianluigi Nuzzi, caro amico di Davide nonché presentatore nel corso dell'evento che si celebrava in quei giorni ad Ivrea in onore del defunto Gianroberto Casaleggio, nonché marito della fondatrice della società che cura l'ufficio stampa della Casaleggio Associati. Se non fosse stato per la Gruber, che in quel contesto rappresentava una sorta di quarto incomodo, si sarebbe potuto trattare di un aperitivo al bar tra vecchi amici, mancava solo da bere. Insomma, pur di accontentare Davide e riuscire a farsi rilasciare qualche dichiarazione, sebbene blanda, si è disposti a tutto, peccato però che egli non perda mai prudenza e riserbo. Ripete sempre le stesse solfe. E dribbla i quesiti scomodi meglio di come fa Ronaldo con la palla. Un vero campione, non c' è che dire.

LE SELEZIONI. Non ci risulta che Davide sia un cretinetto. Ha una laurea in economia aziendale conseguita alla Bocconi di Milano, parla tre lingue, da piccolo era considerato uno dei massimi talenti italiani nel gioco degli scacchi (e l'abilità nel muovere le pedine gli è rimasta, eccome!) e non sembra mica uno caduto dal pero l'altro ieri, inevitabile domandarsi com' è che un uomo così abbia messo il partito nelle mani - almeno all' apparenza - di personaggi del calibro di Luigi Di Maio, che ha difficoltà persino ad azzeccare i congiuntivi. È Davide, che non lascia nulla al caso, a certificare le liste dei cinquestelle, a verificare i requisiti degli aspiranti candidati e a selezionarli. Decide lui chi è dentro e chi è fuori. Certo è che da tipi come i grillini non ti aspetti di essere contestato quando sei Davide, figlio di Gianroberto: dimostrano una dedizione quasi religiosa verso il primogenito di Casaleggio. Dopotutto, se non fosse stato per lui sarebbero ancora disoccupati in attesa dei circa 390 euro del reddito di cittadinanza o a vendere patatine allo stadio. Per uno così si può pure rinunciare ad una parte dei propri introiti. E che Dio lo abbia in gloria! Azzurra Noemi Barbuto

Big bang 5 Stelle, così esplode il Movimento. L’imbarazzo sul processo a Matteo Salvini, il declino di Luigi Di Maio, le ambizioni di Alessandro Di Battista e Giuseppe Conte, gli affari di Davide Casaleggio. Inchiesta su un partito in crisi di nervi, scrive Emiliano Fittipaldi l'1 febbraio 2019 su "L'Espresso". L’uomo della Casaleggio seduto al bancone del bar non ha né la grisaglia né l’aplomb di Giuseppe Conte. Così, mentre il premier ha ammesso ad Angela Merkel - in un colloquio rubato dalle telecamere di Piazzapulita - che i capi del M5S «sono preoccupati per i sondaggi negativi», il dirigente è più esplicito: «Se la stanno facendo sotto. Il problema è che, per inseguire la propaganda di Matteo Salvini, stiamo letteralmente scoppiando. La “Bestia” di Luca Morisi, lo stratega della sua comunicazione, corre molto più veloce di noi». Il grillino di stanza a Palazzo Chigi posa la tazzina del caffè. E indica con la penna dei fogli con alcuni sondaggi riservati fatti da Movimento. Sintetizzano con numeretti quello che è sotto gli occhi di tutti: piaccia o non piaccia il contenuto del messaggio, il leader sovranista arriva prima e meglio su tutto, azzecca ogni dichiarazione, ogni post sui social. Un dato, tra quelli evidenziati, è sorprendente: segnala che il 60 per cento di coloro che hanno votato Di Maio e compagni non esclude, in futuro, di passare alla Lega. Un’enormità. Più i sondaggi vanno giù, più cresce l’ansia da prestazione. E, conseguentemente, il tasso di confusione nelle mosse e nelle tattiche. Anche nella comunicazione, dove i grillini erano maestri, non c’è più una linea chiara e vincente. Le giravolte sul sì o il no alla richiesta di autorizzazione a procedere contro Salvini - nella vicenda della nave Diciotti - sono solo l’ultimo esempio. «Alle Europee rischiamo grosso. Perché se vanno male, ci sarà in ballo qualcosa di più della leadership di Gigi. Ci giochiamo il futuro di tutto il Movimento Cinque Stelle».

Stelle cadenti. Che cosa sta succedendo dentro la prima forza politica italiana? Com’è possibile che ci sia tanta apprensione all’interno del partito che solo il 4 marzo scorso è riuscito a trionfare alle elezioni, guadagnando 10 milioni di voti e il 32,6 per cento di consensi? Alla Casaleggio Associati e negli uffici romani di Di Maio le rilevazioni dei trend elettorali e l’andamento del “sentiment” degli italiani su questioni di ogni tipo sono studiati senza sosta. E i risultati che arrivano sulle scrivanie non sono tranquillizzanti: per le Europee qualche sondaggio li dà addirittura sotto il 24 per cento, mentre quasi tutte le ricerche evidenziano che il M5S potrebbe finire a dieci punti di distanza dalla Lega, che meno di un anno fa aveva circa la metà dei voti dei grillini. Altre stime recenti sono ancora meno incoraggianti: alle prossime elezioni regionali in Abruzzo la candidata pentastellata, Sara Marcozzi, potrebbe giocarsela (quasi) alla pari con quello del centrodestra, ma in Sardegna un recente sondaggio della Swg vede il grillino Francesco Desogus arrancare parecchio e il partito precipitare a un misero 23,5 per cento. Venti punti in meno rispetto al risultato trionfale ottenuto sull’isola alle Politiche. Oltre ai sondaggi nefasti, però, quello che gli alti papaveri temono di più è lo stato comatoso in cui si trova, da mesi, la ex formidabile macchina da guerra che ha fatto la fortuna della creatura di Grillo. Uno stallo dovuto a tanti fattori. Come l’incapacità di alcuni ministri a svolgere efficacemente il proprio compito (vedi il caso del ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli); gli scontri interni (i rapporti tra Di Maio e Fico sono ai minimi termini); gli errori a catena (l’«abbiamo abolito la povertà» urlato dal balcone dal capo politico resta leggendario); i “tradimenti” su dossier sensibili come quelli sulla Tap, l’Ilva di Taranto o quello sui migranti, che ha allontanato molti elettori di sinistra nauseati dall’appeasement di fronte alla xenofobia leghista. Ma la macchina è andata in panne soprattutto a causa della crisi della war room che impostava il marketing politico grillino. È questo a non avere la presa di una volta. Gli attacchi contro la “Casta”, contro i vitalizi dei politici e i giornalisti coinvolgono meno internauti e hater del solito, e sono assai meno efficaci della battaglia securitaria dei leghisti. Sparare a zero sui nemici storici del Pd (Matteo Renzi e Maria Elena Boschi in primis) non regala più l’engagement di un tempo. E se il video di Di Maio sull’ “Air Force Renzi” aveva fatto milioni di visualizzazioni, oggi quelli in cui si attaccano i nemici della Ue, i francesi e le “lobby di Bruxelles” attraggono - confrontando i dati di Facebook e Instagram - un numero ridotto di utenti. I fasti dei “restitution day” o i battage online sulle rendicontazioni dei parlamentari (a proposito, che fine hanno fatto?) sono archeologia. E persino occasioni ghiotte, come l’happening per l’approvazione della legge sul reddito di cittadinanza, vengono buttate via con sciatteria: il contemporaneo annuncio di Di Maio, che nominava Lino Banfi commissario all’Unesco, ha oscurato la festa per un risultato politico effettivamente storico.

Di Maio in peggio. Sono più concause, che, come granelli di polvere, hanno inceppato la macchina del consenso. La strategia unitaria era affidata fino a pochi mesi fa alla regia militare della Casaleggio e ai diktat di Rocco Casalino. Arrivato al governo, nel M5S tutto è invece diventato pulviscolare; e la catena di comando più sfocata. La propaganda, che ha bisogno di direttive centrali e non polifoniche, è diventata più discontinua, improvvisata, poco incisiva.

Rocco Casalino. Casalino, promosso portavoce di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi, non ha più tempo per occuparsi delle strategie del partito come una volta. Era lui il regista di ogni apparizione televisiva e creatore con la Casaleggio di tutte le leve grilline da mandare nei talk, da Carla Ruocco a Vito Crimi, da Nicola Morra a Barbara Lezzi: oggi nessuno è riuscito a sostituirlo nel ruolo. Non Ilaria Loquenzi, sua storica collaboratrice, né l’amico avvocato Fabio Urgese, capo della comunicazione dei grillini alla Camera, che non ha il talento né i contatti mediatici di Rocco.

Gianluigi Paragone è la nuova "stella" su cui punta il M5S. L'ex direttore della Padania e conduttore Rai in quota Lega, ora senatore dei pentastellati, è in assoluto il grillino che riceve più visibilità sui social del partito dopo Luigi Di Maio. Molto più del premier Giuseppe Conte e dei ministri. È lui il futuro Di Battista? Nella legislatura corrente non si è ancora investito (tranne nel caso di Gianluigi Paragone) sulla costruzione di volti nuovi, in modo da formare una schiera di nuovi personaggi da lanciare sul proscenio. «Un’emergenza», ripetono angosciati nel Movimento. Perché in caso di elezioni anticipate entro un anno, considerate probabili in caso di vittoria schiacciante della Lega alle Europee, il divieto di ricandidarsi dopo i primi due mandati metterebbe fuori gioco l’intera attuale classe dirigente. Una prospettiva che può essere esiziale per il destino del M5S: ecco perché all’Espresso risulta che Pietro Dettori, fedelissimo di Di Maio e Casaleggio e inventore dell’hub grillino con cui viene diffuso il verbo dei capi sulla rete, abbia fatto nelle scorse settimane alcune analisi sul web per capire che effetto avrebbe sulla base il superamento ufficiale del limite dei due mandati. È andata meglio del previsto: anche se si tratta di una pietra miliare del Movimento, in molti chiedono che Di Maio e i leader più conosciuti si candidino anche in futuro. «Se modifichi la regola rischi certamente una rivolta interna, e sono certo che diranno che ogni ipotesi di cambiare la norma è una fake news. Ma se non superiamo questo feticcio alle prossime elezioni politiche potremmo scomparire», chiosa un altro dirigente grillino piazzato al ministero dello Sviluppo. La cattiva salute del partito è figlia di altri elementi. Il Blog delle Stelle, organo ufficiale del partito, non ha la potenza di fuoco del vecchio blog di Grillo. Che tra l’altro è fuori da qualsiasi decisione operativa: l’ultima che ha preso, scontrandosi con Di Maio, risale all’impallinamento di Riccardo Fraccaro, dato sicuro presidente della Camera e diventato ministro dopo che il garante ha imposto a Montecitorio il suo prediletto, cioè Roberto Fico. Il comico, inoltre, nel nuovo sito aperto qualche mese fa non si occupa né di politica né del M5S: nel blog esiste solo una sezione di propaganda pentastellata, intitolata “Anvedi Roma”, dove viene pubblicizzata ogni mossa della giunta di Virginia Raggi. Una big del movimento ancora amatissima dai militanti duri e puri (la sua pagina Facebook è stata “spinta” dalla Casaleggio oltre i 900 mila follower, nessun sindaco nel mondo può vantarne quanto lei), ma anche lei responsabile, secondo i politologi, della recente emorragia di consensi. I casi giudiziari di Raffaele Marra e Luca Lanzalone, oltre all’effetto delle buche e della monnezza, si riflettono non solo sull’elettorato romano, ma in tutta Italia. Ma quello che pesa più di ogni cosa è, ovviamente, il declino di Di Maio, che sta perdendo la guerra di logoramento con Salvini. «Puntare tutto sulla sua leadership è stato un grave errore di calcolo strategico: ora che Gigi è in difficoltà politica e mediatica, rischia di venire giù tutto», spiega il dirigente al suo terzo caffè. «La responsabilità è anche di Casalino e Casaleggio junior, che hanno avallato la scelta all’origine». Da un lato snaturando la filosofia dell’uno vale uno. Dall’altro non dando una struttura più solida a un organismo politico che è cresciuto a dismisura in pochissimi anni: l’assenza di ceti dirigenti intermedi costringe Di Maio non solo a occuparsi delle questioni primarie del governo e del partito, ma anche a dover dar retta (dice chi ha sbirciato le chat del suo WhatsApp) all’ultimo degli assessori o consiglieri comunali sparsi sul territorio. Il caos.

Alessandro Di Battista. La crisi di Di Maio sta provocando reazioni a catena: ha costretto Alessandro Di Battista a tornare sulla scena nel doppio ruolo di testa d’ariete nei talk show e di stratega della comunicazione (sua l’idea di attaccare i francesi sul franco africano); e sta consentendo al premier Conte di ritagliarsi un suo spazio d’azione autonomo sempre più evidente.

Lobby Casaleggio. Anche Davide Casaleggio è indicato come uno dei principali colpevoli del big bang politico della creatura inventata dal padre. Le critiche sono svariate. Ci i “frustrati”, che gli imputano di aver ascoltato soltanto i consigli dei fedelissimi, Casalino e Dettori su tutti. E gli “abbandonati”, che gli contestano di concentrarsi esclusivamente sull’Associazione Rousseau (la piattaforma informatica del partito di cui il numero uno della Casaleggio Associati è il presidente), invece che sulla crisi del movimento e sul necessario rilancio della comunicazione e di una linea comune. Migliorare ed esportare oltre confine il sistema operativo per la democrazia diretta è in effetti in cima ai pensieri del figlio del fondatore: è su questo progetto che verranno investiti tutti i soldi che parlamentari grillini devono girare ogni mese in direzione Milano (oltre un milione di euro l’anno).

Davide Casaleggio. Davide, però, nelle ultime settimane è tornato attivo anche sul fronte politico. Si sta occupando dello scouting per le candidature alle Europee insieme a Casalino, Dettori e Silvia Virgulti. È lui che avrà l’ultima parola sui candidati da mandare a Bruxelles, che dovranno poi essere votati dagli iscritti su Rousseau. La lista dei prescelti è ancora aperta: la difficoltà maggiore - pare - è quella di trovare donne con un curriculum adeguato. «Quelle più brave che chiamiamo» chiosa un interno «per ora ci hanno detto di no». Ma il biasimo peggiore rivolto a Casaleggio riguarda il suo presunto conflitto di interessi. Leader politico, presidente di Rousseau, capo di una società di consulenza (la Casaleggio Associati srl), Davide è anche guida dell’Associazione Gianroberto Casaleggio, che organizza ogni anno un convegno a Ivrea, il Sum. Il Fatto un mese fa ha intervistato alcuni imprenditori che hanno donato 5.000 euro per l’organizzazione dell’evento, che hanno ammesso come le dazioni di denaro siano state fatte, come ha detto uno di loro, «in totale trasparenza per perorare le mie cause e quelle della mia categoria». «Perorare», traducendo, significa però fare lobby. Parola poco amata nell’universo grillino. Davide, che cura gli affari insieme al suo socio più importante, Luca Eleuteri, sembra fregarsene delle critiche: se è noto che alcune ricerche elaborate dalla Casaleggio sulla Blockchain siano state finanziate (oltre che da colossi come Amazon, Mediaset e Unicredit) anche dalle Poste (per 30 mila euro), e se qualcuno ancora storce la bocca quando ricorda il ristorante romano in cui Davide cenò insieme, tra gli altri, all’avvocato Luca Lanzalone, il facilitatore della giunta Raggi, in pochi sanno che anche potenti manager del settore italiano delle costruzioni hanno chiesto e ottenuto incontri con lui. È certo, per esempio, che Isabella Bruno Tolomei Frigerio, proprietaria di Condotte spa, il terzo colosso italiano per fatturato e giro d’affari che ha fatto crac qualche mese fa, ha voluto incontrare privatamente Davide nel 2017, a pochi mesi dal trionfo elettorale. Un appuntamento che L’Espresso ha scoperto leggendo l’agenda personale consegnata dai tre commissari ai pm della procura di Roma, che indagano sul fallimento dell’azienda. Nel novembre 2016 la Bruno - al tempo in grave difficoltà finanziaria - ha incontrato Arturo Artom, imprenditore vicino a Casaleggio in un evento pubblico; poi lo ha rivisto a cena insieme a un dirigente della Bnl il 2 maggio 2017. Due settimane dopo, il 17 maggio, la signora del calcestruzzo è riuscita a parlare anche con «il dott. Davide Casaleggio» nell’«ufficio di Milano». Di cosa hanno discusso i due è impossibile saperlo: se Casalino, a cui abbiamo chiesto conto dell’incontro, non ci ha risposto, la Bruno attraverso i suoi legali ha tagliato corto, dicendo di non voler fare commenti, e di aver incontrato il leader grillino quell’unica volta. Un mese fa L ’Espresso raccontò di alcuni incontri della Bruno e di suo marito Duccio Astaldi con membri del governo di centrosinistra, in primis quelli con Maria Elena Boschi e Paolo Gentiloni, e di alcuni contratti da centinaia di migliaia di euro fatti da controllate di Condotte in favore del fratello della Boschi, Emanuele, e di Alberto Bianchi, ex presidente della Fondazione renziana Open. Nonostante l’eco della notizia, nessun alto dirigente del M5S ha rilasciato commenti o dichiarazioni.

Quanto conta Conte. Anche la gestione della variabile Conte è una novità che i maggiorenti grillini non hanno ancora capito come maneggiare. L’autoproclamato “avvocato del popolo”, scovato in realtà tra gli adepti della potente lobby di Guido Alpa, ha nel corso degli ultimi tempi cambiato profilo. Era solo il 7 giugno dell’anno scorso quando il premier, nel discorso d’insediamento di fronte alle Camere, chiedeva a Di Maio, seduto alla sua destra: «Posso dire che...?», ricevendo un «no» secco dal capo politico che l’aveva scelto. Oggi, a sette mesi da quel giorno, quelli che molti definivano “un burattino”, «un vaso di coccio”, “un pupazzo” nelle mani dei due vicepremier, s’è ritagliato un ruolo assai più autonomo.

Giuseppe Conte. Ovviamente la ricerca di un posto al sole da protagonista della politica non è facile. Conte sa che deve quasi tutto agli uomini della Casaleggio, che dal nulla gli hanno cucito addosso, attraverso un accorto storytelling, l’immagine di uomo normale, di “avvocato della porta accanto”, di abile mediatore e garante del contratto di governo. Ed è sempre i ragazzi di Davide che Conte deve ringraziare, guardando la sua pagina Facebook che in poche settimane è riuscita a toccare il milione di follower (numeri simili a quelli che Matteo Renzi ha raggiunto in anni e anni di lavoro sui social) e se il suo tasso di gradimento monstre (piace al 62 per cento degli italiani, secondo l’ultima ricerca Ipsos) è superiore di 10 punti rispetto a quello di Salvini e 20 a quello di Di Maio. Conte sa pure che i commentatori esagerano, quando qualcuno lo certifica inquilino a Palazzo Chigi anche in caso di crisi di governo e di diversa maggioranza parlamentare. E sorride a chi lo vedrebbe bene come possibile sostituto del traballante Di Maio sulla tolda di comando del M5S. E da uomo di mondo, se un giorno sa che può battere i pugni atteggiandosi a premier con pieni poteri («Se Salvini non fa sbarcare i 49 migranti della Sea Watch e della Sea Eye vorrà dire che li andrò a prendere con l’aereo», disse a inizio gennaio), è conscio che quello successivo dovrà ingoiare il rospo senza fiatare, accettando ad esempio la linea chavista di Di Battista sul Venezuela. Epperò Conte, senza farne troppo mistero, ormai gioca anche una sua partita personale. In una nicchia che si sta allargando a vista d’occhio: oggi il suo portavoce Rocco Casalino, piazzato dal Movimento a Palazzo Chigi per consigliare e controllare da vicino l’avvocato pugliese, non potrebbe mai permettersi di tirarlo via per il braccio come ha fatto durante il G7 dello scorso giugno. Anzi: l’inizio della cavalcata di Conte comincia paradossalmente con il ridimensionamento del suo portavoce. La storia degli audio, quelli in cui Rocco parlava di una «megavendetta» contro i tecnici del ministero dell’Economia, ha cambiato i ruoli. Quando Casalino ha cominciato a voler stare un passo avanti a Conte, il premier ha capito che non lo voleva più nemmeno di lato. «Giuseppe ha cominciato a crearsi una sua autonomia quando Rocco ha esasperato la sua», racconta un componente del suo staff a Palazzo Chigi. Oggi sia Casalino sia la vice capo ufficio stampa (la casaleggina Mariachiara Ricciuti) vengono convocati sempre più raramente alle riunioni tecniche più delicate. Il premier preferisce farle con i suoi uomini fidati: innanzitutto Pietro Benassi, ambasciatore e consigliere diplomatico che gli fa da apripista con le cancellerie straniere e con la Farnesina (ottimi i suoi rapporti con il segretario generale Elisabetta Belloni); il consigliere militare Carlo Massagli, al quale ha chiesto suggerimenti sulle recenti vicissitudini dell’operazione internazionale Sophia e sul possibile ritiro delle truppe dall’Afghanistan; e il segretario particolare Andrea Benvenuti, amico conosciuto tramite lo studio Alpa. E se con il consigliere politico Tommaso Donati, ex capo dell’ufficio legislativo del M5S alla Camera, la scintilla non sembra essere mai scoccata, Conte apprezza «la pacatezza» di Alessandro Goracci (classe 1977, alto funzionario del Senato, da poco diventato il nuovo capo di gabinetto del premier), e l’equilibrio di Piero Cipollone. Quest’ultimo è un nome che pochi lettori conoscono, ma è il principale braccio destro di Conte sulle questioni economiche: vice direttore di uno dei dipartimenti della Banca d’Italia, è l’uomo che ha suggerito a Palazzo Chigi (insieme al ministro Giovanni Tria) il modo migliore per uscire indenni dalla difficile trattativa con la Ue sulla manovra finanziaria. Conte si fida di Cipollone ciecamente: quando Di Maio, due settimane fa, ha attaccato la capacità di Bankitalia di fare previsioni azzeccate sulla crescita del Pil («non ci prende mai», ha detto Gigi criticando proprio l’Ufficio studi dove Cipollone ha lavorato per tre lustri), Conte non ha potuto che - in privato naturalmente - confermare la sua totale fiducia nella Banca d’Italia e nel suo consigliere. La nuova forza di Conte viene accolta da un pezzo del partito in maniera favorevole («oltre a Di Battista c’è finalmente un altro leader spendibile per il dopo Di Maio», chiosano in tanti). Ma da un’altra fetta del Movimento l’eccesso di indipendenza del professore - che ha eccellenti rapporti in Vaticano e vecchie amicizie nel Pd e in Forza Italia - è sospetto. I maligni dicono che Conte ha forzato la mano scegliendo come capo del Dipartimento di Informazione per la Sicurezza un generale della Finanza che conosceva personalmente tramite l’ex moglie: Gennaro Vecchione. Era un outsider ma, voci di corridoio a parte, la sua nomina è certo figlia di una decisione presa in solitudine dal premier. I rapporti con i vertici dei servizi sono eccellenti e anche il Quirinale, ormai, s’interfaccia quasi solo con Palazzo Chigi: Mattarella e i suoi consiglieri, Simone Guerrini e Gianfranco Astori su tutti, preferiscono confrontarsi con i Conte Boys piuttosto che con l’entourage di Di Maio. Pesa il diverso ruolo istituzionale, ma anche la vecchia storia dell’impeachment ha avuto i suoi strascichi. Sul palcoscenico internazionale - a Bruxelles, Parigi e Berlino - il premier è visto come un interlocutore più affidabile del M5S o di Salvini. Lo stretto rapporto di simpatia con Donald Trump, su cui molti hanno ironizzato, è reale. Così come la stima di Mike Pompeo, che ha apprezzato la scelta di Conte di fare pressioni sul M5S in modo da sbloccare il gasdotto Tap. E la Santa Sede - che pure prova disagio per le politiche antimigranti del governo - vede il cattolicissimo presidente del Consiglio come l’unico soggetto con cui poter tentare delle mediazioni e delle soluzioni condivise. Se il movimento dovesse esplodere, non è affatto detto che svanisca anche la stella di Conte.

Davide Casaleggio e l'incontro privato con la big del cemento che imbarazza il M5S. Dalle carte dell’inchiesta della procura di Roma sul fallimento di Condotte, spunta l’appuntamento tra la proprietaria, Isabella Bruno Tolomei Frigerio, e il presidente dell’Associazione Rousseau. Il gruppo del calcestruzzo, come già svelato dall’Espresso, fece contratti di consulenza da centinaia di migliaia di euro al fratello di Maria Elena Boschi, scrive Emiliano Fittipaldi l'1 febbraio 2019 su "L'Espresso". Le giravolte sul sì o il no al processo contro Matteo Salvini, imputato per sequestro di persona nel caso della nave Diciotti. I sondaggi nazionali che vanno giù, sotto il 24 per cento. Quelli regionali, come in Sardegna, che stimano un crollo della metà dei consensi presi il 4 marzo scorso. Quelli riservati, che segnalano come il 60 per cento di chi ha votato M5S non esclude in futuro di votare Lega. Le lotte intestine, e la macchina della propaganda di Rocco Casalini e Pietro Dettori che non regge il passo della “Bestia” di Luca Morisi, il guru della comunicazione leghista: nel numero dell'Espresso in edicola da domenica 3 febbraio e già consultabile su Espresso+ la nostra inchiesta sulla crisi del Movimento Cinque Stelle, dal declino della leadership di Di Maio alla nuova autonomia di Giuseppe Conte. Nel mirino di alcuni dissidenti c’è anche Davide Casaleggio, che nelle ultime settimane è tornato attivo anche sul fronte politico. Si sta occupando dello scouting per le candidature alle Europee insieme a Rocco Casalino, Pietro Dettori e Silvia Virgulti. È lui che avrà l’ultima parola sui candidati da mandare a Bruxelles, che dovranno poi essere votati dagli iscritti su Rousseau. La lista dei prescelti è ancora aperta: la difficoltà maggiore è quella di trovare donne con un curriculum adeguato. Ma il biasimo peggiore rivolto a Casaleggio riguarda il suo presunto conflitto di interessi. Leader politico, presidente di Rousseau, capo di una società di consulenza (la Casaleggio Associati srl), Davide è anche guida dell’Associazione Gianroberto Casaleggio, che organizza ogni anno un convegno a Ivrea, il Sum. Il Fatto un mese fa ha intervistato alcuni imprenditori che hanno donato 5.000 euro per l’organizzazione dell’evento, che hanno ammesso come le dazioni di denaro siano state fatte, come ha detto uno di loro, «in totale trasparenza per perorare le mie cause e quelle della mia categoria». «Perorare», traducendo, significa però fare lobby. Parola poco amata nell’universo grillino. Davide, che cura gli affari insieme al suo socio più importante, Luca Eleuteri, sembra fregarsene delle critiche: se è noto che alcune ricerche elaborate dalla Casaleggio sulla Blockchain siano state finanziate (oltre che da colossi come Amazon, Mediaset e Unicredit) anche dalle Poste (per 30 mila euro), e se qualcuno ancora storce il naso quando ricorda il ristorante romano in cui Davide cenò insieme, tra gli altri, all’avvocato Luca Lanzalone, il facilitatore della giunta Raggi, in pochi sanno che anche potenti manager del settore italiano delle costruzioni hanno chiesto e ottenuto incontri con lui. È certo, per esempio, che Isabella Bruno Tolomei Frigerio, proprietaria di Condotte spa, il terzo colosso italiano per fatturato e giro d’affari che ha fatto crac qualche mese fa, ha voluto incontrare privatamente Davide nel 2017, a pochi mesi dal trionfo elettorale. Un appuntamento che L’Espresso ha scoperto leggendo l’agenda personale consegnata dai tre commissari ai pm della procura di Roma, che indagano sul fallimento dell’azienda. Nel novembre 2016 la Bruno - al tempo in grave difficoltà finanziaria - ha incontrato Arturo Artom, imprenditore vicino a Casaleggio in un evento pubblico; poi lo ha rivisto a cena insieme a un dirigente della Bnl il 2 maggio 2017. Due settimane dopo, il 17 maggio, la signora del calcestruzzo è riuscita a parlare anche con «il dott. Davide Casaleggio» nell’«ufficio di Milano». Di cosa hanno discusso i due è impossibile saperlo: se Casalino, a cui abbiamo chiesto conto dell’incontro, non ci ha risposto, la Bruno attraverso i suoi legali ha tagliato corto, dicendo di non voler fare commenti, e di aver incontrato il leader grillino quell’unica volta. Un mese fa L’Espresso raccontò di alcuni incontri della Bruno e di suo marito Duccio Astaldi con membri del governo di centrosinistra, in primis quelli con Maria Elena Boschi e Paolo Gentiloni, e di alcuni contratti da centinaia di migliaia di euro fatti da controllate di Condotte in favore del fratello della Boschi, Emanuele, e di Alberto Bianchi, ex presidente della Fondazione renziana Open. Nonostante l’eco della notizia, nessun alto dirigente del M5S ha rilasciato commenti o dichiarazioni.

·         Stereotipi e complotti e bufale.

Stereotipi e complotti: così i grillini cadono nel delirio antisemita. Le gaffe di Grillo, il caso Sassoon, il sionismo Paranoie sul potere e problemi con gli ebrei, scrive Alberto Giannoni, Mercoledì 23/01/2019, su "Il Giornale".  Il caso Lannutti non è casuale. Nel mondo grillino c'è un problema con l'antisemitismo, e va oltre la vicenda del senatore che due giorni fa - condividendo sui «social» un testo intriso di deliri cospirazioniste sulle banche - ha sciaguratamente citato il «Protocollo dei savi di Sion», un falso storico utilizzato dalla peggiore propaganda antisemita. Su Elio Lannutti continuano a piovere richieste di dimissioni e lui si è scusato. «Mai una frase, un pensiero, un'azione contro gli ebrei perseguitati e trucidati dai nazisti» ha detto. «Ci tengo a sottolineare che non sono, né sarò mai antisemita». Il collega Gianluca Perilli l'ha difeso affermando che «il Movimento 5 Stelle rigetta in maniera ferma e perentoria ogni forma di antisemitismo, anche involontario». E forse questo strano «antisemitismo involontario» coglie un aspetto: il «riflesso» antisemita. Nei momenti di crisi proliferano vecchie e nuove paranoie e assurde teorie su poteri occulti. Il retroterra è quello e anni fa nel sito del Movimento è stato pubblicato un articolo anti-banche corredato da un fotomontaggio: la stereotipata ombra del Nosferatu di Murnau, e la targa col nome Lehman Brothers, banca d'affari fondata da ebrei. Un immaginario tipicamente «giudeofobico». Lasciando nel 2012 la Casaleggio Associati di cui era socio, con una lettera al Corriere Enrico Sassoon denunciò «una valanga di diffamazioni e calunnie», basate su «farneticanti teorie del complotto», apparse in blog e siti vari, «da quelli di ispirazione nazi-fascista a quelli di tendenza diametralmente opposta (come i meet-up di supporto a Grillo)». Sassoon parlò dei «toni foschi del complotto demo-plutogiudaico-massonico», raccontando: «Dal mio cognome ebraico si è risaliti a una famiglia con lo stesso nome che operava 250 anni fa nella Compagnia delle Indie». Gli stereotipi trovano terreno fertile nei deliri complottisti, che vanno dalle scie chimiche ai «rettiliani» citati nel testo condiviso - e poi disconosciuto - da Lannutti. Due esponenti grillini hanno incontrato e intervistato David Icke, l'inventore dell'assurda teoria dei rettiliani. Uno oggi è sottosegretario. L'altro ha rilanciato in Parlamento le accuse sull'11 settembre, parlando di attacchi «pianificati dalla Cia e dal Mossad, con l'aiuto del mondo sionista». E il «sionismo» è un taso dolente. L'attuale sottosegretario agli Esteri, Manlio Di Stefano, scrisse che «è sinonimo di razzismo perfino per l'Onu», poi fu fra i partecipanti al «festival palestinese» che aveva fra i suoi ospiti un imam che aveva glorificato le azioni kamikaze contro Israele. Proprio sul suo profilo, in un commento era comparsa una lista degli ebrei influenti. Lo stesso Beppe Grillo non solo ha sfoggiato spesso posizioni duramente anti-israeliane, ma ha sostanzialmente difeso sul suo blog il regista Mel Gibson e quella sua farneticante frase: «Gli ebrei sono responsabili per tutte le guerre del mondo». Meno noto il caso del ricercatore romano escluso dalle liste per le elezioni comunali per il suo presunto negazionismo: era stato accusato di aver definito la Shoah una «leggenda».

Alessandro Di Battista, lo stupidario grillino: tutte le sparate del presunto leader. Azzurra Barbuto su Libero Quotidiano il 21 Giugno 2019. «La regola dei due mandati non è mai stata messa in discussione e non si tocca. Né quest'anno, né il prossimo, né mai. Questo è certo come l' alternanza delle stagioni e come il fatto che certi giornalisti, come oggi, continueranno a mentire scrivendo il contrario», assicurava sul sito ufficiale del ministero del Lavoro, ossia Twitter, Gigino Di Maio il 31 dicembre 2018, a poche ore dall' avvento dell' anno che avrebbe segnato il suo supersonico tracollo politico: da stella nascente a stella cadente. Tuttavia i grillini, tanto inflessibili nella teoria e tanto genuflessi nella pratica, hanno dato vita ad un nuovo tipo di trasformismo: cambiano sempre idee e punti cardine, persino quelli che considerano immutabili, e lo fanno a seconda delle circostanze. Insomma, essi sono una garanzia, almeno quanto a bidoni. Prova ne è che mercoledì sera gli italiani, assistendo all' ennesimo show di Alessandro Di Battista, il falegname pentito del Movimento di Casaleggio, hanno appreso che quella che fino al giorno prima era una regola indiscutibile, ossia il vincolo del doppio mandato per tutti gli eletti pentastellati, verrà stracciata qualora questo governo dovesse cadere. Dunque, qualora il matrimonio combinato tra Lega e M5S avesse termine per incompatibilità caratteriale tra i due alleati, gli 83 deputati grillini che il 4 marzo scorso sono stati eletti per la seconda volta potrebbero essere ricandidati e mantenere il sedere sulle poltrone color porpora. Il motivo? Dibba lo spiega con chiarezza nel salotto di Lilly Gruber: qualora l' esecutivo si sciogliesse, questa legislatura della durata di oltre un anno non sarebbe considerata come mandato. Insomma, sarebbe annullata, come se parlamentari e senatori gialli non fossero mai stati votati dal popolo italiano, come se non avessero compiuto disastri per 13 mesi e immobilizzato il Paese appassionandosi a questioni di lana caprina. Beh, anche gli abitanti della penisola vorrebbero poter cancellare e dimenticare parte di questa esperienza politica, eppure non possono. Quindi perché azzerare il conto e ripartire daccapo?

A CACCIA DI UN LAVORO. E menomale che il 24 maggio scorso, ossia meno di un mese fa, lo stesso Alessandro Geppetto aveva dichiarato che il doppio mandato costituisce un principio importante e non c' è motivo di cambiarlo. Insomma i cinquestelle hanno poche idee e tutte sballate. Qualche giorno prima Davide Casaleggio, titolare dell' associazione privata Rousseau a cui fanno capo e rispondono gli eletti grillini, i quali devono per statuto devolvere parte dei loro stipendi a Casaleggio junior, presiedente e tesoriere dell' associazione stessa, aveva rilasciato un' intervista a Le Monde (poiché predilige essere intervistato da giornalisti stranieri considerato che quelli italiani per i gialli sono pennivendoli e puttane) in cui specificava: «Il limite massimo dei due mandati non è modificabile, abbiamo sempre detto che la politica non è un mestiere». Eppure per mestiere l' ha presa Di Battista, il quale, avendo verificato che: 1) non può fare a vita il ragazzo con lo zaino in spalla a zonzo per il pianeta; 2) non avrebbe chance come falegname (ipotesi andata al macero alla fine del corso in falegnameria); 3) il reddito di cittadinanza non gli consentirebbe di mantenere neanche i pannolini al pupo; ha deciso di tornare alla cosa pubblica, proprio lui che con la cosa pubblica aveva chiuso per interessarsi solo alla casa privata, ovvero alla sua famiglia. Del resto, la politica lo aveva già salvato nel 2013, quando da animatore rompipalle nei villaggi turistici si era ritrovato ad essere parlamentare della Repubblica italiana. In attesa di scoprire cosa volesse fare da grande, Alessandro si è poi messo in viaggio, una lunga vacanza all' estero, in America Latina, dove, tra una siesta e l' altra, è diventato esperto di politica internazionale, per poi rientrare in patria illuminandoci tutti con le sue perle di saggezza, dispensate anche con troppa generosità saltando da un programma televisivo all' altro, da Rai a Mediaset passando per La7 e chi più ne ha più ne metta. Quello che mercoledì sera è apparso in tv era un Dibba più consapevole, che ha maturato finalmente una certezza, almeno una: «Se si tornasse al voto mi candiderei al 100%». Intanto i grillini che lo seguivano da casa si spendevano in gesti apotropaici di scarsa finezza, poiché l' annuncio aveva il chiaro tono della minaccia, e non solo per il popolo italiano. Infatti, fu proprio allorché Mastro Di Battista fece ritorno nel Bel Paese che il M5S cominciò a perdere punti nei sondaggi e a sei mesi dal suo atterraggio i pentastellati hanno dimezzato i loro consensi.

«UN CHIACCHIERONE». Insomma, Alessandro se non porta sfiga, porta danno. E giureremmo che sia per quel suo modo saccente di parlare, che alla fine risulta per forza antipatico, per quella sua evidente incontenibile presunzione, dissimulata a fatica con una plastificata umiltà, la quale puntualmente resta soffocata dalla sicurezza - tipica dell' idiota - di essere una sorta di dio sceso sulla Terra per salvarci tutti. L' aspirante falegname - braccia rubate alle segherie nostrane - si atteggia a grande guru ed è addirittura persuaso di esserlo. E come di consueto, pure mercoledì sera Dibba si è scagliato ferocemente contro il ministro dell' Interno, accusandolo di stare provocando i pentastellati con l' intenzione di giungere al crollo dell' esecutivo, come fosse un castello di carte. La colpa sarebbe sempre sua, ossia di Matteo Salvini, il quale ieri ha replicato: «Io invidio Di Battista, sta passando i suoi mesi in giro per il mondo pagato per dare lezioni al prossimo. Ci sono tanti parlamentari e ministri dei 5 Stelle che lavorano ed io preferisco parlare con loro piuttosto che con i chiacchieroni tropicali a pagamento».

Alessandro Di Battista al verde: Il Fatto Quotidiano non gli compra i reportage, e così...Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 19 Giugno 2019. «E mo' basta. Mo' questo ce sta veramente fracanando le palle...». Come non dare torto all' anonimo deputato romano pentastellato che con questa metafora - così, velata, tra il detto e non-detto - descrive il frastagliato flusso d' emozioni del Movimento nei confronti di Alessandro Di Battista? Già. Perché non solo ci sono i casini del post-elezioni, la balcanizzazione interna, il vassallaggio a Salvini e la procedura d' infrazione; ci mancava pure il Dibba il quale dalle pagine del suo nuovo libello, Politicamente scorretto edito da Paperfist del Fatto Quotidiano, spara melma verso il governo e il suo stesso partito. Ché va bene bersagliare Salvini, o massacrare il Pd, o paragonare Berlusconi a Buster Keaton quand' era vecchio e rincoglionito. Ma, insomma, affermare riguardo a Di Maio che ha ottenuto «molti successi, ma il cambiamento vero si ottiene con il coraggio» o che «non abbiamo più un sogno, basta essere complici» imputandogli l' errore di avere taciuto sui 49 milioni scomparsi delle Lega; be', tutto ciò significa non soltanto tradire i colleghi parlamentari che si smazzano nel tentare di far star su la baracca, ma delegittimare la tua stessa appartenenza. Fracanare le palle, appunto. Ma non è tutto. Dal colloquio con Marco Travaglio Dibba si lascia sfuggire che «ci sono buone possibilità che il governo cada "entro la fine dell' estate e non sarà colpa dei Cinque Stelle"», che non è una cosa carina, specie se al governo ci sono i tuoi. Ora, quando Di Maio alle accuse del Dibba risponde: «Non ho letto il suo libro, sono concentrato sul salario minimo», be', ha ragione da vendere. Innanzitutto perché prima di riuscire a finire un libro di Di Battista, Di Maio fa in tempo a scriverne uno lui. Eppoi perché il Capo del Movimento conosce bene le domande che ora gli stessi ex compagni si pongono neanche troppo silenziosamente: ma a che titolo esterna Di Battista? E perché, invece di puntare il ditino contro gli altri e rifiutare tutti i ruoli che gli propongono, non si butta nella mischia evitando spiacevoli imbarazzi? Il Corriere svela che il contratto con la casa di produzione Loft, sempre il Fatto, di 20/25mila euro mensili per il suo reportagino da Super8 anni 70 in India sia sfumato per un' oggettiva sfasatura del rapporto costi/benefici. E che il Dibba si sia trovato all' improvviso con un budget risicatissimo. Finora, con famiglia a carico, sull' onda della popolarità da Che Guevara grillino, aveva girato il mondo - pagato - più di un dipendente della Lonely Planet. Poi, però i soldi finiscono. E se non sei Bruce Chatwin o non verghi inchieste epocali, difficile che di 'sti tempi ti rinnovino il contratto. Sicché ecco che il nostro si ributta su un cammino già felicemente percorso: l' editoria. I libri A testa in su e Meglio liberi pare gli avessero fruttato 50mila euro. Gli è rimasto in canna quest' ultima prodezza letteraria da commercializzare. E, dato che ne stiamo parlando tutti, almeno dal punto di vista del marketing, Dibba, il maestro Yoda della comunicazione pentastellata, è riuscito ancora una volta a finire sui giornali. E, in più, per alimentare la sua presenza solo virtuale nella grande friggitoria della politica italiana, eccolo agire contro Di Maio con la scusa «di spronarlo, di criticarlo ove necessario» ma magari anche solo per prenderne il posto. Ed eccolo riempire social e chat con i suoi affondi da rivoluzionario da tinello ma senza il lucore non dico di una minima rappresentanza, ma di uno straccio di seguito. Il che mi stranizza. Non capisco a che titolo Dibba possa sparare contro Malagò, Fazio, i Benetton, o Chiamparino che, piacendo o meno, qualcosa nella vita hanno realizzato. E non capisco quest' accanimento del M5S verso la mitopoeitica del Dibba: quando Di Maio ha accennato a rimetterlo in campo con tutto il suo apparato retorico movimentista, ha avuto una mazzuolata epica alle Regionali. È che se si chiedi al Dibba il motivo di questo suo girare a vuoto, rischi che ti risponda scrivendo un altro libro. Francesco Specchia

Tav, i fatti e le "bufale" di Di Battista, scrive il 21 Gennaio 2019 "Il Corriere del Giorno". Il costo effettivo per l’Italia è di 2,8 miliardi e la galleria dei lavori è scavata nella stessa montagna del tunnel autostradale del Frejus, La realtà però, ancora una volta, è infatti molto diversa da quella “spacciata” dai grillini. E come sempre Di Battista fa confusione parlando di due situazioni diverse. Di ritorno dal Sudamerica l’esponente grillino Alessandro Di Battista ieri è andato in televisione da Fabio Fazio su RAIUNO per “sostenere” il NO del M5S alla realizzazione nuova linea ferroviaria ad alta velocità tra Torino e Lione, sostenendo contrariamente al vero, che la Tav costa 20 miliardi, la montagna da scavare è piena amianto, e che la vogliono realizzare per intascare le tangenti. Quanto alla Tav, Di Battista rimane fedele alla sua linea: “È la più grossa sciocchezza che possa fare questo Paese. E cioè spendere 20 miliardi di euro quando servono altre infrastrutture” avanzando un sospetto: “Non ho le prove -premette – ma ci sono intercettazioni di ‘ndranghetisti per le quali, per come conosco il Paese, non si vuole uscire dalla Tav perché qualcuno si è già steccato (diviso, ndr.) delle tangenti, che ai tempi attuali hanno la forma più elegante delle consulenze”. La realtà però, ancora una volta, è infatti molto diversa da quella “spacciata” dai grillini. Infatti la Tav non costa 20 miliardi ma soltanto 2,8 al nostro Paese. La spesa complessiva per la realizzazione della tratta internazionale, cioè il tunnel di base di 57 chilometri e i due chilometri di ferrovia sul versante italiano fino a Susa) è di 8,6 miliardi. Di questi 3,51 milioni li paga l’Unione Europea, 2,22 milioni la Francia (che ha una tratta più lunga da realizzare sul suo versante) e 2,87 l’Italia. Ai 2,87 miliardi della tratta internazionale si possono sommare per l’Italia (ma non sono oggi ancora oggetto dei lavori) gli 1,7 miliardi necessari ad ammodernare la linea tra Susa e Torino. In avvio il progetto prevedeva una spesa di 4,3 miliardi sulla tratta italiana. I costi successivamente sono stati abbattuti posticipando la realizzazione di alcune gallerie che verranno realizzate con molta probabilità dopo molti anni dall’entrata in funzione del tunnel principale. Quindi perché Di Battista parla di 20 miliardi? Semplice. Perché in modo errato e falso somma ai costi che si accolla l’Italia, anche i costi sostenuti dalla Francia sul suo versante (7,7 miliardi), la quota dell’Unione europea (3,51) e la quota di lavori già spesa (1,4 miliardi). Inoltre considera l’adeguamento teorico all’inflazione che avrebbe potuto portare il costo della tratta internazionale dagli 8,6 miliardi del 2012 a 9,6 miliardi. Un adeguamento che peraltro essendo teorico, non si è verificato. Infatti nell’accordo internazionale approvato dai rispettivi parlamenti italiano e francese il costo nel 2016 è rimasto fermo a 8,6 miliardi. Per fare un esempio comparativo di facile comprensione, rispetto ai 2,87 miliardi di spesa per l’Italia per la Torino-Lione, la tav Napoli-Bari i cui lavori dati in consegna all’ATI (Associazione temporanea di imprese) formata da Salini Impregilo ed Astaldi, verranno realizzati per fasi, e secondo le previsioni dovrebbero concludersi nel 2026, con un costo di realizzazione di oltre 6 miliardi, cioè quasi tre volte di più della Torino-Lione. Di Battista tanto per dare fiato alla sua voce, ha acceso anche delle polemiche sull’amianto, un vecchio cavallo di battaglia politica (negli ultimi tempi però accantonato) utilizzato dai No Tav . La montagna piena di amianto è la stessa in cui è stata scavata la galleria autostradale del Frejus. Il raddoppio di quella galleria che consentirà di aumentare il numero dei tir in transito in val di Susa è stato però scavato in questi anni senza alcuna opposizione da parte dei No Tav e soprattutto senza qualsiasi problema per la salute dei lavoratori del cantiere. L’ultima “teoria grillina” di Di Battista è quella delle “tangenti sotto forma di consulenza” che spiegherebbero la volontà dei fautori dell’opera di proseguire i lavori. In realtà non risultano indagini di questo genere sulla TAV Torino-Lione. L’indagine sulle consulenze ha coinvolto soltanto il Terzo Valico. E come sempre Di Battista fa confusione parlando di due situazioni diverse.

Franco CFA, Claudio Martelli ridicolizza Di Maio e Di Battista: "Roba da disturbati mentali", scrive il 22 Gennaio 2019 Libero Quotidiano. La polemica sollevata da Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista contro la Francia e il presunto colonialismo occulto con il franco CFA ha portato l'Italia a un passo dall'incidente diplomatico con Parigi. Prima il vicepremier, poi l'ex parlamentare nel salotto di Fabio Fazio hanno agitato la banconota franco-africana, strumento a detta loro del governo francese per impoverire i Paesi africani e quindi incentivare l'emigrazione in Europa e in Italia. Di tutto questo insieme di accuse, l'ex ministro socialista Claudio Martelli ne ha dato una definizione eloquente: "Una supercazzola, cioè una frase priva di senso composta da un insieme casuale di parole senza nesso con la realtà o esposta in modo ingannevole a interlocutori di cui si suppone l'ignoranza". Quella moneta nata cinquant'anni fa, spiega Martelli, era stata adottata da 14 ex colonie francesi quando sono diventate indipendenti con uno scopo preciso: "Assicurare la stabilità finanziaria con una moneta comune, e perciò più solida, a Paesi che stavano attraversando la fase di decolonizzazione. Fu una scelta libera e volontaria - ha ricordato l'ex ministro - e in qualunque momento i paesi interessati possono revocarla". Ma i grillini non la pensano come Martelli, che non si spiega come abbiano potuto scambiare una moneta per una tassa e "imbastirci sopra una provocazione a freddo nei confronti di un Paese amico e alleato è materia che esula da una discussione politica: potrebbe entrare invece nel novero dei disturbi mentali". Cercare una spiegazione politica, magari nell'eterna rincorsa tra Di Maio e Salvini, è secondo Martelli operazione abbastanza fuorviante: "Sta di fatto che l'ultima trovata del vice presidente del Consiglio, oltre al ridicolo, ci è già costata l'umiliazione di vedere la nostra ambasciatrice a Parigi convocata dal ministro degli Esteri francese. Spiegare perché il governo italiano incolpi la Francia e il franco africano delle carestie e delle ondate migratorie verso l'Europa, senza alludere alle sinapsi grilline, non sarà semplice".

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         La Lega non è più Lega.

Il ruolo di ideologo della Lega? Fu l'ultimo Miglio della carriera. A lungo si è circoscritta la sua avventura intellettuale all'appoggio a Bossi. Invece fu un teorico politico «puro». Luigi Iannone, mercoledì 25/09/2019, su Il Giornale. Gianfranco Miglio, teorico autentico, viene regolarmente celebrato dai media come l'ideologo della Lega nord, anteponendo e quindi circoscrivendo all'avventura politica una pubblicistica enorme e di altissimo profilo. Una disattenzione, per certi aspetti, anche comprensibile visto che il rapporto con Bossi segnò una fase intensa della sua vita e gli diede notorietà presso il grande pubblico. Quella popolarità, frutto di numerose apparizioni televisive, lo costrinse tuttavia ad irrigidire oltremisura una immagine di indisponente e scorbutico consigliere del Principe, di cinico e spregiudicato Nosferatu (così come lo bollarono alcuni detrattori), col rischio di veder svilire e mettere in sordina la caratura internazionale dello studioso, una carriera accademica di assoluto prestigio e scritti che rimangono ancora oggi come imprescindibili punti di riflessione. Il lavoro di Miglio ha infatti una serie di meriti. Su tutti, l'aver messo in campo ogni strumento culturale e accademico affinché fosse riconosciuta autonomia alla categoria della Politica. Muovendo da Carl Schmitt, tentò un percorso di diversione e di superamento di cui si chiarisce ogni singolo passaggio in un bel volume collettaneo dal titolo La politica pura. Il laboratorio di Gianfranco Miglio (Vita e Pensiero, pagg 336, euro 28) curato da Damiano Palano e col contributo di nomi importanti della politologia contemporanea (Marco Bassani, Massimo Cacciari, Alessandro Campi, Paolo Colombo, Giuseppe Duso, Carlo Galli, Leonida Miglio, Lorenzo Ornaghi, Vittorio Emanuele Parsi, Pierangelo Schiera e Mario Tronti). Un testo che riconverte in maniera organica tutti gli snodi, le articolate sollecitazioni e le ambivalenze, ma che prova a presentire le eventuali direzioni di marcia che avrebbe potuto prendere il lavoro di ricerca, visti i tanti appunti e materiali sparsi che nell'ultima fase della sua vita iniziavano a volgere un occhio più interessato ai nuovi processi globali. Perché Miglio è stato un «moderno classico» mai rinchiusosi in una torre eburnea. Sono note sia la sua iniziale militanza nella Democrazia cristiana che i fondamentali studi sui giuristi cattolici, ma fu la battaglia campale per il riconoscimento di «scienze politiche» nell'ordinamento accademico italiano a svelare i suoi propositi. Quella vittoria fu solo un preambolo di ordine pratico in vista della contesa culturale più importante della sua vita: l'approdo coerente e tiglioso verso la «teoria pura» della politica la quale è essenzialmente «lotta per il dominio dell'uomo sull'uomo» e «lotta contro un nemico». Una «politica pura» che è avulsa dai luoghi comuni, dalle convinzioni ideologiche e dalle passioni, con l'intento di afferrare la radice più intima delle relazioni di potere: «Io associo abitualmente l'analisi scientifica dei comportamenti politici, ad un interiore distacco e parlo di fredda obiettività, al limite: di disincantata non partecipazione». In questo modo fissando parametri prestabiliti per arrivare al riconoscimento di un'autonomia per la categoria della Politica. Fece tutto ciò percorrendo sentieri anche inesplorati, elaborando talvolta ipotesi eterodosse e destreggiandosi tra il diritto internazionale e la storia delle dottrine e delle istituzioni politiche. E poi avendo come compagni di viaggio maestri quali Tönnies, Weber, Mosca, Pareto, e tutti gli esponenti della tradizione del realismo politico perché quello, in fondo, fu il principale percorso «perseguito al di sopra di ogni umano rispetto e senza indulgenze per le altrui speranze». Con la solita e ricorrente ambizione di «unificare in un quadro organico le regolarità individuate da pensatori del passato» e delineare «i contorni di una teoria capace di unificare in un solo e comprensivo sistema tutte le grandi regolarità della politica». E sempre in modo tale che la «purezza» non alludesse a «qualche limpidezza morale» ma al fatto che si dovesse cogliere la radice più profonda e ineliminabile delle relazioni di potere.

Concentrò infatti le sue analisi sulla regolarità e la specificità dei fenomeni politici, mentre respinse «il ricorso a elementi tratti da altri ambiti della convivenza associata» tentando di isolare la logica dell'homo politicus da quella dell'homo oeconomicus o dell'homo religiosus. Eppure, un rischio c'era. E lo intuì quando con la caduta del Muro e il dispiegamento della globalizzazione nuove categorie sembrarono minare l'autonomia della Politica e le sue analisi non fecero in tempo a tener pienamente conto di uno scenario che mutava sin dalle fondamenta.

Fabio Rubini per “Libero Quotidiano” il 19 dicembre 2019. Quello che andrà in scena sabato a Milano non sarà il de profundis della vecchia Lega Nord, ma certamente segnerà un passo decisivo verso la sua trasformazione. Se da un lato il partito fondato da Umberto Bossi (che manterrà la carica di presidente onorario a vita) non potrà chiudere, anche e soprattutto per le pendenze con la magistratura, dall' altro il congresso convocato da Matteo Salvini voterà una serie di modifiche significative allo statuto. La più importante è quella che riguarda l' articolo 7, che regola lo scioglimento della Lega Nord. Fino a oggi per liquidare il partito era necessaria «la maggioranza dei quattro quinti dei presenti» al congresso. Secondo le nuove regole, invece, basterà «la maggioranza assoluta dei membri del Consiglio Federale». Un' altra modifica significativa è quella che regola la durata della segreteria, che passa dagli attuali tre anni ai cinque del nuovo statuto. Sempre in termini di organizzazione si procederà anche a uno snellimento della struttura: via la segreteria politica federale, organo collegiale, che vedeva al fianco del leader il presidente federale (che resta però in organigramma), i vice segretari, il responsabile federale organizzativo e del territorio (altra figura che sparisce), il responsabile dell' ufficio legislativo federale, i presidenti dei Gruppi Parlamentari, il capodelegazione della Lega al Parlamento Europeo, i governatori Regionali e i capodelegazione in giunta. Inoltre è prevista una diminuzione del mandato del segretario, la cui attività viene privata di alcune funzioni come, per esempio, quella di riscuotere «i finanziamenti pubblici e i rimborsi elettorali». Sempre in tema di snellimento, il nuovo statuto prevede ora solo gli organi federali, mentre non compaiono più quelli che una volta erano gli organi "nazionali", cioè regionali. Un' altra mini rivoluzione riguarda le tessere: i militanti della Lega Nord non saranno più tenuti a versare le quote associative alle sezioni territoriali. «Il socio», si legge nel nuovo articolo 27, «all' atto dell' iscrizione deve versare l' eventuale quota associativa fissata dal Consiglio Federale» alla cassa centrale. Nello statuto nuovo resta anche la parola Padania. Una concessione (forse) alla minoranza indipendentista guidata da Gianni Fava, che però non sembra aver funzionato. Proprio l' ex deputato, infatti, ha fatto sapere che «la minoranza della Lega non sarà al Congresso» perché «siamo di fronte a una prova muscolare di Salvini che impone la legge del più forte». Secondo il leader della minoranza «almeno una ventina dei delegati eletti» non parteciperà all' evento perché con le nuove regole «di fatto l' opposizione non ha diritto di parola. La Lega di Salvini non aveva bisogno di tutto questo, aveva la forza per affrontare un congresso vero, non l' ha voluto fare e quindi non ci resta altra forma di dissenso che quella di non partecipare».

Antonio Fraschilla per “la Repubblica” il 15 dicembre 2019. Sabato 21 la nuova Lega nazionale di Matteo Salvini accantonerà, in una sorta di bad company, la vecchia Lega Nord di Umberto Bossi con annesso buco da 49 milioni di euro. Come anticipato da Repubblica alle 8 al centro congressi Leonardo Da Vinci di Milano, nascerà la «Lega per Salvini Premier» nella quale confluiranno le sezioni regionali autonome create davanti ai notai nei mesi scorsi senza clamore. Un congresso fantasma. Salvini lancia la fase due della Lega fondata da Bossi, mettendo in soffitta riferimenti nostalgici (e divisivi) al Nord e all'indipendenza della Padania. La nuova Lega di Salvini sarà una federazione di partiti regionali, autonomi da un punto di vista finanziario, che si chiameranno "Lega Lombardia Salvini premier", "Lega Sicilia Salvini premier" e così via. Ognuna di queste leghe avrà un proprio statuto e un proprio conto corrente. Un modo, quest'ultimo, per evitare che eventuali "problemi" sul finanziamento al partito arrivino al cuore della Lega, cioè nella stanza del segretario nazionale. Un passaggio molto delicato, quello di sabato, che potrebbe creare non pochi malumori tra i deputati, i senatori e i dirigenti leghisti della prima ora. Non a caso nel riservatissimo regolamento del congresso diffuso ieri solo ai delegati si fa riferimento a regole a dir poco "sovietiche" sul voto del nuovo statuto. Innanzitutto i delegati saranno dotati di «un braccialetto inamovibile da tenere sempre in vista », una sorta di controllo per evitare che non addetti ai lavori possano accedere alle aree riservate. Ma soprattutto, all'articolo dieci, vengono fissate delle procedure paradossali per proporre modifiche allo statuto scritto in questi mesi da Roberto Calderoli: le proposte di modifica dovranno essere firmate da «almeno 150 delegati» e consegnate alla commissione per il congresso «entro e non oltre giovedì 19». «Ancora non abbiamo nemmeno la bozza del nuovo statuto, figuriamoci se possiamo pensare a modifiche condivise da 150 persone in poche ore», sussurra un deputato di lungo corso che fino a ieri non aveva ricevuto nemmeno la comunicazione ufficiale della convocazione del congresso. Ma c'è di più: anche se qualcuno riuscirà a raccogliere 150 firme, magari per inserire alcuni riferimenti alla cara Padania, comunque «in caso di approvazione dello statuto non si procederà al voto degli emendamenti». E il voto avverrà solo per alzata di mano, quindi senza conte all'ultimo sangue. Salvini non vuole sorprese: «La Lega Nord ha fatto il suo percorso, adesso siamo la Lega del Paese», dicono i fedelissimi dell'ex ministro. Bossi se ne dovrà fare una ragione, e con lui i leghisti duri e puri. Sabato si voterà lo statuto nazionale, che di fatto rilancerà sì i temi dell' autonomia regionale, ma avrà al centro «una proposta politica che dovrà interessare tutto il Paese, da Milano a Palermo», come dice l' ex sottosegretario agli Interni Stefano Candiani.

Così cambia il volto della Lega di Salvini. Col nuovo tesseramento avrà definitivamente inizio l'avventura della "Lega Salvini premier" con tanti cari saluti alla vecchia "Lega Nord". Francesco Curridori, Venerdì 14/06/2019, su Il Giornale. Il Carroccio cambia pelle per sempre. Col tesseramento che verrà avviato nei prossimi giorni la "vecchia" Lega Nord non esisterà più e persino lo storico color verde sarà sostituito dal bianco e dal blu. Avrà così definitivamente inizio l'avventura della "Lega Salvini premier", dicitura già comparsa per le ultime elezioni Europee. Nella tessera comparirà una foto di Matteo Salvini che ringrazia a mani giunte i sostenitori incontrati a Piazza del Popolo lo scorso 8 dicembre. Sopra vi sarà la scritta 'Prima gli italiani' mentre sul retro vi sarà lo slogan “Il buonsenso al governo”, accompagnato dall'effige di Alberto da Giussano e la firma di Salvini. Nel frattempo l'Adnkronos ha pubblicato il resoconto del bilancio del partito che porta la dicitura "Lega Nord per l'Indipendenza della Padania". La "vecchia Lega", nel 2018, ha un disavanzo di 16 milioni 452 mila 997,49 euro di euro, segno che pesa ancora la sentenza del tribunale di Genova che l'anno scorso ha condannato il Carroccio a pagare 49 milioni di euro per i rimborsi elettorali non dovuti dal 2008 al 2010. "Tale disavanzo - si legge nella relazione gestionale- è causato esclusivamente dall'allocazione tra i debiti, dell'importo corrispondente al valore netto attualizzato delle somme oggetto del noto sequestro giudiziario, (procedimento penale n. 16647/14/21 R.G.N.R. - Tribunale di Genova), che ha determinato l'insorgere di una sopravvenienza passiva di importo pari ad euro 18.421.578,67". Ma, secondo quanto scrive il tesoriere Giulio Centemero, "l'esercizio 2018, in continuità rispetto all'esercizio precedente è stato caratterizzato dal robusto incremento del consenso sul territorio -confermato anche dai risultati elettorali- che ha garantito al partito un sensibile incremento proventi attivi". Nelle casse di via Bellerio sono arrivati circa 6 milioni di euro dai contributi versati dagli eletti, parlamentari e amministratori locali. Altri 3 milioni di euro, invece, sono i soldi arrivati dai tesserati del Carroccio.

PERCHÉ LA LEGA USA TUTTA QUESTA CAUTELA SUL CASO CSM? Marco Antonellis per Dagospia il 14 giugno 2019. Mentre Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni fanno a gara a chi s'offre di più e meglio al futuro vincitore delle prossime elezioni politiche Matteo Salvini (che però ha ben poca voglia di andare a Palazzo Chigi; il rischio per lui è di bruciarsi e perdere i tanti consensi acquisiti negli ultimi mesi) la Lega mostra una certa prudenza, forse fin troppa, nel trattare la questione Csm; eppure a via Bellerio, off the record, i toni sono tutt'altro che "bassi" nei confronti del bubbone esploso in questi giorni e che sta letteralmente travolgendo la magistratura: "Quello che è successo con le nomine decise in segreto e fuori dalle sedi istituzionali è gravissimo e non ci lascia affatto tranquilli. Bonafede dovrebbe agire con più forza" spiegano alcuni leghisti in Transatlantico. Il sospetto, che agita i sonni di via Bellerio, è che i grillini vogliano utilizzare gli avvenimenti degli ultimi giorni per sostituirsi al Pd nel rapporto con la magistratura. Ed anche all'interno del Pd i toni sono molto meno ecumenici rispetto al segretario Zingaretti: "Perché certi magistrati ora stanno zitti? Quando è un politico a finire nel tritacarne sono sempre i primi a pontificare. Perché non parlano, adesso?". Ogni riferimento a taluni magistrati osannati dai 5Stelle è puramente casuale. In realtà, fonti vicine al segretario Pd spiegano che "Zingaretti ha fatto il massimo che poteva nella situazione data" con l'auspicio che "la magistratura possa reagire autonomamente isolando le "mele marce" e rinnovando uomini e metodi". Intanto in Parlamento si cerca di mettere a punto la riforma del Csm con i partiti di Salvini e Berlusconi che vogliono mettere fine allo strapotere delle correnti. Ma il tempo stringe perché la settimana prossima già scadono i termini per la presentazione degli emendamenti in Commissione Giustizia alla Camera. Insomma, al di là degli auspici di rito la riforma del Csm è ben al di là da venire. E in via Bellerio, ancora scottati dai casi Siri e Rixi (per non parlare dei procedimenti ancora aperti in diverse procure italiane) con la magistratura non vogliono calcare la mano.

·         Il compleanno della Lega.

Vilipendio, Mattarella ha concesso la grazia a Umberto Bossi. L'ex leader della Lega era stato condannato per aver definito "terrone" Napolitano facendo il gesto delle corna. C'è stato il via libera del presidente emerito. Il ringraziamento del Senatur. La Repubblica il 5 dicembre 2019. Umberto Bossi - condannato a un anno per vilipendio - ha ricevuto la grazia dal capo dello Stato Sergio Mattarella. Il senatur aveva definito "terrone" Giorgio Napolitano, allora in carica come presidente della Repubblica, e gli aveva fatto il gesto delle corna durante un comizio ad Albino, in provincia di Bergamo. Napolitano ha dato il via libera al provvedimento: "Nessun motivo di risentimento". Ed è arrivata la risposta dell'ex leader del Carroccio:  "Sono molto contento. Ringrazio sia il Presidente della Repubblica Mattarella sia il Presidente Napolitano". I fatti risalgono al 2011. In primo grado la condanna era stata a 18 mesi di reclusione. La sentenza era diventata definitiva nel 2018, confermando sostanzialmente il giudizio di appello. Quella sera il Senatur, parlando dal palco della festa provinciale del Carroccio, aveva detto: "Abbiamo subìto anche il presidente della Repubblica che è venuto a riempirci di tricolori, sapendo che non piacciono alla gente del Nord".  E ancora: "Mandiamo un saluto al presidente della Repubblica. Napolitano, Napolitano, nomen omen, non sapevo fosse un terùn". Un riferimento alle origini partenopee dell'ex presidente. E aveva fatto il gesto delle corna con la mano destra. Accanto a lui i "colonnelli" del partito, Roberto Maroni e Roberto Calderoli. Bossi "rimproverava" a Napolitano di aver celebrato i 150 anni dell'unità d'Italia. Il comizio era stato filmato e mandato in onda dalle tv. Subito dopo scoppiarono polemiche, con decine di denunce presentate da comuni cittadini e un esposto, da cui è partito l'iter giudiziario. Veniva contestato un "attacco sovversivo contro l'unità d'Italia e i suoi organi costituzionali". A nulla era valsa la tesi della difesa, secondo cui le affermazioni di Bossi sarebbero rientrate nell'esercizio delle sue funzioni istituzionali. Nella nota del Quirinale si precisa che, "nel valutare la domanda di grazia, in ordine alla quale il Ministro della Giustizia ha formulato un avviso non ostativo, il Presidente della Repubblica ha tenuto conto del parere favorevole espresso dal Procuratore generale, delle condizioni di salute del condannato, nonché della circostanza che in relazione alle espressioni per le quali è intervenuta la condanna il Presidente emerito Giorgio Napolitano ha dichiarato di non avere nei confronti del condannato alcun motivo di risentimento". Bossi è ancora senatore ma, per motivi di salute, lo si vede molto poco in Parlamento. Soprattutto dopo un malore in casa, a Gemonio, nel 2019. Ma il suo tramonto politico è cominciato nel 2012, con le inchieste sui rimborsi elettorali. "Ringrazio il presidente della Repubblica per aver ancora una volta dimostrato la sua umanità firmando l'atto di grazia per Umberto Bossi. Ha fatto un grande gesto, sotto l'aspetto umano e della giustizia", ha detto il senatore Roberto Calderoli, vicepresidente del Senato.

Nel documentario Umberto B. Il Senatur (Nove) Castelli ricorda l’estate del 1992 in cui i leghisti neoletti in Parlamento conobbero “i classici salotti romani”: Anticipazione Stampa da “Nove” l'11 dicembre 2019. La “calata” dei parlamentari leghisti a Roma dopo le elezioni politiche del 1992, nel ricordo di Roberto Maroni dal documentario Umberto B. Il Senatur, in prima tv giovedì 12 dicembre alle 21:25 sul Nove: “Nel ’92, la Lega passò da 2 a 80 parlamentari, ed era gente che non aveva mai fatto politica se non a livello locale. E quando arrivarono a Roma scoprii che molti di loro... era la prima volta che arrivavano a Roma, che venivano a Roma in vita loro. Non erano mai stati fuori dal loro comune, dalla loro città, dalla loro regione”. Aggiunge Giuseppe Leoni: “Avevo optato per una vita monastica, facendo anche dei sacrifici...in una casa senza riscaldamento, anche se a Roma non è come nelle nostre latitudini, senza l’acqua calda per poterti radere, per poterti lavare...”. Roberto Castelli ricorda “i classici salotti romani”: “Come adesso i grillini, noi abbiamo portato giù di tutto... In quell’estate lì, che era la prima estate in cui venivamo giù, fra molte dame romane dell’upper class romana... nobildonne e quant’altro, venne di moda portarsi il leghista nei salotti. Ogni dama se ne era scelti un paio e se li portava in giro un po’ come forse facevano le matrone romane quando portavano il leopardo al guinzaglio”.

Nel documentario Umberto B. Il Senatur (Nove) Massimo D’Alema ricorda lo stile di vita romano di Umberto Bossi. Anticipazione Stampa da “Nove” l'11 dicembre 2019. Il ricordo dello stile di vita “romano” di Umberto Bossi, nelle parole di Massimo D’Alema estratte dal documentario Umberto B. Il Senatur, in prima tv giovedì 12 dicembre alle 21:25 sul Nove.: “Il caos della sua vita si rifletteva anche in questo appartamento modesto alla periferia di Roma dove non c’era nulla e dove, se si doveva fare una riunione, a cui partecipava anche Buttiglione, il segretario del Partito Popolare, gli aspetti, diciamo... gastronomici... ho dei ricordi terribili, sinceramente. Un pacco di fette di pane in cassetta, una scatola di sardine aperta... sardine mangiate con l’olio intinto nel pane in cassetta... Io cercavo, non dico di non mangiare, non credo di aver mangiato mai nulla, ma di non guardare neanche.

Sabrina Cottone per “il Giornale” l'11 dicembre 2019. È una coincidenza che anima la politica il docufilm su vita, opere e sparate di Umberto Bossi in arrivo alla vigilia del 21 dicembre 2019, giorno in cui la Lega Nord fondata dal Senatúr si trasformerà per congresso in ciò che è ormai da tempo: la Lega di Matteo Salvini. Ma sono gli antichi fasti del Bossi che lo speciale in onda domani sera sul «Nove» racconta con agrodolce alternarsi di cronaca e testimonianze, anche se il film «Umberto B. Il Senatúr» si apre su colui che ne ha raccolto, riveduto e corretto l' eredità: applausi, selfie, odi al capitano Matteo con birra in mano, sigla ITA(LIA) sulla manica della t-shirt azzurra. Tutto intorno, l' amplificatore hi-fi dei social. In principio, negli anni Ottanta, e poi in mezzo, c' è quel che è stato quando internet, Facebook, Twitter, Instagram erano di là da venire e Bossi proclamava con aria da profeta del Nord che «i muri sono i libri dei popoli» e i suoi più o meno fedeli seguaci, Roberto Maroni, Francesco Speroni, Roberto Castelli, tutti presenti all' appello del film, guidavano le squadre dei writers padani. Ponti di autostrade, muraglioni di contenimento, esterni dei palazzi, tutto andava bene e poco si salvava per lanciare messaggi come «Padania libera», «Piccoli ma lombardi», «Padroni a casa nostra», «La libertà vince». Mezzo di comunicazione originale e poco male se Castelli, già parlamentare, finì anche in una retata della polizia. Sarà forse strano, ma nel docufilm animato da molti cari amici del fondatore della Lega, una delle voci narranti tenera con l' Umbert è Gad Lerner, che fu tra i primi a scoprire il fenomeno, a sentirsi dire da Bossi che «la Lega ce l' ha duro» e a riuscire convincere Angelo Guglielmi, allora direttore di Rai3, che stava esplodendo la questione settentrionale e che i lumbard urlanti dovevano entrare in video. Uomo sobrio, lo racconta Lerner, che «quando è arrivata la malattia (l' ictus del marzo 2004, ndr), è stato travolto dagli appetiti di chi gli stava intorno». Rivedere le uscite sessiste di Bossi contro Margherita Boniver, tra il celodurismo e la canottiera da manovale ostentata contro i radical chic, le donne in fila per farsi firmare il foulard e non solo, l' alleanza consumata, spezzata e ripresa con Silvio Berlusconi, le «baionette in canna», le frasi urlate dal palco «noi continuiamo la lotta dei partigiani, mai con i fascisti», e anche «signora, il tricolore se lo metta...» con le accuse di vilipendio della bandiera e del Presidente, le adunate di Pontida e le ampolle di acqua del «dio Po», è un amarcord straniante reso meno violento dal tempo trascorso, che trasforma osanna e scandali in sequenze utili per comprendere ciò che è stato e che è. Massimo D' Alema, che con lui preparò il ribaltone del 1994 che fece cadere il governo Berlusconi, ricorda gli incontri nella casa di Bossi «alla periferia di Roma con una sussistenza gastronomica terribile: sardine in scatola nel loro olio e pane in cassetta. Cercavo non dico di non mangiare, ma di non guardare». Con una certa stima: «In lui c' era un disprezzo degli agi e delle raffinatezze romane da vero barbaro». Colpisce rivedere il duetto con Antonio Di Pietro, quando il Pm terrore dei politici lo intimidiva sui 200 milioni alla Lega della maxitangente Enimont. «Evento unico» sentenziava severo Di Pietro in toga. E Bossi, sorridendo sornione persino nell' aula del tribunale milanese: «Grosso». Di Pietro: «Unico o grosso?». C'è l'arruolamento di Irene Pivetti, futura presidente della Camera. «Ma io non sono leghista», gli disse. E Bossi rispose che non importava, a lui premeva che fosse cattolica e che si occupasse dei rapporti con quel mondo. A Maroni, tra mille aneddoti poco noti, scappa anche di dire che era un casciaball: raccontava frottole per cavare d' impiccio se stesso e la Lega. La scena finale, dopo la malattia e il recupero, racconta un uomo solo, che fatica ad accendersi il sigaro ma non si arrende. Nemmeno davanti alla platea di una festa che gli regala un solo applauso.

La Lega compie 35 anni. Così Bossi e 5 padani  la fondarono a Varese, oggi è «senza» Nord. Pubblicato venerdì, 12 aprile 2019  da Claudio Bozza su Corriere.it. Era il 12 aprile del 1984, un giovedì. Un giovane magro e coi capelli neri, di nome Umberto Bossi, entra nell’ufficio del notaio Franca Bellorini di Varese per firmare l’atto costitutivo della Lega Nord. Attorno al tavolo, oltre al futuro Senatùr, che più di dieci anni dopo porterà al governo quel piccolissimo movimento autonomista, ci sono altri 5 moschettieri della Padania: Manuela Marrone, moglie di Bossi; Marino Moroni, Pierangelo Brivio, Emilio Benito Rodolfo Sogliaghi e Giuseppe Leoni. In dieci pagine vengono stabilite tutte le cariche e le regole del movimento. Che ha un obiettivo preciso: «Scopo della Lega è il raggiungimento della autonomia amministrativa della Lombardia. Ciò realizza le aspirazioni delle popolazioni locali ad un autogoverno, che tenga conto della necessità di uno sviluppo sociale legato alle caratteristiche etniche e storiche del popolo lombardo». Nello statuto era prevista anche una rigida incompatibilità: «L’adesione alla Lega è incompatibile con l’appartenenza a qualsiasi partito o movimento politico». Oggi la parola «Nord», chiave di quel primordiale successo, è scomparsa dal simbolo della Lega, che con la svolta nazionale di Salvini oggi, secondo i sondaggi, potrebbe superare il 30% alle elezioni europee. «Erano affiatati, sembrava un’allegra compagnia — ricorda oggi il notaio Franca Bellorini — erano venuti per costituire un’associazione a difesa della cultura, delle origini e delle tradizioni lombarde, mai avrei immaginato che quel giorno, quell’atto notarile sarebbe stato l’atto costitutivo della Lega Autonomista Lombarda». Il simbolo, scelto personalmente da Bossi, fu Alberto da Giussano (chi era e la storia), eroe mitologico forse mai realmente esistito, ma che oggi è l’unica cosa sopravvissuta con la svolta sovranista di Matteo Salvini, che ha sempre la spilla con quel simbolo appuntata sul petto. Umberto Bossi, ricorda una nota del partito: «Bombardava il territorio con i suoi articoli. Propagava le sue idee in giro, nei bar e nei circoli culturali. Scriveva poesie in dialetto lombardo. Girava tutto il Nord freneticamente con una vecchia Citroën per un’azione di proselitismo. Aveva inaugurato la moda dei manifesti e delle scritte sui muri delle autostrade e dei vecchi edifici. Munito di pennelli e secchi di vernice, di notte, si recava a creare i suoi murales». Gli altri 5 padani del gruppo, i fondatori, erano Giuseppe Leoni, l’architetto di Mornago (Varese) che organizzò l’appuntamento dal notaio. Marino Moroni, anche lui di Mornago, un commerciante di articoli igienico-sanitari dalla personalità stravagante. Pierangelo Brivio di Samarate, il paese della madre di Bossi, Ida Valentina Mauri. Brivio è il cognato di Bossi, marito di sua sorella Angela, di professione commerciante. Emilio Benito Rodolfo Sogliaghi, un odontotecnico di Milano. Ed infine una giovane donna. «Scherzo un po’ con la ragazza — rammenta il notaio — per il fatto che come lei, anch’io avevo un genitore con le origini siciliane. Lei suo padre, io mia madre». Quella ragazza era Manuela Marrone, un’insegnante delle scuole elementari di Varese, presso il collegio Sant’Ambrogio, ora sede dell’Università Insubria, divenuta poi la moglie di Bossi.

BOSSI DA LEGA-RE. Da Il Mattino il 25 settembre 2019. Riccardo Bossi di nuovo nei guai. Il figlio maggiore, 40 anni, dell'ex Leader della Lega Nord Umberto Bossi è stato denunciato per insolvenza fraudolenta da un ristoratore fiorentino. Ne dà notizia oggi il quotidiano «La Nazione». Secondo quanto è stato ricostruito, sabato scorso, Riccardo Bossi, in compagnia di una ragazza, ha cenato in un ristorante in piazza Beccaria, «Antico Beccaria», a Firenze, e, al momento di pagare il conto, una sessantina di euro, si sarebbe dileguato sostenendo che doveva andare a un bancomat a prelevare il contante. Il ristoratore, Gaetano Lodà, un passato di spicco nella tifoseria viola, aveva salvato sull'agenda il numero del telefonino con il quale gli era arrivata, nel pomeriggio di sabato, la prenotazione del tavolo, senza neanche sapere che fosse il figlio del fondatore della Lega. Ma nel frattempo ha avvertito anche la polizia, che ha rintracciato il figlio maggiore del 'senatur' in un residence non distante. Riccardo Bossi è stato identificato, e informato del rischio di una denuncia. Una denuncia che il giorno dopo il ristoratore, assistito dagli avvocati Michele Ducci e Michele D'Avirro, ha puntualmente sporto per il reato di insolvenza fraudolenta, e alla quale potrebbe aggiungersi anche quella dell'albergo. Al momento di saldare, domenica mattina, il fratello maggiore del Trota, secondo quanto scrive sempre «La Nazione», non aveva infatti altri soldi da aggiungere ai 100 euro che aveva anticipato con la prenotazione. «Non è certo per la somma, ma è una questione di principio. E magari con la mia denuncia, metto in guardia qualche altro commerciante fiorentino dal guardarsi da questo signore», ha detto il ristoratore Lodà al quotidiano fiorentino. Riccardo Bossi, residente a Gallarate (Varese), nei giorni scorsi ha ricevuto la seconda condanna in appello per la truffa a un gioielliere di Busto Arsizio: fece shopping di Natale (gioielli per la fidanzata di allora e un costosissimo Rolex) e anche quella volta si dimenticò di passare a pagare.

Bossi vende la villa simbolo della Seconda Repubblica.  Le foto, la storia, gli aneddoti. Pubblicato giovedì, 11 luglio 2019 da A. Camurani e C. Del Frate su Corriere.it. «Gemonio: villa unifamiliare, buono stato 400 metri quadri, euro 430 mila». Un annuncio come tanti con una foto che mostra un bello stabile d’epoca in mezzo al verde con le palme in un paese a 10 minuti dal Lago Maggiore. Tutto normale se non fosse la casa di Umberto Bossi, fondatore della Lega, che risulta in vendita nell’annuncio immobiliare di un noto portale. Villa Bossi è stata per anni uno dei quartieri generali della Lega: dopo via Bellerio, era la casa del capo ad accogliere incontri informali con i colonnelli del partito, e nell’ultimo periodo in cui il Senatùr stava in sella al Carroccio, anche i fedelissimi del «cerchio magico» erano spesso ospiti. E in alcune occasioni sotto i pergolati della vite — che da queste parti più che altrove tutti chiamano bersò — si consumavano addirittura riunioni informali di governo: famosi gli incontri ai tempi di Berlusconi, con interminabili pomeriggi seguiti all’esterno della casa dai cronisti in attesa per strappare una foto o una dichiarazione. Oggi quella villa in via Verbano, stradina secondaria nel centro storico del paese, risulta in vendita: la famiglia Bossi la acquistò verso la fine degli anni Ottanta e in seguito venne ristrutturata da un altro dei leghisti della prima ora, l’architetto Giuseppe Leoni. «La storica e rinomata villa di circa 400 mq commerciali in stile liberty di inizio ‘900 - si legge nell’annuncio - si pone in un contesto tranquillo elegante e caratterizzato da ampie aree di verde pubblico e privato». Proprietà indipendente con due ingressi carrai e due pedonali, «vanta un area esterna di oltre 2.000 mq arricchita da una elegante piscina con vista panoramica». La casa è disposta su 4 livelli, «la composizione interna è formata da ingresso e soggiorno con camino del ‘700, ampia zona pranzo, cucina e terrazza panoramica, 5 camere, 4 bagni e grande veranda con una esposizione che regala un gioco luci di grande impatto». Sul cancello per il momento non figurano cartelli anche se l’immobile, in vendita da diversi mesi, risulta per ora libero da proposte d’acquisto. Il paese di Gemonio, di neppure 3000 anime nelle valli del Varesotto, che ha vissuto dunque un periodo di splendore ai tempi dell’inizio della Seconda Repubblica registra oggi il colpo legato alla perdita di un concittadino famoso. Dopo la chiusura della sede della Lega, un paio d’anni fa, ora anche l’ex ministro e fondatore della Lega sembra pronto a fare le valigie.

Andrea Camurani per il “Corriere della sera - Edizione Milano” il 12 luglio 2019. Un nome, Bossi, un paese, Gemonio: non importa se il Senatùr per l' anagrafe è nato a Cassano Magnago, paesone della bassa provincia di Varese, perché casa sua da decenni è qui sulle Prealpi varesine a una ventina di chilometri scarsi dal capoluogo e non distante da Laveno, sul Lago Maggiore. Aria buona, tanto verde. Da ieri però in questo comune di neanche 3 mila residenti ci si sente un po' più in periferia, almeno da quando si è sparsa la voce che la residenza del padre fondatore della Lega è in vendita. Prezzo base: 430 mila euro. E per convincere gli acquirenti che è un buon affare, sul sito dell' immobiliare di «Sognocasa» di Caronno Pertusella sono state pubblicate anche le foto - 14 - che riprendono da diverse angolazioni questa dimora dove si vedono imposte aperte, un po' di disordine nel giardino che degrada per diverse decine di metri verso il fondovalle da dove passa il treno e la statale. Ma l' immagine che a molti tornerà alla memoria è quella delle giornate degli anni 90 che hanno segnato il passaggio della Lega di barricata a quella di governo, quando il partito che oggi ha perso ogni connotazione geografica nel simbolo si chiamava Lega Nord e di cui Umberto Bossi era segretario federale. La casa si prestava ai summit. Gli incontri avvenivano sia fra gli alleati di governo, sia fra i colonnelli del partito che arrivavano con scorta in borghese e berline fatte passare dai carabinieri in divisa fermi a presidiare la via Verbano, quasi un viottolo che scende dalla strada principale, non molto distante dall' ex sede locale della Lega Nord di via Marsala chiusa da qualche anno. Bastava questo fermento di forestieri per capire che in paese stava succedendo qualcosa di importante che si distingueva dagli incontri fra gli amici di sempre: erano le giornate con mezzo Governo che si dava appuntamento sotto al bersò fatto di viti e glicini, dove capitava di poter vedere di sfuggita un Silvio Berlusconi rilassato in maniche di camicia, un Gianfranco Fini sorridente o un Roberto Calderoli in pantaloncini corti: istantanee di un tempo. Oggi tutti si chiedono dove andranno ad abitare i Bossi qualora un acquirente dovesse farsi avanti (anche se per il momento, dicono dall' immobiliare, «non sono in corso trattative»). L' altra domanda è: perché vendere? La risposta potrebbe nascondersi nell' annuncio che descrive la casa come «disposta su quattro livelli». Immobile di pregio, insomma, ma con volumi d' inizio Novecento che vuol dire scale e dislivelli forse non più idonei allo stile di vita del suo inquilino che ha avuto un problema di salute lo scorso febbraio: la famiglia ha chiesto discrezione sulle condizioni ma non è impossibile pensare che l' idea di spostarsi possa riguardare proprio l' esigenza di avere spazi diversi. La casa è stata ristrutturata nel corso degli anni '80 ma anche in seguito vennero fatti lavori e migliorie. Alcune delle somme rubricate come «casa capo lavori» figurano nelle causali scritte sulle matrici di alcuni assegni finiti nel «caso Belsito», processo per appropriazione indebita di fronte al tribunale di Milano poi finito in appello col «non doversi procedere» per gli imputati, tra cui lo stesso Umberto Bossi. E pensare che questa casa fu suo malgrado teatro di giochi politici su tavoli molto meno importanti ma non per questo meno gustosi legati alle vicissitudini della vita politica locale: nel 1970 fu la culla per un accordo fra democristiani e socialisti che portò a una inedita amministrazione di centrosinistra che vinse le elezioni comunali. L' anima di quegli esperimenti politici ha convissuto nelle stanze della villa, almeno fino ad oggi. 

Su 7 in edicola Umberto Bossi, la malattia, la quarta vita: «Prima o poi ritorno a Roma». Pubblicato sabato, 01 giugno 2019 da Corriere.it. Vi proponiamo una anticipazione del lungo servizio realizzato da Marco Cremonesi, che è andato a trovare l’anziano fondatore della Lega in una struttura specializzata nella riabilitazione. Umberto Bossi è stato colto da malore lo scorso 14 febbraio ed è rimasto in ospedale fino all’inizio di maggio. A Villa Beretta riceve pochi ospiti (filtrati dai familiari). Tra un esercizio e l’altro, parla di Berlusconi, dei compagni di lotta e di chi lo ha tradito. Ma anche del motivo per cui non scarica Salvini: «Mai dividere la Lega...». Ride Umberto Bossi nelle foto che i fan si girano su WhatsApp. Sembra prepararsi alla sua terza o quarta vita, addirittura con qualche chilo in più: in ospedale non gli hanno consentito di dimenticarsi di mangiare, così come è successo per tutta la vita. Come il suo vecchio amico, Silvio Berlusconi, l’Umberto non è affatto convinto che sia venuto il tempo della pensione. A dire il vero, nemmeno è convinto che sia venuto il momento di dire addio ai Garibaldi, i sigari che hanno avvolto in una nuvola di fumo acre tutta la sua esistenza, nonostante i medici non smettano di tormentarlo con raffiche di istruzioni sugli «stili di vita». Il 14 febbraio scorso, il nuovo malore avrebbe potuto suggerirgli di darci un taglio. Ai Garibaldi e alla politica. E invece no. Acciaccato, snobbato da quelli che gli devono una vita agiata e ossequiata, tallonato da processi e centrato da condanne, eccolo lì a commentare le Europee come se fossero state una partita sua personale. Eccolo borbottare maledizioni contro la storica addetta stampa Nicoletta Maggi perché la rassegna che lei gli invia è, per precisa scelta di contenimento dello stress, magra assai. Ed eccolo che cerca di farsi portare quei sigari che nessuno è più disposto a passargli: «Non voglio mica essere io ad ammazzarti». L’autunno del “Capo” non è a tinte dorate. Anche adesso che persino i bossiani storici — fuori tutti quanti, ormai, dalla Lega di Matteo Salvini — hanno smesso di tirarlo per la giacchetta, lui non si dà per vinto. Non ha smesso di scrutare le cose della politica con il suo sguardo accigliato. E di infiammarsi per quelli che considera errori, quasi sempre di Matteo Salvini e di Silvio Berlusconi. Vede non molte persone, quelle che ancora chiedono di andare a trovarlo. Ma neanche tutte, perché il cerchio famigliare — non più «cerchio magico» — non ha smesso di vigilare. E sarà forse per questo che lui, l’Umberto, con i visitatori non parla che di «quando tornerà»: a Roma, agli innumerevoli caffè da Giolitti (vietati) e alle chiacchiere con i cronisti che, invece, continuano a chiedergli la sua visione...

Bobo Maroni: "Vi svelo tutto sulla Lega". L'amicizia con Bossi ed i rapporti con Salvini. L'amore per il blues e il mare. La nuova vita di Roberto Maroni, scrive Luca Telese il 6 febbraio 2019 su Panorama.

(Sospiro maroniano. Ovvero quasi impercettibile e vagamente divertito). Una volta chiuso con la Regione Lombardia ho potuto realizzare il sogno della mia vita.

Fare l’avvocato d’affari?

«Macché! Traversare l’Atlantico».

Come, come?

«In barca a vela, ovviamente. Nel modo più bello di viaggiare in mare».

E quindi vuoi dirmi che mentre fondavi la Lega, mentre Maroni era deputato, faceva il ministro, governava la regione più ricca d’Italia, dirigeva un partito, vinceva e perdeva congressi, battezzava e faceva cadere governi, già desiderava l’oceano?

«Da sempre: fin da ragazzino».

Non ci credo.

«Sono appassionato di barca a vela, di viaggi, di mare. Ma l’oceano, è la dimensione più alta di questo desiderio»

Cioè?

«L’acqua di un lago è pace, speranza, ma ha un confine. L’acqua di un mare italiano è un viaggio bellissimo, ma in uno spazio dato. L’acqua del Mediterraneo è la culla di una civiltà, il confine della storia. Ma l’oceano è una distesa sterminata, adrenalina pura, sguardo senza confine, è il punto in cui capisci che sul pianeta c’è più mare che terra.

Detto così sembra la pagina di un romanzo conradiano».

Ma con chi ha fatto il viaggio?

«Con l’Arc, l’Atlantic race contest. È una organizzazione che ogni anno riesce a coordinare 200 barche: una cosa a metà strada fra una spedizione e una regata».

Che rotta?

«Siamo partiti da Las Palmas, alle Canarie. E abbiamo fatto tappa a Santa Lucia un’isola rasta e reggae. Un po’ fumata, in tutti i sensi».

Cos’è un sussulto antiproibizionista?

«No: un ricordo festoso e bellissimo».

Duecento barche?

«Sì, ma dopo la partenza ci siamo persi di vista fino all’arrivo».

Pericoloso?

«Tutto avviene - relativamente -  in sicurezza, monitorati da una torre di controllo virtuale. Ma poi sei tu, solo con i tuoi sei compagni di viaggio».

Quanto italiani?

«Solo lo skipper: si chiama Sergio Morbidelli, faceva l’architetto, poi dopo tre anni ha cambiato vita, venduto lo studio, ha comprato questa barca e si è reinventato.

Eravate a bordo dell’Alcalde 5.

«Oltre a lui e me c’erano due canadesi e due sudamericani».

Con cui avete condiviso tutto.

«Intanto la vita. Dovevamo organizzare turni di guardia ogni tre ore, 24 ore su 24. Ci sono gli strumenti di controllo, ovvio: ma in ogni momento puoi sbattere contro qualcosa. Il tuo destino è nelle mani dei tuoi compagni, e viceversa».

Eravate su un catamarano a vela.

«Mai usato il motore, nemmeno un minuto».

E il turno più bello?

«Tutti. Ma da mezzanotte alle 3, dalle 3 alle sei, vedi cose incredibili.

Il cielo.

«Al buio ti abitui presto: e quando accade sei pronto per il grande spettacolo».

Quale?

«Con la luna piena è come se fosse giorno. Con la luna nuova è come stare in cielo. Ho visto dieci stelle cadenti a novembre».

Dieci desideri.

«Non ne avevo uno di più: ero già in paradiso».

Prova a raccontarlo.

«Quando sei sull’oceano vedi a 180 gradi, sei vicino alle luci del cielo, una volta celeste come mai.

Avete pescato durante la regata?

«Certo, con la traina».

Tirare fuori un tonno dall’acqua vivo?

«Per forza, è l’unico modo: con abilità e fatica. E siccome non puoi percuoterlo, e nemmeno sgozzarlo con un coltellaccio, arriva il trucco dello skipper».

Quale? 

«Rum nelle branchie. E lui se ne va via in un attimo: muore soffocato, ma in un secondo. Forse muore persino felice».

Qui siamo dalle parti di Ernest Hemingway. E poi?

«Accade quello che non ti aspetti. Lo skipper tira fuori la macchina per la pasta».

E che ci fa?

«I ravioli! Ripieni al tonno. In nessun ristorante del mondo puoi mangiare un piatto così fresco, con questi sapori, questo senso di semplicità assoluta».

Maroni marinaio, come nella canzone di Dalla e De Gregori?

«La barca non è la nave: se togli i pasti e le guardie viaggi da solo, sei solo: tu con il mare, senza telefonino».

C’è il satellitare.

«Che però serve solo per gli s.o.s. Sei con te stesso per 17 lunghi giorni».

Ma era una gara?

«(Nuovo sorriso). Ah, già. Tra i catamarani, nella classifica ponderata, siamo arrivati secondi in assoluto. Mica male».

E la prova più grande?

«Il viaggio. E la separazione totale dalla tua vita di sempre. Ho riflettuto sul fatto che mai per così tanto tempo ero stato sconnesso dal mondo».

E quando dopo 3.200 miglia hai riacceso il cellulare?

«Ci sono rimasto malissimo. Ho realizzato che il mondo è andato avanti senza di me».

Se pensavate di sapere tutto di lui, non è così. Roberto Maroni, detto Bobo. Ha detto che lasciava la politica non ci ha creduto nessuno. Lo ha fatto. Ha 63 anni e ha quattro vite alle spalle. Oggi, visto che può raccontarsi senza autocensura, ripercorrere tre lampi di storia passata diventa esilarante. Soprattutto perché nel tempo del governo gialloverde quello che conosce meglio «il verde» è sicuramente lui. Che ha fondato quel partito»

Mi interessa il romanzo di formazione del giovane Bobo. Da che famiglia vieni?

«Mio papà lavorava in banca, impiegato, iscritto ai liberali, ne senso del vecchio Pli: Prima repubblica».

E tua madre?

«(Sospiro maroniano profondo). Ehhh... Mia madre aveva un negozio».

Ed è una cosa così complicata?

«Ma, vedi, dire negozio è poco... Intanto ho scoperto che io, cioè i Maroni, abitiamo a Lozza, un paesino di mille anime alle porte di Varese, dall’inizio del Seicento».

Hai fatto indagini?

«Sì, nei registri della parrocchia. Fino a metà del 700 se era donna si chiamava «Marona», se era uomo «Marone», poi diventano «Maroni».

Ma la relazione col negozio di tua madre?

«È il mondo dove sono cresciuto. Negozio senza insegna perché negozio di tutto»

Tutto?

«Dal prosciutto ai giornali, al filo da cucire».

Sulle chiese c’è forse scritto «chiesa»?

«No. E nemmeno nello spaccio di mia madre. Pensa che era aperto tutti i giorni, compresa la domenica mattina, e che lei - morta a 90 anni - non ha fatto un solo giorno di ferie in vita sua. Non UNO!»

Ma non è possibile! E al mare da bambino non ci sei andato mai?

«Mai con lei. Con i nonni, gli amici, le zie, ma lei no, lei era... un servizio sociale e non poteva assentarsi. Ecco, la cultura del lavoro al Nord può essere questo».

E tu ci hai lavorato a bottega?

«Ovviamente. E ci vivevo. Avevo a disposizione tutto. Quindi anche i giornali, tutti, che leggevo avidamente».

Cosa hai scoperto in quel mondo?

«Per esempio il valore della fiducia. Tu immagina che il soldi apparivano solo una volta al mese. Segnavamo cifre sul libretto, poi, quando si pagavano gli stipendi, arrivavano, chiedevano «Quant’è?» e pagavano. Fiducia totale».

Un credito al consumo.

«Tutte le donne, sempre in negozio, a parlare di tutto. E io ascoltavo. Dalle corna alle feste a... «Hai visto quel tipo in paese?».»

Ronde padane?

«Controllo del territorio. Dalle 6,30 alle 20».

Ma è vero che portavi l’eskimo e ti chiamavano «bosco» ed eri marxista leninista?

«Allora: mia madre, non so perché, mi faceva prendere - in negozio - solo pantaloni di velluto marrone. L’eskimo era la divisa tipo dei giovani di sinistra».

E tu?

«Ero sempre in pantaloni marroni, giacca verde, lei mi sfotteva: «Mi sembri un albero!», e «Bobo» divenne «Bosco».»

Ma tu eri marxista?

«Sì. E sono rimasto in fondo, un leghista leninista. Sognavo la rivoluzione comunista, ho incontrato quella leghista».

Ho capito, ma a Varese dove l’avevi trovato il comunismo?

«Primo liceo, il professore di filosofia. Anno 1971. Indimenticabile la sua prima lezione: «Vi spiego il nuovo contratto dei metalmeccanici».»

Non ci credo.

««Questa sarà la piattaforma della Fiom. Articolo uno...».»

Pessimo professore? 

«Bravissimo. Molto anni dopo si candidò per Rifondazione alla Provincia, divenne consigliere. Mi fece innamorare di Marx, ma anche della storia e della filosofia».

Come?

«Aveva un metodo tutto suo. «Primo: niente libro di testo». Secondo: «Prendete gli appunti delle mie lezioni e studiateli».»

Terzo?

«La filosofia per temi. Tipo: «La conoscenza», «il fenomeno», «la realtà»...Rendeva attuali i presocratici. Sentivi che quella materia ti stava svelando il tuo mondo».

C’era altro?

«No, ma spiegava da Dio. Pensa che dopo essermi diplomato lo incontrai per strada e gli gridai felice. «Professore! Mi iscrivo a filosofia».»

E lui?

«Mi gelò: «Al massimo potrai fare politica».»

Ah ah ah. E tu?

«Rimasi così colpito che passai a giurisprudenza».

E Bossi dove diavolo lo peschi? Hai sempre raccontato di un incontro folgorante ma come?

«Ehhh... È una storia da Sliding doors. I casi della vita, gli incroci».

Che significa?

«Tutto parte da Andrea, mio carissimo amico, vicino di casa: era di sinistra, ambientalista convinto».

E che c’entra?

«Un giorno del 1979 arriva e mi fa: «Sulla Prealpina ho letto un articolo di un certo Bossi, contro una speculazione».»

E allora?

««Voglio andare a incontrarlo, può essere importante, per me. Ha una grande sensibilità verde». Così dico: «Ti ci porto io». Anche se a me l’ambiente sembrava allora un tema moto marginale».

E cosa accadde?

«Umberto iniziò a parlarci, un fiume in piena. Qualcosa del tipo: «Questi sono i temi del futuro: territorio, autonomia, tasse, libertà. Questa sarà la rivoluzione!». E poi: «Il mondo delle ideologie sta morendo!». E ancora: «Il muro di Berlino cadrà, è il mondo cambierà!».»

Nostradamus padano. 

«Sì, ma capisci? Parlava di rivoluzione e lo diceva a un leninista! Mi ha catturato».

Tornate convinti?

«Ah ah ah: quel che sedusse me respinse Andrea: «Vedi? Dell’ambiente non gli interessa nulla. L’articolo era solo strumentale». E aveva ragione. La vita è così: ciò che apre la porta a uno, la chiude a un altro».

Eravate quattro gatti dietro a Bruno Salvadori, che vi finanziava, racconterà Bossi.

«Salvadori, uomo generoso, voleva portare l’Union valdotaine fuori dalla Valle d’Aosta. Fece una riunione molto importante con noi e ci disse: «Vi aiuterò economicamente».»

E cosa successe?

«Umberto si esaltò. Era ciò che voleva sentirsi dire. Così affittammo la sede, aprimmo un giornale, stampammo volantini e manifesti».

Bene.

«Solo che non avevano una lira. E Salvadori morì in un incidente dopo questa riunione».

E quelli dell’Union?

«Ci dissero: «Non vi daremo una lira!». 

Bossi ha raccontato che si dovette caricare i debiti, ma che quello fu il primo passo della Lega.

«Vero. Ma con un dettaglio. I debiti non li pagò lui, ma io, anzi, mio padre».

Cosa c’entra tuo padre?

«Questa sembra un po’ fantozziana: dunque, fondammo la Scedno...»

La che?

«Società cooperativa editoriale del Nord ovest».

Ah, chi trovava i nomi?

«Umberto, dove per Nord ovest, però, non s’intendeva quello d’Italia, ma della Lombardia!»

E chi era il presidente?

«Questo è il bello. Umberto mi disse: «Il presidente fallo tu, che sei avvocato!».»

Generoso.

«Uhhh!!! Dopo qualche mese e due soli numeri della rivista, mi chiamò l’Ufficio provinciale del lavoro: «Vi abbiamo messo in liquidazione coatta». C’erano già 7 milioni di lire di debiti!»

Erano tanti?

«Dimmelo tu: io lavoravo in banca e guadagnavo 700 mila lire al mese!»

Ma non avevi intuito la fregatura?

«Sì, ma Umberto era una mago. Vide che tentennavo e mi disse: «Roberto, pensaci: fra pochi anni i lombardi metteranno la tua foto sui loro comodini!».»

Ah ah ah.

«E poi io volevo fare il giornalista».

E che c’entra tuo padre??

«Mi fece una scena madre, «Te l’avevo detto!!! Te l’avevo detto!!!». Ma l’idea di suo figlio sporcato da una macchia contabile era per lui insostenibile. Tirò fuori il libretto degli assegni e andò a pagare. Altro che Bossi!!!»

È vera la storia di voi due che fate scritte sui muri dei cavalcavia?

«Non come è stata raccontata da Umberto. Nel senso che è ancora più bella».

Sono tutto orecchi!

«L’unica macchina della Lega era la «500» del negozio di mia madre...

Pure!

«Sì perché la domenica ci consegnavano il pane. Avevo tolto il sedile anteriore per mettere il cesto. E così Bossi si sedeva dietro e metteva davanti il secchio di vernice».

E andate a scrivere: «Lega».

«Peggio. Io facevo il giro in auto, perché non potevo sostare, e vedevo la scritta che si allungava. Primo giro: «Leg..». Secondo giro: «Auton...». Terzo giro: «...onomista lombar...».»

«Da»!

«No, non ci riuscì. Si gettò nella macchina gridando: «La polizia!». Nella foga si scordò che il sedile mancava, mise il secchio, fece per sedersi e ci finì letteralmente dentro. Ah ah ah...»

E tu ridevi?

«Io piansi. La mattina dopo con mia madre che urlava: «Avete distrutto la macchina del negozio!!!».»

Avevi un lavoro ma hai seguito un pazzo come Bossi, perché?

«Aveva davvero un istinto da rabdomante. Diceva: «Si deve fare così». Talvolta non sapeva perché, ma aveva ragione».

E la leggenda del Maroni bluesman come nasce?

«Mia madre mi regalò una fisarmonica, e mi obbligò a prendere lezioni».

Per imitare B.B. King?

«Nooo... Il ballo liscio».

E lo hai suonato?

«Intanto per un anno ho preso lezioni di solfeggio. E mi prendevano per culo, gli altri, tanto che pensai di passare al piano».

Hai ceduto?

«No, mi dissi: «Stronzi, non ve la do vinta!». E mi buttai sul blues»

Vero che hai suonato in chiesa?

«Per dieci anni, ho sposato i miei amici. Nel 1976, dopo la sentenza della Corte costituzionale, nascono le radio libere, io e i miei amici fondiamo Radio Varese».

Cosa facevi?

«Di tutto».

Per esempio?

«Una trasmissione sulle note degli Inti Illimani: leggevo commosso brani del diario del Che in Bolivia. Era il 1977 ma qualcuno mi guardò strano quando iniziai a occuparmi di tradizioni locali e parlare in dialetto alla radio».

E poi suonavi nel gruppo.

«Sì, con un repertorio molto rock. Scoprimmo Springsteen, quando nessuno da noi nemmeno ne conosceva il nome».

E dove suonavate?

«Alle feste de L’Unità, per esempio. Ci pagavano zero. Ma si mangiava bene».

Qualcosa guadagnavate?

«Zero. Elio scriveva anche dei brani. E io diedi l’esame da «compositore melodista» alla Siae, per incassare i diritti».

Sei stato tu a compiere il parricidio, a uccidere la leadership di Bossi.

«È avvenuto tutto quasi casualmente. Ma prima devi sapere una cosa».

Quale?

«Come nasce l’espressione «cerchio magico».»

Oggi usata per tutti...

«Esatto. Nel 2004, quando a Umberto venne l’ictus per la prima volta lui fu sottratto a tutti noi».

Cioè?

«Fisicamente. A me, per esempio, fu impedito di vederlo. Nacque quel gruppo, intorno a Rosi Mauro, che letteralmente lo sequestrò».

Il cerchio.

«Ma divenne «magico» quando chiamarono una maga friulana che convinse Bossi: «Tu devi avere intorno un cerchio di persone con luce positiva che ti proteggano dagli influssi astrali maligni...».»

Mamma mia. Lui ci credeva?

«Noi lo abbiamo saputo solo dopo».

Tuttavia sei tu che hai celebrato il parricidio nella serata delle scope, quella senza cui non esisterebbe la Lega di Salvini.

«Fu tutto improvvisato, durante una manifestazione, a maggio 2012».

Non ci credo.

«I guai erano iniziati a gennaio, quando, in una riunione della Lega, un dirigente molto importante oggi salviniano, alla fine di una riunione dice: «A proposito scusate: Bossi mi ha appena detto che Maroni non potrà più andare in sezione, né fare comizi o cene con i militanti».

E chi era il dirigente?

«(Pausa). Uno bravissimo, ma che già allora non brillava per coraggio, diciamo: Giorgetti».

Ah. Avrebbe potuto ribellarsi?

«Forse quella sera no. Ma il giorno dopo sì».

Altri lo fecero?

«Mi chiamarono centinaia di persone, tra cui Boso, e un altro giovane dirigente che mi dissero: «È una porcata, ci dobbiamo ribellare!». E sai chi era il giovane?»

Si chiamava Matteo?

«Salvini, esatto».

Ma la fatwa per cosa era scattata?

«Per aver parlato - rivelandola - dell’inchiesta sui diamanti, al Secolo XIX. Dicevano che da ex ministro dell’Interno non potevo non sapere».

Ed era vero?

«Ma figurarsi: una cazzata totale».

Lo diresti, oggi?

«Ma certo. Cosa vuoi che si sapesse, al Viminale, di un procuratore genovese che indagava Francesco Belsito?»

Invece divenne: «Il traditore Maroni complotta contro Bossi».

«Tra l’altro non poteva inibirmi le sezioni».

E perché?

«Per statuto i pochi che avevano partecipato alla fondazione della Lega avevano uno status di particolare tutela. Io ero tra quelli».

E poi che è successo?

«Montò la protesta. Mi invitavano in tutte le sezioni d’Italia. A Varese predemmo il più grande teatro della città e metà della gente restava fuori. E sai chi era l’unico dirigente di peso assente?»

Non me lo dire.

«(Sorriso). Giorgetti».

Ce l’hai con lui?

«No, siamo amici. È una persona di grande valore, ma diciamo che non rifugge per coraggio politico».

Ma tu parlavi con Bossi, durante questa guerra?

«Oh sì. Ed eravamo anche d’accordo. Solo che lui era indotto dal cerchio, e cambiava idea. Sono stati giorni drammatici»

Le inchieste proseguivano. 

«A maggio arrivò la polizia e il procuratore Woodcock. E poi le rivelazioni sul Trota, la laurea, the family...»

E cosa dicesti a Bossi?

««Umberto, facciamo un congresso. Mi candido, faccio il segretario. Non è contro di te, e tu fai il presidente».»

E lui?

«Mi dice: «Hai ragione». Poi il giorno dopo è lì che grida: «Traditore!». Non è facile deporre un padre padrone. A Bergamo, mentre salgo sul palco, vedo che dei giovani avevano portato delle scope. Ne prendo una e la sollevo, d’istinto: tutti mi imitarono».

Un anno prima sarebbe stato impossibile.

«Vero. E poi mi candidai, come è noto, alla presidenza della Lombardia e feci vincere Salvini».

Come?

«(Sorriso). Mi inventai le primarie, aperte solo ai tesserati. E poi, con una serie di scuse e trucchi depennai le altre candidature».

Brogli?

«Massí: termini, firme, contestazioni di irregolarità. Cose che nei partiti si fanno».

Ma perché? 

«La sfida doveva essere solo tra Salvini e Bossi: futuro contro passato. Quella neanche Umberto poteva vincerla».

Ma come era iniziata?

«Da Pontida 2011, dove apparve uno striscione «Maroni presidente».»

C’era la crisi del governo Berlusconi.

«Esatto»

Però eri inseguito dalle accuse di doppiogiochismo fin dal 1995, quando tu e Bossi vi divideste sul ribaltone.

«Io ero contrario al governo con D’Alema. Berlusconi mi disse: «Passa con me ti faccio capo di Forza Italia». Rifiutai».

Venisti umiliato pubblicamente. 

«Nel febbraio 1995 fui contestato da 10 mila persone al Consiglio federale».

Dura?

«(Risata). Piovve di tutto dalle ingiurie agli oggetti».

Di che tipo?

«Mi arrivarono anche dei fiori. Ma con il vaso attaccato!»

Era preparata da Umberto?

«No, spontanea. Lui mi difese: «Non rompete i coglioni a Maroni. Ci penso io».

A far cosa?

«Per espiare mi spedì in Calabria a fondare la Lega Italia federale».

Grande esperienza? 

«Uhhh! Pensa che un giorno stavano eleggendo il nuovo segretario: «Che bello, anche lui avvocato», penso. Poi mi informo e scopro che difendeva i mafiosi. Andai da Bossi e dissi: «Finiamola qui».»

Ma vi amate o vi odiate?

«Lo considero il mio fratello maggiore».

Come ha fatto la Lega a non morire?

«Si salvò perché c’erano i militanti»

Un’intuizione di Bossi che non avevi capito?

«L’indipendentismo. Per lui fu la scelta naturale, dopo la rottura con il Cavaliere»

Con Salvini invece siete rivali.

«Altra balla. L’ho incontrato a Roma da poco a Roma: c’è un rapporto di amicizia fondato sul fatto che io non dimentico quello che ha fatto per me e lui viceversa».

Non è vero che siete rivali?

«Tutte cazzate.

È figlio tuo o di Bossi?

«È figlio della Lega».

Nel 1992 eri un dirigente d’azienda guadagnavi benissimo, mollasti tutto e ti candidasti alle politiche. Follia?

«L’ho l’ho sempre pensato. Ma non volevo avere un rimpianto. Per fortuna».

Hai mai restituito i sette milioni a tuo padre? Soldi ben spesi, dopotutto.

«No, mai. Morì nel 1991, senza vedermi deputato. Il mio più grande rimpianto».

Sei ricco?

«Figurati. Da presidente della Lombardia prendevo 100 mila euro lordi l’anno e dovevo pagarmi anche gli alberghi!»

Adesso che fai l’avvocato e l’advisor per grandi aziende ti sei rifatto?

«Guadagno di più che in Regione. Curo i rapporti con la Pubblica amministrazione. È una cosa nuova e la faccio bene!»

Sei stato barbarico e ora critichi l’antipolitica?

«Barbaro non vuol dire scemo: Di Maio col biglietto low cost per la Cina è idiozia».

Ma perché?

«Parli con capi di Stato che si chiedono: «Non hai neanche i soldi per finire in business e vuoi vendere l’Italia a me?». Gli status sono il racconto del valore».

Sei avvelenato con il M5s?

«Nel nuovo Codice antimafia hanno equiparato i reati dei politici contro la Pa alla mafia! Scatta il sequestro preventivo dei beni. Follia».

Cosa pensi del governo gialloverde?

«(Sospiro molto maroniano). E la domanda di riserva?»

Ma non sei libero di dire tutto quello che pensi, ora?

«Non condivido alcuni provvedimenti contrari agli interessi dei ceti produttivi del Nord. Per esempio il Reddito.

Condividi gli sgomberi, invece?

«Sì. Io ho fatto di peggio: i clandestini li ho riportati in Libia. Ho fatto la legge sulle ronde.... in fondo sono diventato sia segretario che ministro prima di Matteo. Questo record non può batterlo, eh eh!»

Sei un oppositore?

«Ma figurati, Ti ho detto che sono leninista. L’unica critica che faccio è aver lasciato tutte le deleghe che interessano i produttori del Nord a Di Maio».

Non è critica da poco.

«Basterebbe riprendersi qualche delega dopo le europee con i nuovi rapporti di forza.

La vecchia Lega è stata divorata da quella di Salvini?

«(Pausa teatrale). La Lega è immortale.

Il 12 aprile del 1982 con Bossi, sua moglie, Giuseppe Leoni, Pierangelo Brivio, Marino Moroni ed Enrico Sogliano hai fondato della Lega lombarda. Sei l’unico ancora su piazza.

«Come ti ho detto faccio l’avvocato».

Quando hai capito che quel gruppo di matti aveva lasciato il segno? 

«Quando, dopo Mani pulite vidi che da Craxi, ad Andreotti, a Forlani al Pci ci attaccavano tutti, un giorno mi dissi: «Abbiamo vinto».» 

Sei l’ultimo fondatore del più antico partito della politica italiana.

«Ommamma. Pensa come stiamo messi.» 

Maroni: «Sul caso Russia ho un’idea. Salvini mi salvò dalla fatwa di Bossi». Pubblicato lunedì, 05 agosto 2019 da Vittorio Zincone su Corriere.it. Fa il lobbista e l’avvocato. Spiega: «Mi occupo di Public & Government Affairs. Ho più tempo per le mie cose». Roberto Maroni è un leghista poco barbarico, ex ministro degli Interni, ex vice premier, ex leader del Carroccio ed ex presidente della Regione Lombardia. Lo incontro il giorno dopo una lunga sessione di prove con la sua soul band. C’è un concerto in vista all’Università di Varese.

Domando: «Suona ancora l’organo Hammond con i Distretto 51?».

E lui: «Certo. La nostra musica è quella di Wilson Pickett. Lo sa che l’ho conosciuto?».

Quando?

«Nel 1995. Al Soul Festival di Porretta Terme. Indossava una maglietta con sopra scritto Radio Mafia. L’organizzatore me lo presentò e gli disse: “Roberto era ministro”. Wilson replicò: “Fanculo, mi prendi in giro?”». 

Da un paio di anni Maroni coordina anche i contributi dei big al corso di Pragmatica Politica dell’Università di Pavia. I relatori più efficaci?

«Gianni Letta, ovviamente. E Chiara Appendino. Non do un giudizio positivo sulla sua sindacatura, ma ha capacità, profondità e concretezza».

Chiedo a Maroni se, da quando nel 2018 ha abbandonato l’agone politico, stia coltivando di più l’antica passione per la vela. Comincia a raccontare con orgoglio la traversata atlantica in catamarano dell’anno scorso: «Eravamo in sei. Ventidue giorni senza telefono. Quando siamo arrivati a Santa Lucia, nei Caraibi, ho riacceso il cellulare e ci sono rimasto male».

Perché?

«Mi sono accorto che in quelle tre settimane il mondo è andato avanti anche senza di me».

Lo riporto alle beghe italiane. Sul Russiagate è un po’ vago.

Dichiara: «Conosco bene sia Gianluca Savoini sia Claudio D’Amico, posso immaginare che cosa sia successo». Aggiunge: «Da ex ministro dell’Interno ho una mia idea sulla vicenda, ma la tengo per me». Sull’affaire “autonomie”, invece, dice di essere sorpreso del fatto che Matteo Salvini non abbia fatto suo l’accordo firmato da Maroni stesso e da Luca Zaia con il precedente governo dem: «Abbiamo ottenuto che non potesse essere modificato in Parlamento, come un trattato internazionale». 

L’accordo del 2018 con il premier Paolo Gentiloni è più leghista di quello portato avanti dal governo giallo-verde? 

«Più nordista. Prevedeva molte risorse aggiuntive. Credo che la prudenza di Matteo Salvini sull’autonomia sia dovuta alle pressioni che riceve dalla Lega del Sud». Maroni è stato uno dei fondatori della Lega Nord. Avendo partecipato alla dichiarazione d’indipendenza della Padania, nel 1996 a Venezia, è stato processato per depressione del sentimento nazionale. Nel 2012, da leader leghista, introdusse lo slogan «Prima il Nord».

Ora Salvini urla «Prima gli italiani», cancella il Nord dal simbolo e parla ai meridionali. Ha snaturato il Carroccio? 

«Non è un cambio di natura. È un’evoluzione. Una scelta coraggiosa. Le urne gli stanno dando ragione».

Il segreto del successo di Salvini.

«Ha innovato la comunicazione ed è bravo. Non ha un’opposizione degna di questo nome fuori dal partito. E rispetto all’altro Matteo, cioè Renzi, non ha un’opposizione interna». 

La Lega monolitica del leader Salvini. 

«Sembrerà stravagante come interpretazione, ma credo che Salvini oggi sia una sintesi tra Umberto Bossi e Silvio Berlusconi. Entrambi aspiravano al partito egemone. Di Bossi ha il fiuto e la capacità di guardare avanti». 

E di Berlusconi... 

«L’uomo solo al comando, il partito virtuale, leggero».

Parlando della Lega salviniana, Maroni inizia a raccontare di voci che circolano tra i militanti che temono un cambio antropologico anche troppo profondo: «C’è chi sostiene che potrebbe non esserci più il SOM». 

Che cos’è il SOM? 

«Il socio ordinario militante, quello con diritto di elettorato attivo e passivo. Si diventa SOM dopo una lunga trafila e una serie di valutazioni. E ogni anno la qualifica viene messa in discussione. Questa selezione ha garantito alla Lega di sopravvivere a mille tempeste. L’avevamo immaginata io e Bossi tra il 1986 e il 1987 per evitare l’assalto alla diligenza leghista da parte di ex di altri partiti. Credo che Salvini ora pensi: “Il consenso lo porto io, non i militanti o le sezioni”. E poi destrutturare un partito strutturato vuol dire evitare troppi conflitti interni». 

Lei quando ha conosciuto Salvini? 

«Le dico quando è entrato nella mia top ten dei leghisti». 

Quando? 

«La sera di venerdì 13 gennaio 2012. Una premessa: in quel momento ero stato accusato dal Cerchio magico bossiano di aver spifferato al Secolo XIX la storia dei diamanti. Era falso. Ma il Consiglio nazionale della Lega lombarda, di cui Giancarlo Giorgetti era segretario, su suggerimento di Bossi, decise che non avrei più potuto partecipare alle feste e ai comizi della Lega. La fatwa. Quel venerdì Salvini mi chiamò e disse: “È una follia. Ci penso io”. Cominciò a organizzare incontri coi militanti, invitandomi. A quello di Varese parteciparono trentamila persone. Indovini chi era l’unico leghista mancante?».

Chi? 

«Giorgetti».

Ora Giorgetti è sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Lei di lui ha detto che non ha coraggio. È in fondo alla sua classifica dei leghisti preferiti? 

«Giorgetti si piegò alla linea del Cerchio magico, di Rosy Mauro, di Mauro Belsito. Poteva opporsi e invece ne avallò le decisioni. Mi ha messo due dita negli occhi...».

Nell’autunno 2013 lei contribuì a far eleggere Salvini leader della Lega. 

«Ero diventato presidente della Regione Lombardia e convocai il congresso per trovare il mio successore alla segreteria federale. Bossi si candidò. Io introdussi le primarie. Prima del voto, però, depennai alcune candidature: mi sembrava giusto che lo scontro fosse tra il vecchio, Bossi, e il nuovo, Salvini. In quell’occasione pur essendo leninista mi sono comportato da stalinista». 

Lei si considera leninista? 

«Il partito prima di tutto». 

Come sta Bossi?

«Non voglio parlare delle sue condizioni di salute». 

Vi conoscete dal 1979. Quarant’anni. 

«La prima manifestazione insieme è del 1980. A Como». 

Il comizio all’hotel Como con tre persone ad ascoltare, una delle quali era un fascistone che aggredì Bossi.

«Bossì schivò il colpo e gli spaccò il naso con un pugno. Con noi c’era anche Bruno Salvadori dell’Union Valdôtaine, che aveva promesso di finanziarci. Bossi, saputa questa intenzione, aveva cominciato a spendere e spandere: il giornale Nord Ovest, una sede in centro a Varese... Salvadori, però, a giugno del 1980 morì in un incidente stradale e a noi restarono i debiti».

Chi li pagò? 

«Bossi ha raccontato di averli pagati lui. In realtà ci pensò mio padre».

È vero che Bossi la chiamava a qualsiasi ora della notte? 

«Sì. Quando rientrava dai suoi giri sul territorio, verso le due o le tre. Una volta, ‘91, mi buttò giù dal letto perché la polizia stava sgombrando una nostra occupazione di un cantiere dove si costruivano barriere autostradali. Per quindici giorni avevamo convocato militanti da tutte le regioni».

La Lega come i No Tav. 

«Eheh. Eravamo lì per protestare contro i pedaggi. Volevamo che la Varese-Milano fosse gratis». 

Lei prima di essere leghista votava Democrazia Proletaria, Bossi il Pci. Ora il suo terzogenito, Fabrizio, 21 anni, si è presentato con una lista di sinistra a Lozza, il paese del Varesotto dove vivete. 

«Ha preso più voti di tutti. Ho letto molti articoli che dicevano “Maroni Junior contro la Lega”». 

È rimasto contrariato? 

«No. Io sono per la libertà assoluta. L’importante è che rimanga milanista». 

Visto il DNA di sinistra di Bossi e suo, non le dà fastidio il successo di Salvini tra gli esponenti di ultradestra di tutta Europa?

«Bossi sin dall’inizio disse che la Lega non era né di destra né di sinistra, perché era del Nord. Ricordiamoci che da noi arrivò Mario Borghezio».

Storico europarlamentare leghista. 

«Beh, se vogliamo dirla tutta, in confronto a Borghezio quelli di CasaPound sono dei dilettanti».

Le origini - Roberto Maroni è nato a Varese il 15 marzo del 1955. Dopo gli studi classici si è iscritto a Giurisprudenza e ha cominciato a occuparsi di politica, militando in Democrazia Proletaria. Nel 1979 ha incontrato Umberto Bossi.

La Lega - Maroni, il Senatur e un ristretto gruppo di militanti ha fondato la Lega Lombarda il 12 aprile del 1982. È stato segretario federale del partito dal 1° luglio del 2012 al 15 dicembre del 2013. Ha creato la corrente dei Barbari sognanti, in contrapposizione al Cerchio magico del leader.

I ruoli politici e istituzionali - Eletto deputato nel 1992, è stato capogruppo del partito. Ministro dell’Interno e del Lavoro nei governi Berlusconi, ha poi guidato la Regione Lombardia dal 2013 al 2018.

Maria Brunelli per “il Giornale” del 7 agosto 1996. Via Bellerio, Milano, in un immenso isolato sono riunite la sede della Lega Lombarda e della Lega, Nord. Mancano pochi minuti alle cinque e tra i fedeli che gravitano intorno al quartier generale c’è l’animazione che precede l'arrivo del Capo Padano. Un autista con barba fluente confida le res gestae al portiere: «Questa notte abbiamo fatto le sei». Noi veniamo introdotti al secondo piano, il piano nobile dove il senatore ha il suo studio e la segretaria - gamba corta in minigonna - ci fa attendere in un ampio salone. Alle pareti le foto storiche dell'ascesa di Bossi: folle plaudenti, convention di Pontida, incontri con Berlusconi sulla testa del quale una mano dissacratoria ha disegnato le corna. Alle cinque più qualche minuto veniamo ammessi alla presenza del senatore, nel suo studio privato. Ci accoglie con un impaccio da falso timido che prende tempo. Polo blu, toscano in bocca, alle sue spalle un Alberto da Giussano in mosaico con la spada sguainata verso la finestra. Gli abbiamo fatto sapere in anticipo l’argomento della nostra intervista, i peccati capitali e la lussuria in particolare ma non è del tutto convinto di dove vogliamo andare a parare e ci scruta attentissimo, senza darlo troppo a vedere, da dietro le lenti.

«Non sono abituato a rispondere a queste domande», si cautela il teorico del celodurismo, poi, rassicurato dal fatto che la lussuria è un sentimento «caldo», per eccesso, si compiace e sta al gioco. «Una volta, quand'ero ragazzo, passeggiavo sul lungolago di Arona con il mio primo amore e passando davanti a un bar ho sentito un fischio di apprezzamento. Ci ho visto rosso e sono subito tornato indietro a chiedere spiegazioni. Il fischiatore ha fatto il furbo, ha tergiversato da vile e io gli ho mollato due destri che lo hanno steso knock out. Ero aggressivo, da giovane, e non so più quante volte mi sono picchiato per le ragazze. A poco a poco, in seguito, ho imparato a razionalizzare».

A razionalizzare che cosa?

«I miei impulsi, è evidente - spiega inoltrandosi in una teoria sulla "razionalizzazione" - li ho trasformati in grinta, perché un uomo deve esser grintoso, e in capacità di combattere contro tutto quello che mi sembra ingiusto e mi ha sempre fatto arrabbiare. In politica ho agito da grimaldello, mi sono battuto contro una catena di schiavitù; contro personaggi squallidi...».

Abituato com'è a tenere comizi s'infervora nel discorso politico. Ci ricordiamo bene le sue invettive contro i «pirletti», i «magnaccia»,  i «ladroni», le minacce da Gargantua di Cassano Magnago «con una pernacchia gli facciamo venire i capelli bianchi», e riportiamo il discorso sul Bossi privato, sull'uomo Umberto. Sta al gioco meravigliato (stiamo sprecando una stupenda occasione per interrogarlo sul parlamento di Mantova, sulla moneta del Nord) ma alla fine l'interesse alla sua persona non gli dispiace e fa finta, perplesso, di guardare dentro di sé. «Non mi farà mica passare per un porcello», s’insospettisce, e noi ancora una volta lo rassicuriamo che non ha niente da temere da noi Gli apprezzamenti salaci alle colleghe onorevoli, il «so io cosa fare alla Boniver, alla Mussolini» li ha gridati lui in Parlamento, non qui, non con noi. Alla Rosy Bindi invece ha detto «ti voglio bene», pochi giorni fa, correndole dietro. Pare che la «ministra» abbia apprezzato e lo abbia definito «un bravo ragazzo». Allo stesso modo la pensa sua moglie, Manuela Marrone, la «terrona» come la chiama il marito perché è siciliana: mamma di due bambini, Renzo e Riccardo Libertà, la Penelope che ogni mattina aspetta paziente il ritorno del suo guerriero. Ma torniamo al tema della nostra intervista, alla lussuria, a come Bossi lo vive. «Ho avuto un'infanzia felice - esordisce rientrando in argomento alla lontana - ero libero, andavo a cavallo, ho fatto in tempo a conoscere la fine della civiltà contadina. I miei genitori possedevano ancora la terra e io da ragazzino assistevo alla trebbiatura del grano, allo scartocciamento delle pannocchie sull'aia. Sento ancora l'odore del fieno d'estate e il sapore della neve in bocca d inverno, quando fioccava. Tempi da Medioevo, bei tempi!».

Che cosa c'entra l'odore del fieno con la lussuria?

«C'entra, c'entra. Io ho fatto le mie prime esperienze sessuali in campagna. Quando i contadini accatastavano le balle del fieno in cortile si formava-no dei castelli di paglia, con corridoi, labirinti, passaggi segreti. Lì, ragazzotto, ho tentato i primi approcci con l'altro sesso, mi sono scambiato le prime effusioni».

E a parte l'ambientazione bucolica non aveva  paura di commetter peccato contro il sesto comandamento?

«Ho ricevuto un'educazione religiosa, tutte le mattine mi mandavano a messa alle sei, ma non ho mai considerato la lussuria un peccato grave anche se il nome è grosso, spaventa, e poi non so bene che cosa intendete voi intellettuali per lussuria, con tutte le distinzioni che fate, sesso, eros, amore Non è lo stesso? Per me è allentamento dalla tensione, divertimento, calore». «Una volta – e qui ride compiaciuto della sua intraprendenza precoce – ho pizzicato il sedere della Liliana, avrò avuto tredici anni. Lei è corsa a gridare sotto le finestre dei miei genitori e io sono scappato a nascondermi sotto il portone. La Liliana l'ho rivista qualche settimana fa, abbiamo riso ricordandoci di quel pizzicotto».

Tutto natura e innocenza, tutto divertimento anche adesso che è senatore?

«Eh no, distinguiamo! -protesta dopo aver detto che le distinzioni degli intellettuali sono inutili sofisticazioni -. La sessualità è una fortuna che va conquistata, razionalizzata con un meccanismo non facile, ridimensionata per la gioia che è. Bisogna stare attenti a non coinvolgere il cuore (quello deve restare a casa al sicuro), perché quando il cuore è in pericolo io stacco la spina. Da giovane ho conosciuto l'amore passionale, assoluto, ero emotività allo stato puro, pelle viva. Basta, non ci voglio più ricadere».

E se le capitasse di nuovo? Se il celodurista si prendesse ancora una cotta?

Ci medita su, stringe le mani all'altezza del naso e fa finta di stare nascosto «Ecco, vede, io faccio come certi sassi che stanno nei fiumi abbarbicati sul fondo. Aspetto che l'acqua passi sopra di me e non mi muovo».

Non mi dica che passa la vita sott'acqua, che un uomo pubblico come lei non ha tante occasioni...

«Le occasioni non mancano - ammette come se fosse una pratica noiosa e scontata - però appena sento un campanello d'allarme metto la sordina. La sessualità dev'essere soltanto piacere, affettuosità felice, alternativa allo stress del mio lavoro politico».

E come sono le alternative che preferisce?

«Le preferisco "mostose'', che significa femminili, piacenti, non rompiballe. E poi per me sono importanti gli sguardi, la brillantezza che sprizza dagli occhi, la complicità che s'instaura senza problemi né colpe». Eccolo il Bossi, e non è poi così duro.

Io e te, Luisa Corna si sbottona sull'orribile voce su di lei e Umberto Bossi: "Quei giorni..." Libero Quotidiano l'1 Agosto 2019. Luisa Corna, 50 anni, si concede in una rara apparizione televisiva. Sempre bellissima e sexy, la cantante e conduttrice si racconta in tv a Io e te di Pierluigi Diaco su Rai 1 attraverso le foto della sua vita privata e professionale. Diaco, come ricostruisce il sito sussidiario.net, rivolge un appello a quella parte della stampa che contribuì a diffondere una maldicenza su di lei che ha rischiato di rovinarle la carriera. Diversi anni fa si diffusero rumors in merito ad un rapporto clandestino tra la Corna e Umberto Bossi. "Quel periodo mi ha ferito molto perché era come combattere contro un fantasma”, si è limitata a dichiarare Luisa Corna, che non ama rispondere a questa domanda. Luisa poi confessa di sognare Sanremo a cui ha già partecipato in coppia con Fausto Leali: “Mi piacerebbe tornare a Sanremo”, spiega Luisa con Pieruigi Diaco. “La conduzione e la recitazione sono dei lavori piacevoli, ma la musica è un piacere. Non è un lavoro”, confessa Luisa.  

Franco Rocchetta 50 anni dopo la Liga Veneta: «Quanti soldi ho regalato a Bossi». Pubblicato venerdì, 10 maggio 2019 da Stefano Lorenzetto su Corriere.it. Benché abbia abbandonato la politica da un quarto di secolo, divorziando da quell’Umberto Bossi che aveva con infinita pazienza dirozzato e finanziato, le elezioni europee rinnovano in Franco Rocchetta, padre e madre di tutte le leghe, il dolore provato 40 anni fa, quando per la prima volta tentò invano di far eleggere a Strasburgo un suo candidato sotto le insegne dell’Union Valdôtaine. «Anche gli autonomisti valdostani hanno un leone nel loro simbolo. Pecà che no’ sia el Lion de San Marco. Me racomando, lion non leon, scritto con la elle tagliata. Vabbè che voialtri dei giornali non la usate neppure per Wojtyla». Risale invece a mezzo secolo fa — l’europarlamento sarebbe nato solo dopo un decennio — la prima uscita pubblica di Rocchetta. E che uscita: in mare aperto, da pirata, su un barcone. «Una rivolta contro Porto Marghera, dove progettavano di costruire la terza zona industriale. Era il 16 dicembre 1969, quattro giorni dopo la strage di piazza Fontana. Nella laguna di Venezia abbordai la petroliera Cortemaggiore dell’Agip, 19.000 tonnellate di stazza, scortato dai pescherecci, dai bragozzi, dai burchi di falegnami e muratori, altro che i motoscafi delle contesse, come disse Gianni De Michelis. E subito Indro Montanelli si schierò con noi, autodenunciandosi». L’anno precedente, il 18 agosto 1968, nella basilica di Santa Maria, a Danzica, il ventunenne Rocchetta aveva infiammato studenti, operai, contadini e preti con un discorso, mezzo in latino e mezzo in tedesco, contro i neocolonialismi. «Io fondai la Liga Veneta e loro Solidarnosc».

Che cosa ci faceva in Polonia?

«Giravo l’Europa per studiare le grandi ingiustizie sociali e istituzionali».

Perché nel 1994 uscì dalla Lega?

«Era degenerata. Mi salvai con pochi altri. Quelli che rimasero furono poi coinvolti persino nelle ruberie del Mose. La loro etica era diventata questa».

O ne uscì perché litigava con Bossi?

«Chiariamo subito: hanno sempre fatto passare Rocchetta per poeta e Bossi per pragmatico. La verità è che lui ha sfruttato senza ritegno il nostro lavoro. La Liga Veneta e la Lega Nord le ho create io. Il nome della seconda lo inventò 30 anni fa mia moglie Marilena Marin. Bossi voleva chiamarla Alleanza Nord. Marilena fu eletta presidente e lui segretario. Da lì in poi il consiglio federale fu esautorato. Fino al colpo di mano finale».

Quale?

«L’acquisto della sede di via Bellerio per 14 miliardi di lire. Noi eravamo contrari. Non sapevamo da dove arrivavano i soldi. Poi s’è capito: da Gianpiero Fiorani, quello dello scandalo che ha travolto la Banca Popolare di Lodi».

Quando aveva conosciuto Bossi?

«Nel 1981, a Brescia, all’incontro organizzato dai militanti mantovani per aiutare Enrico Rivolta, editore di Alta Brianza, un giornalino che poi diventerà Vento del Nord. Si presentò con una contessina comasca, sua mecenate. A me vennero i brividi quando costei propugnò come modelli Maria Teresa d’Austria, la Repubblica Cisalpina e il Regno d’Italia di Napoleone, mentre il suo cavalier servente annuiva entusiasta. E infatti, pur potendo realizzare il federalismo, Bossi poi proporrà di spostare i ministeri da Roma al Palazzo Reale di Monza, proprio dove aveva la sua sede lo Stato centralista e oppressore del Bonaparte».

In quel primo incontro vi parlaste?

«Mi mostrò i tabulati con parole di diversi dialetti lombardi, che avrebbe voluto mixare per intestarsi la paternità di una neolingua regionale. E io a spiegargli che gli idiomi non s’inventano a tavolino, nascono dentro le famiglie, dove però i gemelli parlano in modo diverso. Posso dirlo dopo mezzo secolo di ricerche».

Quali lingue ha studiato?

«Inglese, francese, tedesco, spagnolo, portoghese, polacco, greco, turco, georgiano, macedone, cinese, persiano, sumero, ittita. Ora mi diletto con il burusciaschi, idioma arcaico dell’Himalaya».

Poi che accadde?

«Alle politiche del 1983 la Liga elesse due parlamentari. Bossi si presentò nella Lista per Trieste ed ebbe 6 preferenze. L’anno seguente venne a piatire una candidatura per le Europee, scortato da un amico muto: solo molto tempo dopo scoprii che era suo cognato. Gli dissi: dimostrami che non rappresenti solo te stesso. Così lui fondò la Lega Lombarda. Nel frattempo erano cominciate le manovre per spaccare la Liga Veneta».

Che genere di manovre?

«Della Dc. Nel ristorante della Camera trovai il nostro deputato Achille Tramarin a tavola con Tina Anselmi. Chiesi in tono scherzoso: quale dei due sta corrompendo l’altro? La democristiana, da politica navigata, sorrise. L’altro arrossì. Ero stato suo testimone di nozze e la moglie era parente della Anselmi. Trascorsi tre mesi, Tramarin convocò un congresso fasullo della Liga Veneta. Accorse persino la Rai. L’accerchiamento si perfezionò alle Europee del 1989, quando Bossi, nel frattempo diventato senatore, cambiò all’ultimo momento il simbolo elettorale con Alberto da Giussano, rimpicciolendo il nostro leone sino a farlo scomparire. In pratica fu come se non ci fossimo presentati. Lui ottenne due europarlamentari, noi neanche uno».

Ma lei a Bossi diede anche dei soldi?

«Tanti. Miei personali».

Tanti quanti?

«Cifre consistenti».

Come andranno le prossime Europee?

«Trionferà Matteo Salvini. La gente vede in lui il salvatore della patria. Ma quale patria? A me pare quella di Bossi».

Il governo M5S-Lega durerà?

«Chi può dirlo? Si regge sul ricatto reciproco. Se Salvini molla Luigi Di Maio, perde la copertura per i procedimenti giudiziari che gli pendono sul capo».

Ma l’attuale esecutivo la soddisfa?

«Per niente. È schizofrenico».

Quando ha conosciuto Salvini?

«Nel 2009. Era appena stato eletto parlamentare europeo e indossava una felpa con la scritta Milano. M’è bastato».

Mica poteva esibire la scritta Venezia.

«Ma la Lega non era un partito federale? Al primo congresso del 1991 battei Bossi che voleva fare di Milano la capitale dello Stato del Nord: imposi che fosse scelta Mantova. Ora siamo sudditi dello Stato di Milano. Perché si parla delle Olimpiadi Milano-Cortina? Vivaddio, rispettino almeno l’ordine alfabetico!».

Ha più avuto contatti con Salvini?

«Gli telefonai il 24 maggio 2015, all’alba, dopo aver letto che veniva sulla Piave — al femminile, me racomando — a celebrare i 100 anni della Prima guerra mondiale. Gli dissi che quella era una data di lutto, non di festa. Poche ore dopo era qui a esaltare il nazionalismo».

Come ha fatto il vicepremier a portare la Lega dal 4 al 32 per cento?

«È molto più intelligente e intraprendente di Bossi, il quale mirava solo a costruirsi una fortuna personale. Salvini è ambizioso, vuole passare alla storia».

Ha assunto al Viminale un «consigliere strategico per la comunicazione», Luca Morisi, il suggeritore che lo ha fatto decollare sui social. Che ne pensa?

«Io da adolescente comunicavo sui muri. Poi passai ai manifesti scritti a mano. Ma i golpe cominciano sempre occupando le sedi di ministeri e tv».

Vede in Salvini un futuro Duce?

«Napoleone fin da bambino puntava a diventare il nuovo Alessandro Magno. Non so se Salvini voglia essere il nuovo Mussolini. Non credo. Certo è che sono gli eventi a far sorgere i nuovi Perón».

Scandalizzato dalla foto con il mitra?

«Era molto più irresponsabile Bossi di Salvini. Quando nel 1996 a Venezia proclamò l’indipendenza della Padania, ci furono militanti che arrivarono con i fucili nel bagagliaio dell’auto, pensando davvero di doverli usare. Ed era anche molto più fascista. Nel 1994 piombò in elicottero a Padova per stoppare il congresso della Liga Veneta. Incolpò me e la Marin di essere traditori che cospiravano per fare il partito unico berlusconiano. Un’accusa infamante, essendo lui l’unico compare di Silvio Berlusconi».

Lei fu sottosegretario nel primo governo del Cavaliere.

«Non l’ho mai frequentato. È vero che poi Bossi fece il ribaltone. Ma scelse Buttiglione, Cuccia e D’Alema, seguo l’alfabeto, solo perché ebbe in cambio più di quanto gli garantiva Berlusconi».

Che fine ha fatto Roberto Maroni?

«Dovrebbe chiederlo a Bossi, secondo il quale era il leghista dal quoziente d’intelligenza più alto. Talmente alto che ha mollato la Regione Lombardia pensando di essere il jolly del nuovo governo e invece il furbo Salvini lo ha fregato, alleandosi con Di Maio».

Il jolly? Per quale motivo?

«È l’uomo degli americani. Accompagnai io Maroni e Bossi in un hotel di via del Corso a Roma dove incontrarono Vincenzo Parisi, capo della Polizia, ed Enzo De Chiara, emissario della Cia».

Perché sua moglie ha firmato contro il Congresso mondiale delle famiglie?

«A me piacciono papa Roncalli e papa Luciani. A Verona si agita un certo Maurizio Ruggiero, un tradizionalista fanatico che per questa predilezione mi vorrebbe bruciare sul rogo come eretico».

Nel 2014 passò tre settimane in carcere con altre 24 persone per atti secessionisti a sfondo terroristico. S’è pentito?

«Il processo è ancora in corso. Intervenne in mia difesa persino Massimo Cacciari, dicendo che ho i miei difetti ma di sicuro non sono un bombarolo. Il pm bresciano che m’interrogò pensava di cavarsela in 30 minuti. Gli feci una lezione di storia e diritto durata tre ore e mezza. Gli dissi: lei vive a Brescia, ma non sa in quale tempo e in quale società vive. L’idea d’indipendenza non è punibile».

«Che forza il Bossi, bruciava migliaia di km con la sua Citroen zeppa di volantini». Ritratto del Senatùr, chi lo conosce racconta di quando andava in giro tutto solo per la “Padania” ad attaccare manifesti, scrive Paola Sacchi il 16 Febbraio 2019 su Il Dubbio. «Forza papà! Sappiamo che hai la testa dura», posta su Instagram Renzo Bossi, che dà notizie al telefono anche a Silvio Berlusconi. Il peggio, dunque, sembra scongiurato. E Umberto Bossi, “il guerriero”, come lo definisce il figlio, la testa ce l’ha dura davvero. «Un uomo duro con la politica, ma anche testardo fino ad essere spietato con se stesso. La sua vita è la politica, la passione politica, e non la mollerà mai», dice un leghista del gotha di Via Bellerio che l’ “Umberto” lo conosce da sempre. Nonostante gli acciacchi fisici dovuti ai postumi della malattia che lo colpì quindici anni fa, Bossi la politica ha continuato sempre a farla. E continuerà a farla sempre, assicura chi lo conosce bene. Ha continuato a guidare il partito fino al 2012; è tornato al governo come ministro delle Riforme per il Federalismo, nell’ultimo esecutivo di Berlusconi. Fino a poche sere fa era in parlamento, dove ora è senatore, tornando il Senatùr a tutti gli effetti, perché dopo la prima elezione nel 1987 a Palazzo Madama è stato per lunghissimo tempo alla Camera. E, come ha scritto Il Dubbio, ha fatto in tempo, prima di esser ricoverato un giorno dopo, a commuoversi per quel minuto e mezzo di applauso voluto da Matteo Salvini che festeggiando la vittoria in Abruzzo ha detto: «Non starei e non staremmo qui se non ci fosse stato Umberto». Bossi in aula ha cercato in questi anni di esser presente sempre e forse anche più assiduamente di parlamentari di altri partiti. Lo ha fatto a costo di reggersi a volte l’anima con i denti. Ma la sua figura che cammina sbilenca per i corridoi del Palazzo “romano”, anzi di «quel potere centrale romano che tanto male ha fatto proprio al Sud», come ha detto alla cronista solo pochi giorni fa, è ormai una presenza fissa, come un monumento in tutti questi anni alla resistenza fisica, in nome di una scelta di vita. «Mai mula’ tegn dur», è il motto del Senatùr. Che quasi sempre con un ghigno un po’ sdegnato rifiuta il bastone che gli offre l’assistente. Tra i collaboratori alternatisi in questi anni, come una cifra della Lega “popolana”, ci sono ex edili, ex operai. Passione politica e disciplina di partito in un “movimento” che lui costruì sul modello del Pci, dove le sedi si chiamano ancora sezioni. «Nella ferrea disciplina di partito, che Umberto ha costruito come una macchina militare, e anche in altre cose Matteo è il suo erede», spiega un altro leghista di rango. Che ricorda la fatica anche fisica «pazzesca» del “padre” della Lega, allora Nord: «Umberto è l’unico politico che è davvero partito da zero, guidava da solo la sua Citroen, piena di volantini, colla, e quando arrivava nei paesini della “Padania” mica c’era nessuno che andava ad accoglierlo, magari lo prendevano per un matto… Era roba da farsi 150.000 chilometri in un mese e spesso appunto guidando da solo, ecco anche in questo io credo che Salvini sia suo degno erede, perché non solo ha quella disciplina di partito che ti porta a essere di parola con gli elettori, ma ha una resistenza fisica alla pari di quella che aveva Bossi. Salvini è uno che macina migliaia e migliaia di chilometri, un giorno è al tempo stesso in Ghana, poi a Roma, poi la sera in qualche paese italiano». Salvini pure ha viaggiato per anni con una macchina piena di manifesti, volantini, secchi di colla, persino le stampelle per i veloci ricambi d’abito. Ma la “macchina da guerra”, come ha ricordato Bossi stesso, all’ AdnKronos, proprio la sera prima del malore, gliela ha lasciata in dotazione il fondatore e presidente a vita del partito. «Umberto gli ha lasciato la navicella dalla quale poi è partito il missile nello spazio», spiega il dirigente leghista al Dubbio. Bossi è stato l’innovatore del linguaggio politico, termini come «trovare la quadra» vengono usati da tutti, «l’innovazione – spiega ancora il leghista – consisteva nel cercare di far comprendere a tutti temi complessi e questioni che allora erano tabù come l’autonomia, il federalismo, la minaccia di secessione per avere la devoluzione, usando le parole da uomo del bar». E Salvini? «Matteo sulla sua scia ha saputo innovare con l’uso dei social davvero, altro che Cinque Stelle. E anche lui parla un linguaggio diretto». La Lega era e resterà un partito radicato nel territorio. Internet certamente ma mai lasciare il territorio, a differenza dei grillini, «perché questa storia della disintermediazione è una vera menata. E la Lega è ormai l’unico vero partito rimasto in Italia», spiegano ancora ai piani alti di Via Bellerio. Forse nel look il fondatore chiamato nella Lega ancora “Capo” sono un po’ distanti. E però anche con quel look un po’ trasandato da “popolano”, come lui stesso si è sempre definito, incuriosendo molto quando arrivò al Senato l’Avvocato Agnelli ma anche dirigenti del Pci come Emanuele Macaluso, Bossi ha sempre voluto dire al “popolo” che lui è uno di loro. Ora tutti e non solo la Lega non vedono l’ora di rivederlo in parlamento. Alessia Morani, deputata del Pd, che Bossi lo ha conosciuto in questi anni ha twittato: «E’ un uomo e un politico arguto e intelligente». Il “barbaro” di Gemonio è uno che conosce praticamente a memoria opere di Shakespeare. Libri divorati di notte quando da ragazzo non faceva prender sonno al fratello, perché teneva la luce sempre accesa.

·         I comunisti contro il comunista Salvini.

Ladri a casa di Denis Verdini: bruciato un quadro raffigurante Salvini. Debora Faravelli il 18/12/2019 su Notizie.it. Dopo essere entrato nella casa di Denis Verdini, un gruppo di ladri avrebbe annerito e bruciato con l'accendino un quadro di Salvini. Per la seconda volta in poco tempo, la casa di Pian de’ Giullari di Denis Verdini è stata presa di mira dai ladri. Questi, entrati indisturbati nell’abitazione approfittando della sua assenza, avrebbero bruciato con un accendino un quadro raffigurante il leader della Lega. Stando alle ricostruzioni dei Carabinieri del Comando provinciale, intervenuti sul posto a seguito del furto, i malviventi avrebbero forzato una finestra. A quel punto sarebbero riusciti a entrare all’interno dove hanno messo a soqquadro le stanze, approfittandosi dell’assenza di Denis che si trovava in viaggio insieme alla moglie. In una di queste hanno trovato un quadro raffigurante Matteo Salvini, attualmente legato a sua figlia Francesca. L’avrebbero quindi annerito con un accendino tentando di bruciarlo. Non è ancora chiaro se abbiano portato via oggetti di valore o se si sia trattato di un tentato furto. Per uscire sarebbero poi passati di nuovo attraverso la finestra forzata. Una volta scattato l’allarme, dato nella mattinata di sabato 14 dicembre 2019 dal custode, sul posto sono giunti i Carabinieri che, servendosi anche dei filmati delle telecamere di sorveglianza della zona, hanno iniziato a dare la caccia ai ladri. La stessa villa sui colli fiorentini era stata oggetto di furto lo scorso aprile 2019, notizia che fece clamore anche perché era da poco che Matteo Salvini aveva reso pubblica la sua relazione con la figlia. Le forze dell’ordine stanno quindi cercando di capire se il colpo sia stato dato dalla stessa banda.

Nicola Piovani a Otto e Mezzo: "Salvini e Meloni mi fanno paura". Lilli Gruber gongola. Libero Quotidiano il 18 Dicembre 2019. Lilli Gruber invita in studio su La7 a Otto e mezzo il compositore e musicista Nicola Piovani, premio Oscar per La vita è bella di Roberto Benigni. Il classico intellettuale di sinistra, anche nel look. E infatti non si smentisce: "Spero che il governo resista con tutti i mezzi democratici possibili, ho paura di Matteo Salvini e Giorgia Meloni". Gongolava ovviamente Lilli Gruber. Piovani si è detto anche d'accordo sul taglio dei parlamentari. Per Nicola Piovani (lo disse in una vecchia intervista) ha ancora senso parlare di destra e sinistra. "Per me la divisione tra i due mondi rimane semplice, fisiologica e irrinunciabile", ammise, "io mi sento di sinistra esattamente come prima. Però non credo più negli schemi e nelle bandiere".

Salvini dorme in aereo, una ragazza posta un selfie con il dito medio. Lui: «Personcine educate». Pubblicato mercoledì, 18 dicembre 2019 da Corriere.it. Matteo Salvini si addormenta in aereo e la sua vicina di posto, una ragazza, scatta un selfie con il dito medio alzato, dedicato al leader della Lega, e lo pubblica su Instagram. Lo scatto ha scatenato centinaia di commenti e condivisioni: è proprio la giovane E.L. ad aver taggato Salvini, accompagnando l’immagine con diversi cuoricini. L’ex ministro dell’Interno ha ripreso l’immagine su Twitter, senza pixelare il volto della giovane: «Che bello viaggiare in compagnia di personcine educate! E poi magari vanno in piazza per combattere odio, violenza e maleducazione». Una mossa che ha spinto la ragazza a disattivare il proprio profilo social, dopo aver ricevuto decine di insulti. E in pichi minuti, sono nati decine di profili (fake) che hanno ripreso il nome della ragazza e la foto, per guadagnarsi condivisioni. A riprendere il post della giovane è stata non solo la pagina IntrashTtenimento 2.0 ma anche la senatrice del Carroccio Roberta Ferrero, che ha postato sul proprio profilo Facebook la fotografia in questione, accompagnando lo scatto con le parole: «Ecco a voi la coraggiosa del giorno. Fa il medio a Salvini, mentre dorme. Poi vanno alle manifestazioni delle sardine per dire che in Italia c’è un linguaggio d’odio…». La foto è stata rilanciata anche da Cathy La Torre, avvocatessa e attivista LGBTQ, raccogliendo diversi commenti carichi di insulti: «Complimenti a suoi genitori che hanno saputo educare la propria figlia!» e «Imbecille perché non l.hai fatto quando ha aperto GLI occhi???? Almeno parlavate x un po’ e ti avrebbe fatto GLI Auguri di buone feste... vile». Già a novembre 2018, in seguito alla manifestazione studentesca organizzata a Milano e in altre città italiane, portata avanti con lo slogan «No Salvini Day», il leader delle Lega aveva pubblicato la foto di alcune ragazze manifestanti, commentando: «Poverette, e ridono pure…». Senza oscurare i volti delle minorenni. Nel giro di pochi minuti, le tre studentesse di Sesto san Giovanni si erano ritrovate sommerse dagli insulti dei supporter del leader della Lega.

Ecco chi è la ragazza del dito medio contro Salvini. Si fa chiamare "La gotica sweet" la ragazza che ha fatto del dito medio al leader della Lega, addormentatosi in volo. Pina Francone, Mercoledì 18/12/2019, su Il Giornale. Il suo profilo Instagram è stato disattivato, così come quello Twitter. Quello su Facebook, invece, è aperto, ma solo parzialmente. Si chiamerebbe Erika Labbe la ragazza che dopo essersi trovata Matteo Salvini come vicino di posto in aereo, ha approfittato del Salvini dormiente per fargli il dito medio e immortalare il tutto in un selfie che ha sollevato un polverone. Di Erika Labbe, che si fa chiamare "La gotica sweet", non si sa molto, neanche spulciando il suo profilo Facebook, aperto a tutti, ma limitato a livello di informazioni e contenuti se non si è "amici" della giovane sulla piattaforma di Mark Zuckerberg. L'unica cosa nota è la breve descrizione, che recita così: "I'm more than this". Che tradotto in italiano significa "Sono più di così". Poi, nulla più, se non una foto profilo su uno scoglio al mare e sei foto in compagnia di amiche, amici e di quello che forse è il suo fidanzato. "Artista incompresa, gattara, amante della carbonara e di ogni cosa grassa, 19 years old (portati male)" si leggeva invece in quella che era la "mini biografia" su Instagram, prima della chiusura del profilo. "Spiacenti, questa pagina non è disponibile. È possibile che il link che hai seguito sia corrotto o che la pagina sia stata rimossa. Torna su Instagram", esce fuori sulla schermata se si clicca sul profilo Instagram di "la_gotica_sweet". Il leader della Lega l'ha presa con il sorriso e con ironia ha ripubblicato sui propri canali social la foto incriminata, scrivendo: "Che bello viaggiare in compagnia di personcine educate! E poi magari vanno in piazza per combattere odio, violenza e maleducazione". A denunciare il fatto la senatrice del leghista Roberta Ferrero, che ha pubblicato sul proprio profilo Facebook il selfie in questione, accompagnando lo scatto del dito medio con Salvini appisolato, con la seguente ficcante didascalia: "Ecco a voi la coraggiosa del giorno. Fa il medio a Matteo Salvini, mentre dorme. (Poi però vanno alle manifestazioni delle sardine per dire che in Italia c'è un linguaggio d'odio…".

Ecco chi è Erika Labbe, la ragazza del dito medio a Salvini in aereo. Jacopo Bongini il 18/12/2019 su Notizie.it. Chi è Erika Labbe? La ragazza resa celebre nelle ultime ore per un selfie in aereo dove fa il dito medio al leader della Lega Matteo Salvini. Era inizialmente conosciuta solo come la ragazza che fa il dito medio a Matteo Salvini ma nelle ultime ore, complice la sovraesposizoine mediatica della fotografia da lei postata, il suo nome è diventato di pubblico dominio. Malgrado abbia oscurato quasi tutti i suoi profili social, la 19enne Erika Labbe è al momento sotto tiro dei seguaci del leader leghista, indignati per il gesto commesso nei confronti del “Capitano”. Ma chi è Erika Labbe, la ragazza che sta dividendo l’opinione pubblica italiana. Dalle poche informazioni rimaste su internet sappiamo che la ragazza è conosciuta su Instagram con il nickname La Gotica Sweet e che nella biografia del suo profilo si definisce così: “Artista incompresa, gattara, amante della carbonara e di ogni cosa grassa, 19 years old (portati male)”. Forse però sarebbe meglio volgere i verbi al passato, dato che a seguito del polverone mediatico sollevatosi dal suo selfie con Salvini la ragazza è stata costretta a rendere privato il suo account. Molto scarne anche le notizie reperibili sul suo profilo Facebook, visibile solo se si è amici della ragazza, dove dalle poche fotografie ancora pubbliche si può vedere la vita di una normale adolescente, con delle passioni, degli amici e un fidanzato; ma che come tutti gli adolescenti forse ha preso troppo con leggerezza il gesto che stava compiendo, sottovalutando le conseguenze delle sue azioni.

La gogna mediatica sui social. A seguito della pubblicazione del suo selfie, nel quale era taggata la pagina Instagram ufficiale di Matteo Salvini, la ragazza è stata quindi violentemente attaccata da centinaia si simpatizzanti del leader della Lega ma anche da alcuni parlamentari del Carroccio che non hanno esitato a dire che sporgeranno querela contro di lei. Non è mancato ovviamente il commento dell’ex ministro dell’Interno, che ha dichiarato: “Che bello viaggiare in compagnia di personcine educate!,E poi magari vanno in piazza per combattere odio, violenza e maleducazione”. Corredando il messaggio con il nome dell’account social della ragazza ed esponendola così ad una vera e propria gogna mediatica.

«Gestaccio» con Salvini, la replica della ragazza di Conversano: «Ero solo sorpresa di trovarlo su volo low cost». La studentessa è finita nella bufera dei leghisti e ha anche precisato che non appartiene al movimento delle «Sardine»: «Non sono di sinistra e non sono di destra. Di politica mi importa ancora poco». Antonio Galizia il 19 Dicembre 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Il «selfie» col dito medio di una studentessa fuori sede di Conversano, capitata casualmente accanto al leader della Lega Matteo Salvini su un aereo di una Compagnia low-cost partito da Bari a Milano, è stato tra i «post» più letti e commentati ieri sui «social media» in internet. La ragazza, una diciannovenne della cittadina barese, ha pubblicato la foto ieri pomeriggio sul suo profilo «Facebook» e su quello «Instagram». In pochi attimi lo scatto irriverente ha fatto il giro del web ed è stato ripreso dal leader della Lega che ha stigmatizzato il gesto della ragazza, scrivendo testualmente «che bello viaggiare in compagnia di personcine educate e poi magari – ha aggiunto il senatore lombardo, associando la ragazza al movimento delle “sardine” - vanno in piazza per combattere odio, violenza e maleducazione». Da quel momento il «post» ha fatto il giro del web e delle testate giornalistiche. La ragazza, che è stata coperta di insulti, anche sessisti, dopo aver compreso l’errore nel quale è incorsa, ha subito disattivato il proprio profilo «social». Intanto, l’ex ministro dell’Interno e leader della Lega, per manifestare il suo disappunto, ha anche ripreso l’immagine della studentessa su «Twitter» senza pixelare (ossia oscurare) il volto della giovane. In pochi minuti sono spuntati decine di profili «fake», falsi, che hanno ripreso il nome di Erika e la sua foto, per guadagnarsi visualizzazioni. A riprendere il «post» della giovane è stata anche la senatrice della Lega Roberta Ferrero, che ha pubblicato la fotografia, accompagnando lo scatto con questa frase: «Ecco a voi la coraggiosa del giorno. Fa il medio a Salvini, mentre dorme. Poi vanno alle manifestazioni delle sardine per dire che in Italia c’è un linguaggio d’odio». La foto ha raccolto diversi commenti carichi di insulti: «Complimenti ai suoi genitori che hanno saputo educare la propria figlia!» e tanto altro ancora. In serata, la ragazza ha chiesto scusa e denunciato, con un suo «post», gli insulti e le minacce ricevute anche in privato, raccontando com’è andata: «Salve, sono Erika Labbe, ho 19 anni e, sorpresona, non sono una “sardina”. Ringrazio Matteo Salvini per aver esposto il mio nome ovunque, facendo sì che mi arrivassero insulti pesanti, minacce di morte, intimidazioni varie e materiale pornografico. Questa foto l’ho condivisa con i miei amici per evidenziare l’incredibile coincidenza di prendere un volo low-cost e ritrovarsi seduti insieme a Salvini. Il gestaccio era, piuttosto, rivolto alle persone a cui ho inviato la foto privatamente e nulla aveva a che vedere con Salvini, il quale se vogliamo dirla tutta é circondato anche da cuoricini vari». La ragazza ha anche precisato che non appartiene al movimento delle «Sardine»: «Non sono di sinistra e non sono di destra. Di politica mi importa ancora poco e probabilmente tra qualche anno avrò modo di capire al meglio ogni questione legata ad essa. Non mi aspettavo un’esposizione mediatica di questa portata e sinceramente non sono minimamente interessata a diventare famosa per qualcosa che ho fatto con tutt’altre intenzioni. Mi spiace se le persone si sono sentite chiamate in causa con questa foto, nulla di ciò era mia intenzione». Infine un appunto: «Mi riferisco ad una questione che mi sta più a cuore: il cyberbullismo esiste e quest’oggi io ne sono stata vittima. Le parole possono fare male più di quanto crediate e questo, purtroppo, non sembra essere un parere condiviso. Mi spiace tantissimo».

Bari, la ragazza della foto col dito medio a Salvini sotto attacco sui social: ha chiuso gli account. La foto diventata virale. Erika Labbe, la 19enne di Conversano, finita nel mirino dei sostenitori del leader leghista. In un testo diffuso da Lodo Guenzi, leader del gruppo 'Lo stato sociale' e attribuito alla ragazza si legge: "Il gestaccio era rivolto alle persone a cui ho inviato la foto privatamente e nulla aveva a che vedere con Salvini". Gino Martina il 19 dicembre 2019 su La Repubblica. Una storia Instagram, con una sequenza di sette foto che riportano alcuni insulti ricevuti sui social e la supplica di smetterla, rivolta agli utenti che l'hanno attaccata. Lo screenshot, l'istantanea della schermata del telefonino, in cui compare il blocco della pagina ufficiale di Matteo Salvini nei confronti del suo profilo. E un post in cui il senatore leghista è taggato con un messaggio: "Ti denuncio". È quanto rimasto dell'attività su internet delle ultime 24 ore di Erika Labbe. È il nome con cui compare, o meglio compariva prima di disattivare i suoi profili social, la 19enne fuorisede di Conversano, divenuta suo malgrado celebre per la fotografia pubblicata il pomeriggio del 18 dicembre su Facebook e Instagram, nella quale ritrae lei in primo piano col dito medio e accanto Matteo Salvini addormentato sul sedile di un aereo. Una foto corredata da dei cuoricini, diventata in poche ore virale, scatenando ironia, apprezzamento e una valanga di insulti. A condividere e alimentare la gogna sui social è stata la senatrice leghista Roberta Ferrero, che ha pubblicato sul proprio profilo Facebook lo scatto della ragazza, accompagnandolo con queste parole: "Ecco a voi la coraggiosa del giorno. Fa il medio a Matteo Salvini, mentre dorme. Poi però vanno alle manifestazioni delle sardine per dire che in Italia c'è un linguaggio d'odio". Poco dopo è stata la pagina dell'ex ministro dell'Interno a riprendere il post della ragazza pubblicando il suo volto in chiaro assieme ai contatti del profilo Insangram col commento: "Che bello viaggiare in compagnia di personcine educate! E poi magari vanno in piazza per combattere odio, violenza e maleducazione". Gli insulti dei sostenitori del segretario leghista si sono così moltiplicati e sono stati recapitati direttamente alla ragazza, costretta prima a rispondere e a pubblicare la storia su Instagram, poi a minacciare denunce e, infine, a disattivare i suoi profili social. Savini nel frattempo ha continuato a ironizzare, con una foto e post che lo ritraevano in procinto di partire in treno e l'augurio di trovare viaggiatori accanto a lui diversi dalla 19enne pugliese. "Se fosse mio figlio - ha dichiarato poi in tv ospite de L'aria che tira, su La7 - a fare una roba del genere, torna a casa due schiaffi non glieli toglie nessuno, poi può chiamare il Telefono azzurro, l'Unicef o il pronto soccorso, se mio figlio fa una cosa del genere gli spiego che al mondo ci si comporta in maniera diversa". Ma della vicinanza della ragazza pugliese al movimento delle Sardine, come avevano supposto il capo leghista e i suoi sostenitori, non c'è traccia. Tutt'altro. Nelle ultime ore è circolata una sorta di lettera, ripresa anche da Ludovico Guenzi, leader del gruppo rock Lo stato sociale, che apparterrebbe alla 19enne. La ragazza smentirebbe di far parte del movimento ideato da Mattia Santori, si dichiarerebbe né di destra e né di sinistra, vittima del cyberbullismo dei sostenitori di Salvini e, infine, chiederebbe scusa per l'accaduto. Il cantante riferisce che gliel'ha inoltrata un amico della 19enne, per questo avrebbe deciso di condividerla come aveva fatto con la foto incriminata, accompagnandola dal messaggio: "Una risata vi seppellirà". Nel testo si legge: "Salve a tutti, sono Erika Labbe, ho 19 anni e sorpresona, non sono una sardina. Ringrazio la suddetta pagina e Matteo Salvini per aver esposto il mio nome ovunque, facendo sì che mi arrivassero in direct insulti pesanti, minacce di morte, intimidazioni varie e materiale pornografico. Questa foto l'ho condivisa con i miei amici per evidenziare l'incredibile coincidenza di prendere un volo low-cost e ritrovarsi seduti insieme a Salvini. Il gestaccio era, piuttosto, rivolto alle persone a cui ho inviato la foto privatamente e nulla aveva a che vedere con Salvini (il quale se vogliamo dirla tutta è circondato anche da cuoricini vari). Non sono di sinistra e non sono di destra. Di politica mi importa ancora poco e probabilmente tra qualche anno avrò modo di capire al meglio ogni questione legata ad essa. Non mi aspettavo - prosegue - un'esposizione mediatica di questa portata e sinceramente non sono minimamente interessata a diventare 'famosa' per qualcosa che ho fatto con tutt'altre intenzioni. Mi spiace se le persone si sono sentite chiamate in causa con questa foto, nulla di ciò era mia intenzione". La 19enne pugliese , nel concludere, non nasconderebbe la sua amarezza: "Un piccolo appunto va però ad una questione che mi sta più a cuore: il Cyberbullismo esiste e quest'oggi io ne sono stata vittima. Le parole possono fare male più di quanto crediate - è scritto - e questo, purtroppo, non sembra essere un parere condiviso. Mi spiace tantissimo".

Parla la ragazza del dito medio a Salvini: ​"Ecco cosa è successo davvero". La ragazza del dito medio a Salvini in aereo prova a spiegare le ragioni del suo gesto: "Sorpresa, non sono una sardina". Angelo Scarano, Venerdì 20/12/2019, su Il Giornale. Il gestaccio rivolto a Matteo Salvini mentre dormiva in aereo ha fatto il giro del web. "Gotica sweet", ovvero Erika Labbe ha conosciuto il suo quarto d'ora di celebrità. Una celebrità raccolta soprattutto tra le truppe anti-Salvini. Ma dopo quella foto la ragazza ha subito diversi attacchi sui social che, come lei stessa ha raccontato, le hanno fatto conoscere il cyberbullismo. Ed è per questo motivo che la ragazza ha deciso di spiegare il suo gesto e lo ha fatto in una lettera pubblicata sul web da qualche suo amico e condivisa anche dal cantante Lodovico Guenzi. In poche righe la 19enne torna ancora sullo scatto in aereo e prova a spiegare la sua posizione: "Salve a tutti, sono Erika Labbe, ho 19 anni e sorpresona, non sono una sardina. Ringrazio la suddetta pagina e Matteo Salvini per aver esposto il mio nome ovunque, facendo sì che mi arrivassero in direct insulti pesanti, minacce di morte, intimidazioni varie e materiale pornografico", esordisce. Poi però si concentra sulla foto e a questo punto decide di rivelare come sono andate davvero le cose in quel viaggio in volo accanto all'ex ministro degli Interni: "Questa foto l'ho condivisa con i miei amici per evidenziare l'incredibile coincidenza di prendere un volo low-cost e ritrovarsi seduti insieme a Salvini. Il gestaccio era, piuttosto, rivolto alle persone a cui ho inviato la foto privatamente e nulla aveva a che vedere con Salvini (il quale se vogliamo dirla tutta è circondato anche da cuoricini vari). Non sono di sinistra e non sono di destra", spiega. Poi ci tiene a sottolineare la sua distanza dalla politica (anche se quello scatto probabilmente dice esattamente il contrario): "Di politica mi importa ancora poco e probabilmente tra qualche anno avrò modo di capire al meglio ogni questione legata ad essa. Non mi aspettavo - prosegue - un'esposizione mediatica di questa portata e sinceramente non sono minimamente interessata a diventare 'famosa' per qualcosa che ho fatto con tutt'altre intenzioni. Mi spiace se le persone si sono sentite chiamate in causa con questa foto, nulla di ciò era mia intenzione". Infine la ragazza parla degli attacchi che ha ricevuto sui social in queste ore e afferma: "Un piccolo appunto va però ad una questione che mi sta più a cuore: il Cyberbullismo esiste e quest'oggi io ne sono stata vittima. Le parole possono fare male più di quanto crediate - è scritto - e questo, purtroppo, non sembra essere un parere condiviso. Mi spiace tantissimo". Probabilmente la prossima volta che su un aereo si troverà vicino ad un ministro che dorme, la ragazza magari preferirà anche lei "schiacciare" un pisolino...

La rivoluzione della sinistra: insultare chi dorme. Francesco Maria Del Vigo, Giovedì 19/12/2019, su Il Giornale. Chi dorme non piglia pesci. Se ne avvantaggeranno le sardine. Ma rompere le balle a chi schiaccia un pisolino è il punto più basso dell'insulto politico. A sinistra brilla una nuova eroina. Altro che Carola Rackete e Mattia Santori. Grazie ai social network abbiamo scoperto la nuova partigiana del Ventunesimo secolo, colei che ha osato sfidare il barbaro Matteo Salvini. E.L, non pubblichiamo il nome per carità di Patria, è una diciannovenne sedicente artista incompresa e gattara, così si racconta sul suo profilo Instagram. E, forse in nome di questa presunta arte, non si è fatta scappare l'occasione di una foto così ghiotta. Sale sull'aereo e chi si trova come vicino di viaggio? Nientepopodimeno che Matteo Salvini. L'arcinemico di sinistra e sardine, il simbolo di una destra da radere al suolo con la ruspa del politicamente corretto. Dunque cosa fa la temeraria teenager? Gli chiede le motivazioni della sua politica migratoria? Lo interroga sui rubli? Lo accusa di fascismo e razzismo? Gli rinfaccia di avere vellicato il ventre basso del Paese per meri scopi elettorali? Ma va. Aveva a disposizione tutto l'armamentario - spuntato e consunto - della sinistra più snob. Un arsenale di luogocomunismi. Invece no. Lei, con spirito da vera pasionaria social, si immortala in un selfie con un bel dito medio a pochi centimetri dal volto di Salvini. Che dorme. Perché, se fosse stato sveglio, nel pieno delle sue facoltà mentali, il gesto - seppure maleducato - avrebbe avuto un senso provocatorio. Così è solo una stupidata un po' vigliacca. Ma la foto parla chiaro: capo reclinato all'indietro, occhi chiusi ed espressione onirica. Dopo la milionesima diretta Facebook e il miliardesimo comizio anche il Capitano crolla sulla poltrona dell'aereo. E dorme beato, magari sognando porti chiusi, ruspe gigantesche, sondaggi stellari, divise da poliziotto e barattoli giganti di Nutella. Ignaro dell'estrema vicinanza col nemico. Ovviamente la foto fa subito il giro dei social e dei quotidiani on line, rilanciata da una senatrice del Carroccio e poi dallo stesso Salvini. «Che bello viaggiare in compagnia di personcine educate. E poi magari vanno in piazza per combattere odio, violenza e maleducazione», infierisce il leader leghista. D'altronde se prende i voli di Stato lo indagano, se prende quelli di linea lo sbeffeggiano a sua insaputa, non è un buon momento per i suoi spostamenti. In breve tempo la querelle diventa un tormentone. E, difatti, a stretto giro di post(a), la ragazzina chiude il suo profilo Instagram. Errori di gioventù. Il peggio sono i non giovani che le vanno dietro. Così, se da una parte i sostenitori della Lega si scatenano in difesa del loro beniamino, dall'altra c'è chi esalta il gesto «eroico» della giovane selfista. Sì, perché in un'Italia ossessionata dai nemici, il nuovo atto rivoluzionario della sinistra è insultare chi dorme.

Da Libero Quotidiano il 18 settembre 2019.  Mauro Corona show a #Cartabianca: "La parabola della vita è una salita e una discesa. E Salvini è rotolato dalla montagna, si è fatto un po’ male ma non è deceduto e può tornare a salire! Salvini ha osato, perché ha coraggio, e se fossimo andati a elezioni le avrebbe stravinte". Tutto questo lo ha detto in faccia a Matteo Salvini, in studio. Lo scrittore montanaro ha proseguito senza sosta: "Nella politica attuale, dove manda l’etica e c’è solo un’estetica, è possibile tornare al pentapartito di una volta. Quando sono al potere, i politici dovrebbero fare qualcosa per essere credibili." Pesante il giudizio su Matteo Renzi che ha lasciato il Pd e ha fondato un suo partito.  "La scissione di Renzi dal Pd? Guai a chi pensava di accantonarlo, è un ragazzino viziato e se l’era legata al dito. Ma a me non dispiace che lui sfidi questo governo della svolta." 

Estratto dell’articolo di Gianluca Roselli per il “Fatto quotidiano” il 16 settembre 2019. […] Flavio Tosi è entrato in Lega prima di Matteo Salvini, nel 1990. In quel partito è stato segretario della Liga Veneta, poi è diventato sindaco di Verona, per due mandati, eletto nel 2007 e riconfermato nel 2012. Nel 2015, dopo durissimi scontri con il neo segretario Salvini, Tosi viene espulso dal Carroccio. Dentro e fuori il partito l' ex sindaco di Verona non ha mai risparmiato critiche alla gestione salviniana.

Tosi, ha visto: in un mese Salvini è passato da king maker del governo gialloverde all'opposizione. Secondo lei cosa è successo?

«Salvini aveva due problemi: evitare di fare la prossima manovra economica lacrime e sangue, da una parte, e incassare in termini elettorali gli altissimi consensi che gli davano i sondaggi, dall' altra. Il suo piano era far cadere il governo, presentarsi alle elezioni senza Forza Italia, e questo spiega l'operazione di Giovanni Toti, vincerle, e poi potersi permettere di fare il bello e cattivo tempo sulla legge di bilancio. Poteva pure far aumentare l'Iva, tanto ormai le elezioni le aveva vinte».

E invece?

«Ha clamorosamente sbagliato i calcoli. Se voleva la crisi, doveva aprirla prima, a ridosso delle Europee. […]  Il combinato disposto del risultato europeo e dei sondaggi l'hanno fatto entrare in una sorta di delirio di onnipotenza […] Ha commesso errori tattici e strategici che dovrebbero far riflettere gli italiani sul suo reale valore come leader politico».

Non lo è?

«Lui non ha alcuna esperienza di governo. Non ha mai amministrato nulla, nemmeno un piccolo comune. Si è trovato a fare il vicepremier e il ministro dell'Interno con alle spalle solo esperienze da consigliere comunale ed europarlamentare. E a Strasburgo, tra l' altro, non si vedeva mai. […] Salvini prende voti per due motivi. In primis perché ripete a macchinetta certi concetti e alla fine la gente finisce per crederci. […] In secondo luogo, nel centrodestra Salvini ha sfruttato un vuoto immenso. […] gli elettori che prima votavano Forza Italia ora scelgono Salvini. Ma è più per mancanza di alternative che per meriti».

Dopo la debacle governativa, però, nella Lega non si leva alcun un sussurro critico.

«In Lega è impossibile, il partito è stato normalizzato da Salvini, tutte le voci contrarie sono state messe ai margini, come Roberto Maroni o Gianni Fava, o buttati fuori, come il sottoscritto. Nel Carroccio nessuno osa alzare la testa perché tutte le liste sono in mano al segretario. Prima c' era più autonomia da parte dei "regionali", ora invece per statuto tutto è in mano a Via Bellerio. Salvini ha potere di vita e di morte sulle candidature. Chi alza la voce si ritrova automaticamente fuori dalle liste. Il suo è un metodo animalesco di gestione del potere. E lui intorno a sé vuole gente ubbidiente, delle capacità non gli importa nulla. Basti vedere i cosiddetti "economisti": Borghi, Bagnai Mi fanno ridere. […] L’autonomia è stato il grande bluff di Salvini. In realtà lui l' autonomia non la voleva, perché lo ostacolava nella ricerca dei consensi al Sud. […]»

Ora cosa accadrà? Se il governo dura Salvini potrebbe sgonfiarsi?

«Questo governo è nato grazie agli errori di Salvini, è lui che l' ha generato, per questo mi vien da sorridere quando se ne lamenta e grida al complotto o al golpe. Parla come un pugile suonato. Un golpe di cui lui è l' unico protagonista. […]»

Dall'articolo del ''Foglio'' dell'11 settembre 2019 (…) E poi c' è l' altro dissidio in cui Salvini è inviluppato. Perché il ritorno all' opposizione segnerà senz' altro un rafforzamento delle istanze più sconclusionate dell' antieuropeismo à la page di Borghi e Bagnai. "E però, così facendo, ci renderemo inaffidabili per tutto quel mondo imprenditoriale e istituzionale con cui pure dovremmo sapere accreditarci", dice l' ex eurodeputato Mario Borghezio. Che ritorna, mentre cammina per i corridoi del Senato, sulla crisi agostana. "Facendo la cosa giusta, Salvini ha sbagliato. Perché rompere coi grillini si doveva, ma non in quel modo". E così, mentre il leghista pugliese Mario Marti - pure lui alle prese coi malumori del Carroccio locale - lamenta "una macchinazione orchestrata dai servizi sul Russiagate", mentre Bagnai spiega agli ex alleati grillini che tutto è dipeso "da un gioco più grande di poteri più alti", Borghezio dice che l' errore di Salvini è stato proprio nel non sapere presentarsi come un leader affidabile: "Se invochi i pieni poteri e ti circondi di gente come Borghi e Bagnai o Zanni, chiunque non sia un leghista di ferro come me, pur avendo simpatie per Matteo, finisce con lo sperare che non vinci alle elezioni, perché vien da tremare al pensiero della possibile squadra di ministri".

Pignatta della vergogna a Roma: testa di Salvini presa a bastonate. Le Lega ha predisposto un'interrogazione urgente alla Raggi: "Si dissoci immediatamente da tale gesto". Luca Sablone, Martedì 17/09/2019 su Il Giornale. Vergognoso episodio verificatosi al parco Schuster, nei pressi della basilica di San Paolo: una "divertente" pignatta che ha visto un cartone con le sembianze di Matteo Salvini essere appeso a un filo e successivamente preso a bastonate. Alcuni partecipanti alla serata si sono messi in fila e al proprio turno si sono bendati gli occhi, armati di un bastone e resi protagonisti dell'ignobile vicenda. È successo a Roma nella notte di lunedì 16 settembre verso le ore 1:30. Ad incoraggiare la folla anche il dj; lo speaker poi ha urlato: "Ragazzi, è ufficiale: abbiamo rotto la testa a Salvini".

La reazione della Lega. In una nota a firma di Francesco Zicchieri, coordinatore Regionale, Claudio Durigon, vice coordinatore regionale, Flavia Cerquoni, coordinatore romano, Maurizio Politi, capogruppo in assemblea capitolina, Daniele Maggi, coordinatore del Municipio Roma 8, e Franco Federici e Raffaella Rosati, consiglieri municipali, si legge: "È vergognoso quanto accaduto questa notte nel corso di un evento a parco Schuster. Un gruppo di esaltati ha appeso ad un filo la testa di Salvini e poi ha proceduto a prenderla a bastonate, con tanto di incoraggiamento del dj. Cosa ancora più scandalosa è il fatto che l'evento risulti sponsorizzato mediaticamente dai siti di Roma Capitale". I leghisti romani hanno poi annunciato di aver "predisposto un'interrogazione urgente al sindaco per sapere se abbiano usufruito di finanziamenti pubblici e soprattutto chiediamo che Virginia Raggi si dissoci immediatamente da tale gesto, togliendo eventuali autorizzazioni a questi fomentatori di odio".

E' partita la caccia a Salvini. I voli di Stato, la foto su fb con il figlio di un boss. Ora che è senza poltrona tutti all'assalto al leader della Lega con qualsiasi scusa. Panorama l'11 settembre 2019. Nemmeno il tempo di lasciare il Viminale che Matteo Salvini si trova al centro di inchieste giudiziarie e polemiche spuntate come i funghi in autunno. Guardiamo solo alle ultime 24 ore. La prima stilettata arriva dalla Corte dei Conti che oggi (è solo un caso, ovviamente) rende note le conclusioni dell'inchiesta contro l'ex Ministro degli Interni sui cosiddetti "voli di Stato"; inchiesta chiusa con l'archiviazione della posizione del leader della Lega ma con la dichiarazione finale che "i voli erano illegittimi", giusto per lasciare una bella macchia visibile di fango. La seconda arriva dal Capo della Polizia, il Prefetto Gabrielli, che ricorda, riguardo alle volte in cui Salvini ha indossato la divisa della Polizia, che "gli italiani non sono idioti...". Passano poche ore e tocca all'Antimafia chiedere chiarimenti sulla foto che il figlio del Boss di Salerno Francesco Martone, ha postato sulla sua pagina facebook; foto che è un selfie proprio con Salvini. Ed ecco, immediata, la richiesta di chiarimenti avanzata dal presidente della Commissione Antimafia, Nicola Morra (M5S): "Venga in Commissione a spiegare". Per chi avesse poca memoria Morra è lo stesso senatore secondo cui dietro il bacio al crocifisso di Salvini ci siano in realtà messaggi in codice rivolti all'ndrangheta...Siccome, soprattutto in politica e nel mondo giudiziario, difficilmente le cose succedono per caso ci sono già elementi sufficienti per capire che è partita la guerra a 360° contro il leader della Lega che, senza la protezione del suo ruolo di Ministro dell'Interno, è diventato attaccabile da ogni lato, con ogni mezzo, scusa e pretesto. Cose già viste ma che lasciano quel senso di tristezza sui metodi ed i tempi con i quali si vuole sconfiggere l'avversario politico: vale tutto tranne l'unica arma davvero democratica, cioè il voto degli italiani. Chissà da quanto tempo Conte, Gabrielli, Morra non sopportavano più Salvini. Ma finché era Ministro e loro alleati o subalterni, tutti a tacere. Oggi che non lo è più tutti che parlano. Nella savana ci sono due tipi di animali: quelli che si affrontano a viso aperto e quelli che arrivano solo quando l'avversario è ferito. Questione di coraggio e lealtà.

Chiara Giannini per “il Giornale” il 14 dicembre 2019. La procura di Roma sembra essersi accanita nei confronti dell' ex ministro dell' Interno Matteo Salvini per la questione dei voli di Stato effettuati quanto era a capo del Viminale. Il leader della Lega, però, si mostra tranquillo e ribadisce di non aver mai usufruito dei mezzi in questione per motivi personali o per fare campagna elettorale. Il generale di Brigata in ausiliaria dell' Aeronautica Militare, Corrado Cicerone, spiega il perché Salvini non rischia niente. «È la normativa - chiarisce - a blindare l'ex ministro». Perché? «Ho gestito il trasporto aereo di Stato per circa 10 anni - racconta il generale - I voli di Stato devono essere limitati al presidente della Repubblica, presidenti di Camera e Senato, al presidente del Consiglio dei ministri e al presidente della Corte costituzionale. Dette personalità non compaiono sul sito della presidenza del Consiglio». Cosa che invece accade per i ministri. «Il trasporto aereo di Stato - prosegue - è sempre disposto, secondo quanto previsto dall'articolo 1 comma 2 della direttiva PCM 23/09/2011 per conferire certezza dei tempi e celerità nei trasferimenti, per attendere più efficacemente allo svolgimento dei compiti istituzionali e per garantire il livello adeguato di sicurezza della personalità. Ogni forza armata e corpo armato dello Stato - dice poi - dispone in autonomo di velivoli, generalmente di tipo P180». E ancora: «Polizia e vigli del fuoco hanno in dotazione tale tipo di velivolo. La normativa per l'utilizzo di tali aeromobili è emanata dall'esercente tenendo in debita considerazione e riferendosi alle normative che regolano i voli di Stato. Nel momento in cui si effettua una richiesta di trasporto aereo, l'autorità richiedente deve giustificarne i motivi che devono necessariamente ossequiare le normative. Il trasporto deve rispondere ai criteri di economicità e impiego razionale delle risorse, previa rigorosa valutazione dell'impossibilità, dell'inopportunità o della non convenienza all' utilizzo di altro mezzo, pena la non concessione del trasporto». È quasi impossibile che si «scampi» ai controlli. Dopo le polemiche sul comportamento dei furbetti Renzi e Alfano, che presero i voli di Stato per andare in ferie o per fare campagna elettorale, c' è molta più attenzione. «Premesso ciò - chiarisce Cicerone - e presa visione delle tabelle diffuse sui mass media dove per ogni singolo volo esiste un motivato impegno istituzionale e in considerazione di assicurare un adeguato livello di sicurezza a un ministro dell' Interno, credo che in un' epoca dove tutto risulta visibile approfittare di un trasporto aereo quando non ne ricorrono le premesse sia alquanto impossibile». Salvini fece, secondo i dati diffusi durante il suo mandato proprio dal Viminale, 24 tratte coi voli di Stato e 19 coi velivoli della Polizia. Ma i controlli erano già serrati all' epoca, come confermato dal generale. Ecco perché l'ex ministro è tranquillo: la normativa è sempre stata rispettata e un rinvio a giudizio sarebbe «forzato».

"SALVINI? AGLI IGNORANTI IL POTERE DÀ UBRIACATURA". Pina Francone per il Giornale il 12 settembre 2019. A Massimo Cacciari, Matteo non è mai piaciuto, visto che spesso e volentieri ha trovato il modo di attaccare senza mezzi termini il capo politico del Carroccio. L'antipatia del filosofo verso l'ex ministro dell’Interno è cosa nota e nella puntata di martedì sera di Otto e mezzo, l'accademico ha avuto ulteriormente modo di esternarla. Parlando con Lilli Gruber della nascita del governo giallorosso e della caduta, in agosto, di quello gialloverde, l'ex sindaco di Venezia, sentenzia: "Agli ignoranti il potere dà effetti da ubriacatura. Salvini sapeva di arrivare a uno scoglio insuperabile. Con la Finanziaria doveva fare cose importanti sulle tasse, avendo promesso la Flat Tax, e accontentare le regioni sull’Autonomia. Ma di soldi non ce n'erano…". Dunque, incalzato dalla padrona di casa che gli chiede se la leadership di Salvini nella Lega sia ancora solida o meno, Cacciari replica così: "No, non è più solida, assolutamente. Però, attenzione, perché è ancora tutto nelle sue mani…".

Da Libero Quotidiano il il 10 settembre 2019. Una scena sconcertante a L'Aria che tira. L'economista Giuliano Cazzola, in collegamento con Myrta Merlino, assiste in silenzio all'intervista in diretta di Matteo Salvini al Senato. Poi prende la parola e con estrema tranquillità spiega: "Se avessi saputo che avrei dovuto ascoltare Salvini per 20 minuti non sarei venuto. La mia posizione su di lui è molto chiara: deve andare a fare in culo". La Merlino resta di sasso, allibita. In studio, l'ex sindaco leghista di Padova Massimo Bitonci è fuori di sé dalla rabbia: "Ma è una cosa inaccettabile". La Merlino cerca di far ritrattare il suo ospite, Bitonci si toglie il microfono dalla giacca in segno di protesta e chiede di poter lasciare il programma di La7. Dopo alcuni minuti di imbarazzo ("Io resto qui e non ritratto nulla", sorride sornione Cazzola), la Merlino riesce a mediare in qualche modo: "Mi scuso per il termine volgare che ho usato - è la (presunta) marcia indietro di Cazzola -, ma confermo la mia disistima e disprezzo per Salvini". "Eccoli i democratici", è il commento amareggiato di Bitonci. E molti spettatori, sui social, confermano: uno spettacolo desolante.

Salvini, frase shock di Fabio Sanfilippo. E la Rai lo sanziona. Pubblicato venerdì, 06 settembre 2019 da Corriere.it. «Caro Matteo Salvini, tempo sei mesi e ti spari, nemico mio». Fabio Sanfilippo, caporedattore Rai di Radio 1, ha festeggiato con queste parole l’addio al governo del leader della Lega. Le durissime parole del giornalista, via Facebook, hanno innescato reazioni politiche di condanna bipartisan. «Mi dà fastidio il post di un giornalista della Rai in cui mi invita al suicidio, tirando in ballo mia figlia e dicendo che le servirà un percorso di recupero — commenta Salvini —. Tu, Sanfilippo, giornalista pagato dagli italiani, ma come ti permetti?». Solidarietà viene espressa da tutti i fronti politici, con in prima linea gli avversari giurati del Pd. «Nell’ultimo mese ho combattuto una durissima battaglia per mandare Matteo Salvini a casa. Credo — osserva Matteo Renzi — di aver fatto il mio dovere da cittadino e da senatore. E credo di aver vinto questa battaglia insieme a tante e tanti. Ma proprio per questo rabbrividisco quando leggo il post del giornalista Rai. C’è un limite di decenza. Ho lottato e lotterò sempre contro Salvini. Ma chi, pagato coi soldi degli italiani, parla di suicidio di un avversario e addirittura tira in ballo una piccola bambina si deve vergognare». La Rai, intanto, ha avviato un procedimento disciplinare urgente nei confronti di Sanfilippo. «L’azienda — spiega una nota di Viale Mazzini — considera gravissime le affermazioni del giornalista. La Rai emanerà una disposizione sull’uso dei social da parte dei propri dipendenti». A sollevare il caso del post di Sanfilippo, con le critiche a Salvini, era stata proprio la Lega, annunciando iniziative in commissione di Vigilanza.

Rai, un giornalista invita Salvini su Facebook al suicidio. Viale Mazzini apre un provvedimento disciplinare. La Lega chiede interventi. Anche il Pd condanna la pubblicazione del post. Renzi: "Rabbrividisco. C'è un limite di decenza che va rispettato". La Repubblica il 06 settembre 2019. Nuova polemica fra Matteo Salvini e un giornalista. Questa volta si tratta di Fabio Sanfilippo, caporedattore di RadioRai. "Mi dà fastidio il tweet di un giornalista della Rai in cui mi invita al suicidio tirando in ballo mia figlia e dicendo che le servirà un percorso di recupero. Tu, Sanfilippo, giornalista pagato dagli italiani, ma come ti permetti?", ha detto il leader della Lega, a In Onda su La7. Il leader della Lega ha aggiunto: Vergognati schifoso che non sei altro, prendertela con una bambina di sei anni". La Rai, in serata, ha comunicato di avere aperto un procedimento discipliare contro Sanfilippo. "L'azienda considera gravissime le affermazioni fatte dal giornalista sul proprio profilo Facebook", recita il comunicato dell'azienda. Viale Mazzini informa che "all'inizio della settimana prossima la Rai emanerà una disposizione sull'uso dei social da parte dei propri dipendenti". La critica di salvini è rilanciata da Massimiliano Capitanio, segretario leghista della commissione di Vigilanza Rai. "Le offese a Matteo Salvini pubblicate lo scorso 4 settembre dal caporedattore di Rai Radio1 Fabio Sanfilippo sul proprio profilo Facebook sono molto gravi. Abbiamo appena presentato un quesito in Commissione parlamentare di Vigilanza Rai per la verifica dei contenuti di questo post. E' chiaro che frasi del tipo 'tempo sei mesi ti spari nemico mio' vanno ben oltre la libertà di espressione e di critica", scrive il deputato leghista. "Se poi a scrivere certe nefandezze - continua Capitanio - è un giornalista del servizio pubblico radio-televisivo nei confronti di un ministro e parlamentare della Repubblica e, cosa ancor più riprovevole, della sua famiglia, la questione assume contorni più inquietanti. Chiediamo dunque alla Rai quali provvedimenti intende assumere; se Sanfilippo fosse in servizio nel momento in cui ha pubblicato questo post a dir poco vergognoso e cosa intenda fare per regolare una volta per tutte l'uso dei social network da parte dei propri dipendenti". La pubblicazione del post da parte di Sanfilippo viene criticata anche dal Pd. "Gli attacchi del caporedattore RadioRai Sanfilippo contro Salvini sono inaccettabili e gravi, come altri episodi contro altri leader. Direttore Cdr e Cda prendano distanze, aprano verifica interna, non si può consentire simili barbarie, in attesa che Vigilanza approvi nuovo codice etico", scrive infatti su Twitter Michele Anzaldi,  deputato del Pd e segretario della commissione di Vigilanza. Arriva anche la condanna di Matteo Renzi. "Rabbrividisco quando leggo il post di un giornalista Rai che parla del suicidio di Salvini entro sei mesi e tira in ballo la figlia del leader leghista. C'è un limite di decenza e di rispetto umano che questo giornalista della Rai avrebbe dovuto rispettare", dice l'ex premier.

''CIAO, SONO LA MAMMA DELLA FIGLIA DI SALVINI''. Lettera di Giulia Martinelli, mamma della bimba di Salvini, a ''Libero Quotidiano'' l'8 Settembre 2019. Caro Direttore, affido a te e al tuo giornale queste poche righe per esprimere la mia amarezza, la mia rabbia e il mio dolore. Sì dolore. Quello che ho provato nel leggere due giorni fa le parole allusive e meschine scritte e pubblicate su mia figlia Mirta e sul suo papà. Dolore per chi dice di amare e non odiare, per chi è padre, per chi ha la grande fortuna di avere avuto il dono di figli da crescere, da educare, da portare sulle spalle e da aprire al mondo. Quel mondo che deve insegnare rispetto, lealtà e valori, ovvero l' educazione che io e Matteo stiamo dando quotidianamente a nostra figlia. Rabbrividisco di fronte a un padre, ad un giornalista che travolge e minaccia la nostra intimità, coinvolgendo una bambina di sei anni che ignora e nulla ha a che fare con le vicende politiche delle ultime settimane. Mi tremano le mani. Personalmente in tanti anni non ho mai detto né scritto una parola, non sono mai intervenuta pubblicamente, ma mai come oggi si era arrivati così in basso, e mai come oggi si è mai offeso e vilipeso il rifugio affettivo e sicuro di una bambina di sei anni. I nostri figli vanno a scuola, i nostri figli leggono i social (la mia per fortuna è ancora troppo piccola) , i nostri figli guardano la tv, i nostri figli hanno bisogno di guide e di genitori che amino e che agiscano a protezione del loro bene più prezioso. Sfregiare la loro intimità ed il loro equilibrio psicologico a fini politici è un delitto giornalistico imperdonabile. Perché gratuito, miserabile e soprattutto ignorante. Grazie per la sua attenzione e cari saluti.

Risposta di Vittorio Feltri: Cara Giulia, amica mia, la tua lettera mi ha commosso. Intendiamoci, io riconosco a tutti, perfino ai giornalisti della Rai, il diritto di scrivere ciò che vogliono, anche frasi sconnesse e deliranti. Ma in questo caso forse si è superato ogni limite, eppure sono sicuro che l' Ordine dei giornalisti non farà una piega essendo impegnato a perseguire me perché non apprezzo la cultura islamica. Invitare un presunto avversario a suicidarsi non è cosa carina, prendersela poi con una bimba è un atto che non merita commenti , bensì solo biasimo. Se proprio bisogna sperare che scorra del sangue, preferirei fosse quello di un collega scriteriato che non quello di Salvini. Un abbraccio a te e alla tua bella creatura.

Lettera di Giampiero Mughini a Dagospia l'8 Settembre 2019. Caro Dago, premetto che non ho nulla da dire su nulla della politica italiana corrente. A ciascuno il suo, ciascuno faccia e dica come può. Detto, questo che un miserabile semianalfabeta tiri in ballo offendendola la figlia di un suo avversario politico (di nome Matteo Salvini), è cosa per me sommamente ripugnante. Provo per costui solo disprezzo, solo disprezzo, solo disprezzo. Io non offenderei la figlia di Adolf Hitler, se ne avesse avuta una. Ho frecce migliori all’arco della mia eventuale vis polemica. Per fortuna non sono un analfabeta. Ciao, Dago. Giampiero Mughini

Sanfilippo, il giornalista Rai dopo aver previsto il suicidio di Matteo Salvini denuncia il leader della Lega. Libero Quotidiano il 9 Settembre 2019. "Ricevo valanghe di minacce, anche di morte. Ne risponderà, il signor Salvini. Ovviamente in Tribunale". E' un passaggio del post che Fabio Sanfilippo, caporedattore di Radio 1 Rai, ha pubblicato su Facebook. "La reazione scomposta del signor Salvini e dei suoi dimostra che il mio personale e iperbolico post, al netto della caduta di stile sul citare la figlia di cui ho fatto peraltro pubblica ammenda, deve aver toccato nervi scoperti", scrive Sanfilippo, facendo riferimento al post di alcuni giorni fa nel quale comparivano le parole, indirizzate al leader leghista, "tempo tre mesi e ti spari". "Tipo che dopo essersi "messo fuori gioco" da solo, la Lega perde consensi ma soprattutto che il signor Salvini rischia di perdere il controllo del suo partito", aggiunge Sanfilippo. "Egli continua a insultarmi - citando ovviamente i familiari, prima li ostentava sui social - in tv, sui giornali, nei comizi. Incitando i suoi all'odio nei miei confronti. Ricevo valanghe di minacce, anche di morte. Ne risponderà, il signor Salvini. Ovviamente in Tribunale. Peace and love", conclude. 

Fabio Sanfilippo: La reazione scomposta del signor Salvini e dei suoi dimostra che il mio personale e iperbolico post, al netto della caduta di stile sul citare la figlia di cui ho fatto peraltro pubblica ammenda, deve aver toccato nervi scoperti. Tipo che dopo essersi "messo fuori gioco" da solo, la Lega perde consensi ma soprattutto che il signor Salvini rischia di perdere il controllo del suo partito. Egli continua a insultarmi - citando ovviamente i familiari, prima li ostentava sui social - in tv, sui giornali, nei comizi. Incitando i suoi all'odio nei miei confronti. Ricevo valanghe di minacce, anche di morte. Ne risponderà, il signor Salvini. Ovviamente in Tribunale. Peace and love.

“LE PAROLE SU MIA FIGLIA GLIELE FACCIO RIMANGIARE”. Salvini querela il giornalista Rai Sanfilippo: "Le parole su mia figlia gliele faccio rimangiare". Da Today il 9 settembre 2019. Salvini ha annunciato l’intenzione di querelare Fabio Sanfilippo, il giornalista Rai autore nei giorni scorsi di un post al vetriolo contro l’ex ministro. Lo riferisce l'agenzia AdnKronos. "Non querelo mai nessuno - ha detto Salvini parlando a Domodossola - ma questo signore lo querelo. Perché non solo ha scritto che dovrei suicidarmi, ma nelle ultime righe ha aggiunto che mia figlia di sei anni andrebbe rieducata, e questo glielo faccio rimangiare". "In qualsiasi azienda pubblica se scrivi una cosa del genere vieni licenziato", ha poi aggiunto il leader della Lega. "Siamo stati troppo buoni, quando torneremo al governo magari metteremo una o due reti pubbliche sul mercato". Ma cosa aveva scritto Sanfilippo sui social? In realtà - a dispetto di quanto si è letto su molti quotidiani - quello del giornalista non sembrava affatto un invito al suicidio.  "Ti sei impiccato da solo, e questo è evidente - scriveva Sanfilippo nel post - Io ne sono felice. Vabbè, si era capito. Ora perderai almeno il 20, 25 per cento dei consensi che ti accreditano i sondaggi, lo sai? E che fai? Non hai un lavoro, non sai fare niente, non hai un seggio da parlamentare europeo, hai perso il posto da ministro, certo stai in parlamento. Con la vita che ti eri abituato a fare tempo sei mesi e ti spari nemico mio". "Penso che perderai pure la segreteria della Lega nord o cosa si chiama. Quello che non ti perdonerò - scriveva ancora il giornalista - è di aver plagiato la mente dei miei due nipoti, con i miei figli non ci sei riuscito, cazzo. Ma li recupero, fidati. Mi dispiace per tua figlia, ma avrà tempo di farsi seguire da persone qualificate". Più che un invito a compiere gesti estremi quella di Sanfilippo ha il sapore di un’iperbole, di un dileggio. Anche se non c'è dubbio che le parole usate siano fuoriluogo. Se siano state diffamatorie o meno lo deciderà la magistratura. Sanfilippo ha poi spiegato all’Agi che "quel post lo riscriverei senza citare la figlia di Salvini e chiarendo meglio il riferimento al suicidio del leader della Lega". Il suo, assicura, non era "un invito a spararsi, ma la constatazione che si è ‘fatto fuori’ politicamente. Poi, certo, la macchina mediatica della Lega ha fatto in fretta a travisare le mie parole e a usarle a proprio uso e piacimento. È’ inutile che faccia finta di non capire. Resta il fatto che io non ho mai usato i microfoni della Rai per fare propaganda politica e che quella è la mia pagina personale, che non utilizza alcun logo dell’azienda. È un po’ come casa mia e io a casa mia scrivo e dico quello che mi pare".

Gino Strada insulta Matteo Salvini: "Bullo, indecente, non paga le tasse. E il senegalese..." Libero Quotidiano il 2 Settembre 2019. Un Gino Strada scatenato nell'insultare Matteo Salvini, anche adesso che il leghista è a un passo dall'addio al governo e al ministero dell'Interno. In un'intervista concessa a Repubblica a margine del concerto commemorativo in onore di Teresa Strada, il fondatore di Emergency ha aspramente criticato Salvini sulla crisi di governo: "Dice che gli altri sono attaccati alle poltrone, ma guardasse dov'è seduto. Siamo nell'indecenza", sparacchia. Mister Emergency ha poi rincarato la dose: "Salvini fuori dal Governo è un fattore positivo, di tutto abbiamo bisogno fuorché di un bulletto reazionario che non ha nessuna idea delle istituzioni, che non ha mai lavorato, che non ha nessuna competenza, che non ha nessuna idea di come funzionino i meccanismi democratici, che chiede pieni poteri... Ma dove le ha lette 'ste cose?". Infine, ha concluso proponendo un improbabile mix di accuse: "Ha bisogno di dire alla gente che se non ha il lavoro, la colpa è del senegalese, non la sua che ha rubato 49 milioni e non paga le tasse. Purtroppo questa è la situazione". Il consueto attacco scomposto in cui Strada mischia mele e pere a casaccio. Pur di dar contro a Salvini, va da sé.

Scatta l'agguato social contro Salvini. Da Saviano alla Boldrini e alla Trenta, tutti attaccano il leader leghista. Chiara Giannini, Domenica 25/08/2019 su Il Giornale. «Tutta colpa di Salvini»: se il governo cade è responsabilità del ministro dell'Interno, se il Pd rischia di andare all'esecutivo coi 5 stelle, idem. Insomma, lo sport preferito dei politici sembra essere diventato quello di prendere il leader della Lega a male parole, almeno sulla rete. Gli haters stanno affrontando il ministro dell'Interno sui social, ovvero sul campo di battaglia che lui conosce meglio. «No - scrive su Twitter Laura Boldrini, che non perde occasione per dargli contro - non sono mai stata al governo e non tratto poltrone. Ma, poi, di poltrone parli proprio tu? Sei da 26 anni in politica a fare inciuci, da sempre mantenuto con soldi degli italiani. Comunque hai l'aria stanca e poco lucida, prova a chiudere Facebook e a farti una passeggiata». Le fa eco il solito Roberto Saviano, che gli dà lo stesso appellativo che gli è valso una querela: «Ministro della mala vita». E sempre su Twitter cinguetta: «Un pericoloso ipocrita, così dovrebbe essere definito Conte, che viene osannato oggi quasi fosse un padre della patria. Presidente, il #MinistrodellaMalaVita Salvini sedeva al suo fianco e Lei non ha impedito quanto accaduto nell'ultimo anno. Sarà ricordato solo per questo». E ancora: «Tengo duro, ovvero mi attacco alla poltrona: vuoi mettere la differenza che c'è tra scappare da ministro o da comune mortale? Nel secondo caso ti beccano immediatamente; nel primo, degli utili idioti che ti salvano la pelle li trovi sempre. #capitancodardo». È invece su Facebook, social di cui non fa più a meno, screditando avversari politici, giornalisti non allineati e chiunque le si metta contro, che si sfoga il ministro della Difesa Elisabetta Trenta parlando di migranti: «Caro Matteo, il tuo tentativo di screditare non solo me, ma l'intera Difesa è inqualificabile. Ricordati che le istituzioni non sono le nostre e che noi diamo solo l'indirizzo. In una riunione in cui eri presente ho disposto di intensificare l'attività di polizia marittima. Le navi della Marina Militare non hanno scortato la nave Ong Open Arms per far sbarcare a Lampedusa i migranti; bensì come da sollecitazione del Tribunale dei minori di Palermo erano pronte a intervenire in favore dei minori a bordo, il mare era forza quattro in aumento e la nostra Marina era predisposta eventualmente a prestare loro soccorso». C'è poi Ciriaco De Mita, di cui non si sentiva parlare da tempo, che usa la tv: «Si ritiri, la politica è pensiero e non arroganza». Gad Lerner, invece, non si risparmia ancora su Twitter: «Che errore ha fatto @matteosalvinimi a sedersi accanto a @GiuseppeConteIT al #Senato. Guardarlo mentre veniva pubblicamente preso a schiaffi deve essere stato imbarazzante anche per i suoi sostenitori». Salvini dalla sua risponde non più con messaggi brevi, ma con dirette Facebook che agli italiani sembrano piacere di più. Contro gli odiatori sembra aver scoperto la formula perfetta: quella di parlare faccia a faccia. Riuscirà a recuperare consensi?

Marco Travaglio insulta Salvini: "Il Cazzaro Verde è stato preso a sberle dall'alto al basso da Conte". Libero Quotidiano il 21 Agosto 2019. Marco Travaglio non si smentisce mai e come poteva perdere l'occasione di tessere le lodi di Giuseppe Conte. Il discorso del premier contro Matteo Salvini in Senato ha fatto godere il direttore del Fatto Quotidiano che, anzi, ha ben deciso di rincarare la dose. "Conte ha sottoposto Salvini al trattamento dell'asfaltatura completa, aiutato dall'ennesimo harakiri mediatico del Ca**aro Verde che si è piazzato al suo fianco sperando di spaventarlo e poi riducendosi a fargli le faccette: solo che era seduto sotto, in posizione di minorità rispetto al premier in piedi che lo prendeva a sberle dall'alto al basso". A Travaglio non par vero che "l'Avvocato degli italiani" si è svegliato dal sarcofago in cui è stato rinchiuso fino ad ora: "Conte, a dispetto della doppia propaganda leghista e sinistrista, non è uomo dell'establishment né del vecchio centrosinistra. È l'interprete più apprezzato di un populismo-sovranismo dal volto umano che ottiene risultati in Italia e in Europa, diversamente da quello parolaio, inconcludente e dannoso delle destre. Perciò perché dovrebbe dimettersi?". Ma al direttore non interessa tanto il premier uscente quanto più riempire di insulti l'acerrimo nemico Salvini: "Ora il Cazzaro è al punto più bassodella sua parabola politica. Solo il Pd può salvarlo. E pare che, ancora una volta, stia lavorando per lui". 

Dagospia: SLURP, SLURP! TRAVAGLIO STA A CONTE COME EMILIO FEDE A BERLUSCONI. Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 21 Agosto 2019. Rivedendo la nostra copertina sulla sfida all' Ok Corral e parafrasando Clint Eastwood, possiamo tranquillamente dire che quando un pistola incontra un uomo col fucile, il pistola è un uomo morto. Ieri Conte ha sottoposto Salvini al trattamento dell' asfaltatura completa, aiutato dall' ennesimo harakiri mediatico del Cazzaro Verde che si è piazzato al suo fianco sperando di spaventarlo e poi riducendosi a fargli le faccette: solo che era seduto sotto, in posizione di minorità rispetto al premier in piedi che lo prendeva a sberle dall' alto al basso, con una lezione di politica, democrazia, diritto parlamentare e costituzionale, ma anche di dignità e di stile allo scolaretto bullo e somaro. Il quale ha raddoppiato l'autogol parlando subito dopo e rendendo ancor più evidente l'abisso morale, intellettuale e dialettico che lo separa dal premier, con un discorso sgangherato, senza capo né coda: doveva almeno spiegare la crisi più pazza del mondo, invece se n' è scordato o non sapeva che dire. Meglio sbaciucchiare rosari e sacri cuori, fra gli applausi dei leghisti più pii, tipo Calderoli che si sposò col rito celtico davanti al druido. Il confronto ravvicinato fra quei due modelli politico-antropologici crea, agli occhi degl'italiani, un nuovo bipolarismo tutto nel campo "populista". Conte, a dispetto della doppia propaganda leghista e sinistrista, non è uomo dell'establishment né del vecchio centrosinistra. È l'interprete più apprezzato di un populismo-sovranismo dal volto umano che ottiene risultati in Italia e in Europa, diversamente da quello parolaio, inconcludente e dannoso delle destre. Perciò, oltreché per capitalizzare i sondaggi e liberarsi delle indagini, Salvini ha rovesciato il governo: Conte stava crescendo troppo per lasciargli altro campo libero da fiore all'occhiello del M5S. È lo stesso timore che anima Zingaretti e Renzi, divisi su tutto fuorché sull' ostilità a Conte, tanto comprensibile per ragioni di bottega quanto miope per gli interessi dell'Italia: se mai nascesse un governo M5S-Pd, l' unica speranza di renderlo popolare sarebbe di affidarlo all'"avvocato del popolo". Ieri è bastato sentirlo parlare, in un dibattito parlamentare di livello infimo, per instillare in tutti una domanda spontanea: ma perché uno così deve dimettersi? E perché non lo rincorrono tutti per affidargli il nuovo governo? Se non per convinzione, almeno per convenienza, essendo Conte da mesi l' unico leader che batte Salvini nei sondaggi. Figurarsi dopo ieri. Ora il Cazzaro è al punto più basso della sua parabola politica. Solo il Pd può salvarlo. E pare che, ancora una volta, stia lavorando per lui.

Saviano: "Conte? Pericoloso ipocrita". Poi insulta Salvini. "Il Presidente Conte? Oggi viene osannato come un padre della patria, ma in realtà è un pericoloso ipocrita: ha sottoscritto immonde porcate con il ministro della malavita Salvini". Lo scrive su Facebook Roberto Saviano. Gianni Carotenuto, Mercoledì 21/08/2019 su Il Giornale. Giuseppe Conte? "Un pericoloso ipocrita osannato quasi fosse un padre della patria, dopo avere sottoscritto immonde porcate, se non veri e propri crimini. Il ministro della malavita Salvini sedeva al suo fianco". È il duro attacco di Roberto Saviano contro l'ex premier e il segretario leghista. Su Facebook, lo scrittore e giornalista di Repubblica ha criticato gli "osanna" che gran parte degli elettori progressisti hanno rivolto a Conte dopo il discorso al Senato con cui ha annunciato le sue dimissioni. Un lungo intervento nel quale "l'avvocato degli italiani" - così si era presentato Conte all'inizio della sua esperienza di governo - ha accusato il suo ex ministro dell'Interno di essere, come scrive oggi Giuseppe Marino sul Giornale, "eversivo, autoritario, dotato di scarso senso delle istituzioni, assente sul fronte della legge di bilancio, prevaricatore, reticente sul Russiagate e inadeguato al ruolo di ministro". Un vasto repertorio di accuse che per Saviano, però, non bastano per ripulire la coscienza di Conte. Lo scrittore lo definisce "un pericoloso ipocrita, che viene oggi osannato quasi fosse un padre della patria, dopo aver invece sottoscritto immonde porcate", scrive Saviano, "se non veri e propri crimini - cosa è il caso Diciotti se non un sequestro di persona? - delle quali, nel proprio ruolo, è stato il primo responsabile". Ma il vero affondo dello scrittore di "Gomorra" è contro Matteo Salvini. "Presidente Conte, il #MinistrodellaMalaVita Salvini sedeva al suo fianco e lei non ha impedito quanto accaduto nell'ultimo anno: non lo ha forse fatto per quella stessa ambizione personale che addebita al suo collega di governo? Sarà ricordato per questo e per niente altro". Tra le "immonde porcate" a cui fa riferimento Saviano, oltre al "salvataggio" di Salvini sul caso della nave Diciotti da parte del Movimento 5 Stelle, ci sono soprattutto i due decreti sicurezza, contro i quali Saviano si è scagliato a più riprese ingaggiando uno scontro frontale con l'ex ministro dell'Interno, in una telenovela pressoché quotidiana di accuse e insulti reciproci. L'ultima puntata appena qualche giorno fa, quando lo scrittore campano ha chiesto addirittura il carcere per Salvini a causa dei suoi ostinati "no" allo sbarco dei migranti della Open Arms. Anche in quel caso, Saviano aveva ricevuto centinaia di commenti di apprezzamento. Ma il post contro Conte non è andato giù a molti suoi (ex) estimatori, che lo hanno accusato di avere preso un granchio. "Io lo ricorderò per altro... Sul piano culturale gli puoi pulire le... scarpe", gli scrive Paolo Rallo. "Per quanto ti stimi, trovo che questa sia una delle peggiori "uscite" tu abbia fatto. Ritengo che Conte sia stato l’unico Presidente del Consiglio a dare lustro alla Nostra Povera Italia", aggiunge Monica Mallardi. Ancora più severo il commento di Aurora Busulla: "Culturalmente parlando, tu e Conte siete lontani anni luce! Un gran signore, una persona che questo paese necessita. Tu hai solo che da imparare da uno come lui".

RITRATTONE ACIDO DI SAVIANO BY FACCI. Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 21 agosto 2019. Le opinioni su Matteo Salvini non c'entrano più, anche gli "amici" di Roberto Saviano sanno che Saviano sul tema è andato fuori di cotenna da tempo: ma fanno spallucce, lasciano che lo scrittore (va bene scrittore?) faccia i suoi sforzi per continuare a far parte del paesaggio pur senza un ruolo preciso, e tirano dritto. Fanno finta di niente. Ormai Saviano è un modo di dire: «Bastava Saviano», ha detto ieri Salvini riferito a Giuseppe Conte, «per raccogliere tutti questi insulti, non il presidente del Consiglio». Saviano. Un Saviano. Perché è vero, una persona sana di mente può anche stufarsi di passare a vita per quello di "Gomorra", e può anche tentare di reinventarsi socialmente e professionalmente come l' antagonista culturale (va bene culturale?) di Matteo Salvini: ma perdio, Saviano potrebbe sforzarsi di farlo un po' meglio. L' impressione che questo signore abbia sbroccato è ben precedente all' estate, e nei giorni scorsi è soltanto riuscito ad abbassare ancora di più l' asticella: «Il destino di Salvini è il carcere, e questo lo sta capendo anche lui; basterà che si spengano le luci». Ha stortato la bocca, a sinistra, anche qualche garantista residuale. Perché l' augurio sa tanto di auspicio massimo, di logica conclusione contro il male da parte del bene. Poco importa che il tremillesimo pretesto siano stati i 134 migranti della "Open Arms" ostaggio dei banditi libici, ma parimenti - ecco - secondo Saviano ostaggi «del bandito politico Matteo Salvini, il ministro della Malavita». Anche quest'espressione reiterata, «ministro della Malavita»: termine inaccettabile comunque lo si guardi, scorrettezza oltre ogni diritto di critica, tentativo di "mascariare" mafiosamente un nemico ripetendo all' infinito una sconcezza: sinché qualcosa resterà. È come se Saviano, nel perpetuo tentativo di riscattarsi e accreditarsi con qualcosa o con qualcuno, volesse far dimenticare quando giudicava una cosa per volta e sembrava, addirittura, una personcina equilibrata: farsi perdonare, per esempio, quando riconobbe i successi del governo Berlusconi nella lotta alla camorra e quando elogiò più volte il ministro Roberto Maroni, un leghista giudicato «uno dei migliori ministri degli Interni di sempre». Ai tempi aveva 31 anni e viveva da fuggiasco, superblindato, prigioniero e senza una vera vita privata. Oggi ha cinquant'anni e vive da fuggiasco, superblindato, prigioniero e senza una vera vita privata. Ma augura la galera a un vicepremier solo come passaggio di un' escalation, o, volendo vederla con dietrologia malata, come una previsione politica nel giorno in cui Salvini non avesse più la ribalta del Viminale e tornasse un semplice senatore, libero di essere accerchiato da una giustizia sovralimentata da un governo manettaro grillino-piddino. Dunque le esagerazioni di Saviano sanno sempre meno di opposizione politica e sempre più di disvelamento, di inciampo rivelatore, di smascheramento forcaiolo per l' uomo che diceva di amare Salamov e Solzenicyn ma ora ha virato su Travaglio e Davigo. È più comodo. C' è più gente da prendere al lazo sui social. Saviano rimane quello di "Gomorra" (con enormi, spaventose responsabilità circa la rilegittimazione mediatica di certa malavita) ma nel tempo ha cercato di trasformarsi in un' autorità morale che distribuisca pagelline su candidati ed eletti, sentenzi sui giornali e in tv e decida la presentabilità di tizio e caio. il salto Poi il grande salto, ma non sappiamo se di qualità: l' ossessione Salvini. Quello che chiude i porti alle Ong e dirotta le barche. Quello «inumano», «buffone», «incapace», «ministro della crudeltà» oltreché della citata malavita. Saviano è giunto a invocare la censura (una «forma disperata di opposizione all' orrore», «non dando notizia e non commentando le affermazioni più gravi di Matteo Salvini») e a giudicare il viceministro «un baro», uno che indossa le divise delle forze dell' ordine come «gesto autoritario» e «pericolosissimo per la democrazia». Salvini che «minaccia magistratura e oppositori di ritorsioni armate», uno che «tra la Lega di potere e Matteo Messina Denaro ci sono solo tre gradi di separazione», uno «ha Facebook, un Potere globale». Facebook appartiene a Salvini. Il quale, poco tempo fa, ha parlato contro la mafia nella speranza che in futuro possa valere come argomento difensivo in un processo per mafia contro di lui: parola di Roberto Saviano. Uno che col suo argomentare, col suo facile accostare un ministro alla malavita, potrebbe più facilmente definirsi come scrittore della malavita: nessuno pare più avere dubbi, ormai, sul fatto che l'effetto Gomorra abbia riqualificato l' immagine della Camorra stessa, e che a portarne la responsabilità, paradossalmente, sia stato chi l' aveva dapprima combattuta con un libro formidabile. Il libro è appunto "Gomorra", che poi si è fatto marchio e prodotto d' esportazione. Ed è patetico che a pensarla diversamente, ora, sia rimasto giusto Roberto Saviano e forse il quotidiano su cui scrive, nonché gli autori e attori del serial televisivo. Altri - politici, avvocati, magistrati, scrittori e attori - dicono tutti la stessa cosa, e non è quella che sostiene Saviano. È più simile a quella che ha raccontato l' attore Carlo Verdone: «Un mio amico insegnante ha fatto scrivere un tema ai bambini: "Il sogno della nostra vita". Un bambino vorrebbe diventare Genny Savastano, un altro il boss della banda della Magliana, una donna si ispira a donna Imma. Hanno indicato modelli malavitosi». Diffusi da scrittori malavitosi, direbbe Saviano.

L'ossessione "bestiale" di Giampaolo Pansa. Nel suo editoriale Maurizio Belpietro spiega le ragioni per cui non troverete più su Panorama la rubrica del noto giornalista. Maurizio Belpietro il 20 agosto 2019 su Panorama. Quando sono tornato a dirigere Panorama, Giampaolo Pansa, che avevo avuto come collaboratore negli anni di Libero e alla nascita della Verità, mi propose di riportare Il bestiario là dove era nato, ovvero sulla prestigiosa testata che avete in mano. «Farò una rubrica anarchica, se me ne darai l’occasione» fu la promessa. Ovviamente, essendo un estimatore di Giampaolo fin da quando ero studente, non potevo che essere felice di riaverlo nella mia squadra e per di più a Panorama. Peccato che Il bestiario si sia trasformato da subito in una gabbia in cui figurava una sola bestia, ovvero Matteo Salvini. Fin dai tempi della Verità avevo compreso che il ministro dell’Interno fosse diventato per Giampaolo una vera ossessione, al punto che egli non perdeva occasione per attaccarlo. In questi mesi, in effetti, Il bestiario non si è fatto mancare alcuna accusa o invettiva contro il capitano leghista. Ne riporto qui una breve rassegna, tanto per far capire di che parliamo. «Un boss», «un playboy attempato e sovraccarico di ciccia», con «un giro di donne da portarsi a letto» e «un tenore di vita che farebbe rivoltare nella tomba le nostre madri». «(Salvini, ndr) mi era sembrato un politico un po’ troppo muscoloso. Però non ho tardato a capire di avere di fronte un futuro dittatore. Salvini vuol diventare il padrone politico dell’Italia. Fanno bene a combatterlo i giornalisti alla Giampaolo Pansa. Purtroppo sono destinati a perdere. E dovranno ritenersi fortunati se porteranno a casa la pelle o eviteranno la galera». «Ha il fisico del cacciatore il nostro ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Per ora si esercita con i negri, ma prima o poi si darà da fare contro qualcun altro. Anche per tener fede al suo piacere di indossare divise da poliziotto. Più o meno simili a quelle che indossavano gli agenti di polizia che nel 1944 catturarono gli ebrei della mia città». È «personaggetto mortifero» il cui «stato d’animo resta quello del politico autoritario. Dobbiamo aspettarci il peggio. Ho già lasciato un giornale quotidiano dove gli editoriali si concludevano con un lapidario “Forza Salvini!”». «(Salvini, ndr) era convinto di essere l’uomo della Provvidenza […] e l’Italia diventò una repubblica autoritaria con un solo partito, quello Super Leghista». «Il rischio per noi italiani figli di nessuno sarà di cadere sotto il bastone leghista». «Salvini è una vera carogna. Lui si fida soltanto di sé stesso e delle colonne di carri armati che si sono già messi in moto per conquistare l’Italia. I suoi panzer sono simili a quelli della Guerra lampo che consentì a Hitler la conquista dell’Europa». «Salvini spaccherà qualche testa». «In questa estate 2019 esiste in Italia un solo libro su Salvini: il mio. Alcuni media ne hanno già parlato. Eppure la sera di martedì c’erano direttori di giornale inchiodati a una finzione: che Il Dittatore fosse un testo clandestino e non in vendita in tante librerie». Insomma Pansa, per dare addosso a Salvini, ha usato tutto l’armamentario di cui disponeva, accusandolo di essere grasso, barbuto, con una vita affettiva disordinata. Non essendogli sembrato sufficiente, ha paragonato il capo leghista a Hitler, arrivando a definirlo un cacciatore di ebrei e ad accostare le divise della polizia a quelle delle famigerate SS. Da ultimo Giampaolo aveva iniziato a invocare - lui che accusa Salvini di essere un dittatore - un colpo di Stato contro il ministro dell’Interno. A promuoverlo avrebbe dovuto essere Sergio Mattarella facendo carta straccia della Costituzione, secondo Pansa, per insediare un suo esecutivo difeso dai militari. Ecco, è a questo punto che ho detto basta, accondiscendendo alle decine di lettere di protesta ricevute dai lettori. Avevo provato a segnalare a Giampaolo le reazioni di chi compra Panorama, ma la sola risposta che avevo ottenuto era stata che, quand’era a Repubblica, anche Scalfari ne riceveva, ma si annoiava a leggerle. Al che ho dovuto dirgli che io non mi annoio affatto a leggere ciò che scrive chi ogni settimana spende tre euro, perché con quei tre euro il lettore è l’unico vero padrone di Panorama. Punto. Quanto a Salvini, questo giornale continuerà a scrivere ciò che pensa in piena libertà e se sarà il caso lo criticherà o lo difenderà, come fa con tutti gli altri politici. Senza invocare colpi di Stato o dittature. 

Marco Travaglio per “il Fatto quotidiano” il 19 agosto 2019. Saviano gli profetizza un futuro in galera. E Salvini punta subito alla seminfermità mentale. Spiace dissentire dall' amico Roberto, ma il destino del Cazzaro Verde non è il carcere: è una clinica psichiatrica. Moderna, confortevole, possibilmente munita di esperti in bipolarismo, ma nel senso clinico del termine: tipico di uno che rovescia il governo e poi si convince di non averlo fatto, tradisce gli alleati e poi li accusa di tradimento, presenta una mozione di sfiducia a Conte e poi si dice pronto a votargli la fiducia, annuncia le dimissioni dei ministri leghisti (incluso se medesimo) e poi comunica che resterà barricato al Viminale (dove peraltro non c' è mai) per salvarci dal "ritorno di Renzi, Boschi e Lotti" ai quali ha spalancato le porte lui stesso. Quel che è certo è che non possiamo più vederlo così, come si è mostrato ancora ieri in diretta Facebook: in stato confusionale, accovacciato nell' orto di casa Verdini, come colto da una necessità impellente da espletare dietro una frasca, a vaneggiare di elezioni immaginarie e di imprecisati "tavoli" per non pronunciare l' unica parola che gli sta davvero a cuore: "poltrone". Già, perchè annunciando la crisi di governo il 7 agosto senz' avere pronta la mossa successiva e pensando che gli altri stessero lì ad aspettare i suoi comodi, non aveva calcolato neppure la conseguenza più scontata dell' insano gesto: se un partito esce da un governo, deve abbandonare tutto. Ministeri, viceministeri, sottosegretariati, presidenze di commissione, uffici, auto blu, aerei blu, elicotteri blu, motoscooter blu. Lui invece pretende di restare nel governo che ha sfiduciato. E s'illude pure, a causa di un'altra patologia psichiatrica chiamata proiezione, di convincere gli italiani che sono gli altri a volere "le poltrone". Del resto l'ossessione per la poltrona è tipica dei politici italiani che, salvo rare eccezioni, non hanno mai avuto un mestiere né lavorato in vita loro. Tipo lui, che fa politica del 1990 a spese nostre, saltando dal consiglio comunale a quello regionale, dal Parlamento europeo a quello italiano su su fino al Viminale, senza mai toccare terra. Ora il suo problema è effettivamente drammatico: se non è più vicepremier e ministro dell'Interno, e magari lo anno fuori pure da capo della Lega, che fa? Torna alla Ruota della fortuna? E i suoi, quando sloggiano da cadreghe, poltrone e sofà di governo e sottogoverno, di che càmpano? La sua somma sfortuna è stata di imbattersi in un tipo strano, che invece un mestiere l'ha sempre avuto e non avrebbe alcun problema a tornarci quanto prima: il prof. avv. Giuseppe Conte. Che si comporta di conseguenza. Quando il Cazzaro Verde è andato ad annunciargli la crisi per "capitalizzare il consenso" (quello dei sondaggi e dei like), non ha fatto nulla per trattenerlo: gli ha semplicemente illustrato la rovina a cui andava incontro (puntualmente verificatasi a stretto giro di posta). E gli ha dato appuntamento in Parlamento, luogo a lui sconosciuto almeno quanto il Viminale. Dopodichè, anzichè brigare notte e giorno per conservare l' ufficio a Palazzo Chigi o agguantarne un altro, magari autonominandosi elegantemente commissario europeo o candidandosi alla guida dei 5Stelle, il premier ha iniziato a preparare le valigie. Un gesto che nessuno lo capisce. Non solo l'Uomo Poltrona. Ma nemmeno Renzi e Zingaretti che, non avendo mai sperimentato l' ebbrezza di un lavoro vero, ora pensano di "sistemare" Conte in Europa per mettere al suo posto qualche noto frequentatore di se stesso come il buon Raffaele Cantone, o qualche vecchia salma tecnocratica da far rimpiangere Monti. Non lo capiscono nemmeno i giornaloni e i giornalini, che continuano ad accreditare la leggenda di "Conte in Europa", manco fosse un pacco postale da affidare a un corriere espresso. O la panzana di Conte che si butta a sinistra sui migranti di Open Arms per "dare un segnale al Pd". Non si sono nemmeno accorti che la politica governativa su migranti e Ong non l' ha cambiata Conte nell' ultima settimana. L'ha cambiata Salvini, che prima faceva sbarcare minori, donne e malati, per poi tener bloccate le navi in attesa della disponibilità di altri Paesi alla redistribuzione e alla fine farle sbarcare alla chetichella (altro che "porti chiusi"). Stavolta invece ha rifiutato di far sbarcare i minori fino a sabato, ha violato una sentenza del Tar e impedisce lo sbarco degli altri anche se sei paesi Ue sono disposti a prenderseli. Il tutto per accreditare la leggenda del "dopo di me, l' invasione". Ma non c' è nulla da fare: politici e cronisti al seguito sono così disabituati ai politici liberi dall' ansia da poltrona, e dunque coerenti, che quando ne vedono uno non lo riconoscono.

Matteo Salvini umiliato da Travaglio: come lo sbattono in prima pagina sul Fatto, fotomontaggio vergognoso. Libero Quotidiano il 17 Agosto 2019. Si stanno sbizzarrendo al Fatto quotidiano. Il clima è incandescente, il Movimento 5 Stelle sta infierendo su Matteo Salvini e così il giornale di Marco Travaglio, per distacco il più grillino d'Italia, si adegua con somma soddisfazione. Dopo una bella prima pagina con il leader della Lega circondato dai carabinieri (Conte e Mattarella, ma son dettagli), eccone un'altra ancora più virulenta e umiliante: Salvini da Capitano è diventato "il mendicante", ridotto malissimo pur di far rientrare una crisi di governo che lui stesso aveva aperto una settimana fa. E così, scrive il Fatto, Salvini viene "ridicolizzato" da Di Maio (che, per inciso, è "corteggiato da tutti" e provoca pure "la rivolta dei suoi ministri". Immaginiamo trombette, coriandoli e lingue di Menelik in redazione.

Marco Travaglio per “il Fatto quotidiano” il 17 agosto 2019. È falso che Salvini abbia offerto a Di Maio di fare il premier: gli ha proposto la presidenza della Repubblica. Di Maio, dall' altro capo del filo, ha obiettato che bisogna aver compiuto 50 anni e lui ne ha 33. E Salvini, pronto: "Cambiamo la Costituzione. O eleggiamo tuo padre. Comunque avevi ragione: la Tav è una boiata. Fammi sapere, il mio telefono è sempre acceso". Di Maio non ha più chiamato nè risposto. Allora Salvini gli ha telefonato da numero sconosciuto facendo l' accento svedese: "Pronti? Sono Giorgetti. Dice Matteo che Conte può restare premier e tu vicepremier unico. Lui si fa da parte. Per l'Interno pensava a Toninelli, che è un ragazzo sveglio, da lui sempre apprezzato come ministro dei sì. Non è una gran rinuncia, tanto lui al Viminale non ci andava mai". Clic.

A quel punto ha provato con Conte: "Presidentissimo! No, per quell'equivoco della crisi, ecco, ero un po' su di giri per i mojito, ma mi sto disintossicando. Martedì ti diamo la fiducia e poi ti veneriamo per quattro anni. Santissimo Conte, quanto ci piaci a noi leghisti! Noi siamo personcine perbene che non farebbero male nemmeno a una mosca, figuriamoci a un santone come te, anzi varrai più di una mosca? Ti salutiamo con la nostra faccia sotto i tuoi piedi senza chiederti nemmeno di stare fermo: puoi muoverti quanto ti pare e piace, e noi zitti sotto". Clic.

Poi ha chiamato Di Battista: "Ehilà Dibba! Ho appena finito il tuo libro: capolavoro! E il tuo reportage dal Sudamerica, io e la Francesca non riusciamo a smettere di riguardarlo. Pure mio figlio, io gli dico sempre 'Fatti un giro sull' acquascooter della Polizia'. Ma lui niente, solo il tuo reportage!". Clic. Allora ha tentato con Fico: "Compagno Roberto, parla il comunista padano! Buona questa. Ma lo sai che non ne sbagli una? Quella sul 2 giugno dedicato ai rom m' ha commosso! E l'uscita dall' aula per quella cagata del Sicurezza bis (che non so a chi è venuto in mente: dev' essere lo stesso fenomeno della Flat Tax, della legittima difesa e delle autonomie): uno spettacolo! Sai che mi sto fidanzando con Carola?". Clic.

Ultimo tentativo con Bonafede: "Grande Alfonso! Allora siamo d' accordo: prescrizione abolita già dalle indagini, ergastolo per l' abuso d' ufficio, sequestro preventivo del Papeete, Siri e Savoini al gabbio. Ok?". Clic. In attesa di essere ricevuto da qualcuno, s' è seduto sul marciapiede sotto Palazzo Chigi fra due cartoni, cappello in mano e cartello al collo: "Rovinato dalla crisi. Fino a 10 giorni fa ero il padrone dell' Italia". Ma è subito arrivata la polizia: "Lei è in arresto per accattonaggio molesto, ai sensi dei decreti Sicurezza uno e bis". E l' ha portato via.

Ugo Magri per “la Stampa” il 18 agosto 2019. «Inaffidabile» è il giudizio più carino nei suoi confronti. Ma c' è anche chi lo considera «confuso», «poco lucido» e addirittura «fuori di testa». Con qualunque esponente berlusconiano si parli in queste ore, Salvini viene raffigurato come una delusione umana e politica. Guarda caso, i più feroci col "Capitano" sono proprio quelli che maggiormente ne avevano subito il fascino e ora si sentono traditi, lanciati allo sbaraglio e adesso abbandonati. Basti dire che Niccolò Ghedini e Licia Ronzulli, bollati dagli avversari interni come «quinte colonne» leghiste, hanno chiesto al Cav di interrompere i rapporti con Salvini visto che quello nemmeno si degna di rispondere al telefono. Lascia squillare una, due, dieci volte; gli mandano messaggini, e fa finta di niente. Sono giorni che da Arcore provano a contattarlo. Hanno chiamato il fido Giorgetti per sapere come mai, ma perfino lui ha perso i contatti, non sente Matteo da prima di Ferragosto. Il bello è che Salvini si comporta nello stesso identico modo con gli altri alleati di centrodestra. Comunicazioni zero con Giorgia Meloni e i suoi Fratelli d'Italia, snobbati senza un perché. Completamente sparito dai radar di Giovanni Toti, nonostante il governatore della Liguria si sia lanciato nell' avventura di Cambiamo! (il suo nuovo movimento) con la benedizione del leader leghista e forse qualcosa di più. Pure Meloni e Toti, al pari di Silvio, vorrebbero capirci qualcosa, perché anche loro avevano preso sul serio gli annunci di crisi e già pregustavano nuove elezioni dove alla fine si sarebbero presentati tutti uniti, come alle Politiche di un anno e mezzo fa, e come puntualmente accade in tutte le Regioni dove si vota. Invece sul più bello Salvini è svanito, e questa latitanza genera sospetti, lascia pensare a ripensamenti. «Davvero martedì la Lega farà cadere il governo Conte?», è la domanda allarmata. Se tornasse sui suoi passi sarebbe una beffa, soprattutto per Berlusconi che si era illuso una settimana fa, e non gli erano venuti dubbi quando Salvini si era fatto vivo per annunciargli la crisi proponendogli di vedersi alle 11 di martedì, nella residenza romana di via del Plebiscito. All'ex premier non pareva vero, «addirittura verrà lui qui da me e non io da lui»; ma tanta voglia aveva di incontrare Salvini, che l'uomo era calato a Roma con un giorno di anticipo per riunire i fedelissimi, e tutti insieme a fare progetti su cosa chiedere nella trattativa con la Lega, dove puntare i piedi per portare a casa gli stessi parlamentari attuali, nonostante in un anno Forza Italia si sia dimezzata. Come è andata a finire si sa: scoccano le 11 di martedì ma Salvini non si presenta; a mezzogiorno nemmeno. Chiama solo dopo l’una, mentre Berlusconi e i suoi sono già a tavola; tira fuori qualche scusa, tipo «non ho fatto in tempo, mi dispiace»; il Cav non si arrende, «potremmo vederci nel pomeriggio o stasera»; quell'altro bofonchia qualcosa tipo, «tranquillo, non mancherà occasione» e riattacca. Una scena descritta come patetica. Col padrone di casa che rivolto ai presenti sospira: «Sapete che c'è? Me ne torno ad Arcore». Mai nessuno l'aveva umiliato così. Da allora, solo silenzi. Finché ieri sera Berlusconi ha ordinato di sospendere le ricerche: meglio dare Salvini per perso che smarrire l'ultimo briciolo di dignità.

Tutto l'odio di Di Battista Nuova valanga di insulti per il ministro Salvini. Di Battista non ha più freni e così adesso insulta in modo pesante il leader della Lega. Angelo Scarano, Giovedì 15/08/2019, su Il Giornale. Nella guerra tra Salvini e il Movimento Cinque Stelle sta riprendendo quota la figura di Alessandro Di Battista. Il vacanziero grillino sente odore di poltrona e così ritorna in scena. Ma lo fa a modo suo: insultando l'avversario, in questo caso il titolare degli Interni, Matteo Salvini. I grillini non hanno compreso bene la mossa del leader del Carroccio che di fatto cerca di sottolineare quanti "no" da parte 5S blocchino la crescita del Paese. I 5 Stelle ne fanno un questione perosonale e come tale la trattano, attaccando l'uomo Salvini non il politico. Basta leggere l'ultimo post su Facebook di Di Battista per rendersene conto: "Il Ministro del tradimento inizia a dare cenni di pentimento. Infatti ha appena dichiarato: 'non ho mai detto a Conte di voler staccare la spina al governo'. Forse gli sta passando l'hangover provocato dalla settimana “papeetiana” o forse una serie di ministri leghisti ai quali aveva promesso scatti di carriera, potere assoluto e mesi di open bar iniziano a lamentarsi". Poi rispolvera i luoghi comuni su sccoter d'acqua e Papeete: "Fino al 20 agosto vada in vacanza. In cambio del suo silenzio possiamo concedergli di tutto: cocktail, moto d'acqua, passeggiate mattutine al guinzaglio di Berlusconi ma la faccia finita con questa ridicola telenovela". Livore e voglia di rivalsa. Forse Dibba vuole vendicarsi per quel gradimento nei sondaggi che ha raccolto il ministro degli Interni e che invece non è mai arrivato per lui. Infine Dibba, senza alcun ruolo istituzionale e nel Movimento, chiede un "rimpasto della Lega": "Al netto delle critiche che ho sempre mosso alla Lega posso dire che al suo interno ci sono persone molto più credibili di Salvini. Sono le stesse persone che in queste ore lo stanno trattando come un inetto". Altro insulto, come è nel suo stile.

Littizzetto e Murgia, sui migranti si rimette in moto la macchina dell'odio di Salvini. Gogna social per le artiste colpevoli di essersi schierate con le ong. E a fare da detonatore sono pagine ufficiali, pagate con soldi pubblici, in palese violazione delle regole di Facebook. Silvia Costa: "Il paradosso è che anche la Polizia Postale, che dovrebbe vigilare, fa riferimento al ministro". Massimo Razzi il 17 agosto 2019 su La Repubblica. La macchina dell'odio lavora incessantemente dalle 19,20 del 15 agosto quando Fabio Montoli, Lega Publisher dello staff di Matteo Salvini (la famosa "Bestia" diretta da Luca Morisi) ha rilanciato sulla pagina Facebook "Matteo Salvini Leader" (gruppo pubblico da oltre 77mila iscritti) un pezzo del Giornale.it intitolato: "Open Arms, pure la Littizzetto fa la buonista: 'Lasciarli in mare è da vigliacchi". La comica di "Che tempo che fa" ha infatti postato sul suo profilo Fb un video in cui attacca la decisione di Salvini di non far sbarcare dalla "Open Arms" nemmeno i minori. Ben presto, sotto il post di Montoli, si raccolgono 503 commenti: nemmeno uno è a favore della Littizzetto: si va dal dissenso espresso con parole  "tranquille" (pochi casi) agli attacchi personali basati sostanzialmente, sui seguenti concetti: 1) Sei ricca, portateli a casa tua; 2) Sei brutta, che c... vuoi; 3) Evidentemente ti piacciono i negri perché nessuno ti vuole più. Questa robaccia, espressa nelle modalità più pesanti e con l'uso di tutti gli emoticon più "cattivi", non è quasi mai accompagnata dal benché minimo ragionamento. Solo rabbia, odio e incapacità di esprimersi con altro che non sia l'insulto puro, semplice e, evidentemente, liberatorio. La catena dell'insulto, però, ha avuto prima l'autorevole "via libera" del Capitano. Alle 17,03 dello stesso 15 agosto, infatti, sulla pagina ufficiale di Matteo Salvini (3,7 milioni di follower) era comparso un post (qui sono tutti, direttamente a nome di Salvini, indipendentemente dal fatto che, a postarlo sarà stato un altro redattore della "Bestia") linkato a un pezzo dell'Adnkronos intitolato: "Fateli scendere. L'appello della Littizzetto per Open Arms". Sopra c'è il commento attribuito direttamente a Salvini: "Secondo voi, quanti ne ospiterà a casa sua?". Guarda caso uno dei tre punti sui quali si daranno da fare gli "haters" sulla pagina di Matteo Salvini Leader. Sotto il post del ministro, i commenti sono 12.409. Qui, almeno, c'è dibattito e le posizioni sono diverse: chi insulta e chi difende la Littizzetto. Ma la questione si riapre ieri sera, poco dopo le 21 sempre sulla pagina "Matteo Salvini Leader", questa volta il post è di Daniele Bertana (anche lui Lega Publisher, cioè dello staff salviniano) che rilancia un pezzo di Adnkronos intitolato: "'Salvini? Lo schifo al potere'. Murgia difende Littizzetto". Michela Murgia, nota scrittrice e critica letteraria di origini sarde spiega che la Littizzetto è tutt'altro che una radical chic menefreghista e, all'insaputa del grande pubblico, aiuta con importanti risorse case famiglia per donne italiane che hanno subito violenze. Niente da fare. Anche qui l'odio sprizza subito dai fan salviniani. I commenti sono già 852 ma continuano a salire. Anche qui i temi sono i tre citati per Littizzetto con l'aggiunta di un altro leit motiv: "Ma chi è questa? Chi la conosce?". Evidentemente, gli haters non sono molto ferrati in letteratura italiana. Fin qui, purtroppo, la normale propaganda salviniana. Ma, per una volta proviamo a vedere cosa c'è dietro questa pagina Matteo Salvini Leader e se le regole di Facebook, in questo caso, vengono rispettate. Come in tutte le pagine Fb pubbliche, in alto a destra c'è un disclaimer che descrive il gruppo e fissa alcuni paletti. In primo luogo, si conferma che siamo su una pagina ufficiale di Salvini: "Il gruppo 'Matteo Salvini Leader' è UFFICIALE ed è curato dallo staff di comunicazione di Matteo Salvini", dice il testo. Poco più in giù si spiega che il gruppo è visibile anche ai non iscritti e che c'è una premoderazione dei post proposti ma non dei commenti (come in tutte le pagine Fb del genere). L'iscrizione deve essere vagliata attentamente perché abbiamo provato da ormai 36 ore senza ricevere risposta. Se non sei iscritto puoi leggere, condividere, ma non puoi commentare. Però, ancora più in basso, i responsabili della pagina (sempre lo staff di Salvini) fanno sapere che "verranno rimossi commenti contenenti espressioni oltre i limiti della decenza e del civile dibattito oppure contenenti ingiurie o altri elementi lesivi della dignità di persone, gruppi e organizzazioni, in particolare a sfondo razziale, religioso e sessuale". Ora, solo sotto i due post relativi a Littizzetto e Murgia, ci sono diverse centinaia di commenti che, stando a queste regole andrebbero cancellati. Alcuni sono lì da almeno 48 ore e nessuno li ha tolti. Siamo dunque di fronte a un paradosso giuridico-istituzionale. Una pagina Fb "ufficiale" che fa capo allo staff di comunicazione del Ministro dell'Interno (si sa con certezza che Morisi, Bertana, Montoli e gli altri sono pagati con soldi pubblici) raccoglie pesanti insulti personali, sessisti, razzisti ecc. che potrebbero e dovrebbero essere oggetto di accurata analisi da parte della Polizia Postale che fa capo (per uno strano cortocircuito) allo stesso Ministro dell'Interno. Lo fa notare anche l'on. Silvia Costa, ex parlamentare europea del Pd che, a Strasburgo si è occupata molto delle normative relative alla rete: "Quello che accade è inaudito e inaccettabile. Siamo di fronte a un ministro degli Interni che indica al pubblico ludibrio un video di solidarietà dei naufraghi salvati dalla Open Arms. Lui che non li fa sbarcare, ha il coraggio di chiedere alla Littizzetto di ospitarli a casa sua. Come se non bastasse, pagine Fb direttamente riconducibili a Salvini raccolgono centinaia e centinaia di commenti deliranti senza che nessuno dello staff del Ministro intervenga per rimuoverli". Chi volesse fare qualcosa contro questo stato di cose, può solo rivolgersi alla Polizia Postale che, come si ricordava, fa capo a Salvini? "Purtroppo sì - risponde Silvia Costa - perché l'Authority sulle Comunicazioni risponde di non avere ancora competenze dirette in materia, perché la legislazione italiana in materia è carentissima e perché l'Italia non ha ancora recepito la Direttiva europea sui servizi di media audiovisivi (estendibile a Internet) dove ci sono chiare indicazioni contro l'odio e la violenza verbale in rete sia a tutela dei minori che degli adulti. Devono recepirla entro il 2020. Ma credete che con questo ministro si potrà avere una normativa di civiltà?".

Open Arms, Roberto Saviano: "Matteo Salvini ministro della malavita e bandito. Finirai in carcere". Libero Quotidiano il 17 Agosto 2019. "I 134 migranti a bordo della Open Arms, dopo essere stati ostaggio dei banditi libici, ora lo sono del bandito politico Matteo Salvini, il ministro della Malavita". Roberto Saviano, con un post pubblicato sul suo profilo Twitter, torna ad attaccare il leader della Lega per la sua linea dura sull'immigrazione. Non solo. Mister Gomorra si augura anche che il ministro dell'Interno finisca dietro le sbarre: "Ma il destino di Salvini è il carcere, e questo lo sta capendo anche lui", conclude Saviano. "Basterà che si spengano le luci".

Open Arms, De Magistris vuole processare Salvini e Di Maio: "Crimini contro l'umanità". Ma gira una voce...Libero Quotidiano il 17 Agosto 2019. "Crimini contro l'umanità". Luigi De Magistris si scatena sulla Open Armschiedendo un processo esemplare per Matteo Salvini e Luigi Di Maio. "Il sequestro di persone a Lampedusa - incalza il sindaco di Napoli - dimostra il livello di illegalità, crudeltà, disumanità e sadismo a cui è giunto il governo. Devono essere processati per crimini contro l'umanità e per la morte di tante persone. Per Salvini e Di Maio un voto vale più di una vita". Detto che nel caso specifico fortunatamente non è morto nessuno, è il presidente della Lega Campania Gianluca Cantalamessa a fornire una lettura piuttosto interessata alla nuova sparata di De Magistris (che si allinea al Roberto Saviano che ha chiesto direttamente il carcere per il ministro degli Interni): "Il sindaco è sempre più lontano dalle problematiche di Napoli e dei napoletani. A ruota libera su Salvini, il primo cittadino, dimentica una città invasa dai rifiuti. Anche le presenze turistiche, in tendente calo rispetto allo scorso anno, suggellano la sua cattiva gestione ormai, è in costante campagna elettorale. De Magistris - suggerisce Cantalamessa -, fallito da magistrato, evitate le indagini a suo carico perché fuggito al parlamento europeo, ora prova a riciclarsi con un seggio al parlamento, speculando sui morti in mare per una poltrona con il Pd".

Da Il Manifesto il 19 agosto 2019. L’illustrazione non è particolarmente originale, Salvini si infila lo stivale-Italia come prima di lui avevano fatto, nei disegni della satira, molti politici italiani, da Cavour a Craxi. E la copertina dell’ultimo numero del settimanale conservatore britannico “The Spectator” (che ha avuto come direttore l’attuale premier di Londra e accanito brexiter Boris Johnson) è un po’ in controtempo rispetto alle difficoltà che il capo della Lega sta manifestando negli ultimi due giorni. Due i pezzi dedicati al «fenomeno» italiano. Nel primo a firma del commentatore reazionario Douglas Murray si indica nel prevedibile successo di Salvini alle prossime (?) elezioni l’occasione per ribaltare l’Europa. Nel secondo, di Nicholas Farrell, il giornalista inglese trapiantato in Romagna noto come collaboratore di Libero ed estimatore del fascismo, si indaga sul «segreto del successo del capitano» (raffigurato in un’altra vignetta a torso nudo e con clava). Per concludere che sì «Matteo Salvini ha qualcosa in comune con Benito Mussolini: il dono di sapersi mettere in connessione con la folla. Passa molto tempo su twitter e facebook dove ha 3,5 milioni di follower. Quando gira l’Italia lascia sempre il palco per mescolarsi alla massa. Questa estate ha fatto visita alle spiagge della nazione mostrandosi a torso nudo che è proprio quello che faceva Mussolini. La folla amava il duce, la folla ama il capitano».

LE UNICHE VIGNETTE CHE NON INDIGNANO NESSUNO SONO QUELLE CONTRO SALVINI. Da “Libero quotidiano” il 14 agosto 2019. "Bungee jumping dell' italiano". Così il vignettista tedesco Marian Kamensky. titola una sua opera in cui Matteo Salvini è ritratto appeso a testa in giù a un palo su cui sventola la bandiera italiana e intorno, in uno scenario che ricorda piazzale Loreto, sono raccolti manifestanti con accette e forconi. «Simpatico questo vignettista di molti giornali tedeschi che mi mette a testa in giù. Che pena», commenta su Twitter il segretario leghista. «Vignetta vigliacca», ha commentato la leader di Fdi, Giorgia Meloni.

Vignetta shock: è un autogol per la Germania. Giordano Bruno Guerri, Mercoledì 14/08/2019, su Il Giornale. Anzitutto sarebbe una questione di gusto, ma la satira non si cura di un simile problema, e va bene. Però la vignetta pubblicata sul proprio sito da un disegnatore dello Spiegel su Salvini appeso per i piedi e linciato ancora vivo da una massa di italiani si presta a qualche considerazione. La prima è che i tedeschi, proprio loro, farebbe meglio a astenersi da questo tipo di reminiscenze storiche. Quando si hanno nel proprio passato Hitler e il nazismo, rievocare piazzale Loreto ha il sapore di un autogol. La seconda è politica. Il vignettista tedesco si riferisce, ovvio, a qualche contestazione ricevuta dal capo leghista in questi giorni, e la moltiplica esasperandola fino a farne un augurio. È una lettura evidentemente scorretta (una bufala giornalistica), perché falsa la realtà, prendendone solo una parte: da ogni ricerca risulta che i consensi a Salvini stanno crescendo. E vignette del genere non faranno che portargli altri voti. Ma, a parte queste ovvie considerazioni, quello che colpisce di più nell'immagine, e che la caratterizza, sono le facce degli italiani e gli strumenti che usano per infierire sul capo abbattuto. Sono volti di un popolo abbrutito dall'ira, eccitato dalle passioni, e che usa per la sua vendetta strumenti arcaici, contadini, con i quali veniamo identificati. Un popolo rozzo, isterico, non ancora uscito da un passato medievale di sangue, vendette e miseria sociale. Liberissimi i tedeschi liberi tutti di vederci così. Del resto anche noi abbiamo su di loro, generalmente, opinioni per altri versi altrettanto poco amabili. E' un discorso che vale per tutti i popoli europei, avvezzi da secoli a soppesarsi l'un con l'altro, l'un contro l'altro polemicamente armati. È questa caratteristica - storica, quindi difficilmente eliminabile se non con un lungo lavoro di altri secoli - a rendere fragile l'Unione Europea, ben più e ben prima della questioni economiche e della curvatura delle banane. E vignette come questa non fanno che rinforzare la debolezza genetica dell'Ue.

Salvini: Spero non ci siano governi alla Scilipoti con voltagabbana. LaPresse l'8 agosto 2019. "Spero che non ci siano governi alla Scilipoti, con i voltagabbana". Lo dice il ministro dell'Interno, Matteo Salvini, a margine del comizio della Lega a Pescara. "L'ho sempre detto che per noi dopo questo non ci sono altri governi, inciuci o Conte bis ma solo le elezioni", aggiunge.

Come due Scilipoti qualunque. Grillo e Renzi, i due molok dello scontro identitario, si iscrivono al partito del non voto. Un partito potente, che fa leva sulla responsabilità. Ma che tranquillità darebbe all'Italia una finanziaria firmata da chi ha fatto il jobs act, il reddito di cittadinanza e quota 100? Lucia Annunziata su L'Huffington Post l'11/08/2019. Uno voleva rottamare la politica, l’altro voleva aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno, entrambi ora chiedono un “governo di scopo”, con chiunque ci stia, pronti anzi a stringere la mano ai peggiori nemici, per salvare l’Italia naturalmente, come due Scilipoti qualunque. A Scilipoti - questo “metro e qualcosa di uomo”, come si diceva nelle discussioni etiche “alte” indicando la sua brevità come evidente indicazione di un destino di inadeguatezza-; a questo Senatore - indagato per corruzione (da cui è stato poi assolto), esempio brandito da un impetuoso movimento antipolitico come simbolo della fine di ogni principio nella politica italiana - dobbiamo evidentemente oggi delle scuse. Scilipoti aveva capito cose che noi umani non siamo riusciti a vedere – che la differenza fra un robot e un uomo è nel fatto che la carne avverte, sente, soffre; e che il sacrificio in nome del proprio paese è il più alto gesto con cui la razza umana rivendica la propria superiorità. E qui torniamo ai suoi eredi. Di Matteo Renzi forse non dovremmo essere del tutto sorpresi – il Senatore fiorentino ha più volte dimostrato di essere un abile tattico, e già in una ormai famosa occasione, dopo aver promesso all’Italia della sinistra elezioni subito dopo le primarie, cambiò idea andando direttamente a Palazzo Chigi dove c’era il “tranquillo” Enrico Letta; una manovrina di Palazzo ben oleata, fatta ovviamente per non far entrare il paese nel caos in una “congiuntura così delicata”. La congiuntura nemmeno a dirlo era un incombente fronte antipolitico, e, ovviamente, la finanziaria. Non vennero nominate, ma era anche in ballo un giro di nomine di Stato, quelle stesse che vengono a scadenza oggi, e il cui impatto sul futuro di qualsiasi leader o corrente o partito è sempre sostanziale. Dunque forse del senatore Renzi non dovremmo sorprenderci. Ma Grillo? Che dire di Grillo? Sentirlo assumere il ruolo di responsabile nei confronti di un sistema politico disprezzato, di formule considerate morte, di alleanze con uomini e partiti, il Pd in particolare, considerati fino a 24 ore fa il vertice di ogni corruzione, è più che una sorpresa, è una esperienza sensoriale. Fra le tante stupide domande che mi vengono in mente la più grande è sicuramente: ma adesso, Grillo, nel talk show del nuovo governo di scopo, riammetterete anche il buon Bersani che venne invitato a uscirne nel primissimo contatto fra Pd e i tuoi, durante la prima consultazione in streaming? Sono purtroppo stupide curiosità del genere, quelle che vengono in questo momento. Perché è impossibile prendere il tutto sul serio. O dovremmo davvero credere che è l’orgoglio della politica che parla in queste proposte e non l’evidente opportunismo della politica? Dobbiamo davvero pensare che Grillo non sta difendendo la voglia di restare al governo, con un 33 per cento di eletti che non avrà mai più? Vogliamo davvero credere che sia un sacrificio per Matteo Renzi abbracciare i propri nemici per eccellenza, quegli stessi 5Stelle su cui aveva tracciato finora la linea discriminante per una sua scissione? Ma, insomma, su Grillo e Renzi queste obiezioni sono tutte fin troppo facili. Parlarne val la pena, in fondo, per una sola, seria, ragione: la conversione in pecorelle istituzionali di questi due Molok dello scontro identitario, fornisce la prova di quanto forte, cocciuto e radicato, di quanto permanente organizzato, sia, in Italia, il partito del non-voto. Dell’impatto avuto da questo partito sulla recente storia nazionale (qualche esperto ne ha rintracciato la vita in tutto il declinare della storia della nostra Repubblica) si è parlato tanto, ma senza mai andare oltre il cumulo di domande che ha lasciato sul tavolo. Era necessario un governo Monti, o il paese sarebbe stato più stabile se la sconfitta di Berlusconi fosse uscita dalle urne? La sinistra avrebbe avuto più forza se Bersani non fosse stato eliminato con una figura di mediazione come Letta? E il rinnovamento delle istituzioni sarebbe avvenuto nel segno della politica e delle forze democratiche se Renzi fosse passato per le urne? Potremmo persino chiederci, tanto per arrivare al presente, che senso ha avuto nel “salvare l’Italia” fare un governo così incoerente come quello appena franato fra M5s e Lega? Di tutte queste domande rimane solo una certezza: i grandi sforzi fatti dal partito del non voto, mirati a fermare la deriva populista, l’antieuropeismo, il giacobinismo antiistituzionale, non solo non hanno avuto successo. Al contrario hanno legittimato il sentimento antiistituzionale, alimentando la narrativa di istituzioni chiuse su se stesse e i propri interessi. Esattamente quello su cui punta ora Salvini per la sua scalata finale al cielo del governo dell’uomo solo al Comando. Ha bisogno di dire che tutti, assolutamente tutti, inclusi i suoi vecchi alleati, sono compromessi con il sistema e le poltrone. Una narrazione che ha avuto tempo di diventare una canzone sulle spiagge d’Italia. Quando parliamo del partito del non voto, parliamo insomma di un modello. Partito perbenista, e per bene. Fatto da uomini molto bravi e rispettabili– come Prodi e Letta che proprio in queste ore si sono espressi a favore di non andare al voto – gente che ha esperienza di politica, relazioni internazionali, ed economia, e che concepisce la politica come un teorema della gestione, più che dello scontro. Il senso di questo partito è infatti incastonato nella discussione su clausole di salvaguardia, leggi di bilancio, agenzie di rating, spread. Ma la ripetuta inefficacia di questo approccio nel corso degli ultimi drammatici anni, lo ha insterilito. La forma con cui si presenta oggi il partito del non voto è infatti quella di un fallito governo che, dopo averci regalato la peggiore svolta a destra del paese, propone oggi responsabilità nella forma di “aggiungi un posto a tavola”, una coalizione tra diversi e ancora e sempre nemici. Prova ne è che lo spirito con cui in questo accordo si parla di Iva, finanziaria, elezioni, è un approssimativo gergo para-economico: sposta questo conto di tre mesi, metti l’altra spesa sui consulenti, anticipa un po’ di pensionamenti, e supera questo anno. Come se invece di parlare di governo si trattasse di chiudere il bilancio di una piccola azienda, con voci da chiudere, invece che di atti politici, quali sono e quali dovrebbero essere trattati. Una finanziaria è oggi il maggior atto politico che questo paese può fare all’interno di una scelta Pro-Europa: non mi dite che il Tesoro non ha già sul tavolo multiple ipotesi di lavoro, incluso quella di una accelerazione dovuta a una crisi di governo. In questo senso i tempi, lo abbiamo visto più volte, sono essi stessi funzionali all’atto politico. Un esempio per tutti: la finanziaria del primo anno del governo del cambiamento, decisione raccontata come epocale, per assistere alla cui nascita stampa, opinione pubblica ed esperti sono stati bloccati per mesi, fu presentata all’Europa con un valore di sforamento del 2.4 per cento. Fu rimandata a casa e divenne dello 2,04 per cento in soli 3 giorni 3. A proposito di responsabilità, che finanziaria presenteremo all’Europa con un governo provvisorio che nelle vite precedenti dei suoi vari votanti ha sostenuto il jobs act, il reddito di cittadinanza, e la quota 100? Se è vero, come è vero, che la sfida oggi è molto più seria di prima, che lo scontro ha raggiunto proporzioni più drammatiche, che in Italia passa, come già successo nei periodi peggiori della guerra fredda, il destino della collocazione europea, la linea rossa che divide la Russia dall’Europa, davvero un governicchio di sconfitti e mal appaiati è la scelta più responsabile, nonché piu’ attrezzata, più muscolare, per entrare a petto in fuori nella scelta fra Russia e Europa? Davvero aiutiamo gli italiani a scegliere più consapevolmente, e il paese viene messo in maggiore sicurezza perché qualche profugo, qualche pentito, e qualche furbone starà al governo per un po’ di mesi in più? Davvero l’Italia è più stabile se si tira avanti fino al prossimo presidente della Repubblica? Facciamo decidere gli italiani. Come si fa in ogni paese, specie in epoche di crisi. Poniamo nelle piazze, sui tavoli, sui media le conseguenze delle scelte. I cittadini sono il cuore della democrazia. Smettiamo di trattarli come bambini che devono essere protetti dal male, o disprezzarli considerandoli incapaci di fare le giuste scelte. E se il risultato finale sarà la vittoria delle forze sovraniste, delle forze anti-europa, cioè Salvini, che poi è il vero problema dietro tutte queste chiacchiere, vorrà dire che le forze sconfitte dovranno fare i conti con la loro sconfitta. Magari davvero cambiare, ricominciando dalle proprie macerie. Churchill, statista molto citato a parole, ma mai imitato dai politici italiani sapeva che le vittorie sono figlie di sconfitte ben gestite. Detto tutto questo, credo che alla fine il partito del non voto è così forte che avrà ragione e non si andrà a votare. E che tutti coloro che si sono schierati per andare invece al voto, saranno accusati di aver aiutato Salvini.

«Io, Scilipoti dico: il vero voltagabbana è Matteo Salvini». Giovanni M. Jacobazzi il 13 Agosto 2019 su Il Dubbio. Intervista all’ex Idv che passò con Berlusconi. Il ministro dell’interno in un anno ha tradito due volte: nel marzo dello scorso anno ha tradito Silvio per andare coi 5Stelle e la scorsa settimana i 5S per tornare da Silvio.

Senatore Scilipoti, ha letto l’ultimo editoriale di Lucia Annunziata?

«No, cosa dice?»

La direttrice dell’Huffington Post, dopo la decisione di Matteo Renzi e Beppe Grillo di voler varare un “governo di scopo” con chiunque ci sia, pensa che è giunto il momento delle scuse nei suoi confronti.

«Guardi, sono ormai dieci anni che vengo additato come il simbolo del trasformismo parlamentare per aver votato la fiducia al governo Berlusconi».

Lei era stato eletto nell’Italia dei Valori…

«Il Paese nel dicembre del 2010 stava attraversando un momento molto complicato, fu una scelta difficile la mia».

Secondo Annunziata, Grillo e Renzi sono concentrati sul loro futuro: il primo è consapevole che il M5s non raggiungerà più il 33%, il secondo teme che il suo gruppo non venga ricandidato dal segretario dem Nicola Zingaretti.

«Non so se i due pensino solo a salvare la propria poltrona. Non ho elementi. Io, comunque, mi soffermerei sul comportamento di Matteo Salvini».

Cioè?

«Salvini in 14 mesi ha tradito due volte: a marzo dello scorso anno ha tradito Silvio Berlusconi per andare con il M5s e ora tradisce i grillini per dare il via ad nuovo governo. È totalmente privo di correttezza nei confronti degli italiani. Un irresponsabile».

Pensa anche lei che Salvini sia il nuovo Duce e che voglia trascinare l’Italia in regime autoritario?

«Non credo proprio che abbia le qualità nel bene e, soprattutto, nel male che aveva Mussolini».

Ce l’ha con Salvini?

«È lui che da anni in tutti i posti in cui si reca mi cita sempre come un traditore. La realtà è ben diversa, io mi sono costantemente adoperato per il bene della collettività. Salvini invece pensa solo ai suoi interessi di bottega. Ricordo che diceva peste e corna dei grillini e poi ci si è alleato. E adesso li pugnala alle spalle dopo che aveva iniziato un percorso di riforme condivise».

Il leader della Lega ha un grande consenso nel Paese. Questo è innegabile.

«Salvini ha raggiunto questo consenso parlando solo dei migranti. Senza però risolvere nulla. Parla come un ragazzo al bar. Non credo sia un approccio utile per la collettività».

Cosa dovrebbe fare invece?

«Io prego sempre per Salvini affinché possa illuminarsi, una effettiva conversione, e diventare un gigante per il Paese. Dobbiamo finirla con questa guerra continua e rispettare chi ha opinioni diverse dalle nostre. Sui migranti è necessario andare alle radici del problema».

Quali sono i suoi progetti per il futuro? Lei è il primo dei non eletti al Senato per Forza Italia nella circoscrizione Puglia.

«Sono il leader dell’Unione cristiana. Il gruppo che rappresento vuole dare un contributo, non rinnegando le origini giudaico cristiane della nostra società. A tal proposito è difficile parlare con uno come Salvini che si professa cristiano e poi agisce in maniera diversa».

In caso di elezioni parteciperete alla campagna elettorale?

«Al momento non so dire se saremo presenti con una nostra lista o appoggeremo qualche candidato».

L’attuale legge elettorale è penalizzante per i piccoli partiti.

«Appunto, penso sia necessario varare una legge di tipo proporzionale puro, in modo che tutti possano trovare rappresentanza in Parlamento. Oggi oltre il 40 percento non vota perché non si riconosce nei partiti».

Nel frattempo sta continuando con l’attività missionaria.

«Da venticinque anni faccio volontariato, io sono medico, con le suore Orsoline in Brasile e ora anche nel Burkina Faso. Il mese prossimo poi uscirà un mio libro, “Il dialogo, strada di pace”, che prende spunto dalle riflessioni di Papa Francesco sul dialogo fra le religioni».

L'Italia non è per gli Uomini soli al Comando.

Quando si evoca il fascismo è roba da vetusti comunisti. Matteo Salvini vuole "Pieni poteri". Come disse Benito Mussolini. Le parole del leader leghista nel comizio di Pescara sono curiosamente sovrapponibili a quelle pronunciate dal Duce 16 novembre 1922 nel celebre “discorso del bivacco”. L'Espresso il 09 agosto 2019. Il leader di estrema destra, a un passo al diventare ufficialmente presidente del Consiglio, ha le idee chiare. «Chiediamo i pieni poteri perché vogliamo assumere le piene responsabilità. Senza i pieni poteri voi sapete bene che non si farebbe una lira – dico una lira - di economia» chiosa davanti ai fan che applaudono in delirio. «Con ciò non intendiamo escludere la possibilità di valorose collaborazioni, partano esse da deputati, da senatori o da singoli cittadini competenti. Abbiamo ognuno di noi il senso religioso del nostro difficile compito, il Paese ci conforta e attende, e non gli daremo ulteriori parole, ma fatti». Chi parla non è Matteo Salvini, che a Pescara ha fatto un comizio durissimo che ha sancito la fine del governo gialloverde e l'inizio della sua campagna elettorale. Ma Benito Mussolini, che il 16 novembre 1922 tenne il celebre “discorso del bivacco”, il primo tenuto dal Duce da presidente del Consiglio incaricato. Sarà solo un caso fortuito, senza dubbio. È curioso, però, come le parole pronunciate ieri dal leghista sembrino, in molti passaggi, sovrapponibili quelle del fascista. Dopo essere sceso dal palco di Pescara, Matteo Salvini annuncia che si candiderà a premier nelle prossime elezioni politiche. "Abbiamo fatto una scelta di coraggio. Adesso chiedo agli italiani se hanno la voglia di darmi pieni potermi per poter fare quello che abbiamo promesso senza palle al piede. Chi sceglie Salvini sa cosa sceglie", ha detto il ministro dell'Interno, dopo aver terminato il comizio. «Chiedo agli italiani se vogliono darmi pieni poteri per fare le cose come vanno fatte» ha detto Salvini «Dobbiamo fare in maniera veloce, compatta, energica, coraggiosa quel che vogliamo fare. Non è più il momento dei no, dei forse, dei dubbi...E, beninteso, non mi interessa tornare al vecchio: se devo mettermi in gioco lo faccio da solo, e a testa alta. Poi potremo scegliere dei compagni di viaggio, certo...Gli italiani hanno bisogno di un governo che faccia». Sulle alleanze, sui fatti al posto delle parole, sui "pieni poteri" necessari al rilancio del Paese i due leader hanno utilizzato le stesse identiche frasi. Mussolini, concludendo il monologo con cui ottenne la fiducia dell'Aula, chiese l'intervento di «Iddio», che «mi assista nel condurre a termine vittorioso la mia ardua fatica». Salvini ieri non l'ha fatto. Come è noto, lui preferisce appellarsi alla «Madonna» o «alla Beata Vergine Maria». 

Craxi, Walter e Matteo 1 (e 2?): la sindrome perdente dell’uomo solo al comando. Francesco Damato il 10 Agosto 2019 su Il Dubbio. Le tentazione di andare da solo ha attraversato la storia della Repubblica. Salvini ha rotto con i 5stelle perché è convinto di riuscire lì dove in molti hanno fallito. Ma le vocazioni maggioritarie non hanno portato fortuna a nessuno. Si è fatto prendere forse un po’ troppo la mano Matteo Salvini nel suo comizio a Pescara, per quanto comprensibilmente indispettito dalla decisione di Giuseppe Conte, che forse già conosceva, di rovesciargli addosso tutta intera la responsabilità della crisi con un monologo a Palazzo Chigi in cui avrebbe opposto la laboriosità del governo da lui presieduto alle “spiagge” preferite dal suo vice leghista e ministro dell’Interno. Eppure i grillini avevano da poco messo il presidente del Consiglio, non a caso tenutosi lontano dall’aula del Senato, in una situazione incredibile contestando di fatto con una mozione il suo sì alla Tav. Con gli occhi, la mente, il cuore e chissà cos’altro rivolti agli elettori da lui già immaginati alle urne in autunno, senza aspettare neppure per cortesia lo scioglimento delle Camere spettante solo al capo dello Stato Sergio Mattarella, prudente ma gelosissimo, come tutti i predecessori, di questa prerogativa conferitagli dall’articolo 88 della Costituzione, col solo vincolo di sentirne prima i presidenti, Salvini ha detto, fra l’altro: «Se devo mettermi in gioco, lo faccio sereno, da solo e a testa alta. Poi potremo scegliere i compagni di viaggio, purchè non mi si venga a parlare di un governo sostenuto da Scilipoti vari», cioè da transfughi e avventizi. Sfrattato Conte da Palazzo Chigi prima ancora di presentare al Senato la mozione che lo sfiducerà, Salvini sembra avere sfrattato, con quelle parole a Pescara, Silvio Berlusconi dalla postazione di alleato del centrodestra pur operante in tante amministrazioni locali. In teoria, se i sondaggi non gli suggeriranno altre scelte alla luce della legge elettorale in vigore, dovrebbe considerarsi sfrattata dalla postazione di alleata anche Giorgia Meloni con i suoi “fratelli d’Italia”, sovranisti come il “capitano” leghista. Salvini evidentemente sente il vento in poppa con quel 38 per cento attribuitogli dagli aruspici elettronici anche dopo le polemiche a dir poco fastidiose cavalcate dalle opposizioni politiche e mediatiche sui presunti finanziamenti cercati per la Lega in Russia da persone indagate a Milano. Mentre molti si sono confrontati e si confrontano sui personaggi della storia repubblicana italiana cui paragonare Conte, chi indicando Giulio Andreotti, chi Aldo Moro e chi Mario Monti, il leader leghista ha giocato davvero d’azzardo paragonandosi, forse senza neppure rendersene conto, addirittura ad Alcide De Gasperi. Che nelle storiche elezioni politiche del 18 aprile 1948, con un’affluenza alle urne del 92,19 per cento, impensabile nei giorni e anni nostri, portò da sola la Dc al 48,51 per cento dei voti. E ciò nonostante, peraltro, pur disponendo di 305 deputati e 131 senatori, grazie ai quali avrebbe potuto tentare la formazione di esecutivi monocolori democristiani, egli preferì fare governi di coalizione con i liberali, i repubblicani e i socialdemocratici. L’aggettivo “solo” terrorizzava quel pur coraggioso statista che fu l’artefice politico della ricostruzione dell’Italia e delle sue scelte internazionali. Esse furono così lungimiranti da indurre dopo tanti anni un segretario comunista come Enrico Berlinguer a sentire l’autonomia del suo Pci più sicura e protetta, rispetto ai condizionamenti di Mosca, sotto l’ombrello dell’alleanza atlantica. Fa una certa impressione, via, affiancare Salvini, e la sua Lega, a De Gasperi e alla sua Dc, anche se riconosco che la Lega di Umberto Bossi agli inizi degli anni Novanta decollò al Nord in zone di forte radicamento democristiano. Dove però non era stata gradita la meridionalizzazione dello scudo crociato avvenuta durante la lunga e vigorosa segreteria del partito di Ciriaco De Mita. Le vocazioni maggioritarie, chiamiamole così, per non chiamarle addirittura solitarie, non hanno del resto portato fortuna a nessuno che le abbia coltivate. Non la coltivò d’altronde neppure De Gasperi, che non avendo perseguito la maggioranza assoluta, per fare “da solo”, commentò i risultati delle elezioni del 1948 con la celebre battuta: «Credevo che piovesse, non che grandinasse». Bettino Craxi, che non scherzava certo per ambizioni e temperamento, volle sfidare nel 1991 tutti i partiti più radicati nella politica italiana, esclusa quindi la Lega fresca di esordio, contrastando con una campagna astensionistica –“andate al mare”- il referendum contro il sistema elettorale delle preferenze plurime. E perse rovinosamente. Nel 2016 l’allora presidente del Consiglio e segretario del Pd Matteo Renzi volle affrontare da solo il referendum sulla sua riforma costituzionale, perdendolo altrettanto rovinosamente, sia pure col 40 per cento dei consensi, pari alla percentuale dei voti raggiunti nelle elezioni europee di due anni prima. Pertanto egli chiese a Mattarella un ricorso anticipato al rinnovo delle Camere che gli fu però negato. Berlusconi negli anni del suo centrodestra, quando cominciò ad avvertire difficoltà nella gestione degli alleati, prese l’abitudine di rimproverare e persino insultare gli elettori per non avergli dato i numeri per governare da solo. Ma quelli gli risposero non aumentando, bensì riducendogli progressivamente i voti, sino a farlo sorpassare da Salvini l’anno scorso e ora, nei sondaggi, persino dalla Meloni. Fu sfortunata la vocazione maggioritaria rivendicata alla nascita del Pd, nel 2007, dal suo fondatore e primo segretario Walter Veltroni, letteralmente sfibrato dai cespugli di sinistra e di destra, da Fausto Bertinotti a Clemente Mastella, che avevano strozzato quasi nella culla entrambi i governi di Romano Prodi. Consapevole dell’obiettivo troppo ambizioso che si era proposto nelle elezioni anticipate del 2008, dopo la caduta del secondo governo Prodi, il povero Veltroni chiese aiuto ad Antonio Di Pietro e alla sua Italia dei Valori, apparentandoli col Pd. Ma ciò non solo non gli consentì di evitare l’ultima vittoria elettorale del centrodestra di Berlusconi, e relativo governo, ma alla fine gli rese così problematica la gestione dell’opposizione, su posizioni anche di oltranzismo giustizialista, da fargli perdere la segreteria del partito. A questa storia poco fortunata, e parziale, dei solitari, dei quali potrei scrivere ancora più a lungo, appartiene anche il monito che una volta Aldo Moro rivolse al pur amico, molto amico Carlo Donat- Cattin, perplesso sul passaggio della “solidarietà nazionale” col Pci fra il 1976 e il 1978, l’anno peraltro della tragica morte del presidente della Dc, assassinato dalle brigate rosse. “E’ meglio sbagliare in compagnia che avere ragione da soli”, gli disse Moro.

La sinistra e gli insulti a Salvini. Artisti, scrittori, attori "di sinistra" impegnati nel nuovo sport nazionale: l'offesa al ministro dell'Interno. Anche a costo di incredibili figuracce. Domenico Alessandro Mascialino, Giovedì 08/11/2018, su Il Giornale. In Italia da qualche tempo non è più il calcio ad essere lo sport nazionale. La nuova disciplina che la fa da padrona è diventata l'offesa al ministro dell'Interno, Matteo Salvini. Specie ad opera di quella galassia di sedicenti artisti, musicisti, scrittori che si colloca nell'area più sinistra del nostro Paese. Tutti accomunati da grandi valori e buone intenzioni, per carità. Ma soprattutto dall'insulto facile.

Salvini, se muori facciamo una festa. Il primo caso da citare è quello del rapper Gemitaiz, che a giugno su Instagram postò la frase "Salvini ti auguro il peggio, se muori facciamo una festa" per protestare contro il respingimento della nave Aquarius. Evidentemente il buonismo vale solo per gli immigrati clandestini.

Asia Argento: #Salvinimerda. Poi c'è la ineffabile Asia Argento, che tra un'accusa di molestie da parte di qualche attore e un'offesa alla sua stessa madre, a luglio è riuscita anche a dare della "merda" al ministro dell'Interno su Twitter.

Saviano: "Ministro della malavita". La Argento con il suo insulto entrava a gamba tesa in una polemica social già avviata tra Salvini e Roberto Saviano, il quale a giugno lo definì "ministro della malavita" su Facebook per aver accennato a un possibile ritiro della scorta.

Le offese di Toscani. Come non citare, poi, quel finissimo intellettuale di Oliviero Toscani, che ha paragonato Salvini a "una scoreggia", ha definito il suo cane "più intelligente dei leghisti", e commentando la foto del vicepremier su Time ha detto "ha la faccia di uno stupratore".

Fornero: Salvini fascista. Tutto questo senza citare la politica, dove le offese non mancano anche a causa della "trance agonistica" tra i protagonisti in campo. Tra i politici che si sono distinti nell'offesa a Salvini c'è l'ex ministro Elsa Fornero, che lo ha definito "neofascista, rozzo e aggressivo".

Vip contro Salvini. A loro insaputa. Nell'epopea della lotta al ministro dell'Interno si sono poi messi in evidenza quelli di Rolling Stone, che l'estate scorsa hanno pubblicato una fantomatica lista di "Vip contro Salvini" da cui si sono ben presto dissociati, tra gli altri, Enrico Mentana, Fiorella Mannoia e Linus perché mai interpellati in merito all'iniziativa. Quando la "resistenza" ti recluta a tua insaputa.

L'ultimo delirio: il "fascistometro". Per concludere il bestiario non poteva mancare la delirante iniziativa de L'Espresso, col test ideato dalla scrittrice Michela Murgia per valutare il grado di "fascismo" del lettore in base a 65 quesiti. Uno strumento perfettamente in linea con questi tempi, in cui le sinistre accusano di fascismo chiunque non condivida le loro idee in materia di sicurezza e immigrazione. A questo non possiamo che preferire il Murgiometro de Il Giornale oppure il Zeccometro de Il Tempo. Decisamente più adatti ai nostri gusti. 

Un coro di insulti e offese personali da parte dei big 5 Stelle sul ministro degli Interni. Con la crisi scoppia l'ira grillina. Angelo Scarano, Venerdì 09/08/2019, su Il Giornale. Il redde rationem è già partito. Lo scontro tra Cinque Stelle e Lega ormai è definitivamente aperto: sfiducia a Conte, richiesta di spiegazioni da parte del premier a Salvini e capigruppo convocata dalla Casellati per lunedì. Il quadro è chiaro: il governo si avvia verso il baratro che portrebbe portare alle urne in tempi brevi (ottobre) con l'unica incognita di possibili inciuci dietro le quinte tra 5 Stelle e Pd. Il quadro è quello della crisi. E adesso gli attacchi a volte repressi dei 5 Stelle per salvare l'alleanza di governo trovano voce in modo chiaro e duro contro Salvini. Finalmente, verrebbe da dire, i 5 Stelle sono liberi di insultare pesantemente il leader del Carroccio. Ad aprire le danze dell'odio anti-Salvini è un "moderatissimo" Battelli, parlamentare 5 Stelle che su Facebook si lascia andare ad un posto di fuoco: "Se prima degli italiani vengono i sondaggi allora vaffanculo". Affondo senza giri di parole che di certo non poterà serenità in una maggioranza che non c'è più. Ma al coro del livore si unisce anche Alessandro Di Battista che si prepara ad una campagna elettorale che avrà un obiettivo chiaro accreditarlo come nuovo frontman dei 5 Stelle: "Spettacolo da vomito di chi si è mascherato da protettore del Popolo ma che è schiavo del sistema". Anche lui si iscrive dunque nel registro degli insulti anti-Salvini e prova a serrare le fila di Movimento che pur di racimolare qualche voto in più (nei sondaggi sono in caduta libera) si butta sull'insulto personale su quel ministro che era l'alleato numero uno fino a ieri. E Paola Taverna? La grillina dura e pura non poteva mancare nel coro delle offese a Salvini: "Fa una crisi di governo in costume da bagno raccontando una marea di cazzate e attaccandosi niente poco di meno che al Tav, un’opera che anche i muri sapevano non avremmo mai appoggiato!". Poi il delirio: "Almeno per un paio di mesi è sicuro di non dover andare in Antimafia a riferire su presunte porcate. Per me da oggi sei e sarai sempre un #traditore del popolo italiano". C'è poco da aggiungere a questa catena infinita di insulti sul vicepremier. I grillini forse temono di perdere la poltrona e di non poter ottenere ancora una volta un seggio a Montecitorio o a Palazzo Madama. L'odio forse è dettato da questa paura. E così libero sfogo alle offese. Salvini ha precisato che non attaccherà mai nè Conte, nè Di Maio con i quali ha condiviso "un anno di governo in cui sono state fatte tante cose". Questione di stile. I Cinque Stelle non apprezzano e rincarano la dose rispondendo così alle voci di un possibile inciucio con il Pd: "Caro Salvini stai vaneggiando, inventatene un’altra per giustificare quello che hai fatto, giullare".

Salvini: "Agli insulti di grillini e kompagni rispondo con le idee". Tgcom24 il 10 agosto 2019. "Agli insulti di grillini e kompagni rispondiamo solo con la forza delle nostre idee. Bacioni e prima gli italiani". Così il vicepremier e ministro dell'Interno, Matteo Salvini, dà il suo buon giorno su Twitter ai suoi follower.

Salvini a Policoro, insulti e tensioni. E lui se ne va in canoa tra la gente. Il premier della Lega accolto da striscioni e qualche lancio di acqua. E lui va in spiaggia con la gente. La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Agosto 2019. Insulti e lancio di acqua nei confronti del vicepremier e ministro dell’Interno Matteo Salvini al suo arrivo in spiaggia a Policoro per il comizio in programma. «Razzista di m...» gli ha urlato un gruppetto di alcune decine di contestatori mentre altri hanno intonato Bella Ciao. Una donna ha invece lanciato dell’acqua da una bottiglietta, raggiungendo il titolare del Viminale. Poco prima dell'arrivo dle vicepremier, era stato affisso uno striscione «Salvini beach party - ingresso: 5 rubli", esposto insieme ad altri due "Il Sud non dimentica» e «Salvini parla, l’iva aumenta». Intanto, fra i numerosi sostenitori di Salvini e i contestatori vi sono stati piccoli momenti di tensione e vi è stato un confronto acceso. Il leader della Lega ha detto rispondendo alle domande dei giornalisti che «L'unica cosa che mi aspetto è che il Parlamento si esprima il prima possibile, non dopo Ferragosto ma prima di Ferragosto. Io - ha aggiunto - guardo avanti e sto preparando un Governo stabile, coraggioso e serio per gli italiani. Se non fossero arrivati tutti No, non avremmo fatto quello che abbiamo fatto». E su una maggioranza alternativa: «Cioè un Governo Renzi-Di Maio? Sarebbe tragico, sarebbe un insulto agli italiani e alla democrazia». Salvini ha poi ribadito di non voler rispondere «alla sequela di insulti che mi stanno arrivando da Di Maio, Toninelli, Di Battista, Conte e Grillo. Il Governo - ha concluso - era fermo, l’economia ferma e l’Italia ferma». Dopo l'intervista, ha indossato il costuma da bagno, ha fatto un giro in spiaggia tra i bagnanti, con il solito rituale dei selfie, e poi ha fatto un tour in canoa (foto Tony Vece) sfacendo salire a bordo anche un ragazzino. Dopo la tappa lucana, Salvini è partito per Isola Capo Rizzuto.

 Salvini contestato a Soverato, black out al comizio: «Hanno danneggiato l'impianto». Il Messaggero Sabato 10 Agosto 2019. Black out e contestazioni al comizio di Salvini a Soverato. Un improvviso guasto alle luci ha costretto il ministro dell'Interno Matteo Salvini ad interrompere temporaneamente il suo intervento. I contestatori ne hanno approfittato per far sentire ancora più forte le loro grida che Salvini ha «diretto» dal palco come un direttore. Alla ripresa, Salvini ha detto che un «cretino ha danneggiato l'impianto audio ed è stato bloccato e identificato» dalle forze dell'ordine. «Se questo è il modo di agire dei nostri contestatori è evidente che abbiamo già vinto». Danneggiare un bene pubblico o privato non è buona educazione, se vanno lì a rompere con la violenza quello che non è loro...se sono arrivati al punto da danneggiare gli impianti elettrici vuol dire che la nostra battaglia la stiamo vincendo». Lo dice Matteo Salvini a Soverato, dopo essere stato costretto a interrompere il suo comizio per un black out all'impianto elettrico.

La comparazione degli insulti tra tono e gravità. Tutti gli insulti che Salvini ha dedicato ai suoi avversari su Twitter. Simone Fontana su wired.it il 10 giugno 2019. La lista completa delle definizioni che il ministro dell'Interno ha riservato ai suoi bersagli prediletti, ordinati dalla A di Pamela Anderson alla Z di Vittorio Zucconi. “Tanti nemici, tanto onore”. Matteo Salvini lo aveva scritto su Twitter lo scorso 29 luglio, poco meno di due mesi dopo aver giurato sulla Costituzione in veste di 34esimo ministro dell’Interno della Repubblica italiana. Quella frase, nemmeno troppo velatamente riconducibile all’immaginario mussoliniano, aveva immediatamente scatenato la prevedibile sfilza di polemiche destinate a esaurirsi nel tempo di un fine settimana, ma celava in realtà quello che oggi potremmo definire una vera e propria dichiarazione d’intenti della sua comunicazione istituzionale. Riprendendo un’idea che il New York Times ha applicato a Donald Trump, abbiamo passato al setaccio l’intero primo anno di Matteo Salvini da ministro dell’Interno su Twitter, l’ambiente che più di tutti ha subito gli effetti della sua bulimia da social network, nel tentativo di stilare una lista esaustiva di tutti gli obiettivi scelti per dispiegare la potenza di fuoco della comunicazione leghista. Politici, attivisti, giornalisti e intellettuali, ma anche istituzioni, nazioni e categorie più o meno definite di persone e identità. “Nemici”, per dirla con la massima preferita da Matteo Salvini, dati in pasto al milione di follower di un profilo a metà tra il personale e l’istituzionale, che con disinvoltura spazia dal resoconto di avventure mangerecce a importanti dichiarazioni ufficiali. Rispetto ai tweet di Donald Trump, la produzione di Matteo Salvini risulta più sobria e ragionata, ma decisamente meno diretta. Se il vulcanico presidente degli Stati Uniti è ormai universalmente noto per la sua personalità sanguigna e istintiva, tratti caratteriali facilmente riscontrabili anche nella sua comunicazione, la strategia di Salvini è composta per lo più da provocazioni velate, non detti e allusioni virgolettate. Pochi sono infatti, come vedremo, gli epiteti destinati ai suoi bersagli storici, il giornalista Roberto Saviano e l’ex presidente della Camera Laura Boldrini, sostituiti dai meno appariscenti “bacioni” e “balla che ti passa”. Per tutti gli altri, invece, il ministro non risparmia caratteri, e le espressioni denigratorie più frequenti sono quelle indirizzate a ong, Unione Europea, centri sociali e opposizione. Dagli insulti standard a quelli più fantasiosi, ecco di seguito – in rigoroso ordine alfabetico – la lista degli avversari del ministro dell’Interno Matteo Salvini e delle dichiarazioni a essi dedicate, con il relativo link al tweet in oggetto. Buona lettura.

Pamela Anderson / attrice, fotomodella: “premio Nobel, la nuova leader della sinistra, italiana e globale”, “la preferivo in costume”.

Ambra Angiolini / conduttrice, attrice: “Non tutte le donne hanno la fortuna di essere ricche e famose”.

Anarchici: “vigliacchi, nazisti rossi”.

Anpi – Associazione nazionale partigiani: “fate schifo”.

Asia Argento / attrice: “mi racconti i problemi che hai e vedo se posso aiutarti”.

Jean Asselborn / politico lussemburghese: “non hanno nessuno di più normale che faccia il ministro?”

Cesare Battisti / ex terrorista: “vigliacco”, “non è rieducabile, non deve uscire dal carcere fino alla fine dei suoi giorni”.

Don Marco Bedin / sacerdote: “dovrebbe candidarsi alle elezioni anziché impiegare il suo tempo insultandomi sul bollettino della parrocchia”.

Don Massimo Biancalani / sacerdote: “buonista pro-immigrazione”.

Tito Boeri / economista, ex-presidente Inps: “è in perenne campagna elettorale: ha stufato. Si dimetta, si candidi col Pd alle Europee e la smetta di diffondere ignoranza e pregiudizio”, “vive su Marte”.

Laura Boldrini / ex presidente della Camera: “ci è o ci fa?”, “questa vive su un altro pianeta”.

Massimo Cacciari / filosofo: “intellettualone di sinistra sempre agitato”.

Andrea Camilleri / scrittore: “sinistro”.

Luciano Canfora / storico e saggista: “professorone di sinistra”.

Luca Casarini / attivista: “pluripregiudicato, coccolato da Pd e sinistra”.

Centri sociali: “delinquenti”, “teppisti da stadio”, “centri a-sociali”, “zero utilità sociale”, “maleducati e anche un po’ brutti”, “non ci sono più i comunisti di una volta, consiglio più uovo sbattuto e meno canne al centro sociale”, “4 sfigati”, “poveretti”, “disturbatori comunisti”, “quattro poveretti”, “pochi, penosi figli di papà antagonisti, che tante coccole ricevono da certa sinistra”, “poverini, cos’hanno nella testa?”, “mi fanno pena”, “sanno solo odiare e insultare”, “vergogna, fate schifo”.

Chef Rubio / cuoco e personaggio televisivo: “paladino dei clandestini”.

Cina: “sta depredando l’Africa”.

Ada Colau / sindaca di Barcellona: “Barcellona merita di meglio”.

Furio Colombo / giornalista: “Il noto intellettuale della sinistra al caviale, mi fa schifo e mi vergogno per lui”.

Commissione Europea: “burocrati di Bruxelles”, “servi degli interessi della finanza e dei poteri forti”.

Nick Conrad / rapper: “idiota”.

Consiglio d’Europa: “baraccone”.

Cedu – Corte Europea per i diritti dell’uomo: “buonisti, Corte Europea per i Diritti dei Rom”.

Massimo D’Alema / politico, ex-presidente del Consiglio: “poveretto, buon Maalox”.

Don Giorgio de Capitani / sacerdote: “Pregate per questo prete, ne ha bisogno”.

Luigi De Magistris / sindaco di Napoli: “non riesce a dare risposte ai napoletani e si preoccupa dei clandestini”, “amministratore incapace”.

Domenico De Masi / sociologo: “fenomeno del giorno, professorone”.

Alessandro Di Battista / ex parlamentare, esponente del M5s: “ignora e parla a vanvera”.

Droghe leggere: “una boiata pazzesca, lo stato spacciatore non lo accetterò mai”.

Europa/Unione Europea: “ci entra in casa”, “bloccata”, “dei banchieri, dei burocrati, dei barconi e dei buonisti”, “un incubo”, “business”, “della precarietà”, “ci entra in casa, in banca, nel frigorifero”, “quella della precarietà, della Fornero, dell’immigrazione selvaggia, delle tasse, della distruzione del Made in Italy”, “ci impone di aumentare tasse, Iva, i conti correnti”, “ci vogliono far mangiare le schifezze che arrivano dall’altra parte del mondo“, “incapace e dannosa”.

Fabio Fazio / conduttore Rai: “mi piacerebbe che guadagnasse meno”, “fa politica e guadagna troppo”, “stipendio milionario e vergognoso pagato dagli italiani”, “simpatico buonista e accogliente milionario di sinistra”, “radical chic”.

Femministe: “ce l’hanno con la famiglia, gli suggerisco di preoccuparsi di quell’estremismo islamico che le donne le vorrebbe sottomesse”, “estremiste di sinistra”, “femministe radical-chic”.

Giuliano Ferrara / giornalista: “che tristezza un Maalox anche per lui”.

Fmi – Fondo monetario internazionale: “una minaccia per l’economia mondiale, una storia di ricette economiche coronata da previsioni errate, pochi successi e molti disastri”.

Elsa Fornero / economista, ex ministro del Lavoro: “con la sua legge ha rovinato la vita a milioni di italiani”, “questa ha rubato sei anni di vita a milioni di italiani”, “la legge della signora aveva rovinato e tradito vita e dignità degli italiani, i suoi insulti per me sono medaglie”

Francia “ha alimentato venti di guerra per interessi economici”.

Gemitaiz / rapper: “chi è sto fenomeno, che problemi ha?”

Giuseppe Genna – giornalista e scrittore: “intellettualone”.

Germania: “andiamo a spiegare ai tedeschi come si lavora”.

La giuria di Sanremo: “otto radical chic”.

Giuseppe Grezzi / vicesindaco di Valencia: “vicesindaco buonista di Valencia”.

Udo Gümpel / giornalista: “il signor giornalista tedesco, si permette di dare lezioncine agli italiani”.

Islam: “una religione che dice che la donna vale meno dell’uomo non sarà mai padrona a casa nostra”.

J-Ax / cantante. “rapper sinistro, fatti una cantata”.

Konrad Krajewski / cardinale: “se il cardinale riuscisse a dare una mano anche agli italiani che rispettano la legge gliene sarei grato”, “ricordo a questo cardinale che 5 milioni di italiani non riescono a mettere insieme il pranzo con la cena”.

L’Espresso / settimanale italiano: “questo caldo africano gli avrà dato alla testa”, “questi non sono normali”.

L’Express / settimanale francese: “buonisti e radical chic transalpini”.

Achille Lauro / cantante: “canzone penosa e pietosa”.

Spike Lee / regista: “pensa di aver capito tutto dell’Italia, mi sembra più demoniaca la sua risata della mia”, “più soldi hanno più sono arroganti”.

Left / settimanale: “vergognatevi, cretini”.

Gad Lerner / giornalista: “radical chic”, “maglietta rossa e Rolex”.

Bernard-Henri Levy / filosofo e saggista francese: “dice fesserie, si preoccupi di ciò che succede in Francia”.

Mimmo Lucano / ex-sindaco di Riace: “fenomeno”, “pseudo associazione di volontariato, ci prende per scemi”.

Emmanuel Macron / presidente della Repubblica francese: “rappresentazione dell’élites europee architettate a tavolino”, “pessimo governo e pessimo presidente della Repubblica”.

Nicolas Maduro / presidente del Venezuela: “dittatore che sta affamando e torturando il suo popolo”, “prima si toglie di mezzo e meglio è”, “fuorilegge, affama, incarcera e tortura il suo popolo”, “dittatore rosso”.

Andrea Maestri / politico, esponente di Possibile: “mi fa ridere”.

Mahmood / cantante: “ormai la sinistra riesce a vincere solo con la giuria d’onore”, “usato dai radical chic”.

Malta: “nessuno può permettersi di darci lezioni, se continueranno a prenderci in giro ne pagheranno le conseguenze in sede europea”, “regala ai barchini benzina e bussole ai clandestini, non ci faremo intimidire”.

Mannelli / vignettista e illustratore de Il Fatto quotidiano: “rosicone”.

Mercati finanziari: “non vorrei che qualche speculatore volesse ostacolarci a tutti i costi”, “mi viene il dubbio che qualcuno giochi a colpi di finanza per comprare le nostre aziende sottocosto”.

Angela Merkel / cancelliera tedesca: “con lei non ho niente a che fare”.

Gianfranco Micciché / presidente dell’Assemblea regionale siciliana: “ha bisogno di studiare la storia e di un dottore bravo”.

Dunja Mijatovic / Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa: “ignoranza e pregiudizio anti-italiano. Straparla, farebbe meglio a guardare in casa propria”.

Mario Monti / politici, ex presidente del Consiglio: “dice enormi sciocchezze”, “tanto amato e sostenuto dai suoi amici burocrati europei”, “il grande professore e salvatore dell’Italia”.

Nanni Moretti / regista: “regista radical chic”.

Giampiero Mughini / giornalista: “che pena, mi vergogno per lui”.

Michela Murgia / scrittrice: “intellettuale radical chic”, “la geniale ideatrice del fascistometro, certi intellettuali se non ci fossero bisognerebbe inventarli”.

Ong: “aiutano gli scafisti”, “aiuta chi utilizza soldi degli immigrati per commerci di droga e armi”, “vice-scafista”, “ha messo a rischio vite umane”, “non sono soccorritori, sono scafisti e come tali verranno trattati”, “finti generosi”, “complici del traffico di esseri umani”, “operano un traffico di esseri umani organizzato”, “signori finanziati da Soros”, “avvoltoi del Mediterraneo”.

Onu – Organizzazione delle Nazioni Unite: “sono matti”.

Leoluca Orlando / sindaco di Palermo: “distratto, ossessionato dai clandestini e dal sottoscritto”, “un altro eroe del Pd che anziché pensare ai problemi dei palermitani mette al primo posto i diritti dei clandestini”, “vergognoso”.

Papa Francesco: “sono contento di avergli dato una risposta nei fatti e non con le parole, la politica di questo governo sta azzerando i morti nel Mediterraneo”.

Partito democratico: “perdenti”, “chiacchieroni”, “ossessionati, poverini”, “hanno l’ossessione di Salvini e della Polizia, poverini”, “disperato, raccoglie quello che ha seminato”, “con loro al governo l’Italia stava diventando il paradiso dei delinquenti”.

Luigi Patronaggio / pm di Agrigento: “se vuole far sbarcare qualcuno si candidi e diventi ministro”.

Romano Prodi / economista, ex presidente del Consiglio: “Non ha già fatto abbastanza danni all’Italia?”

Virginia Raggi / sindaco di Roma: “i romani hanno diritto a un sindaco migliore”, “Roma è in condizioni pietose e i cittadini meritano di meglio”, “Pensavo che i 5 Stelle facessero meglio: la prossima volta i romani sceglieranno qualcun altro”, “non sei in grado di fare il sindaco, lascia che qualcun altro lo faccia”, “non è più adeguata a fare il sindaco di Roma”.

Rahmi / bambino senza cittadinanza italiana, ostaggio dello scuolabus a San Donato Milanese: “strumentalizzato da qualche adulto”.

Matteo Renzi / politico ed ex-presidente del Consiglio: “poltronaro amico dei banchieri”.

Regole europee: “ha fatto aumentare il debito”,  “stanno strangolando le nostre economie”, “assurde”, “massacrano i nostri agricoltori e pescatori”, “affamano le famiglie italiane”.

Richiedenti asilo: “ci portavano la guerra in casa”, “nella maggior parte dei casi si rivelavano delinquenti, spacciatori, stupratori”, “finiti bambini”, “violentano, rubano e spacciano”, “finti profughi”.

Rolling Stone Italia / ex settimanale, sito web: “rosiconi”.

Rom: “vivono con la luce elettrica rubata e i roghi tossici”, “i campi Rom si confermano una attrazione per i delinquenti”, “gli unici nomadi che mi piacciono sono quelli del gruppo musicale”, “sono stufo di mantenere gente che educa i figli al furto e che campa a scrocco”, “vogliono campare alle spalle degli altri”, “ce ne sono molti che sono dei delinquenti. Fuori da Stazione Centrale non ci sono gli svedesi a scippare i turisti”.

Salmo / rapper: “che tristezza, apri la mente fratello”.

Pedro Sanchez / primo ministro spagnolo: “chiacchierone”.

Michele Santoro / giornalista: “radical chic (col portafoglio a destra)”, “ricco giornalista e intellettuale radical chic”.

Sanzioni economiche contro la Russia: “una follia”, “strumento inutile che sta danneggiando migliaia di aziende italiane”.

Roberto Saviano / giornalista e scrittore: “simpatico, buonista e accogliente milionario di sinistra”, “chiacchierone”, “il ricco scrittore mi insulta, preferisce New York”, “dice fesserie”.

Eugenio Scalfari / giornalista e fondatore di Repubblica: “amichetto del Pd”, “Il decano dei giornalisti radical-chic, queste parole e questo atteggiamento mi fanno schifo”, “voglio salvare il Paese, ma da Scalfari e da quell’illuminata classe dirigente, con cuore a sinistra e portafoglio a destra, che ci ha portato in queste condizioni”.

Vauro Senesi / vignettista: “squallido personaggio, fa schifo”, “non è normale”.

Sinistra: “rosiconi e sinistri vari”, “intellettualoni, professoroni, analisti, sociologi”, “rosiconi radical-chic della sinistra caviale & champagne”, “buonisti e rosiconi”, “intellettuali sinistri”, “I comunisti sono una specie in via di estinzione e come gli orsi bruni e i panda vanno tutelati, perché sono pochi ma simpatici”, “stanno finendo la scorta di Maalox”, “ma quanto rosicano? Hanno esaurito le scorte di Maalox nelle farmacie italiane”, “nervosi perché hanno perso un bel po’ di quattrini”, “intelligentoni”, “ecco la sinistra in Italia, avvertimenti in stile mafioso”, “magliette rosse”, “preferiscono tutelare l’illegalità, l’abusivismo e le merci contraffatte”, “l’Internazionale dei rosiconi che sta andando avanti a Maalox dal 4 marzo”, “hanno umiliato l’Italia”, “questi sono da ricovero”.

George Soros / finanziere e filantropo ungherese: “vorrebbe che l’Italia fosse un grande campo profughi perché a lui piacciono gli schiavi”, “sogna Europa piena di immigrati”.

Stampa: “giornaloni e telegiornaloni”, “titoli vergognosi dei giornaloni”, “fanno solo comizi di sinistra”, “qualche giornalista fazioso e disinformato falsifica perfino i numeri e la realtà”.

Gino Strada / medico, attivista, filantropo: “maleducato”, “poteva mancare al coretto degli amici dei clandestini?“, “maestro dell’orchestra sinfonica buonista”.

Svezia: “non vogliamo fare la fine della Svezia, no all’Eurabia”, “accecata dalla paura di venire considerata razzista, non si può impedire a un immigrato di discriminare una donna“.

Oliviero Toscani / fotografo: “un poveretto”, “il kompagno che schifa la cittadinanza italiana e vorrebbe essere africano”, “non sta bene”, “penoso”.

Turchia: “non sarà mai in Europa”.

Yanis Varoufakis / economista, ex-ministro dell’economia greco: “chiacchierone radical chic”.

Guy Verhofstadt / politico: “burocrate europeo, complice del disastro di questi anni, vergognoso”.

Don Alex Zanotelli / sacerdote: “un uomo di chiesa può essere sempre così pieno di risentimento e di odio?”, “forse qualcuno rimpiange i miliardi del business dell’immigrazione, e migliaia di morti?”, “digiunante buonista”.

Don Armando Zappolini / sacerdote: “forse, più che fare il sacerdote doveva mettersi in politica. Chissà se i parrocchiani sono contenti”.

Nina Zilli / cantante: “vincitrice del premio furbizia”.

Vittorio Zucconi / giornalista: “giornalista sinistra e caviale”. 

Da Corriere.it il 5 agosto 2019. «In questa vicenda c’è solo una cosa che mi interessa e che sto approfondendo: se c’è stata una limitazione al diritto di informazione e cronaca». Così il capo della Polizia, Franco Gabrielli, ha risposto ai giornalisti che gli hanno chiesto, a margine della presentazione del nuovo hub ferroviario di Rogoredo, cosa pensa della vicenda del vicepremier Matteo Salvini, che con il figlio ha fatto un giro su una moto d’acqua della Polizia a Milano Marittima. «La vicenda dell’acqua-scooter onestamente mi sembra un po’ amplificata - ha aggiunto Gabrielli - , vi potrei portare decine di immagini di nostri mezzi che vengono utilizzati anche da ragazzini. Quindi questo mi interessa il giusto, mi preoccupa di più, e ho chiesto un approfondimento, quando c’è una limitazione al diritto di cronaca che ritengo debba essere posto al centro». Ai giornalisti che gli hanno chiesto se i poliziotti facevano parte della scorta del vicepremier, il capo della Polizia ha risposto che «lo stiamo approfondendo, sia sotto il profilo penale che disciplinare faremo tutte le valutazioni - ha concluso -. Perché se ci sono state delle minacce e degli atteggiamenti fuori dall’azione ordinaria ci sono anche profili penali».

I FIGLI SO' PIEZZE 'E CORE, DA SALVINI A DE BLASIO. DAGONEWS il 5 agosto 2019. Il sindaco di New York Bill de Blasio avrebbe usato alcuni agenti di polizia per il trasloco della figlia Chiara dal suo appartamento di Brooklyn. Secondo quanto riferito dal Daily News, il trasloco dall’appartamento a Sunset Park sarebbe avvenuto un anno fa e adesso il sindaco è finito nella bufera per aver adoperato agenti di polizia per interesse privato a spese dei contribuenti: l’accusa è di aver abusato delle risorse della città. «Hanno usato detective e veicoli del reparto per il trasloco della figlia» ha detto una fonte. I poliziotti hanno caricato gli effetti personali della 24enne in due furgoni mentre la moglie di De Blasio, Chirlane McCray, supervisionava il lavoro. Gli agenti, poi, avrebbero consegnato i pacchi a Gracie Mansion. Un capo in pensione del NYPD ha riferito che le mansioni sono spesso “confuse”. Tuttavia, a meno che non ci fosse un'emergenza, la mossa è apparsa come "strana".

SALVINI QUERELA TUTTI (MA PERDE SEMPRE). Adriano Botta per L'Espresso l'11 giugno 2019. «Non possiamo spendere soldi e perdere tempo in cause che durano anni», disse Matteo Salvini nel 2014, per spiegare come mai – nel delicato processo contro Bossi e Belsito per presunta appropriazione indebita – decise di ritirare la costituzione di parte civile (decisione che è costata alla Lega ben 49 milioni di euro, cioè il denaro dei rimborsi elettorali che, dopo la falsificazione dei bilanci, deve essere restituita alle casse dello Stato). In altri casi, invece, Salvini in tribunale ci va volentieri. Soprattutto quando decide di querelare giornalisti, scrittori, politici, blogger e sindacalisti da cui si sente diffamato. Capita sempre più spesso: sulla stampa, su Internet, su Facebook, su Twitter non c'è post che sfugga al vicepremier e alla sua corte di avvocati, che da anni intasano i tribunali italiani con decine di denunce penali.

In pochi sanno, però, che Salvini perde (quasi) sempre. Qualche giorno fa, ultimo di una lunga serie, il gip di Milano ha in effetti archiviato un procedimento contro Emiliano Fittipaldi, giornalista dell'Espresso. In una trasmissione televisiva del 2016, parlando sul tema dell'accoglienza dei migranti, il cronista aveva affermato che le immigrazioni umane sono un fenomeno storico di complessa gestione, aggiungendo che non si può «mettere le navi della Marina e sparare a chiunque si avvicina come qualche volta Salvini ha proposto». Il leader leghista querelava all'istante, lamentandosi dell' “animus diffamandi” della frase, e - negando di aver mai detto di «sparare uomo sui migranti» (frase mai pronunciata dal giornalista, spiegherà il gip) - si rifaceva al programma politico pubblicato dalla Lega sul sito. L'avvocato del giornalista, Emilio Battaglia, nella memoria difensiva ha prima citato le dichiarazioni antecedenti alla trasmissione in cui lo stesso Salvini parlava di «blocco navale con le navi della Marina», di «affondare i barconi e fare i blocchi navali», di «una vera e propria guerra» in corso a cui «rispondere con tolleranza e buonismo sarebbe un suicidio». Poi evidenziava che il cronista si era «limitato a riportare la linea politica di Salvini e di altri esponenti della Lega Nord». Bossi nel lontano 2003 aveva già dichiarato che «Marina e Finanza si dovranno schierare a difesa delle coste e usare il cannone»; Roberto Calderoli, nel 2006, aveva invece spiegato che bisognava «sparare sugli scafisti...sparare per affondarli...usando cannoni o colubrine, non importa», mentre Speroni aveva parlato di «mitragliamenti». Mario Borghezio, nel 2015, aveva poi ipotizzato di «passar per le armi gli scafisti»: tutte dichiarazioni, dice ora il gip, «rispetto alle quali non vi è mai stata alcuna dissociazione da parte della Lega Nord e dello stesso Salvini». Battaglia, infine, ha ricordato anche l'esistenza di un decreto regio del 1938, che è oggi ancora in vigore. Il dispositivo definisce il senso del “blocco navale” militare, che in Italia prevede che «la nave colpevole di violazione al blocco è soggetta a cattura e confisca», e che la barca «che oppone resistenza attiva alla cattura (…) giustifica l'uso della forza». Il legale conclude dunque che «le dichiarazioni del signor Salvini in cui è invocato il blocco navale presuppongono un atto di guerra e il possibile uso della forza». Il pm, che ha depositato un due mesi fa una richiesta di archiviazione, non solo segnala «la carenza dell'elemento soggettivo del delitto di diffamazione», ma evidenzia che se «il riferimento all'uso delle armi è ultroneo rispetto alle dichiarazioni» di Salvini, «l'approccio pubblico di quest'ultimo alla tematica in argomento è informato alla politica di fermo ed assoluto contrasto, esternata attraverso espressioni molto dure e dai toni accesi». La richiesta d'archiviazione, come detto, è stata accolta dal gip, che aggiunge come la frase del cronista non sia «una gratuita lesione dell'altrui patrimonio morale», ma una mera critica politica alla linea di Salvini sull'immigrazione. Negli ultimi mesi sono tanti i giudici che hanno dovuto lavorare giorni e giorni sulle denunce del leghista. I gip hanno archiviato querele in mezza Italia, contro un consigliere delegato della Mostra d'Oltremare, Giuseppe Oliviero, che s'era detto contrario a una manifestazione di Salvini nello stazio Fuorigrotta; contro Marco Bentivogli, segretario generale della Fim Cil, che nel 2015 aveva detto a Salvini in un confronto tv che lui «girava in auto blu» e che era «il più grande assenteista di Bruxelles, tanto che nemmeno gli uscieri si ricordano di lei»; contro Davide Vecchi del “Fatto Quotidiano”, che lo aveva definito tempo prima un «politico di professione» (il gip sottolinea nel dispositivo di archiviazione che il leader del Carroccio «non svolge o non ha mai svolto nessuna “attività civile”»); contro vari consiglieri e assessori del Pd, o contro sindaci di peso come Luigi De Magistris, che fu denunciato dal segretario leghista per diffamazione e istigazione a delinquere. Salvini ha persino querelato, perdendo ancora una volta, una giornalista calabrese che gli aveva dato della «simpatica canaglia».

Se è inflessibile contro i nemici, Salvini è assai più generoso con gli amici. Anche quelli nuovi di zecca, come il grillino Stefano Buffagni. Quest'ultimo era stato querelato nel 2016 per alcune dichiarazioni durissime sulla Lega (secondo l'attuale sottosegretario a Palazzo Chigi il metodo di governo della Lombardia del Carroccio è simile a quello «del Pd, Mafia Capitale», e aveva parlato di una «ragnatela leghista fatta di una fitta rete di contatti», oltre a un «sistema marcio che sta infettando le istituzioni»). Ma a febbraio di quest'anno il vicepremier ha deciso di fare la pace con il compagno di governo, e di ritirare la denuncia. Fosse coerente, dovrebbe dunque ritirare anche quella fatta a Roberto Saviano, indagato per aver definito Salvini il «ministro della malavita» (lo scrittore cita letteralmente un saggio di Gaetano Salvemini contro il governo Giolitti) e decine di altre, depositate davvero o minacciate non possiamo ancora sapere: dal sindacalista Giuseppe Massafra al giornale di gossip Chi, dal presidente dell'Arci di Lecce a Carlo De Benedetti, dal Pd tutto («non ho mai detto di provare schifo per Ilaria Cucchi! Facevo riferimento a un suo post») fino alla Cgil e al vignettista Vauro. Reo solo di aver disegnato una vignetta satirica sulla nuova legge sulla legittima difesa.

«Io non querelo mai», ripete Salvini ogni volta che annuncia una nuova querela. È probabile che i tribunali italiani, già oberati di lavoro, sarebbero felici di investire tempo e denaro non sulle denunce a raffica del vicepremier, ma su fascicoli più delicati e sensibili. Sconfitta dopo sconfitta, forse se ne renderà conto anche il capo della Lega.

Boldrini: "La sede Pd che salta in aria? Colpa di Salvini". Dopo l'esplosione che ha fatto saltare in aria una sede del Pd nel Nuorese, Laura Boldrini scrive: "Abbiamo seri problemi di sicurezza e legalità e chi dovrebbe occuparsene passa le giornate sui social a dare colpe agli altri". Cioè Salvini. Gianni Carotenuto, Martedì 30/07/2019, su Il Giornale. Un circolo del Pd saltato in aria e l'auto di un sindaco data alle fiamme. È il bilancio di quanto successo nella notte tra lunedì e martedì a Dorgali e Cardedu, due comuni del Nuorese e dell'Ogliastra, in Sardegna. Gli inquirenti sono al lavoro per verificare l'eventuale l'esistenza di un collegamento tra i due attentati. Intanto, come sempre avviene in questi casi, i dem e il primo cittadino di Cardedu, Matteo Piras, hanno incassato la solidarietà di gran parte del sistema politico. Il tutto all'insegna del fair-play.

Solidarietà bipartisan. La presidente dei deputati di Forza Italia, Mariastella Gelmini, ha scritto che "atti di una così grave violenza non sono tollerabili, né giustificabili. Solidarietà al Pd per il vile attacco alla sede di Dorgali". "In questo Paese sicurezza e legalità sono sempre a rischio, a chi si batte ogni giorno per garantirle va tutta la mia solidarietà", la nota dell'europarlamentare del Pd, Alessandra Moretti, che ha esteso il proprio messaggio di vicinanza anche alla collega europarlamentare della Lega, Rosanna Conte, a cui è stato recapitato un proiettile. Ancora più determinato il ministro dell'Interno, Matteo Salvini, per il quale non ci dev'essere "Nessuna tolleranza per i violenti. Massima solidarietà a chi ha subìto le aggressioni e massimo impegno per trovare e punire i responsabili". Quando c'è di mezzo la violenza, non ci dovrebbe essere spazio per la polemica. E andrebbe evitata ogni strumentalizzazione.

Boldrini: "Colpa di Salvini". Cosa che non fa Laura Boldrini, che su Twitter scrive: "Dopo l’uccisione del carabiniere a Roma, questa notte una sede del Pd è stata fatta saltare in aria Abbiamo seri problemi di sicurezza e legalità e chi dovrebbe occuparsene passa le giornate sui social a dare colpe agli altri. Tanti capri espiatori, soluzioni zero". Quel chi, manco a dirlo, è riferito al segretario della Lega. Boldrini avrebbe dovuto risparmiarsi un tweet del genere, almeno oggi. E invece no: anche una bombola che esplode è colpa di Salvini. Buono a sapersi.

Matteo Salvini, lancio di escrementi contro il leghista: schifezza prima del comizio. Lo.S. su Libero Quotidiano il 9 Agosto 2019. Era lo stabilimento che ieri doveva ospitare Matteo Salvini e qualche democratico oppositore ha pensato bene di coprirlo di escrementi. Nella notte tra mercoledì e giovedì, in polemica con la visita del ministro dell' Interno a Fossacesia, in provincia di Chieti, dei vandali hanno gettato pietre ed escrementi all' interno del Twin Beach che avrebbe dovuto ospitare il leader del Carroccio. Presi dalla loro impresa, i neo partigiani non hanno neanche letto l' avviso che spiegava che la visita era saltata per impegni istituzionali di Salvini e hanno portato a termine il loro coraggioso proposito. «Venire al Twin Beach a buttare escrementi e pietre sulla nostra struttura è da vigliacchi», commenta su Facebook il titolare dello stabilimento, Donato Di Campli. «La nostra è una attività commerciale e come tale accoglie tutti senza alcun colore politico» spiega Di Campli che ha pubblicato anche la foto di alcuni biglietti, lasciati dai vandali con riferimenti al decreto sicurezza bis. «Abbiamo investito tanti soldi sul nostro territorio e di certo non ci facciamo intimidire», conclude l' imprenditore. Che ha ricevuto la solidarietà delle autorità locali. «Buttare escrementi e pietre su una attività commerciale che avrebbe dovuto ospitare il ministro dell' Interno», è stato il commento, «non è solo un attacco alla democrazia, ma una grave mancanza di rispetto nei confronti del lavoro e del sacrificio di coloro che hanno investito economicamente per la crescita e lo sviluppo del nostro territorio. Salvini può piacere come non piacere. Ma nel rispetto del principio democratico, chi non ha voglia di vederlo o sentirlo rispetti, invece, chi ne ha interesse. Episodi come questo non ci intimidiscono, ma ci spronano a fare sempre meglio ed aumentano la voglia di cambiamento». Lo.S. 

Salvini? "fa schifo, il suo un colpo di stato": Il comunista Vauro è uscito di testa. Libero Quotidiano il 9 Agosto 2019. "Io sono schifato come cittadino italiano. Vi pare normale che per conoscere le sorti del mio Paese devo stare qui ad aspettare un comizio da spiaggia? Agosto è il mese dei colpi di Stato, questo è un colpo di Stato". Su Rete 4 Stasera Italia si collega in diretta a Pietrasanta con la Versiliana dove sul palco c'è il vignettista Vauro (Fatto Quotidiano) che non perde tempo e si scatena contro Salvini. 

Alcuni giorni fa Vauro sul Fatto Quotidiano aveva disegnato Matteo Salvini, con bavaglino, mentre si sbrodola e perde bava dalla bocca. Dunque, il commento: "Giustizia. Salvini vuole il bavaglio. Altrimenti si sbrodola". Amen.

Crisi di governo, Alessandro Di Battista insulta Matteo Salvini: "Fai vomitare, schiavo del sistema". Libero Quotidiano l'8 Agosto 2019. Crisi di governo. Dopo gli insulti e i deliri grillini sulla Tav, rompe gli indugi Matteo Salvini. "Si vada in Parlamento a prendere atto che la maggioranza non c'è più". Ciao ciao, grillini. E poteva mancare un terrificante commento a tempo record dell'urlatore professionista, Alessandro Di Battista? No, ovviamente no. E Dibba ha dato il peggio di sé. Ci ha tenuto a farci sapere, infatti, che da Salvini viene uno "spettacolo da vomito, di chi si è mascherato da protettore del Popolo ma che è schiavo del sistema". Così su Facebook il grillino. "Questo politicante di professione manda tutto all’aria per pagare cambiali a parlamentari terrorizzati dal taglio delle poltrone o agli amici del suocero Verdini che se la fanno sotto per la riforma della prescrizione che entrerebbe a breve in vigore", prosegue nel suo risibile delirio. L’ex deputato che si è dato a discutibili reportage spiega che "nelle prossime settimane si potrebbero fare alcune cose straordinarie che il sistema detesta". Già, il "sistema": roba da autogestione al liceo. Dunque le elenca, queste cose eccezionali: "1. Tagliare 345 poltrone di parlamentari. Sono già passate 3 votazioni diamine, manca solo la quarta! 2. Togliere le concessioni autostradali ai Benetton. Tra poco arriva il 14 agosto, la data della tragedia del Ponte Morandi, non è passato nemmeno un anno da quei morti. 3. Trovare soldi per la flat-tax (se fatta bene è una buona cosa) 4. Far fare a Giorgetti i decreti attuativi per la legge sullo sport e togliere finalmente a quel ruffiano di Malagò la gestione clientelare di milioni di euro". E invece, Salvini, che non viene mai citato esplicitamente nel violentissimo post, "dirà che in Parlamento queste cose non si possono fare, perché quelli del 5 Stelle lo trattano male, poro amore". Ciao ciao Dibba...

TUTTO FA BRODO CONTRO SALVINI. Antonio Socci per “Libero quotidiano” il 7 agosto 2019. D'improvviso l'Italia radical-chic e post-comunista dell' estate 2019 si risvegliò filo democristiana. Tutti pazzi per la vecchia Dc. Tutti deliziati e incantati davanti alle foto di Alcide De Gasperi in vacanza in Valsugana e Aldo Moro in giacca e cravatta sulla spiaggia di Terracina. Che stile, che senso delle istituzioni, che sobrietà, che dignità, che "gravitas". Elogi sperticati. Sono passati da «non vogliamo morire democristiani» a «che statisti quei democristiani». La "miracolosa" conversione è dovuta - come al solito - a Matteo Salvini, o meglio alle immagini di Salvini al mare a torso nudo. Poco importa se da decenni tutti i politici vanno sulla spiaggia in costume come lui: ieri lo ha mostrato la galleria fotografica di Libero e perfino Il Fatto quotidiano ha ripubblicato foto di politici progressisti in costume (da Napolitano a Rutelli a Fassino) irridendo il Corriere della sera per il quale «Salvini è il primo politico a torso nudo al mare». Il giornale di Marco Travaglio ha scritto: «Contro il salvinismo va senza dubbio condotta una severa battaglia politica, culturale, antropologica, scientifica, estetica, filosofica, persino militare. Però c'è un limite. Intestargli pure la "mutazione antropologica di noi italiani" come ha fatto ieri il 'Corriere della sera', per via della storia di lui a torso nudo a fare il dj al Papeete è un po' troppo. Soprattutto se si risale alla famosa foto di Aldo Moro in giacca, cravatta mocassini e calzini sulla spiaggia di Terracina». Oltretutto non è affatto vero che quella fosse la tenuta abituale di Moro al mare. C' è chi - come Guido Crosetto - ha pubblicato una sua foto sulla spiaggia vestito come tutti, in pantaloncini corti, ciabatte e camicia estiva sbottonata. Crosetto ha così commentato quell'immagine: «Giusto per ricordare che anche Moro era un uomo. Per questo era grande, perché poi, quando finiva la vacanza, sapeva essere tornare ad essere uno statista». Ma ciò che colpisce è la riabilitazione postuma dei democristiani (del resto a Sinistra stanno riabilitando perfino Berlusconi, come campione di stile, per attaccare il "volgare" Salvini). De Gasperi in vacanza in Valsugana è stato osannato per il suo stile dignitoso come se - nella vita - non avesse fatto niente di più importante che indossare quel vestito severo. Si potrebbero ricordare decenni di disprezzo e di virulenza verbale e ideologica dei comunisti nei confronti dei democristiani e in particolare di De Gasperi, a cominciare da quando - per le elezioni del 1948 - Togliatti in un celebre comizio urlò: «Voglio comprarmi un paio di scarponi chiodati per dare un calcio nel sedere a De Gasperi» (immaginate se oggi fosse Salvini a esprimersi così verso Zingaretti o Renzi o verso la Commissione europea). Altro che stima e ammirazione per lo statista democristiano. Nemmeno in privato (dopo la morte) ne aveva. Nell'agosto 1954, sei giorni dopo il decesso di De Gasperi, ai cui funerali Togliatti scrisse di non voler andare per non essere ipocrita, in una lettera al compagno Fausto Gullo (poi pubblicata da "Critica marxista") formulava giudizi duri e malevoli verso il leader Dc che lo aveva battuto alle elezioni salvando l' Italia dal comunismo. Il capo comunista gli rimproverava le «dichiarazioni volgari, vergognose» a suo tempo «fatte da De Gasperi per la morte di Stalin». In realtà De Gasperi non aveva pronunciato nessuna vergognosa volgarità, ma certo non poteva applaudire il sanguinario e crudele tiranno sovietico di cui Togliatti era sempre stato un devoto tanto da far uscire sull' Unità questo incredibile titolo: «Stalin è morto. Gloria eterna all' uomo che più di tutti ha fatto per la liberazione e per il progresso dell' umanità». In quella lettera il capo del Pci scriveva che le polemiche di De Gasperi «avevano sempre qualcosa di torbido e di ottuso», parevano mosse «non da una passione grande, ma da una cattiva piccineria». Ovviamente non è vero niente e la "cattiva piccineria" sembra proprio quella di Togliatti. In quella lettera arrivava perfino ad attaccare De Gasperi sulla sua religiosità, esprimendo la «convinzione che sia la religione che renda gli uomini cattivi, perché li spinge a giudizi e condanne assoluti, privi di comprensione per la coscienza e la causa degli altri. Forse è la religione nel modo che De Gasperi la intendeva» (come si vede già allora la Sinistra - che professava l' ateismo marxista - pretendeva di spiegare ai cattolici come dovevano vivere la fede). Oltre al malanimo dei comunisti verso i democristiani c' erano poi la stampa radical-chic e gli intellettuali che guardavano dall' alto in basso (e con sarcasmo) i politici democristiani. Non solo gli Scalfari, ma anche i più moderati. Marco Follini, in un suo libro sulla Dc, riportava due significative pagine. Una di Enzo Forcella: «Il primo impatto con i cattolico-democristiani provocò una reazione di sorpresa e di incredulità. Sapevamo qualcosa del liberalismo, del socialismo, dell' azionismo; non sapevamo assolutamente nulla di questi uomini che si presentavano all' insegna piuttosto buffa dello scudo crociato, cantavano Biancofiore, andavano a messa tutti i giorni e citavano in continuazione le encicliche e i messaggi papali Più propriamente, non immaginavamo neppure che potessero esistere». La seconda di Pietro Citati: «Chi era ragazzo negli anni tra il 1945 e il 1948 vide improvvisamente apparire alla luce una razza che non aveva mai conosciuto: i democristiani. Fino ad allora, avevano condotto una vita nascosta attorno agli arcivescovadi, le sacrestie, le scuole e le associazioni cattoliche; e sembravano stupefatti di comparire ai raggi del sole. Della loro lunga esistenza segreta conservavano una specie di profumo: quel profumo di tisane, sonno, sudore, borotalco e marmellata di prugne, che intride gli ambienti ecclesiastici». Follini commenta: «È evidente che queste rappresentazioni del mondo democristiano erano un po' caricaturali». Con il tempo poi gli attacchi della Sinistra e della stampa radical-chic allo "stile democristiano" si fecero molto più drastici. Basti pensare agli anni di Fanfani, per finire poi con la triste vicenda di "Mani pulite" che affondò i partiti democratici. Ultimamente per qualcuno "democristiano" è diventato quasi un insulto. E addirittura in una polemica calcistica, finita in querela, è stato il giudice di un tribunale a dover sentenziare che dare del democristiano a qualcuno non è reato, non è diffamazione. Oggi di colpo i democristiani sono riabilitati (almeno per qualche giorno) come campioni di stile e come grandi statisti. Tutto fa brodo contro Salvini. Per la Sinistra i democristiani buoni sono quelli che non ci sono più o quelli che si arruolano nelle loro file "illuminate".

Antonio Padellaro per il “Fatto quotidiano” il 7 agosto 2019. Sarà pure sommamente esecrabile il Matteo Salvini del Papeete Beach, ma quanto a panze esibite sul bagnasciuga dove li mettiamo allora i consistenti girovita di Romano Prodi, Beppe Grillo, Antonio Di Pietro (o per difetto, l' impressionante intelaiatura marina di Piero Fassino)? Ok, l' inno di Mameli con le cubiste leopardate non s' era mai visto e sentito ma quanto a patriottismo era forse meglio l' Umberto Bossi che col tricolore ci si puliva le parti basse? Pessimo l' atteggiamento del ministro dell' Interno verso i giornalisti non proni, ma non si faccia finta di non ricordare che qui da noi la gloriosa tradizione dei leader arroganti, e irrispettosi della libera informazione va da Bettino Craxi a Matteo Renzi, con rare eccezioni. Questo per dire che se il Pd pensa davvero di risolvere la questione del proprio declino, e dell' altrui successo, aggrappandosi a un' improbabile questione di buone maniere andrà a sbattere una volta di più. Primo, perché sono argomenti frusti e di nessuna consistenza politica. L'avversione di chi già di suo detesta Salvini non ha bisogno di ulteriori conferme. E chi lo ama vedrà in ogni polemica contro l' eroico Capitano esclusivamente il malanimo degli avversari. Secondo, perché l'indignazione della sinistra si riproduce per partenogenesi all' interno di uno stesso mondo esclusivo (partiti, giornali, intellettuali): e infatti Silvio Berlusconi ce lo siamo tenuto vent' anni. Per non parlare degli assist involontari serviti al nemico da una cultura del piagnisteo o tempora o mores. Uno fra tutti, l' esclusione della biografia di Salvini dal Salone del libro di Torino, capace di fare di un testo insignificante un best seller. Trasformare i problemi politici in questioni morali (o di costume, o di bon ton) è del resto il difetto universale dei dem, a cominciare da quelli americani. A partire dalla questione immigrazione clandestina vissuta dagli avversari di Donald Trump proprio come il presidente degli Stati Uniti auspica. Adottando cioè spesso una linea radicale o ostile a ogni forma di controllo e restrizione del fenomeno. In un articolo sul Tablet Magazine (ripreso dal Foglio), Zach Goldberg osserva come, "negli ultimi vent' anni, le mitologie morali dei liberal si sono allontanate sempre di più dalla realtà politica". Egli cita il dem Domingo Garcia, uno dei leader ispanici più influenti che ha detto "di non essere d' accordo con i democratici quando dicono che bisogna fornire l' assistenza sanitaria agli immigrati clandestini mentre molti americani non hanno accesso a questi servizi". Anche l' ex consigliera di Obama, Cecilia Munoz teme che la decriminalizzazione degli attraversamenti al confine rischi di alimentare "la propaganda di Trump secondo cui i democratici sono a favore dei confini aperti", e questo "rende più difficile per l' opposizione combattere l' appeal populista del presidente". Evidenti le analogie con la propaganda salviniana che entra come un coltello nel burro nelle contraddizioni del centrosinistra, incapace di proporre una linea alternativa ai raus del vicepremier leghista. Conclude Goldberg: "Quando un problema pratico viene trasformato in una questione morale, le tesi razionali perdono la propria forza". E, aggiungiamo noi, costringono l' opposizione in una gabbia ideologica: quella secondo la quale Salvini è sempre il male anche se non si capisce mai dove sia il bene. Prendiamo il decreto sicurezza bis, approvato lunedì scorso, le cui norme che di fatto impediscono i salvataggi in mare, con multe milionarie, sequestro dell' imbarcazione e arresto del capitano, sono oltre che disumane probabilmente anticostituzionali. La stessa legge contiene tuttavia misure a favore della polizia e contro il tifo e le manifestazioni violente, non lontane da analoghe proposte presentate dal Pd. Ma discuterne non si può perché la "morale" lo impedisce e la politica è andata in vacanza. Lo ripetiamo: con una opposizione siffatta, Salvini può continuare a ballare tranquillo e felice al Papeete Beach.

CHI FA L'OPPOSIZIONE A SALVINI? Gianluca Veneziani per “Libero Quotidiano” il 16 maggio 2019.  Un nuovo virus contagioso affligge la sinistra italiana, causandole un'infiammazione chiamata «striscionite». Una volta i compagni leggevano Il Manifesto (nel senso di Marx), adesso preferiscono lo Striscione, che è più stringato nei termini e meno impegnativo da un punto di vista intellettuale. Anche il luogo di manifestazione politica è cambiato: perse le piazze, ormai vuote, e lasciati per qualche tempo i salotti radical-chic, ora la sinistra si affaccia ai balconi per lanciare slogan pro-barconi. È il ruolo che più le si addice al momento: stare alla finestra a guardare gli altri che fanno la Storia. Anche perché sono lontani i tempi in cui la Storia si faceva con proclami da un balcone Dopo la rimozione di uno striscione a Brembate contro il ministro dell' Interno («Non sei il benvenuto») è partito un tam-tam sui social per lanciare l' iniziativa #SalviniTogliAncheQuesti in occasione del mega raduno sovranista organizzato sabato a Milano da Salvini insieme a 18 altri leader europei, tra cui Orbán e Le Pen. I promotori di questa campagna, ossia I Sentinelli e Insieme Senza Muri, esortano i cittadini a esporre manifesti, cartelloni e striscioni per «dare il benvenuto al Ministro e ai suoi ospiti stranieri», combinando «dissenso» e «fantasia». Già negli ultimi giorni scritte contro Salvini sono iniziate a spuntare un po' ovunque, da Campobasso dove il ministro è stato accolto da 200 striscioni a Verona (un tempo nota per altri balconi shakespeariani), e non sono mancati esempi lodevoli di ironia. Il migliore è il manifesto apparso a Firenze «Portàtela lunga la scala sono al quinto piano», riferimento sarcastico alla rimozione dello striscione di Brembate, tolto grazie all' utilizzo di una scala dei Vigili del Fuoco. Dimostrazione di come si possa esprimere il dissenso con intelligenza e umorismo tanto che lo stesso Salvini ha ammesso: «Alcuni striscioni contro mi divertono». Perché al sarcasmo altrui non si può che rispondere con una risata. Diverso è naturalmente il caso di scritte in pubblico che esortino alla violenza e all' odio: allora buon senso e tutela dell' ordine pubblico ne impongono la rimozione (ieri a Milano, in zona San Siro, è stata identificata una donna che aveva appeso un lenzuolo con la scritta "Salvini amico dei mafiosi"). Mentre nei confronti di slogan ideologici e tristi, tipo «Restiamo umani», «Sì allo ius soli», «Bella ciao», «Milano è antifascista», si consiglia indifferenza perché alla fine uno sbadiglio li seppellirà Ciò da cui bisogna stare in guardia è piuttosto la discesa in strada di compagni e compagne che, guidati dai movimenti Non una di meno e Milano antirazzista meticcia e solidale, sabato organizzeranno il «Gran Galà del futuro». Per l' imperdibile evento si ritroveranno prima in piazza del Cannone per poi partire in un corteo che circonderà piazza Duomo dove Salvini terrà il suo comizio. Una strategia dell' accerchiamento che non suona proprio democratica e non ci pare del tutto pacifica, sebbene così la definiscano gli organizzatori. A farci temere il peggio è l' adesione all' iniziativa di centinaia di militanti dei centri sociali che, a voler usare un eufemismo, non sempre manifestano armati delle migliori intenzioni E, in ogni caso, non si capisce bene quale sia l' oggetto della protesta visto che chi organizza, non avendo le idee troppo chiare, esorta a «liberarsi da razzismo, sessismo, fascismo e cambiamento climatico». Insomma, un po' Nelson Mandela, un po' Boldrini, un po' Greta Thunberg in un gustoso frullato ideologico. Al quale, secondo gli organizzatori, avrebbero offerto il proprio consenso perfino «la Madonnina e Leonardo da Vinci». E come no, la pasionaria Maria e compagno Leonardo Dove però la sinistra milanese raggiungerà l' apice della sua intelligenza politica è nel convegno organizzato sempre sabato dai partigiani dell' Anpi, in una sala del Comune, dal titolo davvero originale «Per un' Italia e un' Europa pienamente antifasciste». Che fantasia, che brillantezza, che ironia Gli organizzatori, per bocca del presidente dell' Anpi milanese Roberto Cenati, fanno sapere che «non è più tollerabile che si ripetano, con frequenza sempre più intensa, manifestazioni di movimenti neofascisti e neonazisti.

È ora di dire basta». Parole che giungono nuovissime da parte di gente dalle idee freschissime. La vera miseria di tutte queste piazzate e balconate è che la sinistra italiana conferma di esistere solo in funzione anti-salviniana così come una volta esisteva in chiave antiberlusconiana. I compagni sono condannati a vivere di luce riflessa rispetto al ministro dell' Interno, agiscono per reazione, sono letteralmente «reazionari», e hanno un' identità che si costruisce solo in antagonismo al loro avversario. Se viene meno quello, loro non esistono più. È per questo che a volte se lo inventano, come nel caso dell' antifascismo che riesuma il fantasma del fascismo. Così facendo, peraltro, beneficiano il loro nemico politico, dandogli ulteriore visibilità. Per cui non si sorprendano, i compagni, se il 26 maggio avranno balconi pieni e urne vuote.

Monica Serra per La Stampa il 16 maggio 2019.  Era stato esposto sul balcone di una casa occupata quartiere San Siro. Tra gli striscioni contro il vicepremier leghista finiti sotto accusa in questi giorni, ce n’è uno pure a Milano. Con su scritto: “Salvini amico dei mafiosi, nemico dei poveri”. Nella tarda mattinata di oggi alla porta dell’abitazione al secondo piano del palazzo al civico 33 di via Matteo Civitali hanno bussato gli agenti della Digos, dopo che alla centrale operativa è arrivata la segnalazione di un residente. Perché - fanno sapere dalla Questura - il contenuto dello striscione sarebbe stato offensivo e diffamatorio anche se fosse stato rivolto a qualunque altra persona. Gli agenti hanno invitato 33enne che lo aveva esibito il a rimuoverlo. Poi l’hanno identificata e segnalata alla procura: saranno i magistrati a decidere se procedere o meno nei suoi confronti. Mentre sui social network si moltiplicano gli scatti degli striscioni contro il leader del Carroccio esposti in tutta Italia, da Nord a Sud, e postati con l’hashtag #salvinitoglianchequesti, a rendere noto l’episodio milanese è il Comitato abitanti di San Siro, di cui la 33enne fa parte. Un gruppo di componenti del Comitato si è radunato sotto l’abitazione poco dopo l’arrivo degli agenti. “Questa mattina a San Siro come in tutta Italia - scrivono in un post pubblicato sulla loro pagina Facebook - sono apparsi alcuni striscioni in vista della passerella elettorale che il ministro degli Interni farà a Milano questo sabato. Insieme a lui tanti amici di merende: Viktor Orban, Marine Le Pen e altri sovranisti da tutta Europa! Alla porta di una degli abitanti del quartiere che ha voluto mostrare il proprio dissenso alla presenza di Salvini&co, si sono presentati 8 agenti in borghese, che hanno intimato di rimuovere lo striscione dal balcone, minacciando di sfondare la porta. Dopo vari minuti di minacce e intimidazioni S. ha deciso di aprire - si legge ancora nel post -, rivendicando il suo diritto ad esprimere il suo pensiero e grazie ad un presidio solidale che in poco tempo si è radunato sotto casa di S., la polizia ha deciso di andarsene senza rimuovere lo striscione”. Questa versione dei fatti è stata smentita dalla Digos che sostiene di non essere neppure entrata in casa. Gli agenti - fanno sapere dalla Questura - si sono limitati a bussare alla porta e invitare la donna a rimuovere il lenzuolo.

Il furbetto Di Maio non usa aerei blu ma gli rimborsiamo quelli di linea. Il grillino finge di snobbare i privilegi. Ma è sempre in tour come l'alleato. Chiara Giannini, Venerdì 17/05/2019, su Il Giornale. Repubblica e il «soccorso rosso» vanno all'attacco del ministro dell'Interno, Matteo Salvini, inducendo la Corte dei Conti ad aprire in tempi record un'inchiesta per i voli blu, ma ignorano che l'altro vicepremier, Luigi Di Maio, benché prenda aerei civili, gira come una trottola. Dall'inizio della campagna elettorale, ovvero dal 3 maggio, infatti, il ministro pentastellato ha già fatto 24 tappe elettorali e ne farà molte altre da qui al 24 maggio, quando chiuderà il suo tour con la tappa romana. Partito dalla sua città, Pomigliano, Di Maio ha toccato Casoria, Alghero, Cagliari, Assemini, Monterotondo, Campobasso, Palermo, Castelvetrano, Caltanisetta, Pescara, San Giovanni Rotondo, Bari, Foggia, Matera, Perugia, Fano, Ascoli Piceno, Roma, Firenze, Villanova D'Albenga, Vado Ligure, Torino e Biella. Per oggi sono previste tappe a Milano, Reggio Emilia e altre città dell'Emilia Romagna, sarà quindi a Vimercate, in Veneto, a Cosenza, Avellino e, quindi, nella Capitale. Insomma, un tour che lo ha condotto e lo condurrà in mezza Italia alla ricerca di voti e consensi. Sui voli blu ha ragione, non ne prende come promesso, ma questo non significa che fa risparmiare gli italiani. Da fonti vicine alla presidenza del Consiglio, infatti, si apprende che il ministro, laddove ci siano voli predisposti dall'Aeronautica militare per altri colleghi di governo, potrebbe tranquillamente usufruirne. Il costo di trasporto di un passeggero o di due non cambia. Cambia, però, se al posto di quel volo con cui si potrebbe risparmiare, il ministro in questione decidesse comunque di far pagare un biglietto aereo di una compagnia civile, perché quello ricadrebbe sulle tasche dei contribuenti. E pare che il fatto, secondo bene informati, sia già successo, sia per Di Maio che per qualche sottosegretario 5 stelle. Un'arma a doppio taglio, insomma. Peraltro, il livello di sicurezza stabilito per il ministro dell'Interno è molto più alto di quello previsto per Di Maio. Da chiedersi, oltretutto, perché la Corte dei Conti non abbia ancora aperto un'inchiesta sui voli presi dall'ex ministro Angelino Alfano che, come raccontato due anni fa dal Giornale, usava gli elicotteri di Frontex per andare a casa, o su quelli usati dall'ex premier Matteo Renzi, che usava i velivoli di Stato per la campagna elettorale, o dal ministro della Difesa Roberta Pinotti, che con i voli addestrativi dell'Aeronautica raggiungeva la sua residenza di Genova. C'è, invece, un'inchiesta aperta sull'Airbus 340 ancora fermo a Fiumicino, ovvero l'aereo conosciuto come «Air Force Renzi». Su quello, tema tanto caro a Di Maio, la Corte dei Conti un fascicolo lo avrebbe aperto eccome, si dice proprio dopo le pressioni del vicepremier 5 stelle. Due pesi e due misure, insomma. Il tutto mentre il ministro di Pomigliano gira l'Italia in lungo e in largo raccontando agli italiani che i mezzi pubblici e i voli di linea da lui presi sono un risparmio per il Paese. Eppure, spulciando tra le cronache, non è che Di Maio sia stato proprio tanto al suo ministero. Chi si ricorda il suo viaggio in Usa, lo scorso marzo, tanto per fare un esempio o ancora negli Emirati Arabi ad aprile o quello dello scorso anno in Cina, dove arrivò viaggiando in business class per poi alloggiare all'hotel Four Season di Pechino, hotel extra lusso dotato di Jacuzzi e ogni comfort? Insomma, tutti all'attacco del ministro dell'Interno, che per ruolo è spesso obbligato a viaggiare sui velivoli dell'Aeronautica militare. Alla fine quelli ad aver preso più voli blu, però, sono i pentastellati, con 72 tratte (il 62 per cento del totale). Mentre Di Maio finge di essere un risparmio per i cittadini.

La campagna elettorale? Tutti contro Salvini. Inchieste, tangenti, voli di Stato, striscioni, scuole, conduttori tv. Tutto pur di attaccare il leader della Lega. Panorama il 17 maggio 2019. Queste ultime settimane di campagna elettorale in vista delle Elezioni Europee del 26 maggio sono contraddistinte da una sola cosa: la caccia a Salvini. Una caccia che vede in campo tutti, ma proprio tutti, contro il leader della Lega la cui colpa, fino ad un mese fa, era quella (udite, udite) di aver conquistato la fiducia degli italiani e di essere arrivato in alcuni sondaggi addirittura al 36%. Una crescita costante che andava fermata. Per primo dal collega di Governo, Di Maio, che in quei sondaggi veniva schiacciato al 20%, se non addirittura sotto, e che allora ha cambiato linea politica e di comunicazione. A ruota si sono aggiunte Procure, conduttori tv, gente comune (a cui viene dato spazio e visibilità mai viste). Inutile fare considerazioni. Più utile invece preparare un semplice elenco che, meglio di ogni ragionamento, può raccontare in che situazione stiamo andando a votare.

- guerra M5S-Lega

- Caso Siri

- Inchiesta sulle Tangenti in Lombardia (e questa è la più divertente dato che a finire in manette o indagati c'è di fatto lo stato maggiore di Forza Italia in Lombardia, ma si è parlato solo di Fontana, che figura per una cosa minore nelle carte ma che essendo leghista diventa il cattivo numero 1)

- Inchiesta sulle tangenti a Legnano 

- Indagine Corte dei Conti sui voli di Stato

- processi sui migranti

- Caso "Salone del Libro" di Torino

- Caso "striscioni" sui balconi

- Caso Scuola di Palermo sul famoso video sul Duce e le misure razziali paragonate al Decreto Sicurezza

- Caso Fazio (per cui sono state chiuse anticipatamente tre puntate del lunedì di Che Tempo che Fa facendo gridare persino ad un attacco alla libertà di stampa) e Formigli (che ha attaccato in diretta Salvini la cui colpa è quella di "non voler andare ospite nella sua (equilibrata) trasmissione").

- Gattuso e Milan

- Foto social (ad esempio quella famosa con il mitra o quelle in cui mangia quasiasi cosa)

Potremmo andare avanti ancora. Ma l'idea è chiara. Tutti contro Salvini. Tutti i motivi sono buoni per andare contro Salvini.

La sensazione è che, però, dal 27 maggio tutti con Salvini dovranno fare i conti.

Salvini, tutti lo attaccano ma tutti lo vogliono. Record di ascolti dalla Gruber e libro in cima alle classifiche di vendita anche nelle librerie "nemiche". Panorama 10 maggio 2019. Sono giornate particolari quelle di Matteo Salvini. Il leader della Lega infatti si trova, come non gli capitava da tempo, sotto attacco; praticamente circondato. Lo attacca Di Maio, sul caso Siri, lo attacca Conte sulla vicenda dei migranti della Mare Jonio, fatti sbarcare a Lampedusa malgrado il "no" del Viminale. Lo attaccano i soliti "esclusivisti" della cultura che hanno cacciato una casa editrice dal Salone del Libro di Torino, colpevole di essere vicina all'estrema destra e soprattutto colei che ha pubblicato l'ultimo libro del Salvini stesso. Però...C'è sempre un però, soprattutto quando si parla del politico di maggior successo attualmente presente in Italia, quello che (amato o odiato che sia) scatena reazioni come nessun altro. Il però è che tutti lo vogliono.

Lo vuole la Gruber e, guarda caso, l'ascolto della tanto attesa puntata di "Otto e Mezzo" (con annessa intervista ovviamente "equilibrata") è stato molto ma molto superiore alla media, un ascolto da record.

Lo vuole anche la Feltrinelli, non Altaforte, la casa editrice di riferimento della sinistra che mette in vendita il tanto discusso libro "Io sono Matteo Salvini - Intervista allo Specchio", e che è in testa alle classifiche, perché alla fine "pecunia non olet". 

Lo vogliono le decine di parlamentari (di ogni schieramento) che temono uno scioglimento delle Camere prima della naturale fine della legislatura e che, mentre i loro partiti affondano o restano prigionieri all'opposizione, cercano una nuova ribalta proprio tra le braccia del leader della Lega al quale sono pronti a giurare fedeltà assoluta.

La morale? Che è facile essere contro Salvini. Difficile fare (soldi, spettatori, carriera politica) senza di lui...

La storia del giovane Matteo. Fu comunista (ma a tavolino). Pubblicato giovedì, 16 maggio 2019 da Gian Antonio Stella su Corriere.it. Tutti comunisti. Troppi fischi? «Comunisti». Cori di «bella ciao»? «Comunisti». Striscioni irridenti? «Comunisti»... Dai e dai, l’insistenza di piazza in piazza del segretario della Lega nelle risposte alle contestazioni non è più lo sfogo saltuario di un capopopolo in servizio comiziale permanente (e stressante) da mesi. È una scelta politica. Precisa. I grillini schiacciano lui sempre più verso la destra più nera? Lui cerca di schiacciare i suoi oppositori il più possibile a sinistra. E se Berlusconi arrivò a bollare come «comunista» Rosy Bindi, lui sfonda il muro del suono bollando come «comunista con Rolex» Fabio Fazio. Al Cavaliere, che secondo Montanelli cavalcò la paura del comunismo senza più comunisti, andò bene. Ma a lui, vent’anni dopo la caduta del muro? Boh...Oddio, non che abbia cominciato adesso. Già un paio d’anni fa, attaccando i collettivi che ruotavano intorno a piazza Verdi a Bologna, oltre a invitare allo sgombero dell’area «a suon di manganellate», se la prese con le «zecche rosse» contro cui andava usato «l’insetticida come con i topi il topicida». Nelle ultime settimane però ha accelerato. Ad Alghero: «Sento dei moscerini, un applauso per l’ultimo residuato di comunisti che vivono in Sardegna!» Perugia: «Avete rotto le palle... Io comunque adoro le minoranze, difendo i comunisti come specie in via di estinzione». Biella: «Mancavano giusto i soliti cinque comunisti...». Montesilvano: «Visto? Ho detto comunista ed è saltata la corrente... Vediamo se questo microfono comunista mi permette di andare avanti». In Emilia: «Questa è la Modena vera non quella di quattro zecche da centro sociale che fanno casino». Pavia: «I centri sociali li chiuderemo. Se vinciamo le elezioni comunali, il sindaco dedicherà un museo in ricordo dei comunisti». Prato: «Compagno compagno / tu lavori io magno: è finita la festa per i comunisti». Per concludere contro dei ragazzi (e non solo ragazzi: anche signori di mezza età antifascisti) bollati come teppisti rossi: «Si sono stroncati di canne ieri al centro sociale e alle cinque del pomeriggio ancora non riescono a intonare Bella Ciao». E via così... Interessante. Come ricorda il libro-inchiesta I demoni di Salvini di Claudio Gatti, per quarant’anni inviato del Sole 24Ore e di altri giornali, autore di vari scoop, il segretario della Lega frequenta da anni personaggi dell’estrema destra, spesso dai contorni ambigui, ma debuttò accettando da Umberto Bossi il ruolo di «capopopolo rosso» alle elezioni farlocche del Parlamento padano a Chignolo Po che doveva rappresentare «tutte le anime» leghiste. «In lizza c’erano già i liberali di Gnutti, la destra padana del capo delle camicie verdi Enzo Flego e i laburisti di Formentini. Mancavano solo i comunisti padani. Bossi puntò su di me, un giovane con l’orecchino e i capelli da rockstar: gli sembravo l’ideale “estetico” per guidare una lista che avesse come simbolo il faccione di Che Guevara, ma in camicia verde. Accettai». Ma frequentava davvero, allora, i centri sociali come il Leoncavallo? Era di sinistra? Macché, risponde Gatti. E snocciola una serie di testimonianze di (ex) colleghi della Padania, (ex) direttori, (ex) compagni di partito, (ex) rivali come Flavio Tosi alla guida del Carroccio: «È uno che annusa l’aria e cavalca l’onda. Un calcolatore». Dirà lui, il futuro ministro dell’Interno, nell’autobiografia scritta con Rodolfo Sala «Secondo Matteo» del 2016: «Io nello storico centro sociale milanese avevo messo piede una sola volta. Per un concerto. La politica ancora non mi interessava». Nell’archivio del Corriere, però, c’è un articolo del ’94 che racconta di un intervento del ventenne Salvini nel consiglio comunale di Milano dove era stato eletto. Titolo: «Il leghista ex Leonka conquista il consiglio / “Conosco quei ragazzi, i violenti sono pochi”». Anzi, testimoniando d’avere «per anni frequentato il Leoncavallo», spiegò: «Nei centri sociali ci si trova per discutere, confrontarsi, bere una birra e divertirsi». Del resto, in un’intervista al Sole delle Alpiin quegli anni da «infiltrato sinistrorso» in missione per conto di Bossi, rivendicò: «Noi ci rapportiamo alle tematiche classiche della sinistra, dalla forte presenza statale alla liberalizzazione delle droghe leggere». Il tema su cui da settimane martella, martella, martella. Si sa com’è, dice il vecchio adagio: si nasce incendiari, si finisce pompieri. Qui, sostiene al contrario l’inchiesta di Gatti, l’ex «incendiario rosso» creato a tavolino da quell’Umberto Bossi che non perdeva occasione per ribadire che la Lega era antifascista («Fascisti! Vi spezzeremo la spina dorsale! Verremo a prendervi casa per casa», urlò in un comizio), non si è moderato affatto. Anzi, mentre indossava una sull’altra la tuta da pompiere, finanziere, ghisa, poliziotto, carabiniere, si è via via circondato negli anni anche di cattive compagnie sempre nere, fino a cucirsi addosso una divisa «securitaria» che dovrebbe inquietare anche quanti plaudono a certe durezze... «Meglio un Truce in divisa da poliziotto che un poliziotto in divisa da Truce», ha scritto sul Foglio Claudio Cerasa. Parole d’oro. Per ora è così. Certi volumi, però, vanno tenuti bassi. Perché poi c’è sempre qualcuno che pensa di potersi permettere tutto. Ma proprio tutto.

·         Qual è il segreto del successo di Salvini?

Salvini e «la Bestia»: come avere 4 milioni di fan sui social. Pubblicato lunedì, 21 ottobre 2019 su Corriere.it da Marco Cremonesi, Milena Gabanelli e Simona Ravizza. Come funziona la sua macchina web formata da 35 esperti. Durante i cinque mesi di campagna elettorale per le Europee del 26 maggio, su Facebook, definito l’ammiraglia del Capitano: 17 post al giorno; 60,8 milioni di interazioni (che vuol dire like, commenti, condivisioni); 40 milioni di like e oltre 5 milioni di ore di video visualizzati. Risultato delle elezioni: Lega primo partito con il 34%. Da giugno i ritmi sono un po’ più lenti ma continua a crescere: i like sui post hanno raggiunto i 52 milioni, 11,5 milioni le condivisioni. Oggi i fan su Facebook sono oltre 3,8 milioni, su Instagram 1,8, su Twitter 1,2.I meccanismi per aumentare i fan sui social sono sfruttati in tutto il loro potenziale, a partire dal T-R-T: una sigla che sta per televisione, rete, territorio. Si tratta di un gioco di specchi per mettere continuamente in comunicazione i tre ambiti: l’attesa dell’intervista tv viene trainata da ripetuti annunci su Facebook, durante la trasmissione si estrapolano e commentano in tempo reale fermi immagine e tweet live con i messaggi chiave da diffondere. Subito dopo vengono postati gli interventi tv (nel caso di Renzi rimontato ad hoc) con l’invito ai fan a esprimere il loro parere. Questo meccanismo trascina gli utenti social sulle reti tv (e viceversa) e contribuisce ad aumentarne l’audience. Salvini è il politico più invitato, e la parola d’ordine è: spolpare ogni evento fino all’osso. Lo stesso sistema vale per i comizi. Poi, siccome è proprio la velocità dei like che contribuisce a fare impennare l’algoritmo di Facebook e dunque ad ampliare la platea di chi vede il post, ecco sotto elezioni il gioco «Vinci Salvini»: chi per primo mette «Mi piace» entra in una graduatoria che alla fine farà guadagnare ai primi classificati una telefonata o un caffè con il leader. Per raccogliere fan è cruciale la scelta dei messaggi: più toccano temi divisivi e più generano partecipazione (come le campagne contro gli immigrati #finitalapacchia, #prima gli italiani e #portichiusi); funzionano gli slogan motivazionali («la Lega continua a volare»), gli attacchi ai rivali politici («Sono ministri o comici?»), le immagini di vita privata («Mano nella mano» come commento a un post con la figlia), il coinvolgimento degli utenti («Siete pronti?»). Lo staff utilizza anche il software che individua l’argomento del giorno più discusso in rete, e consente di adeguare i messaggi da lanciare. Dal tortellino al pollo, fino a Mahmood. A caldo si era schierato contro la vittoria del cantante, salvo poi fare marcia indietro e lodarlo. Un ruolo strategico è affidato ai sondaggi. Il 17 dicembre 2017 la Lega commissiona a Swg di testare la percezione degli elettori su una possibile minaccia dei Naziskin: il 67% degli elettori del Carroccio non li ritengono pericolosi (al contrario di chi vota per altri partiti). Da allora Salvini può tranquillamente spendersi a favore di CasaPound. Il documento, mai reso pubblico, lo ha scovato Report, che approfondirà questa sera su Rai 3.La diffusione del messaggio del Capitano è capillare grazie ai ripetitori digitali: almeno 800/1000 fedelissimi ricevono il link dei post su una chat WhatsApp e immediatamente lo condividono sulla propria pagina Facebook e lo rilanciano in altre chat. Contemporaneamente i canali fiancheggiatori inseriscono lo stesso contenuto su più pagine pubbliche. Vietati invece i commenti con #49 miliioni, #Siri o qualunque parola evochi uno scaldalo in cui è coinvolta la Lega. «L’esercito va nutrito e motivato», è il Morisi-pensiero: affinché tutti si sentano protagonisti, per la manifestazione di Roma del 19 ottobre sono stati creati cartelloni automatizzati con la propria foto di fianco a Salvini.I fan vengono profilati, al fine di inviare messaggi mirati. L’ultimo esempio è proprio legato al raduno di piazza San Giovanni dove Salvini lancia l’invito: «Mandate i vostri dati personali a legaonline.it e riceverete le informazioni richieste per i pullman e i treni diretti alla manifestazione di Roma». I 137.000 euro spesi da marzo a oggi in pubblicità su Facebook, vengono utilizzati soprattutto per geolocalizzare il messaggio e scegliere il target: inviare per esempio perfino ai tredicenni il post contro il governo che pensa di tassare le merendine, oppure raggiungere il più alto numero di elettori dell’Umbria in vista delle elezioni del 27 ottobre. Un’onda d’urto che, sfruttando l’abilità del leader leghista, ha fatto leva su tutte le debolezze del paese. Alla fine probabilmente un buon 90% di quei 3,8 milioni di fan vota Salvini, ma da tutta questa attività social intrisa di slogan e provocazioni è difficile capire quale sia il progetto politico.«La Bestia» ha anche un costo e qualcuno lo pagherà. Luca Morisi e il socio Andrea Paganella, fatturano tramite la SistemaIntranet, una società in nome collettivo (snc) che non ha l’obbligo di depositare i bilanci. Durante i 14 mesi di Salvini ministro dell’Interno entrambi hanno avuto un contratto con il Viminale: 65 mila euro per Morisi, 86 mila per Paganella. Pagati anche altri 4 contratti del team social: 41.600 euro ciascuno. A gestire i soldi del partito è invece la Lega per Salvini premier. Due milioni di euro sono arrivati da 187 mila contribuenti che nel 2018 hanno donato il loro 2x1000.

IL RETROSCENA. Paolo Becchi, il retroscena sulla notte del ribaltone giallo-rosso. Le mosse del Colle e di Giuseppe Conte. di Paolo Becchi e Giuseppe Palma su Libero Quotidiano il 21 Ottobre 2019. «A luglio, tra il 22 e il 25, quando il rapporto tra Salvini e Di Maio si era interrotto, Becchi era riuscito a convincere entrambi a proseguire, ora però la situazione si è fatta molto più difficile, ma lavorando sottotraccia individua - attraverso diretti contatti con Di Maio e Salvini a partire dal 15 agosto - una soluzione che converrebbe a entrambi: Di Maio a Palazzo Chigi al posto di Conte, questi a Bruxelles come Commissario europeo e Salvini al ministero dell' Interno, con un leghista al ministero dell' Economia al posto di Tria. La soluzione può funzionare e conviene a Di Maio, ma anche a Salvini visto che piazzerebbe uno dei suoi - probabilmente Giorgetti - in Via XX Settembre. Il fatto è che Salvini e Di Maio riprendono il 22 agosto a dialogare attraverso la mediazione di Becchi iniziata il giorno di Ferragosto. Molti ritengono che una riedizione del governo giallo-verde, visto che la crisi l' ha aperta Salvini col deposito in Senato della mozione di censura, non sia praticabile. Ma non è così. Tutte le crisi di governo del periodo repubblicano, se non sfociate nella decisione del capo dello Stato di sciogliere le Camere e indire nuove elezioni, si sono risolte sempre tra gli stessi partiti che componevano la maggioranza di governo, o quantomeno tra quelli più importanti. Becchi comunque insiste e le trattative proseguono. Di Maio con grande sofferenza segue quella col Pd - è una persona onesta e sa benissimo, in cuor suo, che sta tradendo Gianroberto Casaleggio, che lo aveva politicamente lanciato - e si dichiara disponibile a riprendere un percorso con Salvini, dopo un segnale di apertura di quest' ultimo con la proposta di sostenere il leader politico del Movimento come capo del nuovo esecutivo. Appare chiaro che il contatto tra Salvini e Di Maio c' è. Di Maio chiede esplicitamente che Salvini si faccia avanti indicando al presidente della Repubblica le sue intenzioni, vale a dire Di Maio presidente del Consiglio del nuovo governo giallo-verde. (...). Domenica 25 agosto. Salvini telefona al presidente della Repubblica che però è in volo, di ritorno da Fivizzano (Massa Carrara) (...). Il capo dello Stato richiama Salvini, che gli comunica l' intenzione di voler proporre Di Maio presidente del Consiglio di un governo sostenuto dalla stessa maggioranza 5 Stelle-Lega. Siamo poco dopo le 17. La risposta di Mattarella è evasiva. Leggi anche: "Per Di Maio è stato straziante", Vespa a bomba su Renzi-Salvini. 

Il retroscena dalla Annunziata. Se il presidente abbia tenuto per sé la telefonata o abbia informato il diretto interessato (Di Maio), e cosa gli abbia detto, non lo sappiamo. Così come non sappiamo se, invece di chiamare Di Maio, abbia chiamato Zingaretti o qualcuno molto vicino al segretario Dem. Tutto ciò resterà senza risposte. Fatto sta che il giorno successivo, lunedì 26 agosto, il Pd apre d' improvviso al M5S sul nome di Conte come presidente del Consiglio, mentre ancora il giorno prima Zingaretti non era d' accordo sul nome di Conte perché non garantiva "discontinuità". (...) Tant' è vero che Repubblica lunedì 26 agosto apre col seguente titolo: "Fumata nera, futuro grigio". (...) Questi i fatti. È successo qualcosa tra la sera di domenica e la mattinata di lunedì che ha impedito una riedizione del governo 5 Stelle-Lega con Di Maio premier, e l' apertura repentina del segretario Dem sul nome di Conte nella mattinata di lunedì lascia adito ad alcune perplessità sul ruolo che ha svolto il Colle in questa crisi di governo. Sin dall' inizio il presidente della Repubblica aveva scartato una riedizione del governo giallo-verde. Non era nei suoi piani: bisognava fare un nuovo centrosinistra e mettere paura alle forze politiche ventilando la possibilità di nuove elezioni che avrebbero favorito la vittoria della Lega. Questo però significa fare politica attiva e non essere più neutrali. Mattarella doveva cercare una maggioranza, non necessariamente la maggioranza tra M5S e Pd, escludendo per principio l' altra possibilità, che per qualche giorno era diventata molto concreta. Ma in tutto questo, che ruolo ha svolto Giuseppe Conte?

Nessuno che abbia indagato veramente a fondo da dove sia saltato fuori questo personaggio: gode della protezione del Vaticano e dei poteri forti, sulla sua carriera accademica si è sorvolato, su quella professionale pure. Soprattutto non si è indagato sull' intreccio tra attività professionale e carriera accademica. (...) Ora nessuno parlerà più di vecchie storie concorsuali, è diventato un intoccabile, troppo bene accreditato tra i leader europei e gode del sostegno dell' amministrazione americana. Una tela che l' ex "avvocato del popolo" ha tessuto con pazienza alle spalle di Di Maio e Salvini, finiti per il momento all' angolo».

L'ESTATE PAZZA DI MATTEO SALVINI. ALBERTO MATTIOLI per la Stampa il 29 agosto 2019. Chi abbia davvero vinto alla riffa della crisi, ancora non è chiaro. Di sicuro, si sa chi ha perso: Matteo Salvini, precipitato in pochi giorni dall'onnipotenza all' irrilevanza, dall'altare alla polvere, dalle stelle (non cinque) alle stalle, dal tutto al nulla. Perfino al Tg2, il Capitano non è più il titolo di apertura. L'attuale classe politica, già in difficoltà con l' italiano, non ricorrerebbe mai al latino. Ma scommetteremmo che a qualche vecchio saggio democristiano tipo Mattarella sarà venuto in mente Genesi, 3, 19, «memento qui pulvis es et pulverem reverteris», oppure Ecclesiaste 1, 2, «vanitas vanitatum et omnia vanitas». Ma forse più che di vanitas il Capitano ha peccato di hybris, in un' estate dove tutto gli sembrava possibile e alla fine tutto gli è sfuggito dalle mani. Un' estate dove il Papeete Beach di Milano Marittima era diventato la succursale del Viminale o, perfino, in proiezione, di Palazzo Chigi e magari pure di Palazzo Venezia. Un' estate da uomo forte, di editti da spiaggia, di giornalisti sfanculati in diretta Facebook, di onnipresenza mediatica e onnipotenza social e perfino di sogni in infradito sui «pieni poteri». Bullizzando Di Maio e pentasoci fra un mojito e un bagno nell' Amarissimo come già un illustre predecessore, lui però a Riccione, mentre alle Europee entravano milioni di voti, le barche dei disperati non entravano nei porti, sotto l' ombrellone il Paese pareva apprezzare e a detta di tutti l' omo de panza era anche omo de sostanza, lanciato verso gli immancabili destini che in Italia, chissà perché, alla fine non quagliano mai. Poi il solito democristiano cinico e baro, un altro Matteo, ha fatto il suo gioco di prestigio e ha rinnovato la lunga e gloriosa tradizione nostrana di connubi, trasformismi, ribaltoni e così via. L' ha ammesso anche lui, il Matteo leghista, pur con tutti i distinguo del caso, «un errore se lo si considera in base alle logiche della vecchia politica», ma insomma sì, un errore: «Io non pensavo che ci sarebbero stati dei parlamentari renziani che invece di andare alle elezioni avrebbero votato anche per il governo di Pippo e Topolino», che invece poi sarà, pare, il Conte II. L' usato sicuro va forte anche a Topolinia. Matteo, inteso come Salvini, non l'ha presa benissimo. Prima è sparito, poi ha dato la sua versione della caduta: la colpa è dei poteri forti, dell' Europa cattiva, della coppia di fatto Merkel-Macron. «Questo governo nasce a Bruxelles per far fuori quel rompipalle di Salvini», dice l' interessato in una delle sue duemila dirette quotidiane. Naturalmente il complotto demo-pluto-massonico si tramava da tempo, anche se poi non si capisce perché Salvini gli abbia dato una mano sfiduciando Conte. Già, Conte. Macché avvocato del popolo, «è l' avvocato dei poteri forti». L' ex amico è diventato tanto nemico che oggi il Capitano non andrà nemmeno a farsi consultare. E commenta sprezzante il discorso di investitura: «L' ho sentito parlare di nuovo umanesimo. Manca che risolva la pace nel mondo e la ricrescita dei capelli» (sulla tinta, invece, il professore ha già dato). E certo, forse in casa Lega servirà una riflessione su una politica estera spericolata, una maggior attenzione nella scelta degli amici sovranisti, e anche degli intermediari. Putin sarà meglio non farlo più approcciare dai Savoini di turno, Bolsonaro ha ridato Battisti ma sull' Amazzonia non sta facendo una bella figura, Johnson aggiorna il Parlamento come Carlo I Stuart, Trump cinguetta elogi per «Giuseppi» Conte e Orban non si è preso nemmeno un migrante. In compenso ieri ha mandato una scarna letterina dove assicura il «caro Matteo» che lui non lo dimenticherà, che detto così suona perfino un po' jettatorio. E adesso? Adesso, è chiaro, riprende la campagna elettorale, concesso e non dato che sia mai finita. Il Capitano riparte col giro d'Italia delle feste leghiste, oggi a Conselve, domani a Pinzolo, domenica ad Alzano. È innegabile: l' uomo ha più energia di una Duracell. Già annuncia un week-end di gazebo il 21 e 22 settembre «per chiedere democrazia», il garden party a Pontida il 15 ottobre e soprattutto «una grande giornata di orgoglio italiano» il 19 ottobre, con il popolo chiamato manifestare in piazza a Roma. Si è già capito dove martellerà «la Bestia», la macchina della propaganda social leghista: ancora una volta, il derby da narrare sarà quello del popolo contro l' élite, dell' Italia contro l' Europa, delle urne contro i giochi di palazzo. Le prospettive sono più incerte, però. E soprattutto non dipendono solo da Salvini e dalla sua capacità di entrare in sintonia con la pancia del Paese (che conta certamente più del suo cervello, almeno per quei radical chic che poi lo accusano di votare coi piedi). Dipende anche da cosa i giallorossi riusciranno a fare e soprattutto da quanto riusciranno a durare. L' opposizione paga se non si prolunga troppo, e oggi nella politica italiana un anno è un' eternità. Già i sondaggi, per la prima volta da molto tempo, mostrano una flessione della Lega. E nel partito ormai in molti si erano abituati a posare le terga su poltrone prestigiose. La fronda, per ora, è limitata alla minoranza, a quelli che pensano ancora al Nord e al problema settentrionale, non hanno ancora digerito il salto dalle erezioni bossiane alle ostensioni salviniane e vedono che l' autonomia rimane una chimera. Ma per tenere insieme il partito, per ricostruire dopo la prima sconfitta (tattica, ma pur sempre sconfitta) il mito del Capo infallibile, bisogna che la traversata del deserto non sia troppo lunga. Qualche mal di pancia già affiora. Per esempio, l' insistenza con la quale la testa leghista più fina, insomma Giancarlo Giorgetti, ripete che Salvini ha fatto tutto da solo la dice lunga. Chi però lo dà per politicamente morto sbaglia, e i tripudi sulla fine del Truce o la caduta del Capitone appaiono ottimistici, in ogni caso prematuri. Il Salvini di governo è niente rispetto al Salvini di lotta, che sarà dura e senza paura (già, era o non era un «comunista padano?»).

VI RACCONTO PERCHE’ SALVINI HA DECISO DI APRIRE LA CRISI. Pietro Senaldi per Libero Quotidiano il 2 settembre 2019. «Salvini non è diventato matto. Chi lo accusa di aver sbagliato, e per fortuna nella Lega sono pochi, non sa nulla della vera storia della crisi. Bisognerebbe avere rispetto e fidarsi di più di un leader che ha preso un partito al 3% e ne ha più che decuplicato i consensi. È stato un miracolo, una cosa mai vista, neppure ai tempi di Bossi. Io già non ci potevo credere l' anno scorso, quando abbiamo preso il 17% e superato Forza Italia. Non dico questo per ingraziarmi Matteo, non ne ho bisogno. Lo penso, il tempo è galantuomo e alla fine di questa storia si dimostrerà che abbiamo fatto bene a rompere con i grillini». L'infervorato discorso arriva da Lorenzo Fontana, ministro in uscita agli Affari europei, per anni quinta colonna di Salvini a Bruxelles, l'uomo che ha presentato al leader leghista Marine Le Pen e ha intrecciato la tela dei rapporti internazionali della Lega, incluso quello con Orbán. «Nel partito, dai ministri agli amministratori sul territorio, non ce n' è uno che fosse contrario a far cadere il governo. Lavorare era diventato impossibile, ci facevano i dispetti, ci attaccavano pubblicamente, erano più aggressivi del Pd».

Ministro, sarà vero, però ora M5S governerà con i Dem e a voi tocca stare alla finestra. Lo dica, siete pentiti?

«No, non era più possibile andare avanti. Tutto è cambiato con la campagna elettorale per le Europee. Il M5S veniva da una serie di sconfitte sul territorio, alle Amministrative. I Cinquestelle erano nervosi, perché sono sempre andati male nei sondaggi per le Europee, mentre noi volavamo. Così hanno iniziato ad attaccarci. Hanno fatto la campagna contro di noi anziché contro il Pd. Poi quando la Lega ha trionfato e loro hanno dimezzato il consenso, non hanno capito più nulla, hanno iniziato a farci i dispetti e a bloccare ogni lavoro. Per far passare il decreto sicurezza abbiamo dovuto mettere la fiducia».

La pensa come Giorgetti: l' unico errore della Lega è stato vincere troppo bene?

«Chi dice che i sovranisti alle Europee hanno perso non la conta del tutto giusta. È vero che la commissaria Ursula Von der Leyen rappresenta la continuità, il solito inciucio tra Germania e Francia, ma ha la maggioranza più fragile della storia Ue e ha avuto bisogno del voto dei grillini per essere eletta. Quello è stato il vero tradimento degli italiani, e l' hanno fatto i Cinquestelle, che fino al giorno prima volevano cambiare l' Europa. Salvini quando ha rotto con il governo non ha tradito, si è semplicemente staccato da chi si era venduto alla sinistra e all' Europa, tradendo i propri elettori».

Noi di Libero abbiamo titolato «Grillini da vergini a escort».

«Il plebiscito di maggio a favore del Carroccio ha spaventato il M5S, che ha avuto paura di sparire, e l' Europa.So come funziona, ai tempi ci provarono anche con me e la Lega. Gli euroburocrati ti telefonano, ti adulano, ti fanno proposte allettanti, e tu o tieni duro o salti sul loro carro. Io ho scelto la prima opzione, i grillini la seconda».

Mi racconti i giorni della crisi. Non si è capito nulla: Salvini prima ha rotto, poi voleva tornare indietro e rimettersi con Di Maio, ora grida al complotto.

«Io ho preparato gli scatoloni già la sera dell' 8 agosto, si sapeva che sarebbe finita così. E lo sapeva anche Matteo».

Davvero? Il capitano non le sembra un po' un pugile bastonato in questi giorni?

«No, è tranquillissimo, ha già voltato pagina. I giorni tesi sono stati quelli della decisione della rottura».

Ma allora perché tutto questo cinema?

«La Lega voleva il voto anticipato. All' inizio eravamo convinti di riuscire a ottenerlo. Avevamo annusato che l' accordo M5S-Pd era nell' aria ma non pensavamo fossero così avanti, abbiamo rotto per interromperlo e poi abbiamo sperato nella tenuta di Di Maio, nella speranza che l' intesa con i dem saltasse. Peraltro sarebbe anche suo interesse».

Allora è vero che avete sbagliato la tempistica?

«No, perché M5S e Pd avrebbero provato a mettersi d' accordo anche se avessimo fatto cadere il governo a maggio. La loro è un' alleanza di poltrone e potere, mica crederà alla balla di Renzi che fanno il governo per senso di responsabilità verso il Paese, per fare la manovra e scongiurare le clausole Iva? Se avessimo rotto tre mesi fa gli avremmo solo dato più tempo per mettersi d' accordo. Così invece devono far tutto in pochi giorni, e infatti stanno litigando come pazzi. Non osiamo sperarci, però».

Anche nei tempi del massimo idillio gialloverde, il veronese Fontana non ha mai amato particolarmente i colleghi di Cinquestelle. Non riusciva a metterli a fuoco, o forse lo ha fatto troppo bene.

«Guardi, io volevo querelarli per gli attacchi che mi hanno fatto in occasione del Congresso Internazionale della Famiglia a Verona, al quale da ministro ho dato il patrocinio. Hanno sparato una serie di calunnie su di me indegne. Non ho sporto denuncia solo perché eravamo al governo insieme e Matteo mi ha chiesto di non farlo, vedo invece che l' alleanza con M5S non impedisce al Pd di non ritirare le loro contro il Movimento su Banca Etruria».

Cattolico tradizionalista, era ministro della Famiglia fino a pochi mesi fa. C' è chi gli attribuisce la responsabilità, o il merito, di aver messo lui il rosario in mano a Matteo. Certamente rispetto a Di Maio e associati ha visioni antitetiche sui temi etici e sull' autonomia.

«Sull' autonomia di Lombardia, Emilia Romagna e Veneto, M5S ci ha preso in giro fin dal primo minuto. La ministra Stefani era fuori dalla grazia di Dio. Io in Veneto avevo molte difficoltà a giustificare il fatto che non si riuscisse ad arrivare all' obiettivo. A un certo punto ho detto a Salvini che avrei guidato una delegazione di tutti i parlamentari leghisti veneti davanti a Palazzo Chigi per protestare».

E Salvini cosa le ha risposto?

«Di portare pazienza che se fosse continuata la stagione dei no, il governo non sarebbe potuto andare avanti».

Non ha avuto il coraggio per non scontentare l' elettorato meridionale?

«Matteo ha un coraggio da leone. Per un anno gli hanno detto di tutto, l' hanno insultato, minacciato, indagato. Ci vogliono le spalle larghe per resistere a tutto questo senza farsi turbare. Ne so qualcosa, dopo le vagonate di letame che mi hanno scaricato addosso per il congresso sulla famiglia.La sinistra accusa Salvini di essere antidemocratico ma poi il loro modo di fare opposizione si basa sulla sistematica e incessante intimidazione, una denigrazione continua, null' altro».

Non mi ha ancora detto come è maturata davvero la decisione di rompere. «Con l' elezione in Europa della Von der Leyen grazie ai grillini abbiamo capito che la Ue aveva comprato politicamente M5S e Conte e Tria non ci avrebbero fatto fare la manovra in deficit che Salvini voleva per tagliare le tasse. Bruxelles ci avrebbe imposto i suoi diktat e condannato alla paralisi, con i conti economici in peggioramento per la congiuntura sfavorevole. Siamo alle porte di una nuova crisi e l' Europa, che come si è visto in Germania l' ha provocata con la sua austerità, voleva darne la colpa alla Lega, impedendole allo stesso tempo ogni politica di spesa e incentivazione dei consumi».

Per questo Salvini grida al complotto internazionale?

«Non può essere un caso che, con la Lega fuori dal governo, improvvisamente l' Europa si dimostri più flessibile con noi. Che cos' è cambiato nei conti? Nulla, sono solo decisioni politiche: Conte ha garantito a Bruxelles che l' Italia resterà sottomessa e dalla Ue arriva la mancia, come ai tempi di Renzi, premiato con l' allargamento dei cordoni della borsa per aver dato via libera all' immigrazione».

Quanto dura il governo M5S-Pd?

«Politicamente l' alleanza degli sconfitti non ha senso, ma la disperazione e la determinazione a non lasciare la poltrona sono un buon collante. Potrebbero durare, sempre che partano, mi auguro ancora che un senso di dignità ed orgoglio risvegli quella parte rivoluzionaria dei 5stelle che voleva veramente il cambiamento. A M5S converrebbe votare».

Ne è convinto?

«Se governano con il Pd i grillini sono morti. Guardi adesso, il loro capo, Di Maio, non conta già nulla, è costretto a mendicare poltrone ministeriali. Con il voto perdono forza in Parlamento, ma sopravvivono. Potrebbero anche arrivare al 20%».

E la Lega, cosa farà?

«Si riparte da Pontida, il 15 settembre, un momento sempre magico. Ci sono tre campagne elettorali fondamentali: Umbria, Emilia-Romagna e Toscana. Se torniamo a vincere, la vedo male per l' alleanza giallorossa».

Ma il centrodestra è unito o no?

«Sta certamente meglio di grillini e dem».

Da Libero Quotidiano l'1 settembre 2019. "Salvini non ne aveva sbagliata una. Aprendo la crisi ha fatto una mossa che reputava giusta, certo un po' azzardata visto che non decide lui se sciogliere le Camere. Ma evidentemente aveva avuto garanzie, voci dicono che avesse sentito Zingaretti e forse anche Renzi e volessero andare al voto: il suo errore è stato fidarsi". A dirlo l'ex segretario della Lega, Roberto Maroni, in un'intervista rilasciata al quotidiano La Stampa, facendo riferimento alla decisione di Matteo Salvini di aprire la crisi di governo. Secondo Maroni la crisi andava gestita diversamente: "Avrei scelto un'altra strada. Dopo le Europee - spiega l'ex leader - e il voto sulla Tav avrei chiesto un Conte bis con la stessa maggioranza ma con la Lega alle Infrastrutture, e magari anche al ministero dell'Economia, nominando Tria commissario Ue". Sull'ipotesi di un governo Pd-Cinquestelle, Maroni sottolinea che, se dovesse nascere, "sarebbe un governo nato casualmente, non per un progetto politico condiviso ma solo per evitare le elezioni, e quindi con una debolezza intrinseca. Paradossalmente - prosegue - rischierebbe di durare tutta la legislatura, proprio per evitare di consegnare l'Italia al nemico Salvini". 

“SALVINI HA COMMESSO UN’INGENUITÀ”. Sandro Neri per “Quotidiano Nazionale – il Giorno” il 6 settembre 2019. "Non è solo una questione numerica: nel nuovo governo il Nord è assente soprattutto dal punto di vista politico. Ma vedo la possibilità che la questione settentrionale, oggi forte come non mai, torni al centro del dibattito. Ci sono tutti gli spazi e le condizioni perché questo avvenga". Roberto Maroni, già segretario federale della Lega Nord e più volte ministro, lancia la palla in campo. E il primo assist è proprio per la squadra giallorossa. "Ho mandato un sms a Lorenzo Guerini, uno dei pochissimi lombardi nel nuovo esecutivo: ‘Mi raccomando, gioca all’attacco, non in difesa’. E parlavo della questione del Nord".

Ne parlava a un esponente del Pd. Cosa le ha risposto?

"Mi ha inviato una risata. Guerini nel nuovo esecutivo si occupa di Difesa, ma è stato sindaco e amministratore. Con l’esperienza che ha può davvero dire la sua sull’autonomia regionale. E credo che lo farà. Anche perché io, da grande sostenitore di questo tema e da promotore del referendum, tornerò a sollecitarlo. È il momento che il Nord faccia sentire la sua voce".

Come? Scendendo in piazza?

"No, io non sono per le barricate. E neppure per la nascita di un nuovo partito. La Lega, questa Lega, va benissimo. Salvini ha cancellato il Nord dal simbolo del movimento, ma non dalla partita politica. Direi che basta iniziare a giocarla. A interloquire".

Con un governo nato contro la Lega di Matteo Salvini?

"La tentazione di considerarlo un governo ostile c’è. Ma proprio perché gli equilibri si sono spostati occorre spingere per il dialogo, interloquire in parlamento. Il luogo più giusto per far valere le istanze dei cittadini".

Dove ha sbagliato Salvini?

"Ha commesso un’ingenuità, l’ha ammesso lui stesso".

Ne avete parlato?

"Ci siamo sentiti nei giorni della crisi. Mi tornava in mente la situazione vissuta alla fine del ‘94, con il ribaltone orchestrato da Umberto Bossi ai tempi del primo governo Berlusconi. Io non ero d’accordo con lui. "Se esci dal governo", gli dicevo, "non potrai ottenere il federalismo. Potrai solo fare la rivoluzione". E alle barricate io preferisco l’attività di governo".

Doveva farlo anche Salvini?

"Matteo, in termini di consenso, è arrivato dove io e Bossi non siamo mai riusciti ad arrivare; poteva fare tutto. Pensavo che, all’indomani della vittoria sulla Tav, avrebbe puntato a rafforzare la sua posizione all’interno del governo. Chiedendo, per cominciare, i ministeri dell’Economia e delle Infrastrutture per la Lega. Ha fatto una scelta diversa e la situazione è precipitata. Da milanese, non ha considerato i bizantinismi del Rito romano della politica".

Il trionfo della ricetta Maroni su quella sovranista?

"Assolutamente no. Ognuno ha il suo stile e il mio è diverso da quello di Salvini. Il fatto che non si siano raggiunti i risultati sperati avrà conseguenze. Ma io non sono in cerca di rivincite. Mi appassiona la politica e oggi la seguo da osservatore".

La leadership del Capitano è in discussione?

"Lui ha tentato di far sposare due istanze: quella del Nord e quella del Sud. Ma non c’è riuscito. Perché – ormai lo ammette anche Francesco Boccia – ci sono due Italie e quella settentrionale continua a chiedere di essere ascoltata. Non vedo una crisi nella Lega. L’insofferenza non è nella base del movimento, ma nella classe imprenditoriale, nei ceti produttivi. Il mondo economico, per sua natura, non è pregiudizialmente avverso ad alcun governo. Quello che è mancato finora è stato il confronto. Questo esecutivo non può prescinderne. La flat tax può essere una risposta, l’autonomia delle Regioni pure".

È ottimista?

"Sono certo che qualcosa succederà. Con la Lega al governo bastava attendere con fiducia; oggi c’è un grande punto interrogativo. Sul fronte del governo c’è un’inversione di tendenza. Non tanto perché Francesco Boccia, ministro degli Affari Regionali, sia del Pd, quanto perché è pugliese. E quindi, per quanto capace, lontano dalle richieste del Nord. Però sento istanze di nordismo. E dalla Lega mi aspetto che, senza tornare al vecchio simbolo, si recuperino almeno le suggestioni nordiste".

Cosa resterà delle politiche leghiste sulla sicurezza e l’immigrazione?

"Conosco il nuovo ministro degli Interni, Luciana Lamorgese, con cui ho avuto modo di collaborare quand’ero al Viminale e poi in Regione Lombardia. L’ho chiamata, mi è sembrata emozionata. Le faccio tanti auguri perché il suo è un compito difficile. Sono certo, da superprefetto quale è, che saprà gestire i problemi della sicurezza con saggezza, prudenza e determinazione".

VE LO DICO IO PERCHÉ SALVINI HA FATTO CADERE TUTTO. Alberto Bagnai per il suo blog l'8 settembre 2019. Pur essendo il primo partito della coalizione uscita vincente dalle elezioni politiche del 4 marzo 2018, la Lega non ha ricevuto l'incarico di tentare di formare un Governo. Questo diniego, indipendentemente dalle sue motivazioni e dal loro fondamento, ha dato luogo alla crisi più lunga nella storia della Repubblica: 88 giorni. Durante tutta questa crisi la Lega ha mantenuto un profilo costruttivo e leale, rinunciando a propri candidati alla presidenza delle Camere e attendendo un via libera dagli alleati di coalizione prima di intavolare discussioni con il M5S, uscito come maggiore singolo partito dalle elezioni. Queste discussioni hanno riguardato contenuti programmatici, non nomi, e sono durate quasi un mese, approdando a un documento formale, il Contratto per il Governo del cambiamento, sottoposto all'approvazione delle rispettive basi elettorali. È stato accettato un Presidente del Consiglio, presentatosi come "avvocato difensore del popolo italiano", che avrebbe dovuto essere di garanzia e mediazione fra i due partiti della maggioranza (e che certamente offriva sufficienti garanzie all'establishment), ed è stata inoltre recepita la raccomandazione del Presidente della Repubblica di avere un Ministro dell'economia che non desse "un messaggio immediato di allarme per gli operatori economici e finanziari". Pertanto il Ministro dell'Economia e delle Finanze che, stando agli accordi avrebbe dovuto essere proposto dalla Lega, è finito per essere un "tecnico" senza mandato elettorale. Credo di essere l'unico parlamentare che lo conoscesse. Va osservato che nel suo intervento del 27 maggio il Presidente della Repubblica dichiarava di aver nutrito "perplessità sulla circostanza che un governo politico fosse guidato da un presidente non eletto in Parlamento" e di averle poi superate. Si parva licet, perplessità simili potevano essere nutrite anche per un ministro di peso come quello dell'Economia e delle Finanze. Come argomenterò qui di seguito, con alcuni esempi (del contrario, purtroppo!), la natura "tecnica" e non "politica" del ministro Tria avrebbe raccomandato uno sforzo aggiuntivo di coordinamento e condivisione con la parte politica, per verificare che vi fosse sintonia nell'attuazione delle linee programmatiche. D'altra parte, le evidenti contraddizioni di questa ibridazione "tecno-politica" erano state sottolineate fin da subito anche dalla stampa più allineata. Il problema, tuttavia, era più grave di come veniva rappresentato, ed è lì che vanno ricercate le cause profonde della crisi. Per consentirvi di apprezzarle meglio, di capire quali margini di manovra avessimo, interrompo brevemente la mia cronologia per attirare la vostra attenzione su due elementi. Il primo è dato dalle conseguenze dell'accorpamento dei quattro ministeri economici (Finanze, Tesoro, Bilancio e programmazione economica, Partecipazioni statali), avvenuto in tre passi successivi nel corso degli anni '90 e culminato con il D. Lgs. 30 luglio 1999 sulla riforma del Governo. Il nobile intento suppongo fosse quello di risparmiare ed "efficientare". Il risultato è stato una compressione della politica. Dove prima avevamo quattro ministri, dotati di un mandato politico e soggetti a responsabilità politica (ovvero: se qualcosa non va, il Parlamento ti toglie la fiducia e te ne vai...), dopo abbiamo avuto tre funzionari a capo di tre ministeri formalmente declassati a "dipartimenti" (Tesoro, Finanze, Ragioneria dello Stato - corrispondente al vecchio ministero del bilancio), responsabili, in quanto funzionari, solo verso il loro superiore (il ministro del Tesoro) e non soggetti a responsabilità politica (ovvero: se qualcosa non va, resti comunque lì finché non scade il contratto, ferma restando la possibilità, se si insedia un nuovo Governo, di esercitare lo spoils system nei limiti della L. 15 luglio 2002, n. 145 sul riordino della dirigenza statale). Il secondo elemento è la struttura del negoziato in Europa. I non addetti ai lavori possono pensare che questo venga condotto dal Ministro per gli affari europei. Le cose però non stanno così. Il Ministro per gli affari europei è un ministro senza portafoglio a capo del Dipartimento per le politiche europee della Presidenza del Consiglio dei Ministri, un "ministero" che ha funzioni di monitoraggio (ad esempio, segue e trasmette agli organi parlamentari competenti le direttive e i regolamenti prodotti dall'Unione), di coordinamento (ad esempio, coordina nelle varie sedi parlamentari il recepimento delle direttive europee), e soprattutto di gestione del contenzioso (cioè segue le famose procedure di infrazione), ma non entra strettamente nel merito dei vari negoziati, salvo, marginalmente, in quelli aventi per oggetto le politiche del mercato interno. Tutta la "ciccia" del negoziato sui temi veramente rilevanti (in particolare, sull'Unione bancaria), resta di competenza del MEF.

Sintesi: con l'Unione Europea, che è un'espressione economica, negozia il Ministero dell'economia e delle finanze. In quali sedi? In teoria, in una sede formale, il Consiglio dell'Unione Europea, che in ambito economico si chiama Ecofin, e al quale partecipano i ministri competenti, quelli dell'economia. "Quindi - direte voi - su temi rilevanti come l'Unione bancaria o la riforma del Meccanismo europeo di stabilità (MES) il Governo del cambiamento si affidava a un tecnico, il ministro Tria?"

Ecco, le cose stanno peggio di così, per due motivi, uno dei quali vi è già noto: il vero negoziato avviene in una sede informale, l'Eurogruppo, con i problemi evidenziati qui (e in italiano qui). Voi direte: ma che ce ne frega se la sede è formale o informale, questi sono dettagli! Santa ingenuità! Immaginate di essere un parlamentare che sostiene un "governo politico con un ministro tecnico" (parafrasando il Capo dello Stato). Come fate, da parlamentari, a verificare che questo tecnico sia fedele al suo mandato politico se le decisioni vengono prese in riunioni in cui non c'è verbale - per cui non si sa chi ha detto cosa - e non ci sono votazioni formali - per cui non si sa chi è stato favorevole o contrario a cosa? Di fatto, l'Ecofin ratifica le decisioni prese nell'Eurogruppo, che, a loro volta, sono la sintesi dei lavori preparatori condotti nell'Eurogroup working group. Insomma, il lavoro vero, quello sulla zona euro, e più in generale sugli assetti economico-finanziari dell'Unione, si fa nel "gruppo di lavoro sull'Eurogruppo": mi sembra perfettamente logico! Ma c'è un problema: a questo gruppo di lavoro pressoché sconosciuto, che poi è quello che prende le decisioni vere, che definisce i contenuti tecnici degli accordi, chi ci va? Il ministro? No. Il direttore del Dipartimento del Tesoro (un funzionario).

Sintesi delle sintesi, prima di riprendere la cronaca della crisi: per il Governo del cambiamento le decisioni importanti in Europa venivano prese da un funzionario che rispondeva solo a un tecnico. Notate che questo non è un giudizio sulle persone. C'è però un enorme problema di metodo, che, peraltro, anche il Capo dello Stato aveva messo in evidenza, come vi ho sottolineato sopra: in caso di coesistenza di una parte politica e di una parte tecnica, la parte politica ha tutto il diritto di accertarsi che la parte tecnica e quella burocratica siano fedeli all'indirizzo politico che la parte politica esprime in virtù di un mandato ricevuto dal popolo sovrano.

In parole povere: in un ibrido tecno-politico bisognerebbe parlarsi di più, non di meno, e io so di aver dato il buon esempio. Di converso, in un simile contesto ibrido il buon senso dovrebbe suggerire che il ragionamento "queste decisioni incombono al ministro quindi faccio come mi pare", quand'anche sia formalmente corretto, è politicamente scorretto.

Riprendiamo la cronologia...

Tanto perché il buon giorno si vedesse dal mattino, a luglio venivano riconfermati a capo dei dipartimenti economici tre funzionari espressione di una passata stagione politica. Il ministro decideva quindi di non applicare lo spoils system, decisione che può anche avere avuto ottimi motivi (anche la continuità ha i suoi pregi...), ma che non mi risulta venisse particolarmente condivisa con la parte politica (per quel che mi riguarda, è una delle tante cose che ho appreso dai giornali, dopo che per un certo periodo di tempo fonti dei nostri alleati mi avevano indicato che sarebbe stata presa un'altra strada). Certamente non venne condivisa con nessuno, causando qualche problema politico e diplomatico, la successiva decisione del ministro di nominare Domenico Fanizza rappresentante dell'Italia presso il Fondo Monetario Internazionale. Nel breve giro di due mesi si insediavano in importanti sedi negoziali funzionari scelti da un tecnico con condivisione scarsa o nulla con la parte politica, che non aveva potuto in alcun modo verificare la loro consonanza con la rinnovata sensibilità per l'interesse nazionale espressa dal nuovo Parlamento (o almeno dal 17% di esso). Non stupisce quindi che con l'entrata in vigore della nuova legge di bilancio si evidenziassero tensioni con il Ministro dell'Economia, il quale sembrava restio a seguire il mandato delle forze di maggioranza (ad es. sui risarcimenti ai truffati delle banche, impegno comune dei due leader politici). In questo contesto in cui la Lega, ma più in generale la maggioranza, non trovava una collaborazione sufficientemente elastica nell'attuazione della propria agenda economica (per motivi magari anche validi, ma che si sarebbero dovuti condividere), i media, in seguito ai diversi successi nelle elezioni regionali, chiedevano ripetutamente a Matteo Salvini quando avrebbe pensato di "staccare la spina" al Governo per tornare ad elezioni, allo scopo di ottenere una maggioranza più omogenea. Salvini ha sempre risposto in modo pacato e costruttivo, negando di voler capitalizzare opportunisticamente il proprio consenso. I toni sono degenerati rapidamente con l'inizio della campagna elettorale per le elezioni europee. In un momento in cui il nostro principale avversario, il Partito Democratico, si trovava in oggettiva difficoltà a causa di uno scandalo rilevantissimo, quello sulla gestione della sanità in Umbria (l'altro scandalo devastante, quello sulle ingerenze nel Consiglio Superiore della Magistratura, sarebbe esploso subito dopo le elezioni), e in cui, a prescindere da queste considerazioni tattiche, si sarebbe dovuto parlare di Europa, il nostro alleato giocava tutta la sua campagna elettorale su un violento attacco denigratorio alla Lega e a Salvini, culminato in quella che personalmente percepii (e non fui il solo) come una indiscriminata dichiarazione di guerra. Salvini evitava di rispondere agli attacchi, evidenziando solo come in alcuni Ministeri in quota M5S vi fossero atteggiamenti ostruzionistici rispetto a politiche concordate nel contratto di governo. Tuttavia, all'interno dei gruppi parlamentari cresceva la preoccupazione verso certi atteggiamenti, e in particolare verso i riferimenti al lavoro dei magistrati. Questo lavoro, che andrebbe rispettato in primo luogo non strumentalizzandolo, veniva invece invocato esplicitamente come strumento per arginare una crescente perdita di consensi ("votateci perché gli altri non sono onestih..."). Diventava difficile credere che "dopo" sarebbe stato possibile ricominciare a collaborare, indipendentemente dai risultati delle elezioni: se queste fossero state un successo per la Lega, come i sondaggi indicavano, l'azione politica dei nostri alleati sarebbe stata volta a creare problemi a noi (magari per interposta magistratura), più che a risolvere i problemi del Paese...Le elezioni confermarono i sondaggi portando a un successo della Lega e una sconfitta della linea dell'alleato. Si determinava così una situazione, ampiamente discussa nel diritto costituzionale, in cui, in un contesto di democrazia rappresentativa, il Parlamento si trovava a non rappresentare più gli orientamenti politici del corpo elettorale. La situazione era incresciosa anche per un altro motivo. A detta di autorevoli commentatori, il Presidente del Consiglio aveva deciso, verso la fine della campagna elettorale, di deporre la sua terzietà, salendo sul carro dei futuri perdenti (dal quale forse non era mai sceso), e questo oggettivamente rendeva difficile ricomporre le fratture che parole avventate avevano creato. Tuttavia Salvini decideva di mantenere fedeltà all'alleato, nella speranza di ricucire gli strappi, nel frattempo incontrava tutte le parti sociali, trovandole unanimi nel richiedere un importante taglio delle tasse per lavoratori e produttori. Diventava così chiaro a tutti che per danneggiare politicamente Salvini, impedendogli di consolidare il suo consenso, si sarebbero dovuti frapporre ostacoli alla riforma fiscale, invocando in primo luogo il rispetto letterale dei vincoli europei. Nel frattempo, in coerenza con la linea euroscettica, e in dissenso verso il "cordone sanitario" al Parlamento Europeo la Lega non votava la candidata presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, espressione dell'accordo Merkel/Macron. I voti del M5S di rivelavano quindi decisivi a darle la fiducia, quando la Commissione avrebbe potuto subire una immediata e dura battuta d'arresto, che avrebbe potuto indurre un ripensamento serio di un certo approccio, più di tante dichiarazioni su eventuali pugni da sbattere su un tavolo.. che non c'è! Nel frattempo Salvini aumentava la pressione sui tecnici del Governo per ottenere una legge di bilancio espansiva per il 2020 con tanti investimenti e un corposo taglio di tasse, mentre al Presidente del Consiglio e al Ministro dell'Economia veniva dato più volte esplicito mandato formale per bloccare in Unione Europea qualunque riforma del MES che potesse danneggiare l'Italia (ricordiamo che, già all'epoca del governo Monti, l'Italia aveva dovuto sborsare oltre 50 miliardi per questo fondo europeo). In particolare, con la risoluzione del 19 giugno 2019 il Presidente del Consiglio aveva preso l'impegno, poi non onorato, a "render note alle Camere le proposte di modifica al trattato ESM, elaborate in sede europea, al fine di consentire al Parlamento di esprimersi con un atto di indirizzo e, conseguentemente, a sospendere ogni determinazione definitiva finché il Parlamento non si sia pronunciato". Più in generale la Lega, sulla base della accresciuta responsabilità derivante dal 34% ottenuto alle europee, sollecitava ripetutamente Presidente del Consiglio e Ministro dell'Economia a condividere e concordare la strategia negoziale in UE e ad mostrare la volontà di impostare una legge di bilancio espansiva e coraggiosa. Nonostante i solleciti, il Presidente del Consiglio chiedeva di non disturbare le trattative e poi sottoscriveva, insieme con il Ministro dell'Economia un impegno con la UE a rinnovata austerità fatta di tagli e riduzione deficit. Parallelamente il Ministro dell'Economia non solo in intervista negava la possibilità a realizzare flat tax, minibot e deficit espansivo, ma nemmeno aggiornava il Parlamento sugli impegni assunti con l'Unione Europea. Il presidente della Commissione Bilancio della Camera e poi lo stesso Salvini criticavano il Ministro dell'Economia per l'opacità delle trattative in Europa e per la resistenza alle necessarie politiche di bilancio espansive, cercando il supporto dell'alleato, che invece chiedeva le coperture per la flat tax e dichiarava incondizionata fiducia nel Presidente del Consiglio e nel Ministro dell'Economia. Si arriva dunque alla crisi, dovuta, come dovrebbe essere ormai chiaro, all'arresto della spinta propulsiva, e anzi alle varie retromarce del Governo soprattutto in tema economico, retromarce che in sede di legge di bilancio avrebbero comunque portato a una rottura, o si sarebbero risolte in un tradimento del patto fra la Lega e i suoi elettori. Il 20 agosto il Presidente del Consiglio dichiara al Senato di dimettersi, rivolgendo a Salvini così tante accuse da chiedersi perché fino ad alcuni giorni prima avesse avallato tutte le proposte del Ministro dell'Interno. Il Presidente della Commissione Finanze del Senato in quelle circostanze sottolineava al Presidente del Consiglio la mancata trasparenza sul negoziato della riforma Meccanismo Europeo di Stabilità. Vista l'espressione della volontà di dimettersi del Presidente del Consiglio, la Lega ritirava la mozione di sfiducia nei suoi confronti, in quanto non più necessaria.

Il resto è storia recentissima: in due sole settimane, i tanto reciprocamente vituperati M5S e PD hanno trovato un accordo su un nuovo Governo che mantiene lo stesso Presidente del Consiglio ma con una diversa maggioranza (caso limite, nell'Italia repubblicana), senza produrre un chiaro e definito equivalente del contratto di Governo 2018, ma solo una ventina di generici punti formulati dai vertici del M5S e sottoposti al PD. Un Governo che si basa su un unico reale punto programmatico forte: impedire al partito di maggioranza relativa di governare il Paese, e, in particolare, blindare con una maggioranza parlamentare "progressista" l'elezione del prossimo Presidente della Repubblica, in un Paese che, in tutta evidenza, sta esprimendo un orientamento politico conservatore. Simili atteggiamenti sono espressione di un teppismo istituzionale che indebolisce importanti organi costituzionali dello Stato. Può benissimo darsi che nei prossimi tre anni l'attuale maggioranza riesca a far piacere agli italiani le politiche che finora non sono piaciute loro, a partire dall'eccessiva subalternità alle logiche europee. Purtroppo queste politiche non piacciono perché sono sbagliate, e nulla lascia presagire che perseverando nell'errore si ottengano risultati positivi. Mi è quindi difficile immaginare fra tre anni un'Italia tutta "bella ciao" e aumenti di imposte (ecologiche, naturalmente!), insomma, un'Italia maggioritariamente e convintamente progressista. Se invece diventasse prevalente l'orientamento politico favorevole alla Lega, la maggioranza degli italiani a quel punto saprebbe che nella partita delle istituzioni l'arbitro parteggia per una squadra: quella che ha perso la partita elettorale, ma vuole a tutti i costi vincere la partita del potere. Insomma: la figura del prossimo Presidente della Repubblica ne uscirebbe gravemente indebolita, con seri danni per tutti. La politica si svolge nel tempo storico e gli scenari controfattuali (cosa sarebbe successo se...) lasciano il tempo che trovano, in virtù del noto principio secondo cui la storia non si fa coi se.

Tuttavia, dal racconto qui svolto, e dai fatti che ho citato, emergono alcuni dati: la volontà di danneggiare Salvini ha spinto la componente "tecnica" del Governo (il cosiddetto "terzo partito") a cercare sponda in Bruxelles per una finanziaria che impedisse a Salvini di mantenere le sue promesse, anche a costo di rovinare il Paese; nelle partite relative alle nomine la componente "tecnica" si è mossa in totale autonomia, e tutto lascia supporre che avrebbe continuato a farlo, dato lo stato di litigiosità della parte politica; più in generale, le dinamiche politiche interne alla maggioranza avevano tolto alla Lega, forza critica e di rottura verso certi assetti costituiti, il necessario sostegno del movimento da molti ritenuto "antisistema" (ma che forse, se dobbiamo giudicare dai risultati, e fatto salvo il travaglio individuale dei tanti colleghi che conosco e apprezzo, oggettivamente non è poi stato così "anti"...). Fra i due litiganti, il terzo partito stava già godendo e avrebbe continuato a godere, e gli italiani a soffrire. Fare chiarezza è stato un passo rischioso ma necessario. Ora sappiamo di aver sostenuto un Governo ad personam, il cui obiettivo era contrastare Salvini. Obiettivo, intendiamoci, assolutamente lecito in democrazia se agito in modo esplicito e all'interno delle regole del dibattito democratico, ma un po' meno apprezzabile se perseguito surrettiziamente e sotto la regia di un primo ministro che a un certo punto aveva smesso di essere terzo, o forse non lo era mai stato: Il 3 giugno 2019 Conte ha sostenuto: “Non mi è stata chiesta alcuna attestazione di fedeltà dal M5S. Non mi sono mai iscritto, sono un indipendente”. Perché allora esulta sguaiatamente per il risultato, il 4 marzo 2018, nella stanza dei capi M5S?!? Valeva comunque la pena di provarci, ma di questo parleremo un'altra volta. Intanto, spero di avervi fatto comprendere meglio perché andare avanti così era, nei fatti e nelle cose, sostanzialmente impossibile.

Vittorio Feltri e la prova a Romeo: "Cari leghisti, non gli ho consigliato io di rompere". Libero Quotidiano il 6 Settembre 2019. Ieri a "L' aria che tira" è scoppiata una polemica a riguardo della caduta del governo giallo-verde. Secondo il capogruppo della Lega, Romeo, io avrei sollecitato Salvini, mediante i miei articoli, ad abbandonare l' alleanza con Di Maio allo scopo di fare chiarezza, visto che M5S si era impegnato a dire no a qualsiasi iniziativa del ministro dell' Interno. Libero non è una caserma ed è logico che vi ferva la discussione tra persone che talvolta la pensano diversamente. Io per esempio desideravo una revisione del contratto e speravo che i grillini fossero così indotti alla rottura. Ma non ho mai spinto Matteo a provocare la crisi. Ve lo dimostro con i fatti, riproponendo oggi un editoriale da me firmato il 10 aprile, quindi in tempi non sospetti, in cui rammentavo che in Parlamento esisteva, purtroppo, una maggioranza alternativa in grado di raccogliere la fiducia, e alludevo a un ipotetico accordo tra Pd e pentastellati. Cosa che poi si è verificata. Quale documento, offro ai lettori la copia del mio pezzo in cui adombro la pericolosità di un eventuale crollo dell' intesa tra Matteo e Gigino. Mi auguro che Myrta Merlino, conduttrice corretta, provveda a informare stamane i suoi ascoltatori e Romeo che non sono stato io a invogliare Alberto da Giussano a sfasciare la baracca.

Qui di seguito l'articolo di aprile citato dal direttore di Libero:

Aumentano coloro che sollecitano Salvini a rompere il sodalizio con 5 Stelle allo scopo - irraggiungibile - di rinnovare in anticipo il Parlamento. Premono adducendo un motivo valido in teoria: dicono che la Lega, soggiacendo alle pretese programmatiche dei grillini, sia destinata a perdere consensi soprattutto da parte di chi ha a cuore l'economia. È vero, i conti dell'Italia piangono e non promettono nulla di buono nel futuro prossimo. Ma c'è un particolare da non sottovalutare: mettiamo che il capo del Carroccio, stanco di soccombere a Di Maio, compia il gesto estremo, mandando al diavolo il governo in carica. Poi cosa accadrebbe? Due opzioni. La prima, auspicata in particolare dagli imprenditori e da molta gente, è che Mattarella decida di sciogliere le Camere e indica nuove elezioni onde verificare gli umori del Paese, secondo i sondaggi assai diversi rispetto a 13 mesi orsono. La seconda, meno ottimistica da un certo punto di vista, è che il Movimento - attualmente detentore a Montecitorio e a Palazzo Madama del 33 per cento - pur di non uscire di scena si aggrappi al Pd che, col proprio 20 per cento - sarebbe in grado di compensare numericamente la dipartita di Alberto da Giussano. Insomma, ragionando aritmeticamente, un ministero sostenuto da 5 Stelle e dai dem starebbe in piedi. Personalmente ritengo che il ministro dell'Interno abbia fatto i nostri stessi calcoli per cui resista a tenere in vita l'alleanza ora operativa al fine di evitare il rischio che i pentastellati e i democratici, per non mollare l'osso del potere, si consorzino sulla base di un contratto inedito e tirino a campare provocando altri e irreparabili danni alla nazione già abbastanza disastrata. Ecco perché non conviene affrettare i tempi e lasciare che la matassa si dipani: occorre comprendere le preoccupazioni del Matteo Lombardo, il quale benché sia con il suo partito in forte crescita, non ha in tasca la certezza di poter licenziare i grillini e di imbastire una maggioranza di centrodestra. Calma e gesso, se non vuoi fare la figura del fesso. Vittorio Feltri

Quel ragazzo di nome Matteo salverà l’Italia. Andrea Pasini il 7 Settembre 2019 su Il Giornale. Chiamatelo razzista, fascista, xenofobo e chi più ne ha più ne metta. Forza, ditelo! Urlatelo con tutta la convinzione che avete. Se pensate di ferirlo, di farlo vergognare, vi posso garantire che vi sbagliate di grosso. Questo “razzista, fascista, xenofobo ecc ecc come lo amano definire gli elevati del politicamente corretto sta lottando anche per loro. Questo italiano che insultate, sta pensando al futuro vostro e dei vostri figli. È la gente che non ha timore di esprimere quello che pensa, ciò in cui crede, quella che non ha paura di rischiare, che aiuta anche voi ad andare avanti tutti i giorni. Mi domando se vi sentite così superiori, così nel giusto, anche di fronte a italiani, uomini e donne, che per sopravvivere sono costretti a rovistare nell’immondizia? Se vi sentite tanto superiori a chi non riesce, perché non ne ha le possibilità economiche, a donare anche una piccola cosa che farebbe felice il proprio figlio quando ve la chiede guardandovi negli occhi? Se vi sentiti migliori di quelli che devono, pur desiderandola, rimettere quella bistecca sullo scaffale del supermercato perché altrimenti non riescono ad arrivare a fine mese? Quella brutta persona che voi cercate di far apparire, guarda invece al suo Paese, e soffre tutti i giorni. Guarda alla sua Italia, alla nostra Italia che sta perdendo tutto e non fa nulla. Troppo piena di persone impegnate a giudicare, a parlare di quello che è politicamente corretto, per non creare problemi. Ma che poi si girano dall’altra parte di fronte a situazioni di difficoltà come quelle che ho sempre descritto, pensando che non toccheranno mai a loro. Uomini e donne mediocri e pericolosi che vogliono privarci di tutto. Si proprio loro, gli elevati della finanza speculativa e delle lobby economiche europee che hanno come unico scopo quello di costruirsi enormi capitali personali ed impoverire interi popoli. E vogliono farci vergognare perché chiediamo qualcosa di meglio per noi e per le nostre famiglie. Qualcosa di migliore per i nostri figli. Lui invece sta dalla parte del popolo. Di quegli uomini e di quelle donne valorosi che lavorano e fanno sacrifici, degli onesti che si vedono ripagati con tante belle parole e che si trasformano in insulti alla prima occasione. Sì, se è per tutto questo, lui è sempre più onorato di essere tacciato come un razzista, un fasciata e chi più ne ha più ne metta da quella gentaglia. È insensibile! È senza cuore! È tutte queste cose insieme perché ha detto “basta” all’immigrazione senza controllo, alle banche che hanno truffato centinaia di migliaia di cittadini per bene e onesti e alle lobby economiche che usano i soldi del popolo per far profitti personali ed aiutare gli amici degli amici. Perché ha detto “basta” al razzismo anti-patriottico che vuole sostenere chiunque l’importante è che non sia italiano. E ha detto “basta” a tutte quelle tasse che devono pagare i cittadini con la loro fatica per un sistema ingordo, ingrato e che ti chiede senza mai darti nulla. Ha detto “basta” a queste istituzioni che, anziché tutelare i veri servitori dello Stato come le Forze dell’Ordine, le hanno umiliate, non tutelate e le hanno riconosciuto uno stipendio miserevole, sebbene queste rischino la propria vita tutti i giorni per difendere la nostra. Lui si! è senza cuore perché guarda gli italiani che dopo l’alluvione ancora non hanno una casa e pensa che loro meriterebbero un aiuto concreto e il nostro conforto, ma soprattutto l’aiuto e il conforto di uno Stato che li ha totalmente abbandonati e che gli è stato vicino solo con delle belle parole alle quali non sono mai arrivati dei fatti concreti. È proprio una persona cattiva perché pensa quotidianamente con amore, rispetto e affetto al bene del suo Paese che gli piace ancora definire e non si vergogna nel farlo “Patria”; e crede ciecamente nel suo popolo, con cui condivide idee, radici, storia, tradizioni e valori. Lui si, è proprio cattivo e senza cuore perché è stanco di vedere uomini distrutti dalla crisi. È Stanco e triste nel vedere imprenditori che si suicidano perché questo Stato li ha vessati in tutti i modi e non sanno più dove sbattere la testa per andare avanti. È perfido perché è stanco di vedere operai perdere il proprio posto di lavoro e di conseguenza la loro dignità perché il lavoro rappresenta la dignità di un individuo; persone costrette a vivere una vita di stenti, di rinunce, perché aziende che assumano non esistono più o sono in via di estinzione nel nostro Paese. Padri di famiglia che, non potendo più garantire ai propri cari una sicurezza economica, cadono in depressione e si rovinano la vita. È maligno perché è stanco di vedere il tasso di disoccupazione salire. È stanco di assistere alla fuga dall’Italia di giovani talenti, perché questo sistema marcio premia gli incapaci “amici degli amici” e non i meritevoli e i volenterosi. È maledetto perché pretende certezze e non promesse. Pretende che i cittadini italiani possano vivere in serenità e vengano ripagati per tutti gli sforzi e i sacrifici che hanno fatto per tutta una vita. Non c’è nulla di più importante per lui. E non smetterà mai di lottare e di questo ne sono sicuro. Perché sente che non è più accettabile sopportare tutto questo senza combattere. Senza almeno provarci. Un domani, guardando negli occhi i suoi figli e anche i nostri figli, vorremmo che sappiano che lui e tutti noi abbiamo lottato con tutto noi stessi per cercare di cambiare le cose, per poter garantire loro, e a giovani come loro, un futuro migliore in un Paese fantastico e unico al mondo. E sì ! Lui è un razzista e sono sicuro che sia fiero di esserlo se questo vuole dire amare, rispettare e difendere più di ogni altra cosa il suo, il nostro Paese e il nostro popolo. Cerca di farlo anche tu, caro lettore diventa anche tu come lui e come tanti di noi, perché anche tu come lui so che dentro di te vorresti ridare quell’orgoglio che merita il nostro paese. Perché ricordatevi che l’unione fa la forza. E sono sempre più convinto che, se ci unissimo tutti a Lui con l’intento comune di riconquistare il rispetto che merita il nostro paese, un domani potremmo guardare in faccia i nostri figli con orgoglio e senza vergogna perché avremo fatto del nostro meglio come padri e come cittadini per lasciare loro in eredità una civiltà ancora viva e forte. E assicurare loro un futuro da uomini liberi e non da schiavi a casa propria. Lui si chiama Matteo Salvini, un ragazzo semplice, umile, un padre di famiglia, un italiano e sopratutto un Capitano che sono certo continuerà a combatterà senza mai fermarsi, con sempre più grinta e audacia per ridare la sovranità e la dignità che spetta e che merita di riconquistare l’Italia e il popolo italiano. 

SIAMO SICURI CHE LA LEGA SIA COMPATTA CON IL SUO CAPITANO? Alberto Mattioli per “la Stampa” l'1 settembre 2019. Il repertorio ormai è questo, e Matteo Salvini l'ha ripetuto ieri anche a Pinzolo: il Conte II, se mai si farà, «è una truffa», «nato in provetta a Bruxelles, Parigi e Berlino», e significa per il M5s «una fine triste», mentre per il Pd, ovviamente, gli improperi proprio non bastano. La novità è l' appello al Quirinale. «Presidente Mattarella, basta, metta fine a questo vergognoso mercato delle poltrone, convochi le elezioni e restituisca la parola gli italiani». Il solito ritornello: elezioni subito. Intanto il governatore del Veneto fa marcia indietro. Venerdì, davanti alla folla leghista a Conselve, nel padovano, Luca Zaia aveva evocato «la rivoluzione». Ieri ha rettificato: «Chi mi conosce sa che quando parlo di rivoluzione intendo la rivoluzione della democrazia», per fortuna. Fin qui le posizioni ufficiali. Ma la crisi qualche strascico dentro la Lega lo sta lasciando. La decisione di far cadere il governo non la contesta nessuno, a partire dai ministri che ne facevano parte, tutti molto più pro-crisi di Salvini e da più tempo. Modi e tempi danno però fiato a chi denuncia una gestione troppo verticistica del partito. Al ricco florilegio di neologismi leghisti si aggiunge così quello dei «sommergibilisti». Sono i dirigenti che, sott' acqua, contestano la gestione Salvini, pronti a emergere se, per miracolo, il governo giallorosé dovesse durare e costringere la Lega a una lunga traversata del deserto. Finora allo scoperto è venuto solo il capo dichiarato dell' opposizione interna, Gianni Fava (14% al congresso del '13), ma i sommergibilisti sono convinti di essere più numerosi. «Nessuno contesta la leadership di Salvini. Il cerchio magico che lo circonda, sì. Un gruppo di yesman che gli dicono sempre di sì e gli hanno fatto perdere il contatto con la realtà», accusa un parlamentare. Nessuno, si diceva, per ora ci mette la faccia ed è quindi difficile quantificare la fronda, e soprattutto qualificarla. L' ex segretario Maroni non ne fa parte, ma al Nord (al Sud il partito non è leghista, è salviniano) i frondisti sarebbero parecchi. C' è addirittura chi evoca una scissione prima delle urne, che tutti danno per scontate in primavera, dato che nessuno crede che il nuovo governo durerà. I sommergibilisti comunicano messagiandosi su Telegram. «Ironia della sorte, è un social ideato da un russo», ride uno dei partecipanti alle chat. Per il momento, il lavorio è tutto sotterraneo, anzi subacqueo. «Non ci credo. Non siamo alla fine di un' epoca, come negli ultimi anni di Bossi. Salvini ha preso il partito al 4% e l' ha portato al 34: ci possono essere dei critici, magari degli invidiosi, ma non si può mettere in discussione una leadership così - commenta un cacicco importante -. E poi se Matteo fosse davvero circondato di yesman, questa crisi non si sarebbe mai fatta. È stato lui a credere più di tutti all' alleanza con i grillini e a sforzarsi di farla funzionare. Il nuovo governo nasce malissimo. Adesso dobbiamo solo sederci sulla riva del fiume e aspettare di veder passare il suo cadavere». Chissà.

È troppo facile accusare solo Salvini.  Ernesto Galli della Loggia su Il  Corriere della Sera l'8 Settembre 2019. Galli della Loggia risponde a Sofri: “Salvini è certamente un eversore criptofascista. Ma allora allo stesso modo, però, lo sono i governanti spagnoli di destra e di sinistra che a Ceuta e Melilla da anni sparano contro gli africani che vogliono superare il confine, lo sono i governanti di Malta che praticano anche loro la politica dei “porti chiusi”, lo è Macron che a Calais rastrella gli immigrati per non fargli attraversare la Manica e a Ventimiglia gli impedisce con la forza di entrare in Francia, e lo è anche la signora Merkel, che quando occorre li rispedisce in Italia. Che cosa intendiamo per “eversione” e “violenza” quando adoperiamo questi due termini a proposito di molte situazioni politiche nuove che stanno sorgendo in Europa, le stesse che qui da noi a molti sono sembrate trovare espressione in alcune decisioni dell’ ormai ex ministro degli Interni Salvini? Io credo che in una democrazia i due termini di cui sopra vadano adoperati solo quando una parte usa la violenza per condizionare e manipolare la vita politica in tutti i modi immaginabili, per impedire libere elezioni, per chiudere la bocca agli oppositori e così via: questa è l’ eversione e la violenza che le è funzionale, come il fascismo ci ha insegnato fin troppo bene.

Ma avendo detto queste cose in tv, Adriano Sofri mi sgrida accusandomi di colpevole distrazione. Infatti si può e si deve parlare di eversione, egli scrive ( Il Foglio , 4 settembre), anche quando la violenza fisica è impiegata “contro i migranti tenuti in ostaggio, sofferenti, umiliati e offesi nelle imbarcazioni dei soccorritori“; come per l’ appunto ha fatto Salvini, forte del fatto di poter impiegare una violenza per cui: “non occorrevano le squadre quando si poteva impiegare allo scopo i corpi militari e le forze dell’ ordine dello Stato“.

Bene, con questi criteri Salvini è certamente un eversore criptofascista. Ma allora allo stesso modo, però, lo sono i governanti spagnoli di destra e di sinistra che a Ceuta e Melilla da anni sparano contro gli africani che vogliono superare il confine, lo sono i governanti di Malta che praticano anche loro la politica dei “porti chiusi“, lo è Macron che a Calais rastrella gli immigrati per non fargli attraversare la Manica e a Ventimiglia gli impedisce con la forza di entrare in Francia, e lo è anche la signora Merkel, che quando occorre li rispedisce in Italia. Tutti eversori e tutti fascisti, caro Sofri? O questo invece non è violenza?

QUAL È IL SEGRETO DEL SUCCESSO DI SALVINI? Annalisa Chirico per Il Foglio il 3 giugno 2019. Quali sono gli ingredienti del successo salviniano? Il vicepremier, che ha mutato per sempre i connotati del partito che fu di Umberto Bossi, adesso punta dritto a Palazzo Chigi: un’ascesa apparentemente irresistibile. “Salvini ha invertito i rapporti di forza all’interno dell’esecutivo già da diversi mesi - dichiara al Foglio il direttore di Repubblica Carlo Verdelli - Pur avendo ottenuto metà dei voti grillini alle politiche del 4 marzo, il leader della Lega ha imposto l’agenda sin dal principio. Ha condotto una campagna elettorale interminabile in un paese che si conferma assai instabile. Si assiste, da alcuni anni, a clamorosi sbandamenti: dal 40 percento di Renzi si è passati all’exploit grillino delle scorse politiche e adesso al fenomeno Salvini”. Il rischio è una rapida evaporazione. “In realtà, paragonato ai leader precedenti, noto un approccio diverso in Salvini. Berlusconi, per esempio, ha fatto sognare gli italiani con il messaggio: potete diventare come me. Salvini dice: io sono uno di voi. La stanzetta immortalata nella notte del voto potrebbe appartenere a ogni italiano. Non è più la politica dall’alto, è la politica da dentro”. Matteo Renzi è solitamente indicato come il primo leader della disintermediazione in Italia. “Salvini è andato oltre, sul presidio dei social network è di qualche anno avanti su tutti. Il capo del Carroccio adopera, forse inconsapevolmente, il rasoio di Occam, vale a dire la semplificazione massima del messaggio. Renzi si muoveva in uno schema più consueto, Salvini invece innesca un processo di immedesimazione senza precedenti. Quanto possa durare, è difficile dirlo. Per adesso, sta arrostendo i 5 stelle a fuoco rapido: la Tav è forse l’ultimo totem grillino sopravvissuto, e lui ha chiarito che va fatta, detta l’agenda come se avesse vinto le politiche, non le europee”. Ad un occhio attento, anche l’Europa appare come uno spauracchio utile per la propaganda. “Lui lo ha capito e fa di tutto per provocarla. Se dovessi dire, il primo avversario di Salvini è se stesso: deve evitare la bulimia di sé e far tesoro di quanto capitato a Renzi”. Ecco, i due Matteo. Gemelli diversi, veri distruptor della politica italiana degli ultimi anni. Vicini d’età, lontani d’idee, artefici di scalate imprevedibili. “Presentano elementi comuni nell’attitudine verso l’elettore e verso il potere – commenta il direttore del Corriere della sera Luciano Fontana – Li caratterizza l’estrema personalizzazione del comando. Il partito di Renzi era il partito di Renzi e della sua cerchia, idem quello di Salvini. La classe dirigente diffusa della Lega, gli Zaia e i Fontana, sono presenti sul territorio ma quasi mai hanno una parola importante nella determinazione della linea politica nazionale. Nemmeno Giorgetti ha la forza di incidere: Salvini pretende sempre l’ultima parola. Tra l’ex segretario dem e il leader leghista esistono profonde diversità culturali e programmatiche ma entrambi hanno dimostrato una notevole capacità di semplificazione. Sono figli di Berlusconi che non viveva nell’era digitale ma in quella televisiva, e non è un caso che sia Renzi che Salvini abbiano partecipato da concorrenti ai programmi televisivi delle reti Mediaset”. La parabola renziana a Palazzo Chigi è durata 1000 giorni, quella salviniana potrebbe rivelarsi anch’essa una meteora? “Com’è noto, Giorgetti gli ha consigliato di tenere una foto di Renzi sulla scrivania. Oggigiorno il sistema è caratterizzato dalla volatilità del voto che ha perso connotazioni ideologiche, le tendenze elettorali sono evanescenti, si esauriscono in fretta.  Paragonato a Renzi, però, Salvini ha due elementi che giocano in suo favore e potrebbero rendere più stabile il consenso per la Lega: innanzitutto, lui aspira ad essere l’erede di Berlusconi, e in Italia il voto per il centrodestra è sempre stato rilevante; in secondo luogo, il suo partito ha un radicamento molto esteso al nord”. Il partito di Bossi era alla canna del gas, oggi tocca il 34 percento. È solo un fatto di comunicazione? “Salvini ha saputo sfruttare la sua straordinaria capacità di mettersi in sintonia con le paure degli italiani sui dossier sicurezza e immigrazione, e con le loro aspirazioni più profonde, a partire dal desiderio di veder riaffermata l’identità nazionale in contrapposizione al mostro della globalizzazione e delle tecnocrazie europee. Inoltre, il vicepremier leghista sa dominare le piazze fisiche e virtuali, sta sul digitale come nessun altro. Gli ha giovato la competizione con un alleato di governo particolarmente debole sul piano delle competenze amministrative e di governo, e sull’organizzazione territoriale del movimento”. I 5 Stelle hanno dimezzato i voti, al sud il reddito di cittadinanza non è bastato a frenare l’emorragia di consensi. “Le modalità e l’entità del sussidio non sono stati ritenuti soddisfacenti, tanto più in un pezzo d’Italia dove l’economia vive anche di aggiustamenti non tutti in chiaro...A mio giudizio, si è fatta strada l’idea che i soldi non debbano essere concessi o regalati senza il lavoro”. Quante probabilità assegnerebbe alla durata del governo da uno a dieci? “Non mi spingerei oltre il tre. Magari sia Di Maio che Salvini ritengono che durerà ma esistono difficoltà strutturali che lo rendono improbabile, se non impossibile”.

Per Lucia Annunziata, direttore di HuffPostItalia, “il segreto del successo salviniano è che si fonda su un dato vero, reale, tangibile: la costruzione del consenso. Emblematici sono i risultati ottenuti a Torre Maura nella periferia romana, a Melendugno (il comune del gasdotto Tap), nella Val di susa dei No-Tav, e poi a Capalbio, a Riace, a Lampedusa…. i santuari dell’antisalvinismo hanno votato per Salvini”. Per i 5Stelle un tonfo clamoroso. “I grillini dovevano essere la modernità del post-ideologico, invece sono apparsi come persone senza capacità in balia di un’onda che li sballottava a destra e a sinistra. Casaleggio padre li aveva collocati nell’orizzonte della fine delle ideologie, ma nella realtà attuale l’ideologia è tornata ad essere uno strumento di consenso. La verità è che anche noi giornalisti continuiamo a trattare i cittadini come fossero dei cretini: al tempo di Berlusconi li dipingevamo come manipolabili dalla tv, oggi dai social network e dal pericolo fascista. Più banalmente, i cittadini capiscono il senso di una promessa, e Di Maio è stato rovinato dalla ‘balconata palingenetica’ in cui annunciava l’abolizione della povertà. Salvini ha piuttosto utilizzato il fascismo non come un fine in sé ma come un mezzo per parlare anche a quei ceti popolari”. Quanto durerà il sodalizio di governo? “Non prevedo una crisi a breve. I 5 stelle contano per il 33 percento in Parlamento: perché dovrebbero rinunciarvi? E perché Salvini dovrebbe consegnare quella percentuale all’opposizione? Il leader leghista non ha fretta: Renzi aveva un partito contro, la sua era una scalata non amichevole; il vicepremier invece ha il partito dietro, non deve difendersi dai nemici”.

In pochi lo conoscono, perché è uomo di proverbiale riservatezza, ma Enzo Risso, direttore scientifico dell’Istituto di ricerche Swg, è il sondaggista più ascoltato da Salvini. Il leader leghista gli scrive più volte al giorno, se non gli scrive lo chiama, quel che conta è la consultazione permanente per sapere come vanno i polls, che dice il campione su questo e quel tema, in che direzione fluttua l’opinione pubblica. “Lo slogan ‘Prima gli italiani’ – spiega al Foglio lo studioso che è anche docente di Teoria e analisi delle audience all’Università La Sapienza di Roma - sintetizza il racconto che gli italiani vogliono sentirsi raccontare: tutela e difesa del paese, prima di tutto. Con le elezioni europee Salvini ha portato a compimento la trasformazione del centrodestra: l’identità neoliberista di quello berlusconiano viene archiviata a favore di una identità protezionistico-primatista. Se Berlusconi incarnava il sogno del benessere per tutti, la libertà di arricchirsi, il mito della concorrenza, il centrodestra a traino leghista nasce in seguito alla sconfitta del liberismo a livello globale, ed esprime l’esigenza di tutelare le persone dai guasti del libero mercato e dagli eccessi europeisti tecnocratici. E’ un centrodestra difensivo che punta sull’Italia per cambiare. L’asse politico è cambiato: quello destra/sinistra viene riassorbito dall’opposizione tra comunità aperta e comunità chiusa”. Nel governo l’ala leghista ha cannibalizzato quella grillina. “Nel paese circola una parola d’ordine: stabilità. La gente sente che la crisi sta arrivando, e ha paura. I 5 stelle hanno perso perché i loro continui attacchi a Salvini hanno diffuso l’idea di instabilità”. Salvini è entrato in polemica con le gerarchie vaticane a causa dell’ostensione di simboli religiosi, madonnine e rosari. “Dalle nostre rilevazioni emerge che le uniche polemiche che negli ultimi mesi hanno un po’ intaccato la spinta a favore di Salvini sono state la partecipazione al Congresso mondiale delle famiglie a Verona e lo scivolamento eccessivo nel dialogo con Casa Pound. Questi eventi hanno infastidito gli elettori moderati indecisi che guardavano con interesse a Salvini e che sono stati recuperati solo successivamente, quando il leader è tornato a indossare la giacca del buon senso. Il confronto anche aspro con le gerarchie vaticane si è rivelato una echo-chamber, insomma una bolla iperamplificata priva di ricadute in termini di consenso. Il papa parla ai suoi, ma i suoi non sono elettori di Salvini. Solo il 12 percento degli italiani cattolici dichiara di lasciarsi orientare dalle indicazioni della Chiesa nelle proprie scelte politiche”.

Religione, tradizioni, valori. Per il direttore de La Stampa Maurizio Molinari l’analisi post-voto non può prescindere dalla parola “identità”. “Il sovranismo, risultato vincente in questa tornata elettorale, esalta le identità tribali in contrapposizione alla globalizzazione. Contano le radici che sono nazionali, cattoliche e bianche. L’Italia è un paese laboratorio, l’unico dell’Europa occidentale dove populisti e sovranisti governano insieme; rispetto al 4 marzo, l’identità populista ne è uscita indebolita, e la risposta è nel crocefisso che Salvini tiene in mano. Il sovranismo esalta le radici etnico-nazionali del paese mentre i populisti grillini sono un movimento di protesta soprattutto economico. La casa madre dei pentastellati è rappresentata da un sito internet: la loro identità è eterea, quella sovranista è materica. Salvini esalta le radici cattoliche della nazione”. A dispetto di qualche attrito con gli alti prelati… “In realtà, ciò lo rafforza nella costruzione del consenso, così come la partecipazione al Congresso veronese delle famiglie. Esiste una parte della Chiesa, soprattutto americana, che anela il ritorno alle radici autentiche del cristianesimo. Papa Francesco appartiene alla stagione di Barack Obama, non a quella di Donald Trump. E Salvini, con la sua scelta valoriale, evoca il linguaggio sui ‘valori cristiani’ che distingue il presidente degli Stati uniti, Bolsonaro in Brasile, Orban in Ungheria e Putin nel legame con la Chiesa ortodossa in Russia”. La parabola salviniana è assimilabile a quella renziana? “Paragonare i due è un errore. L’Italia fluida che ha ingoiato Salvini è la genesi della protesta che poi si è espressa il 4 marzo. Renzi ha ignorato le due ragioni che hanno portato alla vittoria di sovranisti e populisti: disuguaglianze e migranti. La risposta salviniana alle ragioni della rivolta è l’esaltazione delle radici, il che costituisce di per sé una narrativa, non la soluzione dei problemi. Se Salvini non elaborerà una risposta efficace, sarà anch’egli travolto”.

Il più criticato, il più votato. Su questo strano paradosso si sofferma il vicedirettore di Vanity Fair Malcom Pagani: “Il successo elettorale salviniano è frutto del lato cieco della sinistra che già ai tempi di Berlusconi riusciva a ignorare un fenomeno travolgente esorcizzandolo per il semplice fatto che non gli era simile, che non appariva abbastanza educato per i suoi standard. Lo snobismo che portava ad osservare Berlusconi come un parvenu mentre lui accumulava milioni di voti si perpetua con il leader leghista che mangia la trippa e d’estate va in vacanza a Milano Marittima, esattamente come milioni di italiani; questa cosa lui l’ha monetizzata apparendo volutamente più gretto e basico di quanto non sia. La politica, del resto, è anche teatro, rappresentazione di sé. La sinistra soffre di  un riflesso pavloviano: quando non sai come contrastare un fenomeno, gridi al fascismo. Sia chiaro: Salvini afferma cose volutamente sgradevoli, ha sdoganato temi e battaglie storiche della Lega che un tempo erano indicibili, oggi paiono di senso comune. Siamo alla caduta della vergogna. E’ impossibile essere d’accordo con lui su tutto, ma è altrettanto impossibile concordare con chi addita come fascista il diverso da sé”. Salvini è il primo vero leader della disintermediazione totale. “Chiama i cittadini ‘amici’, non ‘elettori’. Ha saputo abbattere ogni filtro, cosa che la sinistra non ha mai fatto: Renzi non è mai andato a Milano marittima ma si è chiuso nel palazzo con le pizze di cartone. Salvini invece sembra incastrato in un moto perpetuo senza sosta, gira l’Italia come facevano i politici Dc degli anni Cinquanta. Di Maio avrebbe fatto meglio a comportarsi da alleato fedele: quando si è spinto sullo stesso campo ne è uscito ridicolizzato. Perché il ‘politico’ puro esiste, e Salvini è certamente uno dei politici più formidabili degli ultimi quarant’anni. Ha la capacità di immedesimarsi nelle altrui richieste, esprime concetti semplici, a volte odiosi, a volte detestabili, sempre sospettabili di cinismo o di egoismo, ma dotati di una presa popolare enorme. Berlusconi aveva il vizio di forma del miliardario, lui no”.

E nel processo di disintermediazione con gli elettori gioca un ruolo decisivo la squadra di esperti informatici che anima quotidianamente la “Bestia”, sotto la sapiente guida di Luca Morisi. “Non si può comprendere il fenomeno Salvini senza considerare il potere di Internet che ha creato un mondo parallelo - afferma Roberto D’Agostino, fondatore di Dagospia, primo sito d’informazione online in Italia - L’inedita ascesa di Salvini, in tempi così rapidi, è stata resa possibile dal fatto che oggi l’informazione non viaggia sui tg delle ore 20 né sulla carta stampata. È chiaro che l’analisi non si esaurisce nella comunicazione: gli scenari trionfanti del populismo annoverano, a livello globale, passaggi cruciali come Brexit, la vittoria di Trump e l’exploit italiano del 4 marzo. Questi eventi sono, in breve, la risposta alla crisi d’identità prodotta dalla globalizzazione. La sinistra ha scambiato baci e bacetti con il capitalismo, oggi si è ridotta a paladina delle minoranze più o meno oppresse: gay, donne, migranti, neri. Su Twitter Gad Lerner, sconvolto dalla vittoria leghista, ha scritto che sarebbe colpa delle ‘classi subalterne’, proprio così. Insomma, è colpa degli zoticoni che non leggono i suoi libri. È la vecchia idea che il suffragio elettorale non si addice agli incolti. Queste menti illuminate un tempo potevano primeggiare perché la gente normale era passiva, non aveva strumenti per farsi sentire. Oggi invece siamo tutti attivi, abbiamo tutti diritto di parola nella piazza virtuale del web”. Salvini e il clero: lei ha scritto che, dopo Di Maio, il secondo sconfitto di questo voto è papa Francesco. “L’elemosiniere del Vaticano che riattiva la luce del palazzo romano occupato compie una provocazione, roba da gruppettari. Io avrei sognato un populismo di sinistra ma i cosiddetti progressisti sono rimasti arroccati in una torre d’avorio”. Oggi le leadership evaporano rapidamente, succederà anche a Salvini? “Vedo una grossa differenza rispetto a Renzi che era arrivato al 40 percento sborsando i famosi 80 euro. Il vicepremier leghista non ha distribuito mance, non si è intestato il reddito di cittadinanza, cavallo di battaglia grillino. Salvini si è guadagnato il consenso per i risultati delle politiche su immigrazione e sicurezza, e in un’epoca in cui il nazionalismo imperversa a livello globale, dal Canada all’India, ha fatto sentire le persone parte di una comunità. Il suo farsi interprete di un sentire profondo, e reale, potrebbe preservarlo dalla estemporaneità”.

Secondo Luca Ricolfi, professore di Analisi dei dati all’Università di Torino e presidente della fondazione Hume, “il risultato di Salvini conferma che gli italiani assegnano uno spazio ristretto a formule politiche più educate, moderate, come fu l’esperienza di Mario Monti e com’è oggi il partito di Silvio Berlusconi. C’è un massiccio apprezzamento per il modo diretto, e ancorato al senso comune, con cui Salvini si rivolge agli elettori. Non è soltanto un fatto di comunicazione. I vari esponenti politici sono in completa confusione, esprimono concetti astratti e poco comprensibili per la gente comune. Fanno eccezione soltanto Di Maio, che usa un linguaggio comprensibile ma paludato, e poi Salvini e Giorgia Meloni, capaci di maggior chiarezza”. La Lega ha espugnato alcune roccaforti della sinistra, ha primeggiato nelle periferie, ha vinto in luoghi simbolo della resistenza anti-salviniana. “La concretezza è la prima risorsa del leader leghista. Ha scelto temi molto sentiti dai cittadini e su cui solo lui, e Meloni, parlano chiaro, gli altri farfugliano: l’immigrazione e la domanda di sicurezza e legalità. Gli italiani, inoltre, non hanno creduto al racconto della crisi proposto dalle élites. Quando persone come me e lei ricordano che non possiamo sforare i conti e che non dobbiamo metterci contro l’Europa, questa posizione non appare credibile, la gente la rifiuta. I sovranisti lo hanno capito, tuonano contro la presunta austerity che in Italia non si è mai vista, Salvini addita un colpevole perché gli italiani non vogliono riconoscere le proprie responsabilità e i sacrifici che li attendono, meglio prendersela con l’Europa”. La dialettica con la Chiesa non pare aver penalizzato il leader leghista. “Al direttore di Repubblica che, ospite a Porta a Porta, lo incalzava su questo punto, Salvini ha replicato: ‘Io mi occupo degli ultimi tra gli italiani, sono pagato per questo’. Un politico, è il suo ragionamento, deve difendere gli interessi del popolo che va a rappresentare in Parlamento. La visione, cara a certi progressisti, secondo la quale dovremmo occuparci dell’umanità intera, non è condivisa. La maggior parte delle persone pensa che dobbiamo occuparci della nostra comunità, e poi, se avanza del tempo, di Burundi e Burkina Faso. Il papa è popolare nel mondo dei massmedia dove il politicamente corretto è ancora dominante, ma molti considerano questo pontefice come capo della sinistra e non della Chiesa. Non c’è niente di più politicamente corretto del papa, perciò l’industria della comunicazione tende a sopravvalutarne l’influenza”.

Non può essere tacciato di salvinismo lo scrittore Emanuele Trevi: “Provo una gioia un po’ assurda, lo ammetto. Il motivo è che alla vittoria della Lega ha fatto da contraltare la débâcle grillina, e tra i due nemici io ho scelto il secondo perché, per dirla con Flannery O’ Connor, i 5 Stelle sono persone che vivono in un mondo che dio non ha mai creato. Preferisco anteporre un principio di realtà: per quanto mi faccia orrore il pensiero di Salvini, riesco a concepirlo nella mia stessa realtà, mentre i grillini abitano un mondo altro dove regnano microchip e scie chimiche, si rincorrono chiacchiere da bar sull’economia, si diffonde una violenza quasi terroristica contro i vaccini. Per me questa è la fine della civiltà. I fascisti, in fondo, li abbiamo già conosciuti in passato, è possibile affrontarli sullo stesso terreno e poi sconfiggerli. E’ invece precluso il confronto con i Grillo e con i Trump: il loro obiettivo è sostituire la nostra realtà con una immaginaria. Così, tra i due nemici, scelgo quello fascista perché incarna un male eterno che in una prospettiva umanistica può essere abbattuto. Il mondo salviniano è abitabile contrastandolo, quello grillino è inabitabile”. 

·         Il Salvini pluri-indagato.

«Sequestro di persona»  Salvini: vogliono processarmi, rischio 15 anni. Pubblicato martedì, 17 dicembre 2019 da Corriere.it. Il tribunale dei ministri di Catania ha chiesto al presidente del Senato l’autorizzazione a procedere per sequestro di persona nei confronti di Matteo Salvini, all’epoca dei fatti ministro dell’Interno. La vicenda è relativa al blocco della nave Gregoretti con 131 migranti a bordo. A rivelarlo è stato questa sera lo stesso Salvini, ospite della trasmissione Fuori dal Coro di Rete Quattro condotta da Mario Giordano. «Rischio fino a 15 anni di carcere, ritengo che sia una vergogna che un ministro venga processato per aver fatto l’interesse del suo Paese»: ha commentato Salvini mostrando la notifica delle lettera a firma La Mantia. Sulla vicenda la Procura di Catania aveva chiesto l’archiviazione, di parere opposto invece il tribunale dei ministri. L’atto notificato a Salvini porta la data del 12 dicembre, secondo quanto ha dichiarato lo stesso Salvini.

Migranti, Salvini «ha abusato dei suoi poteri»: inviata al Senato la richiesta di autorizzazione a procedere. Pubblicato mercoledì, 18 dicembre 2019 da Corriere.it. Matteo Salvini «ha abusato dei suoi poteri provando della libertà personale 131 migranti a bordo dell’unità navale Gregoretti della guardia costiera italiana alle 00,35 del 27 luglio 2019». Eccolo l’atto di accusa del tribunale dei ministri di Catania contro l’ex titolare del Viminale, che ha già replicato: «Rischio fino a 15 anni , una vergogna». La richiesta di autorizzazione a procedere è stata inviata al Senato e ora dovranno essere i parlamentari a decidere se concedere il via libera. Salvini è accusato di aver «determinato consapevolmente l’illegittima privazione della libertà dei migranti, costretti a rimanere in condizioni psico fisiche critiche a bordo». Adesso bisognerà vedere che cosa decideranno di fare i 5 Stelle che all’epoca governavano con Salvini e dunque condivisero la sua linea. La vicenda riguarda la nave Gregoretti: il pattugliatore della Guardia Costiera era stato fermo nel porto militare di Augusta (Siracusa) dalla notte del 27 luglio con a bordo oltre 100 migranti soccorsi in mare fino al 31 luglio quando era arrivato il via libera allo sbarco. La Procura a settembre aveva ufficializzato la richiesta di archiviazione, ma aveva comunque trasmesso gli atti al Collegio per i reati ministeriali del Tribunale di Catania.

Migranti, Salvini sotto accusa per il blocco della nave Gregoretti. Di Maio: "Voteremo autorizzazione a procedere". L'atto d'accusa del tribunale dei ministri di Catania che chiede al Senato di autorizzare il processo all'ex ministro dell'Interno contestandogli il reato di sequestro di persona. Scontro tra ex alleati. A febbraio il Movimento si affidò a Rousseau. Alessandra Ziniti il 18 dicembre 2019. Bloccando a bordo della nave Gregoretti della Guardia costiera italiana 131 migranti Matteo Salvini " nella sua qualità di ministro dell'Interno, ha abusato dei suoi poteri". E' questa la motivazione con la quale il tribunale dei ministri di Catania chiede, per la seconda volta, al Senato di autorizzare il processo all'ex ministro dell'Interno contestandogli il reato di sequestro di persona. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio e capo dei Cinque Stelle annuncia: "Voteremo l'autorizzazione a procedere". E spiega, durante la trasmissione Porta a Porta: "Quando un anno prima bloccammo la Diciotti, era perché l'Europa non ci ascoltava. Facemmo la voce grossa e poi riuscimmo ad ottenere la redistribuzione in altri Paesi europei. Un anno dopo, la redistribuzione funzionava, quindi il blocco della Gregoretti non fu un'azione decisa dal governo, ma dal ministro dell'Interno Salvini. In questo caso l'interesse pubblico prevalente non c'era, fu un'azione personale, tanto che dopo li fece sbarcare. Noi voteremo contro l'interesse pubblico prevalente". I giudici del tribunale dei ministri di Catania, infatti, completata la loro istruttoria, sono giunti a conclusioni opposte a quelle del procuratore Carmelo Zuccaro che, come nel precedente caso della nave Diciotti, avevano chiesto l'archiviazione dell'indagine a carico di Salvini. E adesso toccherà proprio a Zuccaro formulare comunque il capo di imputazione e chiedere l'autorizzazione a procedere alla giunta delle immunità di Palazzo Madama che già a gennaio scorso aveva negato il nullaosta al processo. I tempi però sono cambiati. E Salvini lo sa. "Voglio vedere se i Cinque Stelle voteranno come nel caso Diciotti, visto che è esattamente la stessa fattispecie", si chiede oggi cercando di 'stanare' gli ex alleati. Allora il Movimento si divise, lanciò poi una consultazione su Rousseau, dove il 59% votò per salvare l'alleato leghista. "Rischio fino a 15 anni di carcere. Ritengo che sia una vergogna che un ministro venga processato per aver fatto l'interesse del suo Paese", l'affondo di Salvini, "indagato perché ho difeso la sicurezza, i confini e la dignità del mio Paese, incredibile". L'ex ministro, inoltre, rischia un analogo epilogo anche per il caso della nave dell'Ong spagnola Open arms, fatta sbarcare ad agosto grazie all'intervento della Procura dopo 19 giorni in mare e un duro pugno di ferro nel governo gialloverde. Nell'atto notificato a Salvini, che come sempre lo ha reso pubblico, i giudici del tribunale dei ministri circoscrivono i giorni in cui si sarebbe compiuto il reato dal 27 al 31 luglio, cioè il lasso di tempo in cui la nave Gregoretti che aveva preso a bordo 131 naufraghi salvati in parte da un peschereccio di Sciacca in parte da un gommone, è rimasta bloccata nel porto di Augusta senza che il Viminale desse l'autorizzazione allo sbarco nell'attesa che la commissione europea trovasse i Paesi disposti a farsi carico dell'accoglienza dei migranti. "In particolare - scrivono i giudici - il senatore Matteo Salvini, nella sua qualità di ministro, ha violato le convenzioni internazionali in materia di soccorso in mare e le correlate norme di attuazione nazionali non consentendo, senza giustificato motivo, al competente Dipartimento per le libertà civili e immigrazione di esitare tempestivamente la richiesta di Porto sicuro presentata formalmente dalla sala operativa del centro di ricerca e soccorso di Roma il 27 luglio. Salvini ha bloccato la procedura di sbarco dei migranti così determinando consapevolmente l'illegittima privazione della libertà personale di questi ultimi costretti a rimanere in condizioni psicofisiche critiche a bordo della nave Gregoretti ormeggiata al porto di Augusta fino al pomeriggio del 31 luglio". Il tribunale dei ministri contesta a Salvini il reato aggravato perché commesso da un pubblico ufficiale e con l'abuso dei poteri inerenti alle funzioni esercitate ma anche per essere stato commesso in danno di minori.

Da ilfattoquotidiano.it  il 19 dicembre 2019. “Chissà come voterà il M5s”. “Diremo sì all’autorizzazione a procedere contro di lui”. Salvini chiama, Di Maio risponde. Come ai tempi del governo Conte 1, anche perché i fatti in questione si riferiscono proprio quando al governo c’erano Lega e Movimento 5 Stelle. La questione è tutta politica ed è deflagrata dopo la notizia della richiesta di autorizzazione a procedere da parte del Tribunale dei ministri di Catania contro Matteo Salvini, accusato di sequestro di persona nell’indagine sulla nave Gregoretti, che fu fatta sbarcare il 31 luglio scorso, dopo 3 giorni in mare con 131 persone. È stato lo stesso leader della Lega a suggerire la strada da seguire. Perché il dubbio dell’ex ministro era proprio quello di capire come voteranno i componenti del Movimento 5 Stelle nella giunta per le Immunità di Palazzo Madama, convocata per giovedì 19 dicembre alle 13.30 con all’ordine del giorno il caso in questione. Un dubbio durato solo poche ore, nonostante un precedente storico non di poco conto. Per il caso Diciotti (precedente e molto simile a quello della Gregoretti), infatti, i colleghi senatori avevano sottratto Salvini al giudizio della magistratura, anche grazie al voto online sulla piattaforma Rousseau, che aveva sancito il no a procedere anche da parte del Movimento 5 stelle. Oggi però, con il Carroccio all’opposizione e il M5s al governo col Pd, gli equilibri sono cambiati. E Salvini lo sa: “La magistratura italiana butta soldi e tempo a perseguire me che ho agito nel pieno interesse del Paese sulla scorta di accordi internazionali e non persegue chi davvero delinque – ha detto – Sono curioso di vedere che posizione terrà il Movimento Cinque Stelle che sulla vicenda analoga della Nave Diciotti votò contro la richiesta del Tribunale dei Ministri”. La risposta è arrivata direttamente dall’ex collega di governo. “Quando bloccammo la Diciotti era perché non si ridistribuivano i migranti – ha detto Di Maio a Porta a porta – Il blocco della Gregoretti non fu un’azione decisa dal governo perché allora la redistribuzione era stata decisa: fu un’azione personale del ministro degli Interni”. Da qui la decisione del capo politico del Movimento: “Voteremo sì alla richiesta di autorizzazione a procedere contro Salvini”. Di Maio, poi, ha precisato ancora meglio la sua posizione: “Il caso Diciotti fu un atto di governo perché l’Ue non rispondeva e servì ad avere una reazione, che poi arrivò. Quello della Gregoretti, dopo un anno, fu invece un atto di propaganda, perché il meccanismo di redistribuzione era già rodato e i migranti venivano redistribuiti in altri Paesi Ue. È questa la differenza enorme tra i due casi, la differenza enorme tra la realtà e la bugia”. Non si è fatta attendere la controreplica della Lega, per voce del deputato ed ex sottosegretario al Viminale Nicola Molteni: “Il commento di Di Maio alla vicenda Gregoretti è da piccolo uomo. Più che l’onore potè la poltrona“. A questo punto, val la pena ricordare brevemente cosa successe e come si comportarono i protagonisti della vicenda a fine luglio 2019. Quando la Nave Gregoretti arrivò a largo delle coste siciliane con 131 migranti a bordo, l’allora ministro degli Interni Salvini ne impedì lo sbarco per oltre tre giorni, salvo poi concederlo in virtù dell’accordo già esistente con gli altri paesi europei sulla redistribuzione dei migranti. Erano gli ultimi giorni del governo Conte 1, i rapporti tra Lega e Movimento 5 Stelle erano lì lì per disfarsi del tutto. Sul caso Gregoretti, il premier Conte e il vicepremier Di Maio preferirono restare in silenzio, non commentando il comportamento dell’altro vicepremier. E quando a Di Maio chiesero un parere, l’attuale ministro degli Esteri disse: “Non si trattino i nostri militari su quella nave come pirati“, chiedendo “rispetto per loro”. Sottolineando poi che “l’Italia non può sopportare nuovi arrivi di migranti, noi abbiamo dato come Paese e quei migranti devono andare in Europa“. Su Salvini neanche una parola, il che venne letto dai retroscenisti politici come una sorta di vendetta per il sostegno della Lega al Tav. Dopo una settimana cadde il governo.

Luigi Di Maio, disastro Gregoretti: "Sì al processo contro Salvini", ma lo smentisce pure Toninelli. Libero Quotidiano il 19 Dicembre 2019. Ha annunciato il voto favorevole del M5s al processo Gregoretti contro Matteo Salvini, ma Luigi Di Maio rischia un'altra colossale figuraccia politica. Il leader grillino, dando il via libera al Tribunale dei ministri che ha accusato l'allora ministro degli Interni di "abuso di potere" sul caso dei migranti tenuti per giorni a bordo della nave della Guardia Costiera la scorsa estate al largo del porto di Augusta, ha sconfessato tutto il recentissimo passato dei 5 Stelle. Quand'erano al governo con la Lega, hanno infatti detto no al processo, del tutto simile, contro Salvini sul caso Diciotti, oggi fanno l'esatto opposto. Motivazione? Sulla Gregoretti, spiega Di Maio, Salvini avrebbe agito a titolo del tutto personale e senza alcuna emergenza in corso, essendo il sistema dei rimpatri tornato a suo dire perfettamente funzionante. Bene, è interessante ricordare come a luglio nei giorni del caso Gregoretti nessuno nel M5s disse nulla a Salvini. E anzi il ministro dei Trasporti in carica, il grillino Danilo Toninelli, tirava per la giacchetta Bruxelles: "Ora la Ue risponda, perché la questione migratoria riguarda tutto il Continente". Di fatto, una clamorosa smentita postdatata. Non a caso, dalla Lega, i commenti su Di Maio sono durissimi, anche dal punto di vista personale. "Un piccolo uomo - lo definisce Nicola Molteni, sottosegretario agli Interni insieme a Salvini e coinvolto, dunque, personalmente -. Più che l'onore poté la poltrona".

Matteo Salvini, il report sull'immigrazione che lo mette sotto accusa? Dietro ci sono i soldi di George Soros. Libero Quotidiano il 18 Dicembre 2019. Nell'ultimo anno l'Italia e l'Europa avrebbero svolto almeno 13 respingimenti illegali di migranti verso la Libia, delegando le operazioni di salvataggio delle barche in avaria a privati. È l'accusa che arriva nei confronti del nostro Paese - e riguardante l'esperienza di governo gialloverde - da un report della Forensic Oceanography, un ramo dell'agenzia con base alla Goldsmisths University di Londra. Tale report ha incrociato i dispacci del centro di ricerca e soccorso di Roma con quelli della Guardia costiera libica, oltre che con le testimonianze raccolte nei campi di detenzione in Libia. Emerge che l'Italia con Matteo Salvini al Viminale avrebbe applicato una pratica illegale, non limitandosi a fornire assistenza e supporto alla Guardia costiera libica, ma svolgendo un ruolo di centro di coordinamento sul salvataggio dei migranti. In particolare viene segnalato il caso risalente al 7 novembre 2018, quando 93 migranti furono presi a bordo dal Nivin e fatti sbarcare con la forza in Libia dopo essere rimasti dieci giorni in mezzo al mare. Ma che cos'è l'ente che accusa il governo italiano e da chi è finanziato? Se lo chiede giustamente Il Giornale, che trova diverse risposte interessanti. L'Agenzia di ricerca si occupa di indagini su casi di violazione dei diritti umani, con e per conto di comunità colpite da violenza politica, pubblici ministeri, gruppi di giustizia ambientale e organizzazioni dei media. La cosa più curiosa, scrive Il Giornale, riguarda i finanziamenti, che non arrivano solo dal Consiglio europeo della ricerca, ma anche da una serie di fondazioni politicamente schierate contro i sovranisti ed i porti chiusi. Tra queste non passa inosservata l'Open Society Foundations di George Soros, storico finanziatore del partite democratico americano. Senza dimenticare tutta una serie di Ong europee che ovviamente provengono da un mondo ultra-progressista: così è più facile capire perché piove l'ennesima accusa verso l'epoca del governo gialloverde.

Migranti, ecco chi finanzia il report contro i respingimenti di Salvini. L'agenzia accusa la linea tenuta dal Viminale quando Salvini era ministro: "C'è una strategia dietro casi illegali di respingimenti di massa". Ecco chi ha finanziato il report. Roberto Vivaldelli, mercoledì 18/12/2019 su Il Giornale. Respingimenti di massa illegittimi, contrari al diritto internazionale, proprio quando Matteo Salvini era al Viminale: come riporta Repubblica, è l'accusa contenuta in un rapporto redatto da Charles Heller di Forensic Oceanography, ramo della Forensic Architecture Agency basata alla Goldsmiths University of London. Secondo tale rapporto, il 7 novembre del 2018 scorso a coordinare l'operazione di salvataggio di un gruppo di migranti poi riportati in Libia dal mercantile Nivin battente bandiera panamense fu l'Italia; sempre secondo il dossier i 93 migranti, segnalati prima da un aereo di Eunavformed, poi dal centralino Alarmphone, furono presi a bordo dal Nivin e poi fatti sbarcare con la forza a Misurata dall'esercito libico dopo essere rimasti per dieci giorni asserragliati sul ponte del mercantile. Secondo il corposo rapporto sui migranti, l'Italia e l'Europa avrebbero applicato ben 13 volte nell'ultimo anno questo "modello di pratica", all'epoca del governo giallo-verde. Un'accusa molto grave, quella che proviene dal Forensic Oceanography e dal Forensic Architecture Agency. Ma che cos'è l'ente che accusa il governo italiano e da chi è finanziato? La Forensic Architecture, si legge, "è un'agenzia di ricerca, con sede presso Goldsmiths, Università di Londra. Intraprendiamo indagini spaziali e mediatiche avanzate su casi di violazione dei diritti umani, con e per conto di comunità colpite da violenza politica, organizzazioni per i diritti umani, pubblici ministeri, gruppi di giustizia ambientale e organizzazioni dei media". L'agenzia, si legge, ha come obiettio quello di "investigare in tutto il mondo violenze statali e corporative, violazioni dei diritti umani e di distruzione ambientale". L'agenzia utilizza un'indagine open source, attraverso la quale realizza e costruisce dei modelli digitali e fisici, animazioni 3d e piattaforme cartografiche. Un lavoro corposo, che necessita di approfondite ricerce e forse anche molti soldi. La cosa più curiosa che riguarda l'agenzia la si trova, infatti, alla voce "finanziamenti": oltre al Consiglio europeo della ricerca, troviamo una serie di fondazioni "liberal" che hanno un'agenda politica ben distinta, indubbiamente contraria alle politiche dei sovranisti sull'immigrazione e dei porti chiusi. Tra queste troviamo la Fondazione Oak, la David & Elaine Potter Foundation ma, soprattutto, l'Open Society Foundations del finanziere George Soros, storico finanziatore del partito democratico americano. Come abbiamo appurato in questa inchiesta, tramite la sua rete "filantropica" Soros inonda il nostro Paese di soldi per plasmarlo a sua immagine e somiglianza, e svela un progetto ben preciso che, al di là delle strenue difese dei progressisti, rischia di minare la sovranità dell'Italia. Tra il 2017 e il 2018, stando all'inchiesta pubblicata dall'agenzia Adnkronos, si parla di oltre otto milioni e mezzo di dollari versati nelle casse di quegli enti che si prefiggono come obiettivo la creazione di una società più aperta e accogliente. Insomma, Open Borders. Non solo. Come spiegano gli autori del Forensic Oceanography, "la nostra relazione è stata presentata nel contesto di molteplici casi legali relativi alla non assistenza in mare emersi dagli sforzi di una coalizione di Ong europee" tra le quali "l'Associazione Ricreative e culturale italiana (Arci), l'Associazione per gli Studi giuridi sull'immigrazione (Asgi), Boast, Boats4People, Centro canadese per la giustizia internazionale , Coordinamento e iniziative per i rifugiati e gli immigrati (Ciré), Federazione internazionale dei diritti umani (FIDH) , Gruppo d'informazione e sostegno degli immigrati (Gisti), Ligue belge des droits de l'Homme (LDH-Belgique), Ligue française des droits de l'Homme (LDH-Francia), Migreurop, Progress Lawyers Network, Réseau euro-méditerranéen des droits de l'Homme (REMDH) e Unione Forense per la Tutela dei Diritti Umani (Ufdu)". È da questo mondo ultra-progressista, dunque, che proviene l'ennesima accusa verso il governo italiano (epoca giallo-verde) e la politica dei porti chiusi.

Palazzo Chigi smentisce Salvini: “Mai discusso del caso in Consiglio dei ministri”. Redazione il Riformista il 9 Dicembre 2019. “La questione relativa alla vicenda della nave Gregoretti non figura all’ordine del giorno e non è stata oggetto di trattazione nell’ambito delle questioni varie ed eventuali nel citato consiglio dei ministri” del 31 luglio 2019 “né in altri successivi”. È quanto si legge in una nota di palazzo Chigi sul caso Gregoretti, firmata dal segretario generale di palazzo Chigi e relativa alla richiesta di autorizzazione a procedere per Matteo Salvini. Fonti Lega subito intervengono e riferiscono che “Per risolvere la vicenda Gregoretti ci furono numerose interlocuzioni tra Viminale, presidenza del Consiglio, ministero degli Affari Esteri e organismi comunitari. Il via libera allo sbarco fu annunciato dal ministro dell’Interno, appena conclusi gli accordi per la redistribuzione degli immigrati in una struttura dei vescovi italiani e in cinque paesi europei. Accordi raggiunti grazie a una intensa attività diplomatica”. La missiva è stata inviata l’11 ottobre scorso al Tribunale dei ministri di Catania, citata nella richiesta di autorizzazione a procedere per il leader leghista. Il Tribunale dei ministri di Catania chiede di procedere contro l’ex titolare dell’Interno, accusato di sequestro di persona nell’indagine sulla nave che fu fatta sbarcare il 31 luglio scorso, dopo 3 giorni in mare con 131 persone. Salvini, invece, sostiene che “la decisione da ministro fu condivisa con Conte e Di Maio. L’ho fatto da ministro e, se gli italiani lo vorranno, lo rifarò”. E su Twitter aggiunge: “Se vogliono mandarmi a processo, andrò a processo. E se mi condannano che me ne frega. Mi crea imbarazzo sapendo quanto costano questi processi alla collettività. Avvocati mi dicono che dovrei preoccuparmi, rischio fino a 15 anni”. Salvini ha anche attaccato Di Maio: “E’ un piccolo uomo”. Risposta del ministro degli Esteri: “Salvini ora fa la vittima. Lo vedo un po’ impaurito”. I grillini sarebbero pronti a votare a favore dell’autorizzazione a procedere. Dettagli e scontri che arrivano mentre la giunta delle immunità del Senato comincerà a discutere del caso Salvini-Gregoretti, Il presidente Maurizio Gasparri ha spiegato ad Agorà. “La giunta ha un termine di 30 giorni per prendere una decisione che poi passa all’aula, che entro altri 30 giorni, quindi diciamo entro la fine di febbraio, dovrà pronunciarsi. Il calendario è stato fissato in maniera molto serrata. Oggi daremo questo termine che scadra intorno al 3 – 4 gennaio. Dopodiché abbiamo fissato riunioni il giorno 8 gennaio alle ore 14, il 9 gennaio alle 8.30, Lunedì 13 gennaio alle ore 15.30 E poi altre riunioni durante quella settimana. “E si darà al senatore Salvini un termine di 15 giorni per o chiedere di essere sentito dalla giunta o per inviare una memoria scritta” ha concluso Gasparri. Noi, ha detto ancora Gasparri, “abbiamo fissato una possibile data di votazione sulla vicenda il giorno 20 gennaio, lunedì, alle ore 17. L’approdo in aula poi dipende dalla presidenza del Senato e dalla conferenza dei capigruppo. Io sono il relatore e farò una proposta alla giunta, ovviamente dovrò esaminare il carteggio che è arrivato ieri sera giunta”. Ieri il capo politico del Movimento 5 Stelle ha annunciato che sul caso Gregoretti sono pronti a votare per l’autorizzazione a procedere”.

Gregoretti, Claudio Durigon smonta Giuseppe Conte: "Ma cosa stava facendo il premier quel giorno?" Libero Quotidiano il 20 Dicembre 2019. Tiene ovviamente banco il caso Gregoretti, ultimo fronte giudiziario per Matteo Salvini, sulla cui autorizzazione a procedere il Parlamento voterà il prossimo 20 gennaio. Quanto sostengono Giuseppe Conte e Luigi Di Maio è noto: a differenza del caso Diciotti (quando il M5s e premier si schierarono contro la processabilità del leghista, allora ministro dell'Interno), sulla Gregoretti, Salvini avrebbe agito di sua esclusiva volontà. Spiegazione che fa acqua da tutte le parti. E proprio su queste lacune, ospite a Omnibus su La7, picchia duro Claudio Durigon. Nel mirino del leghista ci finisce il presidente del Consiglio: "Giuseppi non poteva non sapere, era impegnato a fare altro?", s'interroga retorico. Dunque, Durigon aggiunge: "Il governo aveva avuto il medesimo comportamento con altre imbarcazioni di migranti". Insomma, per smascherare Conte e Di Maio e la loro ipocrisia sulla vicenda Gregoretti ci vuole davvero poco.

Giustizialismo bipartisan: manette ai No Tav, prigione a Salvini. Piero Sansonetti il 19 Dicembre 2019 su Il Riformista. È possibile opporsi al blocco delle navi che soccorrono i migranti, senza chiedere l’arresto, o la condanna per reati gravissimi, di chi invece è favorevole al blocco? Seconda domanda: è possibile essere favorevoli alla Tav senza chiedere la prigione per chi si oppone alla Tav? Ecco, io per esempio sono per la piena accoglienza dei migranti, e depreco le posizioni dell’ex ministro Salvini, che considero reazionarie, sbagliate e anche, talvolta, poco umane: e tuttavia non credo che il senatore Salvini vada messo in prigione. Così come, dopo lunghi “pensamenti” e dubbi, sono fondamentalmente favorevole alla realizzazione della Tav, ma trovo del tutto insensato andare la mattina presto ad arrestare i leader del movimento che si oppone alla Tav. Ieri è stato il giorno del trionfo dell’idea bipartisan delle manette come strumento essenziale di lotta politica. Abbiamo saputo che il tribunale dei Ministri di Catania ha respinto la richiesta di archiviazione, saggiamente avanzata dalla procura di Siracusa, e ha chiesto al Senato l’autorizzazione a procedere contro Matteo Salvini che nel luglio scorso, quando era ministro dell’Interno, impedì per diversi giorni lo sbarco di un centinaio di migranti che erano stati soccorsi e trasportati a terra a bordo della nave Gregoretti, della Guardia costiera italiana. Il tribunale dei Ministri di Catania chiede che Salvini sia incriminato per sequestro di persona, e cioè lo paragona ai banditi che negli anni Ottanta rapivano le persone ricche – anche i bambini – per ottenere cospicui riscatti. La pena prevista per il reato contestato a Salvini è di 15 anni di prigione (e la prescrizione scatterà, con la legge attuale, non prima del 2035). I Cinque stelle l’anno scorso hanno negato l’autorizzazione a procedere, ma stavolta hanno annunciato che la daranno. Santa coerenza. Nella stessa giornata di ieri la polizia -su mandato della Procura di Torino – ha realizzato una vera e propria retata contro i leader del movimento no Tav. Ha arrestato i due principali leader del gruppo di estrema sinistra che si chiama Askatasuna. (Askatasuna è una parola della lingua basca: vuol dire libertà; ed è anche il nome di un partito politico nazionalista basco di estrema sinistra). 14 arresti in tutto. I più noti sono Giorgio Rossetto e Mattia Marzuoli, che sono tra i leader più in vista del movimento no Tav e che nel luglio scorso, insieme a qualche centinaio di attivisti, partecipano alla manifestazione notturna davanti ai cancelli del cantiere Tav a Chiomonte. È una manifestazione “estiva” che si svolge tutti gli anni. I nemici della Tav si riuniscono, sfilano, cantano, fanno casino. Qualche volta sparano un po’ di fumogeni. Non hanno mai né ferito né contuso nessuno. Neanche una sbucciatura. Non c’è mai stato scontro fisico con la polizia, che in genere resta dentro il recinto dei cantieri e risponde alle proteste tirando lacrimogeni. Ma i lacrimogeni vanno contro i manifestanti, non contro la polizia. Stavolta i leader dei no Tav sono accusati di avere incitato gli attivisti a danneggiare i cancelli, anzi, il cancello. Non è precisato quale danno sia stato provocato al cancello di ferro. Credo che sia stato notevolmente scrostato e che bisognerà riverniciarlo. I leader dei no Tav sono accusati di resistenza a pubblico ufficiale, perché non hanno rispettato l’ordine di andar via, di travisamento (reato del quale non so molto, e ignoro se abbia a che fare con la cattiva interpretazione dei testi) e – come si diceva – di danneggiamento.  Non sono accusati di lesioni o di reati violenti. I reati contestati (compreso il pericoloso travisamento) sono di luglio, cinque mesi fa, non si può dire che ci sia piena flagranza. Qual è la ragione dell’arresto? La ragione è quella di sempre: fare la faccia feroce, mostrare potere, dare spettacolo. Torniamo a Salvini. Ieri, giustamente, ha fatto fuoco e fiamme per la notizia della richiesta di autorizzazione a procedere contro di lui. L’ha messa giù con i suoi toni esagerati di sempre, parlando di dovere di difesa dei confini nazionali. Io, naturalmente, penso che non ci fosse nessun confine da difendere, e che ci sia una bella differenza tra le armate austriache del generale Radetzky e quei 131 poveri africani, affamati e disperati, sfuggiti ai lager libici. Penso però che Salvini abbia ragione a infuriarsi contro l’insensatezza della richiesta di autorizzazione contro di lui, che appare un gesto di intimidazione e di invasione di campo da parte di un pezzetto della magistratura. Sempre più arrogante. Subito dopo però Salvini ha chiesto alla Procura torinese di non essere lassista e di agire con rigore e durezza contro gli oppositori della Tav. Ecco, io vorrei solo che Matteo Salvini si fermasse un attimo piccolo piccolo a riflettere. Come fa a non capire che non si può essere garantisti con la politica del palazzo, e con se stessi, e poi superare il forcaiolismo di Travaglio, o di Caselli, quando le vittime dei manettari sono i suoi oppositori? Io sono certo che se si ferma a riflettere, e se per una volta rinuncia alla propaganda, capisce che le due posizioni sono incompatibili.

Nessuna differenza con il caso Diciotti. Ecco perché non regge l'accusa dei grillini. La vicenda «Gregoretti» è simile al precedente, è il M5s ad aver cambiato idea. Fausto Biloslavo, Venerdì 20/12/2019, su Il Giornale. Non c'è differenza fra il caso migranti di nave Diciotti e Gregoretti della Guardia costiera, ma per la prima Matteo Salvini, allora ministro dell'Interno, non è stato processato. Ora potrebbe esserlo con la scusa, poco attendibile, che la decisione di fermare per tre giorni i migranti a bordo della Gregoretti l'ha presa da solo. La stessa procura di Catania aveva chiesto l'archiviazione del caso. Il pm andrea Bonomo scriveva che «le dichiarazioni del prefetto Piantedosi (capo di gabinetto del Viminale) relativamente alla competenza e responsabilità per l'assegnazione del POS (punto di attracco sicuro), sono da ritenersi generiche e non idonee a modificare tutti gli altri dati acquisiti sia nel presente procedimento che in quello relativo al cosiddetto caso Diciotti». E anche per questo motivo non c'era alcun sequestro di persona, ma i giudici del Tribunale dei ministri, sempre di Catania, non erano d'accordo e hanno chiesto l'autorizzazione a procedere. Salvini viene accusato di «sequestro di persona aggravato e abuso di potere» perchè da ministro dell'Interno poteva «limitare o vietare l'ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale, salvo che si tratti di naviglio militare o di navi in servizio governativo non commerciale, per motivi di ordine e sicurezza pubblica». La motivazione suona come una beffa rispetto al dissequestro deciso ieri, dopo 5 mesi di stop, di Sea watch 3, la nave dei talebani dell'accoglienza tedesca comandata dalla famosa Carola Rackete. La capitana era stata rilasciata da una discussa ordinanza della Gip Alessandra Vella, che non considerava «nave da guerra» la motovedetta della Guardia di Finanza schiacciata contro il molo pur di sbarcare i migranti. Due pesi e due misure giudiziarie per incastrare il cattivone del Viminale, che avrebbe «privato della libertà personale» 131 migranti, compresi «alcuni minori non accompagnati» per ben tre giorni dal 27 al 30 luglio. La procura di Catania, nella richiesta di archiviazione, aveva specificato che «sin dall'inizio il Ministero dell'Interno aveva la volontà di assegnare il Pos e di farlo in tempi brevi, giustificando l'allungamento dei tempi () con la volontà () di ottenere una redistribuzione dei migranti in sede europea». La situazione si sbloccò con la disponibilità dei vescovi e di alcuni paesi Ue ad accogliere i migranti. Anche con nave Diciotti il Tribunale dei ministri di Catania inviò gli atti alla Giunta del Senato, che ha negato l'autorizzazione a procedere grazie alla maggioranza giallo verde. Adesso i grillini si sono alleati con il Pd e Luigi Di Maio vorrebbe mandare Salvini a processo nella speranza di eliminare un rivale politico per via giudiziaria. Palazzo Chigi, dove c'è sempre Giuseppe Conte, non a caso aveva inviato l'11 ottobre una nota in risposta al Tribunale dei ministri sostenendo che «la questione relativa alla vicenda della nave Gregoretti non figura all'ordine del giorno e non è stata oggetto di trattazione nell'ambito delle questioni varie ed eventuali nel citato consiglio dei ministri» del 31 luglio 2019 «né in altri successivi». Così i grillini possono usare il paravento della decisione «non collegiale» accusando Salvini, allora pure vice premier, di avere agito da solo. Fonti della Lega, al contrario, fanno sapere che per sbloccare il caso Gregoretti «ci furono numerose interlocuzioni tra Viminale, presidenza del Consiglio, ministero degli Affari Esteri e organismi comunitari».

"Le accuse a Salvini assurde. Quelle toghe sono tutte di Md". L'avvocato Valter Biscotti: "Il leghista ha agito legittimamente Perché non sono indagati Conte, Toninelli e Trenta?" Chiara Giannini, Venerdì 20/12/2019, su Il Giornale. L'avvocato Valter Biscotti, noto penalista che negli anni si è occupato di casi di cronaca nazionale, come quelli di Sara Scazzi e di Salvatore Parolisi, non ha alcun dubbio: l'accusa nei confronti di Matteo Salvini per i fatti di nave Gregoretti è assurda.

Avvocato, ma realmente il leader della Lega può essere condannato a 15 anni di carcere?

«La norma, ovvero l'articolo 605 del codice penale, prevede nell'ipotesi maggiore una pena fino a 15 anni. Ciò che è contraddittorio è che il capo della Procura di Catania, dottor Zuccaro, già nel momento in cui è arrivata la notizia di reato ha ritenuto la non sussistenza di ipotesi di reato, compreso il sequestro di persona, cosa accaduta anche per il caso Diciotti».

Secondo lei c'è un accanimento nei confronti di Salvini?

«La singolarità di questa storia è che i giudici del tribunale di Catania, che sono gli stessi del caso Diciotti e che sono il dottor Nicola La Mantia, che è un giudice fallimentare, il giudice Roberto Corda, penale e la dottoressa Sandra Levanti che è civile, sono tutti di Magistratura democratica. Non si può quindi non porsi il problema soprattutto se si va a vedere la locandina dell'ultimo congresso di Magistratura democratica che riporta una vignetta di Vauro che si riferiva alla questione dei migranti. Inoltre, nella relazione introduttiva di questo congresso tenuta dalla segretaria generale di Magistratura Democratica Mariarosa Guglielmi si legge: Con le vicende delle navi Aquarius e Diciotti abbiamo scritto una pagina nuova per il nostro Paese imboccando un percorso sconosciuto e inquietante. Il problema è che forse la decisione di questi tre giudici può essere influenzata dall'appartenenza a una corrente il cui pensiero è opposto a quello dell'ex ministro».

Come può difendersi il Capitano?

«Le possibilità di difesa di Salvini sono enormi. Più volte nel periodo in cui la nave non poteva entrare in porto, funzionari di polizia giudiziaria sono saliti per verificare lo stato delle persone. Questo, quindi, fa sì che il sequestro di persona sia meno credibile. Anche perché se ci fosse stata l'ipotesi di reato i funzionari di polizia avrebbero avuto l'obbligo di fermarlo».

Quale altro punto è a suo favore?

«Il caso Gregoretti è avvenuto sulla base del Decreto sicurezza bis, che essendo del 14 giugno aveva forza di legge. Nello stesso si dice chiaramente che il ministro dell'Interno può limitare l'ingresso, la sosta o il transito delle navi in acque territoriali con provvedimento da adottare di concerto con il ministro della Difesa e il ministro delle Infrastrutture e dei trasporti informando il Presidente del Consiglio. Non mi pare di aver visto, all'epoca, proteste relative al comportamento di Salvini da parte di questi soggetti né prima, né dopo il 31 luglio. Perché, dunque, la magistratura non ha indagato anche Conte, la Trenta e Toninelli? Dopo il Decreto sicurezza bis l'atto dell'ex ministro è politico e, quindi, insindacabile sul piano giudiziario».

Salvini: «Io a processo?  Con me in tribunale ci saranno milioni di italiani». Pubblicato venerdì, 20 dicembre 2019 su Corriere.it da Marco Cremonesi.

«Si rimangiano tutto quello che avevano detto e fatto»

Luigi Di Maio?

«Credo che tutta la dignità l’abbia messa nel decreto del 2018...». Matteo Salvini ha appena fatto una passeggiata nel centro di Bologna con la candidata presidente dell’Emilia-Romagna, Lucia Borgonzoni. Ed è ancora indignato per i metal detector all’ingresso della basilica di San Petronio: «Sa perché? In un affresco del Quattrocento di Giovanni da Modena, Maometto è raffigurato all’inferno. Cose da pazzi...».

Ma sembra indignato anche per le dichiarazioni di Conte e Di Maio sulla vicenda della nave Gregoretti.

«A me dispiace quando ci sono persone che perdono l’onore. È chiaro che per non litigare con il Pd loro si rimangiano tutto quello che avevano detto e fatto».

Perché parla di onore?

«Guardi, io in questi mesi sto conoscendo la doppia faccia di Conte e Di Maio. Però, se dovessi dire che sono sequestratori o che so io, non lo farei. Se loro invece ritengono che io sia un delinquente che merita 15 anni di carcere... Ma io li attendo al varco».

Su che cosa?

«Sul decreto sicurezza. Il Parlamento aveva tolto l’attenuante per “tenuità del fatto” in caso di aggressioni a pubblici ufficiali. Ora, mi dicono che la riporteranno nella legge. Ma io mi metto nei panni di qualsiasi poliziotto o carabiniere. E se provano a ridare fiato ai balordi e ai violenti, a quel punto si muove il Paese».

Il 20 gennaio si voterà l’autorizzazione a procedere nei suoi confronti. Di Maio ha detto che i 5 stelle sono a favore. È preoccupato?

«È una cosa surreale. Per un certo verso, anche se gli avvocati mi suggeriscono il contrario, sarei curioso di finire in Aula. Comunque, se decideranno, processo sia: idealmente in quel tribunale ci saranno con me milioni di italiani. Quanto a Di Maio, ha cambiato idea sui miei processi come l’ha cambiata su tante altre cose».

Perché il processo sarebbe surreale? È la legge.

«È normale che si spendano soldi perché ho difeso i confini? Io sarei peggio di uno stupratore: per lo stupro la pena è di 12 anni, per il sequestro gli anni sono 15. Detto questo, noi stiamo preparando tutta la documentazione. Al termine dei quattro giorni di presunto sequestro ottenemmo che 5 Paesi europei si suddividessero gli immigrati. Una cosa è certa: lo rifarei. E se gli italiani lo vorranno, lo rifarò. Sempre che non ci siano stranezze legate alla legge Severino».

A proposito, ci sono novità?

Giancarlo Giorgetti dice che siete pronti a discutere di «governi di scopo». «Chiariamo: dopo Conte c’è soltanto il voto. Appena salta questo governo, l’unica via sono le elezioni e il prossimo premier sarà scelto da un parlamento nuovo. Altro paio di maniche è dire: ascoltate. Ascoltate Confindustria, Coldiretti, i sindacati, le associazioni... E se avanza tempo, anche le opposizioni: evitate di peccare di arroganza, oltre che di ignoranza».

Il referendum sul taglio dei parlamentari accelera o rallenta il ritorno alle urne?

«Non accelera e non rallenta. I problemi dell’Italia sono l’economia e la burocrazia. Non saranno due mesi in più a cambiare le cose. L’urgenza però c’è, la manovra rallenterà il Paese. Ha visto? Per la sugar-tax la Coca-Cola ha già bloccato una cinquantina di milioni di investimenti».

La Lega voterà il taglio?

«Certo. E ci auguriamo che ci sia anche il nostro referendum a favore del maggioritario, la Consulta si esprimerà a gennaio. Un mese ricco di appuntamenti interessanti...».

Silvio Berlusconi ieri però ha detto che lei sulla legge elettorale non «sembra avere le idee chiare».

«Ma come? Noi abbiamo appunto presentato un referendum per un maggioritario secco. Più chiaro di così... Ha visto nel Regno Unito? Si è votato e a sera già si sapeva chi avrebbe governato. Poi, certo, io non voglio fermare l’Italia per due anni con la discussione sulla legge elettorale».

Domani la Lega Nord va a congresso. A cosa serve?

«Perché la Lega è ormai un unico soggetto nazionale e nel corso del 2020 ci saranno tante elezioni. L’anno prossimo ci saranno anche i congressi locali per eleggere tutti gli organi del nuovo partito». Lei resterà segretario? «Per il momento, sì. Poi, quando tutto sarà andato sui binari, non avrebbe senso che restassi segretario di due partiti. Mentre i 5 stelle si affidano ai click di Rousseau e il Pd evapora, noi siamo ancora un partito di partecipazione in cui il popolo conta». Gianni Fava ha detto che l’opposizione interna non parteciperà al congresso perché le si tappa la bocca. «Ma dove? Chi ha voglia di lavorare aveva spazio quando eravamo al 3%. Ora che siamo al 30%, veda un po’ lei». Nello statuto resta l’indipendenza della Padania. «Che la Lega non sia più per la secessione, credo non ci sia bisogno di sancirlo».

L’auto-garantismo di Salvini, attacco alla magistratura: “Soldi sprecati per la mia inchiesta”. Ciro Cuozzo il 13 Dicembre 2019 su Il Garantista. “Quelli che mi stanno indagando per sequestro di persona o per spreco di denaro pubblico stanno perdendo tempo e sprecando soldi”. Garantista con se stesso e con il suo partito, la Lega, giustizialista quando invece si tratta di commentare i ‘guai’ giudiziari altrui. Matteo Salvini non si smentisce e al termine della sua visita nel carcere di Poggioreale a Napoli attacca la magistratura per l’inchiesta sui voli di Stato dove il segretario del Carroccio è indagato per abuso d’ufficio dalla Procura di Roma per 35 voli di Stato, risalenti al periodo in cui era ministro dell’Interno. “Ognuna di quelle presenze era istituzionale” commenta Salvini a margine della conferenza stampa tenuta poco dopo mezzogiorno all’Holiday Inn. “Se poi dopo aver inaugurato la sede di Corleone incontravo anche i cittadini, era un lavoro in più di cui mi facevo carico io. Che però venga contestato al ministro che si occupa di polizia di usare l’aereo della polizia per andare a incontrare poliziotti o a inaugurare caserme o commissariati credo sia surreale”. Poi l’attacco ai magistrati che indagano su di lui: “Temo che qualcuno stia sprecando denaro pubblico per fare indagini che finiranno nel nulla ma che costano migliaia di euro al contribuente italiano. Se avessi preso l’aereo di linea, con tutto lo staff, l’Italia avrebbe pagato molto di più”.

L’ATTACCO A CHI HA SCONTATO 22 ANNI DI CARCERE – Dopo il profilo garantista relativo alle vicende giudiziarie della Lega, Salvini, così come avvenuto con altre inchieste (Bibbiano e Riace e l’omicidio Cucchi) indossa nuovamente i panni del giustizialista e inizia ad attaccare tutti, anche chi, come Pietro Ioia, ha scontato 22 anni di carcere per spaccio di droga e nei giorni scorsi è stato nominato dal comune di Napoli garante dei detenuti della città partenopea. “E’ uno schifo la sua nomina fatta da quel genio di de Magistris contro cui la Lega ha fatto e farà ricorso in ogni sede possibile e immaginabile. Se uno è stato in carcere per spaccio di droga, non penso possa garantire nessuno. Mi sembra l’ennesima scelta politica di de Magistris, per cui in molti gridano alla vergogna”. “Chi sbaglia paga però a tutti va data una seconda chance, certo. Mi sembra che il signore scelto da de Magistris – ha sottolineato – abbia tutt’altra caratura. Al bando, a quanto mi hanno detto, c’erano professori di scuola, ex direttori di carcere e uno mi sceglie il paladino dell’abuso dal parcheggio alla droga. Chiamerò oggi stesso il perfetto perché, anche se non sono più ministro dell’Interno, non si può allentare la presa”.

NIENTE VISITA AI DETENUTI – Salvini nel carcere di Poggioreale ha incontrato solo gli agenti della polizia penitenziaria e il direttore Maria Luisa Palma. Nessuna visita invece ai detenuti, stipati come sardine in celle dove spesso convivono anche 12 esseri umani  (non animali). Il segretario della Lega rimarca i numeri raccapriccianti del penitenziario napoletano (2117 detenuti rispetto a una capienza di 1644) e si schiera sempre al fianco delle ‘guardie’. “Bisogna ridurre la forbice tra sovraffollamento, circa 500 detenuti in più, e lo scarso numero di poliziotti presenti, ne mancano almeno 150”.

TRIS DI SENATORI GRILLI – Sull’arrivo tra le fila del Carroccio dei tre grillini Ugo Grassi, Stefano Lucidi e Francesco Urraro, Salvini respinge le accuse, condanna le parole di Conte e Di Maio (“ma non li querelo, almeno per ora) e smentisce qualsiasi accordo per una poltrona: “Io stimo doppiamente chi passa dalla maggioranza all’opposizione. Non lo fanno perché gli abbiamo promesso qualcosa di garantito, l’hanno fatto perché non ce la facevano più, dei Bonafede e della clamorosa incapacità dei Cinquestelle. Sono dichiarazioni squallide quelle di Di Maio e di Conte. I tribunali italiani sono già intasati, per cui querelo solo nei casi gravi. Se vanno avanti a parlare di mercato delle vacche, di tanto al chilo, sarò costretto a farlo”.

“CONTE SI RICORDI CHE E’ PREMIER” – “Si dovrebbe ricordare che non fa il battitore d’asta, ma il presidente del Consiglio di una potenza mondiale. La sintesi dell’ultima intervista è: state al governo con noi perché abbiamo le poltrone, chi ve lo fa fare di andare all’opposizione” ha commentato Salvini.

BENEDIZIONE CALDORO – In vista delle Regionali  in Campania, Salvini benedice la candidatura di Stefano Caldoro avanzata nelle scorse settimane da Silvio Berlusconi: “Quando ha governato, lo ha fatto positivamente. Fosse quello il nome, non avrei nulla da eccepire”. Parole diverse invece l’ex sindaco di Cosenza Mario Occhiuto, la cui candidatura a Governatore non è stata approvata dalla Lega: “Non ho il titolo io a dare patenti di bocciatura o promozione. In Calabria ho fatto un ragionamento ad alta voce: il comune di Cosenza è stato dichiarato in dissesto, non è il miglior biglietto da visita. Se la Corte dei Conti dichiara in dissesto il Comune per tre anni, c’è qualcosa di oggettivo. Non è antipatia di Salvini per Tizio o Caio”.

Indagato Salvini: "Voli di Stato a fini privati". La procura di Roma ha già trasmesso gli atti al Tribunale dei Ministri. Da verificare se i viaggi istituzionali dell'ex ministro coincidevano con appuntamenti elettorali. Maria Elena Vincenzi il 12 dicembre 2019 su La Repubblica. Sono 35 i viaggi sospetti per i quali l'ex ministro dell'Interno Matteo Salvini è indagato. Il reato che gli viene contestato dai pm romani è abuso d'ufficio. Quelle trasferte erano già finite nel mirino della Corte dei Conti che, pur archiviandolo perché non c'era danno erariale, le aveva considerate illegittime e per questo aveva trasmesso alla procura di Roma. Ora da piazzale Clodio le carte sono state mandate al tribunale dei Ministri. La Corte dei Conti si interessò della vicenda dopo l'inchiesta di Repubblica sugli abbinamenti di molti appuntamenti istituzionali di Salvini in giro per l'Italia con comizi e altre manifestazioni di partito nella stessa zona. Viaggi effettuati a bordo di aerei in dotazione alla polizia o ai vigili del fuoco. L'uso di questi velivoli venne ritenuto illegittimo dai giudici contabili perché i mezzi della polizia e dei pompieri sono riservati allo svolgimento di compiti istituzionali o di addestramento e non ai cosiddetti voli di Stato, per cui vige un'altra normativa.

Giovanni Bianconi per corriere.it il 12 dicembre 2019. Trentacinque voli di Stato già considerati «illegittimi» dalla Corte dei conti diventano un possibile «abuso d’ufficio» contestato all’ex vicepremier ed ex titolare del Viminale Matteo Salvini, indagato dalla Procura di Roma che ha trasmesso gli atti al tribunale dei ministri. Senza chiedere l’archiviazione dell’accusa, come avviene per i casi in cui non si ravvisano ipotesi di reato (come avvenuto per il permesso di sbarco negato alla nave Alan Kurdi), ma proponendo di svolgere approfondimenti. Bisogna verificare, attraverso l’acquisizione di documenti e testimonianze, se l’illegittimità rivelata dalla magistratura contabile ha un rilievo penale, ma la legge prevede che il fascicolo venga inviato al collegio per i reati ministeriali «omessa ogni indagine». Che invece dev’essere svolta dall’apposita sezione del tribunale, per verificare se si trattò di un abuso, di un eventuale peculato, oppure niente che possa mandare il leader leghista sotto processo. La vicenda prende spunto da un’inchiesta del quotidiano «la Repubblica» sugli abbinamenti di molti appuntamenti istituzionali di Salvini, in giro per l’Italia, con comizi o altri manifestazioni di partito nella stessa zona, subito prima o subito dopo; sfruttando così gli impegni governativi per svolgere propaganda elettorale. Muovendosi, ogni volta, con aerei o elicotteri del Dipartimento della Pubblica sicurezza o dei Vigili del fuoco. Come quando, il 4 gennaio scorso, l’allora ministro volò da Milano a Pescara per un vertice sulla sicurezza che coincideva con l’apertura della campagna elettorale in Abruzzo. O quando, tra il 10 e l’11 maggio, si mosse da Roma a Reggio Calabria e poi a Platì per una cerimonia antimafia, trasferendosi poi a Catanzaro dove tenne un comizio, quindi a Napoli per una conferenza stampa su alcuni arresti e infine a Milano per l’adunata degli Alpini. La Corte dei conti ha svolto le proprie verifiche e, nel settembre scorso, ha archiviato la pratica perché i costi sostenuti per l’utilizzo degli apparecchi «non appaiono essere palesemente superiori a quelli che l’Amministrazione avrebbe sostenuto per il legittimo utilizzo di voli di linea da parte del ministro e di tutto il personale trasportato al suo seguito». Nessun danno erariale, quindi. Tuttavia l’uso di quegli aerei ed elicotteri fu considerato illegittimo perché secondo decreti e regolamenti i mezzi della polizia e dei pompieri sono riservati «allo svolgimento di compiti istituzionali o di addestramento, e non ai cosiddetti “voli di Stato”». Per i quali vige un’altra normativa che ne restringe l’uso alle cinque alte e cariche dello Stato (presidente della Repubblica, delle due Camere, del Consiglio dei ministri e della Corte costituzionale), «salvo eccezioni che debbono essere specificamente autorizzate». Nei caso dei 20 voli con l’aereo P.180 e dei 14 con un elicottero del Dipartimento di Ps, più uno sul P.180 dei Vigili del fuoco, non risulta alcuna autorizzazione. E gli apparecchi usati da Salvini «sono stati acquistati per finalità prettamente operative, non per il trasporto di autorità e neanche per agevolate lo svolgimento della loro attività istituzionale». Di qui, secondo la magistratura contabile, «l’illegittima scelta di consentire l’uso dei menzionati velivoli per la finalità del trasporto del ministro dell’Interno e del personale al seguito». E la trasmissione del fascicolo alla procura di Roma. A prescindere dalla difficoltà di sindacare sull’agenda di un ministro, e quindi dalla reale possibilità di verificare se gli appuntamenti istituzionali di Salvini fossero funzionali a quelli di partito o viceversa, gli accertamenti sollecitati dai pm coordinati dal procuratore aggiunto Paolo Ielo riguardano soprattutto le prassi normalmente seguite nell’uso degli aerei delle forze di polizia. Per stabilire se con l’utilizzo di quei mezzi il leader leghista abbia provocato un ingiusto danno a qualcuno (a parte quello economico per lo Stato, già escluso) o un ingiusto vantaggio per sé.

Matteo Salvini indagato per abuso d'ufficio: nel mirino 35 voli di Stato, la notizia sul Fatto Quotidiano. Libero Quotidiano il 12 Dicembre 2019. Matteo Salvini indagato per abuso d'ufficio. L'inchiesta in questione è quella su alcuni voli di Stato utilizzati dal leader della Lega quando era ministro dell'Interno. A scriverlo per primo, guarda caso, è il Fatto Quotidiano che parla di "verifiche su 35 viaggi". La Procura di Roma, dopo aver ricevuto il fascicolo dalla Corte dei conti, ha iscritto Salvini nel registro degli indagati e ha trasmesso le carte al Tribunale dei ministri, competente a indagare su eventuali reati commessi nell'esercizio delle funzioni ministeriali. "È a questo organo - fa sapere il quotidiano di Marco Travaglio - che spetta il compito di acquisire documentazione e atti, per poi decidere se archiviare o procedere. La vicenda riguarda alcune trasferte dell'ex ministro a bordo di velivoli di Polizia e Vigili del fuoco. Alcuni voli sono avvenuti su un Piaggio P-180, un bimotore noto come 'la Ferrari dei cieli per i suoi arredi di lusso". Una vicenda su cui la Corte dei Conti aveva già confermato l'archiviazione, ma che il Fatto ha deciso di riportare alla ribalta. Sarà una coincidenza? Per il Giornale non proprio. Quest'oggi, infatti, il quotidiano diretto da Sallusti ha notato non pochi collegamenti tra la magistratura e i Cinque Stelle, Movimento per cui il Travaglio nazionale nutre evidente stima. 

Inchiesta sui voli di Stato, Salvini si difende: «Non giravo l’Italia per vacanza». Pubblicato giovedì, 12 dicembre 2019 da Corriere.it. Roma «Leggo che sono inquisito. Ma tutti i miei voli di Stato erano per motivi di Stato, da ministro dell’Interno, per inaugurare caserme. Mai fatto voli di Stato per andare in vacanza, quello lo fanno altri» dice il giorno dopo Matteo Salvini. E aggiunge: «Non vedo l’ora di andare nei tribunali a difendermi. Sono accusato di tutto, querele, abuso di ufficio, sequestro di persona: l’unica cosa che mi dispiace è che si spendano migliaia e migliaia di euro per indagare su Matteo Salvini e ci sono tanti ’ndranghetisti in giro per strada». Il tono è quello di sempre, ma l’accusa non è lieve: da ministro dell’Interno, Salvini, avrebbe commesso un illecito, servendosi di veicoli istituzionali riservati alle cinque più alte cariche dello Stato (presidente della Repubblica, premier, presidenti di Camera, Senato e Corte costituzionale) per presenziare a impegni di partito o partecipare a trasmissioni televisive. Un arbitrio sia secondo i magistrati della Corte dei conti, che pure avevano archiviato la sua posizione dal punto di vista contabile, sia per i loro colleghi della magistratura penale che, dopo averlo iscritto sul registro degli indagati con la contestazione di abuso d’ufficio, ora hanno inviato le carte al Tribunale dei ministri per le verifiche di competenza. E ieri sulla vicenda è intervenuto l’ex alleato e attuale ministro degli Esteri, Luigi Di Maio: «Sapete qual è il colmo? Che ci sono persone che si fanno comprare da Matteo Salvini nelle stesse ore in cui il leader della Lega viene indagato per presunto abuso di ufficio legato all’uso dei voli di Stato quando era ministro». Gli spostamenti di Salvini erano stati documentati da un’inchiesta di Repubblica. Il 4 gennaio scorso, l’ex ministro era volato da Milano a Pescara per un vertice sulla sicurezza che gli aveva lasciato il tempo di aprire la campagna elettorale abruzzese. E così, per fare un altro esempio, fra il 10 e l’11 maggio alla trasferta per una cerimonia antimafia aveva potuto abbinare un comizio a Catanzaro, per poi presenziare a un appuntamento a Napoli (una conferenza stampa per alcuni arresti) e tornare nuovamente a Milano. Sulla vicenda era intervenuto il Dipartimento di pubblica sicurezza per smentire irregolarità. A sostegno di Salvini vi era la questione della tutela della sua incolumità. All’ex ministro, veniva spiegato, era «attribuito il primo livello di protezione che gli dà diritto all’utilizzo di aerei di Stato al pari dei soggetti sottoposti al medesimo livello di sicurezza». Posizione rilanciata dal senatore di Forza Italia Renato Schifani, che esprime perplessità: «Non vedo quale reato abbia potuto commettere».

Gianluca Di Feo per “la Repubblica” il 13 dicembre 2019. «Tutti i miei voli di Stato erano per motivi di Stato, da ministro dell' Interno, per inaugurare caserme. Mai fatti per andare in vacanza ». Con una battuta da tweet, Matteo Salvini si arrocca in una difesa che nega la verità sostanziale e formale dei fatti. L'inchiesta di Repubblica nello scorso maggio ha svelato il segreto dell'ubiquità del leader leghista, l'arcano che gli permetteva di inanellare una sfrenata sequenza di appuntamenti elettorali, spuntando nello stesso giorno agli angoli opposti della Penisola: aveva trasformato la flotta aerea della polizia nel suo taxi personale. Trentacinque trasferte alate. Ventuno con i lussuosi bimotori Piaggio 180, chiamati "le Ferrari dei cieli". Quattordici con gli elicotteri del Corpo. In un caso, poiché non c'erano mezzi della polizia, era addirittura salito a bordo di un velivolo dei Vigili del Fuoco. Tutte queste spedizioni però erano state pianificate con una scaltrezza particolare: un'agenda smaliziata abbinava sempre a un evento istituzionale una raffica di comizi. In Abruzzo, in Sicilia, in Calabria, in Sardegna, in Puglia, nelle Marche, in Campania. In altre occasioni, solcava i cieli dopo impegni ufficiali per raggiungere in tempo utile gli studi tv di Barbara D'Urso e poi cenare ad Arcore con Silvio Berlusconi. Oppure, come il 15 ottobre 2018, schizzava a Palazzo Chigi dopo sei comizi altoatesini e una convention brianzola tutti di fila. Un vero furbetto d'alta quota. Salvini ovviamente giustifica il suo operato: «Se il ministro dell'Interno, che deve lottare contro mafia, camorra e 'ndrangheta, prende l'aereo della polizia per andare a consegnare a una parrocchia di una comunità dimenticata dalla regione come Platì, una villa confiscata alla 'ndrangheta e poi prima di tornare a Roma passa per Catanzaro (per un comizio leghista, ndr), ha diritto di farlo o no?». I magistrati ritengono di no. La prima a sostenerlo è stata la procura della Corte dei Conti, che ha escluso il danno erariale ossia il fatto che quelle missioni ad alta quota avessero un costo straordinario, ma ha ritenuto «illegittima la scelta di consentire l'uso dei velivoli per il trasporto del ministro e del suo staff». Adesso anche la procura di Roma ha iscritto Salvini nel registro degli indagati: trattandosi di un membro del governo, deve occuparsene il Tribunale dei ministri che definirà l' eventuale reato. In passato, il Tribunale ha ritenuto che in un caso simile - gli elicotteri dei carabinieri impiegati dall' allora sottosegretaria Michela Vittoria Brambilla - si potesse configurare l'abuso d' ufficio e il peculato. Ma poi il Parlamento ha negato l' autorizzazione a procedere. Nessun ministro degli Interni, pur avendo gli stessi compiti nella lotta alla criminalità e identiche misure di protezione, aveva mai sfruttato tanto i bimotori della polizia. E quelli contestati a Salvini non sono voli di Stato. La definizione infatti riguarda solo i viaggi dei jet del 31° stormo dell' Aeronautica, che vengono autorizzati da un ufficio della Presidenza del Consiglio. Dopo l' andazzo allegro dello scorso decennio, con Airbus spediti al Gran Premio di Monza e un viavai di Falcon che scaricavano a Villa Certosa musicanti e ballerine, sono stati introdotti criteri molto rigidi e una trasparenza totale. I mezzi del Corpo invece sfuggono a questi controlli e - secondo il regolamento varato nel 2015 - possono essere usati straordinariamente da uomini di governo solo «in presenza di comprovate ed inderogabili esigenze di trasferimento nelle ipotesi in cui si richieda un'attività di coordinamento e direzione politico/ operativa». Erano "inderogabili" le esigenze di Salvini, che andava a Pescara unendo un comitato per l' ordine pubblico e l'apertura della campagna elettorale decisi mesi prima? C'è però un altro aspetto di questa saga che non va dimenticato. Quella commistione tra appuntamenti di Stato e di partito, tra ministro dell' Interno e leader leghista, non era solo il pretesto per salire gratis su aerei ed elicotteri ma serviva a costruire un messaggio propagandistico molto più subdolo: fondere i due ruoli, schiacciando l' immagine istituzionale su quella di leader leghista. Lo stesso disegno perseguito indossando le uniformi delle forze dell' ordine in ogni apparizione pubblica, persino in Parlamento, nel tentativo di presentarsi come il sommo tutore dell' ordine. Sorvolando però su leggi e regolamenti. Dopo gli abusi del passato le norme impongono che gli aerei possano essere usati solo per "inderogabili esigenze di trasferimento".

Matteo Renzi e Roberto Maroni, il sospetto di Minzolini: due inchieste perché sono nemici di Giuseppe Conte? Libero Quotidiano il 12 Dicembre 2019. Giuseppe Conte fa terra bruciata intorno a sé. A rilevare due coincidenze, che poi fatalità potrebbero non essere, è Augusto Minzolini. Sulle colonne del Giornale il retroscenista riporta due fatti avvenuti entrambi in un solo mese: "Sarà un caso o siamo di fronte a possibili esempi di giustizia ad orologeria", ma nel giro di breve tempo "due inchieste hanno investito chi rompe le scatole all'attuale equilibrio dentro e fuori il governo". Ad essere finito nel mirino del premier bis è Matteo Renzi e Italia Viva con le indagini e le perquisizioni sulla Fondazione Open. Non solo perché "i riflettori dei magistrati sono tornati su Matteo Salvini e la Lega con l'iniziativa giudiziaria contro l'associazione 'Maroni Presidente'". Risoluzione, questa, a discapito del presunto riciclaggio di una parte dei famosi 49 milioni di euro dei finanziamenti del Carroccio. Fin qui nulla di così eclatante se non fosse, come spiega Minzolini, che "Conte può godere, soprattutto, della protezione di due pezzi di magistratura, pardon di sindacati, che hanno un'indole spiccatamente interventista sulla politica". Si tratta "delle toghe rosse di un tempo, eredi di magistratura democratica e l'area che si rifà alla filosofia di Piercamillo Davigo, già protagonista di Tangentopoli e ora riferimento della magistratura più vicina all'anima grillina". Entrambe, per la firma del quotidiano di Sallusti, dalla stessa parte tanto da essere "quasi considerate due gendarmi a guardia del Conte Due". Ma sarà sicuramente un caso. 

De Luca contro Salvini: “Produce 200 tweet al giorno, ma quando lavora?” Antonella Ferrari il 13/12/2019 su Notizie.it. Secondo De Luca Salvini sarebbe completamente "incapace di cambiare l'Italia": "Dalla mattina quando si sveglia fa solo tweet". Il governatore della Campania, Vincenzo de Luca, si è scagliato duramente contro Matteo Salvini in occasione di un evento pubblico organizzato a Milano e dedicato alla commemorazione della strage di Piazza Fontana. Stando a De Luca, il leader della Lega non sarebbe in grado di cambiare l’Italia e per sostenere la sua tesi ha citato alcune delle azioni compiute dall’ex ministro dell’Interno, a suo dire troppo impegnato a twittare.

De Luca contro Salvini. Intervistato nel corso dell’evento “Spazio Campania”, De Luca ha commentato l’operato di Matteo Salvini definendolo incapace di cambiare l’Italia. Sulla passione social del leader della Lega, infatti, il governatore della Campania ha commentato: “Tik tok, tik tak, la contro bestia, alla fine contano i fatti: puoi inondare di palle i social per anni poi capita di trovarti le piazze piene di ragazzi“. Proseguendo, però, De Luca si è scagliato più duramente: “Siccome cambiare la realtà significa lavorare dalla mattina alla notte in un paese come l’Italia, lei pensa che possa cambiare la realtà uno che produce 200 tweet dalla mattina quando si sveglia a fare colazione, non so se con la Nutella o con i wurstel?“.

“Non può cambiare l’Italia”. “Uno del genere può cambiare l’Italia? Quando lavora?” ha poi concluso De Luca criticando apertamente e in maniera molto pesante il metodo di lavoro di Matteo Salvini, a suo dire totalmente incapace di cambiare l’Italia. “Se ti metti a fare i tweet i problemi non si risolvono. Tecnicamente come svolgi il tuo lavoro?” ha detto poi il governatore rivolgendosi idealmente al leghista.

Matteo Salvini sotto attacco dei giudici: dai porti chiusi ai rubli, ora anche il fronte-euro. Libero Quotidiano l'11 Dicembre 2019. Proprio come era successo a Silvio Berlusconi negli anni in cui il Cavaliere faceva il pieno di voti, ora anche Matteo Salvini è sempre più nel mirino dei giudici. Da quando è entrato nel governo nel giugno dell'anno scorso il leader della Lega è stato o direttamente indagato oppure è stato colpito trasversalmente da inchieste che hanno coinvolto delle persone a lui vicine.  Ed ecco quindi i guai giudiziari per i "porti chiusi" o per i rapporti con la Russia di Vladimir Putin. Il 6 dicembre scorso, ricorda Il Tempo, Salvini ha saputo di essere indagato in relazione all'inchiesta nata dalla denuncia per diffamazione e istigazione a delinquere presentata da Carola Rackete, la capitana della Sea Watch che entrò in acque italiane violando il divieto e speronando una motovodetta della Guardia di Finanza. L'ex ministro l'aveva definita: "sbruffoncella", "fuorilegge" e "delinquente". Prima ancora c'era stata l'inchiesta sulla Alan Kurdi, la nave tedesca con a bordo 64 migranti a cui Salvini vietò lo sbarco). E la Diciotti. E potrebbe dare problemi la Open arms. Leggi anche: "Ho più processi di Riina". Senaldi smonta la riforma manettara di Bonafede: "Ecco le colpe dei giudici". E' infine di pochi giorni fa la richiesta di rinvio a giudizio da parte dei pm milanesi per il tesoriere della Lega Giulio Centemero per un presunto finanziamento illecito da 40mi1a euro concordato, tra il 2015 e il 2016, con il patron di Esselunga Bernardo Caprotti (morto nel 2016). Da ultimo il Russia-gate, che vede indagato per corruzione internazionale Gianluca Savoini, ex portavoce del Carroccio e presidente dell'associazione Lombardia-Russia.

·         L'Outing dei leghisti.

Simone Canettieri per ''Il Messaggero'' il 18 maggio 2019.

Alberto Ribolla, 34 anni di Bergamo, è un deputato della Lega in campo per i diritti dei gay.

«La battaglia contro l' omofobia non è solo del M5S. Nessuno deve essere discriminato. E non siamo d' accordo sulle adozioni».

Matrimoni gay?

«No. Ma le unioni civili sì».

Ma perché nessuno della Lega ha partecipato all' iniziativa di Spadafora contro l' omofobia?

«Siamo impegnati in campagna elettorale. Non è una priorità, , ma siamo nel 2019».

Quindi?

«Nessun passo indietro».

I parlamentari gay nella Lega sono una decina.

«Sì, l' importante è fare bene il proprio lavoro».

C' è paura nel Carroccio a far coming out?

«Ma no, ciascuno vive la propria sensibilità come meglio crede.

Anche tra i nostri elettori ci sono molti gay».

Dunque nessun timore a dichiararsi?

«No, in passato c' erano anche associazioni all' interno della Lega, è una questione personale e non politica».

Certo.

«Ci sono tante voci che girano sulle persone. Io? Ognuno nel privato fa quello che vuole. C' è a chi piace l' amatriciana e a chi piace la cacio e pepe».

Prego?

«Sì, sono gusti personali».

E il congresso della famiglia di Verona?

«Ormai è una cosa passata. Sui contenuti ognuno ha la propria idea».

Altro che Lega, lei è democristiano.

«Vale la linea di Salvini».

·         Un po’ comunisti ed un po’ fascisti ed un po’ ladroni.

Maroni condannato anche in Appello per i contratti di Expo 2015. Pubblicato venerdì, 08 novembre 2019 da Corriere.it. La Corte d’Appello di Milano ha confermato la condanna a un anno dell’ex ministro e ex governatore della Lombardia Roberto Maroni. Il processo riguardava alcune nomine legate all’Expo 2015. I giudici lo hanno ritenuto colpevole solo del reato di «turbata libertà degli incanti» in relazione al conferimento di un incarico nell’ente di ricerca regionale Eupolis alla sua allora collaboratrice Mara Carluccio. Assolto invece, come in primo grado, dall’accusa di «induzione indebita» per presunte pressioni illecite sulla società Expo finalizzata alla partecipazione a una missione in Giappone di un’altra sua collaboratrice, Maria Grazia Paturzo. Il pg Vincenzo Calia aveva chiesto la sua condanna per entrambi e reati a due anni e sei mesi. La pena proposta nella scorsa udienza sia per l’ex presidente lombardo sia per l’allora capo della sua segreteria Giacomo Ciriello (2 anni e 2 mesi di carcere) era identica a quella avanzata a suo tempo dal procuratore aggiunto Eugenio Fusco nel corso del dibattimento davanti al Tribunale. Per entrambi, però, la sentenza aveva cancellato un capo di imputazione e li aveva condannati a un anno, pena sospesa, e a 450 euro di multa. Il pg ha invece chiesto alla Corte, presieduta da Piero Gamacchio, di accogliere i motivi di appello del pm contro l’assoluzione di primo grado dall’accusa di induzione indebita. L’altra accusa, invece, riguardava l’incarico in Eupolis, ente di ricerca di Regione Lombardia, «preconfezionato» e con «reddito e termini concordati» con Mara Carluccio e da lei ottenuto anche grazie all’intervento di Andrea Gibelli ai tempi segretario generale al Pirellone e ora presidente di Fnm spa. Per Carluccio e Gibelli il pg Calia ha chiesto la conferma della sentenza di condanna del giugno dell’anno scorso a 6 mesi e 200 euro di multa per la prima e 10 mesi, 20 giorni e 300 euro di multa per il secondo. «Tutto l’entourage di Maroni era consapevole della necessità di trovare un posto alle due ragazze», ha specificato il sostituto procuratore generale nelle conclusioni. Maroni con dichiarazioni nella scorsa udienza ha spiegato: «Nella mia lunga attività politica e istituzionale non ho mai preteso né imposto niente a nessuno. In questo caso non ho mai preteso né imposto di assumere la Carluccio. Non ho mai richiesto a nessuno di violare una norma di legge, anche secondaria, per mio conto. Mai! Figuriamoci una norma penale».

Igor Greganti per l'ANSA l'8 novembre 2019. Nessun aumento di pena come aveva chiesto la Procura generale, ma nemmeno uno sconto, né l'assoluzione richiesta dal legale di Roberto Maroni che nella scorsa udienza si era anche difeso di persona con dichiarazioni spontanee. E' stata confermata, infatti, la condanna ad un anno, con sospensione della pena, e a 450 euro di multa per l'ex Governatore lombardo, tra gli imputati nel processo di secondo grado con al centro presunte pressioni per favorire, quando era alla guida del Pirellone, due sue ex collaboratrici di quando era ministro dell'Interno. "Con una sentenza di condanna di sicuro non è felice. Questo perché è un processo dove chiunque si aspetta di essere assolto", è stato il commento a caldo dell'avvocato Domenico Aiello, difensore dell'ex numero uno della Regione. La terza sezione penale della Corte d'Appello milanese, presieduta da Piero Gamacchio, ha solamente riqualificato, come richiesto anche dalla Procura generale, uno dei due reati rimasto in piedi dopo la sentenza di primo grado del giugno 2018, quello di "turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente" in "turbata libertà degli incanti". Una riqualificazione, ha aggiunto il legale Aiello, che "necessita di una lettura delle motivazioni. Certamente impugneremo, perché non siamo d'accordo". Quest'accusa, per la quale è stata comunque confermata la pena di un anno, riguardava un incarico in Eupolis, ente di ricerca della Regione Lombardia, "preconfezionato", secondo l'accusa, e con "reddito e termini concordati" con Mara Carluccio (confermata la condanna a 6 mesi) e da lei ottenuto anche grazie all'intervento di Andrea Gibelli, ai tempi segretario generale del Pirellone e ora presidente di Fnm spa. Per lui anche in secondo grado una pena di 10 mesi e 20 giorni. Confermata anche la condanna, pure per lui ad un anno e a 450 euro di multa, per Giacomo Ciriello, all'epoca capo della segreteria di Maroni. Il sostituto pg Vincenzo Calia, però, coltivando i motivi d'appello del procuratore aggiunto Eugenio Fusco, aveva chiesto per l'ex presidente della Lombardia 2 anni e mezzo di reclusione (e per Ciriello 2 anni e 2 mesi), chiedendo che fosse dichiarato colpevole anche dell'altra imputazione di "induzione indebita". Una contestazione che riguardava il tentativo di fare inserire, a spese di Expo, Maria Grazia Paturzo, altra sua ex collaboratrice, nella delegazione che, nell'ambito del World Expo Tour, tra il 30 maggio e il 2 giugno 2014, aveva come meta Tokyo. Ipotesi che non ha retto nemmeno in secondo grado. "Tutto l'entourage di Maroni era consapevole della necessità di trovare un posto alle due ragazze", aveva sostenuto il sostituto procuratore generale nelle conclusioni della sua requisitoria incentrata sul capitolo Carluccio, poiché su quello che vedeva al centro Paturzo si era riportato al ricorso depositato dal pubblico ministero. Maroni, invece, leggendo un foglio scritto a mano in aula aveva detto: "Nella mia lunga attività politica e istituzionale non ho mai preteso né imposto niente a nessuno. In questo caso non ho mai preteso né imposto di assumere la Carluccio. Non ho mai richiesto a nessuno di violare una norma di legge, anche secondaria, per mio conto. Mai! Figuriamoci una norma penale". Oggi non era presente per il verdetto.

Matteo Salvini furioso. Ilva, fango sulla Lega: "Repubblica, Fatto, Di Maio, querelo tutti". Da liberoquotidiano.it l'8 novembre 2019. Una pioggia di querele da Matteo Salvini. Al leader della Lega non sono piaciute affatto la paginata di Repubblica e le dichiarazioni di alcuni esponenti del M5s, tra cui il viceministro all'Economia Stefano Buffagni, secondo cui il Carroccio avrebbe legami economici sospetti con Arcelor Mittal, tali da "inquinare" le posizioni del partito sul caso Ilva. "Io querelo poco e niente, però oggi un po' di gente la querelo perché dicono che abbiamo centinaia di migliaia di euro in azioni di Arcerol Mittal, roba assolutamente fantasiosa", ha spiegato da Firenze l'ex ministro degli Interni. "Noi facciamo una battaglia in difesa dell'Ilva, di un'azienda fondamentale per l'acciaio italiano, solo perché vogliamo un'Italia competitiva non perché abbiamo i bond o le azioni di tizio o di caio. Quindi da Di Maio in giù, da Repubblica a Fatto Quotidiano quereliamo tutti quelli che stanno dicendo il falso", ha concluso lapidario.

Giuliano Foschini per “la Repubblica” l'8 novembre 2019. C' è una seconda grande paura, nella questione Ilva-Arcelor Mittal, che circola da qualche giorno nelle stanze del governo. E cioè che dietro la crisi che sta facendo tremare una città (Taranto), un pezzo dell' economia del Paese e anche il governo - «daremo il sangue per Taranto ma devono dimettersi» ha detto ieri Matteo Salvini - ci sia anche una partita politica. Una partita che Arcelor Mittal starebbe giocando insieme con i suoi referenti politici: la Lega. Il non detto è stato esplicitato nel tardo pomeriggio di ieri quando il viceministro del Movimento 5 Stelle allo Sviluppo economico, Stefano Buffagni - seguito poi a ruota da diversi parlamentari che hanno rilanciato la notizia sui loro canali social ha attaccato frontalmente Salvini e il suo partito per i rapporti con la multinazionale dell' acciaio: «La Lega - ha sostenuto - ha investito 300mila euro in bond di ArcelorMittal. Spero che arrivati a questo punto pensino ai lavoratori e non ai soldi che hanno investito». Buffagni fa riferimento alla notizia pubblicata nei mesi scorsi da Giovanni Tizian e Stefano Vergine sull' Espresso (e che lasciò però i 5 Stelle in silenzio quando erano al governo con il Carroccio): e cioè che la Lega, sotto la guida di Salvini, ha investito in titoli negli anni scorsi un milione e duecentomila euro. E che tra questi hanno in portafoglio 300mila euro di bond della multinazionale che aveva acquistato Ilva. «Io non mi occupo di Borsa ma di politica» ha detto ieri Salvini, cercando di allontanare ogni sospetto. Ma in realtà la questione del bond nasconde una relazione ben più strutturata che al ministero dello Sviluppo economico conoscono bene. Perché nel Conte 1 hanno visto come deputati ed esponenti del governo si interessavano e caldeggiavano le posizioni di Mittal. È un fatto che la multinazionale franco-indiana si era aggiudicata l' asta con il governo Gentiloni. Ed era assai spiazzata dall' arrivo del nuovo esecutivo, e in particolare da Luigi di Maio sulla poltrona del Mise. Di Maio era portatore del messaggio più intransigente del Movimento: chiusura dell' aria a caldo del siderurgico. Non a caso Di Maio cercò di non affidare l' asta ad Arcelor. Trovando però il muro delle norme ma anche quello della politica, e in particolare dei suoi alleati di governo. Fin da subito la Lega è compatta con Arcelor. Al Mise ricordano bene per esempio come in più occasioni l' allora sottosegretario ai Trasporti, il genovese Edoardo Rixi (poi dimessosi per una condanna sulle spese pazze in Liguria) si spendesse per la causa di Arcelor. Anche pubblicamente: «È imprescindibile - diceva - mantenere gli impegni presi per evitare la fuga degli investitori che equivarrebbe a una drammatica emorragia di posti di lavoro» diceva mentre tutti i parlamentari della Lega presentavano un ordine del giorno per «verificare la coerenza dei più recenti interventi normativi di modifica alla disciplina inerente l' Ilva con gli accordi presi con l' azienda». Arcelor incontrò anche il vicepremier Matteo Salvini. E manager della multinazionale hanno avuto rapporti privilegiati con il vertice del Carroccio, a partire da Giancarlo Giorgetti: l' amministratore delegato Samuele Pasi, in particolare, ha avuto una sponda importante nelle posizioni negli uomini di Salvini. «In un certo senso - spiega a Repubblica una fonte che è stata molto vicina al dossier Ilva nel momento della conclusione dell' asta - era inevitabile. Arcelor aveva bisogno di un interlocutore, i 5 Stelle facevano le bizze e la Lega era l' unica garanzia possibile». Mittal parla a quel mondo, dunque. E in quel mondo sceglie come capo della comunicazione a luglio del 2018 una professionista importante: Patrizia Carrarini, l' ex portavoce di Roberto Maroni.

I 300mila euro in bond ArcelorMittal della Lega diventano un caso. Nex Quotidiano l'8 novembre 2019. Ieri qualcuno ha chiesto a Matteo Salvini conto dei 300mila euro in bond ArcelorMittal investiti dalla Lega negli scorsi anni e il Capitano, come al solito, ha fatto il vago sostenendo di non saperne niente e girando le domande “all’amministratore”, ovvero al tesoriere del Carroccio Giulio Centemero, che sull’argomento è tradizionalmente abbottonatissimo anche perché per i partiti politici è vietato investire in strumenti finanziari come quelli. Oggi Giuliano Foschini su Repubblica approfondisce la questione ricordando i rapporti che legano ArcelorMittal alla Lega: Ma in realtà la questione del bond nasconde una relazione ben più strutturata che al ministero dello Sviluppo economico conoscono bene. Perché nel Conte 1 hanno visto come deputati ed esponenti del governo si interessavano e caldeggiavano le posizioni di Mittal. È un fatto che la multinazionale franco-indiana si era aggiudicata l’asta con il governo Gentiloni. Ed era assai spiazzata dall’arrivo del nuovo esecutivo, e in particolare da Luigi di Maio sulla poltrona del Mise. Di Maio era portatore del messaggio più intransigente del Movimento: chiusura dell’aria a caldo del siderurgico. Non a caso Di Maio cercò di non affidare l’asta ad Arcelor. Trovando però il muro delle norme ma anche quello della politica, e in particolare dei suoi alleati di governo. Fin da subito la Lega è compatta con Arcelor. Al Mise ricordano bene per esempio come in più occasioni l’allora sottosegretario ai Trasporti, il genovese Edoardo Rixi (poi dimessosi per una condanna sulle spese pazze in Liguria) si spendesse per la causa di Arcelor. Anche pubblicamente: «È imprescindibile – diceva – mantenere gli impegni presi per evitare la fuga degli investitori che equivarrebbe a una drammatica emorragia di posti di lavoro» diceva mentre tutti i parlamentari della Lega presentavano un ordine del giorno per «verificare la coerenza dei più recenti interventi normativi di modifica alla disciplina inerente l’Ilva con gli accordi presi con l’azienda». E il tutto è condito da un incontro tra ArcelorMittal e il dinamico duo Salvini-Giorgetti: L’amministratore delegato Samuele Pasi, in particolare, ha avuto una sponda importante nelle posizioni negli uomini di Salvini. «In un certo senso – spiega a Repubblica una fonte che è stata molto vicina al dossier Ilva nel momento della conclusione dell’asta – era inevitabile. Arcelor aveva bisogno di un interlocutore, i 5 Stelle facevano le bizze e la Lega era l’unica garanzia possibile». Mittal parla a quel mondo, dunque. E in quel mondo sceglie come capo della comunicazione a luglio del 2018 una professionista importante: Patrizia Carrarini, l’ex portavoce di Roberto Maroni.

La storia della Lega e dei bond ArcelorMittal. Nex Quotidiano il 7 novembre 2019. La Lega ha investito 300mila euro in un bond corporate di Arcelor Mittal? “Io ho diecimila euro di azioni e non ne ho di Arcelor Mittal”. Così Matteo Salvini, segretario della Lega, ha risposto ai cronisti che gli hanno chiesto conto dell’investimento, a margine di una manifestazione Coldiretti a Roma. Alla cronista della DIRE che specifica che la domanda riguardava il portafoglio titoli della Lega e non il suo personale, Salvini risponde: “Chieda all’amministratore, io non mi occupo di Borsa, mi occupo di politica”.

La storia della Lega e dei bond ArcelorMittal. Di cosa si sta parlando? Degli investimenti della Lega in bond di ArcelorMittal e altre aziende tra cui Mediobanca di cui si è raccontato, con tanto di documentazione, nel libro di Giovanni Tizian e Stefano Vergine “Il libro nero della Lega” e su l’Espresso. Sia sotto la gestione di Roberto Maroni, sia in seguito sotto quella di Salvini, parecchi milioni sono stati investiti illegalmente. Una legge del 2012 vieta infatti ai partiti politici di scommettere i propri denari su strumenti finanziari diversi dai titoli di Stato dei Paesi dell’Unione europea. Il partito che si batte contro «l’Europa serva di banche e multinazionali» (copyright di Salvini) ha cercato di guadagnare soldi comprando le obbligazioni di alcune delle più famose banche e multinazionali. Colossi come l’americana General Electric, la spagnola Gas Natural, le italiane Mediobanca, Enel, Telecom e Intesa Sanpaolo. Una fiche da 300mila euro è stata messa anche sul corporate bond di Arcelor Mittal, il gruppo siderurgico indiano che ha acquistato l’Ilva promettendo di lasciare a casa circa 4mila lavoratori. Questi investimenti provano che anche Salvini ha investito i denari del partito in obbligazioni societarie. Nello specifico, Matteo ha puntato 1,2 milioni su Mediobanca, Arcelor Mittal e Gas Natural. Nel libro si parla anche dei tanti finanziamenti arrivati alla PiùVoci, onlus dell’universo leghista controllata da Giulio Centemero, tesoriere della Lega. Su di lui la procura di Roma ha chiuso le indagini per il reato di finanziamento illecito per soldi arrivati da Luca Parnasi. Anche la procura di Bergamo ha chiuso le indagini nei confronti di Centemero per 40mila euro arrivati alla Onlus da Bernardo Caprotti di Esselunga, nel frattempo defunto.

Salvini il camaleonte: tra destra, sinistra e “Partito della Nazione”. Ma quant’è mobile l’elettorato del Carroccio. I rapporti di forza tra la Lega e Azzurri si sono rovesciati e Silvio Berlusconi, sceso in campo personalmente per le europee punta al superamento del 10 per cento, scrive Francesco Damato il 18 Aprile 2019 su Il Dubbio. C’è del vero, ma anche del verosimile nell’apodittico annuncio di qualche giorno fa del professore Giovanni Orsina su La Stampa che “oggi a destra la Lega è egemone” e “Forza Italia è partito di minoranza”. Il vero è nei rapporti di forza ormai consolidati in quello che è stato e un po’ per abitudine continuiamo a chiamare centrodestra, ma vive e opera solo a livello locale, per quanto importante sia, in particolare, quello regionale. I rapporti si sono decisamente rovesciati a favore della Lega di Matteo Salvini. Che viaggia ormai attorno al 30 per cento, di fronte al quale Forza Italia è costretta, e grazie solo all’attivismo di Silvio Berlusconi, sceso in campo personalmente per le elezioni europee di fine maggio, a scommettere solo sul superamento del 10 per cento. La stessa figlia primogenita di Berlusconi, Marina, pur confermando la naturale “ammirazione” per il padre ancora impegnato nell’arena politica, ha appena lamentato in una intervista al Corriere della Sera la mancanza o il tramonto di una leadership in Italia. E ha scommesso, per una resurrezione della stessa politica e per una vera sconfitta del “populismo”, su “più cultura e libri”, di cui lei peraltro si occupa con la solita grinta alla Mondadori. Vasto programma, avrebbe detto il generale Charles De Gaulle. Personalmente sospetto che Berlusconi si sia pentito di avere “autorizzato” l’anno scorso, come Salvini gli ricorda a mezzo stampa ogni volta che può, a fare il governo con i grillini pur di non rischiare qualche altro punto percentuale di sorpasso della Lega sulla sua Forza Italia in elezioni anticipate dopo quelle ordinarie del 4 marzo. Le distanze fra i due partiti sono paradossalmente aumentate grazie anche alla possibilità offerta dal Cavaliere a Salvini di dimostrare il logoramento elettorale cui il Carroccio ha potuto sottoporre, stando insieme al governo, il Movimento 5 Stelle. Che è considerato da Berlusconi quanto di peggio avrebbe potuto riservarci un elettorato secondo lui impazzito, per non ripetere l’aggettivo ben più greve adoperato dall’ex presidente del Consiglio ricambiando quanto meno lo “psiconano” che ancora gli grida addosso Beppe Grillo. Il verosimile dell’apodittico annuncio di Giovanni Orsina, che pure è fra i più prestigiosi politologi in Italia, è nella classificazione della Lega “a destra”. Dove quindi essa avrebbe preso il posto, a tutti gli effetti, della Destra, con la maiuscola, che ai tempi della cosiddetta prima Repubblica almeno noi anziani, che l’abbiamo potuta vivere e raccontare, era stata rappresentata dal Movimento Sociale prima di Giorgio Almirante e poi, per minore tempo del previsto, di Gianfranco Fini. Che la traghettò sulle spiagge della seconda Repubblica portandola al governo con Berlusconi, cambiandole il nome in Alleanza Nazionale, senza però rinunciare alla fiamma nel simbolo, e continuando almeno per un po’ a definire Benito Mussolini “il più grande statista del secolo” allora ancora in corso, il Novecento. Poi egli avrebbe fatto almeno qualche pulce anche al Duce per le leggi razziali fra le proteste dalla nipote Alessandra e dell’indomabile Francesco Storace. Francamente con quella Destra, sempre al maiuscolo perché non è soltanto un punto geografico nello scenario politico, ho sempre avuto difficoltà a confondere la Lega di Umberto Bossi, dalla quale non si può prescindere parlando della Lega di Salvini perché ne è stata solo lo sviluppo, non l’antitesi. E ciò per quanto Bossi, riportato non a caso dallo stesso Salvini in Parlamento, borbotti contro il suo successore non appena un giornalista gliene offre l’occasione su qualche divano parlamentare o a un bar. Oltre una certa propensione comune per le manette, che nel 1993 aveva accomunato il cappio sventolato nell’aula di Montecitorio dal deputato leghista Luca Leoni Orsenigo contro gli inquisiti di Tangentopoli ai parlamentari missini che uscivano da quell’aula per mescolarsi in piazza con la folla mobilitata per “assediare” la Camera dei corrotti, ricordo ben poco. Ancora nel 1994, quando già erano stati portati al governo da Berlusconi, i leghisti difesero il ricorso alle manette persino da un decreto legge cui avevano contribuito per ridurne l’uso durante le indagini preliminari. Essi solidarizzarono prontamente con le proteste della Procura di Milano contro quel provvedimento già firmato da un capo dello Stato – Oscar Luigi Scalfaro – che non si poteva certamente considerare prevenuto verso le toghe, avendone indossato una prima di darsi alla politica, e avendone conservato addosso per sempre “l’odore”, come soleva dire con orgoglio agli amici. Alle elezioni del 1994, quelle che segnarono il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, Berlusconi non riuscì a mettere insieme leghisti e missini se non con un sotterfugio, imbarcando sul centrodestra i primi solo nella loro riserva del Nord e i missini nel resto del Paese. E, una volta fatto il governo, Berlusconi se lo vide travolgere da Bossi a sinistra, col grande rifiuto della riforma delle pensioni messa in cantiere dall’allora ministro del Tesoro Lamberto Dini e osteggiata dalla Cgil come una mezza macelleria sociale. Erano i giorni e le settimane in cui Bossi veniva rassicurato al Quirinale da Scalfaro in persona dal rischio di elezioni anticipate e mangiava alici a casa con Massimo D’Alema. Che vi si trovava così a suo agio da cominciare a maturare quelle riflessioni sfociate l’anno dopo, a rottura ormai consumatasi fra il Cavaliere e Bossi, in una ormai storica intervista al manifesto. “La Lega – disse l’allora segretario del Pds- ex Pci, subentrato ad Achille Occhetto dopo la sconfitta elettorale del 1994 – c’entra moltissimo con la sinistra, non è una bestemmia. Tra la Lega e la sinistra c’è una forte contiguità sociale. Il maggiore partito operaio del Nord è la Lega, piaccia o non piaccia. È una nostra costola, è stato il sintomo più evidente e robusto della crisi del nostro sistema politico e si esprime attraverso un antistatalismo democratico e anche antifascista, che non ha nulla a vedere con un blocco organico di destra”. Eppure erano i tempi in cui la Lega improvvisava un Parlamento a Mantova per la sua fantomatica Repubblica indipendente della Padania, con un governo provvisorio annunciato a Venezia fra le inutili proteste di una signora che sventolava il tricolore alla finestra di casa sentendosi dire di andarlo a buttare nel cesso. Persino la presidente leghista della Camera Irene Pivetti, che aveva gelato l’esordio di Berlusconi al governo nell’aula di Montecitorio rimproverandogli di non essere puntuale come l’orchestra e il pubblico al teatro milanese della Scala, si sentì a disagio e prese le distanze rimediando l’espulsione dal partito. E sarebbe stata poi tentata di tornarvi con Salvini, prima di cedere a sorpresa al corteggiamento politico dell’ex ritardatario Berlusconi, nelle cui liste ha appena annunciato di candidarsi al Parlamento europeo per tornare alla sua passione giovanile per la politica. Curiosamente ma non troppo, con quell’inclinazione irrinunciabile alla certificazione politica e ideologica, anche adesso che le ideologie sono finite, D’Alema ha recentemente arruolato a sinistra anche il Movimento delle 5 stelle, con cui d’altronde già nel 2013 l’allora segretario del Pd Pier Luigi Bersani tentò di concordare un governo quanto meno acrobatico “di minoranza e di combattimento”, ben oltre quindi “il cambiamento” negoziato l’anno scorso fra grillini e leghisti. In particolare, libri di storia alla mano, con l’aria di volerli segnalare al nuovo segretario del Pd, anche se lui ne è uscito col già menzionato Bersani, ma entrambi disposti a una qualche riconciliazione, D’Alema ha ricordato che se Palmiro Togliatti dialogò a suo tempo con Guglielmo Giannini, il fondatore dell’Uomo Qualunque che peraltro pagò quel dialogo scomparendo dal panorama politico, oggi si può ben parlare da sinistra con Luigi Di Maio. Solo con Salvini, quindi, oltre che col solito Berlusconi, con cui pure D’Alema tentò a suo tempo una riforma della Costituzione, come poi avrebbe nuovamente tentato l’odiatissimo Matteo Renzi, la sinistra non potrebbe parlare senza dannarsi. L’avversione della sinistra per Salvini, senza sconti per essere stato il capo dei giovani comunisti padani, è ampiamente ricambiata, per carità, come dimostra lo scrupolo col quale il nuovo capo della Lega registra le sconfitte che egli le procura, con l’aiuto del pur scomodo Berlusconi, ogni volta che si vota in una regione e il Pd la perde, pur recuperando qualche punto sulla batosta delle elezioni politiche dell’anno scorso. Il sovranismo e il contrasto all’immigrazione clandestina, con tutte le esasperazioni obiettivamente cavalcate dal leader della Lega, per non parlare della voglia incautamente espressa qualche volta, prima di pentirsene con un’ospite a cena, di vedere “marcire” in galera che vi finisce col proposito dell’articolo 27 della Costituzione di rieducarlo, sembrano a prima vista giustificare l’avversione della sinistra. E anche l’apodittica classificazione a destra della Lega da parte di Giovanni Orsina, con cui abbiamo aperto questo articolo. E non solo di Orsina, perché basta accedere alla enciclopedia elettronica e “libera” di Wikipedia per vedere collocata con una certa evidenza la Lega alla “estrema destra”, oltre quindi anche i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni e ora anche di Caio Giulio Cesare Mussolini. Che infatti – potrebbero giustificarsi a Wikipedia- insidiano adesso da posizione moderate Forza Italia facendo perdere le staffe al direttore del Giornale della famiglia Berlusconi, Alessandro Sallusti, insorto in particolare contro un quasi transfuga Giovanni Toti, così diverso da quel quasi omonimo Enrico, il patriota morto combattendo nella prima guerra mondiale con una sola gamba. Diversamente da Wikipedia e dai saggi che vi sono indicati per collocare la Lega all’estrema destra, Annalisa Chirico ha ricavato da una certa frequentazione di Matteo Salvini, riferendone sul Foglio, e spiazzandone direttore e fondatore, l’impressione che il “camaleontico” ministro dell’Interno persegua il progetto di quel partito centrale “della Nazione” tentato prima da Berlusconi e poi da Matteo Renzi. Ma vorrei aggiungere, per un altro verso, un’esperienza appena raccontata in una intervista dall’ex presidente della Camera Pier Ferdinando Casini. Quest’ultimo, essendosi candidato l’anno scorso nella sua Bologna come indipendente nelle liste di un Pd ancora renziano, bussò alla porta di un autorevole esponente della Cgil per farsi dare un aiuto, gentilmente ma fermamente rifiutatogli in difesa dei valori di sinistra. Ad elezioni passate, e a ritorno felicemente avvenuto al Senato, Casini si è tolto la soddisfazione di telefonare a quel sindacalista per ricordargli, dati alla mano, che “gli operai della Cgil – ha raccontato Pierferdi, come gli amici chiamano l’ex presidente della Camera – avevano votato per i grillini o per i leghisti”. Per cui il Pd avrebbe preso ancora meno voti se non lo avesse aiutato Casini a pescare nella propria area moderata. Segnalo infine lo scrittore moldavo orgogliosamente comunista Nicolai Lilin, che in una intervista al manifesto, esasperatamente tradotta da Libero in “Salvini è meglio della sinistra”, ha appena accusato “i democratici”, intesi come comunisti e post- comunisti, di “odiare Salvini perché egli ha preso il loro posto, arrivando al potere con gli argomenti ch’essi hanno abbandonato”. Le cose e le situazioni, come si vede, sono un po’ più complicate, o più semplici, secondo i gusti, di come le rappresenti la politologia.

GRAMELLINI SBERTUCCIA SALVINI - IERI SECESSIONE E “ROMA LADRONA”, OGGI CENTROSUD A MANETTA. IERI PUTIN, OGGI TRUMP. IERI “NO TAV”, OGGI “SI' TAV”. MA LE GIRAVOLTE DEL LEADER POPULISTA SONO LA SEMPLICE CONSEGUENZA DELLA FINE DELLE IDEOLOGIE, DOVE UNA SOLA IDEA BASTAVA A SPIEGARE OGNI COSA, A FAVORE DI UNA PRAGMATISSIMA REAL POLITIK CHE SI ADEGUA ALLA VELOCITA’ DEL MOUSE - NEI PROSSIMI VENT'ANNI IL MONDO CAMBIERÀ PIÙ DI QUANTO SIA CAMBIATO NEGLI ULTIMI 300. E CHI SI FERMA ALLE IDEOLOGIE E’ PERDUTO.

Massimo Gramellini per Corriere.it il 30 marzo 2019. I reazionari di tutto il mondo sono in ambasce. «Lo stiamo perdendo», mormora Putin a Orbán, spezzando tavolette di ghisa con le mani per il nervoso. «Matteo mi sta diventando di sinistra», frigna Steve Bannon sulla spalla di Trump, bagnandogli di lacrime sovraniste il ciuffo color carota. Tutto è cominciato l’altra sera, quando Salvini si è lasciato scappare: «Non dirò mai più di qualcuno che deve marcire in galera». Si pensava a un malessere passeggero. Invece la situazione è precipitata nel volgere di pochi tweet. «La legge sull’aborto non si tocca», ha affermato. E subito dopo si è detto contrario alla libera vendita di armi propugnata dai parlamentari della sua Lega. Il sospetto è che abbia contratto una rara forma di influenza illuminista, il cui ceppo sembrava debellato da tempo. Ma che succederà ora? C’è chi giura di averlo visto arringare un barcone di migranti al grido di: «I have a dream». Con gli amici riuniti al suo capezzale si sarebbe raccomandato: «Non chiedetevi che cosa l’Europa può fare per voi, ma che cosa voi potete fare per l’Europa». Secondo testimoni oculari, aveva le iniziali JFK tatuate sul braccio e indossava un pigiama, anzi un pigiobama con la scritta «Yes we can». Ad alcuni extracomunitari accorsi sul luogo del miracolo avrebbe detto: «Quando tornate a casa, date una carezza di cittadinanza ai vostri bambini e ditegli che è una carezza di Salvini». Dopo la sua svolta inopinata, di Matteo a destra ne rimarrà uno solo.

ROMA NON E’ PIU’ LADRONA. Mariolina Iossa per Il Corriere dell aSEra il 4 marzo 2019. Viaggi e politica, luoghi dell’Arte e delle Istituzioni. Con una guida d’eccezione, l’onorevole Gualtiero Caffaratto della Lega. Ma non solo, anche religione, le udienze del mercoledì di Papa Francesco e la Basilica di San Pietro. Tutto e tutti insieme, appassionatamente. Il nuovo modo di viaggiare dal profondo Nord fin giù nella Capitale, insaporendo la gita con la politica e la religione, nasce da un’idea dell’agenzia di viaggi Polaris di Aldo Bruno, con sede a Bagnolo Piemonte. È da un anno che Bruno organizza questo tipo di visite, avvalendosi della preparazione di un professore, Ivo Silano. Ma è la prima volta ufficiale con un deputato: per entrare a Montecitorio, e visitare la Camera, meglio farsi aiutare da uno del mestiere, Caffaratto appunto, che è amico di Bruno e suo cliente già da quando, prima di vacare la soglia del Parlamento un anno fa, faceva il ristoratore. «Non c’entra niente il partito politico, non è un viaggio “politico” in senso stretto — spiega il titolare dell’agenzia —. Caffaratto è un amico, gli ho proposto questo progetto e lui ha accettato». Ha accettato, l’onorevole, anche di pubblicizzarlo «mettendoci la faccia» sul volantino. «Qui, dalle nostre parti — continua Bruno — contano le persone, non tanto le insegne politiche. La nostra gente vuole andare a Roma con “ciceroni” che conosciamo, che parlano il dialetto. Siamo già a 30 prenotati». Ed ecco allora che si parte. La tre giorni a Roma da Torino in treno, si svolgerà dall’11 al 13 marzo: offre «ricchi premi e cotillons» al prezzo di 299 euro (ma chi non è interessato al Papa e al Vaticano, può rientrare un giorno prima e ne pagherebbe 239). Il pacchetto prevede visita a Montecitorio con Gualtiero Caffaratto, e poi cena, sempre con l’onorevole. Il resto del programma? Visita delle principali piazze romane, da pazza Esedra a piazza di Spagna e di tutto il centro storico. Ciliegina sulla torta, per chi prolunga è servito il mercoledì «religioso», tutti in piazza San Pietro per l’udienza papale. E dopo, si apriranno alla vista dei turisti piemontesi le bellezze della Basilica. Nuovo giretto in centro e tutti a casa.

IL NORD E’ SUPERATO, ORA L’ITALIA! Alberto Mattioli per “la Stampa” il 12 marzo 2019. La Lega ha un nuovo responsabile degli Esteri e, forse, anche dei nuovi alleati in Europa. Al Consiglio federale di ieri, Matteo Salvini ha incoronato come suo uomo a Bruxelles l'eurodeputato Marco Zanni, da sempre in contatto con il ministro della Famiglia, Lorenzo Fontana, ispiratore della svolta sovranista del partito. «La linea politica in Europa la dà Zanni e, in ultima analisi, io», questa l'investitura salviniana. Un bel salto per Zanni, eurodeputato eletto con il M5S, e poi folgorato sulla via di Salvini. La sua nomina prelude a una a svolta nelle alleanze, che però non dipende solo dalla Lega. Il partito è appeso a Orban con il quale, dicono i leghisti, «Salvini ha ripetuti e cordiali contatti». Se il premier ungherese uscirà dal Ppe, è forte la tentazione di fare asse con lui, che si porta dietro anche i sovranisti polacchi e austriaci. Così passerebbero in secondo piano le vecchie alleanze, come quella un po' logorata con madame Le Pen. «Sono amici che ci sono stati vicini nei momenti difficili e non voglio abbandonare», ha detto Salvini. Quanto al partito, sarà per la prossima volta il commissariamento delle varie Leghe «nazionali». Salvini annuncia che «non era all'ordine del giorno. Chi è fuori dal Consiglio evidentemente ha altre notizie». Ogni riferimento a Roberto Maroni è puramente voluto. Domenica Bobo era uscito sul «Fatto» con un'intervista nella quale annunciava la rifondazione leghista. E quindi erano ripartiti tutti i sussurri e sul cambio del nome con la scomparsa del Nord e così via. Invece nisba. Soltanto per ora, pare. Qui i cremlinologi di via Bellerio divergono. C' è chi dice che Salvini avesse in realtà voglia di procedere già ieri all' operazione, ma che l'intervento del suo miglior nemico gliel'ha fatta rimandare. E chi sostiene invece che non si è mai visto un partito commissariare le sue sedi regionali e cambiare nome a ridosso delle elezioni. Di sicuro, però, l'idea c'è e l'attuazione è solo rimandata. «Dovremo comunque affrontare la questione - ha detto Salvini ai suoi -. Questo movimento non è più locale, è nazionale». Insomma, via quel che resta di nordista, nella speranza che i giudici non accollino alla nuova Lega i 49 milioni da rimborsare. Per il resto, l'attesissimo Federale si è risolto in un giro d'orizzonte strategico dove d'interessante non c'è solo quel che Salvini ha dichiarato in conferenza stampa insieme con Giancarlo Giorgetti per smentire le differenze di vedute che i giornalisti attribuiscono loro, ma anche quel che ha detto a porte chiuse. In pubblico, grande soddisfazione perché «siamo la prima forza politica del Paese». La scelta dei candidati per Bruxelles e per le amministrative è fatta «al 99%», salvo un incontro in data imprecisata ma comunque prossimo con Berlusconi. Poi Salvini tiene duro sulla Tav e allarga il discorso alle «trecento opere pubbliche da finire», tipo la Asti-Cuneo «ferma dal 2012», per le quali annuncia un decreto «sblocca cantieri» e «sblocca appalti» al prossimo Consiglio dei ministri. E poi: il rapporto con i 5S («Non siamo noi che creiamo problemi, noi li risolviamo», dice Giorgetti. Ah sì, e chi è che li crea? «Chi sui problemi butta benzina invece di acqua», e chi vuol capire capisca), i soldi per le Olimpiadi del 2026 (Salvini: «Se il governo li ha trovati per il tennis a Torino li può trovare anche per Milano e Cortina. Le Olimpiadi valgono un miliardo anche senza analisi costi-benefici»), perfino i sauditi nel CdA della Scala («Preferirei che non ci fossero alcune presenze. Se entrassero gli svizzeri non ci sarebbero problemi»). Prima, nelle segrete stanze, il Capitano aveva assicurato che il governo non cadrà, perché «con un terzo dei deputati della maggioranza stiamo facendo meglio dei 5S», e raccomandato ai suoi di non attaccare i grillini in generale i loro ministri in particolare. Infine, la questione dell'autonomia regionale. Qui la parte del leone, molto applaudito, l'ha fatta il governatore del Veneto, Luca Zaia, che non solo è decisissimo a portarla a casa ma, pare, sa anche come farlo. Per superare «il blocco dei ministri 5S», Zaia avrebbe pronto un piano. Di certo, all' esterno Salvini si mostra superottimista: «Il 99 per cento è fatto. Ci confronteremo con il presidente del Consiglio su come coinvolgere il Parlamento, senza ovviamente stravolgere il testo che è di esclusiva competenza del governo e delle regioni - giura -. Ci sono già altre sette regioni che hanno avviato la richiesta dell'autonomia, quindi non è una questione territoriale». Ma in via Bellerio si sospetta che i tempi per portare a casa l'autonomia non saranno esattamente fulminei.

«Di Maio meglio del Cav: lui ci fa fare quel che vogliamo». Intervista a Francesco Speroni, Lega nord: «Berlusconi comandava e con lui a Palazzo Chigi non saremmo mai riusciti a chiudere i porti per fermare i migranti. Il governo andrà avanti e la Tav si farà». Intervista di Paola Sacchi del 12 Marzo 2019 su Il Dubbio. «Ha visto? Con la mia cravatta texana, quella alla Clint Eastwood, un laccio con un fermaglio, adottata da me in parlamento perché non ti soffoca, sono stato un precursore del cambio di look. Oggi vedo, ad esempio, che quasi tutti i conduttori televisivi e non solo loro la cravatta neppure la portano più. Chiaro che io al look di Luigi Di Maio preferisca quello di Matteo Salvini». Come non ricordarsi dell’abbigliamento un po’ dirompente, anche per certe cinture alla cowboy, di Francesco Speroni? È uno dei pochi cofondatori rimasti della Lega Nord di Umberto Bossi, che ha federato tutte le leghe. Speroni nel 1994 era il ministro delle Riforme e della Devoluzione del primo governo Berlusconi. È stato anche capo della Lega lombarda, la prima creatura del Senatùr, e presidente del cosiddetto ‘ Parlamento del Nord’. Poi, una lunga carriera nel parlamento italiano ed europeo. Ora Speroni è segretario della Lega (che si chiama solo così, senza più Nord) nella sua Busto Arsizio (Varese).

Allora, onorevole Speroni sulla Tav, a quanto pare, la ‘quadra’ per ora l’avete trovata. Ma il problema vi si riproporrà presto.

«Si, la ‘quadra’ è stata trovata grazie al nostro Giancarlo Giorgetti con Armando Siri. C’è questa ‘ dissolvenza’… Il Tav deve essere fatto. Ma se poi non si riuscisse a trovare un accordo, io sarei per un referendum, come fecero in Svizzera su un’opera analoga. I grillini poi sono referendari, non perché la Lega non lo sia, ma loro sono addirittura anche per il referendum propositivo».

Ci vorrebbe comunque una nuova legge del parlamento.

«Certo, ma indipendentemente dalle leggi e dai trattati internazionali, se alla fine non si dovesse trovare un accordo, la soluzione migliore è chiamare i cittadini di tutt’Italia a pronunciarsi, perché l’opera sarà a carico di tutti i contribuenti».

Il governo andrà avanti o la crisi è solo rinviata? E la Lega tornerà con il centrodestra anche a livello nazionale?

«Il governo, per me, andrà avanti. Sono stato proprio con Giorgetti (il Richelieu “padano” sottosegretario alla Presidenza del Consiglio ndr) sabato scorso a un dibattito, certe perplessità restano su alcune posizioni grilline, però non si può neppure pensare che la Lega sia rimasta con le stesse idee di quando entrai io, nel 1986».

Giorgetti ha detto a Francesco Verderami su ‘Il Corriere della sera’ che i Cinque Stelle gli ricordano come eravate voi allora. Però, scusi, voi, comunque uno la pensi, esprimevate una forte visione che poneva la questione del Nord.

«Ma non tutto quello che andava bene nel 1994 può funzionare nel 2019».

Cosa pensa dell’invito fatto a Salvini dallo ‘Sceriffo’ di Treviso, Giancarlo Gentilini, figura simbolo della Liga veneta, a tornare nel centrodestra?

«Sono di un’altra opinione. Il centrodestra resta come alleanza a livello locale. Ma con i Cinque Stelle nel governo nazionale la Lega ha più margine di manovra».

Ma il vostro elettorato di riferimento al Nord non è in sofferenza per certe posizioni dei vostri alleati su crescita e sviluppo? Ci sono brutti dati per l’economia. Così non si rischia grosso?

«Intanto, è tutto da verificarsi. Abbiamo approvato la Finanziaria e gli effetti si dispiegheranno quanto meno dopo la metà dell’anno».

E il reddito di cittadinanza?

«Io personalmente ho qualche perplessità, ma anche questo reddito di cittadinanza a qualcosa può servire. Ho visto anche dalle mie parti qualcuno che mangia alla Caritas. Anche se questa misura non aiuta a creare posti di lavoro. E però sull’immigrazione…»

Prego.

«Sull’immigrazione i Cinque Stelle ci hanno lasciato bloccare i porti, cosa che Berlusconi non ci ha fatto fare. E questo non perché Roberto Maroni fosse meno capace di Salvini».

Non c’era però ancora stata la guerra alla Libia e furono fatti accordi.

«Certo, ma gli immigrati clandestini sono sempre di fatto arrivati. E comunque con i grillini l’accordo è: noi facciamo le nostre cose e voi le vostre. Con Berlusconi invece non era così. Di Maio è un pari grado di Salvini mentre Berlusconi era il capo del governo».

Vi ci ha portato infatti lui. Certamente il Cav ha anche una mentalità da grande imprenditore che conosce l’arte del comando. Forse è anche questo il problema per voi?

«Sì, lui è uno che comanda. E, invece, il rapporto con Di Maio è paritetico. È molto più facile andar d’accordo con loro che con Berlusconi. Perché l’atteggiamento conta. E poi qui non ci sono intorno rompiscatole come Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini».

E sull’autonomia, la vostra grande ragione sociale, con i grillini come la metterete?

«L’autonomia deve andare avanti, anche perché sta nel contratto. Su questo non si discute».

Lega: condannato Belsito, non luogo a procedere per Umberto e Renzo Bossi, scrive il 23 Gennaio 2019 Libero Quotidiano". I giudici della Quarta Corte d'Appello di Milano hanno dichiarato il non luogo a procedere per Umberto Bossi e Renzo Bossi per effetto della nuova norma introdotta dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, e che prevede che l'appropriazione indebita sia contestabile solo su querela di parte e non d'ufficio. Il segretario della Lega, Matteo Salvini, aveva querelato solo Belsito e non il Senatur e il figlio. Condannato invece a 1 anno e 8 mesi (con pena sospesa e non menzione) e a 750 euro di multa l'ex tesoriere del Carroccio Francesco Belsito, che è stato assolto da alcuni capi di imputazione, mentre altro sono stati dichiarati prescritti.

Da repubblica.it il 7 maggio 2019. Va estesa anche a Umberto Bossi e al figlio Renzo la querela presentata dal leader della Lega Matteo Salvini solo nei confronti dell'ex tesoriere del movimento Francesco Belsito. Lo sostiene la Procura generale di Milano che ha impugnato la sentenza con cui a gennaio la Corte d'Appello ha assolto per improcedibilità i due Bossi, 'salvati' dalla mossa del vicepremier, e ha condannato l'ex tesoriere a 1 anno e 8 mesi e 750 euro di multa. I tre sono imputati per l'uso a fini personali dei fondi del partito. In tre pagine indirizzate alla Cassazione il sostituto pg Maria Pia Gualtieri sostiene che una valutazione da parte dei giudici d'Appello "aderente" alla norma (art.123 codice penale) e "in linea con i consolidati orientamenti della giurisprudenza avrebbe consentito di estendere gli effetti della querela presentata da Matteo Salvini nei confronti di tutti gli imputati (Bossi Umberto, Bossi Renzo e Belsito Francesco) per tutte le illecite operazioni appropriative, rimuovendo l'ostacolo alla procedibilità". Secondo il pg la condotta descritte nel capo di imputazione "é unica e unico è il disegno criminoso" che accomuna tutti gli imputati: Umberto Bossi, quale segretario generale del movimento, "autorizzava i prelevamenti e i pagamenti a favore di se stesso o di terzi", Belsito "quale segretario amministrativo federale" e con la materiale "disponibilità del denaro, realizzava i pagamenti estranei ai fini e agli interessi del partito politico" e i figli del Senatùr, Riccardo (già condannato in separata sede in abbreviato) e Renzo "erano i richiedenti e i beneficiari delle somme di denaro della Lega Nord". Per il sostituto pg non è possibile "parcellizzare le condotte di ciascun imputato" in quanto dalla "valutazione complessiva del Compendio probatorio (...) si comprende come l'agire" di ognuno "consentiva e rafforzava la volontà illecita dell'altro. In altri termini - si legge nel ricorso per Cassazione - Belsito senza l'autorizzazione di Umberto Bossi non avrebbe potuto operare le appropriazioni" mentre il fondatore del Carroccio e il secondogenito "senza l'apporto materiale di Belsito (...), non avrebbero potuto beneficiare delle somme illecitamente sottratte alla Lega Nord". Lo scorso gennaio, in assenza della querela resa necessaria da una recente modifica del codice penale, la Corte aveva dichiarato  non luogo a procedere per Umberto Bossi e il figlio Renzo, cancellando le rispettive condanne in primo grado a 2 anni e 3 mesi e 1 anno e 6 mesi per l'uso dei soldi del Carroccio. Padre e figlio erano accusati di aver utilizzato il primo 208 mila euro, e il secondo 145 mila euro, per spese personali. A Belsito era invece stata ridotta la pena da 2 anni e mezzo di carcere a 1 anno e 8 mesi (con sospensione e non menzione) e la multa da 900 a 750 euro.

Le spese pazze al Pirellone, il budget tagliato del 90 per cento. Rimborsi fermi a 5 mila euro e rendiconto per ogni uscita. L’austerity post-inchieste e lo scontro sulle condanne. «Prassi». «No, vergogna», scrive Giampiero Rossi il 19 gennaio 2019 su "Il Corriere della Sera". Tra i 52 condannati per i rimborsi gonfiati in Regione Renzo Bossi, il figlio del «Senatur» Umberto, e Nicole Minetti, consigliera di Forza Italia. Un po’ li difendono — per garantismo o per diretta conoscenza dei fatti — e un po’ li strozzerebbero con le loro mani, perché è proprio colpa degli episodi condannati di oggi se nel frattempo il budget a disposizione dei consiglieri regionali è stato ridotto del 90 per cento rispetto a quei bei tempi. Le 52 condanne di primo grado per i rimborsi gonfiati in Regione hanno scosso il Pirellone. La sentenza riguarda, tra gli altri, l’eurodeputato del Carroccio Angelo Ciocca (un anno e sei mesi), il figlio del fondatore della Lega, Renzo Bossi (due e ei), l’ex consigliera del Pdl Nicole Minetti (uno e otto), Stefano Maullu, ora europarlamentare di Fratelli d’Italia (uno e sei), Alessandro Colucci, ora deputato del gruppo misto (due e due) e l’attuale capogruppo leghista in Senato, Massimiliano Romeo (uno e otto). La pena più alta (quattro anni e otto mesi) per Stefano Galli, ex capogruppo della Lega in Regione. Ma tra i condannati figurano anche consiglieri dell’opposizione come Chiara Cremonesi, che guidava il gruppo di Sel (due e due), Luca Gaffuri allora capogruppo del Pd (uno e sei) e Stefano Zamponi, leader di Italia dei valori (due e quattro). «Non sono tutti uguali», è il commento ricorrente tra gli attuali consiglieri, che raccontano di chi «esagerava» e di chi invece «faceva davvero attività politica sul territorio». Poi spiegano che quei misfatti erano possibili perché c’erano molti più soldi a disposizione e perché, «da sempre» quella era «la prassi»: spendere e farsi rimborsare. «Oggi la situazione è molto diversa — dice il capogruppo di Forza Italia, Gianluca Comazzi —: a partire dal 2013 il regolamento è stato modificato e il budget a disposizione dei gruppi consiliari drasticamente ridotto. Ogni piccola spesa deve essere giustificata e rendicontata». In effetti, nella legislatura successiva (quando Roberto Maroni era governatore) la legge regionale numero 3 del 2013 ha ridotto del 90 per cento il tetto di spesa per i gruppi, ai quali adesso viene concesso un massimo di 5 mila euro annui per ciascun consigliere, dietro presentazione di giustificativi. Ne risponde il capogruppo. E proprio da qui parte il ragionamento di Fabio Pizzul, che attualmente guida il Pd al Pirellone: «Ho già manifestato solidarietà e vicinanza all’amico Luca Gaffuri che si è trovato in questo processo soprattutto per il ruolo di capogruppo — commenta —. Non ho dubbi sulla sua correttezza personale: sta pagando una gestione dei fondi ispirata alle regole e alle prassi allora vigenti che non hanno impedito un utilizzo disinvolto dei contributi pubblici, e questo non è certo il caso del Pd». Andrea Fiasconaro, capogruppo del Movimento Cinque Stelle, parla invece di «una vergognosa pagina che ha coinvolto tutti i partiti: i danni all’istituzione sono incalcolabili e non sono solo patrimoniali». E il consigliere Marco Fumagalli aggiunge: «Invitiamo i partiti a selezionare la classe politica con maggior attenzione. Noi non candidiamo chi ha condanne penali e il nostro codice etico prevede le dimissioni a seguito di una condanna, anche solo di primo grado». Ma il leader del gruppo leghista, Roberto Anelli, replica: «Al M5S vorrei suggerire di iniziare da loro a selezionare la classe politica con la massima attenzione, dato che i loro rappresentanti vengono selezionati da una piattaforma detta Rousseau che in fatto di trasparenza ha tutto meno che quello. D’altronde anche i sindaci di Livorno, Roma e Torino hanno avuto problemi giudiziari e, stando alle dichiarazioni dei grillini, avremmo dovuto vedere le loro dimissioni». E sull’attuale gestione delle spese del gruppo Lega, dice: «Di fatto, queste si sono azzerate, spendiamo solo l’8-9 per cento del budget a disposizione per il materiale da ufficio». Già, ma prima? «I gruppi consiliari si sono adeguati in assoluta buona fede a un sistema consolidato da oltre 30 anni». Complessivamente, fanno notare dal Pirellone, per ciascun cittadino lombardo il costo del consiglio regionale si è ridotto dai 2,52 euro del 2014 ai 2,14 degli ultimi due anni. E il presidente Alessandro Fermi sceglie il garantismo: «Al netto dei casi che meritano una censura etica, questi episodi si sono prestati a diverse interpretazioni. Aspettiamo gli sviluppi processuali e i pronunciamenti definitivi».

Pirellone, rimborsi gonfiati: 20 mesi al capo dei senatori leghisti. La difesa di Romeo: era un sistema da 30 anni. Tra i 52 condannati Bossi jr e Minetti, scrive Giuseppe Guastella il 19 gennaio 2019 su "Il Corriere della Sera". Da sinistra: Massimiliano Romeo, capogruppo della Lega al Senato; Nicole Minetti, l’ex igienista dentale di Berlusconi e poi consigliera regionale di Forza Italia; Renzo Bossi, figlio del «Senatur» Umberto; Angelo Ciocca, parlamentare europeo del Carroccio. A poter eventualmente temere qualcosa dal processo sui rimborsi gonfiati al Pirellone, anche se chissà dopo quanto tempo, era una sparuta pattuglia di cinque deputati-ex consiglieri regionali lombardi tra i quali Massimiliano Romeo, capogruppo del Carroccio al Senato, che sarebbero decaduti dal Parlamento per la legge Severino se i giudici avessero accolto la richiesta del pm di condannarli a 2 anni e 2 mesi di carcere per peculato, e se questa fosse stata confermata un domani in Cassazione. Invece sono stati tutti condannati a un anno e otto mesi con la condizionale, quattro meno del limite della Severino. Nessun altro dei 52 imputati che hanno subito pene tra i 17 mesi e i 4 anni e otto mesi, ma non hanno seggi, avrà questa preoccupazione, men che meno due europarlamentari per i quali la Severino non vale. Il processo riguarda i consiglieri regionali lombardi di centrodestra e centrosinistra che, in carica tra il 2008 e il 2011, senza una giustificazione legale si sono messi in tasca quasi tre milioni, ha sostenuto l’accusa del pm Paolo Filippini che ha visto accogliere quasi per intero le sue richieste dai giudici del Tribunale. Oltre a Romeo, nel gruppetto di parlamentari-ex consiglieri ci sono Fabrizio Cecchetti e Jari Colla, anche loro della Lega, Alessandro Colucci, Gruppo misto, e Ugo Parolo, leghista, condannato a diciotto mesi, ma per il quale ne erano stati chiesti ventidue. «Se c’era un sistema, c’era certamente da trent’anni e loro lo hanno ereditato in buona fede», commenta il difensore di Romeo, l’avvocato Jacopo Pensa, che aveva chiesto ai giudici di rinviare la sentenza in attesa dell’entrata in vigore della «spazzacorrotti» che «ha una norma più adeguata alle condotte contestate», aggiunge riferendosi alla nuova «indebita percezione di erogazioni» varata dal governo che ha sollevato forti polemiche dalle opposizioni che temono possa favorire gli accusati di questi illeciti. Nel processo, cominciato nel luglio del 2015, le difese hanno sostenuto che gli imputati erano tutti convinti di poter utilizzare i fondi come volevano, se ritenevano che le spese avessero un qualche legame con il mandato istituzionale. Molti hanno dichiarato di essersi attenuti alle istruzioni dei funzionari della Regione in quella che era una prassi. «Erano consapevoli» di stare usando il denaro in modo illegale, aveva invece replicato Filippini chiedendo le condanne nel marzo di due anni fa. Secondo il magistrato, i fondi erano diventati un «salario accessorio» per i consiglieri che li usavano anche per rafforzare il consenso a loro favore finanziando, ad esempio, manifestazioni e feste di paese. Per la Procura di Milano, che iniziò le indagini addirittura nel 2012, la maggior parte dei soldi, ben il 70 per cento, sono usciti dalla casse della Regione per mangiare, sia in frugali colazioni al bar sia in pranzi luculliani nei ristoranti stellati, anche per decine di persone alla volta. Il resto è servito a pagare le cose più varie. Si va da tanta benzina per la macchina, al treno, al taxi, all’aereo, al tram e perfino al gratta e vinci, alle sigarette, al frigorifero e alle cartucce per la caccia. Ci sono casi-limite come quello del leghista Stefano Galli che fece avere una consulenza da 196 mila euro al genero Corrado Paroli (condannato a 18 mesi) che non aveva i requisiti per svolgerla. Fu sempre lui a mettere in nota spese 6.183 euro per il pranzo del matrimonio della figlia con Paroli. Galli è stato condannato a 4 anni e 8 mesi, il pm aveva chiesto 6 anni. Condannati anche Renzo Bossi (2 anni e 6 mesi), figlio del fondatore della Lega, l’ex Pdl Nicole Minetti (un anno e 8 mesi) e i parlamentari europei Stefano Maullu e Angelo Ciocca, Lega, entrambi a un anno e 6 mesi. Sei le assoluzioni, tra cui quella dell’ex presidente del Consiglio regionale Davide Boni (4 anni) e di alcuni ex assessori. «Le norme sui rimborsi sono incomplete e scritte male, occorre un intervento del legislatore», dichiara l’avvocato Domenico Aiello, che assiste sei leghisti. Quasi tutti gli imputati hanno già risarcito il danno in Corte dei conti.

Prosperini condannato: dovrà risarcire oltre un milione e mezzo. Pubblicato domenica, 18 agosto 2019 da Corriere.it. «Erano i risparmi della mia anziana mamma», questo sostenne di fronte ai giudici. Tre miliardi di vecchie lire. Cash. Conservati chissà dove e chissà perché in contanti. Solo che quel versamento avvenne il 14 febbraio del 2002: l’euro era entrato in corso da meno di sei settimane. E il deposito del denaro avvenne già in euro. I giudici, a quel punto, fecero un logico calcolo e dedussero: «Significa che l’anziana signora, in quel ristretto periodo, avrebbe dovuto recarsi ogni giorno lavorativo in banca e cambiare ogni volta cento milioni di lire». Dunque obiettarono: «Non appare un po’ inverosimile?». Viene ricostruito anche questo maldestro tentativo di giustificazione nelle carte giudiziarie che oggi condannano Pier Gianni Prosperini, ex consigliere comunale di Milano (Lega prima, Alleanza nazionale poi), ex consigliere e assessore della Regione (alla fine approdato nel Popolo delle libertà), a restituire 1.549.371 euro. Proprio l’equivalente di 3 miliardi di lire. Che non erano, stabilisce la Cassazione, soldi della madre: ma, al contrario, un prestito che «il Prospero», medico ed ex pugile, poi travolto da inchieste e processi, aveva ottenuto all’epoca dalla sua più stretta sodale politica, Carla De Albertis, anche lei ex consigliera e assessore comunale di An. I due erano legatissimi, amici, stretti da una profonda e riconosciuta «fratellanza» politica, costantemente in prima linea: ma dal 5 ottobre 2006 la De Albertis chiede indietro il suo denaro. E la sentenza depositata qualche giorno fa condanna Prosperini a onorare il debito. Restituire il prestito. Arrestato nel 2009, nel 2010 Prosperini ha patteggiato 3 anni e 5 mesi in un processo per corruzione, per le tangenti sulla promozione in Tv del turismo. Di nuovo arrestato per esportazione e vendita illegale di materiale da guerra in Eritrea (10 cannocchiali notturni di terza generazione per fucili di precisione), il «Prospero» (come tutti lo chiamavano) nel 2018 è stato di nuovo condannato in Appello bis anche per quella vicenda. Ma questo è ormai il tempo del tramonto, del rapido scivolare nel quasi anonimato. Nel 2002 invece Prosperini era un personaggio ingombrante e dominante nella politica milanese. Lo era per la mole: «uno e novanta di altezza, 140 di torace». Per la popolarità, in positivo o in negativo, quando dalle tv locali lanciava i suoi strali anti-immigrati: «Non rispetti le leggi e i valori italiani? Camel e barcheta e te turnet a cà». Per gli autoproclami dei «santini» elettorali: in cui si definiva «Baluardo della Cristianità, difensore della Fede, flagello dei centri sociali». Ecco, nell’epoca di splendore, in quel giorno di febbraio 2002, la contabilità di due banche milanesi registra due movimenti «contestuali»: la De Albertis preleva quel milione e mezzo abbondante di euro, Prosperini versa la stessa identica somma. I giudici hanno «ritenuto dimostrata la consegna della somma dalla De Albertis a Prosperini alla luce dei documenti prodotti e in particolare delle movimentazioni dei conti correnti». Poco dopo gli stessi magistrati smontano la tesi alternativa, «ritenendo inverosimile la tesi del Prosperini», che sosteneva che Carla De Albertis avesse «prelevato e tenuto le somme per sé, mentre lui aveva versato sul suo conto i risparmi della madre, che li teneva in casa». Le carte giudiziarie rivelano anche che Prosperini, «nei 4 giorni successivi all’operazione», aveva «prelevato tutte le somme giacenti ed estinto il conto». L’ex consigliera (uscita dalla politica in opposizione all’istituzione dell’Ecopass, quando era sindaco Letizia Moratti, nel 2007) ha depositato in Tribunale anche due scritture in cui Prosperini dichiarava di aver fatto una polizza assicurativa a garanzia del prestito (nel 2004) e si impegnava alla restituzione senza interessi (firma del 2005). Anche questi due documenti sono stati riconosciuti come prova a favore di Carla De Albertis. Resta ignoto a cosa sia servita quella somma. Prosperini è stato condannato anche al pagamento delle spese di giudizio. Altri 10.200 euro.

·         Il Sirigate.

Maria Elena Vincenzi per “la Repubblica” il 16 luglio 2019. Nuova tegola per Armando Siri, l' ex sottosegretario leghista che proprio ieri è riapparso per la prima volta dopo le sue dimissioni a fianco di Salvini al Viminale nell' incontro con i sindacati sulla manovra. Si aggrava infatti la sua posizione nell' inchiesta della procura di Roma che lo vede indagato per corruzione e che lo ha costretto a dimettersi. I pm della capitale hanno ieri notificato a lui e a Paolo Arata la richiesta di sentire Vito e Manlio Nicastri, padre e figlio, imprenditori dell' eolico siciliani, in incidente probatorio. Vito, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa (secondo gli inquirenti avrebbe favorito la latitanza di Matteo Messina Denaro) è, per gli inquirenti, il socio occulto di Arata. I due, padre e figlio, in questi mesi sono stati interrogati dai magistrati palermitani e da quelli di Roma. A questi ultimi, che indagano su una presunta mazzetta data o promessa (ai fini della contestazione di corruzione non cambia che il denaro sia stato effettivamente versato) all' ex sottosegretario leghista ai Trasporti Armando Siri, i due parenti hanno confermato una serie di circostanze. Nulla che sapevano direttamente, solo dettagli de relato: la tangente all' ex esponente del governo l' avrebbe pagata Arata. Ma i Nicastri, davanti agli inquirenti, hanno riportato alcuni dettagli che, secondo il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il sostituto Mario Palazzi (titolari dell' inchiesta romana), sarebbero utili per dimostrare che i soldi sono stati quantomeno promessi. L'ipotesi dell' accusa, che si basa su intercettazioni tra Paolo Arata e suo figlio Francesco che lavora con lui, è che il leghista abbia ricevuto, la promessa (se non addirittura il contante) di 30 mila euro per appoggiare una serie di emendamenti a favore del mini-eolico. Provvedimenti che avrebbero aiutato il business degli Arata. Padre e figlio, poi, sono stati arrestati per corruzione dai magistrati della Dda di Palermo per un giro di tangenti alla Regione Siciliana. E le pressioni di Siri sul ministero dello Sviluppo Economico per far inserire un emendamento prima, nel decreto legislativo sugli incentivi per gli impianti e, poi, nella legge di bilancio, sono state confermate dai vertici del ministero. Non solo: secondo i magistrati romani, Arata ha sfruttato tutte le sue conoscenze nella politica (è stato anche ex deputato di Forza Italia) per cercare, in fase di formazione del governo gialloverde, di garantire all' amico leghista un ruolo di prestigio. A questi indizi, ora i pm voglio aggiungere le dichiarazioni dei due Nicastri. L'incidente probatorio, che prevede il contraddittorio, permetterà infatti di cristallizzare quelle dichiarazioni una volta per tutte. E di non doverli riconvocare, semmai sarà, a processo.

Salvatore Cannavò per ''il Fatto Quotidiano'' il 16 luglio 2019. "Sai che c' è, ogni interlocuzione è utile e per il sindacato, venire convocati ai tavoli è tutta salute". Un sindacalista commenta così in serata la giornata del confronto con il leader leghista Matteo Salvini. Che ha gestito la riunione con "una logica democristiana": cordiale, capace di ascoltare. Anche quando Maurizio Landini ha fatto notare che su "sicurezza e porti chiusi" non la pensiamo allo stesso modo ha lasciato capire che si può discutere. Lo stesso Landini , in serata, ribadisce che la convocazione "è frutto di piazze che si sono riempite: anche chi ha votato questo governo non sono contenti". Se il governo chiama, quindi, si va, chiunque chiami, "noi stiamo facendo il nostro mestiere". La strategia dell' attenzione di Salvini, però, ha mandato su tutte le furie l' altro vicepremier, Luigi Di Maio, ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico e quindi l' interlocutore ufficiale delle parti sociali. Solo che Di Maio non se l'è presa con Salvini, ma con i sindacati: "Per quanto riguarda la partecipazione dei sindacati al tavolo con Siri, affar loro. Se vogliono trattare con un indagato per corruzione messo fuori dal governo, invece che con il governo stesso, lo prendiamo come un dato. E ci comportiamo di conseguenza", ha scritto su Facebook. "Parlino pure con Siri, parlino pure con chi gli vuole proteggere le pensioni d' oro e i privilegi. Hanno fatto una scelta di campo, la facciamo pure noi!". Un messaggio stizzito, definito "inaccettabile e offensivo" da parte di Cgil , Cisl e Uil, che ricordano di essere "ancora in attesa di ricevere la calendarizzazione degli incontri specifici" da parte dello stesso Di Maio e di Conte. La più ottimista nel dialogo è la segretaria della Cisl, Annamaria Furlan, che ha ritenuto "soddisfacente" l' apertura di un confronto e ha difeso anche l' opportunità di aver tenuto il tavolo: "Abbiamo così poche occasioni di confronto che quando ne capita una". Più abbottonata la Cgil che ufficialmente ha ribadito i punti della piattaforma unitaria portata al tavolo e che con Salvini ha un problema di fondo legato alle politiche sui migranti. Ma che non può nascondere la delusione per il rapporto avuto finora con Conte e Di Maio. "Insoddisfatta", invece, la Uil di Carmelo Barbagallo. Il punto, però, pensano tutti, è che non si capisce "quanti governi davvero ci siano" e quanto siano affidabili i vari interlocutori. E tutti aspettano il prossimo tavolo e le proposte, possibilmente scritte, su cui dialogare. Ma ieri tra Di Maio e sindacati si è scavato un altro fossato. Salvini non può che essere contento.

Giorgia Meloni attacca Luigi Di Maio: "Altroché onestà, Marcello De Vito non è ancora stato espulso dal M5s". Libero Quotidiano i 16 Luglio 2019. "Nonostante gli annunci di Luigi Di Maio, apprendiamo dalla stampa che Marcello De Vito, arrestato quattro mesi fa per corruzione, non sarebbe ancora stato espulso dal Movimento 5 Stelle". Giorgia Meloni, in un post pubblicato sul suo profilo Twitter, smaschera il vicepremier grillino e il Movimento che predica l'onestà, degli altri: "Passano giornate a dar patenti di onestà al prossimo ma quando tocca a loro dimostrare di essere onesti si comportano peggio degli altri". La leader di Fratelli d'Italia ripropone quindi un video in cui Di Maio dice che De Vito "è fuori e deve stare a chilometri di distanza dal Movimento". 

Stefania Piras per “il Messaggero” il 16 luglio 2019. L'espulsione di Marcello De Vito? Non c'è mai stata, è stata solo proclamata da Luigi Di Maio la mattina dell'arresto del presidente dell'Assemblea capitolina. E dunque non ha mai avuto efficacia. Con il caso De Vito emerge dunque la volatilità del partito stellato che con un clic, con una mail mai aperta dal diretto interessato però, ha fatto fuori la «mela marcia» De Vito. Solo una settimana fa i legali dei Cinquestelle hanno inviato un ufficiale giudiziario a casa di De Vito per notificargli non l'espulsione ma l'apertura del procedimento disciplinare. Gli hanno fatto arrivare una raccomandata in cui gli si dice che è «sottoposto a procedimento disciplinare». Questo è successo il 9 luglio e quindi quattro giorni dopo che De Vito ha lasciato il carcere, è tornato a casa grazie agli arresti domiciliari e tre giorni prima che la Cassazione si pronunciasse sull'ordinanza di arresto. Stavolta Di Maio ha usato molta più cautela. Semplice: i legali glielo dissero fin da subito che De Vito avrebbe potuto fare ricorso ed essere pienamente reintegrato nel Movimento. Ma facciamo un passo indietro. La mattina del 20 marzo scorso, due ore dopo la diffusione della notizia dell'arresto di De Vito per corruzione, Luigi Di Maio scrisse su Facebook, mica su carta bollata, che De Vito era fuori perché «loro erano diversi». Ma sapeva già di violare lo statuto e il codice etico perché i procedimenti disciplinari, nei codici grillini, li aprono i probiviri, non il capo politico. E infatti ammise di averli scavalcati: «Mi assumo io la responsabilità di questa decisione, come capo politico, e l'ho già comunicata ai probiviri - scrisse Di Maio - Quanto emerge in queste ore oltre ad essere grave è vergognoso, moralmente basso e rappresenta un insulto a ognuno di noi». Non un briciolo di cautela. Disse che «essersi presumibilmente avvicinati a certe dinamiche, per un eletto del MoVimento, è inaccettabile. De Vito potrà e dovrà infatti difendersi in ogni sede, nelle forme previste dalla legge, ma lo farà lontano dal MoVimento 5 Stelle». Quel giorno partì una mail indirizzata a De Vito in cui c'erano le contestazioni dei probiviri, e non di Di Maio, e in cui si diceva che si apriva un procedimento disciplinare. Ma il presidente dell'Assemblea capitolina né in carcere né ai domiciliari ha potuto o può consultare la posta elettronica. Non può nemmeno autosospendersi come è consigliato nello statuto perché non può scrivere a chicchessia. La raccomandata di qualche giorno fa serve a dare un presupposto giuridico alla rabbia di Di Maio, insomma. Ma rimarrà lettera morta: De Vito non può controdedurre alle contestazioni. Anche Di Maio sa che non sarà facile dare seguito alla sua intransigenza. A Milano il 5 luglio scorso durante l'assemblea con gli attivisti si è tradito. «De Vito è stato espulso subito da me che non potevo farlo e magari mi farà pure causa. E sarà reintegrato». Ecco perché quell'espulsione in pompa magna si è rivelata una sparata. Gli avvocati gli hanno fatto notare fin dal primo giorno che è lui ad aver violato lo Statuto. Non c'è scritto da nessuna parte che il capo politico può irrogare le sanzioni disciplinari e non c'è scritto da nessuna parte che un'indagine per corruzione faccia scattare automaticamente la sanzione. Bisogna aspettare semmai una condanna in primo grado. D'altronde il codice etico introdusse il paletto della condanna per salvare Raggi e permetterle di affrontare il processo. Niente sanzioni dunque. Ma la gogna sì, quella scatta sempre. E intanto De Vito è ancora dentro il Movimento ed è ancora titolare della poltrona più alta dell'Aula Giulio Cesare, perché Raggi e i consiglieri di maggioranza che ripetevano a pappagallo le parole di Di Maio, «Noi li cacciamo subito», non riescono proprio a revocare il presidente dell'Assemblea capitolina De Vito.

 “CORRUZIONE? NON SO DI COSA STIAMO PARLANDO”. Umberto Mancini per “il Messaggero” il 19 aprile 2019. «Da una parte sono allibito, deluso, amareggiato. Dall' altra sono anche fiducioso di poter dimostrare che sono completamente estraneo a questa vicenda. E sono tranquillo perché non ho mai fatto nulla di illegale, nulla di contrario ai miei impegno istituzionali e di cittadino». Parla con un filo di voce Armando Siri al termine di una giornata da incubo. E' in aula, in Parlamento, osservato dai colleghi, ma non rinuncia a rispondere, a dire la sua. Anche se lo fa quasi sussurrando per non disturbare. Lui, il teorico della flat tax della Lega, il consigliere economico più ascoltato di Matteo Salvini, il sottosegretario alle Infrastrutture in perenne attrito con il ministro Danilo Toninelli, non si aspettava di finire nella tempesta giudiziaria. E di finirci ora, alla vigilia delle elezioni europee e in un momento in cui i rapporti tra grillini e Lega sono ai minimi termini. Una tempesta che sta scuotendo dalle fondamenta il governo e che rischia di compromettere in maniera irreversibile i rapporti tra i due alleati.

«Guardi sono innocente, non ho fatto nulla, mi creda - dice in questa intervista al Messaggero - ora non voglio aggiungere nulla, ci penseranno gli avvocati, sono davvero stupito e dimostrerò quanto sto affermando».

Comunque da questa mattina risulta indagato per pressioni indebite e di corruzione. Si parla di 30 mila euro che lei avrebbe ottenuto per proporre degli emendamenti.

«La blocco. Io non c' entro nulla. E sono tranquillissimo».

Eppure le accuse sembrano pesanti.

«Guardi, non so veramente di cosa stiamo parlando». 

Lei, secondo i magistrati che l'accusano, avrebbe avuto frequenti rapporti con un faccendiere impegnato nel settore eolico, su cui indaga proprio la Dia da tempo.

«Non so chi sia questa persona. Non so assolutamente nulla di questa storia e poi di emendamenti me ne chiedono ottocento al giorno, non sto a guardarli tutti. Di certo seguo le regole».

La sua vicenda giudiziaria ha scatenato una vera guerra a tutto campo tra Lega e 5Stelle dopo che il ministro Toninelli ha chiesto l'immediata revoca delle sue deleghe. Di fatto non ha aspettato nemmeno un secondo e appena diffusa la notizia le ha subito tolto la fiducia. Come si sente? Tradito e già condannato?

«Ci sono rimasto male. Mi sembra tutto davvero assurdo. Sono da poco in politica, ma sto imparando sulla mia pelle che ci vuole un pelo sullo stomaco grande così. Ci vuole una freddezza assoluta per evitare che i rapporti umani vengano spazzati via in pochi istanti. Non mi aspettavo questa reazione. E' stato spezzato, ripeto, un rapporto umano».

Senza nemmeno aspettare la conclusioni delle indagini.

«Appunto».

Il vice premier Matteo Salvini le ha espresso invece massima solidarietà, così come tutto il partito che si è scagliato contro il giustizialismo dei 5stelle Questo almeno la rinfranca?

«Mi dà fastidio come sono stato trattato. Di questo caso non conosco i contorni. Come lo devo ripetere? Certo la solidarietà mi ha fatto piacere. Alla fine la verità verrà a galla».

Chiederà alla Bongiorno di farle da avvocato?

«Non lo so. Vedremo. Certo chiederò un consiglio. Voglio dimostrare che non c' entro e vorrei essere ascoltato al più presto per chiarire e spiegare».

Ma lei questo Arata lo conosce?

«Sì, lo conosco. E' uno stimato docente genovese, un professore preparato. Delle altre faccende non so nulla. Ora devo andare, c' è la discussione qui in Senato che prosegue, non voglio che si interrompa. Sono una persona per bene».

Il consigliere economico di Salvini? Un bancarottiere. Chi è l'uomo della Flat Tax. Gli scheletri nell'armadio di Armando Siri, fedelissimo del leader della Lega e teorico dell'aliquota unica al 15 per cento che tanto piace agli imprenditori del Nord, scrivono Giovanni Tizian e Stefano Vergine l'8 marzo 2018 su L'Espresso. Una condanna patteggiata per bancarotta fraudolenta. Due società con sede legale in un paradiso fiscale. Un socio indagato per corruzione in un'inchiesta dell'antimafia di Reggio Calabria. È questo il palmares imprenditoriale di Armando Siri, l'ideologo della flat tax targata Lega, l'uomo scelto da Matteo Salvini come consigliere economico. L'Espresso, in edicola da domenica 11 marzo, ha indagato sugli affari privati del neo senatore leghista considerato il padre della riforma fiscale promessa da Salvini: un'aliquota unica al 15 per cento, che nelle speranze degli elettori del Carroccio riuscirà a rivitalizzare l'economia italiana senza mandare a picco i conti pubblici. Responsabile della “Scuola di formazione politica” della Lega, Siri in pochi anni è diventato uno dei fedelissimi del segretario federale, che lo ha infatti nominato responsabile economico di Noi con Salvini. Mister flat tax ha però qualche scheletro nell'armadio, a partire dalla condanna a 1 anno e 8 mesi per bancarotta fraudolenta. Condanna comminata tre anni e mezzo fa dal tribunale di Milano in sede di patteggiamento per il fallimento della Mediatalia, società che ha lasciato debiti per oltre 1 milione di euro. Cosa è successo dopo il voto, quali fenomeni profondi della società italiana hanno prodotto le elezioni e cosa accadrà ora: a queste domande cerchiamo di rispondere nel numero del giornale in edicola domenica 11 marzo. Dal racconto di Massimo Cacciari sul popolo perduto della sinistra italiana ed europea ai "Grillini del Golfo", nuovi padroni del Sud; dalla Leganomics e i suoi ideologi a quel che rimane dopo il terremoto elettorale nell'analisi di storici e politologi, riuniti in un forum dell'Espresso. Infine, la pagina dedicata ai 40 anni dal sequestro di Aldo Moro, per capire meglio l'Italia di oggi. Secondo i magistrati che hanno firmato la sentenza, prima del crack Siri e soci hanno svuotato l'azienda trasferendo il patrimonio a un'altra impresa la cui sede legale è stata poco dopo spostata nel Delaware, paradiso fiscale americano.

Lega, L’Espresso: “L’ideologo della Flat Tax Armando Siri patteggiò per bancarotta fraudolenta”. Ex giornalista, 46 anni, eletto al Senato ha patteggiato una pena per bancarotta fraudolenta. Tre anni e mezzo fa quindi un giudice ha accolto l'accordo tra accusa e difesa per il fallimento della MediaItalia, società che avrebbe lasciato debiti per oltre 1 milione di euro, scrive Il Fatto Quotidiano il 12 Marzo 2018. Prima della campagna elettorale Matteo Salvini, segretario della Lega, pensava per lui a un ruolo di governo, magari un ministero economico. Eppure, stando a quanto riporta L’Espresso, Armando Siri, 46 anni, eletto al Senato, ideologo della flat tax, ha patteggiato una pena per bancarotta fraudolenta. Tre anni e mezzo fa un giudice ha accolto l’accordo tra accusa e difesa per il fallimento della MediaItalia, società che avrebbe lasciato debiti per oltre 1 milione di euro. Nelle motivazioni, riporta il settimanale, i magistrati che hanno firmato la sentenza scrivono che, prima del crack, Siri e soci hanno svuotato l’azienda trasferendo il patrimonio a un’altra impresa la cui sede legale è stata poco dopo spostata nel Delaware, paradiso fiscale Usa. La società, secondo quanto ricostruito nell’articolo, aveva iniziato l’attività nel 2002 nel settore della produzione di contenuti editoriali per media e aziende: oltre Siri, già giornalista Mediaset, altri due soci. Nel 2005 però il rosso è già di un milione di euro. Il patrimonio viene trasferito a un’altra società, la Mafea Comunication: i creditori rimangono a bocca asciutta anche perché MediaItalia viene chiusa e viene nominata liquidatriceuna cittadina dominicana, che fa la parrucchiera. Per i giudici una testa di legno. Ci sono poi due società italiane in cui il neosenatore ha avuto ruoli importanti che hanno trasferito la sede legale in Delaware e hanno lo stesso indirizzo. In un caso ricompare anche la parrucchiera dominicana. Responsabile della “Scuola di formazione politica” della Lega, Siri in pochi anni è diventato uno dei fedelissimi del segretario federale, che lo ha infatti nominato responsabile economico di Noi con Salvini. Della tassa che con aliquota fissa negli ultimi giorni ha continuato a dire: “È un progetto necessario al Paese, finora abbiamo curato per anni una polmonite con la tachipirina. In questa campagna elettorale si sono aggregati intorno alla proposta della flat tax altri partiti; gli stessi Padoan e Renzi, prima della campagna elettorale, dichiararono che la flat tax può essere un’idea interessante”. Quindi ha aggiunto: “Inutile cercare di spremere un limone secco” a proposito della possibilità di una rottamazione delle cartelle di Equitalia a sostegno della ‘flat tax’ spiegandone i dettagli. “Il condono sarà di 60 miliardi – continua Siri – in passato abbiamo fatto la ‘voluntary disclosure’ dando la possibilità a chi aveva portato i capitali all’estero di riportarli in Italia con uno sconto che può sembrare un paradosso per i poveri cristi che sono rimasti qui, magari hanno le cartelle, hanno chiuso l’attività ed hanno lo Stato che li insegue per farsi dare 40mila euro quando non hanno i soldi per vivere”. Chissà se, quando diceva queste parole, pensava anche alla sua esperienza di imprenditore fallito.

Esclusivo: la flat tax di Matteo Salvini è un'idea di un bancarottiere. Armando Siri, l’ideologo dell’aliquota unica al 15 per cento,  ha patteggiato una condanna a un anno e 8 mesi per un crac. Due società in cui il guru del leader leghista ha avuto ruoli di spicco hanno trasferito la sede legale in un paradiso fiscale. E uno dei suoi soci è indagato dall'antimafia di Reggio Calabria, scrivono Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 12 marzo 2018 su L'Espresso. Mettereste un condannato per bancarotta fraudolenta a gestire il vostro conto corrente? Fatte le debite proporzioni, è proprio quello che ha fatto Matteo Salvini. L’uomo scelto dal leader felpato come responsabile economico del suo partito (Noi con Salvini, fondato per creare proseliti leghisti nel centro e sud Italia) è infatti Armando Siri, condannato tre anni e mezzo fa dal tribunale di Milano in sede di patteggiamento per il crac della MediaItalia, società che ha lasciato debiti per oltre un milione di euro. È a questo 46enne di Genova, giornalista che vanta un passato nella gioventù socialista e un’amicizia personale con Bettino Craxi, che il capo del Carroccio ha affidato il compito di ridisegnare il sistema fiscale italiano: Siri è infatti l’ideologo della flat tax, l’aliquota unica al 15 per cento, la tassa piatta che nelle speranze dei leghisti riuscirà a rivitalizzare l’economia italiana senza mandare a picco i conti pubblici. Responsabile della “Scuola di formazione politica” della Lega, autore di parecchi saggi politico-economici come “La Beffa” e “Il Sacco all’Italia”, in pochi anni Siri è diventato uno dei fedelissimi di Salvini. Che infatti gli ha garantito un posto da senatore piazzandolo in cima alla lista dei candidati nell’Emilia appena conquistata dal Carroccio. Un’elezione ottenuta grazie all’idea della flat tax che tanto piace ai piccoli imprenditori seguaci di Matteo. Ma non è solo questo il merito di Siri. Salvini gli ha affidato anche il compito di stringere relazioni con aziende, banche e governi stranieri. È l’ex giornalista di Mediaset che ha organizzato nel gennaio scorso un viaggio a New York in cui “il capitano” avrebbe dovuto incontrare esponenti dell’amministrazione Trump. Ed è sempre Mister flat tax ad aver tenuto conferenze finanziarie come quella organizzata a Londra da Mediobanca nel dicembre di due anni fa, o ad aver pianificato riunioni tra il segretario leghista e i rappresentanti diplomatici della Russia in Italia. Una ricerca di agganci a Oriente che interessa molti imprenditori nostrani alle prese con le sanzioni imposte a Mosca. Tanto che sempre Siri, come risulta all’Espresso, sarebbe riuscito a organizzare un incontro con Luigi Cremonini, proprietario dell’omonima azienda che in Russia ha realizzato investimenti milionari. Siri angelo custode di Matteo, dunque: suo consigliere economico, finanziario e diplomatico. Con qualche scheletro nell’armadio, primo fra tutti il fallimento della sua MediaItalia e la condanna patteggiata a 1 anno e 8 mesi per bancarotta fraudolenta. Una macchia finora rimasta segreta, che L’Espresso è in grado di raccontare basandosi sulla sentenza e una serie di documenti societari. La MediaItalia nasce a Milano nel 2002 per iniziativa di Siri e di due soci di minoranza, Ciro Pesce e Fabrizio Milan. Si occupa di produrre contenuti editoriali per media e aziende, tanto da diventare poco dopo responsabile della produzione del giornale di bordo della Airone, la compagnia aerea creata dall’imprenditore Carlo Toto. Gli affari vanno bene, il fatturato cresce di continuo. Ma a salire vertiginosamente sono anche i debiti, che nel 2005 superano il milione di euro. È a quel punto che le cose cambiano. Siri e soci trasferiscono tutto il patrimonio della MediaItalia a un’altra azienda, la Mafea Comunication, che in cambio non paga nemmeno un euro. Meno di un anno dopo Siri decide di chiudere la MediaItalia e nomina come liquidatrice Maria Nancy Marte Miniel, immigrata in Italia da Santo Domingo e oggi ufficialmente titolare di un negozio di parrucche e toupet a Perugia. «Una vera e propria testa di legno», la definiranno i giudici nella sentenza di condanna. Già, perché la donna non ha le competenze per gestire un’azienda né i mezzi per pagare i debiti. E così a rimanere con il cerino in mano sono i creditori della MediaItalia: fornitori, banche e lo Stato italiano. Lo stesso che adesso Siri vuole rappresentare in qualità di uomo di governo. La sentenza del tribunale di Milano parla chiaro: l’ideologo della flat tax e i suoi soci, Fabrizio Milan e Andrea Iannuzzi, hanno provocato il fallimento della società con operazioni dolose, svuotando l’azienda e omettendo di pagare alle amministrazioni dello Stato 162 mila euro tra tasse e contributi previdenziali. Avevano pure tentato di rendere la vita difficile agli inquirenti spostando nel Delaware, paradiso fiscale statunitense, la sede legale e i libri contabili della Mafea Comunication, l’azienda a cui erano stati trasferiti gli asset della MediaItalia. Una strategia - hanno ricostruito le indagini giudiziarie - architettata insieme al gruppo di commercialisti a cui si erano rivolti Siri e compagni. Fra questi spicca il nome di Antonio Carlomagno, professionista milanese già coinvolto nell’indagine giudiziaria sulla Perego Strade, la società di Lecco scalata e spolpata dalla ’ndrangheta lombarda tra il 2008 e il 2010. Carlomagno è uno dei commercialisti finiti sotto accusa - e poi assolto - per il fallimento delle aziende del gruppo Perego. Ed è lo stesso arrestato nel 2011 dalla guardia di finanza di Como perché considerato la mente di un vorticoso giro di società cartiere usate per frodare l’Iva. Scatole piene di debiti fiscali, spesso basate proprio nel Delaware, dove le tasse sono basse e la trasparenza societaria è praticamente nulla. Per questo colpisce ritrovare più volte il piccolo Stato affacciato sull’Oceano Atlantico nella parabola imprenditoriale di Siri. Non solo nella vicenda MediaItalia. Altre due società italiane in cui il guru economico di Salvini ha avuto ruoli di spicco (socio di maggioranza e amministratore unico) hanno infatti trasferito la sede legale nella piazza offshore a stelle e strisce. È successo negli stessi anni in cui la MediaItalia andava a picco. Le aziende in questione si chiamano Top Fly Edizioni e Metropolitan Coffee and Food. Due imprese simili, almeno così pare guardando i bilanci. Nate nei primi anni 2000, iniziano a fatturare sempre di più, ma contemporaneamente aumentano a dismisura i debiti. Finché Siri e gli altri soci italiani escono, al loro posto entrano azionisti e amministratori stranieri (tra cui la stessa dominicana Maria Nancy Marte Miniel) e la sede legale viene spostata nel Delaware. Un caso, forse. Di certo colpisce un particolare. Top Fly Edizioni, Metropolitan Coffee and Food e Mafea Comunication hanno sede allo stesso indirizzo: Barksdale Road, civico 113, comune di Newark.

C’è poi un’altra questione che potrebbe imbarazzare il consigliere economico di Salvini. Uno degli uomini che ha fondato insieme a lui la Top Fly Edizioni - presente insieme a Siri nell’azionariato dell’impresa fino alla cessione di tutte le quote alla testa di legno dominicana Marte Miniel - è Luigi Patimo, responsabile del mercato italiano per il gruppo Acciona, colosso spagnolo delle infrastrutture che in Italia porta l’acqua nelle case di 2,5 milioni di famiglie. Ebbene, un anno e mezzo fa Patimo è stato indagato dall’antimafia di Reggio Calabria insieme a Marcello Cammera, responsabile dei lavori pubblici nel municipio dello Stretto, oggi imputato per concorso esterno alla ’ndrangheta nel processo Gotha. Nel dibattimento che vede alla sbarra la zona grigia della mafia calabrese, impastata di massoneria e colletti bianchi, Patimo non è imputato, ma il filone che lo riguarda resta ancora aperto. Secondo i pubblici ministeri, che si sono avvalsi della collaborazione del nucleo investigativo dei carabinieri di Reggio, il manager della multinazionale iberica è coinvolto in un caso di corruzione: avrebbe promesso al dirigente comunale in odore di clan (Cammera) assunzioni e consulenze. Storiaccia intricata, nella Calabria di oggi in cui la Lega ha collezionato un risultato che nessun padano avrebbe mai immaginato. Se gli affari comuni di Siri e Patimo nella Top Fly Edizioni sono ormai ufficialmente acqua passata, c’è una società in cui i due compaiono ancora come azionisti e amministratori. Si chiama Profilo ed è attiva ufficialmente nel commercio di abbigliamento per adulti e bambini. Di bilanci depositati alla Camera di commercio non c’è nemmeno l’ombra, nonostante l’impresa sia stata fondata quattordici anni fa. D’altronde Mr flat tax lo ripete di continuo: garantiremo agli italiani meno tasse e meno burocrazia. Lui, evidentemente, si è già portato avanti.

Armando Siri, il bancarottiere ideatore della flat tax di Matteo Salvini. L’ideologo dell’aliquota unica al 15 per cento ha patteggiato una condanna a un anno e 8 mesi per un crac. Due società in cui il guru del leader leghista ha avuto ruoli di spicco hanno trasferito la sede legale in un paradiso fiscale. E uno dei suoi soci è indagato dall'antimafia di Reggio Calabria, scrivono Giovanni Tizian e Stefano Vergine il il 12 marzo 2018 su L'Espresso. Mettereste un condannato per bancarotta fraudolenta a gestire il vostro conto corrente? Fatte le debite proporzioni, è proprio quello che ha fatto Matteo Salvini. L’uomo scelto dal leader felpato come responsabile economico del suo partito (Noi con Salvini, fondato per creare proseliti leghisti nel centro e sud Italia) è infatti Armando Siri, condannato tre anni e mezzo fa dal tribunale di Milano in sede di patteggiamento per il crac della MediaItalia, società che ha lasciato debiti per oltre un milione di euro. È a questo 46enne di Genova, giornalista che vanta un passato nella gioventù socialista e un’amicizia personale con Bettino Craxi, che il capo del Carroccio ha affidato il compito di ridisegnare il sistema fiscale italiano: Siri è infatti l’ideologo della flat tax, l’aliquota unica al 15 per cento, la tassa piatta che nelle speranze dei leghisti riuscirà a rivitalizzare l’economia italiana senza mandare a picco i conti pubblici. Responsabile della “Scuola di formazione politica” della Lega, autore di parecchi saggi politico-economici come “La Beffa” e “Il Sacco all’Italia”, in pochi anni Siri è diventato uno dei fedelissimi di Salvini. Che infatti gli ha garantito un posto da senatore piazzandolo in cima alla lista dei candidati nell’Emilia appena conquistata dal Carroccio. Un’elezione ottenuta grazie all’idea della flat tax che tanto piace ai piccoli imprenditori seguaci di Matteo. Ma non è solo questo il merito di Siri. Salvini gli ha affidato anche il compito di stringere relazioni con aziende, banche e governi stranieri. È l’ex giornalista di Mediaset che ha organizzato nel gennaio scorso un viaggio a New York in cui “il capitano” avrebbe dovuto incontrare esponenti dell’amministrazione Trump. Ed è sempre Mister flat tax ad aver tenuto conferenze finanziarie come quella organizzata a Londra da Mediobanca nel dicembre di due anni fa, o ad aver pianificato riunioni tra il segretario leghista e i rappresentanti diplomatici della Russia in Italia. Una ricerca di agganci a Oriente che interessa molti imprenditori nostrani alle prese con le sanzioni imposte a Mosca. Tanto che sempre Siri, come risulta all’Espresso, sarebbe riuscito a organizzare un incontro con Luigi Cremonini, proprietario dell’omonima azienda che in Russia ha realizzato investimenti milionari. Siri angelo custode di Matteo, dunque: suo consigliere economico, finanziario e diplomatico. Con qualche scheletro nell’armadio, primo fra tutti il fallimento della sua MediaItalia e la condanna patteggiata a 1 anno e 8 mesi per bancarotta fraudolenta. Una macchia finora rimasta segreta, che L’Espresso è in grado di raccontare basandosi sulla sentenza e una serie di documenti societari. La MediaItalia nasce a Milano nel 2002 per iniziativa di Siri e di due soci di minoranza, Ciro Pesce e Fabrizio Milan. Si occupa di produrre contenuti editoriali per media e aziende, tanto da diventare poco dopo responsabile della produzione del giornale di bordo della Airone, la compagnia aerea creata dall’imprenditore Carlo Toto. Gli affari vanno bene, il fatturato cresce di continuo. Ma a salire vertiginosamente sono anche i debiti, che nel 2005 superano il milione di euro. È a quel punto che le cose cambiano. Siri e soci trasferiscono tutto il patrimonio della MediaItalia a un’altra azienda, la Mafea Comunication, che in cambio non paga nemmeno un euro. Meno di un anno dopo Siri decide di chiudere la MediaItalia e nomina come liquidatrice Maria Nancy Marte Miniel, immigrata in Italia da Santo Domingo e oggi ufficialmente titolare di un negozio di parrucche e toupet a Perugia. «Una vera e propria testa di legno», la definiranno i giudici nella sentenza di condanna. Già, perché la donna non ha le competenze per gestire un’azienda né i mezzi per pagare i debiti. E così a rimanere con il cerino in mano sono i creditori della MediaItalia: fornitori, banche e lo Stato italiano. Lo stesso che adesso Siri vuole rappresentare in qualità di uomo di governo. La sentenza del tribunale di Milano parla chiaro: l’ideologo della flat tax e i suoi soci, Fabrizio Milan e Andrea Iannuzzi, hanno provocato il fallimento della società con operazioni dolose, svuotando l’azienda e omettendo di pagare alle amministrazioni dello Stato 162 mila euro tra tasse e contributi previdenziali. Avevano pure tentato di rendere la vita difficile agli inquirenti spostando nel Delaware, paradiso fiscale statunitense, la sede legale e i libri contabili della Mafea Comunication, l’azienda a cui erano stati trasferiti gli asset della MediaItalia. Una strategia - hanno ricostruito le indagini giudiziarie - architettata insieme al gruppo di commercialisti a cui si erano rivolti Siri e compagni. Fra questi spicca il nome di Antonio Carlomagno, professionista milanese già coinvolto nell’indagine giudiziaria sulla Perego Strade, la società di Lecco scalata e spolpata dalla ’ndrangheta lombarda tra il 2008 e il 2010. Carlomagno è uno dei commercialisti finiti sotto accusa - e poi assolto - per il fallimento delle aziende del gruppo Perego. Ed è lo stesso arrestato nel 2011 dalla guardia di finanza di Como perché considerato la mente di un vorticoso giro di società cartiere usate per frodare l’Iva. Scatole piene di debiti fiscali, spesso basate proprio nel Delaware, dove le tasse sono basse e la trasparenza societaria è praticamente nulla. Per questo colpisce ritrovare più volte il piccolo Stato affacciato sull’Oceano Atlantico nella parabola imprenditoriale di Siri. Non solo nella vicenda MediaItalia. Altre due società italiane in cui il guru economico di Salvini ha avuto ruoli di spicco (socio di maggioranza e amministratore unico) hanno infatti trasferito la sede legale nella piazza offshore a stelle e strisce. È successo negli stessi anni in cui la MediaItalia andava a picco. Le aziende in questione si chiamano Top Fly Edizioni e Metropolitan Coffee and Food. Due imprese simili, almeno così pare guardando i bilanci. Nate nei primi anni 2000, iniziano a fatturare sempre di più, ma contemporaneamente aumentano a dismisura i debiti. Finché Siri e gli altri soci italiani escono, al loro posto entrano azionisti e amministratori stranieri (tra cui la stessa dominicana Maria Nancy Marte Miniel) e la sede legale viene spostata nel Delaware. Un caso, forse. Di certo colpisce un particolare. Top Fly Edizioni, Metropolitan Coffee and Food e Mafea Comunication hanno sede allo stesso indirizzo: Barksdale Road, civico 113, comune di Newark. C’è poi un’altra questione che potrebbe imbarazzare il consigliere economico di Salvini. Uno degli uomini che ha fondato insieme a lui la Top Fly Edizioni - presente insieme a Siri nell’azionariato dell’impresa fino alla cessione di tutte le quote alla testa di legno dominicana Marte Miniel - è Luigi Patimo, responsabile del mercato italiano per il gruppo Acciona, colosso spagnolo delle infrastrutture che in Italia porta l’acqua nelle case di 2,5 milioni di famiglie. Ebbene, un anno e mezzo fa Patimo è stato indagato dall’antimafia di Reggio Calabria insieme a Marcello Cammera, responsabile dei lavori pubblici nel municipio dello Stretto, oggi imputato per concorso esterno alla ’ndrangheta nel processo Gotha. Nel dibattimento che vede alla sbarra la zona grigia della mafia calabrese, impastata di massoneria e colletti bianchi, Patimo non è imputato, ma il filone che lo riguarda resta ancora aperto. Secondo i pubblici ministeri, che si sono avvalsi della collaborazione del nucleo investigativo dei carabinieri di Reggio, il manager della multinazionale iberica è coinvolto in un caso di corruzione: avrebbe promesso al dirigente comunale in odore di clan (Cammera) assunzioni e consulenze. Storiaccia intricata, nella Calabria di oggi in cui la Lega ha collezionato un risultato che nessun padano avrebbe mai immaginato. Se gli affari comuni di Siri e Patimo nella Top Fly Edizioni sono ormai ufficialmente acqua passata, c’è una società in cui i due compaiono ancora come azionisti e amministratori. Si chiama Profilo ed è attiva ufficialmente nel commercio di abbigliamento per adulti e bambini. Di bilanci depositati alla Camera di commercio non c’è nemmeno l’ombra, nonostante l’impresa sia stata fondata quattordici anni fa. D’altronde Mr flat tax lo ripete di continuo: garantiremo agli italiani meno tasse e meno burocrazia. Lui, evidentemente, si è già portato avanti.

“SIRI? PER ME UNO CHE PATTEGGIA UNA BANCAROTTA È COLPEVOLE DI UNA BANCAROTTA”. Da “Circo Massimo - Radio Capital” il 19 aprile 2019. Dalla regione Umbria governata dal PD al comune 5 stelle di Roma passando per l'inchiesta che coinvolge il leghista Siri, nelle ultime settimane sono stati diversi gli incroci fra politica e magistratura. "Parliamo di indagini per le quali non ci sono sentenze e serve doverosa cautela. Ma il tema corruzione non è un fenomeno che può essere archiviato semplicemente", dice a Circo Massimo, su Radio Capital, il presidente dell'Anticorruzione Raffaele Cantone, "Le indagini che per esempio hanno sfiorato il comune di Roma con riferimento al presidente del consiglio comunale mi sembravano molto preoccupati, ma noi che abbiamo il quadro sappiamo che ce ne sono tantissime, che riguardano vicende minori e dimostrano che la corruzione non è affatto un fenomeno archiviato. C'era chi aveva pensato che il tema potesse essere affrontato solo con un po' di buonsenso: il buonsenso è utile, è il primo motore del comportamento corretto, ma le regole servono a garantire le persone perbene e a evitare che i soggetti non perbene facciano quello che vogliano. A volte ho l'impressione che 'regola' venga considerata una cattiva parola". Cantone definisce "preoccupante" il meccanismo umbro della gestione dei posti di lavoro "in un settore delicatissimo come la sanità. Restando il beneficio del dubbio, preoccupa che oggetto di eventuali interventi clientelari sono anche le nomine di primari: il livello di pericolosità dello scegliere un primario che non sia il migliore ma che sia il più ammanigliato non mi sembra che possa essere messo in discussione". Nell'inchiesta umbra si parla anche di legami con la Massoneria: per il magistrato "non bisogna fare generalizzazioni, non credo che tutta la massoneria sia criminale o che questo di per sé sia sintomo di criminalità. Ma anche questo non meraviglia". A proposito di Siri, il ministro dell'interno Salvini lo ha definito "persona onesta e specchiata" nonostante avesse alle spalle il patteggiamento di una condanna a un anno e otto mesi per bancarotta fraudolenta: "Il giudizio di specchiatezza ha anche un che di soggettivo. Per me uno che patteggia una bancarotta è colpevole di una bancarotta. Poi io ho le mie valutazioni ritenendo che la bancarotta sia un reato grave, evidentemente il ministro Salvini la pensa diversamente", commenta Cantone. La discussione politica tocca anche il tema delle dimissioni in caso di rinvio a giudizio: servono delle regole? "Credo che debba esserci un'autoregolamentazione della politica, che si assume le responsabilità. Credo sia giusto che la politica valuti lo stato dell'indagine e la gravità delle imputazioni per fare le scelte. Per quanto si possano stabilire regole, sarà sempre difficile individuare la soluzione nel caso concreto", ragiona il magistrato, "A me non ha mai convinto l'idea di dimissioni immediate in caso di avviso di garanzia. Credo sia giusto fare la valutazione concreta dei fatti. E la valutazione concreta dei fatti può persino prescindere dal carattere di rilevanza penale. Ci sono comportamenti penalmente irrilevanti che sono politicamente gravi, per esempio la frequentazione di pregiudicati, per cui potrebbe essere necessario che qualcuno si dimetta senza aver commesso un illecito penale, e credo che sia giusto che la politica sia in grado di fare valutazioni corrette valutando caso per caso in relazione alla gravità". C'è voglia di deregolamentazione, dalla politica ad altre parti della società italiana: "Se deregolamentazione significa semplificazione, siamo d'accordo; se invece significa lasciare mani libere... credo sia una scelta legittima della politica ma anche pericolosa", dice Cantone, "Quando si gestiscono interessi pubblici, è necessario che ci siano le regole per stabilire come. Se non stabilisco le regole per come dare un appalto, lo posso dare a mio fratello e sarebbe legittimo". Parlando di appalti e sbloccacantieri, viene aumentato il livello degli appalti affidati previa richiesta di tre preventivi: "Credo sia una norma pericolosa", dice Cantone, "Se facciamo un preventivo per fare un lavoro a casa nostra, facciamo un minimo di sondaggio di mercato? Credo che vada fatto anche per la pubblica amministrazione. Credo che la previsione di un numero più alto di preventivi crei anche un minimo di concorrenza. Credo che questa norma non sia corretta, soprattutto sul piano di garantire migliori servizi per la pubblica amministrazione. Mantengo le mie riserve, non mi va di dire che è una norma sblocca tangenti, è esagerato, ma non va nella giusta direzione. E non credo che servirà davvero a sbloccare gli appalti. A me non risulta che ci siano mai stati blocchi per gli appalti sotto i 200mila euro. Il vero problema del Paese sono i grandissimi appalti, per i quali spesso viene fatta una progettazione non corretta o gare fatte male. La norma fino ai 200mila euro non so che effetti avrà, ma non sono quelli gli appalti che rappresentano i problemi del Paese". Dell'ampliamento del subappalto, invece, Cantone è "meno preoccupato. L'Europa ci ha chiesto di essere meno rigorosi, anche perché forse conosce meno i rischi del subappalto, ma dobbiamo tenerne conto. Nel provvedimento sicurezza l'utilizzo del subappalto irregolare viene punito in modo molto più grave del passato, non è più una contravvenzione ma un delitto. Il vero problema del subappalto è il rischio di infiltrazione della criminalità organizzata, e quella norma può garantire. Poi c'è un problema di carattere generale su come funzionano gli appalti: se vinco un appalto e subappalto il 50%, c'è un problema di efficienza. Ma sono meno preoccupato di quanto su questa norma si dica tanto, a mio modo di vedere. E della riforma dell'abuso d'ufficio che vuole proporre il ministro Salvini, Cantone pensa sia "un tema corretto da porsi, c'è un enorme iato fra i procedimenti che si avviano e quelli che si concludono con sentenza di primo grado, e ancora maggiore fra quelli con sentenza di primo grado e quelli con sentenza confermata in appello. C'è differenza, perché la norma è oggettivamente problematica. Credo che su questo punto sia corretto porsi il problema. Quella norma rappresenta un alibi spesso per gli amministratori per non assumersi la responsabilità. Io credo che l'abuso di ufficio sia opportuno che resti, bisognerebbe individuare un criterio per individuare con chiarezza quali sono le fattispecie davvero punibili. È un tema che credo sia opportuno che venga posto".

DI MAIO SA E HA LE PROVE. Luca De Carolis e Paola Zanca per “il Fatto Quotidiano” il 19 aprile 2019. Dicono di avere la prova. Quella che mancava: il riscontro inconfutabile che Armando Siri abbia davvero provato a incidere nella partita dell' eolico tanto cara al suo amico Paolo Arata, che gli è costata un' indagine per corruzione. E se fino a ieri la Procura di Roma non aveva in mano i testi precisi, ora sarà proprio il ministero dello Sviluppo Economico, quello guidato dal vicepremier Luigi Di Maio, a fornire gli elementi che possono appesantire la posizione del collega di governo leghista. La "massima collaborazione" con l' autorità giudiziaria è garantita, anche se ai piani alti del Mise tutti si trincerano dietro il riserbo, vista l' indagine in corso. È proprio in quegli uffici che Armando Siri si "è fatto carico" di portare avanti la sua missione per conto di Arata e del suo socio occulto (secondo la tesi della Procura) Vito Nicastri, l' imprenditore mafioso che avrebbe finanziato la latitanza del boss Matteo Messina Denaro. Un tentativo, raccontano, fermato dal gabinetto del ministro che ha ritenuto non ci fossero i "presupposti" per trasformarlo in una proposta normativa: si trattava di "una sanatoria", una "estensione di benefici" che in sostanza, già a prima vista, sembrava nascondere un favore a qualcuno. L' approfondimento su chi fosse il potenziale beneficiario della norma però, spiegano adesso, non è stato fatto. Nel caso del testo presentato al ministero dello Sviluppo economico si trattava di allargare gli incentivi previsti agli impianti più datati. Praticamente lo stesso principio contenuto nell' emendamento presentato alla legge di Bilancio, che aveva come primo firmatario il capogruppo della Lega al Senato Massimiliano Romeo. Fallito il tentativo sulla manovra, insomma, il sottosegretario Siri avrebbe giocato di sponda con i colleghi di partito. Che hanno ripresentato a palazzo Madama l' identica richiesta: applicare le "tariffe incentivanti" a tutti gli impianti entrati in vigore entro l' estate del 2017. L' emendamento non è passato. Prima che venisse messo ai voti è arrivato il parere negativo del ministero dell' Ambiente guidato da Sergio Costa: "Si esprime orientamento tecnico contrario - si legge nel parere - in quanto si sposta in avanti un termine per l' applicazione agli impianti a fonti rinnovabili di tariffe incentivanti più vantaggiose. Così si registrerebbe un impatto negativo sulle bollette per riconoscere un vantaggio ad impianti comunque già entrati in servizio". Nonostante il no dei tecnici, la Lega ha insistito perché il parere venisse riformulato: a quel punto è arrivato il no "politico" del ministro dei Rapporti con il Parlamento Riccardo Fraccaro, che si occupava del vaglio degli emendamenti alla manovra. Ma Siri non si è arreso. E sempre attraverso i colleghi del Carroccio ci ha riprovato nel Milleproroghe e nella legge di semplificazione: tutti elementi dell' incartamento che ora la Procura acquisirà negli uffici dei ministeri, a cominciare da quello guidato da Di Maio. E proprio il vicepremier del M5S in serata a Dritto e rovescio sostiene: "Negli uffici legislativi di vari ministeri c' era la proposta normativa di Siri sull' eolico, ma il M5S ha sempre dato parere negativo, perché rappresentava una sanatoria del settore. Se il Mise non avesse detto di no alla proposta probabilmente ci sarebbero stati anche membri del mio staff indagati".

Caso Siri, il figlio di Arata è stato assunto  a Palazzo Chigi da Giancarlo Giorgetti Tensione Lega-5S, Di Maio evoca la crisi. Pubblicato venerdì, 19 aprile 2019  da Fiorenza Sarzanini, Fulvio Fiano e Francesco Verderami su Corriere.it. Federico Arata, il figlio dell’imprenditore Paolo, indagato con il sottosegretario Armando Siri è stato assunto a palazzo Chigi dal sottosegretario Giancarlo Giorgetti. Il contratto è stato firmato con il Dipartimento programmazione economica. È stato appena registrato dalla corte dei conti. Arata è accusato di associazione a delinquere con l’imprenditore palermitano Vito Nicastri, che collabora con lui nelle società, in particolare modo in quelle sull’eolico, e che è stato arrestato a Palermo con l’accusa di aver finanziato la latitanza del boss Matteo Messina Denaro. E secondo le carte dell’inchiesta, dietro il rapporto di amicizia tra Arata e Siri ci sarebbe la volontà di Arata — che è stato parlamentare di Forza Italia — di agevolare i propri interessi. «Questa operazione ci è costata 30 mila euro», disse al figlio Francesco l’estate scorsa, riferendosi ai compensi destinati a Siri per modificare i provvedimenti legislativi, secondo quanto testimoniato da una conversazione intercettata da una «cimice» della Dia. Siri è accusato di aver «asservito a interessi privati la sua funzione di sottosegretario ai Trasporti e di senatore — tra l’altro proponendo e concordando con gli organi apicali dei ministeri competenti per materia (Trasporti, Sviluppo Economico e Ambiente) l’inserimento in provvedimenti normativi di competenza governativa emendamenti contenenti disposizioni in materia di incentivi per il “minieolico”». Negli atti di Palermo sono poi contenute le registrazioni di altre conversazioni intercettate negli ultimi mesi. Paolo Arata il 12 settembre scorso dice, rivolgendosi a una giovane avvocato: «....qui stiamo parlando in camera caritatis. Io sono socio di Nicastri al 50%...». Qualche mese prima invece Paolo Arata si «sfoga» con Manlio, figlio di Vito Nicastri: «Papà mi ha fatto scrivere una carta che la società è sua alla metà per cento... le carte ce l’ha dal notaio. Però non ha tirato fuori una lira, neanche di Solcara, ed erano soldi che mi dovreste dare: quali soluzioni abbiamo adesso alla cosa? Ne abbiamo due di soluzioni... una, che io devo portare la tariffa al massimo livello, oggi in Parlamento c’è la legge sulla ... eh... come si chiama... e non procedura, va be, c’è...». Nicastri, tramite il figlio Manlio, da casa parla al telefono per «sbrogliare» i suoi affari e, in alcuni casi, lo fa «direttamente» dal balcone. In almeno due occasioni, il 5 e il 28 agosto scorsi, la Dia fotografa Vito Nicastri che discute, dal balcone con suo figlio Manlio e Francesco Paolo Arata, figlio di Franco. 

Caso Siri, il figlio di Arata assunto da Giorgetti a Palazzo Chigi. Il padre sotto indagine, il rampollo da poco ingaggiato al Dipartimento Programmazione economica. M5S attacca Salvini: "Sapeva del contratto?", scrive Giovanni Vitale il 19 aprile 2019 su La Repubblica. C’è un altro rapporto che dimostra il legame tra la Lega e Paolo Arata, l’imprenditore ex parlamentare forzista indagato con il sottosegretario Armando Siri per corruzione. Il figlio Federico Arata è stato assunto a Palazzo Chigi dal sottosegretario alla presidenza del consiglio Giancarlo Giorgetti. Architetto, trait-d’union tra Salvini e l’ideologo del sovranismo Steve Bannon, ha firmato un contratto di consulenza con il Dipartimento programmazione economica, appena registrato alla Corte dei Conti. E il Movimento 5 Stelle va subito all'attacco e, in una nota scrive: "La domanda che, per una questione di opportunità politica, ci poniamo, è se Salvini fosse a conoscenza di tutto questo. Ci auguriamo e confidiamo che il leader della Lega sappia fornire quanto prima elementi utili a chiarire ogni aspetto. Non solo al M5S, con cui condivide un impegno attraverso il contratto di governo, ma anche ai cittadini". E Il Pd chiede a Conte di riferire in Parlamento sull'assunzione. Arriva anche la risposta della Lega, con una nota: "Parlamentari e ministri della Lega continuano a lavorare anche in questi giorni di festa. Non rispondono a polemiche e insulti che si sgonfieranno nell'arco di qualche ora. Federico Arata è persona preparata". E l'interessato, contattato da La Presse, dice: "Non ho mai lavorato con il sottosegretario Giorgetti a Palazzo Chigi. Il ruolo era in iter come consulente esterno per le mie competenze in ambito economico e internazionale".

Le bugie di Armando Siri e quei legami della Lega con la famiglia Arata. L'indagine sulla presunta corruzione fa emergere le relazioni tra il sottosegretario del Carroccio, Matteo Salvini e l'imprenditore socio del prestanome di Messina Denaro. E non si tratta certo di contatti sporadici. Ecco perché, scrivono Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 19 aprile 2019 su La Repubblica. «Mi chiamo Federico Arata e sono il mittente, insieme a Ted, di questo viaggio negli Stati Uniti per Salvini. Come Ted può facilmente confermare, io lavoro come spin doctor per Lega, cercando di aiutarli a migliorare socialmente e internazionalmente». Si presentava così agli americani il giovane manager Arata, in vista del viaggio da organizzare negli States per portare il Capitano Matteo Salvini alla corte di Donald Trump e Steve Bannon. Era il novembre 2016, due mesi più tardi Donald farà il suo ingresso da vincitore alla Casa Bianca. Arata è un cognome che ritorna in questi giorni di bufera giudiziaria che sta disturbando la tranquillità di Armando Siri. Ma al di là della rilevanza penale della vicenda e degli esiti che questa avrà, resta una questione che è soprattutto politica e passa per la collaborazione tra Federico Arata e la Lega, che inizia molto tempo fa. E che vengono svelati per la prima volta nel Libro Nero della Lega (Laterza editore). Dicevamo del cognome Arata balzato agli onori della cronaca in questi giorni. Il presunto corruttore di Siri infatti si chiama Paolo Arata. Ed è il padre di Federico, lo spin doctor del partito di Matteo Salvini, il manager che ha portato il Capitano in America, nel continente dove il leader dei sovranisti italiani si era recato nella primavera del 2016 per incontrare Trump. In questa occasione Salvini postò la foto con Trump, esibendola come un vero trofeo. C'è chi di quell'incontro ha fornito una versione differente. Secondo Leonardo Zangani, imprenditore italo newyorkese sostenitore del tycoon americano, il Capitano della Lega avrebbe pagato 50 dollari per una foto opportunity con il futuro presidente degli Stati Uniti. E Zangani lo comunica proprio a Federico Arata. È insomma una saldatura forte quella tra Mr flat tax, la Lega di Salvini e la famiglia Arata. Armando Siri si è affrettato a chiarire in un'intervista che «Arata mi ha stressato, mi chiamava continuamente».  Il sottosegretario leghista ai Trasporti ha risposto così sui rapporti con Paolo Arata, già parlamentare di Forza Italia, imprenditore, docente di idee leghiste e, secondo i pm di Palermo e Roma, faccendiere per conto di suoi soci di un certo peso: I Nicastri, i re dell'eolico, il cui capostipite è stato coinvolto in diverse indagini sul tesoro di Matteo Messina Denaro, il capo di Cosa nostra latitante da ormai 26 anni. Un intrigo d'affari e favori che dal capoluogo siciliano penetra nei palazzi del potere romano. Per gli inquirenti che indagano su Arata, anche Siri è coinvolto nel giro di corruzione: avrebbe- il condizionale è d'obbligo- ricevuto una mazzetta da 30 mila euro per inserire una norma che favorisse il business del mini eolico tanto caro al professor Arata. Questo almeno è quel che dice proprio Paolo Arata intercettato. I magistrati che nei giorni scorsi hanno disposto le perquisizioni a casa e negli uffici degli Arata sostengono che il docente in quota Lega sarebbe andato persino oltre: sarebbe stato il più grande sponsor di Siri allo Sviluppo Economico e che poi si è dovuto accontentare dei Trasporti. Del resto nei giorni della formazione del governo giallo-verde era già noto a tutti che Siri aveva sulle spalle un patteggiamento per bancarotta fraudolenta del 2014 e che, quindi, metterlo allo Sviluppo Economico avrebbe creato non poche polemiche. Una notizia, il patteggiamento di Siri, svelata dall'Espresso a febbraio. Ma che a differenza di questa indagine, che è ancora solo in corso, non aveva scandalizzato i 5 Stelle. Evidentemente per i grillini ha più peso un'indagine preliminare che un patteggiamento cristallizzato in una sentenza che è stata, tra l'altro, pubblicata integralmente nel Libro Nero della Lega. Per capire però come nascono i rapporti tra Siri e Arata è necessario fare un passo indietro.  E tornare a Federico, uno dei figli dell'imprenditore indagato a Palermo con l'uomo di Messina Denaro e con Siri: Arata junior ha partecipato alla costruzione della nuova alleanza nazionalista e anti-europea. Lontano dai riflettori, quasi spaventato dalle luci della ribalta, Federico Arata, lo spin doctor internazionale della Lega – o almeno così si definisce lui – è l’uomo che in questi ultimi anni ha lavorato in silenzio per trovare alleati di Salvini nel mondo. Classe 1985, liceo francese a Roma, laurea in economia all’università privata Luiss, esperienze lavorative a Nomura, Bnp Paribas, Bsi, Credit Suisse. Un rampante banchiere al servizio di un partito che si schiera contro la finanza, i mercati, lo spread. Le banche, appunto. Sarà per questo che il giovane Arata ha preferito non mettersi in mostra? Di sicuro è stato lui a darsi da fare per organizzare un incontro fra Trump e Salvini l’8 dicembre del 2017 a New York. Ed è stato sempre lui ad accompagnare Bannon nel suo giro romano, nel settembre scorso, quando l’ex banchiere di Goldman Sachs è venuto in Italia per fare proseliti. «Lui non c'entra niente con la vicenda resa nota dai giornali». Alle nostre domande rivolte a Federico Arata, ha risposto direttamente l'avvocato Gaetano Scalise. Avevamo chiesto  allo spin doctor leghista se ha mai intrattenuto rapporti d'affari con il padre e il fratello indagati nell'indagine palermitana e romana. Nessun legame, ha replicato tramite avvocato. Tranne che quello parentale. Federico Arata vive in Svizzera e si dà molto da fare: detiene le quote di due società, la Italex Gmbh e la Token Up Sagl. In quest'ultima è in compagnia di altri italiani, esperti di informatica e marketing. In passato ha avuto anche ruoli in due società londinesi, con il ruolo di Director, una chiusa nel 2014 e l'altra nel gennaio scorso.  Federico Arata segue i rapporti internazionali con politici e mondo della finanza per conto della Lega almeno dal 2016. Il padre Paolo, invece, nel luglio 2017 lo troviamo sul palco del vertice della Carroccio sovranista, a Piacenza. «Da Genovese devo ringraziare la Lega, perché dopo 15 anni ha liberato la mia città», disse all'inizio del suo intervento. Genova: la città di Siri, di Arata, dell'ex tesoriere Francesco Belsito e del processo per truffa sui 49 milioni. Guai del presente e del passato, con il quale il ministro dell'Interno Matteo Salvini ora deve fare i conti.

Così il figlio dell’imprenditore portò Bannon al Viminale. L’inchiesta di Report in onda lunedì prossimo su Report (Rai 3, ore 21,20) ricostruisce l’incontro del 7 settembre scorso al Viminale. Dietro la nascita dell’esecutivo Conte il ruolo di Steve Bannon, ideologo dell’internazionale populista e ammiratore del modello Auschwitz. Scrive Claudio Reale il 24 aprile 2019 su la Repubblica. In auto ci sono l'uomo forte della destra mondiale e un emissario della Lega. Il primo è Steve Bannon, l'ex capo stratega di Donald Trump, ora diventato ideologo dell'internazionale populista, grande ammiratore del modello organizzativo del campo di sterminio nazista di Auschwitz, definito, letteralmente, "una figata, ingegneria di precisione all'ennesima potenza, fatta da Mercedes, Kropp, Hugo Boss... un complesso industriale istituzionalizzato per eccidi di massa". L'emissario della Lega è Federico Arata. È il figlio di Paolo, il perno dell'indagine che in Sicilia collega gli interessi del boss Matteo Messina Denaro e il sottosegretario leghista Armando Siri. Ma è anche consigliere a Palazzo Chigi del numero due del Carroccio Giancarlo Giorgetti. I due sono diretti al ministero degli Interni, dove Bannon incontrerà Matteo Salvini per farne il punto di riferimento italiano del suo "The Movement". Secondo un'inchiesta di Report che andrà in onda lunedì prossimo alle 21,20 su Rai 3, sarebbe proprio Arata jr l'artefice del rapporto fra Bannon e Salvini. È presente all'incontro fra i due del 7 settembre al Viminale. Dal servizio di Report emerge inoltre che l'organizzazione populista "The Movement" avrebbe avuto un ruolo chiave nella nascita del governo Conte. Secondo il portavoce del movimento di Bannon, Mischael Modrikamen, "Steve (Bannon, ndr) ha fatto pressioni su Salvini e Di Maio per formare l'attuale coalizione di governo". Il contesto è la crisi seguita alle elezioni dell'anno scorso: dopo il fallimento delle consultazioni, Carlo Cottarelli riceve l'incarico di formare il governo, mentre il Movimento 5 Stelle evoca l'impeachment. A quel punto Bannon attacca: "L'Italia è in una crisi di sovranità", dichiara da Roma. "All'epoca delle trattative tra Salvini e Di Maio - ricostruisce adesso Modrikamen - (Bannon, ndr) ha detto loro "dovreste provare a fare questa alleanza populista"". Seguendoli fin nei dettagli: "Ha certamente dato consigli a entrambi i leader - prosegue Modrikamen - e alla fine entrambi sono riusciti a fare un passo indietro, consentendo al primo ministro Conte di assumere un ruolo di comando". Dal punto di vista di Modrikamen, del resto, l'Italia è "interessante", un modello. Perché mette insieme populismo di destra e di sinistra. Adesso, però, anche grazie ai buoni uffici di Arata jr, il riferimento è Salvini. Con un esperimento che come orizzonte temporale indica le europee di maggio. "L'Italia - secondo Bannon - è al centro dell'universo grazie all'ascesa di Salvini. Grazie a ciò che Salvini significa per l'Europa e grazie a ciò che significa per il mondo". Nel servizio, mentre si fa accompagnare al Viminale, l'ex consigliere di Trump istruisce Arata jr: "Intendiamo fornire inchieste, analisi di dati, messaggi dal centro di comando". "Possiamo diventare il partito numero uno in Italia - gli risponde il giovane Federico - E poi dovrete dir loro che dobbiamo pianificare... Pianificare è la parola chiara... la vittoria per le Europee".

I fari dei pm sui bilanci dell'imprenditore. Si indaga sulle carte sequestrate ad Arata. I pizzini nel paniere di Nicastri, scrive Roberto Scafuri, Sabato 20/04/2019, su Il Giornale. Tramontati i fastosi tempi del contratto di governo, eccoci arrivati già in dirittura per il «contratto di divorzio». Si preparano le carte, diciamo, mentre i magistrati della Dda passano al setaccio le migliaia e migliaia di pagine e file sequestrati all'imprenditore e consulente leghista Paolo Arata. Trenta(mila) denari: a sembrare finora «incredibile» è la stessa cifra pattuita perché il sottosegretario Siri «asservisse l'esercizio delle sue funzioni e dei suoi poteri a interessi privati». Per gli inquirenti, Siri (nel tondo) era la chiave di Arata per arrivare ai luoghi del potere, eppure, stando ai fatti, la norma che più interessava all'imprenditore non venne mai approvata, come gli stessi accusatori grillini hanno rivendicato. «Siri cercò di introdurre alcune misure diciamo un po' controverse... quando arrivarono sui nostri tavoli ci sembrarono strane e le bloccammo», dice Di Maio. Ma se non sono passate, quale fosse l'influenza esercitata da Siri sulla politica del governo resta un mistero, almeno per ora. Arata, che ha chiesto di essere sentito dai pm e probabilmente lo sarà dopo Pasqua, potrebbe aiutare a chiarirlo. Nel frattempo, però, da alcune intercettazioni al vaglio della Procura di Palermo emerge che Arata è socio di Vito Nicastri che, sebbene ai domiciliari in quanto sospettato di essere imprenditore-ombra del superboss Matteo Messina Denaro, continua a gestire i suoi affari. Arata il 12 settembre scorso dice, rivolgendosi a una giovane avvocato: «....Qui stiamo parlando in camera caritatis. Io sono socio di Nicastri al 50%...». Qualche mese prima invece Arata si «sfoga» con Manlio, figlio di Nicastri: « Papà mi ha fatto scrivere una carta che la società è sua alla metà per cento... ». Nicastri, tramite il figlio Manlio, da casa parla al telefono per «sbrogliare» i suoi affari e, in alcuni casi, lo fa «direttamente» dal balcone. In almeno due occasioni, il 5 e il 28 agosto scorsi, fotografa Nicastri che discute, dal balcone con suo figlio Manlio e Francesco Paolo Arata, figlio di Franco. In alcuni casi ci sarebbe stato anche un passaggio di carte e documenti che viaggiavano attraverso un paniere che veniva calato all'occorrenza, come nelle migliori tradizioni del nostro Sud. Paniere che è stato rinvenuto ieri nel corso della perquisizione effettuata dalla Dia nella casa alcamese di Nicastri. Quali possano essere i legami con Siri e se quest'ultimo fosse a conoscenza, almeno in parte, di questi traffici sarà materia tutta da dimostrare. In un'intervista il sottosegretario si è discolpato sostenendo di non aver preso «un soldo da nessuno» e che di emendamenti ne riceveva «anche 800 e neppure li guardavo, li passavo agli uffici, al legislativo: le metti lì e qualcuno ci penserà. Ma io non ho mai telefonato a nessuno per caldeggiare niente». Sentendosi «usato da M5s come carne da macello», Siri dice di Arata: «Pensavo fosse uno specchiato docente... Cosa ne so io se questo è un faccendiere? Che ne so se dietro c'è la mafia? Arata mi ha stressato, mi chiamava continuamente. Ma tutti ti chiamano...». Sulla sua dirittura morale, difesa da Salvini, il presidente dell'Autorità Anticorruzione, Raffaele Cantone, nutre invece molti dubbi. «Per me uno che patteggia una bancarotta (Siri lo ha fatto, ndr) è colpevole di bancarotta. Poi io ritengo che sia un reato grave, evidentemente il ministro Salvini la pensa diversamente».

IL SOCIO OCCULTO. Puntata del 16 giugno 2019 di Claudia Di Pasquale su Report Rai3.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Poi, in questi giorni è stato arrestato Paolo Arata. È l’esperto della Lega per le politiche energetiche. Ha contribuito a stilare anche il programma elettorale. L’accusa dei magistrati di Palermo è corruzione e intestazione fittizia. Avrebbe anche un socio occulto, Vito Nicastri, accusato di essere il finanziatore, uno dei finanziatori della latitanza di Matteo Messina Denaro. La nostra Claudia Di Pasquale poche settimane fa è riuscita a intervistare la moglie di Nicastri e non solo lei.

CLAUDIA DI PASQUALE Ministro una domanda. Ieri la Procura di Palermo ha chiesto dodici anni di carcere per Vito Nicastri.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Proprio il giorno prima dell'arrivo di Salvini in Sicilia, i pm di Palermo hanno chiesto dodici anni di carcere per il re dell’eolico, Vito Nicastri. Secondo l'accusa avrebbe finanziato la latitanza di Matteo Messina Denaro. Al centro del processo c'è la compravendita di questo vigneto nel trapanese: in origine la proprietà era di una nipote acquisita dei cugini Salvo, i famosi esattori affiliati a Cosa Nostra.

ALFREDO GALASSO – AVVOCATO – PRESIDENTE ONORARIO ASSOCIAZIONE ANTONINO CAPONNETTO Vito Nicastri durante il periodo in cui era sottoposto a una misura di prevenzione antimafia, tramite il fratello minore, ha acquistato all’asta un appezzamento di terreno costituito da 60 ettari di vigneto che ha rivenduto a un prezzo quattro, cinque volte superiore a una società che fa capo ad alcuni personaggi vicini alla cosca di San Giuseppe Jato, ricavandone una quantità enorme di soldi, la parte in nero, che è stata destinata alla sopravvivenza di Messina Denaro.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO A denunciare il ruolo di Nicastri è stato il pentito Lorenzo Cimarosa, cugino acquisito di Matteo Messina Denaro. Cimarosa è morto due anni fa: della sua collaborazione ce ne parla il figlio, Giuseppe, che oggi realizza spettacoli di teatro equestre e che si è pubblicamente schierato contro la mafia.

CLAUDIA DI PASQUALE Proprio pochi giorni fa la procura di Palermo ha chiesto dodici anni per concorso esterno in associazione mafiosa per Vito Nicastri e, diciamo, a denunciarlo è stato proprio suo padre.

GIUSEPPE CIMAROSA – FIGLIO DI LORENZO CIMAROSA Raccontò ai magistrati, in cui diceva appunto di aver fatto da tramite per passare dei soldi dalle mani di Nicastri direttamente al nipote di Matteo Messina Denaro, Guttadauro, che sarebbero dovuti andare a Matteo Messina Denaro.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO È così che un anno fa Vito Nicastri finisce agli arresti domiciliari, ma li viola. Viene fotografato infatti al balcone mentre parla con il figlio Manlio e con Francesco Arata, figlio di quel Paolo Arata che avrebbe corrotto secondo i pm il senatore Armando Siri. Nel trapanese, ad Alcamo, c'è l'abitazione di Vito Nicastri. Questo è il balcone da cui si affacciava, di fronte, a soli pochi metri, c'è la sede della Solcara, una società che si occupa di eolico, amministrata da Francesco Arata, anche lui indagato. Citofoniamo allora a casa Nicastri. Ci risponde la moglie.

IDA MARUCA – MOGLIE DI VITO NICASTRI Noi siamo le vittime, glielo posso gridare forte e chiaro. Ci hanno distrutto socialmente. Sono dieci anni che ci intercettano.

CLAUDIA DI PASQUALE Io stavo cercando di approfondire i rapporti con l’imprenditore Arata.

IDA MARUCA – MOGLIE DI VITO NICASTRI Amici di famiglia erano. Ma da moltissimi anni.

CLAUDIA DI PASQUALE Scusi e di questa accusa che viene fatta che era socio occulto di Arata, lei che cosa ne pensa? IDA MARUCA – MOGLIE DI VITO NICASTRI Il figlio di mio marito era un suo dipendente, lo hanno aiutato.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè Manlio Nicastri era un dipendente di Arata?

IDA MARUCA – MOGLIE DI VITO NICASTRI Del figlio.

CLAUDIA DI PASQUALE Di Francesco Arata? IDA MARUCA – MOGLIE DI VITO NICASTRI Sì. Francesco veniva qui tutti i giorni. Francesco si occupava degli impianti del padre.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La società Solcara di Francesco Arata ha anche un'altra sede ad Alcamo. L’indirizzo corrisponde con questa villa, che si affaccia su questo splendido panorama. Sul citofono però non c’è scritto né Solcara, né Arata, ma «Nicastri». L'immobile infatti risulta intestato al figlio di Vito Nicastri, Manlio. Ed è proprio parlando con Nicastri junior che Paolo Arata ammette: «Tuo papà mi ha fatto scrivere una carta che la società è sua a metà per cento... tuo papà le carte ce l'ha dal notaio». Le società di Arata, che per i pm sarebbero partecipate in modo occulto da Nicastri, presunto finanziatore della latitanza di Matteo Messina Denaro, hanno realizzato nel trapanese questi impianti di mini-eolico. Per ottenere le autorizzazioni il gruppo Arata-Nicastri avrebbe pagato secondo la procura delle mazzette ad alcuni funzionari e tecnici. Uno di questi sarebbe l'ingegnere Mistretta. Con noi però parla solo la moglie.

MOGLIE DI MISTRETTA Queste tangenti sono regolari parcelle, su cui stono state pagate regolarmente le tasse. Perché le tangenti di solito non si pagano con i bonifici.

PAOLO ARATA – IMPRENDITORE Un grande ringraziamento alla Lega per avermi invitato, anche a Piacenza, dove io quarant’anni fa ho iniziato la mia carriera di professore, di ricercatore nel settore dell’energia.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO 16 Luglio 2017: l’imprenditore Paolo Arata interviene a un convegno della Lega, che gli affida la stesura del programma del partito sull'energia.

PAOLO ARATA – IMPRENDITORE Ci sono le tecnologie innovative, tecnologie oggi che possono recuperare il rifiuto come risorsa e trasformarlo in biogas.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Al convegno della Lega, Arata sponsorizza il biometano che alla fine sarà inserito nel contratto di governo giallo-verde proprio su pressione della Lega e di Siri. Ma ci sarebbe un potenziale conflitto: una società degli Arata, la Segesta, aveva già presentato alla Regione Sicilia la domanda proprio per realizzare un impianto di biometano nel trapanese.

GIANFRANCO ZANNA – PRESIDENTE LEGAMBIENTE SICILIA È evidente che è solo uno specchietto per le allodole la produzione di biometano.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè non è un impianto per produrre biometano?

GIANFRANCO ZANNA – PRESIDENTE LEGAMBIENTE SICILIA È a tutti gli effetti un piccolo inceneritore e per non fare scoprire quale è il vero scopo di questo impianto si è cercato di evitare la Valutazione di Incidenza Ambientale, la cosiddetta VIA.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO È così che alla fine il progetto della società di Arata viene fermato. Arata viene invece portato avanti dalla Lega, che un anno fa lo indica come possibile presidente dell'Autorità di regolazione dell'energia. Alla fine Arata non sarà nominato a capo dell’Authority. Il figlio Federico, invece, sarà assunto dal sottosegretario leghista Giorgetti come consulente esterno presso palazzo Chigi.

GIANCARLO GIORGETTI – SOTTOSEGRETARIO ALLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO I requisiti sono ben documentati da un curriculum che è stato pubblicato credo in tutti i giornali, in tutti i media, e che dimostra come questa persona avesse oltre che tre lauree, un’esperienza internazionale di tutto livello.

GIULIANO MARRUCCI E senta come si giustifica il fatto che Arata avrebbe fatto da mediatore tra Bannon e Salvini.

GIANCARLO GIORGETTI – SOTTOSEGRETARIO ALLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO Io questo non lo so, dovete chiedere a Bannon, non a me.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Infatti è proprio Federico Arata a ricevere il sovranista Steve Bannon, quando arriva a Roma. Lo stratega della vittoria di Trump, ma è anche uno dei fondatori di Cambridge Analytica, la società che ha violato circa 50 milioni di profili Facebook. È con Bannon che Arata parla di strategie elettorali per far vincere le elezioni alla Lega e trasformarla nel primo partito italiano.

DA THE BRINK DI ALISON KLAYMAN STEVE BANNON - EX CAPO STRATEGA CASA BIANCA Intendiamo fornire sondaggi, analisi di dati, messaggi dal centro di comando.

FEDERICO ARATA È l’idea che con questo possiamo diventare ufficialmente il partito numero uno in Italia. E poi dovrete dir loro che dobbiamo pianificare. “Pianificare” è la parola chiave. La vittoria per le elezioni europee.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Federico Arata non è indagato, ma non è neanche un politico: a che titolo parla come se fosse un dirigente di partito? Alla fine è lui che nel settembre del 2018 accompagna Bannon al Viminale, da Salvini. Lo scorso 26 aprile, invece, Matteo Salvini arriva a Mazara del Vallo, per chiudere il suo tour siciliano. Proprio qui il presunto socio occulto di Arata, Vito Nicastri, aveva interessi nel settore dell’eolico negli anni Duemila. LIVE Sono contenta di presentarvi il nostro capitano!

MATTEO SALVINI – MINISTRO DELL’INTERNO Mafia, camorra e ‘ndrangheta sono il cancro che dobbiamo estirpare dall’Italia.

CLAUDIA DI PASQUALE Tutti a Mazara conoscono Vito Nicastri, il re dell’eolico. Viene considerato dalla procura vicino a Matteo Messina Denaro. Secondo la procura di Palermo in base alle ultime indagini è il socio occulto di Paolo Arata che ha contribuito a scrivere il programma della Lega, che voi volevate a capo dell’Autorità dell’energia.

MATTEO SALVINI – MINISTRO DELL’INTERNO Io confido che la magistratura faccia il suo lavoro. Non commento gli atti della magistratura.

CLAUDIA DI PASQUALE Lei però ha detto che vuole liberare la Sicilia dalla mafia, in che modo pensa di passare dalle parole ai fatti?

MATTEO SALVINI – MINISTRO DELL’INTERNO Assumendo poliziotti, carabinieri e accendendo telecamere. Sequestrando ville, villette, macchine e macchinoni ai mafiosi, cosa che sto facendo da nove mesi a questa parte.

CLAUDIA DI PASQUALE Bastava fare un po’ di visure, fare dei controlli incrociati delle società di Arata, per risalire a Nicastri. MATTEO SALVINI – MINISTRO DELL’INTERNO Va bene, allora la assumeremo al ministero dell’Interno.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Che cosa scrive il gip di Palermo? "Dalle attività di indagine è emerso che Arata ha portato in dote alle iniziative imprenditoriali con Nicastri gli attuali influenti contatti con esponenti della Lega; contatti effettivamente riscontrati". In sintesi. Secondo i magistrati Arata avrebbe portato in dote i suoi rapporti con il senatore Armando Siri. Cosa ipotizzano i magistrati? Che Siri – ed è per questo che il premier Conte ha chiesto le sue dimissioni da sottosegretario al ministero delle Infrastrutture – Siri avrebbe percepito del denaro o promessa di 30.000; avrebbe esercitato in cambio una attività definita “incessante” per far introdurre con un emendamento nella legge di bilancio del 2019, in base al quale tutti i proprietari di campi eolici in funzione dal 2017, avrebbero percepito degli incentivi. Una norma retroattiva che non è passata solo per l’opposizione del Movimento 5 Stelle. Ne avrebbe beneficiato in questo Paolo Arata, l’esperto della Lega e soprattutto il suo socio occulto Vito Nicastri che, come abbiamo detto, è sospettato da parte dei magistrati, di essere uno dei finanziatori della latitanza di Matteo Messina Denaro. Per queste criticità il presidente della Commissione Antimafia ha convocato urgentemente Salvini.

NICOLA MORRA – PRESIDENTE COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA Io ho chiesto di convocare Salvini con mail istituzionale in data 7 maggio e con un’interlocuzione che la prassi consente a partire dal 23 dicembre. Anche perché Salvini, oltre che il leader della Lega, è anche il ministro degli Interni. Mi sembra ovvio, mi sembra doveroso, che se non la prima, una delle primissime audizioni per confrontarsi sulle strategie volte a contrastare i fenomeni mafiosi debba essere quella con il titolare del Viminale.

CLAUDIA DI PASQUALE E il Viminale che risposta ha dato?

NICOLA MORRA – PRESIDENTE COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA Presso le vie istituzionali e ufficiali ancora non abbiamo notizia.

CLAUDIA DI PASQUALE Quali domande vorrebbe fare invece sul caso Arata –Siri- Nicastri?

NICOLA MORRA – PRESIDENTE COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA Beh, intanto mi piacerebbe sapere, in una prospettiva semplicemente cronologica, come si può spiegare questa prossimità alla Lega e a un sottosegretario di Stato di un soggetto imprenditorialmente legato a un personaggio riconducibile, lo dicono gli inquirenti, a Matteo Messina Denaro. E mi sembra paradossale, che il ministro degli Interni che è titolare dell’azione di contrasto alle mafie e che quindi ha come suo obiettivo far terminare la latitanza di Matteo Messina Denaro, poi, di fatto, senza probabilmente rendersene conto, ma questo è lo stesso grave, permetta ad un uomo che finanzia la latitanza di Matteo Messina Denaro di fare con lo Stato soldi.

CLAUDIA DI PASQUALE Che risposte si aspetta dal ministro Salvini?

NICOLA MORRA – PRESIDENTE COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA Beh, forse Matteo Salvini potrebbe riconoscere di essere stato un pochino superficiale e un pochino leggero in alcune frequentazioni.

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi secondo lei, secondo voi, il ministro Salvini ha peccato di superficialità? Cioè la Lega ha peccato di superficialità?

NICOLA MORRA – PRESIDENTE COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA Questa è l’ipotesi. D’altronde se non dovesse esser questa l’ipotesi, l’altra potrebbe essere ben più grave come lei capisce. Ma io tendo ad escluderla.

CLAUDIA DI PASQUALE Tra i deputati leghisti c’è Furgiuele, come lei saprà, il suocero è stato condannato in via definitiva per estorsione aggravata da metodo mafioso. Visto che lei è il presidente della Commissione Antimafia che ne pensa?

NICOLA MORRA – PRESIDENTE COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA Io avrei evitato candidature, molto molto chiacchierate perché provenienti da ambiti famigliari su cui le DDA, cioè le direzioni distrettuali antimafia son già intervenute. Fra l’altro ricordo che il patrimonio confiscato al suocero del deputato Domenico Furgiuele è un patrimonio stimato in circa 200 milioni di euro. Ecco, io sono dell’avviso che su questo bisognerebbe esser duri.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma visto che bisogna essere così duri un po’ in imbarazzo vi ci sentite a governare con la Lega, o no? Scusi…

NICOLA MORRA – PRESIDENTE COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA Eh guardi, se vogliamo proprio parlar di imbarazzo, io non sono l’uomo più felice di questa terra però adesso, adesso com’è ovvio, io debbo essere ancor più attento perché se trovo qualche manina che si avvicina ulteriormente alla marmellata io debbo non soltanto intervenire, ma denunciare tutto all’Autorità di Magistratura. SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il Presidente Morra, che è un uomo di rigore, viene da terra difficile e sa bene quanto possa la marmellata attirare certi mosconi. Siamo anche certi che il Vicepremier Salvini voglia scacciarli questi mosconi a fare chiarezza su alcune zone d’ombra del suo partito.

TERRA ARATA. Salvo Palazzolo per “la Repubblica” il 19 aprile 2019. Paolo Franco Arata, " l' esperto" di energia convocato da Matteo Salvini per stilare il programma della Lega, aveva una venerazione per l' imprenditore siciliano cui la magistratura ha confiscato un patrimonio da 1,3 miliardi perché vicino all' entourage del latitante Matteo Messina Denaro. Erano addirittura entrati in società. «Vito è la persona più brava dell' eolico in Italia», ripeteva l' ex professore genovese di ecologia passato da Forza Italia ( fu deputato fra il ' 94 e il ' 96) al Carroccio. E, intanto, una microspia della Dia di Trapani intercettava. " Vito" è Vito Nicastri, il signore del vento come lo definì il Financial Times, l' elettricista di Alcamo che negli anni Ottanta piazzava impianti solari porta a porta e nel giro di poco tempo si trasformò nel "re" dell' eolico. Con capitali di dubbia provenienza. Al professore faccendiere ideologo della Lega non importava. Per lui non era neanche un problema che Vito Nicastri fosse agli arresti domiciliari, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Un giorno, Arata chiamava il sottosegretario alle Infrastrutture Armando Siri, leghista pure lui. Un altro, telefonava al figlio di Nicastri, Manlio, e si faceva passare il padre. Oppure, prendeva un aereo e andava direttamente sotto casa di Nicastri, ad Alcamo, e il re dell' eolico ai domiciliari si affacciava al balcone: parlavano tranquillamente di investimenti e affari. Parlavano soprattutto di nuove norme da inserire nella legge giusta. Non tanto per rilanciare il settore, ma i loro investimenti. E la microspia continuava a registrare ogni parola. Ha registrato anche il grande attivismo romano di Arata per piazzare l' amico Siri nel ministero più appetibile, lo Sviluppo economico. Ma era comunque contento delle Infrastrutture. Mentre continuava a progettare nuovi affari segreti. Il professore faccendiere era diventato il prestanome del manager legato alle cosche. E avevano coinvolto pure i rispettivi figli: Francesco Paolo Arata e Manlio Nicastri, che adesso sono indagati pure loro, per intestazione fittizia. I rampolli di famiglia avrebbero dovuto offrire una parvenza di legalità all' operazione di rastrellamento dei milioni di euro di finanziamenti pubblici nel settore del "mini eolico". In fondo, la realizzazione di un' altra idea lanciata alla convention della Lega sul programma, il 16 luglio 2017, a Piacenza: «Piccolo è bello», pontificò Arata. E precisò: « Dobbiamo mettere uomini nostri » . Aggiunse: « Bisogna riprendere in mano la questione energetica, che oggi è gestita da Enel ed Eni». La premiata ditta Arata- Nicastri puntava tutto su sei " srl" dai nomi altisonanti: Alqantara, Solcara, Solgesta, Bion, Etnea e Ambra Energia. Nicastri curava le questioni del territorio nella grande provincia trapanese dove comandano ancora gli uomini di Messina Denaro, Arata frequentava invece gli assessorati regionali che dovevano dare autorizzazioni e soldi: l' Energia e il Territorio. Lui, uomo di grandi relazioni, sapeva sempre a chi rivolgersi. Anche in questo caso realizzando l' ennesimo punto del programma preparato per la Lega: «La politica deve occuparsi di energia non in modo subalterno, ma direzionale». Ecco come intendeva l' impegno della politica: «Ha trovato interlocutori all' interno dell' assessorato all' Energia, tra tutti l' assessore Pierobon, grazie all' intervento di Gianfranco Miccichè, a sua volta contattato da Alberto Dell' Utri » , questo hanno scritto il procuratore aggiunto di Palermo Paolo Guido, il magistrato che indaga sul superlatitante Messina Denaro, e il sostituto Gianluca De Leo. Ovvero, i contatti furono il Miccichè presidente dell' Assemblea regionale siciliana e il Dell' Utri fratello di un altro forzista doc, uno dei fondatori, Marcello, condannato per i suoi rapporti con la mafia. Operazione analoga, il professore faccendiere mise in campo per provare ad aprire le porte dell' assessorato al Territorio: si rivolse all' ex ministro Calogero Mannino, uno dei giovani cresciuti con lui, l' avvocato Toto Cordaro, siede oggi nella poltrona più alta di quel palazzo. Così, grazie alla politica « non più subalterna, ma direzionale » Arata entrò negli uffici giusti della Regione. E cominciò a oliare la macchina delle autorizzazioni: oggi sono indagati per corruzione l' ex dirigente dell' Energia, attuale capo del Genio civile di Palermo, Alberto Tinnirello e il funzionario Giacomo Causarano. Ignota l' entità della prima mazzetta, il funzionario avrebbe invece ceduto con un incarico di consulenza professionale da 11 mila euro offerto al figlio. Il professore faccendiere ha sempre creduto nel valore della famiglia. Forse per questo che aveva pure coinvolto sua moglie nelle società con i Nicastri. E dopo il mini eolico, voleva rilanciare il fotovoltaico e il bio-metano. Alla sua maniera, s' intende.

Siri: io non mi dimetto, ho il sostegno di Salvini. Di Maio: lasci. Toninelli dispone il ritiro delle deleghe. L'ideologo della flat tax replica: "Respingo ogni accusa, chiedo di essere ascoltato". Il premier Conte: "Nessuna valutazione, ma il contratto prevede che non possono svolgere incarichi ministri e io dico sottosegretari sotto processi per reati gravi come la corruzione". Il Pd: "Scenario inquietante", scrive il 18 aprile 2019 La Repubblica. "Io sono tranquillissimo e non mi dimetto dal governo". Lo ha detto il sottosegretario Armando Siri arrivando al Senato. Siri assicura di avere il sostegno della Lega: "Ho parlato con Salvini e mi ha detto le stesse cose che ha detto alla stampa". Con il premier Conte invece "non ho parlato". "Sono allibito, quello che è successo è assurdo. Da quando sono al governo ho parlato con tante persone che poi millantano di conoscermi" ha aggiunto il sottosegretario che oltre al sostegno di Salvini dice di avere quello del partito: "Siamo tutti d'accordo" afferma a chi gli chiede se la Lega sia compatta. "Sarebbe opportuno che il sottosegretario Siri si dimetta. Gli auguro di risultare innocente e siamo pronti a riaccoglierlo nel governo quando la sua posizione sarà chiarita", ha detto invece il vicepremier Luigi Di Maio, sulla vicenda che ha coinvolto il sottosegretario ai Trasporti indagato per corruzione dalla Procura di Roma nell'ambito di un'inchiesta nata a Palermo. Poi aggiunge: "Non so se Salvini sia d'accordo con questa mia linea intransigente, ma è mio dovere tutelare il governo e l'integrità delle istituzioni. La questione è morale e politica". Ma il leader leghista conferma la fiducia nel proprio consigliere economico: "Ho sentito Siri oggi, non sapeva nulla". Scendendo all'aeroporto di Lamezia per recarsi al Consiglio dei ministri che si svolgerà a Reggio Calabria, il ministro dell'Interno commenta con i cronisti: "È assurdo", che lo abbia letto dai giornali, "lo conosco, lo stimo, e non ho dubbio alcuno. Peraltro stiamo parlando di qualcosa che non è finito nemmeno nel Def". Quindi conferma la fiducia? "Assolutamente sì", replica il vicepremier. E il presidente del Consiglio Conte? "Io non esprimo una valutazione, come premier avverto il dovere e la sensibilità di parlare con il diretto interessato, Armando Siri. Chiederò a lui chiarimenti e all'esito di questo confronto valuteremo" tenendo conto che il "contratto prevede che non possono svolgere incarichi ministri e io dico sottosegretari sotto processi per reati gravi come la corruzione" e che "questo è un governo che ha l'obiettivo di recuperare la fiducia di cittadini per le istituzioni e ha un alto tasso di sensibilità per l'etica pubblica". Tuttavia a metà mattina il ministro dei Trasporti Danilo Toninelli dispone il ritiro delle deleghe a Siri: "Alla luce delle indagini delle procure di Roma e Palermo - si legge in una nota del Mit - con il coinvolgimento della direzione investigativa antimafia di Trapani, il ministro delle infrastrutture e dei Trasporti, Danilo Toninelli, ha disposto il ritiro delle deleghe al sottosegretario Armando Siri, in attesa che la vicenda giudiziaria assuma contorni di maggiore chiarezza. Secondo il ministro, una inchiesta per corruzione impone infatti in queste ore massima attenzione e cautela". Da parte sua Siri prima replica a caldo: "Non ne so nulla, sono tranquillo". Più tardi in una nota aggiunge: "Respingo categoricamente le accuse che mi vengono rivolte. Non ho mai piegato il mio ruolo istituzionale a richieste non corrette". E conclude "Chiederò di essere ascoltato immediatamente dai magistrati e se qualcuno mi ha accusato di queste condotte ignobili non esiterò a denunziarlo". La linea di Di Maio viene sostenuta anche dal senatore M5s Nicola Morra e da Alessandro Di Battista che scrive su Facebook: "Ho sempre sostenuto questo governo, lo sosterrò ancor di più se il sottosegretario Siri si dimetterà il prima possibile. Nessun governo del cambiamento e nessun governo che si sta impegnando nella lotta alla corruzione può tollerare che vi sia un proprio esponente indagato per reati così gravi". La Lega in una nota sottolinea invece piena fiducia nell'ideologo della flat tax: "L'auspicio è che le indagini siano Veloci per non lasciare nessuna ombra" si legge nel comunicato. La ministra Giulia Bongiorno sottolinea "il giustizialismo a intermittenza" del M5s "con il quale vengono valutate le diverse vicende giudiziarie a seconda dell'appartenenza del soggetto indagato a uno schieramento politico". Carmelo Miceli, deputato dem e componente della Commissione Antimafia parla invece di "scenario inquietante". E replica alla frase "ne uscirà pulito" del capogruppo cinquestelle alla Camera D'Uva: "A parte l'evidente e definitiva svolta auto-garantista del Movimento 5 Stelle, D'Uva si rende conto che una frase simile equivale a dire che c'è la certezza che la magistratura su Siri stia prendendo un abbaglio?". Tagliente la deputata dem Anna Ascani che su Twitter attacca Salvini, definendolo giustizialista a fasi alterne: "Indagato per corruzione il sottosegretario leghista Siri, in passato condannato per bancarotta fraudolenta. Ora Salvini, dopo lo sciacalaggio in Umbria, vada a fare un comizio anche sotto il suo ufficio. O farà il giustizialista a corrente alternata, come i suoi amici M5s?". "Nessuno è colpevole fino a condanna ma attenzione alle patenti di purezza - incalza Ettore Rosato, vicepresidente dem della Camera - Tanto più se si appartiene a un partito che ha fatto sparire 49 milioni di finanziamento pubblico. Vero Salvini?". 

Nino Di Matteo, la vergogna su Repubblica contro Matteo Salvini: "Un segnale a Cosa Nostra?" Scrive Libero Quotidiano il 21 Aprile 2019. Di teorie bislacche se ne sentono parecchie. Ma quella avanzata da Nino Di Matteo, sostituto procuratore della Direzione nazionale Antimafia, è davvero sconcertante. Una bomba di fango contro Matteo Salvini, ovviamente ospitata sulle pagine di Repubblica. Si parla dell'inchiesta che ha coinvolto Armando Siri e che sta terremotando il governo. E Di Matteo afferma: "Da sempre il potere mafioso ha una grande capacità di cogliere i segnali che arrivano dalla politica e dalle istituzioni. In questi giorni, sta registrando sensibilità diverse nelle due forze di governo, i Cinque Stelle e la Lega. I primi chiedono le dimissioni del sottosegretario indagato per corruzione in una più ampia vicenda che porta a Trapani, gli altri lo difendono". Di Matteo, poi, non usa giri di parole: "I mafiosi capiscono subito su chi poter fare affidamento. La difesa a oltranza di un indagato per contestazioni di un certo peso potrebbe essere, in questo come in altri casi, un segnale che i poteri criminali apprezzano". Siamo, insomma, arrivati a questo: secondo Di Matteo, il fatto che Salvini e la Lega difendano Siri, potrebbe essere un segnale alle mafie. O, come sintetizza Repubblica nel titolone "Cosa nostra può leggere come un segnale la difesa leghista di Siri". Una teoria estrema. E vergognosa.

Siri: "La Flat Tax è la mia ossessione". L'intervista di Luca Telese all'uomo della Lega indagato per corruzione ed al centro di mille polemiche, scrive Luca Telese il 22 aprile 2019 su Panorama.

Sottosegretario Siri, adesso che la sagra del Def di primavera è finita ci può dire che cosa accadrà, veramente, sulla Flat tax?

«È molto semplice: si farà».

Però la maggior parte degli osservatori economici hanno scritto: è un bluff.

«Quando tutte le carte saranno sul tavolo capiranno che non lo è».

Dicono: «La Flat tax è entrata nel Def, ma non si può realizzare perché costa troppo».

«È assolutamente falso».

E molti hanno aggiunto: la Lega ha ottenuto una vittoria «di bandiera», ma tanto non ci sono le risorse.

«Noi della Lega non facciamo mai «campagne di immagine». La Flat tax era e rimane il nostro obiettivo reale».

Ma da realizzare quando, scusi?

«Con la prossima Legge di stabilità. Altrimenti non avremmo dato battaglia per metterla nel Def».

Ma se voi stessi avete calcolato che il costo della misura è di 15 miliardi!

«Sì, perché abbiamo immaginato un «primo passo» in cui si inserisce questo beneficio per le famiglie fino a 50 mila euro di reddito. È un obiettivo possibile».

Però la domanda è ineludibile: siamo in recessione, ci sono già 20 miliardi di clausole di salvaguardia da disattivare, e voi volete aggiungere una nuova spesa? 

«Per capire il nostro ragionamento bisogna ribaltare il modo di affrontare il problema. Ha presente l’aspirina?»

Cosa c’entra?

«Mi segua. Se noi dicessimo a chiunque che un malato di polmonite va curato con l’aspirina perché l’antibiotico è troppo caro verremmo guardati come dei matti, giusto?»

Non c’è dubbio.

«Ecco il punto logico: perché l’antibiotico viene giustamente riconosciuto come elemento di cura e non come una spesa voluttuaria».

Mi sta dicendo che lei considera la Flat tax come una cura per i bilanci?

«Se mi passa la provocazione, sì. La «tassa piatta», infatti, viene discussa dagli economisti mainstream, solo come elemento di costo e non come strumento di crescita».

Però in Europa nessuno l’ha ancora introdotta.

«Quale Europa? L’Irlanda è in Europa. E io le faccio l’esempio dell’Ungheria che è in Europa, perché i confini non possono stringersi e allargarsi a seconda delle tesi, stretti quando si tratta di decidere il rigore, e larghissimi solo quando si tratta di pagare».

E cosa è accaduto in Ungheria?

«Hanno introdotto la Flat tax per la prima volta nel 2011, al 16 per cento. È stata un successo».

Ha guarito la polmonite?

«Sì, al punto che hanno aumentato i dosaggi. Nel 2017 l’hanno ridotta ulteriormente, al 15 per cento».

E il sistema ha retto?

«Mi dica lei cosa pensa di questi dati. Le entrate solo aumentate del 50 per cento e la crescita dell’economia ha prodotto 800 mila posti di lavoro in più. Le pare poco?»

Però gli osservatori e le opposizioni hanno loro dubbi anche per gli effetti della mini-Flat tax che avete sperimentato da quest’anno.

«Guardi, che le opposizioni di Forza Italia e Pd prevedano un’apocalisse fiscale lo considero scontato. Fa parte della normale dialettica polemica tra maggioranza e opposizione».

E anche l’ordine dei commercialisti rientra in questa dialettica? Paventano il crollo delle fatture.

«Ecco, qui le rispondo che noi crediamo l’esatto contrario. Dove abbassi la pressione e semplifichi la gente paga più volentieri, più facilmente e il gettito sale. Accadrà anche in questo caso».

Quindi aspettate i dati di giugno per poter somministrare l’antibiotico a ottobre?

«Esatto. Il problema di una cura è quando si è troppo timidi nella terapia».

Traduca.

«L’antibiotico si prende per sette giorni, altrimenti la malattia ti ritorna. Lo stesso deve accadere con la Flat tax: se non vai fino in fondo rischi di non vedere gli effetti».

Per questo non volete aspettare? 

«Nemmeno un minuto. Va fatta adesso e subito. Deve entrare nella nuova manovra. E non nonostante la crisi, ma proprio perché siamo in crisi».

Però lei dà per scontato che la mini-Flat tax abbia funzionato, e questi dati positivi ancora non ci sono, perché potranno arrivare solo dopo le dichiarazioni dei redditi.

«Io giro l’Italia come una trottola. Mi hanno fermato per strada, a Frosinone, dicendomi che ci guadagnano fin da ora. Mi ha  parlato una ragazza, un ingegnere, dicendomi: «Sono una di quelle partite Iva a cui cambia la vita»».

Una rondine non fa primavera?

«Potrei citarle decine di segnali di questo tipo. Un milione e mezzo di italiani stanno già sperimentando il beneficio».

Non è un dato scientifico.

«No, per carità. Ma chi sta sul territorio avverte un’onda positiva».

Nella cosmogonia della nuova Lega salviniana Armando Siri - al pari di Claudio Borghi - è uno dei più strenui sostenitori della Flat tax. Nel governo gialloverde occupa il posto di sottosegretario alle Infrastrutture, ed è una delle voci che più spesso ha duellato con i rappresentanti del M5s sui temi economici. Nella vita privata ha studiato canto, e anche i suoi acuti polemici, talvolta, sono da tenore.

Sottosegretario Siri, lei da dove arriva?

«Dalla Liguria. Sono nato a Genova».

Figlio della classe dirigente e predestinato alla gloria?

«Macché, una famiglia normalissima. Mia madre era una casalinga che ha fatto tanti lavori umilissimi, comprese le pulizie, per sbarcare il lunario».

E suo padre?

«Di lui preferirei non parlare».

Addirittura?

«(Silenzio). Diciamo che non è stato una figura presente nella mia vita. E non aggiungiamo altro, per cortesia».

Rispetto la sua scelta. Che diploma ha preso?

«Una maturità tecnica, e poi mi sono iscritto all’università. Lavoravo e studiavo. Poi il lavoro ha prevalso quando è nata mia figlia».

Che tipo di lavori ha fatto?

«Per un po’ di tempo sono stato impiegato in un’agenzia di viaggi. Però, fin da ragazzo avevo questo pallino: fare il giornalista».

E come inizia?

«A vent’anni entrando a Radio Babboleo».

Una delle più importanti radio private in Italia.

«Sì, ma inizio facendo piccole cose. Sono un factotum, finché, passo dopo passo, arrivo a condurre il Giornale radio».

Anche aiutato dal fatto di avere una bella voce?

«Da che mi ricordi io, fin da bambino ho sempre cantato».

Appassionato d’opera?

«Sì! Sono un tenore, e - per puro diletto - ho preso delle lezioni in una scuola di canto lirico. Ma questo è avvenuto a Milano, molti anni più tardi».

Lilli Gruber sostiene di averla sentita cantare a Otto e mezzo.

«(Ride). Sì, ma solo dietro le quinte».

Non faccia il modesto.

«(Divertito). Se vuole che esibisca un titolo, posso vantare una vittoria a Sanremo da Pecora».

Da Giorgio Lauro e da Gepi Cucciari?

«Sì, ho interpretato Perdere l’amore di Massimo Ranieri e Avrai di Claudio Baglioni».

E l’amore per la politica, a quando risale?

«Sono sempre stato intraprendente su questo terreno, e alle superiori sono diventato rappresentante di istituto».

Mentre a livello ideale lei era stato folgorato da Bettino Craxi.

«Ero socialista. E ho preso la mia prima tessera della Federazione giovanile socialista italiana a 15 anni».

La generazione degli anni Ottanta, l’ultima prima di Mani pulite.

«Il segretario nazionale, mio grande amico, era Luca Iosi, oggi è un creativo e brillante dirigente della Tim».

E cosa produsse questo innamoramento per il Garofano?

«Proprio lui, Bettino. Mi piaceva Craxi».

Lo ha conosciuto personalmente?

«Nel 1990: avevo 19 anni. Con lui sono stato sempre in contatto. Era una persona con forte carisma e contemporaneamente un timido. Era generoso e con una grande umanità, mi ha trasmesso una visione entusiastica del mondo e dell’Italia».

E cosa la sedusse di lui?

«Era un politico determinato, il portatore di una visione, appassionato dall’idea di poter fare delle riforme - già all’epoca indispensabili - in questo Paese».

Però Craxi era la bestia nera di Bossi, e della Lega in cui milita oggi. Lo chiamava «Gambadilegno».

«Perché la Lega era allora un partito concorrente. Ma per certi versi considero Bettino un precursore di tante cose che stiamo facendo noi».

Per esempio?

«Il sovranismo».

Dice sul serio?

«Craxi è il primo grande sovranista della storia politica italiana».

Sicuro?

«Più sovranista di lui credo che non esista nessuno. Craxi era quello che difendeva le aziende di Stato dalla concorrenza degli altri Paesi europei».

E in politica?

«Basti pensare alla difesa dell’identità nazionale a Sigonella. Anche in Europa è stato il teorico di una grande Italia che doveva avere il suo posto tra i Paesi fondatori».

Torniamo alla sua storia.

«Dopo Radio Babboleo ho collaborato con diverse tv private. La prima che mi viene in mente, Telecity».

Diventa pubblicista a Telegenova?

«No, con la radio. A Telegenova Conducevo una trasmissione di opinioni».

Gemella della coeva Sgarbi quotidiani.

«Magari! Non esageriamo. Faccio il polemista, l’autore, il conduttore. Poi grazie ad alcuni amici ho avuto una grande possibilità. Un colloquio a Mediaset».

Con chi?

«Il mio primo esaminatore, che poi è diventato il mio primo direttore, è stato Paolo Liguori».

E supera l’esame?

«Sì. Vengo assunto a Studio Aperto, dove lavoro con lo stesso Liguori e con Peppino Sottile. È stata una grande palestra per me».

Poi?

«Passo a Mediavideo. Una sorta di start-up digitale dell’azienda».

E nel tg di cosa si occupava?

«Di tutto. Dallo spettacolo - Verissimo - alla guerra in Bosnia».

I primi soldi della vita?

«Sì, prendo un appartamentino a Milano in Porta Vittoria. Pagavo 900 mila lire di affitto, guadagnavo più di 2 milioni di lire. Mi sentivo ricco».

E la passione per l’economia?

«Quella c’è sempre stata. La considero la disciplina primaria».

Ha ancora idee socialiste in questo campo? 

«Non ho cambiato di molto la mia opinione, rispetto agli anni Novanta, ma è cambiato il mondo».

Provi a riassumere.

«Il privato deve fare profitto, lo Stato invece ha il compito di occuparsi della coesione sociale. È la cosa più semplice di questo mondo, ma in questi anni è diventata un’idea controcorrente».

Lei considera una catastrofe quello che accade dopo Mani pulite. 

«In economia senza dubbio: le ex aziende dell’Iri vengono distrutte, smembrate, comprate a prezzo di liquidazione».

Era inevitabile?

«No, è stata una iattura. Si criticavano le vecchie Partecipazioni statali, ma poi si vendevano le aziende  mantenendo i costi sociali a carico del pubblico».

Un costo enorme per la collettività.

«Avremmo fatto cento manovre e duecento Flat tax con il soldi spesi per gli ammortizzatori in tutti questi anni!»

E oggi?

«Chi governa ha risorse limitate. Immagini di entrare in una macchina in cui non c’è il volante per sterzare, o in cui non si può ingranare la retromarcia. L’Italia di oggi, vista dal governo, funziona così».

Esistono ancora le cosiddette «partecipate».

«Sì, e ci tocca andare con il cappello in mano a chiedere sostegno per puntellare la coesione sociale a chi dirige le aziende dello Stato pensando che siano le proprie».

Quando nasce la sua curiosità per la Flat tax?

«Quasi vent’anni fa. Ed è figlia di un mio pensiero ossessivo: trovare una soluzione alla crisi della crescita».

Da dove parte?

«Comincio da Alvin Rabushka e Robert Hall e dal loro studio Flat tax».

E poi nasce un rapporto personale, da discepolo.

«Ho scritto a Rabushka e l’ho invitato più volte in Italia. Abbiamo organizzato un primo convegno a Milano che mi ha cambiato la vita. Poi ne sono venuti tanti altri».

Che tipo è?

«È un settantenne. È un tipo molto affabile, nonostante abbia il prestigio di docente della Stanford University».

Agli inizi del 2000 lascia Mediaset.

«Sì, volevo provare a fare l’imprenditore».

L’Espresso l’attacca chiamandola «il bancarottiere fraudolento».

«Provo una rabbia incredibile per questo. La mia è la storia di tanti micro imprenditori travolti dalla crisi. Avevo una piccola società che purtroppo è fallita perché non ci hanno pagato».

Media Italia, vi occupavate di comunicazione.

«Ci tengo a ricordare questo: ho accumulato 300 mila euro di debiti e li ho ripagati tutti, di tasca mia. Ha idea di che sacrificio sia stato».

Capisco bene.

«Per questo non transigo: ho querelato e querelo tutti coloro che mettono in dubbio la mia dignità».

E l’incontro con Salvini?

«Matteo era ancora segretario della Lega Lombarda. Si stavano preparando le elezioni regionali in Lombardia, e io immaginavo di presentare una lista tematica su queste questioni fiscali».

Era la fine del 2012. E che succede invece?

«Salvini mi convoca a via Bellerio e mi dice: «Mi racconti questa storia della Flat tax?». È un curioso, uno che afferra al volo. Pensate quanto parte da lontano questa battaglia».

Finisce che vi presentate con il Carroccio.

«È il momento in cui iniziamo a collaborare con la Lega. Faccio venire di nuovo Rabushka in Italia, nel dicembre 2014. Un convegno in cui parlano Matteo, lui e io. La sala era letteralmente stipata, non entrava uno spillo, quelle idee avevano «bucato»».

Mi dica un momento particolare che ha segnato questa intesa.

«Abbiamo cantato anche insieme a tavola, in Sicilia».

Ricorda quale canzone?

«(Ride). E tu di Claudio Baglioni. Matteo è intonato, ha una voce baritonale, e una predilezione per Fabrizio De André. Anche musicalmente è nelle sue corde».

Non faccia l’apologia del Capo, adesso.

«Non ne ha bisogno. Però posso dire tre cose che fanno di lui un caso unico: è uno che ascolta, uno che mantiene sempre la parola, uno che arriva sempre fino in fondo».

Il suo ultimo incontro con Craxi?

«Ad Hammamet: una sera mi spiegò che l’Europa così come veniva impostata avrebbe rischiato di mettere l’Italia all’angolo. Si sentiva profondamente tradito da tutti coloro ai quali aveva dato fiducia e vedeva nei giovani una speranza per il futuro, ma sapeva che quella generazione (la mia) si sarebbe trovata dinnanzi un mondo molto più difficile».

Un altro momento?

«Ricordo le belle passeggiate ad Hammamet. Guardava verso il mare e diceva sempre con un velo di tristezza sul viso  «Vedi là a pochi chilometri, c’è l’Italia, la mia Italia».

Il Craxi latitante ed esule.

«Sono fiero di aver avuto l’occasione di un rapporto diretto e personale con un uomo di grande statura, politica e umana».

Ha una famiglia?

«Sono separato e ho una figlia di 24 anni. Frequenta l’università a Milano, si chiama Giulia».

Avete un rapporto stretto?

««Vive con me. Da bambina si è sorbita tutti i miei convegni. Ha vissuto di interesse politico ma, per sua fortuna, vuole fare l’insegnante».

Vi accusano di aver fatto pochi investimenti.

«Noi abbiamo investito prima di tutto in sicurezza, nella coesione sociale, che riteniamo importante come e quanto i numeri».

Dice davvero? 

«Guardate la Francia con i gilet gialli. Guardate l’Inghilterra con la Brexit. Si può sempre fare di più e si può fare meglio, ma intanto partiamo da qui. E poi...»

Cosa?

«Non è vero che non abbiamo fatto investimenti. Noi abbiamo sbloccato i cantieri correggendo le storture del decreto legge 50. Abbiamo fatto ripartire l’Italia».

Non ancora.

«Abbiamo posto le condizioni e ce lo riconoscono gli operatori del settore. Il codice più celebrato della storia, quello degli appalti, si è rivelato una gabbia».

Lei al governo si occupa anche dell’Alitalia.

«Abbiamo organizzato una Conferenza nazionale del trasporto aereo che vale il 3,6  per cento del Prodotto interno lordo italiano». 

Ma cosa accadrà alla compagnia di bandiera?

«La «telenovela» di Alitalia è in via di risoluzione. Si sta lavorando intorno a un piano industriale efficace condiviso da Ferrovie dello Stato e dall’americana Delta».

Cosa ci garantisce dal fatto che non sarà un altro fiasco?

«Intorno al tavolo ci sono i migliori player industriali. Secondo lei gli americani sono gente che mette le fiches pensando di incassare la posta?»

Quanto mettono?

«Partono con 100 milioni di euro, e saliranno con le quote. Nel nostro piano il bilancio sarà positivo già dal 2021».

La formula cosa prevede?

«Nuovi aerei sulle rotte a lungo raggio che sono le più redditizie. Quelle con cui si guadagna».

Lei ha anche la responsabilità del patrimonio immobiliare pubblico. Da cui però di solito nei bilanci non arriva un euro.

«Parliamo di 350 e 400 miliardi di valore. Ma 65 sono liberi e disponibili a essere valorizzati».

È sicuro di riuscirci?

««Dove non c’è manutenzione e degrado. Faremo un piano per ristrutturare, cambiare destinazione d’uso: così si fa muovere il Pil e si lima il debito. Si assiste il comparto dell’edilizia, il grande malato di questa crisi».

Sarebbe pronto a scommettere che la Flat tax per le famiglie in autunno si farà davvero?

«(Ride). Se torna a trovarmi fra sei mesi lo vedrà». 

Siri, i 30mila euro e l’amico in affari con il boss: cosa deve chiarire ai pm e a Conte. Pubblicato giovedì, 25 aprile 2019 Fiorenza da Corriere.it.  Una tangente da 30 mila euro in cambio di provvedimenti sul «minieolico». È questa l’accusa dalla quale il sottosegretario ai Trasporti Armando Siri dovrà difendersi di fronte alla Procura di Roma, ma anche nel colloquio con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte che incontrerà lunedì. La contestazione esplicita è nel decreto di perquisizione eseguito nei confronti dell’imprenditore Paolo Franco Arata che avrebbe messo a disposizione la cifra. Scrive nel provvedimento il pubblico ministero Mario Palazzi: «Armando Siri è indagato del reato previsto dagli articoli 318, 321 c.p. perché senatore della Repubblica e sottosegretario di Stato, in tale duplice qualità di pubblico ufficiale, per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, asservendoli a interessi privati — tra l’altro proponendo e concordando con gli organi apicali dei ministeri competenti per materia — l’inserimento in provvedimenti normativi di competenza governativa di rango regolamentare e di iniziativa governativa di rango legislativo, ovvero proponendo emendamenti contenenti disposizioni in materia di incentivi per il cosiddetto «minieolico» — riceveva indebitamente la promessa e/o la dazione di 30.000 € da parte di Paolo Franco Arata amministratore della Etnea srl, della Alqantara Srl, dominus della Solcara srl (amministrata dal figlio Francesco Arata) e dalla Solgesta srl (amministrata dalla moglie Alessandra Rollino) imprenditore che da tali provvedimenti avrebbe tratto benefici di carattere economico». I magistrati hanno formulato l’accusa dopo aver ascoltato le intercettazioni delle conversazioni tra Paolo Arata e il figlio Francesco. A destare l’attenzione è in particolare un colloquio captato in macchina durante il quale l’imprenditore spiega che cosa è stato fatto per cercare di far passare i provvedimenti e parla di un’operazione che è costata 30 mila euro, riferendosi a Siri. Il resto lo hanno fatto le verifiche degli investigatori della Dia che hanno individuato le proposte di legge presentate da Siri e che invece sono state bloccate sia al Mise, sia in Parlamento. La conferma è arrivata dagli interrogatori del capo di gabinetto del ministro per lo Sviluppo Economico Vito Cozzoli, della sua vice Elena Lorenzini, del sottosegretario Davide Crippa che sono stati interrogati dal pubblico ministero e hanno confermato le «pressioni» di Siri. Nel provvedimento viene specificato che «tra il costruttore Arata e il sottosegretario Siri (di cui Arata è stato sponsor per la nomina proprio in ragione delle relazioni intrattenute) costantemente impegnato — attraverso la sua azione diretta nel governo e ascoltato membro della maggioranza parlamentare — nel promuovere provvedimenti regolamentari o legislativi che contengano norme ad hoc tese a favorire gli interessi economici di Arata ampliando a suo favore gli incentivi per l’energia elettrica da fonte rinnovabile a cui non ha diritto». Arata è risultato socio di Vito Nicastri e su questo Siri dovrà chiarire la propria posizione durante il colloquio con il premier Conte. Nicastri è infatti agli arresti per associazione mafiosa e intestazione fittizia di beni. In particolare è ritenuto il finanziatore della latitanza del boss Matteo Messina Denaro. E su questo il Movimento 5 Stelle ha chiesto conto anche al leader leghista Matteo Salvini. Anche perché Siri non è l’unico ad avere rapporti con Arata. Federico Arata, figlio dell’imprenditore, è stato assunto a palazzo Chigi dal sottosegretario alla presidenza Giancarlo Giorgetti come consulente del dipartimento economico e ha mediato i rapporti tra Salvini e l’ideologo sovranista Steve Bannon. Lo stesso Paolo Arara ha partecipato alla convention della Lega del 2017 sull’energia per «Salvini premier».

Caso Siri, quelle parole di Arata sono un’ammissione di colpevolezza. Pubblicato giovedì, 25 aprile 2019 da Fiorenza Sarzanini  su Corriere.it. Una lunga conversazione tra l’imprenditore Paolo Arata e suo figlio Francesco captata dagli investigatori della Dia nel dicembre 2018 grazie a una “cimice” inserita nel telefonino. Su questa intercettazione – trasmessa per competenza dai magistrati di Palermo ai colleghi di Roma – si fonda l’accusa di corruzione contro il sottosegretario ai Trasporti e senatore leghista Armando Siri. E proprio sulla trascrizione del colloquio gli inquirenti capitolini chiederanno al tribunale del Riesame di confermare il sequestro di cellulari e computer di Arata, presi una settimana fa durante le perquisizioni. Si tratta infatti del perno di un’inchiesta che – nonostante i tentativi di delegittimazione arrivati da più parti addirittura negando che esistesse la registrazione – sembra destinata ad allargarsi. Si torna dunque alla fine dell’estate scorsa. Gli Arata discutono dei propri affari. Non immaginano di essere ascoltati e il padre parla a ruota libera. Spiega al figlio i rapporti con Siri, le richieste per farlo intervenire su provvedimenti di legge che riguardano gli impianti eolici per cui loro hanno svariate società e in particolare gli incentivi che loro non possono ottenere. Parla esplicitamente di 30 mila euro che ha dovuto impegnare. Il senso del colloquio per i magistrati è chiaro: quei soldi sono il “costo” per garantirsi l’impegno del politico del Carroccio. Per loro è un’ammissione sufficiente a procedere contro Siri e infatti nel decreto di perquisizione esplicitano esattamente il contenuto dell’intercettazione. E infatti sono proprio gli inquirenti a confermare che «l’interpretazione di quanto affermato da Paolo Arata nell’intercettazione è univoca», soprattutto che non c’è alcun dubbio che si riferisca proprio al suo rapporto con Siri. Elementi sufficienti per affermare nel provvedimento: «Siri è indagato in qualità di pubblico ufficiale, per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, asservendoli a interessi privati — tra l’altro proponendo e concordando con gli organi apicali dei ministeri competenti per materia — l’inserimento in provvedimenti normativi di competenza governativa di rango regolamentare e di iniziativa governativa di rango legislativo, ovvero proponendo emendamenti contenenti disposizioni in materia di incentivi per il cosiddetto «minieolico» — riceveva indebitamente la promessa e/o la dazione di 30.000 € da parte di Paolo Franco Arata amministratore della Etnea srl, della Alqantara Srl, dominus della Solcara srl (amministrata dal figlio Francesco Arata) e dalla Solgesta srl (amministrata dalla moglie Alessandra Rollino) imprenditore che da tali provvedimenti avrebbe tratto benefici di carattere economico». Nelle conversazioni intercettate Arata si vanta anche di aver brigato affinché Siri avesse un posto nel governo gialloverde e per questo il pubblico ministero Mario Palazzi evidenzia nel decreto il fatto che «Arata è stato sponsor per la nomina proprio in ragione delle relazioni intrattenute». L’imprenditore si occupava delle relazioni con i politici anche per conto di Vito Nicastri il “re dell’eolico”, arrestato perché ritenuto uno dei finanziatori della latitanza del boss Matteo Messina Denaro tanto che nel 2017 ha subito la confisca dei beni per un valore di oltre un miliardo di euro. Anche in questo caso sono le intercettazioni a rivelare come i due fossero in realtà soci di numerose aziende specializzate nelle “rinnovabili”. Le nuove verifiche mirano a ricostruire l’intera rete di rapporti di Arata anche tenendo conto che il «gruppo Arata-Nicastri», come lo definiscono i magistrati palermitani «alla fine del 2018 ancora incassava i fondi a sostegno del mini-eolico dal Gse, Gestore dei servizi energetici, società per azioni interamente controllata dal ministero delle Finanze». Il legale di Arata, Gaetano Scalise, è perentorio: «Chiariremo tutto facendoci interrogare dai magistrati».

Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della sera” il 26 aprile 2019. Una lunga conversazione tra l' imprenditore Paolo Arata e suo figlio Francesco captata dagli investigatori della Dia nel settembre 2018 grazie a una «cimice» inserita nel telefonino. Su questa intercettazione - trasmessa per competenza dai magistrati di Palermo ai colleghi di Roma - si fonda l' accusa di corruzione contro il sottosegretario ai Trasporti e senatore leghista Armando Siri. E proprio sulla trascrizione del colloquio gli inquirenti capitolini chiederanno al tribunale del Riesame di confermare il sequestro di cellulari e computer di Arata, presi una settimana fa durante le perquisizioni. Si tratta infatti del perno di un'inchiesta che - nonostante i tentativi di delegittimazione arrivati da più parti addirittura negando che esistesse la registrazione - sembra destinata ad allargarsi. Si torna dunque alla fine dell' estate scorsa. Gli Arata discutono dei propri affari. Non immaginano di essere ascoltati e il padre parla a ruota libera. Spiega al figlio i rapporti con Siri, le richieste per farlo intervenire su provvedimenti di legge che riguardano gli impianti eolici per cui loro hanno svariate società e in particolare gli incentivi che loro non possono ottenere. Parla esplicitamente di 30 mila euro che ha dovuto impegnare. Il senso del colloquio per i magistrati è chiaro: quei soldi sono il «costo» per garantirsi l' impegno del politico del Carroccio. Per loro è un' ammissione sufficiente a procedere contro Siri e infatti nel decreto di perquisizione esplicitano esattamente il contenuto dell' intercettazione. E infatti sono proprio gli inquirenti a confermare che «l'interpretazione di quanto affermato da Paolo Arata nell' intercettazione è univoca», soprattutto che non c'è alcun dubbio che si riferisca proprio al suo rapporto con Siri. Elementi sufficienti per affermare nel provvedimento: «Siri è indagato in qualità di pubblico ufficiale, per l' esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, asservendoli a interessi privati - tra l' altro proponendo e concordando con gli organi apicali dei ministeri competenti per materia - l' inserimento in provvedimenti normativi di competenza governativa di rango regolamentare e di iniziativa governativa di rango legislativo, ovvero proponendo emendamenti contenenti disposizioni in materia di incentivi per il cosiddetto «minieolico» - riceveva indebitamente la promessa e/o la dazione di 30.000 da parte di Paolo Franco Arata amministratore della Etnea srl, della Alqantara Srl, dominus della Solcara srl (amministrata dal figlio Francesco Arata) e dalla Solgesta srl (amministrata dalla moglie Alessandra Rollino) imprenditore che da tali provvedimenti avrebbe tratto benefici di carattere economico». Nelle conversazioni intercettate Arata si vanta anche di aver brigato affinché Siri avesse un posto nel governo gialloverde e per questo il pubblico ministero Mario Palazzi evidenzia nel decreto il fatto che «Arata è stato sponsor per la nomina proprio in ragione delle relazioni intrattenute». L' imprenditore si occupava delle relazioni con i politici anche per conto di Vito Nicastri il «re dell' eolico», arrestato perché ritenuto uno dei finanziatori della latitanza del boss Matteo Messina Denaro tanto che nel 2017 ha subito la confisca dei beni per un valore di oltre un miliardo di euro. Anche in questo caso sono le intercettazioni a rivelare come i due fossero in realtà soci di numerose aziende specializzate nelle «rinnovabili». Le nuove verifiche mirano a ricostruire l' intera rete di rapporti di Arata anche tenendo conto che il «gruppo Arata-Nicastri», come lo definiscono i magistrati palermitani «alla fine del 2018 ancora incassava i fondi a sostegno del mini-eolico dal Gse, Gestore dei servizi energetici, società per azioni interamente controllata dal ministero delle Finanze». Il legale di Arata, Gaetano Scalise, è perentorio: «Chiariremo tutto facendoci interrogare dai magistrati».

E’ PARTITA LA “MACCHINA DEL RUMORE”. Carlo Bonini e Maria Elena Vincenzi per “la Repubblica” il 26 aprile 2019. Sollecitata dal caso Siri, il sottosegretario alle Infrastrutture della Lega indagato dalla Procura di Roma per corruzione, e lesta nel soccorso dell'azionista di maggioranza del Governo, Matteo Salvini, si è messa al lavoro la "macchina del rumore". Una variopinta e ormai stagionata compagnia di giro - giornalisti, parlamentari, social influencer - specializzata in Operazioni Confusione. Quelle che devono accreditare come « falso » ciò che è vero. Come «inesistente» e «fantasma», ciò che al contrario esiste. Scommettendo sulla vecchia regola degli spin doctor. Se non puoi dimostrare che una cosa è falsa, fallo almeno credere. A qualcuno il dubbio resterà. E dunque, ieri mattina, strilla il quotidiano la Verità, una «rivelazione choc» di uno dei pm romani consente di concludere che quanto raccontato da Repubblica e il Corriere della Sera nei giorni scorsi è «un fake». Che «l'intercettazione dei 30 mila euro contro Siri non esiste». «È un tarocco». Al punto - si spiega con la certezza dell' indicativo - che « nel fascicolo dell' inchiesta l'audio non c'è» e non è saltato fuori neppure «dopo giorni di scartabellamenti». Oibò. La faccenda è assai ghiotta. Non fosse altro perché - guarda un po' che coincidenza - cade proprio nelle ore in cui il premier di un Governo ormai politicamente dissolto avoca a sé la decisione sulla permanenza o meno nel gabinetto di Siri. Sotto un diluvio di chiacchiere, i fatti si dissolvono e la storia può essere riscritta a mano libera. Dunque, come stanno le cose? Repubblica è tornata a sollecitare diverse e qualificate fonti della Procura di Roma con accesso agli atti di indagine che consentono di ricostruire con esattezza questa storia e i suoi punti documentalmente acclarati. A cominciare da quello dirimente. Nel fascicolo è regolarmente trascritta (al punto che sarà presto depositata al Tribunale del Riesame) una lunga intercettazione ambientale del settembre 2018 in cui è incisa la conversazione tra l'ex deputato Paolo Arata e il figlio imprenditore Francesco. L'intercettazione - con buona pace di chi ciancia di «fantasmi» e ricerche affannose negli archivi - è stata registrata dalla Dia (che ne conserva copia), messa a disposizione dei pubblici ministeri, richiamata in un' informativa del 29 marzo 2019, e persino riascoltata nelle ultime ventiquattro ore dagli inquirenti, per verificarne, con esito positivo, il tenore e il contenuto. Che - spiegano due diverse fonti di Procura - « hanno un' interpretazione univoca. La stessa che è a fondamento del reato contestato all' indagato e al provvedimento di perquisizione di giovedì della scorsa settimana». Fissiamo dunque un primo punto. Non solo l' intercettazione esiste, ma è proprio il suo contenuto quello su cui si fonda l'iscrizione al registro degli indagati di Siri. Dunque, è "la conversazione". È la pietra angolare dell'imputazione. Perché è lì che si fa riferimento a Siri e ai 30 mila euro. Come riferiscono ancora fonti di Procura, «la conversazione intercettata non consente di stabilire se i 30 mila euro siano stati effettivamente pagati o, al contrario, soltanto promessi. Ma questo, sotto il profilo della contestazione del reato, non cambia le cose». A ben vedere, la "macchina del rumore" e chi allegramente è salito sopra la sua giostra avrebbero potuto agevolmente evincere l'esistenza del dialogo anche solo dalla lettura del decreto di perquisizione (il ministro dell' Interno non deve avere avuto il tempo di farlo, visto che ha preferito gigioneggiare chiedendosi se esista o meno l' intercettazione). Ma è anche vero che era un dettaglio non funzionale all'Operazione Confusione. Scrivono infatti il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il pm Mario Palazzi: «il fumus ( del reato, ndr.) è costituito, tra l'altro, dal contenuto di alcune conversazioni tra l' indagato Paolo Franco Arata ed il figlio Francesco (alla presenza anche di terzi) nelle quali si fa esplicitamente riferimento alla somma di denaro pattuita a favore di Armando Siri per la sua attività di sollecitazione dell' approvazione di norme che lo avrebbero favorito». Per essere «una presunta conversazione », peggio, «un tarocco», quello di Repubblica, non è male. Ma, visto che ci siamo, si può aggiungere qualche altro dettaglio. Il contenuto della conversazione tra Arata e il figlio (che, come scrivono i pm, non è per altro l' unica) non consente, per dirla con le parole di una fonte inquirente, «nessuna altra spiegazione plausibile che non sia quella che le è stata attribuita è che è evidente dall' ascolto» . Così come «è certo che è a Siri che i due si riferissero in quella discussione». «L'unico modo che Arata avrebbe per suggerire una spiegazione diversa - conclude la fonte sarebbe sostenere che mentre diceva quelle cose, scherzava. Peccato, però, che non si trattasse di una chiacchiera al bar, ma di un dialogo con il figlio sui molti e diversi affari della famiglia. Tra cui, appunto, quelli che riguardavano il ruolo di Siri». La si potrebbe chiudere qui la pagliacciata velenosa dell' intercettazione che «non c'è» . E tuttavia l'inchiesta su cui è cominciato il tiro al piccione, ha acquisito anche altro. Partendo da quel dialogo carpito dalla Dia - a seguito del quale per altro è stato indagato il sottosegretario alle infrastrutture - gli investigatori hanno ricostruito il contesto del rapporto tra gli Arata e Siri e le mosse di quest'ultimo nel cercare, per via legislativa, di introdurre norme che garantissero un sistema di incentivi per il cosiddetto minieolico con tariffe simili a quelle precedenti il 2017. Cosa che avrebbe ingrassato il business degli Arata e del loro socio occulto in odore di mafia Vito Nicastri. Di più: nel fascicolo dei pm ora ci sono anche i verbali dei funzionari del Ministero dello Sviluppo Economico che hanno confermato le pressioni subite dal sottosegretario. Chi sa che la " macchina del rumore" ora non faccia sparire anche quelli.

TE LE DO IO LE FAKE NEWS!  Maurizio Belpietro per “la Verità” il 26 aprile 2019. Il Corriere della Sera insiste con l'intercettazione che non c'è. Oddio, lo fa con sempre minor vigore, nascondendosi dietro le carte della Procura dalle quali, è vero, emerge il sospetto che Armando Siri si sia fatto corrompere per far passare alcuni emendamenti. Ma un conto è che i magistrati formulino un'ipotesi di accusa a carico del sottosegretario, un altro che il principale quotidiano italiano si inventi un'intercettazione in cui un imprenditore accusa Siri. È di tutta evidenza che le due cose non sono uguali. E, se lo fossero, i pm l'altro giorno non sarebbero saltati sulla sedia dopo aver visto la prima pagina del giornale di via Solferino. E un importante inquirente non si sarebbe lasciato andare a uno sfogo. Venerdì il titolo del Corriere non lasciava spazio a equivoci e sotto un occhiello che pareva riportare gli atti giudiziari («L'inchiesta/le carte»), tra virgolette compariva una frase: «Ci è costato 30.000 euro», Arata e le pressioni su Siri. Nell' articolo si spiegava che quella frase fra virgolette era stata captata da una microspia della Dia, cioè della Direzione investigativa antimafia. Arata, l' imprenditore sotto indagine, parlava con il figlio, e senza sapere di essere intercettato confidava un pagamento a Siri di 30.000 euro. Ebbene, quella confessione non esiste, esistono altre intercettazioni che gettano ombre su Siri, ma non quella, e i magistrati di Roma hanno saputo di una presunta microspia che avrebbe incastrato il sottosegretario leggendo il giornale. Quella mattina della scorsa settimana, la prima cosa che hanno fatto dopo aver visto il Corriere, è stato cercare una frase che fosse sfuggita a tutti durante la lettura dei brogliacci. Per trovarla hanno chiesto agli investigatori della Dia e ai colleghi di Palermo, ma il responso è stato unanime. Quella intercettazione, così come riportata, non c' è. Siri è indagato per corruzione e i magistrati sospettano che il prezzo di quell' emendamento che avrebbe cercato di far passare sarebbe di 30.000 euro, ma la pistola fumante sfoderata dal Corriere della Sera e ripresa a occhi chiusi da tutta la stampa («Mi è costato 30 mila euro», le due intercettazioni del lobbista, titolava anche Repubblica) non compare. Del resto lo certifica lo stesso decreto, dietro il quale ieri il Corriere della Sera ha provato a nascondersi pur di non ammettere di aver scritto il falso. Nel provvedimento della Procura, il pubblico ministero Mario Palazzi scrive testualmente: «Armando Siri, senatore della Repubblica e sottosegretario di Stato, in qualità di pubblico ufficiale, per l'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, asservendoli a interessi privati - tra l'altro proponendo e concordando con gli organi apicali dei ministeri competenti in materia - l'inserimento in provvedimenti normativi di competenza governativa di rango regolamentare e di iniziativa governativa di rango legislativo, ovvero proponendo emendamenti contenenti disposizioni in materia di incentivi per il cosiddetto "minieolico" - riceveva indebitamente la promessa e/o la dazione da parte di Paolo Franco Arata». Ora. Lasciamo perdere il linguaggio giudiziario un po' complicato e arriviamo al punto. Se il pubblico ministero avesse avuto in mano un' intercettazione in cui Arata «confessava» al figlio di aver pagato Siri, l'avrebbe riportata nel provvedimento oppure no? Avrebbe scritto che l'ipotesi di accusa era di «essersi fatto indebitamente promettere» 30.000 euro o avrebbe scritto che l'ipotesi era una tangente di 30.000 euro, supportata da un'intercettazione di Arata? La risposta è scontata: a sostegno della tesi corruttiva il pm non avrebbe taciuto le parole registrate dalla Dia, ma le avrebbe riportate in grassetto. E invece quella specifica frase messa tra virgolette non c'è, e per un motivo molto semplice, ovvero perché nessuna microspia l' ha captata. Questo vuol dire che Armando Siri è innocente e va scagionato con tanto di scuse? No, il sottosegretario rimane indagato ed è fortemente sospettato di essersi fatto corrompere, ma la prova regina che secondo il Corriere lo avrebbe messo spalle al muro per il momento non c'è. L' unico fatto certo, semmai, è il tentativo di emettere una sentenza di colpevolezza quando ancora non esiste neppure una richiesta di rinvio a giudizio. Il che dimostra una cosa, ovvero che da parte di qualcuno c' è molta fretta di archiviare questo governo. O per lo meno una parte di questo governo: quella leghista.

La falsa intercettazione contro Siri e la vera guerra alla Lega. "Ci è costato 30mila euro", la prova regina della Procura è una frase mai detta lascando dubbi su tutta l'inchiesta e sul comportamento di una certa stampa, scrive il 26 aprile 2019 Panorama. Tutto comincia venerdì scorso, dopo le prime notizie sull'iscrizione nel registro degli indagati di Armando Siri, sottosegretario della Lega ai Trasporti e uomo molto vicino a Salvini. Quella mattina infatti il Corriere della Sera dentro un articolo il cui occhiello recitava "l'inchiesta, le carte" riportava la famosa frase tra virgolette "ci è costato 30 mila euro" che sarebbe stata detta da Arata, il manager sotto inchiesta, al figlio e sarebbe la prova della tangente versata a Siri. Peccato che questa frase, quella intercettazione non esiste. Ne esistono altre, che lanciano diversi sospetti sull'operato di Siri, ma quella frase, la "pistola fumante" dell'accusa, la prova Regina non c'è. Non c'è nemmeno nel decreto del Pm che nel suo testo lancia accuse pesanti e sospetti legittimi ma quella frase non c'è. E se non c'è nel decreto (come avviene di solito) è perché quella frase nelle carte, nelle registrazioni, non c'è. Cos significa tutto questo? Che Armando Siri è innocente. No. Sarà un processo, che speriamo rapido, a dirlo con altre carte ed altre intercettazioni. Ma la fretta con cui quel titolo e quella frase inesistente dal Corriere sia finita su tutti i Tg e gli online di informazione ed utilizzata per emettere una condanna pubblica di colpevolezza significa che si vuole colpire il Governo (nella speranza che cada) o quantomeno la Lega.

I pm: "Nelle carte su Siri non ci sono intercettazioni sulla tangente". Gli inquirenti spiegano alla Verità che certe intercettazioni non trovano riscontro nei fascicoli dell'inchiesta su Siri: "Sono tutte false". Sergio Rame, Giovedì 25/04/2019 per Il Giornale. "Questa operazione ci è costata 30mila euro". Nella vulgata di una certa stampa questa frase sarebbe stata pronunciata da Paolo Arata al figlio Francesco. Nel loro immaginario si riferirebbe ai soldi versato ad Armando Siri, sottosegretario alle Infrastrutture ora indagato per corruzione, per modificare i provvedimenti legislativi e sarebbe stata catturata da una cimice della Dia. Peccato che, come rivela oggi la Verità, l'intercettazione sia completamente falsa. Non esiste. "Quelle frasi non ci sono nel fascicolo", ha assicurato un inquirente ai microfoni del quotidiano diretto da Maurizio Belpietro. Nel mirino delle toghe c'è l'emendamento (mai approvato) che avrebbe dovuto fare "retroagire" l'attivazione dei finanziamenti stanziati per alcuni progetti legati alle energie rinnovabili, in modo da permettere anche a una delle società di Vito Nicastri di ottenere i fondi. L'imprenditore di Alcamo (Trapani) è da un anno agli arresti domiciliari, ma anche da casa avrebbe continuato, tramite un familiare, a manovrare per fare affari. Al centro dell'inchiesta ci sarebbe, appunto, una presunta tangente da 30mila euro che Arata avrebbe appunto consegnato a Siri in cambio di una norma da inserire nel Def e che avrebbe consentito di ampliare i finanziamenti per il settore del mini eolico retrodatando la concessione al momento della costituzione di alcune società dell'imprenditore Vito Nicastri, il "re dell'eolico". Prova cardine di questa mazzetta, a detta di alcuni, si sarebbe appunto un'intercettazione che però, secondo quanto riportato dalla Verità, non esisterebbe da nessuna parte. Il virgolettato inventato non è un caso isolato. Negli ultimi tempi gli assalti si ripetono ciclicamente. Tanto che, parlando con la Verità, uno degli inquirenti fa presente che la sensazione avvertita in procura è che sia "un modo per spingere" il lavoro della magistratura in un serto senso. Dietro certi articoli ci sarebbero, dunque, "spinte e contro spinte". "Ma - avvertono - quello di alcuni giornali non solo è stato uno scatto in avanti, è stato un salto nel burrone". Il Corriere della Sera, che ha pubblicato la presunta intercettazione, ha confermato invece quanto ha scritto una settimana fa pubblicando la fotografia degli atti scritti dal pm Mario Palazzi (guarda qui). "(Siri, ndr) - si legge nello stralcio del provvedimento - riceveva indebitamente la promessa e/o la dazione di 30mila euro da parte di Paolo Franco Arata". Ma della trascrizione dell'intercettazione non c'è neanche l'ombra.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 25 aprile 2019. Quando hanno letto la prima pagina del Corriere della sera di Venerdì santo i magistrati della Procura di Roma sono rimasti allibiti. Quel giorno, sotto l' occhiello rosso «le intercettazioni», campeggia il seguente virgolettato: «Ci è costato 30.000 euro». L' articolo riprende il titolo: «"Questa operazione ci è costata 30.000 euro" dice l' imprenditore Paolo Arata al figlio Francesco, riferendosi ai compensi destinati ad Armando Siri (sottosegretario alle Infrastrutture e Trasporti, ndr) per modificare i provvedimenti legislativi. Una cimice della Dia (Direzione investigativa antimafia, ndr) registra la conversazione». Siri pare inchiodato alla sua croce in maniera definitiva, tale è l' assertività della scrivente. La responsabile della cronaca giudiziaria del Corriere della sera, Fiorenza Sarzanini, non mostra tentennamenti: quelle parole incastrano il politico e il quotidiano di via Solferino le spara in prima, seguito da altre testate come Repubblica. L' articolo viene presentato come il compendio ragionato delle carte in mano alla cronista e contiene la chiosa della presunta registrazione: i 30.000 euro, secondo la giornalista, vanno riferiti «ai compensi "destinati a Siri per modificare i provvedimenti legislativi"». Non si capisce se il nuovo virgolettato sia uno stralcio di un documento o di una chiacchierata, ma in modo un po' capzioso viene ribadito che «una cimice "piazzata" dalla Dia registra la conversazione». Dopo la lettura, i magistrati di Roma, che insieme a quelli di Palermo hanno ordinato la perquisizione del sottosegretario, restano basiti e iniziano a cercare la conversazione che non ricordavano di aver letto. Ma, dopo aver scartabellato dentro al fascicolo e aver chiesto aiuto agli investigatori e ai colleghi siciliani, rimangono sconcertati per il risultato: l' audio non esiste. Avete letto bene: sul Corriere sarebbe stata pubblicata tra virgolette una battuta mai captata dagli investigatori. «Le intercettazioni sui giornali? Sono false. Quelle frasi non ci sono nel fascicolo», ci assicura un inquirente. Un' esperienza che in Procura avevano già vissuto con la prima inchiesta sul sindaco di Roma Virginia Raggi. «L' inizio dell' indagine è stata costellata da episodi del genere. Uscirono sui quotidiani messaggini che non erano mai stati scritti e in un mese la Procura fece cinque smentite». Non servì a nulla e così i cronisti continuano a dare in pasto all' opinione pubblica dialoghi farlocchi o quanto meno manipolati, mentre i magistrati hanno smesso persino di smentire. Per esempio nei giorni scorsi nessuno dal Palazzo di giustizia ha provato ad arginare l' ennesima campagna. «Stadio, Raggi ora è indagata per l' esposto di un architetto ex M5s» ha gongolato il 20 aprile La Repubblica. Peccato che la notizia si potesse scrivere alla stessa maniera circa dieci mesi prima, quando venne aperto il fascicolo. Da allora la Procura ha chiesto l' archiviazione per il sindaco, mentre il gip Costantino De Robbio ha recentemente ordinato un supplemento di indagini.

Ma torniamo alle intercettazioni immaginarie. Quello che dà più fastidio agli inquirenti non è il senso delle frasi contenute tra i caporali, significato che, come nel caso di Siri, si può dedurre dai provvedimenti di perquisizione, ma è la decisione di trasformarlo nelle vive parole degli indagati: perché un conto è riportare le tesi dell' accusa, un altro è pubblicare frasi che non sono mai state pronunciate.

A seccare ulteriormente i pm è anche il fatto che il virgolettato trasmette l' idea che chi dovrebbe custodire il segreto, l' abbia divulgato. Un sospetto grave. Del resto le notizie di giudiziaria sono spesso «politicamente sensibili» e possono avere anche delle ricadute sull' economia, per questo, in base al codice non scritto delle toghe, andrebbero pubblicate con particolare cautela. Figuriamoci se poi in edicola escono frasi inventate. Ma la Settimana santa ha regalato anche altre sorprese. Il giorno di Pasqua, per esempio, alcuni dei principali quotidiani si sono esibiti in altri titoli fantasiosi, già stigmatizzati dalla Verità due giorni fa in una «Guida per disinnescare i finti scoop dei giornaloni che si rivelano bufale». Domenica, il solito Corriere della sera, apriva così: «Fondi alla Lega nuovo fronte» e nel sommario si leggeva: «Il tesoriere Centemero rischia il processo». All' interno del servizio altre presunte chicche: «Ma nuovi guai giudiziari potrebbero presto coinvolgere il Carroccio. Perché la prossima settimana sarà chiuso il fascicolo sui finanziamenti alla politica del costruttore Luca Parnasi. E a rischiare il processo per finanziamento illecito è il tesoriere Giulio Centemero». La vicenda è arcinota e riguarda le indagini sui presunti finanziamenti illeciti alla fondazione Eyu riferibile al Pd (per questo nel fascicolo è indagato anche l' ex tesoriere democratico Francesco Bonifazi, accusato pure di false fatturazioni) e all' associazione Più voci, vicina al Carroccio e presieduta dallo stesso Centemero. Nelle scorse settimane, in occasione della richiesta di proroga delle indagini e della convocazione di Centemero per un interrogatorio, ne scrissero tutti i giornali. Per Pasqua il Corriere ha rispolverato l' inchiesta e ha anticipato la notizia della chiusura delle indagini, dando l' idea, si dispiacciono i magistrati, che fosse trapelata l' ennesima velina. «In realtà si è trattato di un' anticipazione del nulla» ironizzano dal Palazzo di giustizia. In effetti «la prossima settimana», cioè l' attuale, non succederà niente di nuovo. C' è chi scommette che le decisioni verranno prese tra giovedì 2 maggio, quando il procuratore Giuseppe Pignatone tornerà in sede, e mercoledì 8 maggio, dal momento che, il giorno successivo, Pignatone andrà ufficialmente in pensione e i suoi colleghi vorrebbero che firmasse anche lui un atto tanto delicato. Ma prima devono mettersi d' accordo sul da farsi in quattro: i due pm, Barbara Zuin e Luigia Spinelli, che questa settimana non sono in servizio, Pignatone e il procuratore aggiunto Paolo Ielo. piedi di piomboIn ogni caso, la volontà di chi indaga è quella di evitare comunicazioni «politicamente sensibili» e capaci di condizionare il voto a ridosso delle elezioni europee del 26 maggio. Quindi bisognerà chiudere prima della seconda metà del prossimo mese. Totodata a parte, il titolo pasquale del Corriere non è piaciuto in Procura. «La sensazione è che fosse un modo per spingere» il lavoro degli inquirenti, ammette uno di loro. «Ma quello di alcuni giornali non solo è stato uno scatto in avanti, è stato un salto nel burrone». La percezione dei magistrati è che dietro agli articoli ci siano «spinte e contro spinte». Ma perché le toghe non si sono ancora accordate in modo definitivo né sull' invio dell' avviso di chiusura indagini per il finanziamento illecito (l' alternativa è la richiesta di archiviazione), né sui tempi di chiusura? Semplice: uno dei possibili ultimi atti del procuratore Pignatone, se non l' ultimo, è quasi un rompicapo per giuristi e si gioca in punta di diritto. Le fondazioni e le associazioni possono essere considerate alla stregua di un partito? E il loro finanziamento può costituire un illecito? La risposta a questi quesiti orienterà la scelta finale.

I colloqui tra Arata e suo figlio captati da una «cimice» nella 500. Per lui e Siri interrogatori paralleli. Pubblicato sabato, 27 aprile 2019 da Corriere.it. È stata una «cimice» piazzata nella 500 X di Paolo Arata a registrare le sue conversazioni con il figlio Francesco sugli affari legati all’eolico. E sugli interventi da effettuare per ottenere agevolazioni e incentivi per le aziende che condivideva con il socio palermitano Vito Nicastri. Ma nelle carte dell’inchiesta c’è anche molto altro. Dopo aver ascoltato il colloquio, il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il sostituto Mario Palazzi hanno infatti delegato gli investigatori della Dia a ricostruire i passaggi di tutti i provvedimenti di legge seguiti da Siri. E hanno ricostruito la «rete» dei contatti che sarebbero stati attivati proprio per assecondare le richieste dell’imprenditore. Entrambi sono indagati di corruzione, il politico si sarebbe «messo a disposizione» in cambio di 30mila euro. Ma adesso si stanno ricostruendo i «flussi finanziari» proprio per capire se possano esserci state altre dazioni e chi siano i destinatari. Di tutto questo Arata darà conto durante l’interrogatorio di fronte ai pubblici ministeri romani, fissato per la prossima settimana. «Possiamo spiegare e chiarire tutto», anticipa il suo avvocato Gaetano Scalise. Nel decreto di sequestro di telefonini e computer viene specificato che Arata è stato «sponsor per la nomina di Siri a sottosegretario» e per questo dovrà chiarire se anche quella fosse una «utilità» richiesta per l’aiuto politico o se invece sia stato lui ad attivarsi ritenendo che Siri — una volta entrato nell’esecutivo — gli aveva garantito una «copertura» negli affari. Chiarimenti che saranno richiesti anche al senatore leghista. Siri ha sempre negato di aver preso soldi o altro da Arata, ha smentito di essersi messo a disposizione e il suo avvocato Fabio Pinelli spiega che «già nelle prossime ore saremo in grado di presentarci in procura e dimostrare che quegli interventi rientravano nella normale attività politica». Siri sapeva che il suo amico Arata era in affari con il palermitano Vito Nicastri, il «re dell’eolico» arrestato perché ritenuto finanziatore di Matteo Messina Denaro? Anche su questo sono in corso le verifiche degli investigatori della Dia. Di certo c’è che Nicastri — come è specificato nell’informativa consegnata ai magistrati proprio sulle aziende di Arata — «non solo detiene partecipazioni occulte nelle suddette società, ma svolge anche un ruolo attivo nella gestione delle stesse, occupandosi sia degli aspetti operativi, che amministrativi, nonché perpetrando ulteriori condotte illecite di trasferimento fraudolento di beni, riciclaggio ed altri gravi reati. Lo stesso ha continuato a svolgere tali attività illecite anche dopo essere stato sottoposto a custodia cautelare in altro procedimento penale». Nel 2010, quando oltre un miliardo e mezzo di euro tra case, barche, auto, società del patrimonio di Nicastri finì sotto sigilli fu l’allora ministro dell’Interno a definirlo «il sequestro più ingente di sempre», complimentandosi con gli inquirenti siciliani. Era il leghista Roberto Maroni.

TERRA ARATA. Valentina Errante per “il Messaggero” il 28 aprile 2019. Non è chiaro se Paolo Arata sperasse di scoprire qualcosa sulle indagini in corso o tentasse di proteggere se stesso dalla bufera giudiziaria che ha finito per travolgerlo. Di certo non è stata l' ingenua mossa di un imprenditore del nord Italia a spingere, poco più di un anno fa, il professore genovese, ex parlamentare di Forza Italia con contatti ad altissimi livelli istituzionali, sino agli uffici della Dia di Trapani. Arata è indagato a Roma per la presunta tangente di 30mila euro al sottosegretario leghista Armando Siri che, su disposizione del suo sponsor, presentava emendamenti al Def tentando di assicurare aiuti di Stato alle aziende che facevano capo a Vito Nicastri, accusato di avere finanziato la latitanza di Matteo Messina Denaro. Eppure il professore vicino a Matteo Salvini agli investigatori voleva segnalare di avere incrociato l' imprenditore di Alcamo sul lavoro e di essere molto preoccupato. Nicastri, il suo socio occulto era costretto dalle circostanze a non comparire negli assetti societari delle aziende di Arata, nel 2010 era stato destinatario di sequestro colossale: un miliardo e mezzo di euro di titoli, quote societarie, denaro liquido, terreni e abitazioni. Così agli atti dell' inchiesta di Palermo, che vede Arata indagato per intestazione fittizia di beni aggravata dal favoreggiamento alla mafia, è finita anche quella relazione di servizio della Dia di Trapani, nella quale sono riportate le preoccupazioni del professore genovese per il casuale incontro con Nicastri. Un chiaro bluff. Le conversazioni captate dagli investigatori e la bonifica eseguita da Arata nella sua auto non lasciano margini di dubbio sulla malafede del professore, da anni socio del re dell' eolico, col quale parlava al telefono anche durante i domiciliari. «Prima o poi la giustizia trionfa», gli diceva. Nei prossimi giorni Arata potrebbe rispondere ai pm che hanno già depositato l' intercettazione nella quale Paolo Arata parla con il figlio Francesco del prezzo del politico. In più di un' occasione, durante le indagini, gli investigatori hanno scelto di spegnere i microfoni del trojan, installato sul cellulare del professore, per evitare di captare la voce di Siri, protetto dall' immunità parlamentare, rendendo le registrazioni inutilizzabili. Dai documenti depositati al Riesame, al quale è probabile che l' avvocato di Arata, Gaetano Scalise, rinunci, risultano anche le strette relazioni dell' ex parlamentare con politici e rappresentanti delle istituzioni. Che Arata e l' imprenditore vicino a Matteo Messina Denaro fossero soci è lo stesso Arata a rivelarlo nelle intercettazioni. Il 22 gennaio 2019 dice a Manlio Nicastri, figlio di Vito: «Tutta questa situazione è nata nel 2015, io nel 2015 ho dato trecentomila euro a tuo papà, basandomi su un rapporto di fiducia, ed è stato il più grande errore della mia vita, poi glielo dirò in faccia a tuo papà, più grande errore nella tua vita... nella mia vita, io non ho mai fatto un errore del genere, e li tuo papà. Ho adesso l' impressione che mi reputa un coglione, gli succhiamo tutto il sangue che è possibile, tanto è del nord». E ancora, il 12 settembre scorso, parlando con un avvocato: «Qui stiamo parlando in camera caritatis. Io sono socio di Nicastri al 50 per cento. Formalmente non abbiamo nessun accordo.. nella sostanza abbiamo un accordo societario diciamo di co-partecipazione». Sarà difficile dunque dimostrare la buona fede dell' ex parlamentare che, agli investigatori che indagavano sul suo business in Sicilia, voleva far credere di non sapere chi fosse Nicastri.

"Operazione Confusione" sul caso Siri: l'intercettazione-audio sui 30mila euro che incastra il sottosegretario esiste. Corriere del Giorno 26 Aprile 2019. Qualcuno aveva avviato atto un’ “operazione confusione” per generare il dubbio che la conversazione in cui Arata che parla di soldi al leghista non ci fosse. Ma in realtà il file audio esiste ed è la base dell’azione dei magistrati romani. La macchina delle “fake news” messa in funzione sul caso Siri, il sottosegretario alle Infrastrutture della Lega indagato dalla Procura di Roma per corruzione, si è immediatamente attivata in soccorso  di  Matteo Salvini. La solita nota ed ormai stagionata compagnia di giro composta da giornalisti, parlamentari, specializzata in operazioni di disinformazione con il chiaro obiettivo di accreditare come “falso” ciò che in realtà al contrario è “vero” utilizzando una vecchia regola degli “spin doctor” specializzati sui casi di crisi:  se non puoi dimostrare che una cosa è falsa, almeno fallo credere. A qualcuno il dubbio resterà. Ieri mattina  il quotidiano La Verità diretto da Maurizio Belpietro, annunciava una “rivelazione choc” di uno dei pm romani, sostenendo che quanto pubblicato da La Repubblica ed il Corriere della Sera nei giorni scorsi non fosse vero. E cioè che “l’intercettazione dei 30 mila euro contro Siri non esiste” sostenendo che “È un tarocco”. Affermando con la certezza dell’arrogante disinformazione che “nel fascicolo dell’inchiesta l’audio non c’è” e non è saltato fuori neppure “dopo giorni di scartabellamenti“. Una vicenda più che equivoca non fosse altro perché (che coincidenza !) emerge proprio nelle ore in cui il premier Conte a capo di un Governo basato sulla  suddivisione del potere, piuttosto che sui programmi e tantomeno mai votato dagli elettori, è ormai politicamente finito, avocando a sé la decisione sulla permanenza o meno di Siri nella compagine ministeriale governativa. Da cui si è generata un’inondazione di chiacchiere, mentre i fatti (quelli veri) si dissolvono e quindi la storia reale può essere accertata riscritta tranquillamente. Sulla base delle accuse ipotizzate dalla Procura di Roma, “Armando Siri, senatore e sottosegretario di Stato presso il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, ed in tale duplice qualità di pubblico ufficiale, per l’esercizio delle sue funzioni e dei suoi poteri, asservendoli ad interessi privati riceveva indebitamente la promessa di 30mila euro da Paolo Franco Arata, amministratore della Etnea srl, della Alqantara srl, dominus della Solcara srl e della Solgesta srl”. La Repubblica è tornata a sollecitare diverse e qualificate fonti della Procura di Roma, come scrive oggi il quotidiano romano,  che hanno accesso agli atti di indagine e che quindi consentono di ricostruire con esattezza la realtà questa storia e id suoi punti documentalmente accertati. A partire da quello dirimente.

L’intercettazione di settembre 2018. Agli atti del fascicolo risulta una lunga intercettazione ambientale del settembre 2018 in cui è incisa la conversazione tra l’ex deputato Paolo Arata e il figlio imprenditore Francesco, che è stata regolarmente trascritta e che sarà presto depositata al Tribunale del Riesame. L’intercettazione messa a disposizione dei pubblici ministeri – con buona pace di chi blaterava sostenendo di “fantasmi” e ricerche affannose negli archivi – è stata registrata dalla Dia (che legittimamente ne detiene copia), e viene richiamata in un’informativa del 29 marzo 2019, ed è stata persino riascoltata dagli inquirenti nelle ultime ventiquattro ore , per verificarne il tenore e il contenuto, con esito positivo. Due diverse fonti della Procura  spiegano che “hanno un’interpretazione univoca. La stessa che è a fondamento del reato contestato all’indagato e al provvedimento di perquisizione di giovedì della scorsa settimana”. Quindi si può con certezza fissare un primo punto. L’intercettazione non soltanto esiste, ma è proprio sulla base del suo contenuto quello su cui si fonda l’iscrizione del sottosegretario leghista nel registro degli indagati . E’  “la conversazione” la pietra angolare dell’imputazione. Perché è in quella intercettazione che si fa riferimento a Siri ed alla tangente di 30 mila euro.

La conversazione. Come e fonti della Procura di Roma confermano ancora, “la conversazione intercettata non consente di stabilire se i 30 mila euro siano stati effettivamente pagati o, al contrario, soltanto promessi. Ma questo, sotto il profilo della contestazione del reato, non cambia le cose“. A ben vedere, la “macchina delle fake news” e chi un pò troppo allegramente e poco professionalmente è saltato sopra un carro di parte,  avrebbero potuto agevolmente accertare l’esistenza del dialogo già dalla lettura del decreto di perquisizione . evidentemente il ministro dell’Interno Salvini non deve avere trovato il tempo di farlo, considerato che che ha preferito “cazzeggiare”  chiedendosi se l’intercettazione esista o meno. Ma bisogna considerare  che era un dettaglio non funzionale all’ “Operazione Confusione“. Il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il pm Mario Palazzi scrivono infatti : “il fumus (del reato, ndr.) è costituito, tra l’altro, dal contenuto di alcune conversazioni tra l’indagato Paolo Franco Arata ed il figlio Francesco (alla presenza anche di terzi) nelle quali si fa esplicitamente riferimento alla somma di denaro pattuita a favore di Armando Siri per la sua attività di sollecitazione dell’approvazione di norme che lo avrebbero favorito“. Non è male per essere come sostengono Salvini ed il giornale di Belpietro “una presunta conversazione“, ancor peggio definendo quello di Repubblica, “un tarocco”. Il quotidiano romano questa mattina aggiunge qualche altro dettaglio, e spiega che  “Il contenuto della conversazione tra Arata e il figlio (che, come scrivono i pm, non è per altro l’unica) non consente, per dirla con le parole di una fonte inquirente, “nessuna altra spiegazione plausibile che non sia quella che le è stata attribuita è che è evidente dall’ascolto“. Così come “è certo che è a Siri che i due si riferissero in quella discussione”. “L’unico modo che Arata avrebbe per suggerire una spiegazione diversa – conclude la fonte della Procura di Roma – sarebbe sostenere che mentre diceva quelle cose, scherzava. Peccato, però, che non si trattasse di una chiacchiera al bar, ma di un dialogo con il figlio sui molti e diversi affari della famiglia. Tra cui, appunto, quelli che riguardavano il ruolo di Siri“.

I riscontri. Si potrebbe chiudere anche qui la pagliacciata velenosa dell’intercettazione che “non c’è” allegramente sostenuta da Salvini e dai suoi sodali sotto mentite spoglie di giornalisti. Ma  l’inchiesta su cui è si è tentato di depistare la realtà dei fatti ed il diritto ad essere informati dei lettori, consente di acquisire anche altro e di più. A partire da quel dialogo acquisito dalla DIA – a seguito del quale per altro è stato indagato il sottosegretario alle infrastrutture Siri  – gli investigatori hanno ricostruito il contesto del rapporto tra gli Arata e Siri e le mosse di quest’ultimo nel cercare di introdurre per via legislativa,  norme che garantissero un sistema di incentivi per il cosiddetto minieolico con tariffe simili a quelle precedenti il 2017. Un particolare che avrebbe agevolato e non poco il business degli Arata e del loro socio occulto Vito Nicastri in odore di mafia . Nel fascicolo dei pm adesso ci sono anche i verbali dei funzionari del Ministero dello Sviluppo Economico che hanno testimoniato e confermato le pressioni ricevute dal sottosegretario Siri. Resta da vedere che la “macchina delle fake news” al servizio della Lega adesso non faccia sparire anche quelli…Franco Paolo Arata come ha spiegato il suo legale è pronto per essere interrogato. “Al momento di chiusura della cancelleria del Riesame, non risultano ancora depositati atti da parte della Procura, non abbiamo quindi potuto visionarli. Resta ferma l’intenzione di sottoporre il mio assistito ad interrogatorio. Attendiamo il deposito degli atti per concordare con il magistrato una data“. E’ quanto afferma l’avvocato Gaetano Scalise, difensore dell’imprenditore Paolo Arata, indagato per corruzione dalla Procura di Roma nel filone che coinvolge il sottosegretario Armando Siri, lasciando gli uffici del tribunale di Roma a piazzale Clodio.

Depositata l’intercettazione dalla DIA. Una informativa della Dia in cui sarebbe riportata anche l’intercettazione ambientale che tirerebbe in ballo il sottosegretario Armando Siri: è quanto hanno depositato questa mattina i pm della Procura di Roma al Tribunale del Riesame, in base a quanto si apprende da fonti giudiziarie. L’atto, come affermato dall’avvocato Gaetano Scalise, difensore dell’imprenditore Paolo Arata, non è ancora nella disponibilità delle parti. “L’ho incontrato soltanto una volta. Occupiamoci di altro”, dice Matteo Salvini, a Catania, dopo che M5S è tornato a incalzarlo sui suoi legami con Arata. In un colloquio con il quotidiano La Repubblica spiega: “Conte è libero di incontrare chi vuole. Siri per me deve restare al suo posto“. Al Corriere della Sera il vicepremier Luigi Di Maio a sua volte dichiara: “Certo che Conte dovrebbe spingerlo alle dimissioni. E lo farà“.  Gli risponde il ministro Centinaio (Lega) : ‘Un decreto per rimuoverlo? A quel punto viene meno fiducia verso il premier’. Secondo l’ex segretario della Lega Roberto Maroni in un colloquio con La Stampa,  il governo gialloverde rischia, il problema adesso è il figlio di Arata. Il sottosegretario leghista a Palazzo Chigi Giancarlo Giorgetti intervenendo sul caso Siri “Conte è un professore e un avvocato, vedrà le carte e capirà” ed aggiunge “Fino a tre settimane fa qualcuno sapeva della famiglia Arata? No, e nemmeno io… Federico Arata ha tutte le carte in regola per far parte del mio staff, tra l’altro è finito nel tritacarne prima ancora di aver cominciato a lavorare“.  “In ogni caso – aggiunge a margine di un incontro a Novara – prima di prendere qualsiasi decisione, parleremo tra noi“.

Armando Siri, il ritratto di Pietro Senaldi il 27 Aprile 2019 su Libero Quotidiano: chi è il leghista che Salvini non vuol mollare. La portiera si è aperta, ma l' Armando non è ancora caduto giù. Resiste, il sottosegretario leghista, malgrado il suo ministro, il prode Toninelli, gli abbia tolto le deleghe e il vicepremier grillino Di Maio ne abbia chiesto ripetutamente la rimozione a Salvini. Il punto è però che per Matteo, Siri non è uno qualsiasi. Non è un pezzo di cuore, perché i politici sanno essere cinici, ma un pezzo di cervello sì, tanto che il leader leghista lo ha voluto al tavolo quando è stato il momento di redigere il contratto di governo. Il futuro sottosegretario stava alla destra di Giorgetti, il numero due della Lega, in rappresentanza e tutela delle istanze economiche del partito, le più importanti. Dei tre moschettieri che in campagna elettorale erano deputati alle questioni di soldi, Siri era l' unico al tavolo. Gli altri due, Bagnai e Borghi, non erano stati neppure presi in considerazione. Se non è ancora caduto, l' Armando è comunque sotto un treno. Ha passato i giorni di vacanza pasquali rintanato in casa sua, a Genova, teso come una corda di violino. Ieri però sul treno ci è salito, per andare dal suo avvocato, Fabio Pinelli, e studiare le ultime carte depositate dalla Procura, che evidentemente ha ricevuto dopo i giornali. È pronto a incontrare il premier Conte per chiarirsi e ribadisce ossessivamente di non aver preso un euro dei 30mila di cui si fa menzione nelle intercettazioni tra l' imprenditore del settore eolico Paolo Arata e il figlio Francesco. L' altro, il secondogenito Federico, è consulente di Giorgetti alla presidenza del Consiglio. Siri è confuso, come sarebbe chiunque non capisce di cosa è accusato e sulla base di quali prove. L' unica cosa che lo tiene in piedi è la copertura totale che gli ha dato il segretario, Salvini, con il quale si sente ripetutamente e che, in privato come in pubblico, non gli ha mai fatto mancare il sostegno. Come non glielo stanno facendo mancare gli altri leghisti, malgrado certe ricostruzioni giornalistiche dicano l' inverso. Il rapporto tra Armando e Matteo non è di vecchia data. Siri non è un Morelli, un Fontana, un Molteni, un Molinari o un Bolognini, ragazzi cresciuti con il segretario da prima che lo divenisse. È approdato in Lega che aveva già quarant' anni, dopo un denso ventennio di attività politica presso altri lidi. Ma ha spaccato subito.

LE DUE ARMI. Due le sue scommesse vincenti: la flat tax alla leghista, che è stata, con la demolizione della Fornero, l' arma vincente del Carroccio alle Politiche del 2018, e la Scuola Politica della Lega, che ormai ha cinque anni ed è un appuntamento fisso delle domeniche d' autunno e inverno del partito. Raccoglie iscritti e denaro e ha un parterre di primo livello. Se non ci vai almeno una volta l' anno, nella Lega non sei nessuno. Quanto all' aliquota unica, tranne che per le partite Iva sotto i 65mila euro l' anno, finora è la grande promessa mancata. Da un paio di mesi, Siri si era attivato per inserirne altri pezzi nella prossima Finanziaria, a beneficio di famiglie è aziende. Costa 13 miliardi, secondo le sue stime, e Salvini si è convinto a riproporla alla vigilia delle elezioni Europee. Lo schema è semplice: se il 26 maggio si vince, si forza la Ue così da far slittare di un anno lo scatto delle clausole di salvaguardia dell' Iva e si usano i soldi risparmiati per varare un altro troncone di flat tax. I grillini non gradiscono, e probabilmente anche per questo si accaniscono particolarmente contro Siri, anche con argomenti pretestuosi. D' altronde, Di Maio e soci lo individuarono subito come il leghista più distante da loro, tant' è che un anno fa boicottarono la sua nomina a ministro. La scusa era il patteggiamento per bancarotta di una società da lui presieduta, la MediaItalia, indebitata per un milione di euro e accusata di aver evaso 162mila euro. L' interessato ha sempre sostenuto di aver patteggiato un anno e otto mesi di reclusione perché non poteva permettersi di affrontare le spese legali. Il precedente non è edificante, ma sarebbe sbagliato rifarsi a esso per giudicare la vicenda attuale. Che se ne pensi bene o male, Siri non è uno scemo e non è credibile che abbia rischiato tutto ciò che ha per 30mila euro, dei quali peraltro ancora non c' è traccia. Non dubito che abbia avuto dei rapporti con Arata. Sta nel suo personaggio. L' Armando è un professionista in pubbliche relazioni, altrimenti non avrebbe fatto una carriera così rapida in un partito leninista come la Lega, fino a diventare nel 2015 responsabile del Dipartimento Economico. Molto l' ha aiutato la parlantina, incisiva e veloce. D' altronde, è stato da fine anni Novanta giornalista, e anche autore, di Mediaset, a Studio Aperto, sotto le grinfie di Giovanni Toti, con il quale va ancora d' accordo. Ha ottimi rapporti con tutti ma si muove da solo, e risponde unicamente a Salvini. Se Matteo gli chiederà il passo indietro, non indugerà un secondo ad accontentarlo, ma non avverrà pubblicamente. Un po' perché il leader della Lega non ci farebbe una bella figura, dopo aver difeso così strenuamente il suo sottosegretario, molto perché egli non intende umiliarlo, tantomeno rottamarlo; Siri resterebbe comunque in squadra, pronto per nuovi incarichi.

PRIMA LE PERSONE. Prima del segretario leghista, quando ancora era un pischello, l' Armando aveva un altro grande capo, Bettino Craxi, mai rinnegato e più volte da lui definito un grande statista. Delfino di Luca Josi, ora chairman di Telecom, anch' egli genovese, era di casa ad Hammamet e dal suo periodo socialista arrivano gli ottimi rapporti con Berlusconi, che gli hanno aperto le porte della tv del Biscione. Già a quei tempi Siri però era sovranista e sfornava libercoli di natura filosofica ed economica nei quali con preveggenza individuava i punti oscuri e deboli della Ue. «Dobbiamo cambiare l' idea e l' approccio alla politica. Questa società è nevrotica, va troppo veloce e si perdono per strada pezzi di umanità. Bisogna partire prima dalle persone, perché se non conosci te stesso, non vai da nessuna parte». Questo il suo manifesto consegnato alla stampa per la corsa elettorale. Di sicuro l' Armando sa bene chi è, dove vuole arrivare e che cosa vuole fare al governo. Sarebbe beffardo se la sua carriera per una nuova politica finisse per una storia di intercettazioni e mazzette, ossia per il vecchio che avanza. Quanto al reato contestatogli, mazzette in cambio di favori, Siri ha fatto una proposta di legge che favoriva le imprese eoliche, e quindi indirettamente anche quella di Arata, ma questo è il lavoro dei politici. La norma è stata depennata, lui non ha battuto ciglio né ha insistito e non ci sono dazioni di denaro che gli sono riferibili. I grillini vorrebbero che si dimettesse come automatismo in quanto indagato in un' inchiesta di mafia, ma sarebbe un abominio: un automatismo darebbe a qualsiasi pm il potere di licenziare qualsiasi politico solo indagandolo e addirittura potrebbe frenare i magistrati più scrupolosi dall' aprire inchieste per non condizionare la vita politica e i governi del Paese. Pietro Senaldi

LA SITUAZIONE È GRAVE E PURE SIRI. Giacomo Amadori per “la Verità” l'1 maggio 2019. La versione autentica dell' intercettazione che sta facendo tremare il governo, a quanto risulta alla Verità, è stata sottoposta dal sottosegretario Armando Siri, indagato per corruzione dalla Procura di Roma, all' esame del premier Giuseppe Conte, il quale, da avvocato d' esperienza, ha potuto verificare la differenza tra quanto uscito sui giornali («Ci è costato 30.000 euro», lasciando intendere che l' uomo in vendita fosse il politico leghista) e la versione originale trascritta nelle carte. Lunedì in tarda serata il premier avrebbe visionato con attenzione la documentazione che il sottosegretario aveva portato con sé in vista dell' incontro, potendo appurare che la chiacchierata incriminata era decisamente più fumosa e ipotetica di quanto riportato dai quotidiani. Però il premier in questa fase della sua vita non è solo un uomo di legge, ma è soprattutto un politico e avrebbe spostato il discorso sull' opportunità, politica appunto, di lasciare Siri al suo posto. Lo stesso presidente del Consiglio avrebbe spiegato al suo interlocutore di essere pressato da più parti e che la decisione sul futuro del leghista non spetta solo a lui. I più fidati consiglieri e i difensori di Siri, dopo aver letto gli atti, hanno consigliato al politico genovese di non dare le dimissioni. Qualcuno gli ha ricordato il caso dell' ex ministro Maurizio Lupi che fece un passo indietro dopo essere stato azzannato dagli stessi giornalisti che hanno modificato il virgolettato dell' intercettazione di Siri. Eppure sia Lupi che la collega Federica Guidi lasciarono i loro posti senza nemmeno essere indagati. Lo stesso era accaduto a Josefa Idem. Eppure i 5 stelle sono determinati a ottenere le dimissioni di Siri e solo Matteo Salvini potrà salvare il suo sottosegretario o quanto meno congelarne le dimissioni sino al giorno dell' interrogatorio. I grillini dopo aver fallito l' assalto a Claudia Bugno, la consulente del ministro dell' Economia Giovanni Tria, stanno provando a far risventolare la stropicciata bandiera dell' onestà issandola sulla testa di Siri. Assalti politici a parte, l' inchiesta sul sottosegretario resta al momento puramente indiziaria e il virgolettato farlocco pubblicato sui quotidiani, paradossalmente, ha fatto il gioco dell' indagato. Anche Conte avrebbe constatato personalmente che la chiacchierata incriminata è decisamente più fumosa e ipotetica di quanto riportato dai giornali. Stiamo parlando della lunga conversazione tra l' imprenditore Paolo Arata e il figlio Francesco che i magistrati avrebbero depositato anche con degli omissis. Un discorso spezzettato da interruzioni, difficile da seguire anche logicamente. «Io sinceramente ci ho capito poco», ci ha detto chi l' ha letta. Non solo non vi si trova la frase «questo affare ci è costato 30.000 euro» riferita a Siri, ma nella trascrizione non ci sarebbero neanche sinonimi come «ho dato» oppure «ho offerto» o «ho promesso». Dal testo non emergerebbe né un' offerta, né una dazione a Siri. E allora di che cosa stiamo parlando? La difesa del politico leghista non l' ha ancora capito. Per questo l' avvocato del sottosegretario, Fabio Pinelli, ha ottenuto che il suo assistito sia sentito dopo Arata, il quale, quindi, avrà l' onere di spiegare che cosa intendesse dire con quel discorso bofonchiato al figlio. L' indagato dovrà spiegare perché abbia fatto riferimento a 30.000 euro da investire per qualcuno o qualcosa. In ogni caso nell' intercettazione non si parla di pagamenti effettuati, né di soldi richiesti, come invece lasciavano intendere le libere interpretazioni che i giornali hanno dato delle parole captate dalle cimici. Nell' audio non ci sarebbe la prova di nessun accordo tra Arata e Siri e questo risulta chiaramente anche dal decreto di perquisizione con cui gli uomini della Dia hanno sequestrato apparecchi elettronici e documenti ad Arata. Alla fine alcuni quotidiani rischiano di rimanere impiccati alla loro ardita ricostruzione dell' intercettazione a cui hanno provato a inchiodare il sottosegretario Siri. Il virgolettato «Ci è costato 30.000 euro», non è mai esistito. Quella frase così perentoria, e quasi definitiva, nella lunga intercettazione depositata davanti al Tribunale del riesame non c' è, esattamente come ha scritto La Verità. Sarà per questo che ieri, sempre il Corriere, temendo che la trascrizione corretta potesse uscire nuda e cruda su qualche giornale senza la sua esegesi o sintesi maliziosa, ha messo le mani avanti: «Nessuno può escludere, visto il clima che si è creato di attacco all' inchiesta, che ci sia una "manina" pronta a far filtrare parte degli atti proprio per avvelenare ulteriormente il clima». In sostanza quando il Corriere pubblica un' intercettazione apocrifa è giornalismo investigativo, se, invece, la conversazione doc dovesse finire su un altro quotidiano allora ci troveremmo di fronte a un complotto contro la Procura. La cosa divertente è che sul Messaggero, uno degli altri due giornali che ha sparato «il virgolettato che non c' è», hanno ipotizzato che ad aver interesse a rendere pubbliche le carte giudiziarie possa essere «quella parte del governo che non vuole rimuovere il caso Siri»: «È probabile che lo stesso premier Giuseppe Conte chieda al sottosegretario di potere avere accesso agli atti che lo riguardano. E i documenti potrebbero cominciare a circolare» ha scritto il quotidiano della capitale. Insomma da una parte sostengono che a veicolare gli atti della Procura sui giornali potrebbero essere i nemici dell' inchiesta, dall' altra i suoi tifosi. La realtà è che le uniche manine che hanno operato in questa vicenda sono quelle che hanno manipolato l' intercettazione autentica, spacciandola ai lettori come una condanna definitiva. Ma di chi è la colpa? È stato un inquirente a indurre in errore i giornalisti di Corriere, Repubblica e Messaggero, propinandogli una mezza patacca, oppure i cronisti hanno rielaborato liberamente una frase generica di un pm o di un investigatore, schiaffandola poi tra virgolette, come se fossero le vive parole di Arata? Tra poco avremo tutte le risposte.

''30MILA EURO SIRI LI GUADAGNA IN UN SECONDO''. Salvo Palazzolo per “la Repubblica” il 26 giugno 2019. «Guarda che l' emendamento passa». E qualche frase dopo, un riferimento all' allora sottosegretario leghista alle Infrastrutture oggi indagato per corruzione: «Siri ci lavora un secondo per guadagnare trentamila euro». Così parlava Francesco Paolo Arata, era il 10 settembre dell' anno scorso, e non sospettava che il suo telefonino fosse stato trasformato dalla Dia di Trapani in una microspia ambulante: il consulente per l' energia del ministro Salvini in società con Vito Nicastri, il re dell' eolico vicino ai clan, annunciava al figlio Francesco e a Nicastri junior, Manlio, che sarebbero arrivati presto tempi d' oro. Proprio grazie al sottosegretario Armando Siri e al suo emendamento nel decreto "rinnovabili", che avrebbe aperto le porte a un fiume di finanziamenti per il mini-ecolico. «Sono milioni per noi l' emendamento, che cazzo». E ancora: «L' emendamento è importante». Arata era entusiasta. Oggi è indagato dalla procura di Roma per aver «promesso o consegnato» quella tangente da 30 mila euro, ed è detenuto nel carcere romano di Regina Coeli per i suoi loschi affari nella provincia di Trapani. Il senatore Armando Siri ha invece resistito finché ha potuto, con il sostegno del vertice della Lega, nella sua poltrona di sottosegretario. Ma l' 8 maggio scorso, venti giorni dopo l' avviso di garanzia, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte lo ha dimissionato. Eccole le parole che accusano Siri, adesso depositate dalla procura di Palermo agli atti dell' ordinanza che il 12 giugno ha portato in carcere gli Arata e i Nicastri. E non sono ancora tutte le accuse. A Palermo, ci sono infatti alcuni omissis nell' intercettazione del 10 settembre 2018, sono oggetto di valutazione da parte della procura di Roma. Per quanto risulta a Repubblica , dietro quegli omissis ci sarebbe una frase ancora più esplicita pronunciata da Arata a proposito della mazzetta a Siri: «Io gli do 30 mila euro».

La conversazione. Dunque, il cuore delle contestazioni: la conversazione di Arata con i due rampolli. Un' intercettazione che la "macchina del rumore" aveva provato a bollare come fake news dopo gli avvisi di garanzia: «L' intercettazione dei 30 mila euro contro Siri non esiste», aveva strillato il quotidiano la Verità . E giù con un profluvio di commenti indignati provenienti da un coro di giornalisti, parlamentari e social influencer. Già allora, era il 26 di aprile, Repubblica aveva confermato l' esistenza dell' audio. Adesso è possibile fornire anche gli estremi di quell' atto giudiziario disposto dal procuratore aggiunto di Palermo Paolo Guido e dal sostituto Gianluca De Leo nel loro filone d' inchiesta. È l' allegato "I-44" del rapporto della Dia di Trapani che ha il numero di protocollo 2567 del 26 aprile 2019. Dieci settembre 2018, Castellammare del Golfo, casa degli Arata. «Progressivi 140 (delle ore 21.43.04 durata 5 minuti) e 148 (delle ore 21.48.04 durata 5 minuti)». Intercettazione eseguita sulla base del «decreto numero 1560/2018 emesso in data 18 luglio 2018», ad ottobre poi trasmessa per competenza alla procura di Roma. Quella conversazione è solo un tassello di un' inchiesta che appare in pieno svolgimento. Lo si comprende scorrendo le 844 pagine del rapporto della Dia. Arata, ex parlamentare di Forza Italia e uomo di grandi relazioni romane, aveva con Siri un rapporto strettissimo. E ora i pm della Capitale sono a caccia anche di altre mazzette, per altri affari, tutti romani. Arata ripeteva: «Siri è un carissimo amico, ma proprio caro». E spiegava: «Armando è uno che ama la Sicilia ».

Il programma di governo. L'allora consulente di Salvini raccontava di quando "l' amico Siri", non ancora sottosegretario, gli aveva fatto un altro gran favore per il lancio dell' ennesimo affare in provincia di Trapani: «Il biometano l' ho fatto inserire anche nel programma tra Lega e Cinque Stelle, proprio da Armando Siri». Una mossa per spazzare via alcuni ostacoli che erano intervenuti a sorpresa: «A Gallitello, la cosa si è fermata perché i Cinque Stelle ci contestano », spiegava Arata, che andava orgoglioso della sua mossa: «Non ci possono contestare, perché io l' ho fatto inserire, li ho fottuti, l' ho fatto inserire nell' accordo di governo». Il capitolo sul biometano del contratto Lega Cinquestelle era diventato un lasciapassare per due faccendieri senza scrupoli. «La settimana prossima verranno gli americani», spiegava Arata, che puntava a vendere l' impianto sul biometano. «Io Paolo Arata, sotto indicazione del governo americano, sotto indicazione del governo italiano, il più grosso investimento infrastrutturale siciliano privato».

Per questo servivano le entrature giuste, all' interno della Regione siciliana. Ancora una volta, il biglietto da visita di Arata era Siri. Così ha raccontato alla Dia un testimone, il dirigente Salvatore D' Urso: «Arata si presentava come ex deputato nazionale e referente nazionale per il centrodestra delle problematiche energetiche. Mi parlava dei suoi rapporti con esponenti di vertice della Lega, come Siri e Giorgetti, con i quali sosteneva di essere in familiarità al punto che qualche giorno dopo sarebbero stati ospiti a casa sua». E dopo l' eolico, Arata puntava a nuovi affari in Sicilia. «Ad Armando gli ho parlato dell' aeroporto di Trapani - diceva - e lui se l' è appuntato».

“SIRI RACCONTA SEMPRE MINCHIATE”. Riccardo Arena per “la Stampa” il 26 giugno 2019. Sottosegretario non lo era ancora e nemmeno senatore, ma Armando Siri faceva disperare il suo amico Paolo Arata e proprio arrabbiare il socio di lui, Vito Nicastri. «Racconta sempre minchiate», diceva senza mezzi termini quest'ultimo, detto "il re dell'eolico", aggiungendo secco: «Bisogna essere duri». «Mi ha giurato e spergiurato!», lo difendeva Arata. Ma invano. Perché effettivamente quelle di Siri erano promesse da marinaio. Un tipo, Nicastri, che non è che fosse proprio raccomandabile: fiancheggiatore della latitanza di Matteo Messina Denaro, destinatario di una confisca (per mafia) da oltre un miliardo di euro, oggi in carcere sempre per mafia e per avere intestato fittiziamente e riciclato beni attraverso il suo socio di fatto, appunto Paolo Arata, faccendiere vicino alla Lega, finito anche lui in cella, un paio di settimane fa, proprio con Nicastri e con i rispettivi figli, Francesco Arata e Manlio Nicastri. Ora le intercettazioni confermano che tra il 19 e il 23 dicembre 2017 Nicastri e il professore trattarono con l'altro leghista Siri la candidatura alle politiche, nelle file del Carroccio, di Francesco Regina, ex deputato regionale siciliano dell'Udc, molto gradito al fiancheggiatore del superlatitante. Siri promise ma non raggiunse l'obiettivo, così come nel 2018, divenuto sottosegretario alle Infrastrutture, non riuscì a far passare un emendamento alla legge di bilancio, per favorire il mini eolico, su cui stava investendo massicciamente il duo Arata-Nicastri. È per questa storia, che Siri è indagato a Roma per corruzione e che il premier Giuseppe Conte gli ha dato il benservito.

Le pressioni. Dagli ascolti effettuati dalla Dia di Trapani viene fuori come Nicastri uscisse progressivamente al naturale. Per candidare Regina si doveva passare dal referente siciliano della lista Noi con Salvini: però «a quello giù... ad Alessandro Pagano non è arrivata nessuna telefonata, nessun segnale, nulla... non è buono, Paolo. Se ti dicono che una telefonata la fanno, la devono fare». «Mi ha giurato e spergiurato, ti ho pure fatto leggere l'sms», assicurava Arata.» Ti racconta un sacco di minchiate», replicava alla siciliana il "re", convinto del bluff del leghista. Alla candidatura di Regina, Vito teneva parecchio: «Vediamo se lo dobbiamo sostenere... quello ci sostiene a noi... sosteniamolo pure noi», diceva. E organizzava incontri: «No, si vedono qua giovedì, con Alessandro Pagano». Fatto l'incontro, mancava solo la chiamata "di garanzia" per il candidato. Che però non arrivava.» Eh, ma hai visto - si difende Arata - me l'ha anche scritto, te l'ho fatto vedere», con riferimento a un sms di Siri. «E non è vero - taglia corto Nicastri -. Si sono visti ieri sera, ampia disponibilità, lui lo vuole, lo candida, lo sostiene, si vedranno la settimana prossima ma non gli è arrivato nessun messaggio». «Hai visto - insiste Arata - te l'ho fatto leggere che m'ha detto "ho parlato con..." (parte incomprensibile)».

La figura da "scimunito". Nicastri è inflessibile: «Appena ti chiamano ci dici, "scusate, io che figura ci faccio, di scimunito, per colpa vostra, oppure no? Ditemelo"». Messo alle strette, il faccendiere chiama Siri e 8 minuti dopo, alle 9,48 del 23 dicembre 2017, riferisce la risposta: «Gli ho parlato adesso... Mi ha giurato e spergiurato che l'ha fatto e c'è rimasto molto male. M'ha detto, "non è possibile"». Nicastri non gli crede, non crede «che Alessandro Pagano lo piglia... uno che dev'essere preso in giro c'è qua...». «Lui mi ha detto che adesso gli scriveva - si schermisce ancora Arata - dicendogli (a Pagano, ndr) «ma perché hai detto così, io te l'ho sollecitata questa persona e mi hai fatto fare brutta figura», glielo dice duro perché è...». E Nicastri: «Guarda che bisogna essere duri, Paolo». Ancora Arata, come se parlasse con Siri: «Potevi benissimo dirmi che non lo puoi fare, non c'è nessun problema... «Ma Paolo, se ti dico una cosa così l'ho fatta, te l'ho anche scritto... per me è una fesseria, t'avrei detto che non lo potevo fare...». «Ricordami come si chiama, questo, Paolo». «Siri... Armando Siri...». «Siri, d'accordo, va bene. Ciao».

LA SITUAZIONE È GRAVE E PURE SIRI. Da Il Fatto Quotidiano il 26 giugno 2019. L’indagine sulla palazzina comprata da Armando Siri a Bresso ha ora un’ipotesi di reato. La procura di Milano indaga infatti per autoriciclaggio. L’ex sottosegretario della Lega aveva acquistato l’immobile in provincia di Milano grazie a un mutuo da 585mila euro acceso da una banca di San Marino. L’inchiesta dei pm Sergio Spadaro e Gaetano Ruta è al momento a carico di ignoti, quindi senza indagati. Attualmente Siri è indagato a Roma per corruzione: è una tranche di una inchiesta della Dda di Palermo su Francesco Arata e Vito Nicastri, il re dell’eolico considerato tra i finanziatori della latitanza di Matteo Messina Denaro. Un’indagine che è costata a Siri il posto di sottosegretario alle Infrastrutture del governo di Giuseppe Conte. A Milano, invece, a indagare è il dipartimento guidato dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale che si occupa, oltre che di corruzione internazionale, anche di casi di riciclaggio o autoriciclaggio. Condotta dalla Guardia di Finanza, l’inchiesta era stata aperta ai primi di maggio ed era a ‘modello 45’, ossia senza titolo di reato né indagati. Ora invece, da quanto è trapelato, l’ipotesi investigativa, su cui le Fiamme Gialle e la magistratura effettueranno i loro accertamenti, è quella di autoriciclaggio. Al centro della vicenda c’è la compravendita da parte di Siri di una palazzina per la figlia a Bresso, grazie ad un mutuo di circa 600 mila euro concesso “senza garanzie” dalla Banca Agricola Commerciale di San Marino. Una compravendita alla quale la trasmissione Report ha dedicato una puntata e che la Banca d’Italia ha incasellato come operazione sospetta e ‘girato’ alla Guardia di Finanza che ha redatto un’informativa. Sono state proprio le Fiamme Gialle, poi, a consegnare la relazione dell’Uif, l’Unità di informazione finanziaria istituita in via Nazionale, al Procuratore milanese Francesco Greco, che nell’immediatezza aveva anche assicurato “massima collaborazione” con i colleghi romani. Secondo le poche carte depositate alla magistratura lo scorso 31 gennaio, Giulia Siri, figlia ventiquattrenne del senatore leghista, ha acquistato l’intero edificio residenziale – sette appartamenti (di cui 5 affittati), cantine, un laboratorio e un negozio – al prezzo complessivo di 585 mila euro. Il denaro sarebbe stato messo a disposizione dal padre a titolo di liberalità e pertanto non soggetto all’imposta di donazione. Separatamente, però, la ragazza avrebbe sottoscritto una procura irrevocabile al padre a vendere l’immobile a se stesso o a terzi. Tuttavia, per pagare l’immobile, Siri, che per altre vicende ha patteggiato per bancarotta, ha acceso un mutuo di 600mila euro con la banca sammarinese. Somma poi accreditata su un conto aperto presso una filiale della Banca Popolare di Sondrio da Paolo De Marinis, il notaio davanti al quale è avvenuto il rogito e che poi ha segnalato all’ufficio competente di palazzo Koch l’operazione sospetta. La difesa di Siri, non appena appresa la notizia dell’apertura del fascicolo, aveva parlato di “finanziamento regolare“. Ora tocca ai pm verificare la provenienza del denaro usato per l’operazione (l’autoriciclaggio si configura quando una persona impiega per sè soldi frutto di sue attività illecite) ed eventuali danni subiti dalla banca per un finanziamento senza garanzie.

Arata rompe il silenzio:  «Io e Siri siamo amici,  ma non l’ho corrotto»». Pubblicato domenica, 12 maggio 2019  Giuseppe Alberto Falci e Fiorenza Sarzanini su Corriere.it. «Quando vedranno i miei telefoni e i computer, ma soprattutto quando esamineranno i miei conti correnti, si renderanno conto che io non ho commesso alcun reato». Paolo Arata, 69 anni, l’imprenditore indagato per corruzione con il sottosegretario leghista Armando Siri, continua negare ogni accusa. Siri è stato costretto a lasciare il governo. Lui, accanto al suo avvocato Gaetano Scalise, ripete che «da questa storia uscirò pulito. Sono accuse che feriscono me, e la mia famiglia». Lei è già stato interrogato.

Crede di aver convinto i magistrati?

«Non so se li ho convinti, ma le cose che ho riferito hanno un sicuro riscontro anche nei messaggi e nelle e-mail».

Che rapporti ha con Armando Siri?

«Ho sempre avuto un rapporto di stima ed amicizia, e sebbene la nostra frequentazione sia iniziata solo un paio di anni fa, l’ho potuto apprezzare per le sue capacità intellettuali e politiche. Adesso sono veramente costernato per quello che sta subendo senza colpa, mortificato perché è stato ingiustamente rimosso dal governo».

Come vi siete conosciuti?

«Mi sembra mi sia stato presentato in un incontro a Milano prima che lui diventasse senatore. Non ricordo se fossi con mio figlio Federico».

Lo stesso Federico che è stato assunto a Palazzo Chigi dal sottosegretario Giancarlo Giorgetti?

«Non è stato assunto, si tratta di una consulenza ancora in itinere, come hanno ben chiarito fonti di governo. In ogni caso mio figlio è completamente estraneo all’indagine, ha un percorso professionale e di vita del tutto autonomo».

Lei nelle conversazioni intercettate si vantava di poter contare su Siri. Le aveva fornito garanzie?

«Non abbiamo mai avuto interlocuzioni nel corso delle quali si possa parlare di garanzie di alcun tipo».

Ma dall’indagine risulta che lei avrebbe suggerito, a Siri, la proposta di modifica della legge sugli incentivi.

«In realtà tutto l’iter dell’emendamento veniva portato avanti dall’associazione del mini-eolico, il Cpem. E infatti giovedì scorso il presidente dell’associazione ha rivendicato la paternità dell’emendamento e la trasparenza dell’iter intrapreso per la sua approvazione. Peraltro ci tengo a precisare che l’iter è iniziato con il precedente governo nell’autunno del 2017».

Lei parlava di 30 mila euro.

«Non ho mai parlato con il senatore Siri di denaro, e non gli ho mai fatto promesse di alcun tipo».

Lei è socio di Vito Nicastri, non le crea problemi condividere gli affari con un imprenditore accusato di reati di mafia?

«Non sono mai stato socio di Nicastri né condivido affari. Ci tengo a precisare che la nostra frequentazione lavorativa è iniziata a seguito dell’acquisto di una società d’investimento in Sicilia che mi è stata ceduta da un imprenditore di Milano. È un imprenditore che avevo conosciuto attraverso un professionista affermato del settore energetico che è stato mio socio nell’affare».

Quando?

«L’investimento risale al 2015. Per la realizzazione dell’investimento, questa cedente si avvaleva di una struttura tecnica, peraltro all’epoca affermata e qualificata che stava sviluppando il primo grande impianto solare-termodinamico, all’interno della quale operava anche Nicastri».

Quindi ha avuto rapporti con Vito Nicastri?

«Sì, nel 2016 e nel 2017. Ma i nostri rapporti si sono conclusi quando ebbe problemi con la giustizia. Quando venne arrestato per fatti completamente estranei alle mie attività, io mi recai, sollecitato anche dalla società milanese quotata in borsa con la quale volevamo realizzare alcuni impianti di biometano in Sicilia, presso gli uffici della Dia di Trapani insieme a mio figlio Francesco».

Perché?

«Parlai con il comandante perché ero preoccupato di quanto stava avvenendo e dunque decidere se proseguire o meno l’attività del biometano. Dissi anche al colonnello che il figlio di Nicastri stava collaborando con la società come dipendente insieme a mio figlio Francesco. Ricordo che il colonnello ci tranquillizzò, invitandoci a proseguire nell’attività. Solo oggi credo che quanto ci venne riferito dalla Dia potrebbe avere avuto finalità investigative. Ma noi, che non conoscevamo né il territorio né le dinamiche, da quelle parole ci sentimmo rassicurati».

Secondo gli investigatori lei voleva crearsi un alibi.

«Credo che la notizia sia stata fatta trapelare in questi termini, ma è indubbio che la mia condotta sia indice di trasparenza. La mia storia professionale dimostra che sono sempre stato al servizio del Paese, e basta esaminare le mie risorse finanziarie per verificare che quando ho deciso di intraprendere attività imprenditoriali sono state una perdita secca per la mia famiglia. Per questo spero che i magistrati vogliano controllare anche i miei conti correnti, scopriranno che le società sono state finanziate esclusivamente con risorse della mia famiglia, completamente tracciabili».

Ha mai parlato con Siri di Nicastri?

«Assolutamente no, non ce ne sarebbe stato motivo».

È vero che si è speso per far ottenere a Siri un posto nel governo?

«No. Anche perché non ho nella Lega alcun ruolo politico. Mi sono limitato a parlare bene di Siri con le persone che conosco avendone considerazione e stima».

Da tempo lei risulta in contatto con i leghisti, tanto che nel 2017 è stato relatore del convegno della Lega sull’energia. È amico di Salvini?

«Non sono amico di Salvini. L’ho incontrato una sola volta in occasione del convegno al quale ero stato invitato come relatore insieme ad altri sette esperti, proprio per le conoscenze tecniche che ho nel settore energetico e ambientale».

Chi sono i suoi amici all’interno del Carroccio?

«Non ho amici nella Lega».

Nemmeno Giorgetti?

«L’ultima volta che l’ho visto è stato in occasione del famoso convegno del marzo 2017. Ma da quando è a Palazzo Chigi non l’ho mai più visto e sentito».

Maria Elena Vincenzi per “la Repubblica” 13 maggio 2019. Non soltanto la Banca d'Italia. Anche l'Aif, l'agenzia di Informazione finanziaria della Repubblica di San Marino aveva segnalato come sospetto l' acquisto della palazzina a Bresso comprata dall' ex sottosegretario Armando Siri per la figlia ( l' operazione è al vaglio dei pm milanesi). La redazione di Report, occupandosi del caso che vede indagato per corruzione il senatore leghista, ha parlato con Nicola Muccioli, direttore dell' Aif, che ha spiegato come quel mutuo concesso, erogato dalla Banca Agricola Commerciale, abbia secondo loro qualcosa che non va. E a confermare questa ipotesi anche le parole di un funzionario della banca che ha ricordato come ci sarebbero state pressioni per erogare quel mutuo da parte del direttore generale della banca.

Un amico a San Marino. C' è qualcosa che unisce quella banca agli uomini della Lega. Uno dei principali azionisti dell' istituto di credito sammarinese è Emanuele Rossini, amico dell' ex parlamentare leghista Gianluca Pini. Secondo la trasmissione di Rai Tre, anche lui avrebbe un conto in quella banca: sarebbe intestato al padre ma nella sua disponibilità. Pini, peraltro, è socio del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti nella società Saint Group con sede a Forlì. Stando a quel che dice l' ex deputato romagnolo , sta lavorando a una app per il parental control, ma nell' oggetto sociale si parla anche di cyber security.

L' eclettico Siri. L' ex sottosegretario è un uomo pieno di risorse. Oltre ad essere il fondatore della scuola di politica della Lega e il teorico della flat tax, dal 2004 al 2012 era socio di una società che vendeva in esclusiva i diritti Rai in Romania. Si tratta di contratti vecchi, ora nella mani di Rai com, presieduta da Marcello Foa. Non è tutto. Il senatore aveva anche quote in un altra società, la Mafea Communication, con sede in Delaware, già liquidata. Di cosa si occupava? Di creme di bellezza e elisir di giovinezza che venivano commercializzati col marchio "Trinity".

La rete di Arata. Suo figlio, Manlio, d' altronde, lavora ufficialmente con gli Arata: rapporti molto stretti come peraltro confermato anche dalla moglie di Nicastri. Per di più, una delle società di Francesco Arata, la Solcara che si occupa di eolico, ha due sedi: una a due passi dalla casa di Nicastri, l' altra ad Alcamo in una villa. Sul campanello, però, c' è scritto: Nicastri.

Il figlio del pentito. La trasmissione condotta da Sigfrido Ranucci ha anche intervistato il figlio del collaboratore di Messina Denaro pentito Lorenzo Cimarosa, Giuseppe. «Mio padre ha detto di aver portato i soldi di Nicastri a Matteo Messina Denaro».

Arrestato per corruzione Arata, ex consulente  della Lega per l’energia. Pubblicato mercoledì, 12 giugno 2019 da Corriere.it. Sono stati arrestati Paolo Arata, ex consulente della Lega per l’energia ed ex deputato di Fi, e il figlio Francesco. Sono accusati di corruzione, autoriciclaggio e intestazione fittizia di beni. Sarebbero soci occulti dell’imprenditore trapanese dell’eolico Vito Nicastri, ritenuto dai magistrati tra i finanziatori della latitanza del boss Matteo Messina Denaro. Oltre che nei confronti dei due Arata, il giudice ha disposto l’arresto anche per Nicastri, la cui la misura è stata notificata in carcere in quanto già detenuto, e per il figlio Manlio: anche loro sono indagati per corruzione, auto riciclaggio e intestazione fittizia. Ai domiciliari è finito invece l’ex funzionario regionale dell’Assessorato all’Energia Alberto Tinnirello, accusato di corruzione. L’arresto è stato disposto dal gip di Palermo Guglielmo Nicastro su richiesta della Dda guidata da Francesco Lo Voi. Gli Arata sono indagati da mesi per un giro di mazzette alla Regione siciliana che coinvolge anche Nicastri, tornato in cella già ad aprile perché dai domiciliari continuava a fare affari illegali. Nel business c’erano anche gli Arata che, secondo i pm, di Nicastri sarebbero soci. Una tranche dell’inchiesta nei mesi scorsi finì a Roma perché alcune intercettazioni avrebbero svelato il pagamento di una mazzetta, da parte di Arata, all’ex sottosegretario alle Infrastrutture leghista Armando Siri. In cambio del denaro Siri avrebbe presentato un emendamento al Def, poi mai approvato, sugli incentivi connessi al mini-eolico, settore in cui l’ex consulente del Carroccio aveva investito. A Palermo invece è rimasta l’indagine sul giro di corruzione alla Regione siciliana che oggi ha condotto all’arresto degli Arata e dei Nicastri. Tutti al centro, secondo i pm di Palermo, di un giro di tangenti che avrebbero favorito Nicastri e il suo socio occulto nell’ottenimento di autorizzazioni per i suoi affari nell’eolico e nel bio-metano. Ai regionali sarebbero andate mazzette dagli 11 mila ai 115 mila euro.

Arrestato Arata, il consigliere di Salvini per l'energia. In cella anche Nicastri, “re” dell’eolico. Trapani, blitz della Dia. Fermati pure i figli dei due faccendieri. Ai domiciliari, un dirigente regionale. La procura: “Corruzione, intestazione fittizia e autoriciclaggio”. Salvo Palazzolo il 12 giugno 2019 su la Repubblica. Due mesi dopo l’avviso di garanzia e le perquisizioni, finisce in manette Francesco Paolo Arata, il consulente per l’Energia del ministro Matteo Salvini, due anni fa aveva contribuito a stilare il programma della Lega. Ora, è accusato di “intestazione fittizia, con l’aggravante di mafia, corruzione e autoriciclaggio”, queste le contestazioni che gli vengono mosse dalla procura di Palermo e dalla Dia di Trapani. Per i suoi affari con Vito Nicastri, il “re” dell’eolico vicino all’entourage del latitante Matteo Messina Denaro, e per alcune mazzette che sarebbero state pagate a un dirigente regionale. Questa mattina, sono stati arrestati anche il figlio di Arata, Francesco, Vito Nicastri e suo figlio Manlio. Ai domiciliari, il dirigente Alberto Tinnirello, che è stato in servizio all’assessorato regionale all’Energia. Dalle perquisizioni del 17 aprile scorso, sono emersi riscontri importanti alle ipotesi d’accusa, così la svolta nell’indagine, condotta dal procuratore aggiunto Paolo Guido e dal sostituto Gianluca De Leo. Le richieste dei pm sono state accolte dal gip Guglielmo Nicastro. E questa mattina, sono scattati anche diversi sequestri di società che gestiscono impianti eolici. Intanto, alla procura di Roma, prosegue l’altro filone dell’inchiesta, che vede indagati Arata e l’ex sottosegretario leghista Armando Siri, per una mazzetta da 30 mila euro, il prezzo di un emendamento che alla fine del 2018 avrebbe dovuto aprire nuovi finanziamenti per gli affari sull’eolico con Vito Nicastri. Di quella mazzetta Arata parlò al figlio Francesco e al figlio del “re” dell’eolico nel settembre scorso. E il fascicolo è passato per competenza territoriale nella Capitale: dopo la notizia dell’inchiesta, il presidente del Consiglio Conte ha dimissionato Siri, che non intendeva farsi da parte. Arata e Siri avevano rapporti strettissimi: nel giugno scorso, era stato proprio Arata (ex deputato di Forza Italia passato alla Lega) a sponsorizzare la nomina del sottosegretario.

Le intercettazioni. Sono le parole di Francesco Paolo Arata, intercettate dalla Dia di Trapani, ad avere aperto uno scenario di affari e complicità. “Io sono socio di Nicastri al 50 cento – diceva lui stesso a un amico avvocato – nella sostanza abbiamo un accordo societario, di co-partecipazione”. In un’altra intercettazione, con il figlio dell’imprenditore ai domiciliari per concorso esterno in associazione mafiosa, raccontava: “Nel 2015, ho dato 300 mila euro a tuo papà”. E, intanto, si vantava pure di aver sborsato diverse mazzette. “Questi qua sono stati tutti pagati”, diceva con orgoglio al figlio Francesco mentre stava per entrare negli uffici dell'assessorato regionale all'Energia, a Palermo. Francesco Paolo Arata, l'ex professore di ecologia reclutato due anni fa da Salvini per stilare il programma della Lega, era davvero un gran dispensatore di mazzette. “Quanto gli abbiamo dato a Tinnarelli?”, sussurrava a proposito del dirigente che si occupava delle autorizzazioni per i parchi eolici, Alberto Tinnirello. “Quello è un corrotto”, diceva di un altro funzionario, Giacomo Causarano. “Un amico, una persona a noi vicina”. A scorrere le ultime intercettazioni dell’inchiesta, emerge tutto l’orgoglio del tangentista che riesce a sbloccare quelli che lui chiama ostacoli, e invece sono le regole. Emerge anche una grave consapevolezza: Arata sapeva di fare affari in Sicilia con personaggi “a rischio”. Per le loro frequentazioni mafiose. Da una parte, Vito Nicastri; dall’altra, Francesco Isca, imprenditore oggi indagato per associazione mafiosa.

Le relazioni. E poi ci sono i rapporti con la politica. “Dalle attività di indagine — ricostruisce la procura — è emerso che Arata ha trovato interlocutori all’interno dell’assessorato all’Energia, tra tutti l’assessore Pierobon, grazie all’intervento di Gianfranco Miccichè, a sua volta contattato da Alberto Dell’Utri”. Dunque, l’ambasciatore di Vito Nicastri era riuscito a parlare con il presidente dell’Ars e con il fratello di Marcello Dell’Utri, uno dei fondatori di Forza Italia condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Probabilmente, contatti che arrivano ad Arata dalla sua partecipazione in Forza Italia dopo l’elezione alla Camera nella circoscrizione della Toscana. Ma le relazioni di Arata vanno molto oltre: incontra anche Calogero Mannino. Gli serve per arrivare ai vertici dell’assessorato al Territorio. Scrivono ancora il procuratore aggiunto Guido e il sostituto De Leo: “Quando l’epicentro della fase amministrativa diveniva l’assessorato al Territorio e Ambiente (per la verifica di assoggettabilità del progetto alla “Via”, valutazione di impatto ambientale), Arata è riuscito a interloquire direttamente con l’assessore Cordaro e, tramite questi, con gli uffici amministrativi di detto assessorato, dopo aver chiesto un’intercessione per tale fine a Calogero Mannino”.

SALTARE L'ARATA. Felice Cavallaro per il “Corriere della sera” il 13 giugno 2019. Li hanno arrestati per corruzione, autoriciclaggio e intestazione fittizia di beni, ma il contesto è ancora più inquietante perché nel precipizio di Paolo e Francesco Arata, ex deputato di Forza Italia ed ex consulente della Lega il padre, rampollo lanciato nel mondo dell' eolico il figlio, campeggiano i rapporti con quel mondo a metà tra affari e mafia dove si muove come un' ombra inafferrabile perfino Matteo Messina Denaro. «Ha portato in dote gli attuali influenti contatti con la Lega», scrive il gip. Rapporti mediati da altri due pilastri di una serie di società piegate, secondo l' accusa della Procura di Palermo, agli oscuri interessi di Vito e Manlio Nicastri, bollati come presunti prestanome del superlatitante, anche se il Gip ha escluso l' aggravante dell' aver favorito Cosa nostra. E questo nonostante la stessa aggravante fosse stata contestata al capofamiglia dalla Procura che ha recentemente chiesto la condanna a 12 anni. Un patrimonio confiscato da un miliardo e 300 milioni al primo, il padre. Sotto inchiesta da tempo il figlio, spinto in una avventura industriale fondata sui contributi pubblici e sui presunti favori chiesti insieme con gli Arata al sottosegretario costretto alle dimissioni, Armando Siri. Con otto società sequestrate, otto scatole cinesi per drenare finanziamenti, sembra chiudersi definitivamente un' era per i Nicastri, sotto il mirino della Dia dal 2013. Anche se il padre già l' anno scorso stava ai domiciliari, ricevendo gli amici affacciato al balcone. Compreso uno sprovveduto Paolo Arata che si è sempre definito esperto in relazioni. Capace di insinuarsi negli assessorati della Regione facendo brillare la tentazione di una tangente sottobanco. Relazioni in doppiopetto, ma anche in maniche di camicia gridando dal marciapiedi parole d' intesa al cosiddetto «re dell' eolico» affacciato a quel balcone di Alcamo. A farlo precipitare nel burrone dell' inchiesta sono state le sue stesse parole pronunciate nei corridoi degli assessorati, senza immaginare di rivelare in diretta alla Dia quanto captato dalle cimici. «Questi qua sono stati tutti pagati», ripeteva al figlio Francesco, fiero delle mazzette elargite. «Quanto gli abbiamo dato a Tinnarelli?», interrogava sottovoce indicando il dirigente che si occupava delle autorizzazioni per i parchi eolici, Alberto Tinnirello, ai domiciliari per corruzione. E ancora, parlando di un altro funzionario, Giacomo Causarano, accusato di avere intascato 11 mila euro: «Quello è un corrotto. Un amico, una persona a noi vicina». Si indaga a Roma sul caso Siri. A Palermo invece la tranche sulla corruzione che provoca inquietudine nel mondo della politica. Perché Arata tira in ballo anche il presidente dell' Assemblea regionale siciliana Gianfranco Micciché per un primo contatto con l' assessore all' Energia, Pierobon. Un contatto partito da una telefonata del fratello di Marcello Dell' Utri. Con Micciché che si tira fuori: «Nessun rapporto, se non una vaga indicazione sugli uffici competenti». Dove Arata qualche porta chiusa poi la trova. Compresa quella degli assessori Pierobon e Cordaro. Categorico il governatore Nello Musumeci: «Arata veniva alla Regione a cercare complici e trovava solo dei "no". Dove lui voleva impianti privati noi abbiamo fatto partire impianti pubblici». Poi, risoluto: «Se ci sono responsabilità dei funzionari che finiscano in galera».

Claudia Fusani per “la Stampa” il 13 giugno 2019. Le carte dell' inchiesta: l' imprenditore ha portato in dote i suoi canali Nelle intercettazioni definiva l' ex sottosegretario Siri "il mio uomo". Sono 221 le pagine dell' ordinanza che ieri mattina hanno portato in carcere Paolo Arata, ex consulente del Carroccio ed ex deputato di Forza Italia, il figlio Francesco, l' imprenditore Vito Nicastri (finanziatore della latitanza del boss Matteo Messina Denaro) e il figlio Manlio per corruzione, intestazione fittizia di beni, autoriciclaggio, corruzione con l' aggravante dell' associazione mafiosa.

"Il mio uomo". Scrive il gip di Palermo Gugliemo Nicastro a pagina 6 dell' ordinanza: «Paolo Arata ha fatto tesoro della sua precedente militanza politica, in Forza Italia, per trovare canali privilegiati di interlocuzione con esponenti politici regionali siciliani ed essere introdotto negli uffici tecnici incaricati di valutare, in particolare, i progetti relativi al bio-metano». I canali, in questo caso, sono per lo più riconducibili al presidente dell' Ars Gianfranco Miccichè, plenipotenziario di Forza Italia nell' isola. Poche righe sotto si legge che dalle attività di indagine è emerso anche che «Arata ha portato in dote alle iniziative imprenditoriali con Nicastri gli attuali influenti contatti con gli esponenti del partito della Lega, effettivamente riscontrati e spesso sbandierati dall' Arata medesimo e di cui informava puntualmente il Nicastri». Vale una su tutte l' intercettazione in cui Arata al telefono con il socio palermitano definiva «il mio uomo» l' allora sottosegretario alle Infrastrutture Armando Siri. Ecco perché l' inchiesta di Palermo arriva dritta come un fendente nel già tremolante equilibrio di governo.

Attenzione di Cosa Nostra. L' inchiesta muove i primi passi in Sicilia, tra Trapani e Palermo. Gli investigatori della Dia spiegano nell' ordinanza che «il settore delle energie rinnovabili è stato oggetto in tempi recenti di particolari attenzioni da parte di Cosa Nostra e degli imprenditori a questa vicini e/o contigui». Nicastri, già ai domiciliari eppure attivissimo nel gestire il business tramite il figlio e altri prestanome, si è dedicato nel tempo «alla plurima creazione illecita di società dietro cui celarsi e continuare ad operare anche attraverso il suo prestanome Arata». Questa è la parte siciliana dell' inchiesta che ha fatto il «salto politico» il 12 aprile, quando il procuratore di Palermo Francesco Lo Voi ha trasmesso ai colleghi di Roma - è ancora procuratore Pignatone - gli atti dell' inchiesta da cui emergono «gli accordi corruttivi tra Arata e il senatore Armando Siri». Il filone romano è ancora in divenire. Sono venuti fuori uno dopo l' altro Arata padre e figlio, gli emendamenti poi respinti in favore dell' eolico, i 30 mila euro che sarebbero stati trasferiti al sottosegretario, i legami profondi degli Arata con i vertici della Lega. Salvini ha difeso fino all' ultimo Siri. Il sottosegretario Giorgetti ha assunto a palazzo Chigi l' altro figlio di Arata, Federico, che è anche il contatto di Steve Bannon in Italia. Si tratta ora di capire, spiega un investigatore, «cosa stabiliva lo scambio tra Lega e la famiglia Arata».

Paolo Arata: la rete di contatti, dai sovranisti alle gerarchie vaticane. Pubblicato mercoledì, 12 giugno 2019 da Corriere.it. A presentargli Armando Siri, parlamentare della Lega vicino a Matteo Salvini e Giancarlo Giorgetti, era stato suo figlio Federico. Lo stesso che poi ha ottenuto un contratto di consulenza con palazzo Chigi, chiamato proprio da Giorgetti che lo avrebbe ricompensato con circa 30mila euro l’anno. Un accordo saltato quando si è scoperto che Paolo Arata, imprenditore, ex parlamentare di Forza Italia, è stato indagato proprio con Siri per corruzione. Accusato di avergli messo a disposizione 30mila euro per modificare alcuni provvedimenti di legge sull’eolico. Paolo Arata, questo dicono le accuse dei magistrati di Palermo e Roma, era in realtà al centro di una “rete” di rapporti politici e istituzionali che avrebbe messo a disposizione proprio del Carroccio. Contatti che andavano dai sovranisti alle gerarchie vaticane. È stato proprio suo figlio Federico a mettere in contatto Siri e Giorgetti con Steve Bannon, lo stratega della campagna elettorale di Donald Trump. Ma Arata guardava anche all’aspetto economico e per questo avrebbe fatto affari con Vito Nicastri, il «re dell’eolico» siciliano che si trova in carcere con l’accusa di aver finanziato la latitanza del boss mafioso Matteo Messina Denaro. In realtà i magistrati sono convinti che Arata sia il socio occulto di Nicastri e le intercettazioni dei suoi colloqui con il figlio di Nicastri dimostrano che gli interessi erano spesso convergenti. Sono state le carte dell’inchiesta romana a rivelare che «esiste uno stabile accordo tra Arata, imprenditore con trascorsa attività politica da cui trae molteplici relazioni ancora in atto con i massimi livelli istituzionali, e Siri, costantemente impegnato nel promuovere provvedimenti ad hoc per favorire gli interessi economici di Arata con finanziamenti a cui non ha diritto». Gli accertamenti svolti hanno documentato i suoi incontri con i politici leghisti, ma soprattutto il suo ruolo di consulente per il settore energetico, tanto che fu proprio Arata uno dei relatori al convegno del luglio 2017 sui progetti energetici. Mentre Arata parlava dal palco Salvini rilanciava su Twitter le sue proposte con l’hashtag #facciamosquadra.

VENI, VIDI, RIXI. Giuseppe Filetto e Marco Preve per “la Repubblica” il 31 maggio 2019. Quindici caffè consumati uno dietro l' altro in un bar di Cuneo, uno scontrino da 4,80 alla Lindt Chocolate Town dell' outlet di Serravalle, un fiume di birra nella Pontida di Bossi quando ancora il senatur non era un'ingombrante reliquia politica. Se davvero l' affaire Rixi dovesse essere la scintilla della crisi del governo gialloverde, i cultori del dettaglio potrebbero trovare anche queste voci nell' elenco delle cosiddette "spese pazze" costate la condanna a tre anni e cinque mesi, per peculato e falso ideologico, al viceministro delle Infrastrutture Edoardo Rixi. Anzi, ex vice di Toninelli, visto che Rixi si è dimesso subito dopo aver appreso della sentenza che, oltre a lui e al senatore leghista Francesco Bruzzone, ha condannato altri 17 ex consiglieri della Regione Liguria di vari gruppi, dal Pd a Forza Italia. Una sentenza pesante sotto vari punti di vista. Intanto perché i giudici hanno aumentato le pene chieste dal procuratore aggiunto Francesco Pinto: per Rixi la richiesta era stata di un mese in meno. Poi perché è stata accolta in toto la linea dell' accusa sul momento della consumazione del reato - ovvero l' approvazione del rendiconto nel 2013 - nonostante le difese sostenessero in blocco che andasse invece individuata nell' istante della spesa, cioè due anni prima. Un tecnicismo che, se accolto, avrebbe potuto aprire ai legali degli ex consiglieri la possibilità di ottenere la derubricazione del peculato nel reato meno grave di indebita percezione e la conseguente garanzia della prescrizione. Le migliaia di ricevute e scontrini esaminate singolarmente dalla guardia di finanza sono state ritenute spese indebite, in molti casi non pertinenti alla politica regionale. Come ad esempio i 660 euro spesi nell' armeria Rossi nel 2011 per acquistare fumogeni in vista di una manifestazione dei tassisti genovesi. Categoria che Rixi ha incontrato anche da viceministro quando ha dovuto occuparsi del delicato confronto con gli autisti Ncc. Nonostante la legge Severino non lo obbligasse a farlo, Rixi ha rimesso il suo mandato nelle mani non del premier Conte ma del ministro Salvini che le ha accolte, affidandogli subito l' incarico di responsabile delle infrastrutture per il Carroccio. Salvini ha commentato: «Ci sono spacciatori a piede libero e parlamentari condannati senza uno straccio di prova». A Bruzzone, intanto, la Lega ha riservato il ruolo di Commissario in Sicilia. Entrambi restano parlamentari fino a sentenza definitiva. Anche l' interdizione perpetua dai pubblici uffici è una pena accessoria sospesa fino a una pronuncia di Cassazione. Così come solo un verdetto definitivo farà scattare la confisca della somma di 56 mila euro come deciso dal tribunale per il suo ruolo di capogruppo e quindi di responsabile di spese non pertinenti effettuate anche da altri consiglieri. Subito dopo la condanna, le reazioni. In primis dal M5S, poi placato dalle dimissioni. Molto preoccupato per l' attenzione del governo alla sua città è apparso il sindaco di Genova Marco Bucci: «Nel completo rispetto per il lavoro della magistratura, Rixi rappresenta per me un esempio di politica efficace e amministratore illuminato. Le sue dimissioni mi preoccupano». Il sottosegretario alla presidenza del consiglio, il 5S Simone Valente, gli ha risposto: «Rixi ha semplicemente rispettato quello che prevede il contratto Il governo è presente e non farà mai mancare il suo sostegno a Genova ». Per Andrea Orlando, Pd «le dimissioni di Rixi sono un atto assolutamente dignitoso».

Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 31 maggio 2019. "Spese pazze", quindi. Ma sul serio, letteralmente. Mai come in questo caso l' espressione designava precisamente non solo una quantità, ma anche un assai singolare qualità di acquisti che, effettuati con soldi pubblici e motivati in nome dello svolgimento di attività politica, denunciavano la psicopatologia di una classe dirigente in vena di predazione selvaggia. Perché dalla Liguria di Rixi alla Sicilia, decine e decine di consiglieri regionali comprarono per sé, per i loro cari, amici e magari elettori roba tipo campanacci per mucche e profumi, corni istoriati e mutande di pizzo, parquet di casa e pasta fresca, portachiavi d' oro zecchino e perfino adozioni a distanza. La scoperta e il disvelamento di questa follia acquisitiva a spese del contribuente trovò spazio sui giornali nel biennio 2013-2014. A seguirla giorno per giorno, ma ancor più rivista oggi, spiega da un lato l' incombente populismo, ma forse ancora di più l' infelice condizione del potere e la sua fuga verso l' irreale in tempi ormai privi di cultura politica e passione. E tuttavia, anche a prescindere dalla rilevanza penale (la magistratura si è regolata caso per caso e molti processi non sono ancora terminati), colpiva lo strambo assortimento delle spesucce, dal biglietto per assistere a uno spettacolino di lap-dance all' acquisto di non meglio specificate "immagini sacre"; segno che tutto grosso modo si poteva giustificare, non solo il taxi, la benzina o le spese di cancelleria, ma anche le contravvenzioni, il tagliando per la revisione dell' auto e poi via via ogni altro possibile consumo, fino al Gratta& vinci. Nessuno lì per lì comprese che così si andava ad allestire il palcoscenico della futura e spesso cieca Repubblica degli scontrini. Prima di dimettersi, il Governatore leghista piemontese Cota dovette spiegare con comprensibile imbarazzo il perché e il per come di certe mutande verdi; il sindaco democratico di Roma Marino, il Marziano, sbagliò certamente a non pagare di tasca sua un sacco di cene; così come il redde rationem delle spese dei parlamentari grillini lasciò strascichi di amarognola comicità. Ma la naturalezza con cui i consiglieri regionali mettevano in conto alla collettività lo 0,50 per accedere ai bagni pubblici, la gomma americana o gli spazzolini da denti (personalizzati e quindi con il nome inciso nel caso del Trota) era a suo modo il segno che il sistema si stava ormai spappolando, saltati ormai i confini tra la politica e lo scrocco. Ci fu dunque chi ne approfittò per mettere in nota spese occhiali da sole, mazze da golf, bombole di gas, tinture per capelli (per quanto il consigliere compratore fosse calvo); poi toelette per cani e croccantini per gatti, ma anche il ricevimento per la cresima della nipotina. Si chiama fuori oggi l' onorevole Rixi, ma l' andazzo era quello che era. Dalla Basilicata salivano a Chianciano per farsi le terme. In Abruzzo un politico fu pizzicato con l' amica nel ristorante milanese "Il vecchio porco". In Piemonte acquistarono bardature per cavalli e finimenti per carrozze. Nelle Marche restò traccia contabile del volume Il segreto delle donne: viaggio nel cuore del piacere (in Sicilia, d' altra parte, di Diabolik e in Lombardia di Mignottocrazia). In Sardegna, pare, rientrarono nella disponibilità di un consigliere un vitello e 30 pecore. Mentre nel Lazio 300 bottiglie di vino vennero destinate, forse per errore, a regali per bambini. Un po' dovunque videogiochi, peluche, Barbie. Non uno, infine, ma due sex-toys: in Emilia e in Alto Adige. Nel primo caso c' è stato il proscioglimento, un portaborse si è preso la colpa: era per uno scherzo. C' è chi ha approfittato per farsi rimborsare anche 300 bottiglie di vino.

«A Siri io do 30 mila euro, perché sia chiaro tra di noi...»  Il boss conferma la promessa. Pubblicato domenica, 21 luglio 2019 da Giovanni Bianconi e Fiorenza Sarzanini su Corriere.it. Il nocciolo dell’accusa di corruzione per l’ex sottosegretario leghista Armando Siri e l’imprenditore Paolo Arata, consulente per le questioni energetiche del partito di Matteo Salvini, resta racchiuso in una frase intercettata il 10 settembre scorso. «Gli do 30.000 euro, perché sia chiaro tra di noi... Io ad Armando Siri, ve lo dico», confidava Arata al figlio ventottenne Francesco Paolo e a Manlio Nicastri, 31 anni, figlio di Vito, il boss dell’eolico in Sicilia. Ora sono tutti e tre agli arresti su ordine dei magistrati di Palermo per altri presunti reati. E quando l’8 luglio scorso i pubblici ministeri di Roma hanno fatto ascoltare quella registrazione a Manlio Nicastri, il ragazzo ha cambiato atteggiamento. Prima era stato generico, negando di avere saputo da Arata sr. di soldi promessi o dati a Siri in cambio di un emendamento favorevole ai loro affari, né di averlo mai riferito a suo padre. Ricordava solo che Arata gli aveva detto che Siri poteva essere utile per «spingere» una modifica alle norme sulle energie rinnovabili, ma niente di più. Poi però, di fronte alla registrazione, ha ammesso: «Confermo di aver ascoltato le parole di Arata sulla promessa di 30.000 euro e di avere riferito a mio padre l’intenzione di dare soldi a Siri... Posso dire che Siri non fu pagato, ma Paolo Arata mi disse che gli aveva promesso 30.000 da corrispondere una volta approvato l’emendamento richiesto». Per il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il sostituto Mario Palazzi, andati ad ascoltare Nicastri jr nel carcere di Pagliarelli insieme al procuratore aggiunto di Palermo Paolo Guido e il sostituto Gianluca De Leo, è la conferma che cercavano: la «indebita promessa e/o dazione» di una tangente da 30.000 euro per l’ex sottosegretario Siri, in cambio di una spinta all’emendamento che avrebbe fatto guadagnare alle aziende di Nicastri (di cui Arata sarebbe socio occulto, secondo i pm siciliani) almeno un milione di euro. Poi l’emendamento fu bloccato dall’opposizione del ministro Riccardo Fraccaro e del Movimento Cinque stelle, alleati della Lega nel governo, e stando a Nicastri jr la tangente rimase una promessa. Ma dal punto di vista penale cambia poco. Ora le difese di Siri e Arata giocheranno le loro carte nell’incidente probatorio fissato per giovedì 25, tuttavia i pm hanno in mano anche un altro asso: le dichiarazioni del «boss dell’eolico», Vito Nicastri. Da oltre un mese, dopo un nuovo arresto per trasferimento fraudolento dei beni e in attesa di sapere come finirà il processo per concorso esterno in associazione mafiosa (i pm hanno chiesto 12 anni di pena), l’imprenditore considerato vicino ai favoreggiatori del super-latitante Matteo Messina Denaro ha deciso di collaborare con gli inquirenti. Per adesso sul fronte dei finanziamenti illeciti e della corruzione. E in questo ambito ha spiegato i suoi rapporti con Paolo Arata, ex deputato forzista che, dichiara Nicastri sr ai pm di Roma e Palermo, «si presentava come responsabile del programma della Lega per le energie rinnovabili». In questa veste, alla ricerca di quella modifica della legge sugli ecoincentivi che avrebbe fatto recuperare i soldi persi alle aziende di Nicastri, aveva provato ad allacciare contatti al ministero dello Sviluppo economico anche con il governo a guida Pd, quando il titolare era Carlo Calenda, tramite una funzionaria che conosceva. Poi, con il cambio politico e l’avvento della coalizione Lega-Cinque stelle, «il suo interlocutore per la questione incentivi diventò Siri». Il figlio Manlio, continua il racconto dell’imprenditore in odore di mafia che a marzo 2018 andò agli arresti domiciliari, divenne il tramite con Arata. E gli fece leggere un messaggio di quest’ultimo con la richiesta di un emendamento che sarebbe stato formalizzato da rappresentanti dei piccoli produttori di minieolico, mentre lui si sarebbe occupato di assicurarsi «l’appoggio politico tramite Siri». Dietro promessa di compenso: «Mio figlio mi disse che Arata avrebbe fatto un regalo a Siri se l’emendamento fosse passato, una somma di denaro che io ritengo quantificabile in 30.000 euro». Nicastri dice di non ricordare quando il figlio gli rivelò «la volontà di Arata di pagare Siri», ma precisa che lui e l’imprenditore leghista non disdegnavano queste elargizioni di denaro in cambio di favori. E per recuperare contanti, probabilmente per creare le provviste necessarie, lo stesso Arata si era rivolto a Nicastri. Il quale in passato si era adoperato tramite Francesco Isca, altro imprenditore nel settore del biometano e del minieolico indagato per mafia: «Mi sono rivolto a lui per reperire 100.000 euro finalizzati a pagare altri pubblici ufficiali». Il boss aggiunge che Arata era interessato anche al biometano, e che pure in questo si era mostrato disponibile a «pagare i politici in grado di fornire aiuto». Giovedì Vito Nicastri e suo figlio saranno interrogati dal giudice delle indagini preliminari, con i pm e il controesame degli avvocati difensori di Siri e degli Arata. Le loro dichiarazioni andranno incrociate con l’intercettazione che ha fatto cambiare versione a Manlio Nicastri e altre che per i pm romani contribuiscono a sostanziare l’accusa: «Siri... ci lavora un secondo per guadagnare 30.000 euro»; «un emendamento mi costa 30.000 euro»; «Siri è un amico come fossi tu, però gli amici mi fai una cosa e io ti pago, e quindi è più incenti...», e altre frasi ancora.

Siri, investigatori Dia: «Arata si prodigò per incarico in governo». Pubblicato lunedì, 22 luglio 2019 da Giovanni Bianconi e Fiorenza Sarzanini su Corriere.it. «Un po’ i politici li conosciamo ma i politici sono come le banche, li devi usare! E ogni volta che li usi, paghi, basta! Non è che c’è l’amico politico, non c’è l’amicizia in politica». Così, nel settembre del 2018, l’imprenditore Paolo Arata spiegava al figlio Francesco i metodi per ottenere quanto volevano dai parlamentari che avevano sponsorizzato. L’intercettazione captata dagli investigatori della Dia è alla base delle contestazioni dei magistrati di Roma – il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il sostituto Mario Palazzi – nell’inchiesta contro l’ex sottosegretario leghista Armando Siri, accusato di corruzione. Dalle conversazioni intercettate si scopre che Arata, imprenditore ed ex deputato di Forza Italia, si «prodigò» affinché Siri «ottenesse un incarico di Governo». «Dopo che Arata aveva ottenuto l’opposizione pubblica (tramite Armando Siri) della Lega rispetto all’emanando decreto sulle Rinnovabili (il cosiddetto decreto Calenda) - è scritto nell’informativa - e proprio mentre stava tentando di fare inserire un testo di apertura verso gli impianti di biometano, nel Contratto di Governo, contestualmente si prodigava, su richiesta di Siri, affinché quest’ultimo ottenesse un incarico di Governo». Gli investigatori della Dia scrivono che «una prima acquisizione in tal senso si otteneva il 17 maggio del 2018 grazie ad una conversazione tra Paolo Arata e il figlio Francesco, intercettata a bordo dell’auto. Nello specifico - prosegue l’informativa di 310 pagine - Arata dice al figlio di avere `sponsorizzato´, tramite Gianni Letta, Siri a Silvio Berlusconi che lo aveva addirittura chiamato». Nell’intercettazione l’imprenditore afferma: «Pensa un po’ che Armando - dice al figlio - l’ho fatto chiamare io da Berlusconi...cazzo non c’era riuscito... devo dire che Letta è sempre un amico... sono andato lì... gliel’ho detto... dico chiama... chiama Armando... perché Armando... dice... sai se non mi sostiene Berlusconi». L’informativa prosegue affermando che «a dire dell’Arata, Gianni Letta si sarebbe anche adoperato per `intervenire´ (non si sa in che termini) su Giancarlo Giorgetti in favore del figlio Federico Arata». Le indagini dei magistrati romani sono tutt’ora in corso per capire se le parole di Arata siano frutto o no di millanterie. Siri, dal canto suo, ha sempre negato qualsiasi coinvolgimento nella vicenda.

Arata e le telefonate  con Salvini e Letta:  il pressing per Siri al Governo. Pubblicato lunedì, 22 luglio 2019 da Giovanni Bianconi e Fiorenza Sarzanini su Corriere.it. È stato l’imprenditore Paolo Arata a gestire l’ingresso nel governo del senatore leghista Armando Siri contattando politici, prelati, cercando anche una raccomandazione per convincere il capo dello Stato Sergio Mattarella. L’obiettivo era dichiarato: ottenere, grazie al futuro sottosegretario alle Infrastrutture dimessosi dopo l’indagine per corruzione, l’approvazione delle norme sulle eolico. «Se ci va Armando gli faccio mettere l’emendamento dentro lì...», diceva al figlio Francesco l’11 aprile 2018. Un risultato che comunque avrebbe dovuto pagare: «Se entra nel decreto gli do 30 mila euro, ne ho parlato con il direttore generale, il capo gabinetto è d’accordo, la Lega è d’accordo... me lo porta la Lega...». A metà maggio Arata vuole la garanzia che Siri entri nell’esecutivo. Il 17 maggio dell’anno scorso racconta al figlio: «Pensa un po’ che Armando (Siri, ndr) l’ho fatto chiamare io da Berlusconi... non c’era riuscito... devo dire che Letta è sempre un amico... sono andato lì... gliel’ho detto... dico chiama... chiama Armando... perché Armando... dice... sai se non mi sostiene Berlusconi». Le verifiche della Dia danno conto di una telefonata tra Berlusconi e Siri, ma l’imprenditore si era comunque già mosso anche con altri interlocutori. E il 23 maggio racconta al figlio: «Ieri sera c’è stato Armando (Siri, ndr) da noi, Di Maio vuole andare alle attività produttive... E ci va sicuro, l’ha chiesto lui! Allora Salvini non sa dove mettere Armando, poi io gli ho detto che deve fare il viceministro con la delega dell’energia e lui lo ha chiesto a Salvini e Salvini ha chiamato anche casa nostra ieri». Ma nell’informativa ai magistrati gli investigatori della Dia precisano di «non avere registrato interlocuzioni telefoniche tra Arata e Salvini». Il 6 aprile Arata parla al telefono con il cardinale americano Raymond Leo Burke «con il quale auspicava in particolare un intervento dell’alto prelato direttamente su Giancarlo Giorgetti in favore di Siri», e l’alto prelato di mostra disponibile. Burke: «Sì sì quando è il momento giu.. io sono pronto quando lei... mi dica... io invierò subito a ...». Arata: «Ecco invece dagli Stati Uniti riesce, mi diceva Federico (figlio di Arata per il quale pure il padre si adoperava , ndr) a far arrivare qualche messaggio... perché se lui Federico andasse agli Esteri, come vice ministro... sarebbe una cosa importante per tutti... perché rischia di andare agli esteri Di Maio... e ora capisce... e allora gli mettiamo a fianco Federico... beh è una bella garanzia...». Quando la formazione del governo si avvicina, anche Siri evidentemente si preoccupa. Scrive la Dia: «Nella serata del 17 maggio 2018, Federico Arata chiama il padre Paolo dicendogli senza mezzi termini che Armando Siri lo aveva chiamato poco prima chiedendogli di contattare l’ambasciatore americano in Italia affinché costui intervenisse sul presidente Mattarella per “sponsorizzarlo” per un incarico governativo». Il tentativo di arrivare al Quirinale, però, fallisce. E da una telefonata di Siri con Arata (omissata nel rapporto Dia ma di cui lo stesso Arata parla in un’altra conversazione), si capisce che «il presidente aveva dei dubbi su di lui». I due Arata discutevano anche di «provare ad agevolare Siri cercando di raggiungere l’ambasciatore tramite Steve Bannon (ex consulente di Trump, ndr)». Il 30 maggio lo stratega dei Sovranisti è a cena da loro e in quell’occasione c’è la conferma «del fatto che Bannon aveva incontrato Siri», oltre a Matteo Salvini, grazie a una telefonata con la segreteria di Giancarlo Giorgetti, il sottosegretario leghista a palazzo Chigi. Dopo la nomina di Siri alle Infrastrutture, cominciano i discorsi sulla «ricompensa» per il sottosegretario in cambio dell’emendamento che tanto gli interessava. La prima versione la scrive il «boss dell’eolico» Vito Nicastri, socio occulto di Arata secondo l’accusa, e l’imprenditore lo consegna al segretario di Siri. Con il figlio assicura: «Ci mettiamo mano al 100% al decreto sulle rinnovabili, l’ho fatto bloccare». E poi: «Dobbiamo lavorarci un po’ bene anche sul fotovoltaico... ci facciamo mettere le cose che ci interessano a noi... Facciamo approvare subito nel giro di un mese e lo mandiamo via». Interventi che hanno un costo: «Un po’ i politici li conosciamo, ma i politici sono come le banche, li devi usare! E ogni volta che li usi, paghi, basta! Non è che c’è l’amico politico, non c’è l’amicizia in politica». Per Siri aveva messo in conto 30 mila euro diventati un capo d’accusa. E quando il provvedimento non passa sbotta: «Questi Cinque Stelle rompono sempre i coglioni, però ormai sono sulla via del declino totale».

Il boss dell’eolico: «Siri l’ho incontrato a casa di Arata». Pubblicato giovedì, 25 luglio 2019 da Giovanni Bianconi su Corriere.it. La presunta tangente promessa dall’imprenditore Paolo Arata all’ex sottosegretario leghista Armando Siri, tra una risposta e l’altra diventa prima «un pensiero di gratitudine» di cui forse il destinatario non era nemmeno a conoscenza, e poi «un’intenzione» che comunque non s’è realizzata. Lo dicono e ripetono il boss dell’energia eolica Vito Nicastri e suo figlio Manlio rispondendo alle domande del pubblico ministero Mario Palazzi e degli avvocati difensori di Arata e Siri, Gaetano Scalise e Fabio Pinelli, davanti al giudice dell’indagine preliminare: una anticipazione del processo, se la Procura insisterà nell’accusa di corruzione al braccio destro di Salvini per la riforma fiscale e all’amico (ex parlamentare di Forza Italia poi passato su posizioni leghiste) che tanto si spese per farlo entrare nel governo. 

Così agli atti dell’inchiesta restano le numerose intercettazioni in cui proprio Arata parla ai Nicastri e a suo figlio Francesco dei 30.000 da dare a Siri: soldi in cambio del famoso emendamento per estendere le agevolazioni sul mini-eolico saltato in dirittura d’arrivo. Con le interpretazioni opposte di accusa e difesa di quelle registrazioni e delle ammissioni di Vito e Manlio Nicastri. In più Nicastri sr. (imputato di concorso esterno in associazione mafiosa a Palermo) rivela di aver incontrato Siri quando ancora non era sottosegretario: «Ricordo di averlo conosciuto a un pranzo a casa di Arata», dice. Circostanza negata da Siri che risulterebbe anche da un colloquio registrato, ma Arata smentisce e Manlio Nicastri afferma che il ricorda male. L’aveva fatto con il pm anche a proposito dei 30.000 euro promessi da Arata a Siri, ma dopo aver ascoltato l’intercettazione, cambiò versione: «Confermo di aver riferito a mio padre che Paolo Arata aveva intenzione di dare soldi a Siri in relazione all’emendamento da approvare». Ieri ha aggiunto: «Non sono in grado di dire se fosse solo un’intenzione di Arata o se Siri ne fosse a conoscenza». Quanto basta per far dire all’avvocato Scalise: «Siri non sapeva nulla, e il mio assistito dà un’interpretazione completamente diversa alle parole registrate». Arata sostiene di aver parlato dei 30.000 euro perché doveva recuperare soldi nei suoi rapporti con Nicastri; resta da vedere se basterà per evitare a lui e Siri un processo per corruzione.

Nicastri scagiona Siri: non sapeva dei soldi. L'imprenditore nega che l'ex sottosegretario fosse a conoscenza dei 30mila euro. Cristina Bassi, Venerdì 26/07/2019, su Il Giornale. I 30mila euro da Paolo Arata ad Armando Siri? «Ho sentito dire (nell'occasione finita agli atti in forma di intercettazione ambientale, ndr) che c'era questa promessa di 30mila euro, però se fosse solo intenzione di Arata o che il senatore Siri ne fosse a conoscenza, non so dire». Manlio Nicastri, figlio del «re dell'eolico» Vito, risponde ai magistrati sulla presunta mazzetta che ha messo nei guai l'ex sottosegretario alle Infrastrutture. Ieri al Tribunale di Roma si è svolto l'incidente probatorio di Vito e Manlio Nicastri davanti al gip Emanuela Attura e al pm Mario Palazzi. Arata, imprenditore ed ex parlamentare di Fi, e Siri sono indagati per corruzione. Erano presenti all'incidente probatorio anche lo stesso Arata e i difensori degli indagati. I due Nicastri erano chiamati a confermare o meno il presunto piano di Arata di corrompere l'ex sottosegretario leghista per ottenere emendamenti a favore delle sue aziende nel settore eolico, di cui Nicastri sarebbe stato socio. Al centro di tutto la frase intercettata in cui Arata dice ai due interlocutori: «Gli do 30mila euro perché sia chiaro tra di noi, io ad Armando Siri, ve lo dico...». Vito Nicastri ha aggiunto: «Mi sembra di aver conosciuto Siri a un pranzo a casa di Arata», incontro che sarebbe avvenuto prima dell'elezione del leghista in Parlamento. Ma qui Arata è intervenuto: «Quanto detto da Nicastri non corrisponde a verità. Posso portare mia moglie a testimoniare che la circostanza non è assolutamente vera». In passato Siri aveva negato di conoscere Nicastri. Lasciando il Tribunale, il difensore di Arata, l'avvocato Gaetano Scalise, ha riferito: «Manlio Nicastri ha escluso che il senatore fosse a conoscenza di dazioni di denaro. Entrambi hanno riferito di aver interpretato le parole di Arata come un'intenzione dello stesso, ma nulla più. Siri dunque non sapeva dei 30mila euro». E l'avvocato Fabio Pinelli, che assiste Siri: «Noi siamo terzi rispetto alla vicenda, queste sono chiacchiere fatte da soggetti diversi rispetto a Siri. Durante l'incidente probatorio è emerso in modo inconfutabile non solo che non c'è stata dazione, ma neanche offerta. Faccio presente, in ogni modo, che l'eventuale offerta sarebbe stata respinta da Siri. Ma sia Vito Nicastri sia suo figlio hanno detto che nessuna offerta è stata fatta. Sarebbe dovuta essere fatta dopo l'approvazione dell'emendamento che non è stato però approvato». 

L’imprenditore Nicastri condannato a 9 anni: finanziò la latitanza di Messina Denaro. Pubblicato martedì, 01 ottobre 2019 su Corriere.it. L’ imprenditore trapanese Vito Nicastri è stato condannato dal Gup, in abbreviato, per concorso esterno in associazione mafiosa, a nove anni di carcere. Nicastri, soprannominato «Re dell’Eolico» per i suoi investimenti nelle energie rinnovabili, secondo l’accusa sarebbe stato tra i finanziatori della latitanza del boss Matteo Messina Denaro. Secondo i pm Paolo Arata, ex parlamentare di Forza Italia e consulente della Lega di Matteo Salvini sulle energie rinnovabili, l’uomo che faceva pressing perché l’ex sottosegretario leghista Armando Siri arrivasse al ministero dell’Economia, è il socio occulto di Nicastri. Il nome di Nicastri è emerso nei mesi scorsi nell’ambito di una inchiesta che ha coinvolto il suo socio, il faccendiere ex consulente della Lega, Francesco Paolo Arata, indagato per corruzione. L’indagine, coordinata dalla Dda di Palermo, ha svelato un giro di mazzette alla Regione siciliana finalizzate ad agevolazioni nelle pratiche relative agli investimenti nelle energie rinnovabili. Nell’ambito dell’inchiesta è emersa anche una presunta tangente che Arata avrebbe pagato all’ex sottosegretario alle Infrastrutture Armando Siri per la presentazione di un emendamento favorevole alle imprese che si occupano di energie alternative. Questo troncone dell’indagine è stato trasmesso a Roma. Nel processo per concorso esterno in associazione mafiosa, celebrato parallelamente all’inchiesta per corruzione, erano imputati anche il fratello di Nicastri, Roberto, condannato a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa, Leone Melchiorre, condannato a 9 anni e 4 mesi per associazione mafiosa, Girolamo Scandariato, che ha avuto sei anni e otto mesi per favoreggiamento ed estorsione. Assolti Giuseppe Belletti, accusato di associazione mafiosa, e i fratelli Tommaso, Virgilio e Antonio Asaro che rispondevano di favoreggiamento. Il processo è stato istruito dal Procuratore aggiunto Paolo Guido e dal Pm Gianluca De Leo.

Mafia, Vito Nicastri condannato a 9 anni. "Ha finanziato la latitanza di Messina Denaro". Il "re" dell'eolico era accusato di concorso esterno. Da alcuni mesi collabora con i pubblici ministeri, ma ha sempre escluso rapporti con le cosche trapanesi. Condannato anche il fratello Roberto. Salvo Palazzolo l'1 ottobre 2019 su La Repubblica. Il "re" dell'eolico, Vito Nicastri, l'imprenditore di Alcamo in affari con Paolo Arata, l'ex consulente di Matteo Salvini, è stato condannato oggi pomeriggio a nove anni di carcere dal gup di Palermo Filippo Lo Presti. Per concorso esterno in associazione mafiosa. I sostituti procuratori Gianluca De Leo, Giacomo Brandini e il procuratore aggiunto Paolo Guido gli contestavano di aver intrattenuto rapporti spregiudicati con esponenti delle cosche, quelli più vicini al superlatitante Matteo Messina Denaro, imprendibile dal giugno 1993. Per Nicastri, accusato dalla Dia di Trapani di intestazione fittizia e corruzione nell'ambito del caso Arata, è la prima condanna per mafia. Nonostante già negli anni scorsi avesse subito una maxi confisca di beni per un milione e trecento mila euro. Da maggio, dopo l'arresto per la vicenda Arata, l'imprenditore collabora con i magistrati della procura di Palermo, ha svelato alcuni episodi di corruzione di pubblici funzionari, chiamando in causa il suo socio occulto Arata, ma ha sempre negato di avere avuto rapporti con esponenti mafiosi. Ora, questa sentenza lo smentisce. Il gup ha condannato anche il fratello di Vito, Roberto, pure lui a 9 anni, per concorso esterno in associazione mafiosa. Era stato il pentito Lorenzo Cimarosa, cugino di Messina Denaro, a svelare che Vito Nicastri avrebbe fatto avere "una borsa piena di soldi" agli uomini legati al latitante. L'anno scorso, il "re" dell'eolico era già agli arresti domiciliari, ma iniziò a fare affari con Paolo Arata, ex parlamentare di Forza Italia e allora consulente per l'energia della Lega. Affari che ad agosto sono stati raccontati nel corso di un incidente probatorio, al tribunale di Roma: Nicastri ha confermato di aver saputo di una mazzetta da 30 mila euro che il suo socio avrebbe promesso al sottosegretario Armando Siri, per piazzare un emendamento che doveva aprire le porte a molti finanziamenti. Per questo filone, indaga la procura di Roma, sotto inchiesta ci sono Arata e Siri, quest'ultimo rimosso dal presidente del Consiglio Giusepep Conte, nonostante le resistenze della Lega.

L'impero. Negli anni Novanta, si vantava di essere uno dei pochi imprenditori puliti nel settore dell’energia alternativa. E invece era lui il perno del sistema di potere che ruotava attorno alle pale eoliche. Vito Nicastri, l’ex elettricista di Alcamo diventato in vent' anni un top manager, avrebbe avuto alle spalle uno sponsor potente: l’ultimo grande latitante di Cosa nostra, Matteo Messina Denaro. Per questa ragione, nel 2013, la sezione Misure di prevenzione del tribunale di Trapani gli aveva confiscato un impero economico: un miliardo e trecento milioni di euro, tanto valevano le 43 società di capitali che Nicastri utilizzava per gestire i suoi affari nel settore dell’eolico e del fotovoltaico; alcune con sede in Sicilia, altre in Lazio e Calabria. Sono passate tutte allo Stato. E con le società, anche un tesoro fatto da 98 beni immobili: Nicastri aveva investito in centinaia di terreni fra Trapani, Palermo e Reggio Calabria. Per sé aveva fatto realizzare una sontuosa villa ad Alcamo, ma aveva acquistato anche decine di appartamenti e magazzini fra Trapani e Catanzaro. La confisca riguarda pure una grande passione di Nicastri: un catamarano di 14 metri per 8, costruito nel cantiere di Belleville, in Francia, nel 2009; è rimasto ancorato saldamente al porticciolo turistico di Castellammare del Golfo. L’imprenditore aveva una passione anche per le auto di grossa cilindrata, gli sono state sequestrate Mercedes e Audi. Infine, la Dia ha messo i sigilli a 60 rapporti finanziari, fra conto correnti, dossier titoli e polizze assicurative. Fu una delle confische più grande di tutti i tempi.

Il ritorno di Siri: "Mi sono sentito sotto attacco". Prima uscita in pubblico dell'ex sottosegretario leghista indagato per corruzione con l’accusa di avere accettato danaro per inserire nella manovra una norma sulle energie rinnovabili. Marco Ansaldo il 15 luglio 2019 su La Repubblica. MONTEMARCELLO (La Spezia) – “Sentirsi sotto attacco non è stato bello. Credo comunque che chi abbia voluto farsi un’idea di quello che è successo, se la sia potuta fare”. Non dice di più sul caso della revoca del suo incarico da sottosegretario, avvenuta nel maggio scorso, Armando Siri. Una vicenda in cui il vice ministro leghista al ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, e consigliere economico di Matteo Salvini, era finito indagato per corruzione con l’accusa di avere accettato danaro per inserire nella manovra una norma sulle energie rinnovabili. Una presunta tangente da 30mila euro, "data o promessa" a Siri in cambio di un “aggiustamento” al Documento di economia e finanza 2018 sugli incentivi al mini-eolico, che non fu poi presentato. Ma dopo la revoca dal suo incarico di governo, a lungo contestata e infine avvenuta su proposta al Consiglio dei ministri dello stesso presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, nella serata di ieri era la prima volta che Siri si presentava in pubblico a più di due mesi dal caso. L’occasione è stata l’appuntamento finale di “Liguria d’autore”, rassegna di discussioni politiche e culturali svoltasi per 4 sere nello splendido borgo di Montemarcello, sopra Ameglia, in provincia della Spezia. Una rassegna di impronta sovranista, con diverse personalità del mondo della politica e dell’informazione, contestata ad esempio dal Partito democratico di Ameglia proprio per il taglio degli incontri avvenuti “con pochissime voci non allineate”. Rassegna comunque ben condotta dal giornalista Alessandro Giuli. Eppure Siri, benché giocasse “in casa”, e seduto su una poltroncina al centro del dibattito generale, non si è però spinto oltre in pubblico a parlare del proprio caso. Camicia bianca e abito blu, l’ex vice ministro è apparso in tono dimesso, ma ha voluto difendere il lavoro svolto durante il suo incarico. Nell’incontro finale del Festival, intitolato “Chi fa l’Italia”, a cui hanno partecipato fra gli altri i governatori di Liguria e Lombardia, Giovanni Toti e Attilio Fontana, Siri ha fatto un solo intervento, di pochi minuti, a cavallo della mezzanotte, prima che la pioggia cominciasse a cadere sugli spettatori. Il panel era dedicato alle Infrastrutture, e si era aperto con un filmato sulle opere mai terminate in Italia. La stazione di Matera. Lo stadio nuovo di Roma. L’autostrada Asti-Cuneo. L’ex sottosegretario, invitato da Giuli a parlare, ha confermato di essersi messo le mani nei capelli al suo arrivo al ministero. “Ero in una sede dei Lavori pubblici. E veniva letteralmente tutto giù. Dicevo: ma noi siamo qui il ministero dei Lavori, e un minimo di decoro ci vuole, anche di fronte ai visitatori che vengono a trovarci. Quello che ho vissuto come esperienza è che, se tu hai voglia di fare, se prima fai la campagna elettorale, poi la gente ti vota e tu sei carico di voglia di fare, poi però ti trovi davanti una partita difficilissima. E la frustrazione è enorme. Che è innanzitutto quella del cittadino, che ti chiede conto, e poi diventa la tua come politico. Perché tra il cittadino e il politico c’è la pubblica amministrazione. E l’Italia è una repubblica burocratica. Sai quante volte ho incontrato gente che chiedeva, e io non avevo lo strumento per operare? Tu voti, e poi però il potere è annacquato. Gestito da mille rivoli e rigagnoli. Io andavo a chiedere, e c’erano almeno 25 uffici diversi, che oltretutto si ostacolavano l’uno con l’altro. Questo, detto dal politico, è frustrante. Forse dovremmo allora avere un presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo (applausi, ndr). Infatti è più facile che incontri per strada il sindaco, che il premier. E perciò dovremmo dare più poteri a chi è più prossimo ai cittadini. E’ una frustrazione enorme. E’ stata una lotta continua. Ho lottato con gli uffici. Con i pareri. Ora bisogna parlare alla gente in modo franco: e gestire il potere in un modo diverso”.

Esclusivo: così Armando Siri ha intascato oltre un milione da una banca di San Marino. Un'inchiesta sui «prestiti di favore» al senatore della Lega per ingraziarsi il governo italiano: prima 750 mila euro all’allora sottosegretario. Poi altri 600 mila alla società di un amico. Con zero garanzie e mille anomalie. In esclusiva i documenti dell’indagine. Lirio Abbate e Paolo Biondani il 26 luglio 2019 su L'Espresso. Il caso Siri raddoppia. Come raccontiamo sul giornale in edicola da domenica 28 e  già online su Espresso+ , dopo le inchieste aperte in Italia dalle procure di Milano, Palermo e Roma,anche le autorità di San Marino indagano sugli affari proibiti del senatore, ex sottosegretario e consigliere economico della Lega. La nuova istruttoria riguarda due «prestiti di favore a elevato rischio» concessi da una banca dell'ex paradiso fiscale e caratterizzati da una doppia serie di «violazioni sistematiche» delle regole creditizie: 750 mila euro incassati dal senatore Armando Siri tra ottobre e gennaio scorsi, quando era ancora vice-ministro delle Infrastutture, e altri 600 mila ottenuti appena tre mesi fa da un imprenditore a lui collegato. Entrambi i finanziamenti bancari sono stati giudicati «contrari ai principi di sana e prudente gestione del credito» dagli ispettori della Banca Centrale di San Marino e dell'Agenzia anti-riciclaggio (Aif), che dopo sette mesi di verifiche e interrogatori riservati hanno deciso di denunciare tutto alla magistratura. E di trasmettere gli atti anche alla procura di Milano. L'Espresso, nel numero in edicola da domenica 28 luglio, pubblica in esclusiva i documenti dell'indagine ispettiva. Dagli atti risulta che il prestito non aveva motivazioni finanziarie: è stato deciso dalla banca per avere «scambi e relazioni con il senatore, considerata l'importante posizione di sottosegretario», in grado di condizionare il governo italiano. Le anomalie più gravi della pratica di Siri riguardano documenti decisivi che risultano «alterati», «cancellati», «omessi» o «tenuti nascosti»: atti ricostruiti dagli inquirenti dopo uno scontro con la banca per sbloccare il sistema informatico. Ora anche queste carte sono state trasmesse ai pm italiani.  L'indagine della Procura di Milano sugli affari di Siri a San Marino era nata all'inizio di quest'anno dalla segnalazione anti-riciclaggio di un notaio milanese, rivelata da Report, che riguardava i 585 mila euro utilizzati dal senatore per acquistare una palazzina alla periferia di Milano, intestata però a sua figlia. Il secondo prestito di 600 mila euro che risulta «correlato a Siri» è finora del tutto inedito. L'ex sottosegretario è sempre stato difeso pubblicamente dal leader della Lega, Matteo Salvini, ma ha dovuto lasciare la poltrona di governo perché coinvolto in un'altra inchiesta, con l'accusa di corruzione: la «revoca» dalla carica è stata decisa in aprile dal premier Giuseppe Conte su pressione dei Cinquestelle. Quell'indagine, trasferita da Palermo a Roma, riguarda una presunta tangente di 30 mila euro promessa da un avvocato siciliano all'allora sottosegretario della Lega, in cambio di un emendamento diretto a favorire un imprenditore trapanese arrestato per mafia,  il “re dell'eolico” Vito Nicastri , accusato di aver finanziato la latitanza del boss stragista Matteo Messina Denaro. Nel 2018, quando è stato candidato al Senato dalla Lega di Salvini come esperto di economia e teorico della “flat tax totale”, Armando Siri aveva già dovuto patteggiare una condanna per bancarotta fraudolenta, a suo dire ingiusta, per il fallimento di una sua società milanese accusata anche di evasione fiscale. Una sentenza definitiva rivelata già l'anno scorso da L'Espresso, che la banca di San Marino è ora accusata di aver conosciuto, ma «omesso» di inserire nella pratica, per non ostacolare il prestito al politico.

Paolo Colonnello per “la Stampa” il 30 luglio 2019. Evidentemente bastava la parola: Siri, inteso come Armando, senatore ed ex sottosegretario della Lega. Perché altrimenti gli inquirenti non si spiegano come mai a due sconosciuti baristi milanesi, la Banca Agricola di San Marino ha concesso un prestito di 600 mila euro dopo che a presentarli al direttore generale era andato il capo della segreteria del senatore leghista, Marco Luca Perini. La società dei due baristi, la Tf Holding, è stata perquisita ieri dalla Gdf su ordine dei pm Spadaro e Ruta. Anche questo prestito infatti, secondo gli ispettori antiriciclaggio, non avrebbe dovuto essere concesso data l' esiguità delle garanzie, esattamente come quello di 580 mila euro erogato l'ottobre scorso a Siri per l' acquisto di una palazzina a Bresso, intestata poi alla figlia. L' ipotesi di accusa è di autoriciclaggio. Il finanziamento alla Tf Holding, sarebbe stato erogato nonostante i pareri negativi degli organismi interni della banca, scavalcati però da un intervento dei vertici dell' istituto di credito sanmarinese. I due baristi-immobiliaristi infatti hanno come principale attività immobiliare la gestione di due bar sotto la stazione della Mm di Rogoredo. In particolare del Marilyn Cafè, comprato nel 2008 da una società, la Metropolitan coffee and food srl che prima di trasferirsi nel paradiso fiscale del Deleware (Usa) era gestita, proprio da leghista Siri. Il socio-barista della Tf Holding immobiliare si chiama Fiore Turchiarulo, così rivela il settimanale l' Espresso che alla vicenda ha dedicato un servizio nell' ultimo numero con sia le relazioni sia della banca Centrale di San Marino che degli ispettori antiriciclaggio dell' Agenzia d' informazione finanziaria (Aif), trasmesse alla procura milanese. Istruttorie partite dallo strano prestito a Siri, rilasciato il 16 ottobre del 2018 senza alcuna garanzia ma solo in virtù dell' allora carica ricoperta di sottosegretario. E ora c' è questo nuovo mutuo ottenuto appena nel marzo scorso del barista Torchiarulo, il quale ha dato come garanzia oltre alla propria società (valore stimato 80 mila euro), l' affitto ottenuto da un altro bar sempre a Rogoredo, valore 300 mila euro, già ipotecato però presso un' altra banca. Garanzie che non valgono per i comuni mortali ma per gli amici di Siri sì, visto che Torchiarulo dichiara un reddito di 7. 300 euro all' anno e il suo socio uno stipendio da barista da 1. 300 euro al mese.

Lettera di Armando Siri a ''La Stampa'' il 27 luglio 2019. Caro Direttore, in questi ultimi mesi di violenti attacchi alla mia reputazione sono sempre stato in silenzio, per rispetto del lavoro della magistratura, come mi ha esortato il mio difensore l' avvocato Fabio Pinelli e perché ero fiducioso che la verità potesse emergere nella fase delle indagini a mio carico per una vicenda nella quale non ho alcuna responsabilità, se non quella di aver regolarmente svolto il mio lavoro di parlamentare proponendo un emendamento chiestomi formalmente dal Consorzio dei Produttori di Mini Eolico (Cpem). Un iter come tanti altri che ho delegato ai miei uffici, tant' è che dell' argomento non avevo neppure più memoria e solo dopo aver saputo delle indagini a mio carico ho potuto ricostruire punto per punto l' attività svolta. Un'attività per niente incessante, a differenza di quello che si è letto, come confermano i funzionari del Mise ascoltati dai magistrati (i verbali fanno parte del fascicolo, ma nessuno ha voluto soffermarsi). Il Professor Paolo Arata, effettivamente, è stato insistente nel sollecitarmi la proposta dell' emendamento, ma non più di quanto non lo sia stato qualunque altro soggetto che mi abbia chiesto un interessamento legislativo per altri settori. Mai e poi mai ho asservito a lui o ad alcuno le mie funzioni di rappresentante della Repubblica e questo risulta da tutte le mie interlocuzioni non solo telefoniche, ma anche sms, e-mail e WhatsApp che spontaneamente ho consegnato alla magistratura inquirente. Ho sempre lavorato nell' interesse del Paese, dedicando entusiasmo, passione ed energia per portare avanti riforme e interventi a favore della crescita e dello sviluppo. Mi sono sempre comportato nel rispetto della legge e mai sono venuto meno ai miei doveri e all' autentico rispetto che nutro per le Istituzioni. La richiesta di interessamento da parte di Arata e del Consorzio era assolutamente razionale e condivisibile. Si proponeva di sanare le difficoltà in cui si trovavano un centinaio di piccoli imprenditori che avevano investito i loro capitali esponendosi anche con le banche per completare gli impianti nei tempi previsti dalla legge, ma non avevano ottenuto l' allaccio alla rete elettrica, nonostante questa fosse stata richiesta entro i termini prescritti, perdendo così l' opportunità degli incentivi che, come sappiamo, sono alla base di ogni investimento nel settore delle rinnovabili. Ricordo a tal proposito che lo sviluppo delle energie rinnovabili, comprese quelle da fonte eolica, sono un punto fondamentale del contratto di Governo e del programma elettorale di entrambi i partiti che sostengono l' attuale maggioranza. Non ho mai minimamente pensato ad alcun nesso tra questa attività e la mafia. A meno di non voler sostenere che tutti i produttori di mini eolico sono mafiosi, io ho fatto ciò che ritenevo legittimo per aiutare i piccoli imprenditori rappresentati da un' Associazione importante regolarmente iscritta al Registro per la trasparenza del Mise, come i miei uffici hanno potuto appurare durante le verifiche effettuate prima di procedere con la proposta emendativa. Tutto è stato svolto nella piena correttezza della procedura, con tutte le verifiche del caso e con l' intento di salvaguardare posti di lavoro in totale coerenza con le linee politiche del Governo. Per questo interessamento, ribadisco ciò che ho già detto ai magistrati, non ho mai ricevuto o accettato offerte né dazioni di denaro. Mai l' avrei fatto! Sostenere iniziative legislative di buon senso, coerenti con le linee programmatiche del partito, ritengo sia precisamente il compito per cui un rappresentante del Parlamento viene eletto e pagato dai cittadini italiani. Non ho idea di cosa passasse per la testa di Paolo Arata o quali fossero le sue intenzioni. Non sapevo nulla dei suoi affari, delle sue attività personali o delle sue discutibili frequentazioni. L' unica cosa che avevo percepito è che con questo sostegno al Consorzio lui volesse consolidare la sua posizione come punto di riferimento politico nel settore energetico. Il resto sono tutte ricostruzioni infondate, incollate tra loro da una forte dose di malafede. La mia amicizia con Arata è sempre stata caratterizzata, invece, dalla totale buona fede e dalla stima nei confronti di un apprezzato docente universitario, nominato per tre volte commissario straordinario di Governo, ex parlamentare, insignito di riconoscimenti per meriti scientifici dalla Marina Militare, ospitato come esperto di temi ambientali ed energetici presso il Senato degli Stati Uniti. Né più, né meno. Ieri, finalmente, è stato segnato un momento di verità importante nell' incidente probatorio chiesto dalla Procura, eppure continuo a leggere calunnie e ricostruzioni irreali come un fantomatico pranzo con questo Signor Nicastri. Ribadisco che con queste persone io non ho mai avuto nulla a che fare, non le conosco, mai ho sentito i loro nomi o di cosa si occupassero prima del 18 aprile scorso, quando ho appreso dell' inchiesta che mi riguarda. Purtroppo chi si trova nella mia situazione non ha molti mezzi per difendersi, perché la calunnia e la diffamazione corrono molto più veloci e sono molto più pervasive della verità, che invece solo il tempo può rivelare. Reagirò con tutti gli strumenti che la legge mi mette a disposizione contro questa campagna diffamatoria che inanella insinuazioni come proiettili nel caricatore di un mitra, per poi spararmeli impunemente in pieno petto. Il nostro ordinamento per difendermi dalle calunnie mi concede solo lo strumento della denuncia/querela. Alcune le ho già fatte, altre le sta preparando il mio avvocato e continuerò così nei confronti di tutti coloro che approfittano di questa circostanza di difficoltà per screditarmi, per infierire. Ricordo a costoro che chi si ostina a voler guardare a tutti i costi il male nel prossimo, è solo perché non ha il coraggio di guardarsi dentro. Sarebbe un bel esercizio evolutivo e di consapevolezza lavorare su questo paradigma che già duemila anni fa un Signore ci esortava a fare nostro. Il tempo passa e il trave e la pagliuzza restano sempre lì a memoria di tutte le ingiustizie di cui è capace l'essere umano.

Armando Siri indagato per autoriciclaggio dopo l'articolo de L'Espresso. Libero Quotidiano il 31 Luglio 2019. L'Espresso chiama e la Procura risponde. E così ora il senatore della Lega ed ex sottosegretario alle Infrastrutture, Armando Siri, è indagato a Milano per autoriciclaggio nell'ambito dell'inchiesta su due finanziamenti considerati "anomali", concessi dalla Banca Agricola di San Marino. Con uno dei mutui da 600 mila euro, Siri - secondo le accuse formulate dagli inquirenti - avrebbe acquistato una palazzina a Bresso (Milano) alla figlia; il secondo prestito, della stessa cifra, sarebbe stato invece concesso, senza le garanzie dovute, alla TF Holding, di proprietà di due baristi milanesi, ma collegata allo stesso Siri. Dopo l'articolo de l'Espresso che aveva rivelato i documenti che comprovavano l'indagine della Banca Centrale di San Marino su quei prestiti, si è quindi mossa la Procura. E nei giorni scorsi sono state effettuate dalla Guardia di finanza diverse perquisizioni e sequestri a Milano e a Verona.

Caso Siri, il senatore leghista indagato a Milano per autoriciclaggio. La procura ha aperto un fascicolo sulla concessione di due mutui ritenuti anomali, uno è stato usato per acquistare una palazzina a Bresso. I magistrati hanno chiesto al Senato l'autorizzazione al sequestro del computer dell'ex sottosegretario. La Repubblica il 31 luglio 2019. Il senatore leghista Armando Siri risulta indagato a Milano per autoriciclaggio nell'inchiesta dei pm Gaetano Ruta e Sergio Spadaro con al centro la concessione di due mutui ritenuti 'anomali' concessi dalla Banca Agricola di San Marino, il primo dei quali utilizzato per l'acquisto di una palazzina a Bresso, nel milanese. Nell'ultimo numero, l'Espresso aveva rivelato i documenti che comprovavano l'indagine della Banca Centrale di San Marino su quei prestiti. Nei giorni scorsi la Guardia di Finanza ha effettuato perquisizioni in relazione al secondo mutuo presso la TF Holding srl e presso persone e società, anche a Verona, coinvolte nell'operazione. Il primo prestito di 585 mila euro, già incasellato come 'sospetto' dall'Unità di informazione finanziaria della Banca d'Italia, in base all'ipotesi, è servito all'ex sottosegretario leghista per acquistare una palazzina per la figlia a Bresso, comune alle porte di Milano. L'altro prestito ritenuto 'anomalo' di 600 mila euro, come ha anticipato l'Espresso, sarebbe stato concesso dalla medesima banca a beneficio di Tf holding, che oltre ad occuparsi della compravendita di immobili, gestisce due bar, uno dei quali nel mezzanino della Metropolitana milanese, stazione Rogoredo. A capo della società ci sono due persone tra cui Fiore Turchiarulo, che in passato si era candidato per il Partito Italia Nuova di cui Siri era presidente. I due sarebbero stati presentati all'istituto di credito sammarinese da Marco Luca Perini, capo della segreteria del parlamentare in quota alla Lega e che risulta anche avere una porzione nell'immobile di Bresso al centro del primo filone dell'inchiesta milanese. Anche Luca Perini è indagato. I pm Sergio Spadaro e Gaetano Ruta hanno inoltre inviato al Senato una richiesta di autorizzazione al sequestro di un computer trovato nella disponibilità di Perini ma che il capo segreteria ha detto essere di Siri. Sul secondo mutuo, in questi giorni i militari del Nucleo di polizia economico finanziaria della guardia di finanza di Milano hanno effettuato una serie di perquisizioni anche a Verona.

Siri indagato, la replica del legale: "Regole rispettate". "Il mutuo concesso al senatore Siri nell'ottobre 2018 per l'acquisto di un edificio a Bresso è del tutto regolare". Fabio Pinelli, avvocato di Armando Siri, lo scrive in una nota in cui sottolinea che il parlamentare leghista "si dichiara completamente estraneo a qualsivoglia ipotesi di reato e confida in un rapido accertamento dei fatti". Che il mutuo sia regolare, sostiene Pinelli, lo ha spiegato ieri anche la Banca Agricola Sammarinese in un comunicato in cui ha dichiarato di aver "mostrato assoluta attenzione ai profili reputazionali, prontamente riscontrando, in questa come in altre occasioni, le richieste dell'autorità, cui resta a disposizione per gli ulteriori chiarimenti che si ritenessero opportuni o necessari" e aggiungendo che "la banca presidia quotidianamente tutte le proprie ragioni di credito e che il mutuo concesso al senatore Siri non ha determinato alcun tipo di danno all'istituto".

Siri indagato, lo sfogo su Facebook: "E' un delitto comprare casa per il futuro di mia figlia?". Il senatore della Lega finito al centro dell'accusa di autoriciclaggio per dei mutui concessi dalla Banca di San Marino scrive un lungo post: "Non ho nulla da nascondere, c'è una gogna mediatica nei miei confronti". La Repubblica l'1 agosto 2019. "Ho comprato una casa da ristrutturare perché potesse rappresentare una rendita per il futuro della mia unica figlia, quello che credo farebbe qualunque padre. È un delitto?". Come il suo segretario Matteo Salvini, il senatore leghista Armando Siri, indagato a Milano per autoriciclaggio, si sfoga con un lungo post su Facebook: e tira in ballo sua figlia nella storia della palazzina di Bresso, in provincia di Milano, per cui avrebbe ottenuto due mutui ritenuti dalla procura di Milano “anomali” dalla Banca agricola commerciale di San Marino, il cui vicedirettore, oggi, ha avuto una perquisizione dalla guardia di finanza. "Oggi è un'altra giornata di calvario. Mi viene puntato il dito contro perché sarei andato in banca a fare un mutuo e perché alla stessa banca avrei presentato un amico che conosco da 10 anni con il quale non ho alcuna relazione d'affari e che è impegnato, grazie alla sua attività, nella riqualificazione di una zona degradata di Milano. La Banca in questione, in più di una nota ufficiale, ha già dichiarato che è tutto regolare", scrive Siri, omettendo però che la Banca Centrale di San Marino ha avviato un'indagine sulla vicenda. "Io non ho nulla da nascondere. Mi chiedo per quanto tempo ancora andrà avanti questo stillicidio, questa violenza, questo accanimento", scrive Siri, che fa diversi riferimenti. Alla calunnia, che "è un venticello", alle Sacre Scritture, in cui "il grande calunniatore è Satana, che insinua sospetti sussurrando all'orecchio bugie, facendo passare per vere teorie solo verosimili contando sulla debolezza degli uomini e la loro necessità di trovare un capro espiatorio da sacrificare per autoassolversi dai propri peccati". E la gogna, ovviamente, è "mediatica". Un passaggio dedicato ai giornali che stanno ricostruendo la vicenda: "La ricerca della verità costa fatica, richiede distacco, obiettività e imparzialità. Non basta invocare la "libertà" di stampa per fare a meno di queste condizioni. Nulla da dire se c'è un'indagine della magistratura per chiarire la mia totale estraneità a qualunque reato ma se l'indagine attraverso i media diventa uno strumento preventivo di tortura emotiva e psicologica mia e delle persone che collaborano con me allora non lo ritengo giusto. Per me e per nessuno. Purtroppo nell'immediato non ho nessun mezzo per difendermi, se non aggrapparmi alla mia integrità, tenermi più stretto che posso e aspettare. Una cosa non la devo fare di sicuro, me lo continuo a ripetere: cedere allo sconforto, lasciarmi morire dentro, rinunciare ai miei propositi. Perché purtroppo, quando si affronta la violenza della calunnia, si può anche morire come ci ricorda Rossini nella magnifica Aria de Il Barbiere di Siviglia "La calunnia è un venticello". Assicura Siri che il suo impegno "anche in un momento difficile sotto il profilo umano e familiare" per le grandi riforme come la Flat Tax non cambia.

·         Ed i 49 milioni?

Truffa prescritta per Bossi  e Belsito, ma la Lega dovrà restituire i 49 milioni. Pubblicato martedì, 06 agosto 2019 da Virginia Piccolillo su Corriere.it. Aveva usato i fondi della Lega per finanziare le spese della propria famiglia, ma l’accusa di truffa per il fondatore ella Lega Umberto Bossi e del suo ex tesoriere, Francesco Belsito, è prescritta. Lo ha stabilito la sezione penale feriale della Corte di Cassazione dopo 5 ore di Camera di Consiglio, confermando però la confisca per i 49 milioni di euro del partito, disposta lo scorso 26 novembre dalla Corte d’Appello di Genova. Erano errati i calcoli. Forse per un solo giorno, la condanna è arrivata troppo tardi. Belsito resta responsabile del reato di appropriazione indebita: per lui ci sarà in questo caso la rideterminazione della pena in Appello. Si chiude così la vicenda giudiziaria iniziata il 23 gennaio 2012 con l’esposto di un militante della Lega che chiedeva conto delle indiscrezioni di stampa su investimenti del Carroccio anomali in diamanti in Tanzania e di conti offshore a Cipro. Fu così che saltarono fuori le spese raccolte nella cartelletta «family» a beneficio del Senatur e dei suoi figli. Con i rimborsi che i partiti prendono, sulla base dei voti raccolti, per svolgere attività politica, si scoprì, nei vari tronconi in cui venne divisa l’indagine, che papà Bossi aveva pagato altro. Secondo l’accusa, al figlio Renzo, da lui soprannominato il «Trota», una laurea in Albania, un’Audi e le multe prese al volante. E al primogenito Riccardo, debiti, affitto, mantenimento dell’ex moglie, veterinario per il cane. Da una intercettazione tra il tesoriere Belsito e la ex segretaria di via Bellerio i giudici seppero che dopo l’ictus di Umberto Bossi «non solo costui, ma la moglie e i figli erano interamente mantenuti dalla Lega e che i “costi dei ragazzi” erano addirittura di gran lunga superiori a quelli che lo stesso segretario della Lega immaginava». Ne ha fatto cenno a quella cartelletta «family» nella requisitoria il pg, Marco Dall’Olio. «Non è vero che i rendiconti erano solo generici. Erano anche falsi: si diceva “rimborso autisti”. Ma in realtà si finanziava la famiglia Bossi», ha evidenziato. «La truffa si configura perché si vuole ottenere finanziamenti che senza la trasparenza non ci sarebbero potuti essere», ha specificato. «Se non piace che i rimborsi siano stati usati per spese personali è un fatto moralistico, ma non giuridico», aveva contestato l’avvocato di Belsito, Alessandro Sammarco che aveva presentato un’istanza di ricusazione, basata sull’assenza agli atti del fascicolo con le prove di rendicontazioni e accrediti sui conti. Bocciata in poche ore da giudici della stessa sezione feriale. Cosa che aveva fatto gridare a Sammarco: «L’ordinanza è nulla». Poi in serata la sorpresa.

ANSA il 7 agosto 2019. "Non ho avuto conseguenze sul piano  penale ma quei soldi li ho presi e lasciati nella cassa del  partito. L'unico rammarico è che per questa vicenda, cavalcata  da altri, sono stato defenestrato. Il partito, che era il mio  partito, oggi è di altri. Mi sento dignitosamente riabilitato come politico e come uomo". Così Umberto Bossi, secondo quanto  riferisce il suo legale Domenico Sammarco, commenta la sentenza  della Cassazione, che ha annullato senza rinvio – per  prescrizione - la condanna in secondo grado nel procedimento per  truffa sui rimborsi alla Lega.

Da Il Fatto Quotidiano il 7 agosto 2019. “Quei soldi li ho presi e li ho lasciati nelle casse del partito“, dice Umberto Bossi. “Quello che è successo dopo? Bisogna chiederlo a Maroni e Salvini. Sto valutando di fare un’azione legale”, aggiunge l’ex tesoriere Francesco Belsito. Se il Senatùr si sente “dignitosamente riabilitato come politico e come uomo”, nonostante la Cassazione abbia annullato solo per intervenuta prescrizione la condanna per truffa in secondo grado nei suoi confronti. Resta però pienamente esecutiva la confisca dei 49 milioni ai danni della Lega. Soldi che secondo i vertici attuali non sarebbero più a disposizione del partito, tanto che a fine 2018 il Carroccio ha accettato di spalmare la restituzione in rate da 200.000 euro l’anno, per 80 anni. Se ciò che dicono Bossi e Belsito ha fondamento, che fine hanno fatto dunque i 49 milioni? I rimborsi non dovuti fanno riferimento al quadriennio 2008-2011. Soldi che sono rientrati nella piena disponibilità del partito, ma poi sarebbero stati spesi. Come? “Non posso sapere come hanno usato quei soldi Maroni e Salvini – dice oggi l’allora responsabile della cassa della Lega – Io ho la coscienza a posto, ho lasciato i conti in ordine, i miei investimenti hanno generato tutti plusvalenze. Quello che è successo dopo non devono chiederlo a me”. Poi insiste: “Anche dopo le mie dimissioni i rimborsi elettorali hanno continuato a confluire nelle casse della Lega. Allora mi chiedo: perché per me era truffa e per gli altri no?”. Belsito attacca a 360 gradi chi, a suo giudizio lo ha “lasciato solo”. “Io sono stato definito il ‘tesoriere bancomat’ e quando elargivo soldi e aiutavo tutti andava bene. Poi però se ne sono dimenticati tutti di me. Ma adesso è arrivato il momento di reagire”. La condanna all’ex tesoriere per truffa allo Stato – 3 anni e 9 mesi di carcere – è stata annullata della Cassazione perché prescritta, benché sia stata rinviata in corte d’appello la parte relativa all’appropriazione indebita. Ed oggi anche Umberto Bossi mantiene la stessa linea, attaccando i suoi successori. “L’unico rammarico – dice il fondatore della Lega – è che per questa vicenda, cavalcata da altri, sono stato defenestrato. Il partito, che era il mio partito, oggi è di altri. Nella sua requisitoria, il procuratore generale Marco Dall’Olio aveva chiesto la conferma delle condanne parlando di “indubbie spese parla famiglia Bossi”. Accusa che ancora oggi non trova d’accordo Renzo Bossi, figlio di Umberto. Secondo la Procura, infatti, non sono dubbi che il rampollo del Senatùr abbia ricevuto un accredito per il conseguimento della sua laurea, ricordando il sequestro della cartellina con la scritta ‘Family’. Bossi jr. giudica “assolutamente falso e inventato” l’utilizzo dei fondi “per spese familiari”, e afferma: “di 147.000 euro di spese non vi è nemmeno 1 euro pagato dal partito a mio favore accertato, tanto è vero che molte delle spese sono state derubricate a ‘tentata appropriazione’ (quindi senza nessun pagamento effettuato) e per altre sono stato assolto”.

UNO, NESSUNO E CENTEMERO. Matteo Pucciarelli per “la Repubblica” il 10 giugno 2019. Soldi pubblici che entrano ed escono, poi rientrano e riescono, in un vorticoso e complicato gioco di società. Tutte legate più o meno direttamente al mondo della Lega. Come - ad esempio - i fondi del gruppo al Senato del partito destinati a un' impresa di una cognata di Alberto Di Rubba (direttore amministrativo del gruppo parlamentare della Camera e amministratore della Pontida fin, immobiliare della Lega) per la comunicazione social: solo che lei fa la barista e quel denaro era invece destinato a Luca Morisi, spin doctor di Matteo Salvini. L' ultima puntata di Report , in onda stasera su Rai 3 alle 21,20, rivela nuovi dettagli della nebulosa gestione finanziaria della nuova e vecchia Lega. Con un lungo servizio di Luca Chianca e Alessia Marzi, si sviscerano gli intricati rapporti tra commercialisti, società fiduciarie, altre pubbliche della regione Lombardia e uomini direttamente legati al partito del vicepremier. Di sfondo c' è sempre la questione dei 49 milioni di euro di finanziamento pubblico della Lega Nord (quella di Umberto Bossi, poi di Roberto Maroni e infine di Salvini) che gli stessi magistrati, da tempo, stanno cercando di rintracciare. Nella trasmissione condotta da Sigfrido Ranucci pare chiaro come tutto ruoti attorno al tesoriere Giulio Centemero e ai suoi collaboratori Andrea Manzoni e Di Rubba. Tra parentesi, quest' ultimo oggi è a capo del Sistema informatico nazionale, grazie al quale vengono distribuiti sei miliardi di euro di fondi pubblici per agricoltori e allevatori italiani. Comunque: quando nasce la nuova Lega nazionale, sono loro a porre la sede legale del partito nello studio del commercialista Michele Scillieri, a Milano. Il quale, insieme a Di Rubba, entra in Lombardia Film Commission, una fondazione della Regione (guidata dalla Lega). E cosa fanno? Comprano la nuova sede della commissione per 800 mila euro dall' immobiliare Andromeda, cliente dello stesso Scillieri. Da qui in poi le anomalie sono diverse. Una tranche da 178 mila euro finisce in una società intestata a una signora ma finanziata dallo stesso Di Rubba. Un' altra da 480 mila viene bonificata alla Eco srl, di Pierino Maffeis, un geometra che a sua volta ne bonifica 390 mila alla società di servizi di Francesco Barachetti. Chi è? Un vicino di casa di Di Rubba e punto di riferimento per la nuova e vecchia Lega. Infatti tra il 2016 al 2018 Barachetti ha incassato 1,5 milioni per i suoi servizi da parte di Lega Nord, Lega e Pontida fin; ma poi a sua volta versa ai commercialisti della Lega 400 mila euro. Transazioni che, messe in fila, fanno quasi girare la testa. Poi c' è un capitolo sulla società Vadolive, che appena otto giorni dopo la sua creazione nel maggio 2018 viene beneficiata da un contratto di 480 mila euro, pagati dal gruppo leghista al Senato. La Vadolive li riceve per divulgare le attività istituzionali del gruppo sui social. L' azienda è a nome di Vanessa Servalli, come detto cognata di Di Rubba e barista. «Il contratto è stato interrotto dopo qualche mese - racconta una fonte a Report - ma una parte dei soldi incassati dal gruppo della Lega, 87 mila euro, sono poi stati girati ad alcuni membri dello staff del ministro Salvini. Che però già all' epoca avrebbero dovuto avere un incarico fiduciario presso il ministero». Qui rimane una domanda tra tante: visto che nello staff di Salvini ci sono professionisti conclamati, perché non pagarli direttamente, senza passare attraverso una società di comodo? Nessuno dei titolati ha risposto. Misteri in salsa sovranista.

La cena tra Salvini, il suo tesoriere e Parnasi. Ecco le chat: «L'Iban de visu o in anticipo?» L'Espresso in edicola domenica 24 (già online su Espresso+) pubblica in esclusiva le conversazioni su Telegram tra Giulio Centemero, il tesoriere della Lega, e il costruttore romano, che ha donato 250 mila euro a un'associazione leghista. Entrambi sono indagati per finanziamenti illecito a Roma. Giovanni Tizian il 20 novembre 2019. «Per Iban et similia facciamo de visu o vuoi tutto in anticipo?», chiese il tesoriere leghista al costruttore romano. I segreti della Lega di Matteo Salvini corrono su Telegram. L’Espresso nel numero in edicola da domenica 24 novembre e già disponibile su Espresso+ pubblica in esclusiva le chat riservate tra il tesoriere della Lega Giulio Centemero e l'imprenditore Luca Parnasi. Dialoghi che svelano gli intrecci del partito con i poteri economici e finanziari. Cene e pranzi privati, circoli esclusivi della Capitale, altro che popolo e i suoi bisogni. Una storia di soldi, relazioni, interessi privati. E finanziamenti illeciti, secondo gli inquirenti. Matteo Salvini ha dichiarato di aver conosciuto Parnasi e di averlo incontrato quando era andato allo stadio insieme a lui. Quello che il leader leghista ha nascosto è scritto nelle chat: a tre mesi dalle elezioni politiche del 2018 è stato a cena a casa di Luca Parnasi insieme al tesoriere del partito e a Giancarlo Giorgetti, numero due della Lega. «Ciao Luca, volevo ringraziarti molto per la cena, hai messo al tavolo delle persone di valore e sono contento Matteo ci si sia confrontato», è il commento del tesoriere il giorno dopo la cena natalizia. Ma non è l'unica serata che vede insieme lo stato maggiore della Lega e Parnasi. Il 19 aprile 2016 a Roma era stata organizzata una cena di gala che Centemero definisce così: «Una cena di foundraising [...] Nessuna domanda sarà illecita, unica regola è farla in pubblico e condividerla...io lo chiamo fight club». Le conversazioni di Telegram, pubblicate da L’Espresso, sono state acquisite dal telefonino di Parnasi nell'ambito dell’indagine sul nuovo stadio della Roma. Seguendo le piste della corruzione, i magistrati avevano aperto un secondo filone: il finanziamento illecito ai partiti. Un capitolo che coinvolge l’ex tesoriere del Pd, Francesco Bonifazi (ora a Italia Viva) ma anche la Lega, con il tesoriere Centemero accusato di aver preso donazioni illecite da Parnasi attraverso l’associazione Più Voci, costituita per ricevere finanziamenti privati da aziende. Fondi da tenere lontano dai conti ufficiali del Carroccio, finito nel mirino dei giudici che chiedevano  la restituzione dei 49 milioni di rimborsi elettorali ottenuti con la truffa di Bossi e Belsito. L'inchiesta sulle donazioni illecite era stata avviata dai magistrati dopo lo scoop dell’Espresso su questa vicenda, pubblicato il primo aprile 2018, in cui si svelava l’esistenza della Più Voci e dei soldi ricevuti non solo da Parnasi. 

La cena segreta di Matteo Salvini con il palazzinaro Luca Parnasi per finanziare la Lega. Il leader leghista insieme al tesoriere Centemero e Giorgetti a cena a casa del costruttore della Capitale. E nelle chat, che l'Espresso pubblica in esclusiva, la domanda: «Per Iban et similia facciamo de visu o vuoi tutto in anticipo?»  Giovanni Tizian su L'Espresso il 20 novembre 2019. I segreti della Lega di Matteo Salvini corrono su Telegram. Le chat riservate tra il tesoriere del partito e il costruttore romano Luca Parnasi svelano gli intrecci del partito con i poteri economici e finanziari. Cene e pranzi privati, circoli esclusivi della Capitale, altro che popolo e i suoi bisogni. Una storia di soldi, relazioni, interessi privati. E finanziamenti illeciti. Partiamo da una data e da un luogo: 19 dicembre 2017, Roma. Le elezioni politiche di marzo si avvicinano. Per Matteo Salvini è una giornata fitta di impegni politici, è già campagna elettorale. Con la narrazione che si fa sempre più aspra, contro gli inciuci e le élite, i poteri forti, gli speculatori. Ma quel 19 dicembre è anche il giorno di Matteo in un vero salotto romano, nel regno di interessi economici che usano la politica per i propri scopi privati. In questi salotti la propaganda del "prima gli italiani che non arrivano a fine mese" affonda nelle contraddizioni della gestione reale del partito sovranista. Sul fronte politico è il giorno dell’attacco frontale al futuro alleato Luigi Di Maio: «Non saremo mai la stampella dei 5 Stelle, cambiano continuamente idea. Non vogliamo un governo spelacchio». Cinque mesi dopo nasce il primo governo populsovranista. Quella sera di dicembre però, il lessico da combattimento della mattina si trasforma in una lingua più sobria, più adatta ai circoli della Roma che conta, che muove denaro e decide i piani urbanistici della Capitale. Mancano pochi giorni al Natale del 2017. Alle 20.30 Matteo Salvini, per tutti ormai il Capitano, insieme ad altri due leghisti suona al citofono del civico 9 di una piazza nel cuore più esclusivo dei Parioli. I due non sono proprio dei peones qualsiasi, rappresentano piuttosto lo stato maggiore della nuova Lega del Capitano. Al fianco di Matteo Salvini, infatti, troviamo il tesoriere Giulio Centemero e Giancarlo Giorgetti, numero due del partito, destinato a diventare sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel primo governo Conte. Sono lì per trascorrere una serata conviviale, ospiti di un potente costruttore romano: Luca Parnasi, re del mattone a Roma e all’epoca ancora protagonista assoluto nella partita per la realizzazione del nuovo stadio cittadino. Una cena per scambiarsi gli auguri di Natale, tra amici. Ma anche per parlare del futuro. Del resto tra il romanissimo Luca Parnasi e i lùmbard è scoccata la scintilla. Soprattutto perché ha mostrato una generosità fuori dal comune verso i politici venuti dal Nord. Parnasi è un finanziatore da tenersi stretto in tempi di magra finanziaria per le casse del partito, per di più finite nel mirino della magistratura, alla ricerca dei 49 milioni della truffa sui rimborsi elettorali targata Bossi-Belsito. La cena di Natale, dunque. Per ricostruirne la genesi occorre fare un passo indietro di una decina di giorni. Il 9 dicembre Luca Parnasi scrive a Centemero sulla chat di Telegram, l’applicazione simile a Whatsapp ma con fama di maggiore "sicurezza": «Sto organizzando il 19 a casa mia. Che ne dici?». «Direi ottimo. Fammi avere coordinate e ora per favore», risponde il tesoriere della Lega. «Viene anche Giancarlo ok?», prosegue nella chat il leghista, che subito dopo aggiunge: «Per Iban et similia facciamo de visu o vuoi tutto in anticipo?». «Okay. Io sono a Milano oggi e domani. Se vuoi ci incrociamo», ribatte il costruttore, che si accorda con il tesoriere di Salvini per vedersi in stazione centrale intorno alle 18.45. Parnasi non ha molto tempo da dedicargli perché alle 19.15, scrive su Telegram, ha un impegno importante: la festa del Milan, la squadra del cuore del Capitano. Non proprio un dettaglio, nella lista dei desideri dell’imprenditore romano c’è il progetto del nuovo stadio della squadra rossonera. Torniamo, così, alla sera del 19 dicembre. Alla cena dei Parioli ha partecipato anche una quarta persona di nome Andrea, «che segue la campagna elettorale di Matteo». Potrebbe trattarsi di Andrea Paganella, che insieme a Luca Morisi, compone la squadra della propaganda dell’ex ministro e segue ovunque il leader: dal paesino più sperduto della provincia italiana alla maestosa Mosca di Putin. Di questa serata trascorsa con l’incarnazione del potere romano, Matteo Salvini non ha mai fatto cenno durante i suoi comizi di piazza né in quelli social. Chissà cosa penserebbero i suoi seguaci conquistati con slogan antiestablishment. L’allora neo ministro dell’Interno, dopo l’arresto del costruttore, si era limitato a dire:«Mi autodenuncio: ero andato anche a vedere una partita all’Olimpico con Luca Parnasi, ma credo che questo non sia un reato, lo conoscevo come persona corretta e simpatica». Ancora una volta l’ex capo del Viminale dimostra di avere una memoria cortissima quando si tratta di dare risposte credibili agli italiani su questioni scivolose come quelle dei finanziamenti, che fuoriescono dalla confort zone della propaganda sovranista. Ora, però, le chat tra il suo fedele tesoriere e Parnasi lo smentiscono. Salvini non è solo andato allo stadio con il re del mattone della Capitale, ha partecipato pure a una cena riservatissima a casa sua. Un cenacolo che ha ben poco di popolare, che ha il forte sapore dell’élite, dei tanto odiati poteri forti. E anticipato da alcuni messaggi in cui Centemero chiede a Parnasi se preferisce avere l’iban subito via chat oppure quando saranno de visu. È tutto riportato nelle chat in possesso de L’Espresso e inserite nel fascicolo di chiusura indagine della procura di Roma, che contesta a Centemero e ad Andrea Manzoni, revisore legale del gruppo Lega al Senato, il reato di finanziamento illecito ai partiti. Sono due dei fondatori dell’associazione Più Voci foraggiata da Parnasi . L’esistenza di questa associazione e i finanziamenti ricevuti- 250 mila euro solo da Parnasi- sono stati svelati il primo aprile 2018 dall’Espresso. Lo scoop ha portato la procura di Roma ad avviare un’inchiesta che si è conclusa nelle scorse settimane. Il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il sostituto Barbara Zuin si apprestano a chiedere il rinvio a giudizio dei leghisti e anche di un altro tesoriere, Francesco Bonifazi, ex Pd, ora Italia Viva, per aver incassato 150 mila euro dal costruttore tramite la fondazione Eyu. I tesorieri dei due Mattei assieme, nello stesso fascicolo. Il salviniano e il renziano sedotti dal medesimo potente. I dialoghi delle chat, agli atti dell’inchiesta, permettono di ricostruire i rapporti tra Parnasi, Matteo Salvini, Giancarlo Giorgetti e Giulio Centemero. Una relazione da tutti sminuita a semplice conoscenza. Ma non sembra essere così. Dopo la cena di Natale del 19 dicembre, Centemero scrive in chat: «Ciao Luca, volevo ringraziarti molto per la cena, hai messo al tavolo delle persone di valore e sono contento Matteo ci si sia confrontato». Chi erano le altre persone a casa del costruttore? Nei loro scambi di messaggi non indicano i nomi, di certo però la riservatezza dell’incontro era massima perché Parnasi risponde con una domanda: «Come fa Francesco Storace a sapere della cena con Matteo?». «Mmm Storace? O glielo ha detto Matteo o l’addetta stampa di Matteo. Indago...oppure Storace ha contatti in questura (Matteo gira con la scorta)». Hanno parlato molto nel salotto di casa Parnasi. Di politica e anche di affari: «Ieri ho capito che Banca Igea sta costituendo un fondo immobiliare per i tuoi progetti», continua il tesoriere della Lega, che propone: «Se ti può interessare posso sondare una paio di famiglie emiratine con cui lavoro per investirci. Pensaci, nel caso mi muovo volentieri». Fondi di investimento degli Emirati, alta finanza, business. Non proprio una serata in cui si è parlato di alta politica o di popolo delle periferie, o di italiani del ceto medio impoverito. A tavola, al riparo da occhi indiscreti e dai commenti dei follower dei social, c’era quell’élite che pubblicamente Salvini dice di combattere. E lo stesso Centemero, sovranista in Parlamento, lo è un po' meno fuori dall’aula quando in chat scrive a Parnasi che avrebbe incontrato in via del Babuino alcuni fondi esteri. Non si capisce per conto di chi, di sicuro è un modo curioso di fare il nazionalista. Alla cena nella dimora pariolina di Parnasi, i sovranisti padani non arrivano per caso. Due anni prima l’imprenditore aveva versato all’associazione leghista Più Voci un bel gruzzoletto. A dicembre 2015, 125 mila euro, a febbraio 2016, altri 125 mila euro. In totale 250 mila. Sempre a febbraio dello stesso anno, stando a quanto scrivono Parnasi e Centemero nelle chat, ci sarebbe stato un incontro più informale a Milano per «fare il punto delle persone da vedere con Matteo» nel capoluogo lombardo. Il 5 aprile, otto settimane più tardi, Luca Parnasi viene invitato a un pranzo di gala a Milano a “Gli orti di Leonardo” . C’è Matteo Salvini e il candidato a sindaco del centrodestra, Stefano Parisi, qualche anno dopo candidato anche alla Regione Lazio. Ci sarà Parnasi, con «i suoi partners» e altri imprenditori e uomini dell’alta finanza. «Parisi e Matteo erano molto contenti del pranzo :) spero sia soddisfatto anche tu», commenta Centemero nella chat, «Ottimo!», replica Parnasi. Tra gli invitati anche la Psc, gruppo di impiantistica controllato dalla famiglia Pesce, quasi 200 milioni di euro di fatturato e un azionista pubblico di peso: Fincantieri. È tra le grandi aziende che hanno finanziato la Più Voci. La ritroviamo anche a Roma il 19 aprile, per la cena di gala al Gran Melià, lussuoso ristorante ai piedi del Gianicolo. Quella sera era prevista una sorpresa finale: un saluto della candidata a sindaco di Roma Giorgia Meloni, l’altra sovranista. Al Gianicolo anche l’immancabile Parnasi, al quale Centemero ha riservato «un tavolo in pole position». «Ciao Luca sto facendo i tavoli. Martedì vieni con 9 amici, giusto?», chiede il tesoriere. «Un tavolo preso!! ok», la risposta. Una serata di gala che il fedelissimo di Matteo Salvini definirà una sorta di «Fight club»: ufficialmente «una cena di foundraising... volta a: 1) networking; 2) mettere Matteo in contatto con la società civile e parlare di temi reali e non solo di quelli da tv; 3) mostrare il vero volto di Matteo. Nessuna domanda sarà illecita, unica regola è farla in pubblico e condividerla...io lo chiamo fight club». Il giorno successivo Parnasi è esaltato: «Grande serata, poi dammi le coordinate per il mio tavolo. Un abbraccio». Per Centemero è stata «una serata tra amici» e ringrazia il grande donatore, ormai amico, per aver partecipato, promettendogli che a breve gli avrebbe mandato tutto. Parnasi è talmente in sintonia con i colonnelli di Salvini, che propone un amico, avvocato, per dare una mano al partito su Roma. «L’ho presentato un paio di mesi fa a Matteo», scrive a Centemero, «ci può dare una mano seria a Roma per far crescere il partito, dovremmo dargli seguito, senti tu Matteo e magari lo presentate al federale di Roma?». «Certamente», accoglie la segnalazione Centemero, che lascia la sua mail per ricevere il curriculum. «Un matto» appassionato, lo definisce Parnasi. «Se non sono matti non li vogliamo», rilancia il leghista. «Per vincere ci vuole gente motivata», lo saluta Parnasi. Arriviamo così a fine marzo 2018. Uno degli ultimi messaggi via chat riguarda L’Espresso: «Ho letto», scrive il leghista, «dalle firme dei giornalisti ho capito chi è l’informatore, ma uscendo a Pasqua farà poco rumore». «Ne sono convinto. Un grande abbraccio e auguri veri. Luca». Nonostante le festività, il clamore c’è stato. Sulle donazioni segrete di Parnasi all’associazione leghista si sono accesi i riflettori della procura, che le ritiene illecite. Non siamo la vecchia politica dei palazzi, ripete spesso Salvini alla sua folla. Sarà. Ma come ai tempi della prima Repubblica non disdegnano i finanziamenti dell’aristocrazia palazzinara.

Esclusivo. Luca Parnasi: «La cena con Matteo Salvini a casa mia per non farci beccare». Una registrazione nello studio del costruttore dieci giorni prima del banchetto alla presenza dell'ex ministro rivela il vero scopo di quell'appuntamento con il leader del Carroccio, il tesoriere e Giancarlo Giorgetti. E alla serata erano presenti «altri appaltatori» per «dare un sostegno alla Lega». Giovanni Tizian il 22 novembre 2019 su L'Espresso. La strategia politica di Luca Parnasi è incisa in una registrazione: «Dare un sostegno alla Lega» del Capitano. La cena natalizia a casa del costruttore del 19 dicembre serviva a questo in vista delle elezioni politiche del 4 marzo 2018. È il costruttore in persona a spiegarlo a uno dei suoi più stretti collaboratori. Parole registrate dalla cimice piazzata nello studio di Parnasi dai carabinieri del nucleo investigativo di Roma, che hanno condotto l'inchiesta “Rinascimento” sul giro di corruzione attorno al progetto del nuovo stadio della Roma. Il backstage dell'organizzazione del cenacolo nella dimora di Parnasi rivela il vero intento del padrone di casa. L'Espresso lo racconta nei dettagli nel numero in edicola da domenica 24 novembre e già online su Espresso+ pubblicando le chat riservate tra il tesoriere del partito di Salvini e Luca Parnasi. Ma torniamo all'intercettazione. Si tratta di un' ambientale registrata il 6 dicembre 2017. Due settimane più tardi si sarebbe tenuta la serata conviviale a casa Parnasi, nell'esclusivo quartiere Parioli di Roma, con Matteo Salvini, Giancarlo Giorgetti, numero due del partito, e il tesoriere della Lega Giulio Centemero. Intercettato, il costruttore prima parla di Giovanni Malagò, il presidente del Coni, e delle manovre per accaparrarsi il progetto del nuovo stadio del Milan. Poi passa alla politica: «...A marzo succedono due cose: ci sono le elezioni regionali e nazionali», ragiona il costruttore. Parnasi - trascrivono gli investigatori nel brogliaccio agli atti dell'inchiesta - pensa che le elezioni regionali vengano vinte dalla Lega, «infatti sta organizzando una cena con alcuni appaltatori e Matteo Salvini per il 19 a Roma e dice che la farà a casa sua per evitare che vengano beccati... che ci saranno altre 7 - 8 persone e la farà in maniera riservata per dare sostegno alla Lega. Luca dice che la Lega è molto importante a livello nazionale, le ipotesi sono che ci sarà un un inciucio Forza Italia- Pd. Oppure 5 Stelle e Lega, e se questo dovesse succedere loro sono in buoni rapporti con entrambi e nessuno in Italia è in questa condizione». Parnasi rivela al suo collaboratore che il 19 ci saranno altri «appaltatori» per dare un sostegno alla Lega, perciò desidera la massima riservatezza e sceglie il suo appartamento per celebrare il Capitano. Il leader leghista insieme al tesoriere Centemero e Giorgetti a cena a casa del costruttore della Capitale. E nelle chat, che l'Espresso pubblica in esclusiva, la domanda: «Per Iban et similia facciamo de visu o vuoi tutto in anticipo?» Chi sono gli appaltatori di cui parla Parnasi? Non è dato saperlo. Di certo, però, tre giorni dopo, il 9 dicembre, Parnasi e Centemero si scrivono sulla chat di telegram: «Sto organizzando il 19 a casa mia. Che ne dici?». «Direi ottimo. Fammi avere coordinate e ora per favore», risponde il tesoriere della Lega. «Viene anche Giancarlo ok?», prosegue nella chat il leghista, che subito dopo aggiunge: «Per Iban et similia facciamo de visu o vuoi tutto in anticipo?». «Okay. Io sono a Milano oggi e domani. Se vuoi ci incrociamo», ribatte il costruttore. Coordinate bancarie, appaltatori misteriosi, politici di peso. I preparativi del banchetto natalizio ai Parioli procedono spediti. Per Parnasi, dunque, l'invito del Capitano della Lega è funzionale ai suoi progetti, vuole dargli un ulteriore sostegno oltre ai 250 mila euro dati sotto forma di donazione all'associazione Più Voci del tesoriere del Carroccio. E per centrare l'obiettivo unisce le forze, raccoglie attorno al tavolo un gruppo di «appaltatori» di fiducia. Gente che conta nella Capitale, convinti che Salvini sia il prossimo cavallo vincente della politica italiana. La registrazione del 6 dicembre nello studio di Parnasi è agli atti dell'indagine “Rinascimento”, che partendo dal nuovo stadio della Roma si è allargata a macchia d'olio. Ha coinvolto un pezzo dei 5 stelle capitolini, primo fra tutti l'attuale presidente del consiglio comunale Marcello De Vito. E si è dipanata lungo altre direttrici, seguendo i rivoli dei soldi offerti dal costruttore ai partiti. Nel troncone del finanziamento illecito sono coinvolti i tesorieri Francesco Bonifazi e Giulio Centemero. Il primo all'epoca ancora nel Pd, ora a Italia Viva, il secondo, è il fedelissimo commercialista, e deputato, di Matteo Salvini. L'Espresso ha ricostruito tutti gli incontri tra Salvini e Parnasi scovando le chat dell'applicazione telegram sequestrate dai carabinieri sul telefonino del costruttore romano. Chat finite nel fascicolo di chiusura indagini sul finanziamento illecito. I pm contestano al tesoriere della Lega di aver incassato tramite l'associazione Più Voci 250 mila euro da Parnasi tra il 2015 e il 2016. L'esistenza della Più Voci e le donazioni ricevute da Parnasi erano state rivelate da L'Espresso ad aprile 2018. Proprio lo scoop ha dato il via all'indagine della procura di Roma, che due settimane fa ha terminato la fase preliminare ed è pronta a chiedere il rinvio a giudizio.

“CON PARNASI SONO ANCHE ANDATO ALLO STADIO”. Dalle assoluzioni alla denuncia della Cucchi. I guai infiniti di Salvini, bersaglio dei Pm. Archiviato per la Alan Kurdi, il leghista resta nel mirino di avversari e toghe. Chiara Giannini, Sabato 23/11/2019, su Il Giornale. Il Tribunale dei ministri ha archiviato l'indagine a carico di Matteo Salvini per la Alan Kurdi della Ong Sea Eye, ma i guai giudiziari del leader della Lega non sono ancora finiti. Quello che sembra un vero e proprio accanimento dei magistrati nei suoi confronti sta proseguendo a ritmo serrato. La maggior parte delle grane dell'ex ministro dell'Interno sono relative alla questione migranti, che lui ha cercato di risolvere in ogni modo. È ancora in essere l'indagine successiva alla querela per diffamazione presentata da Carola Rackete, la comandante di Sea Watch 3 che prima fu coinvolta in una collisione con una motovedetta della Guardia di finanza e poi fu arrestata e rilasciata. La Rackete è la stessa che trasportò sulla sua nave, come raccontato all'epoca dal Giornale, tre torturatori libici fino alle coste italiane. Salvini la chiamò «viziatella tedesca», appellativo che scatenò le ire dei buonisti di tutta Europa. È invece di due giorni fa la notizia dell'indagine a carico dell'ex vicepremier da parte della Procura di Agrigento per i fatti della Open Arms, la nave rimasta per 20 giorni, ad agosto scorso, di fronte a Lampedusa. Il Viminale vietò alla Ong di entrare in acque nazionali, ma i magistrati siciliani imposero lo sbarco adducendo motivi di salute dei migranti, poi rivelatisi falsi. «Ho fatto quello che gli italiani mi chiedevano di fare, ho difeso i confini, lo rifarei», ha commentato Salvini non appena appresa la notizia. Si ricorda poi il caso della Diciotti, per cui il reato ipotizzato fu quello di sequestro di persona. Fu la Giunta per le autorizzazioni del Senato a salvare il leader della Lega di fatto negando il processo richiesto dal Tribunale dei ministri di Catania. La decisione della Giunta arrivò dopo il voto online sulla piattaforma Rousseau dei 5 stelle, allora alleati di governo della Lega, che decisero per il no al processo, di fatto graziando l'alleato. E si attende anche la decisione del Tribunale dei ministri di Catania per il caso di nave Gregoretti, per il quale l'ex ministro era accusato di sequestro di persona e il pm ha chiesto l'archiviazione. Un altro attacco è arrivato in questi giorni da Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, per la cui morte sono stati condannati alcuni carabinieri. Salvini, a poche ore dalla sentenza, aveva pronunciato la frase «questa è la dimostrazione che la droga fa male». Restando nel campo degli stupefacenti, qualche tempo fa il leader della Lega fu querelato anche dalla titolare di un negozio di canapa light in provincia di Bologna per le sue frasi sull'uso della droga leggera. Si è quindi svolta a Torino lo scorso 5 novembre la terza udienza del processo per vilipendio alla magistratura nei confronti del leader leghista, che non si avvarrà dell'immunità parlamentare. Nel corso di un congresso federale aveva definito «stronzi» i magistrati che «male amministrano la Giustizia», appellandoli come una «schifezza e un cancro da estirpare». Sarà per questo che lo hanno preso di mira?

(ANSA il 22 novembre 2019) - Il tribunale dei Ministri, accogliendo la richiesta della Procura di Roma, ha archiviato l'indagine che vedeva indagato l'ex ministro degli Interni, Matteo Salvini, per abuso d'ufficio e rifiuto di atti di ufficio per la vicenda Alan Kurdi della ong Sea Eye del 3 aprile 2019. Archiviata anche la posizione del prefetto Matteo Piantedosi, capo di gabinetto del Viminale. La nave della Ong tedesca soccorse al largo della Libia 64 migranti che si trovavano a bordo di un gommone. Dopo il "no" di Salvini allo sbarco, la nave, con a bordo donne e bambini, raggiunse il 13 aprile Malta e i migranti furono distribuiti tra Germania, Francia, Lussemburgo e Portogallo.

Maurizio Caverzan per “la Verità” il 22 novembre 2019. Reduce da un' incursione in Campania, tra Sorrento e Positano, anche lì Matteo Salvini ha trovato ad accoglierlo il movimento delle sardine.

È più contento o preoccupato vedendo che mobilita le piazze contro?

«Sono contento della tanta gente che viene ad ascoltare e che partecipa. Non sono mai preoccupato per me personalmente, ma le manifestazioni fatte contro l' opposizione e con il sostegno del governo, mi sembrano un evento che accade raramente e non propriamente nelle democrazie.

Capisco che si vada in piazza contro le scelte sbagliate di un governo. Non capisco che si manifesti preventivamente contro l' opposizione, temendo che vada al governo».

Quindi è un fatto che la stupisce, ma non la preoccupa?

«È un fatto che dà valore aggiunto perché tutti si accorgono di quello che facciamo. Sono felice che dove andiamo noi ci siano proposte, mentre fuori ci sono mediamente insulti e vaffanculo. Sono due idee di Italia ben diverse».

Dalle sardine arrivano fischi e insulti?

«Se si dà un' occhiata sui social se ne trovano di tutti i colori e quindi lasciamo perdere. Non mi cambia la vita, ne ho viste tante».

La inseguono di città in città.

«Mi spiace per loro. Chi insegue Salvini vuol dire che ha tanto tempo.

Finché restiamo nell' ambito democratico e del rispetto ci può stare. Quando questo inseguimento fa parte di un complesso mediatico e di demonizzazione dell' avversario ricorda il circolo perverso degli anni bui del secolo scorso. Gli appelli degli intellettuali contro una persona non hanno mai fatto bene all'Italia».

In Emilia Romagna le sardine hanno oscurato lo scandalo di Bibbiano?

«Mi ha sconcertato che qualcuno di loro abbia detto che "almeno non si parla più di Bibbiano". Come se le famiglie che chiedono chiarezza e rispetto non esistessero. Mi auguro che quelli che la pensano così siano persone isolate.

Colgo l' occasione di questa intervista per ricordare a chi sta amministrando bene la giustizia che le famiglie aspettano risposte, e che non si possono attendere i tempi della politica per avere sentenze chiare, magari sperando che tutto finisca nel dimenticatoio. Prima del voto ci sono ancora due mesi di appuntamenti e incontri, perciò sono fiducioso. In Umbria ho vinto qualche caffè e scommetto che il 26 gennaio in Emilia Romagna vincerò qualche tisana con Lucia Borgonzoni governatrice».

C' è chi sostiene che la sua campagna elettorale la oscura.

«È l' unica accusa che riescono a farmi. Me l' hanno fatta anche in Sardegna, in Basilicata, in Umbria, ora in Emilia Romagna. Forse il Pd si vergogna di sé stesso e dunque non capisce quanto sia normale che il leader di un partito vada nelle piazze a incontrare le persone. Forse a Matteo Renzi, Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti potrebbe bastare un bar».

Che cosa ha trovato a Sorrento e Positano?

«Intanto voglio sottolineare che fino a qualche anno il fatto che i sindaci di Sorrento e Positano entrassero nella Lega sarebbe stato considerato un film di fantascienza. Sono due cittadine ben amministrate, con la raccolta differenziata al 70%, che appartengono a quella Campania da valorizzare, mandando a casa De Luca e De Magistris».

Come risponde a Conte che l' ha definita «sovranista da operetta»?

«Il Presidente del consiglio è più impegnato a insultare me e difendersi dalle accuse di conflitti di interessi e inchieste sui servizi segreti che a risolvere i problemi del Paese. Lo vedo piuttosto confuso.

Se si riferisce alla vicenda del Meccanismo europeo di stabilità è in torto marcio, perché tutti noi gli abbiamo sempre detto che non andava modificato. Oggi togliamo pure l' opinione di Salvini che è un pericoloso sovranista, anche l' Abi (Associazione bancaria italiana ndr) dice che questo trattato è pericoloso per i risparmi degli italiani. Il dubbio è che per salvare la sua faccia abbia dato la sua parola che l' Italia avrebbe detto approvato il trattato Salvastati. Che, in realtà, serve a salvare le banche tedesche con i soldi degli italiani».

Nel giugno scorso eravate al governo con il M5s: perché Conte avrebbe dovuto disattendere le indicazioni che venivano dai suoi partner?

«Il no a quel trattato era opinione comune sia della Lega che dei 5 stelle. Un' indicazione ribadita in ogni occasione pubblica e privata. Non capisco come si possa trasformare il no in un ni, un sì, un forse. Se domani Conte chiamerà La Verità dicendo che non firmerà mai un trattato del genere per me la polemica è chiusa. Invece, vedo che si trincera dietro supercazzole del pacchetto, delle tempistiche Per me, o è sì o è no».

Mes, Ilva, manovra: quanto durerà ancora il governo giallorosso?

«È durato già troppo perché i messaggi economici lanciati sono devastanti. Se alle imprese nel mondo trasmetti l' idea che l' Italia è un paese inaffidabile poi è difficile recuperare».

Conte dice che il suo governo ha tagliato le tasse per 26 miliardi, 23 di mancato aumento dell' Iva più 3 di taglio del cuneo fiscale.

«In realtà, la Corte dei conti certifica l' esistenza di 17 miliardi di tasse in più. Se passano come taglio delle tasse il mancato aumento dell' Iva, allora grazie tante... Anche l' anno scorso l' Iva non è aumentata. Del resto, gli italiani l' hanno capito, non a caso in questo periodo abbiamo visto in piazza i benzinai, i vigili del fuoco, i poliziotti, i pensionati, gli agricoltori, il mondo della scuola è in agitazione, per non parlare delle partite Iva alle quali è stata scippata la Flat tax fino a 100.000 euro. Per recuperare denaro, l' ultima che hanno inventato è la tassa sulla sigaretta elettronica. Mentre tutto il mondo normale aiuta chi smette di fumare anche con le sigarette elettroniche che sono meno dannose, noi stiamo pensando di tassarle. Mi sembra che siano alla canna del gas».

Nota un rinnovato attivismo delle procure verso di lei?

«Non ci si abitua mai. Mi domando se qualcuno in procura ad Agrigento sia ossessionato da me e non abbia altri reati veri da perseguire visto che mi stanno onorando della seconda o terza inchiesta. Il 90% della magistratura è sana, equilibrata e non politicizzata, poi c' è una piccola parte che storicamente prova a usare le aule di tribunale come cabine elettorali. Va bene, mi sorbirò un tot di processi vari ed eventuali».

Secondo lei, se si dovesse votare in Parlamento sul sequestro di persona per la Open arms, stavolta il M5s la difenderà come in occasione del voto sulla Diciotti?

«Se è coerente, sì. È sempre stata una scelta mia e dell' intero governo difendere i confini e disincentivare gli sbarchi. Lo stop all' immigrazione clandestina era nel programma elettorale, vediamo al voto. Non sono preoccupato, ma curioso».

È rispuntata anche un' intercettazione relativa a una cena con l' imprenditore Luca Parnasi, già arrestato per un' indagine sui lavori dello stadio di Roma. C' è stata o no quella cena?

«Ce ne sono state più d' una. Io ceno e pranzo sistematicamente con imprenditori. Anche stamattina ne ho incontrati una quindicina. Con Parnasi sono anche andato allo stadio e mi piaceva il progetto di quello per Roma. Poi, se ha sbagliato e commesso degli errori, giudicherà la giustizia italiana».

In quella cena si sarebbe concordato un finanziamento alla Lega di 250.000 euro attraverso l' associazione «Più voci».

«Io non faccio l' amministratore. Non raccolgo denaro, ma idee. Le persone che collaborano con me lavorano in modo corretto. Lo dice lo stesso Parnasi: "Non erano soldi dati alla Lega"; non ho motivo di dubitarne».

Quando è nato il nuovo Salvini, istituzionale e dialogante?

«Io non mi accorgo di tutti questi cambiamenti. Ho letto un lungo articolo che spiegava la mia scelta di indossare il dolcevita e i pantaloni di velluto a Bologna con il fatto che l' Emilia Romagna è di sinistra e quindi anch' io mi adeguavo allo stile locale. Mi sono divertito, pensando che d' inverno mi sono sempre vestito così. A volte sono dialogante altre volte burbero, ho sempre provato ad ascoltare. Se mi chiedono un giudizio su Mario Draghi, rispondo».

Magari senza candidarlo al Quirinale, però.

«Non ho candidato nessuno. Anche in passato a precisa domanda ho risposto che ha fatto bene il suo lavoro. Come si fa a parlare oggi del Presidente della Repubblica che si eleggerà tra due anni e mezzo? Draghi non mi sento di dire che è una pessima persona, tutt' altro. Certe sfumature si notano più da fuori. Il leader del primo partito nazionale deve ascoltare tutti. Per esempio, mi ha fatto molto piacere l' intervista del cardinal Camillo Ruini».

Che ha incontrato qualche giorno fa. Ci può svelare qualcosa degli incontri riservati di questo periodo con Ruini, con l' arcivescovo di Bologna, Matteo Zuppi, e con Liliana Segre?

«No. L' incontro con Ruini è di dominio pubblico e spero sia il primo di una serie di altri. Ruini è una persona di una ricchezza tale dalla quale ho solo da imparare. Gli altri incontri, se ci sono stati, rimangono riservati».

L' impegno diplomatico maggiore del nuovo Salvini è nella direzione della Chiesa e del Vaticano?

«Ci sono stati tanti incontri anche prima. Incontri che rimangono per me e per chi c' era. Sicuramente l' apertura anche pubblica di qualche cardinale ha favorito un dibattito importante, ma anche prima avevo incontrato qualcuno in Vaticano. La distanza è molto più ridotta di quanto la raccontano Famiglia cristiana e Avvenire, per i quali io dovrei essere già all' inferno e la Lega dovrebbe essere fuori legge. Fortuna che i cattolici, come i buddisti e gli appartenenti a ogni religione, pensano con la loro testa».

Pensa che avrebbe potuto sospendere il riferimento alla droga che fa male nel giorno della condanna dei carabinieri per la morte di Stefano Cucchi?

«No, perché penso 365 giorni all' anno che la droga fa male. C' è troppa informazione e politica che strizza l' occhio agli stupefacenti. C' è chi dice che fa bene, che tiene svegli».

Matteo Renzi dice al Pd di non andare a elezioni perché si regalerebbe il Quirinale alla Lega.

«Abbiamo al governo gente che oltre a essere incapace è pericolosa perché impedire le elezioni altrimenti vincono gli altri e occupano le istituzioni è qualcosa di volgare. Se gli italiani ci voteranno non manderemo certo un marziano al Quirinale. Non so come potranno resistere altri due anni e mezzo al governo litigando su tutto».

Qualcuno ipotizza anche un avvicinamento tra i due Matteo in vista di un bipolarismo alternativo che porterà a escludere Conte, Zingaretti e Di Maio.

«Sono anni luce lontano da Renzi e in ogni caso penso che di Conte e Zingaretti rimarrà poco nella storia patria. Lavoro affinché potremo tornare più efficienti ed efficaci al governo. Tra un anno, sei mesi o quando sarà. Ma presto o tardi sarà».

Finanziamenti alla Lega, ora rischia  il processo il tesoriere Centemero. Pubblicato domenica, 21 aprile 2019 da Fiorenza Sarzanini su Corriere.it. Finanziamenti alla Lega in cambio di favori sui provvedimenti di legge. Agganci e contatti con la rete sovranista europea per garantirsi corsie preferenziali negli affari collegati al settore dell’eolico, ma anche delle altre società del gruppo «Arata» e riconducibili all’imprenditore palermitano inquisito per mafia Vito Nicastri. Si concentrano anche su questo le verifiche della Procura di Roma che ha indagato per corruzione il sottosegretario Armando Siri con l’accusa di aver accettato 30mila euro da Paolo Arata. Ma nuovi guai giudiziari potrebbero presto coinvolgere il Carroccio. Perché la prossima settimana sarà chiuso il fascicolo sui finanziamenti alla politica del costruttore Luca Parnasi. E a rischiare il processo per finanziamento illecito è il tesoriere Giulio Centemero. Accusato di aver preso 250mila euro finiti sui conti della Fondazione «Più voci» e poi «girati» a Radio Padania. C’è una convention, organizzata nel 2017 a Piacenza, che fa ben comprendere quanto stretti fossero i rapporti tra Paolo Arata e i vertici della Lega. Il 16 luglio di due anni fa uno dei protagonisti dell’evento «Facciamo squadra, costruiamo il futuro», è proprio l’imprenditore che è stato anche parlamentare di Forza Italia. Viene chiamato come relatore, parla su un palchetto dove ci sono i simboli cella campagna elettorale per «Salvini premier». Illustra una sorta di programma che prevede «un sistema diverso di produzione energetica». Perché, spiega, «noi vogliamo piccole e medie centrali con piccole linee. Idem per le rinnovabili. Poi bisogna portare avanti, insieme alle idee, anche i nostri uomini affinché le portino avanti». Salvini approva e rilancia le proposte via Twitter con l’hashtag #Arata. In platea ci sono i big del partito, compreso Giancarlo Giorgetti, che poi — si è scoperto due giorni fa — una volta approdato a Palazzo Chigi da sottosegretario alla presidenza, chiamerà come consulente il figlio di Arata, Federico. Il suo contratto è già stato registrato dalla Corte dei conti. Il ragazzo, che ha 33 anni, vanta un curriculum prestigioso come economista ed esperto di relazioni internazionali. È stato lui a mettere in contatto Salvini con Steve Bannon, l’ideologo sovranista che ha curato la campagna elettorale di Donald Trump, ha accompagnato il leader leghista negli Stati Uniti e recentemente si sarebbe occupato di organizzare la trasferta di Giorgetti a Washington. Con i leader leghisti ha frequentazioni costanti, sarebbe stato proprio lui ad agevolare i contatti in Vaticano compresi quelli con il cardinale Raymond Burke. Nei mesi scorsi ha «scortato» Siri a Londra, e adesso l’incarico affidato dal procuratore aggiunto Paolo Ielo e dal sostituto Mario Palazzi agli investigatori della Dia è di ricostruire lo scopo di queste missioni, i contatti esteri ed eventuali trasferimenti di denaro. La ricostruzione dei flussi finanziari è certamente una delle priorità dell’indagine che ha già fatto emergere l’esistenza di altre dazioni che dovranno essere adesso verificate. Soldi usciti dalle casse del gruppo «Arata» di cui l’imprenditore Paolo parla con l’altro figlio Francesco, indagato nel filone dell’inchiesta palermitana. E non fa mistero del fatto che il denaro servisse ad ottenere provvedimenti legislativi favorevoli. A Siri avevano chiesto una deroga per la concessione degli incentivi, ma prima i responsabili del gabinetto di Luigi Di Maio al ministero per lo Sviluppo Economico, poi il ministro 5Stelle Riccardo Fraccaro, hanno bloccato i suoi emendamenti. Il «sistema» di pagare la politica per ottenere appalti e lavori era stato usato pure da Parnasi. Nel suo interrogatorio dello scorso anno il costruttore ammette di aver versato 250mila euro nel 2015 alla fondazione gestita da Centemero che «servivano a finanziare la Lega», proprio come aveva fatto con il Pd attraverso la «Eyu» di Francesco Bonifazi. Le indagini affidate ai carabinieri hanno dimostrato che i soldi sono finiti poi all’emittente radiofonica del Carroccio ma senza che il pagamento fosse registrato, anzi attraverso fatture che si sono rivelate contraffatte. Centemero è stato indagato e ha assicurato che «la procedura è stata regolare». Una tesi che non sembra aver convinto i magistrati. La prossima settimana l’inchiesta sarà chiusa e per Centemero — così come per Bonifazi — sembra scontato che si andrà alla richiesta di rinvio a giudizio per finanziamento illecito.

I commercialisti. Da Report del 16 giugno 2019, di Luca Chianca. Collaborazione di Alessia Marzi. I magistrati della Procura di Genova hanno acquisito la registrazione della scorsa puntata di Report. Stanno indagando sul contratto che il Gruppo parlamentare della Lega al Senato ha stipulato per la comunicazione social con una società della cognata del direttore amministrativo del gruppo alla Camera, Alberto di Rubba. Il contratto è stato interrotto qualche mese dopo, ma 87 mila risultano essere stati girati ad alcuni membri dello staff del ministro Salvini. Per sapere chi gestisce la cassa della Lega di Salvini Premier bisogna andare a Bergamo, in un immobile dove il partito ha trasferito la sede di alcune società e associazioni gestite da tre professionisti: Giulio Centemero, tesoriere della Lega, Andrea Manzoni e Alberto Di Rubba, rispettivamente i revisori contabili dei gruppo alla Camera e al Senato. Ed è in questo studio di Bergamo che a dicembre scorso i magistrati della procura di Genova, hanno sequestrato decine di carte di alcune società. L'ipotesi è che potrebbero essere state utilizzate per portare all'estero parte dei 49 milioni di euro di rimborsi elettorali percepiti e rendicontati con irregolarità. Ma seguendo le tracce dei commercialisti di Bergamo siamo finiti a Milano in un altro studio di commercialisti dove Matteo Salvini ha fatto registrare, per un breve periodo, la sede del suo nuovo partito e dove abbiamo trovato un altro commercialista con interessi nella Lombardia Film Commission, guidata fino allo scorso anno da Alberto Di Rubba, che ha comprato un fabbricato da 800mila euro. Seguendo chi ha incassato buona parte dei soldi pubblici della Lombardia Film Commission, Report è finito con il tornare da dove era partito, nelle valli bergamasche, e più esattamente proprio nel paese di Di Rubba.

I commercialisti. Puntata del 10/06/2019 Luca Chianca su Report Rai3.

LUCA CHIANCA Questo è il vecchio albergo, no?

SIMONE DE FRANCESCHI – CGIL BERGAMO Questo dovrebbe essere, sì, il vecchio albergo. Vecchio? Quello che c'è.

LUCA CHIANCA Qui sotto passa l'acqua delle fonti.

SIMONE DE FRANCESCHI – CGIL BERGAMO Esatto, esatto, esatto.

LUCA CHIANCA E qui casualmente… Un simbolo?

SIMONE DE FRANCESCHI – CGIL BERGAMO Siamo nella patria noi della Lega Nord qui, eh. Risale ai tempi...

LUCA CHIANCA Risale ai tempi storici di Bossi.

SIMONE DE FRANCESCHI – CGIL BERGAMO Bossi, esatto.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Fonti di Gaverina. Provincia di Bergamo. Antonio Borra, è uno degli storici soci della stazione termale. Purtroppo le cose sono andate male. Terme e la società di imbottigliamento dell'acqua sono state messe all'asta.

ANTONIO BORRA - SOCIO FONTI DI GAVERINA Le aste sono andate male perché nessuno si è presentato. Solo all'ultima, recentemente, a febbraio, una società che ancora non sappiamo chi sia, perché ufficialmente non risulta nei libri sociali, ha acquistato il 54% di azioni della nostra società.

LUCA CHIANCA A quanto?

ANTONIO BORRA - SOCIO FONTI DI GAVERINA Per una cifra di poco superiore ai 700mila euro e la prima asta era partita da 6 milioni di euro.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO A detta di Borra all'asta si sono presentati un ex distributore e un commercialista che con 718mila euro si son portati a casa la maggioranza delle quote.

LUCA CHIANCA Sono preoccupati gli operai?

SIMONE DE FRANCESCHI – CGIL BERGAMO Son preoccupati più che altro per l'assenza di informazioni che ci sono.

LUCA CHIANCA Voi avete capito di chi è la proprietà? Cioè chi c’è dietro?

SIMONE DE FRANCESCHI – CGIL BERGAMO No.

ANTONIO BORRA – SOCIO FONTI DI GAVERINA Il mio obiettivo è di sapere se queste persone che entrano, siano persone serie e soprattutto che i soldi siano puliti.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Chi ha acquistato le terme di Gaverina in provincia di Bergamo? Il nostro Luca Chianca si è messo sulle tracce di quella girandola di commercialisti che ruotano intorno alla figura del tesoriere della Lega Centemero. Alcuni di questi nomi spuntano dalle carte dei magistrati che indagano sui 49 milioni dei contributi elettorali, di rimborsi elettorali che dovevano essere erogati solo dopo rendicontazione. Quella presentata dall’ex tesoriere Belsito era truccata. C’erano dentro i fondi in Tanzania, l’acquisto di diamanti, le spese pazze della famiglia Bossi. Solo che di questi contributi ne avrebbero anche beneficiato in seguito i leader Maroni e Salvini. Questo perché i rendiconti truccati, la rendicontazione truccata avrebbe consentito l’erogazione anno per anno e fino al 2014. Dagli ultimi però bilanci emerge che 30 milioni di euro sono fuoriusciti dalle casse del partito in spese per “oneri diversi di gestione e contributi alle associazioni”, senza specificare quali. Un’associazione, quella “Più voci” che fa riferimento direttamente al tesoriere Centemero è entrata anche sotto la lente della Procura di Roma per via di un finanziamento - 250mila euro – del costruttore Luca Parnasi. La sede dell’associazione “Più voci” è a Bergamo all’interno di uno studio di commercialisti leghisti Andrea Manzoni e Alberto di Rubba. Manzoni è il revisore dei conti del gruppo parlamentare al Senato della Lega, Alberto Di Rubba invece è direttore amministrativo del gruppo parlamentare alla Camera e amministratore della Pontida Fin, l’immobiliare della Lega. Nella perquisizione i magistrati hanno trovato delle carte che riferivano di società amministrate dal tesoriere della Lega e da uno dei due commercialisti leghisti che erano schermate all’interno di alcune fiduciarie che poi son passate di mano e sono state acquisite da un’anonima lussemburghese. È proprio in Lussemburgo che i magistrati sospettano siano finiti parte di quei 49 milioni di euro. Perché c’è questo labirinto così nebuloso intorno a chi gestisce le casse del partito? Luca Chianca è andato a vedere chi ha comprato le terme, intanto, e poi da lì ha tirato il filo.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO A presentarsi come acquirente è un commercialista che ha sede a Bergamo. Si chiama Aldo Ventola e il suo nome spunta fuori anche in diverse società offshore che compaiono nei Paradise Papers.

LUCA CHIANCA Salve, il dottor Ventola?

SEGRETARIA ALDO VENTOLA Non è in ufficio per cosa le serviva?

LUCA CHIANCA Sono Chianca lo sto chiamando da due giorni…

LUCA CHIANCA E quando lo trovo?

SEGRETARIA ALDO VENTOLA Non le so dire. Però l'ho avvisato. Quindi la ricontatta appena ha un attimo lui.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Non ci ha mai ricontattato. Ma sempre a Bergamo incontriamo un altro commercialista, Giorgio Balduzzi, in stretti rapporti con lo stesso Aldo Ventola, al punto di avere società con lo stesso nome, con un socio in comune.

GIORGIO BALDUZZI – COMMERCIALISTA EX AD SEVEN FIDUCIARIA Aldo Ventola ha fatto una cosa di cui non ero neanche al corrente, che è quello di aver creato una società con la stessa denominazione della mia, diciamo di quella che amministro, la spa.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Giorgio Balduzzi ha avuto rapporti con i nuovi commercialisti bergamaschi della Lega di Salvini: Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni. A dicembre scorso i magistrati della procura di Genova, che indaga alla ricerca dei 49 milioni, sequestrano nel loro studio decine di carte di alcune società rappresentate dalla Seven Fiduciaria, guidata proprio da Giorgio Balduzzi fino al 2016.

GIORGIO BALDUZZI – COMMERCIALISTA EX AD SEVEN FIDUCIARIA Finché non sono stato io lì a vedere le operazioni, non ho mai visto passare più di 10mila euro nel capitale sociale, quindi… Poi cosa succedeva nell'amministrazione di quelle società? Noi...

LUCA CHIANCA Ipotizziamo che siano le società veicolo per riciclare soldi…

GIORGIO BALDUZZI – COMMERCIALISTA EX AD SEVEN FIDUCIARIA È chiaro.

LUCA CHIANCA Lei che è capo della fiduciaria, avrà una responsabilità no?

GIORGIO BALDUZZI – COMMERCIALISTA EX AD SEVEN FIDUCIARIA Penso di sì.

LUCA CHIANCA Eh. GIORGIO BALDUZZI – COMMERCIALISTA EX AD SEVEN FIDUCIARIA Però non credo, a meno che dalle mie informazioni non penso che siano state utilizzate, però se invece voi avete informazioni diverse….

LUCA CHIANCA Però è vero o no che abbiamo difficoltà a capire tutti i movimenti?

GIORGIO BALDUZZI – COMMERCIALISTA EX AD SEVEN FIDUCIARIA Eh, sono fatte apposta le fiduciarie.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Le società attenzionate dalla Procura di Genova hanno tutte sede in via Angelo Maj 24, a Bergamo. In due di queste troviamo come amministratori Andrea Manzoni, revisore contabile della Lega al Senato e Giulio Centemero, tesoriere della Lega. L'ipotesi della Procura è che potrebbero essere state utilizzate per portare all'estero soldi del partito. Le società sono schermate dalla Seven Fiduciaria, che Balduzzi cede qualche anno fa ad Angelo Lazzari.

LUCA CHIANCA Lei anche è commercialista?

ANGELO LAZZARI – IMPRENDITORE FINANZIARIO Io no, no, purtroppo sono un pessimo ingegnere.

LUCA CHIANCA Ingegnere addirittura?

ANGELO LAZZARI – IMPRENDITORE FINANZIARIO Che non c'entro proprio niente.

LUCA CHIANCA E come c'è finito in tutta sta storia?

ANGELO LAZZARI – IMPRENDITORE FINANZIARIO Eh, dimmelo tu.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Lazzari compra la fiduciaria di Balduzzi con in pancia le due società che fanno riferimento al revisore dei conti e al tesoriere della Lega, attraverso alcune società riconducibili a una anonima lussemburghese.

LUCA CHIANCA Che oggi sappiamo che è la sua, però per alcuni anni è rimasta anonima.

ANGELO LAZZARI – IMPRENDITORE FINANZIARIO E vabbè la riservatezza; penso che non è bello vedersi scritto sui giornali, non ho nulla da nascondere però.

LUCA CHIANCA C'è pure chi usa le anonime per….

ANGELO LAZZARI – IMPRENDITORE FINANZIARIO Sì, io parlo per me.

LUCA CHIANCA Per riciclare soldi, per nascondere soldi no?

ANGELO LAZZARI – IMPRENDITORE FINANZIARIO Alla grande.

LUCA CHIANCA Diciamo la pista dei magistrati era proprio quella: seguire dove sono andati i soldi della Lega e si sono ritrovati davanti una struttura di fiduciarie anonime.

ANGELO LAZZARI – IMPREDNITORE FINANZIARIO Allora io le so dire: da queste società non c'è stato nessun movimento di denaro, punto. Nessuno. Dalle società. All'interno può esser successo di tutto. Sono dei clienti, sono dei clienti.

LUCA CHIANCA Suoi.

ANGELO LAZZARI – IMPRENDITORE FINANZIARIO Suoi… Della fiduciaria, non miei.

LUCA CHIANCA Eh beh, ma la fiduciaria è la sua…

ANGELO LAZZARI – IMPREDNITORE FINANZIARIO Sì, ho capito.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Lazzari è stato recentemente indagato per truffa e autoriciclaggio per un'altra vicenda, mentre per la storia delle società legate ai commercialisti della Lega, solo dopo la perquisizione della Finanza, ha passato tutto nelle mani del professore Massimo Merlino, ex presidente del Credito Industriale Sanmarinese, banca da poco commissariata.

LUCA CHIANCA Vabbeh io però mi sarei interessato – no? - delle mie… cioè capire chi ho dentro, per vedere che fanno, chi sono. Anche perché poi spuntano nomi del genere come il tesoriere della Lega.

ANGELO LAZZARI – IMPRENDITORE FINANZIARIO Ma quella è la sfiga che mi sono beccato io di andare a compare ‘sta roba; Che poi queste persone abbiamo fatto le loro cose io spero andate avanti e indagate. È impossibile che non si sappia dove sono finiti 49 milioni di euro. Ma come cazzo fanno a sparire? C'è qualcosa che non mi torna; mah.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Neppure ai magistrati torna. Insomma, cerchiamo di ripercorrere questo labirinto. Il commercialista Ventola acquista le terme: lui è legato a un altro commercialista, Balduzzi, che è a capo di una fiduciaria, la Seven, che ha in pancia due società amministrate una dal tesoriere della Lega Centemero e l’altra da Andrea Manzoni, che è il revisore dei conti del gruppo parlamentare della Lega al Senato. Dice Balduzzi: io non ho visto però movimenti di denaro uscire da queste società, quello che accadeva là dentro però non lo so. D’altra parte poi la fiduciaria a questo serve, a schermare i movimenti di quello che avviene all’interno di queste due società. Poi però, dopo il 2016 questa fiduciaria con in pancia le due società amministrate dai commercialisti leghisti le vende a un ingegnere Angelo Lazzari, che le acquista attraverso un’anonima lussemburghese. Anche lui dice: “io non ho visto movimenti, non ho visto uscire del denaro” e quando Luca gli chiede: “ma scusi, ma lei come è finito in questa storia? Lui fa: “E che ne so, me lo dica lei, dimmelo tu, Luca, aiutami tu a capire”. Poi dopo anche Lazzari vende e passa di mano la fiduciaria al professor Merlino, ex presidente della banca industriale San Marinese. Ora, né il tesoriere Centemero né gi altri due commercialisti Di Rubba e Manzoni hanno voluto parlare con noi: invece chi gestisce le casse di un partito dovrebbe rincorrerla la trasparenza e spiegare perché amministra due società che sono all’interno di una fiduciaria che è stata acquisita da un’anonima lussemburghese. Qui invece il labirinto nebuloso si allunga e il nostro Luca Chianca però questa volta tirando il filo di Arianna è riuscito ad arrivare da dove era entrato.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Quando viene creata la Lega per Salvini Premier, qualcuno decide di mettere la sede legale in via Privata delle Stelline numero 1, a Milano, presso lo studio di un altro commercialista Michele Scillieri.

MICHELE SCILLIERI - COMMERCIALISTA Io non so chi sia Salvini. Ho avuto come praticante il dottor Manzoni.

LUCA CHIANCA …che oggi segue i conti…

MICHELE SCILLIERI – COMMERCIALISTA Bravo.

LUCA CHIANCA … della Lega in parlamento insieme a Di Rubba. La coppia.

MICHELE SCILLIERI – COMMERCIALISTA Esatto.

LUCA CHIANCA Però uno si aspetta che almeno la sede di partito sia una sede vera. Con…

MICHELE SCILLIERI – COMMERCIALISTA No, e uno si aspetta questo, bravo.

LUCA CHIANCA Con persone e militanti veri, no? Poi uno suona e risponde lei.

MICHELE SCILLIERI – COMMERCIALISTA Io sono cascato dal pero, perché manco mi ricordavo perché qui non c'è mai stata nessuna riunione, nessun documento…

LUCA CHIANCA Zero.

MICHELE SCILLIERI – COMMERCIALISTA Ma niente. Quando poi è venuto fuori il casino dei soldi, allora ho detto a maggior ragione “ahò ragazzi”!

LUCA CHIANCA Quindi li ha mandati via?

MICHELE SCILLIERI – COMMERCIALISTA E certo.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Dopo lo scandalo dei 49 milioni, il partito di Salvini si accorda con la procura di Genova per restituire i soldi e torna nella vecchia sede di via Bellerio. Scillieri – che ha rapporti con Manzoni e Di Rubba - viene reclutato prima nel collegio sindacale, poi come consulente della Lombardia Film Commission, la fondazione no profit di Regione e Comune di Milano per la promozione del Cinema sul territorio lombardo. A chiamarlo, è proprio Alberto Di Rubba, nominato presidente dall’allora governatore Maroni.

LUCA CHIANCA Lei entra lì in quel giro della Lombardia Film Commission perché c'è di Rubba.

MICHELE SCILLIERI – COMMERCIALISTA Sì, perché c'è Di Rubba. Sì. Sì, non perché…

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Nel 2017 con Di Rubba presidente, Scillieri consulente, decidono di spostare la sede della Lombardia Film Commission, in un fabbricato di Cormano, nord di Milano, spendendo 800mila euro. Ma dagli atti della compravendita emergono delle anomalie.

DAVID GENTILI – PRESIDENTE COMMISSIONE ANTIMAFIA MILANO Il 28 novembre 2017 viene deciso dall'assemblea dei soci di acquistare l'immobile e il 4 dicembre c'è già il compromesso - e va bene - ma nel compromesso vengono versate le intere 800mila euro; quindi non si dà un acconto, una caparra. Viene pagato tutto subito.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Seconda anomalia: a incassare gli 800mila euro della Film Commission – presidente Di Rubba, sindaco e consulente Scillieri – è l’immobiliare Andromeda, cliente dello stesso Scillieri.

LUCA CHIANCA Lei ha contribuito diciamo all'operazione, no?

MICHELE SCILLIERI – COMMERCIALISTA Contribuito... io sono un commercialista, faccio le consulenze.

LUCA CHIANCA Per conto di chi, però?

MICHELE SCILLIERI – COMMERCIALISTA Eh, per conto della società.

LUCA CHIANCA Dell'Andromeda?

MICHELE SCILLIERI – COMMERCIALISTA Sì, era mio cliente.

LUCA CHIANCA Però lavorava e lavora anche per la Lombardia Film Commission lei.

MICHELE SCILLIERI – COMMERCIALISTA Sì, certamente; è pubblico questo. Non è vietato mi sembra.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Terza anomalia: la perizia sul valore dell'immobile viene redatta per conto della stessa Andromeda da Federico Arnaboldi.

DAVID GENTILI – PRESIDENTE COMMISSIONE ANTIMAFIA MILANO Questo Federico Arnaboldi ha un'azienda, possiede un’azienda il cui indirizzo è via delle Stelline 1 che è lo stesso indirizzo dell'ufficio del commercialista Scillieri.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Quarta anomalia: dagli 800mila euro di denaro pubblico incassati dall’immobiliare Andromeda e dalla Lombardia Film Commission, di cui Di Rubba è presidente, parte una tranche di 178mila euro che finisce in una società intestata a una donna, ma riconducibile allo stesso Di Rubba, il commercialista della Lega.

GIOVANNI TIZIAN – GIORNALISTA DE L’ESPRESSO Quindi è una società che era legata sicuramente a Di Rubba, perché è stata costituita da una donna sconosciuta – nel senso che non è legata al partito -, ma il capitale sociale – segnalano i detective di Banca d’Italia, dell’Antiriciclaggio – il capitale è stato versato dallo studio di Dea Consulting, cioè lo studio di Di Rubba.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Ma dall’immobiliare Andromeda, pochi giorni dopo aver incassato gli 800mila euro dalla Lombardia Film Commission, parte un altro bonifico.

FONTE Dopo solo 4 giorni l'Andromeda bonifica 480mila euro a un’altra società la Eco Srl di Pierino Maffeis.

LUCA CHIANCA Chi è Pierino Maffeis?

FONTE Pierino Maffeis è un geometra di Gazzaniga, un paese vicino a quello di Alberto Di Rubba, Casingo. La sua società era stata aperta solamente un mese e mezzo prima.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Dunque dagli 800mila euro incassati dalla Lombardia Film Commission di Di Rubba e Scillieri parte dall’immobiliare Andromeda, cliente dello stesso Scillieri, un’altra tranche di 480 mila euro a favore de La Eco srl di Pierino Maffeis; professione geometra, che dovrebbe fare ristrutturazioni. La sede risulta a Chiaravalle, a sud di Milano.

LUCA CHIANCA Questa società qua non l’ha mai vista qua? Pierino Maffeis?

UOMO No, eh qua no.

LUCA CHIANCA Pierino Maffeis?

UOMO No qua no, Eco srl mai.

LUCA CHIANCA Questa è via San Bernardo 16?

UOMO Sì, sì è questa; sì, sì certo è questa.

LUCA CHIANCA Manca la società, la Eco.

UOMO È ma se non c’è scritta qui come società di riferimento, non lo so.

LUCA CHIANCA Niente, non c'è. UOMO Sarà qualche abusivo.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Per trovare Pierino Maffeis bisogna trasferirsi nella Valle Seriana, a Gazzaniga dove ha sede il suo studio professionale.

LUCA CHIANCA Pierino Maffeis?

PIERINO MAFFEIS Sì.

LUCA CHIANCA Salve, Luca Chianca di Report di Rai3, si può fermare un attimino le devo fare delle domande sui soldi della Lombardia Film Commission. Scusi? Scusi?

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO NUOVO Il signor Maffeis andava di fretta. Peccato, avrebbe potuto spiegarci la quinta anomalia riguardante un ulteriore passaggio di denaro.

FONTE E poi dalla società di Pierino Maffeis sono stati bonificati 390mila euro che finiscono nelle casse della Barachetti Service.

LUCA CHIANCA Di chi è la Barachetti Service?

FONTE È di Francesco Barachetti, un vicino di casa di Alberto Di Rubba.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO NUOVO Alla fine, dal bonifico di 480mila euro a favore de la Eco srl di Pierino Maffeis, ne partono altri per un totale di 390mila euro, verso la società di Francesco Barachetti, vicino di casa del commercialista leghista, Alberto Di Rubba.

LUCA CHIANCA Mi fa incontrare Francesco?

DONNA – BARACHETTI SERVICE È appena uscito.

LUCA CHIANCA Ma noi stavamo qua e non è uscito da nessuna parte.

DONNA – BARACHETTI SERVICE No, no è uscito da un'altra uscita. Perché ha un’altra uscita di là.

LUCA CHIANCA Io devo fargli un po' di domande.

DONNA – BARACHETTI SERVICE Non mi faccia domande perché, a parte che non è il mio ambito, quindi non posso neanche rispondere.

LUCA CHIANCA Almeno i rapporti che ha con Di Rubba?

DONNA – BARACHETTI SERVICE No, non si offenda, guardi non si offenda.

LUCA CHIANCA Tutti i soldi che ha preso dal partito di Salvini?

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Proprio intorno a Francesco Barachetti ruota la sesta anomalia. La sua società di ristrutturazioni nel corso degli ultimi anni avrebbe ottenuto lavori per quasi 1,5 milioni di euro da parte della Lega Nord, Lega di Salvini e dalla Pontida Fin, l’immobiliare del partito. Ma poi Barachetti eroga anche denaro verso i cassieri del partito.

GIOVANNI TIZIAN – GIORNALISTA DE L'ESPRESSO Perché Barachetti poi versa circa 400mila euro nello stesso periodo più o meno, in cui percepisce questi soldi dal partito, versa ai commercialisti della Lega? Commercialisti che sono Centemero, che è il tesoriere del partito, Alberto Di Rubba che è il direttore amministrativo dei conti del gruppo parlamentare alla Camera e Manzoni che è il revisore contabile del gruppo al Senato.

LUCA CHIANCA Questi son tutti nomi riconducibili e strettamente collegati a Di Rubba. Barachetti è un fornitore della Lega, vivono negli stessi paesini, nello stesso paesino di Di Rubba.

MICHELE SCILLIERI – COMMERCIALISTA Sì, sì. Ci sta.

LUCA CHIANCA Qui hanno preso tutti i soldi da questa operazione è una distribuzione di...

MICHELE SCILLIERI – COMMERCIALISTA L'ultimo giro che dice lei per me è novità. Non potevo saperlo, abbia pazienza.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Ma oltre il giro di soldi riguardanti l’acquisto della nuova sede della Lombardia Film Commission, c’è anche un altro passaggio di soldi pubblici anomalo, che sta volta coinvolge direttamente la famiglia di Di Rubba.

FONTE Il 2 maggio 2018, a due mesi dalle elezioni, la cognata di Alberto Di Rubba, Vanessa Servalli, apre una società la Vadolive Srl. Dopo soli 8 giorni il gruppo parlamentare al Senato della Lega di Salvini sottoscrive con lei un contratto da 480mila euro.

LUCA CHIANCA Per fare che cosa?

FONTE Teoricamente per comunicare le attività del gruppo sui canali social…

LUCA CHIANCA Ma scusi: la cognata di Di Rubba che lavoro fa?

FONTE Che io sappia ha un bar a Clusone in provincia di Bergamo.

LUCA CHIANCA Vanessa!

VANESSA SERVALLI – COGNATA DI DI RUBBA Sì?

LUCA CHIANCA Ciao Luca, sono un giornalista di Rai3.

VANESSA SERVALLI – COGNATA DI DI RUBBA Piacere.

LUCA CHIANCA Di Report, piacere mio. Lei è la cognata di Di Rubba, no?

VANESSA SERVALLI – COGNATA DI DI RUBBA Sì.

LUCA CHIANCA Avete aperto a un certo punto una società la Vadolive, a maggio 2018.

VANESSA SERVALLI – COGNATA DI DI RUBBA Non sono tenuta a rispondere.

LUCA CHIANCA Dopo 8 giorni, avevate un contratto da parte del gruppo della Lega al Senato.

VANESSA SERVALLI – COGNATA DI DI RUBBA Io non sono tenuta a rispondere.

LUCA CHIANCA Lei non sa nulla o l'hanno messa lì e poi hanno fatto gli altri? Questo volevo capire. Lei lavora nel campo dei social, della comunicazione? Cioè come fa lei a far aprire una società e ad avere un contratto da 480mila euro con il gruppo del Senato… FONTE Il contratto è stato interrotto dopo qualche mese, ma una parte dei soldi incassati dal gruppo della Lega sono poi stati girati ad alcuni membri dello staff del ministro Salvini che però già all’epoca avrebbero dovuto avere un incarico fiduciario presso il Ministero. Parliamo di circa 87mila euro.

LUCA CHIANCA Nello staff di Salvini chi c'è per esempio?

FONTE Ehm, per esempio Luca Morisi, il consigliere del Ministro Salvini, il guru della comunicazione.

ALESSIA MARZI Senatore Romeo?

MASSIMILIANO ROMEO – CAPOGRUPPO LEGA SALVINI PREMIER AL SENATO Eh stiamo aspettando Matteo Salvini.

ALESSIA MARZI Perché avente sottoscritto un contratto da 480 mila euro con la Vadolive, la società della cognata di Alberto Di Rubba, commercialista della Lega. Società che non aveva esperienza…

MASSIMILIANO ROMEO – CAPOGRUPPO LEGA SALVINI PREMIER AL SENATO Stiamo andando…

ALESSIA MARZI …due mesi dopo le elezioni del 4 marzo.

MASSIMILIANO ROMEO – CAPOGRUPPO LEGA SALVINI PREMIER AL SENATO ...a votare lo Sblocca Cantieri... Parliamo di cose utili. ALESSIA MARZI Questi soldi sono serviti a pagare il guru della Lega Luca Morisi…

MASSIMILIANO ROMEO – CAPOGRUPPO LEGA SALVINI PREMIER AL SENATO Buona giornata a tutti, buon lavoro. Grazie. Buongiorno.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Vanno sempre tutti di corsa quando si tratta di dare delle spiegazioni. Cosa è successo, che dal gruppo parlamentare del Senato di Salvini viene stipulato un contratto di 480 mila euro per divulgare le attività istituzionali del gruppo con una società che è stata fondata otto giorni prima che è di proprietà di una barista, la cognata del direttore amministrativo del gruppo parlamentare alla Camera della Lega, Alberto Di Rubba. È legale tutto questo? Sì, è legale, perché la legge consente ai gruppi parlamentari di affidare direttamente milioni di euro di contributi pubblici a chi dicono loro, purché siano spesi e rendicontati per le attività istituzionali dei gruppi parlamentari. In questo caso è stata utilizzata in questa modalità? Perché noi sappiamo che poi una parte di questo denaro è rientrata nelle tasche di alcuni componenti dello staff del ministro dell’interno Salvini. E visto che si tratta di professionisti in gamba, perché non pagare direttamente loro, senza passare attraverso una società di comodo, quella della barista? Avremmo voluto saperlo, ma nessuno ci ha risposto. Quello che abbiamo capito è che la figura del tesoriere Centemero e dei colleghi commercialisti Manzoni e Di Rubba sono fondamentali. Insieme decidono di porre la sede legale della Lega per Salvini presso lo studio commercialista Scillieri. Scillieri e Di Rubba li troviamo anche nella Lombardia Film Commission, un ente pubblico partecipato da Regione e Comune e decidono insieme di comprare una nuova sede. La comprano dall’Andromeda, un’immobiliare che è cliente però dello stesso Scillieri. La pagano 800 mila euro e da questi 800 mila euro poi che cosa accade? Qui partono delle anomalie. C’è una tranche di 178 mila euro che va a finire a una società di una signora, con una società che è stata costituita grazie al finanziamento di Di Rubba stesso. Quindi farebbe pensare, ipotizzare che sia una società nella disponibilità del commercialista leghista. Poi c’è un’altra tranche di 480 mila euro che va a finire a una società, la Eco srl di un geometra, Maffeis. Maffeis poi che cosa fa: gira dei bonifici equivalenti a 390 mila euro a Barachetti. Barachetti è il vicino di casa di Di Rubba, è un punto di riferimento della Lega. Negli ultimi due anni, tra il 2016 e il 2018 ha accumulato commesse per un milione e mezzo di euro da Lega Nord, da Lega per Salvini Premier, dalla Pontida Fin, l’immobiliare della Lega. E a sua volta ha bonificato verso i commercialisti 400 mila euro. Insomma, un rivolo di denaro pubblico si disperde in società di amici degli amici per poi tornare nella disponibilità di chi li aveva erogati o ne aveva facilitato l’erogazione. Insomma, probabilmente è tutto legale, però smettiamola di parlare di libera concorrenza. Piuttosto di una convergenza di interessi, un déjà-vu che appartiene alla politica tanto deprecata della prima repubblica. Da gennaio Di Rubba è stato nominato dal ministro dell’Agricoltura Centinaio, a capo del SIN, il Sistema Informatico Nazionale, quello che distribuisce 6 miliardi di fondi per gli agricoltori e gli allevatori. Tutto questo, ça va sans dire, mantenendo lo sguardo sui conti e sulla cassa della Lega.

Lega, il mistero dei 480 mila euro arrivati al partito dal Senato e finiti ad una barista. La puntata di Report, in onda stasera, rivela altri dettagli della nebulosa gestione finanziaria della nuova e vecchia Lega. Di sfondo c'è sempre la questione dei 49 milioni di euro di finanziamento pubblico spariti. Matteo Pucciarelli il 10 giugno 2019 su La Repubblica. Soldi pubblici che entrano ed escono, poi rientrano ed riescono, in un vorticoso e complicato gioco di società. Tutte legate più o meno direttamente al mondo della Lega. Come - ad esempio - i fondi del gruppo al Senato del partito destinati a un'impresa di una cognata di Alberto Di Rubba (direttore amministrativo del gruppo parlamentare della Camera e amministratore della Pontida fin, immobiliare della Lega) per la comunicazione social: solo che lei fa la barista...

L'antiriciclaggio di Bankitalia ultima grana per il Carroccio. L'Espresso scova un report dell'Uif che nota anomalie nei conti. Nel mirino 14.500 euro finiti in Lussemburgo. Stefano Zurlo, Sabato 04/05/2019, su Il Giornale. Sono solo 14.500 euro. Pochi. Pochissimi. Ma per l'Espresso sono, o meglio potrebbero essere, molto di più: un robusto indizio che porta al Lussemburgo. Un filo che da via Bellerio potrebbe arrivare al Granducato. È qui secondo il settimanale che potrebbe essere nascosto parte del tesoro da 49 milioni sparito dalle casse del Carroccio e per cui è stato condannato il vecchio leader Umberto Bossi. Che fine hanno fatto quei soldi? Tre procure - Genova, Bergamo, Roma - sono al lavoro. Ora però salta fuori anche un report riservato prodotto dalla divisione antiriciclaggio della Banca d'Italia: la Uif. Quel documento prova a mettere a fuoco alcune presunte anomalie nella rete finanziaria che fa capo a tre uomini vicini alla nuova leadership della Lega: il tesoriere Giulio Centemero, il commercialista bergamasco Alberto Di Rubba, il revisore del gruppo verde al Senato Andrea Manzoni. Proprio Centemero avrebbe movimentato quei 14.500 euro verso l'Alchimia, un nome molto importante perché fa parte di un network di sette società che fanno capo ad una realtà lussemburghese a sua volta controllata da una fiduciaria che, secondo uno schema collaudato, è come una saponetta che scivola da tutte le parti. Impossibile conoscerne la proprietà. E però l'Espresso si appoggia a questa rivelazione inedita per riproporre le domande già martellate nelle scorse settimane. Questioni che si risolvono in un paio di quesiti insidiosi: perché queste strane e tortuose manovre compiute da personaggi vicinissimi al Capitano Matteo Salvini? E ancora, il settimanale mette in dubbio la trasparenza del partito che potrebbe trionfare alle prossime Europee il 26 maggio: il retropensiero, peraltro tutto da dimostrare, è che la Lega predichi la purezza contro i paradisi fiscali per appoggiarsi poi, dietro le quinte, agli impenetrabili caveau di quei paesi «opachi». Un'accusa più politica che giudiziaria, almeno a leggere il servizio in uscita domani: le certezze, al momento sono ben poche in mezzo a ipotesi, collegamenti e analisi tutte da verificare, ma il lavoro di scavo va avanti e potrebbe riservare nuove sorprese. Per ora la Uif di Banca d'Italia nota alcune stranezze. Anzitutto quel modesto flusso verso i forzieri del Granducato. Quel denaro viene girato da Centemero il 10 agosto 2016 sui conti di Alchimia, la società domiciliata a Bergamo presso lo studio di Alberto Di Rubba, ma a sua volta controllata dalla lussemburghese Ivad Sarl. Lo ha fatto, notano i tecnici della Uif, utilizzando «provviste dall'accredito lo stesso giorno di un bonifico della Lega». Insomma, quella somma potrebbe aver viaggiato, il condizionale e anche di più è d'obbligo, dalle casse del Carroccio al Lussemburgo. E questa mossa rilancia la convinzione di più di un detective che la Lega abbia fatto sparire nel labirinto finanziario del Benelux almeno una tranche dei 49 milioni oggetto del procedimento per truffa e che a via Bellerio si sono impegnati a restituire a rate nell'arco di ottant'anni circa. Non basta. C'è tutta una serie di movimenti che secondo la Uif non quadrano. Cifre importanti che seguono percorsi complicati e lasciano i conti della Lega per approdare, dopo contorsioni varie, ai soliti Di Rubba, Manzoni, Centemero. Perché? Per ora nessuna risposta è arrivata ai dossier pubblicati dall'Espresso nelle scorse settimane, ma adesso anche la Uif scrive nero su bianco le proprie perplessità. In particolare «l'effettività delle prestazioni rese e delle giustificazioni causali sottese ai relativi pagamenti». Parole pesanti. Da non sottovalutare. La storia, comunque vada a finire, si annuncia ancora lunga.

L'antiriciclaggio di Bankitalia indaga sui conti della Lega. Ecco cosa ha scoperto. Il Corriere del Giorno 4 Maggio 2019. L’inchiesta di copertina del nuovo numero dell’Espresso in edicola domani svela il rapporto dell’Uif di via Nazionale sui pagamenti del partito di Matteo Salvini. E vengono confermati gli articoli del settimanale. Un documento della Banca d’Italia. Che collega i conti della Lega al Lussemburgo. È un rapporto compilato dagli analisti della Uif documento della Banca d’Italia. Che collega i conti della Lega al Lussemburgo. È un rapporto compilato dagli analisti della Uif, l’ufficio antiriciclaggio, quello che monitora le operazioni sospette segnalate dagli istituti bancari. Gli approfondimenti finanziari curati dalla Divisione operazioni sospette della Banca d’Italia aggiungono un fatto finora inedito. Una transazione finanziaria che collega Giulio Centemero, parlamentare e tesoriere della Lega, a una piccola società italiana controllata da una holding del Lussemburgo. Si tratta della Alchimia Srl, domiciliata in via Angelo Maj 24, a Bergamo, presso lo studio di Alberto Di Rubba, l’uomo che insieme ad Andrea Manzoni cura i conti dei gruppi parlamentari della Lega.

L’Espresso nel servizio di copertina in edicola da domenica 5 maggio e già online su Espresso+ rivela in esclusiva i risultati dell’istruttoria dell’ufficio antiriciclaggio di Bankitalia. E parte proprio dall’Alchimia. La Alchimia, come l’ ESPRESSO aveva raccontato oltre un anno fa, insieme ad altre sei società registrate nello studio di Di Rubba fa capo alla Ivad Sarl, società lussemburghese le cui azioni sono in mano a una fiduciaria. Insomma, impossibile sapere chi sia il proprietario. Di certo il 10 agosto del 2016 Centemero ha versato denaro sui conti della Alchimia. E lo ha fatto “utilizzando provviste derivanti dall’accredito lo stesso giorno di un bonifico della Lega Nord e di un bonifico di Sdc Srl“, si legge nel documento di Bankitalia. Traduzione: soldi del partito potrebbero essere finiti nel Granducato. Il dettaglio contenuto nel documento della Uif rischia di risultare rilevante ai fini delle inchieste giudiziarie. Da mesi la Procura di Genova sta infatti cercando di capire se i 49 milioni di euro frutto della truffa ai danni dello Stato, quella commessa da Umberto Bossi tra il 2008 e il 2010, sono stati fatti sparire dai suoi successori, cioè prima Roberto Maroni e poi, dalla fine del 2013, il vicepremier Salvini. Il sospetto degli investigatori è che parte dei 49 milioni sia stata riciclata in Lussemburgo. Come? Proprio usando la Alchimia e le altre sei società domiciliate a Bergamo. Non a caso i nomi di queste aziende sono contenuti nel decreto del dicembre scorso con cui la Guardia di Finanza ha perquisito lo studio di Di Rubba. Finora si sapeva solo che una di queste imprese, la Growth and Challenge Srl, era amministrata da Centemero. Il dettaglio contenuto nelle carte di Bankitalia certifica però il passaggio di denaro tra la Lega e una delle sette società controllate dall’anonima holding del Granducato. Un passaggio di denaro avvenuto attraverso Centemero, il tesoriere del partito scelto da Salvini in persona. Il direttore dell’ ESPRESSO Marco Damilano nel suo editoriale, scrive che Matteo Salvini non può continuare a far finta di niente. Anche perché a mostrare una Lega sempre più invischiata nella corruzione c’è l’inchiesta di Vittorio Malagutti sul “Poltronificio Giorgetti“: la rete di potere fatta di consulenze, nomine e affari affidata dal sottosegretario Giancarlo Giorgetti ad amici e amici di amici.

Lega di governo e di riciclaggio: il rapporto dell'indagine di Bankitalia che inguaia Salvini. Sui soldi del partito finiti in società controllate dal Lussemburgo indaga anche via Nazionale. Ecco il rapporto riservato che mostra un giro vorticoso di pagamenti con al centro i due commercialisti di fiducia del leader. Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 2 maggio 2019 su L'Espresso. C'è un documento della Banca d’Italia che collega i conti della Lega al Lussemburgo. È un rapporto compilato dagli analisti della Uif, l’ufficio antiriciclaggio, quello che monitora le operazioni sospette segnalate dagli istituti bancari. L’istruttoria, di cui L’Espresso è entrato in possesso, dimostra che l’inchiesta giornalistica pubblicata da questo giornale la scorsa settimana, quella sui soldi del partito dispersi in mille rivoli tra il 2016 e il 2018, non è frutto di «fantasie», per citare la parola usata da Matteo Salvini all’indomani delle nostre rivelazioni.

Esclusivo: l'antiriciclaggio di Bankitalia indaga sui conti della Lega. Ecco cosa ha scoperto. L'inchiesta di copertina del nuovo numero dell'Espresso svela il rapporto dell'Uif di via Nazionale sui pagamenti del partito di Matteo Salvini. E vengono confermati gli articoli del nostro settimanale. Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 3 maggio 2019 su L'Espresso. Un documento della Banca d’Italia. Che collega i conti della Lega al Lussemburgo. È un rapporto compilato dagli analisti della Uif, l’ufficio antiriciclaggio, quello che monitora le operazioni sospette segnalate dagli istituti bancari. Gli approfondimenti finanziari curati dalla Divisione operazioni sospette della Banca d’Italia aggiungono un fatto finora inedito. Una transazione finanziaria che collega Giulio Centemero, parlamentare e tesoriere della Lega, a una piccola società italiana controllata da una holding del Lussemburgo. Si tratta della Alchimia Srl, domiciliata in via Angelo Maj 24, a Bergamo, presso lo studio di Alberto Di Rubba, l’uomo che insieme ad Andrea Manzoni cura i conti dei gruppi parlamentari della Lega.  L'Espresso nel servizio di copertina in edicola da domenica 5 maggio e già online su Espresso+ rivela in esclusiva i risultati dell'istruttoria dell'ufficio antiriciclaggio di Bankitalia. E parte proprio dall'Alchimia. La Alchimia, come avevamo raccontato oltre un anno fa, insieme ad altre sei società registrate nello studio di Di Rubba fa capo alla Ivad Sarl, società lussemburghese le cui azioni sono in mano a una fiduciaria. Insomma, impossibile sapere chi sia il proprietario. Di certo il 10 agosto del 2016 Centemero ha versato denaro sui conti della Alchimia. E lo ha fatto «utilizzando provviste derivanti dall’accredito lo stesso giorno di un bonifico della Lega Nord e di un bonifico di Sdc Srl», si legge nel documento di Bankitalia. Traduzione: soldi del partito potrebbero essere finiti nel Granducato. Il dettaglio contenuto nel documento della Uif rischia di risultare rilevante ai fini delle inchieste giudiziarie. Da mesi la procura di Genova sta infatti cercando di capire se i 49 milioni di euro frutto della truffa ai danni dello Stato, quella commessa da Umberto Bossi tra il 2008 e il 2010, sono stati fatti sparire dai suoi successori, cioè prima Roberto Maroni e poi, dalla fine del 2013, il vicepremier Salvini. Il sospetto degli investigatori è che parte dei 49 milioni sia stata riciclata in Lussemburgo. Come? Proprio usando la Alchimia e le altre sei società domiciliate a Bergamo. Non a caso i nomi di queste aziende sono contenuti nel decreto del dicembre scorso con cui la guardia di finanza ha perquisito lo studio di Di Rubba. Finora si sapeva solo che una di queste imprese, la Growth and Challenge Srl, era amministrata da Centemero. Il dettaglio contenuto nelle carte di Bankitalia certifica però il passaggio di denaro tra la Lega e una delle sette società controllate dall’anonima holding del Granducato. Un passaggio di denaro avvenuto attraverso Centemero, il tesoriere del partito scelto da Salvini in persona.

Esclusivo: i soldi prima degli italiani. Ecco gli affari segreti della Lega di Matteo Salvini. Più di 3 milioni. Usciti tra il 2016 e il 2018 dai conti del partito. Finiti nelle casse di piccole società riconducibili a uomini del Carroccio, che hanno ricevuto lauti bonifici. E, poi, una compravendita immobiliare: denaro pubblico che da una fondazione arriva a un'azienda della galassia leghista. L'inchiesta sul nuovo numero e in anteprima su Espresso+. Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 26 aprile 2019 su L'Espresso. I soldi prima di tutto. Anche «Prima degli italiani». E così in due anni, dal 2016 al 2018, mentre proseguiva l'inchiesta per truffa culminata con il sequestro dei 48,9 milioni di euro, più di 3 milioni di euro sono spariti dalle casse della Lega per Salvini Premier, della Lega Nord e delle società da essi controllate, da Pontida Fin a Radio Padania. Soldi dei sostenitori leghisti, milioni di euro donati per sostenere la causa del Capitano, usciti dalle casse dei due partiti e spesso finiti, dopo lunghi e complicati giri, sui conti personali di uomini molto vicini allo stesso Salvini. Gente come il tesoriere Giulio Centemero, i commercialisti bergamaschi Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, tutti e tre con ruoli nell'amministrazione dei conti del partito e fondatori dell'associazione Più Voci, quella finanziata dal costruttore Luca Parnasi con 250 mila euro. L'Espresso nell'inchiesta esclusiva di copertina in edicola da domenica 28 aprile e online su Espresso+ ha analizzato i conti correnti dei due partiti e delle società scoprendo, per esempio, che a ricevere molti denari sono state anche ad alcune imprese lombarde che ultimamente hanno fatto grandi affari con la Lega salvininana. In tutto più di 3 milioni di euro, approdati a una cerchia strettissima di persone tra cui anche la squadra di collaboratori di Luca Morisi, l'uomo che cura i profili social di Salvini. Milioni che escono dalla Lega, passano sui conti di società private da poco costituite, e finiscono nelle tasche di fedelissimi del vicepremier. Tutto questo mentre i conti correnti della Lega Nord erano nel mirino della magistratura, la truffa da 49 milioni di euro metteva a rischio la sostenibilità finanziaria del vecchio Carroccio, oggi invece al sicuro dopo l’accordo con la Procura di Genova che permetterà a Salvini di restituire il maltolto a rate in quasi 80 anni. A questa storia si aggiunge un capitolo ulteriore dai contorni opachi:  un'operazione immobiliare  conclusa dalla Fondazione Lombardia Film Commission, che con soldi pubblici della Regione, all'epoca guidata da Roberto Maroni, ha acquistato per 800 mila euro un edificio in provincia di Milano, comprato pochi mesi prima dalla società Andromeda per 400 mila euro. I documenti notarili pubblicati da L'Espresso provano che l'affare è andato in porto. Ed è iniziato quando a capo della fondazione c'era Alberto Di Rubba, uno dei tre commercialisti bergamaschi scelti da Matteo Salvini per amministrare i conti del gruppo Lega alla Camera, il professionista di via Angelo Maj a Bergamo che con Manzoni e il tesoriere Centemero ha dato vita all'associazione Più Voci. Non solo. La fortunata società immobiliare che ha incassato 800 mila euro è riconducibile alla galassia della nuova Lega di Salvini. Come sempre abbiamo fatto nell'inchieste giornalistiche sui soldi della Lega, prima di pubblicare abbiamo inviato le domande ai protagonisti delle vicende svelate. Ma non abbiamo ricevuto alcuna risposta.

Affari segreti di Matteo Salvini, ecco le domande a cui i leghisti non hanno risposto. Come sempre prima di pubblicare l'inchiesta di copertina sui soldi del Carroccio abbiamo inviato una serie di interrogativi ai  protagonisti delle vicende. Ma nessuno di loro ha voluto replicare, scrive il 26 aprile 2019 l'Espresso. Il 19 aprile scorso abbiamo inviato le mail con le domande ai diretti interessati delle vicende che raccontiamo nell'inchiesta sull'Espresso in edicola da domenica 28 aprile. Abbiamo dato tempo fino al martedì successivo per rispondere. Dopo cinque giorni non ci ha risposto nessuno. Michele Scillieri, commercialista. Presso il suo studio è domiciliata la Lega per Salvini premier. É stato sindaco della fondazione di cui Di Rubba ha ricoperto il ruolo di presidente del Cda e poi è diventato consulente dello stesso ente. Inoltre è amministratore della società che controlla l'immobiliare che ha messo a segno il colpaccio da quasi 1 milione di euro con la Fondazione. Alle nostre domande non ha risposto. Ecco cosa gli avevamo chiesto:

In data 4/12/2017 la Lombardia Film ha disposto un bonifico di 800 mila euro( 790 mila) nei confronti della società Immobiliare Andromeda Srl. La transazione è servita all’acquisto di un fabbricato a Cormano, in via Bergamo 7. Che procedura è stata seguita dalla fondazione per selezionare Andromeda?

Da quanto tempo collabora con la Film Commission? Può dirci qual è il suo compenso?

Che tipo di servizio ha svolto Andromeda per la Fondazione?

Successivamente al bonifico di Lombardia Film commission,  Immobiliare Andromeda esegue un bonifico a favore della società SDC Srl di 178.450 euro. Per quale motivo?

Sempre nello stesso periodo Andromeda versa 100 mila euro alle società Eco Srl e Barachetti Service Srl. Che tipo di servizio hanno svolto queste due società per Andromeda?

Lega per Salvini premier risulta ancora registrata presso il suo studio, come mai?

Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, sono i commercialisti scelti dal partito di Matteo Salvini per amministrare i conti dei gruppi parlamentari. Sono anche i professionisti insieme al tesoriere Giulio Centemero che hanno dato vita all'associazione Più Voci, registrata nello studio di via Angelo Maj 24, di proprietà di DI Rubba. Sempre nello stesso studio sono registrate le sette imprese che fanno capo a una fiduciaria controllata da una holding lussemburghese, che avevamo svelato quasi un anno fa. Neppure loro ci hanno risposto. Ecco le nostre domande:

Per il dott. Di Rubba: 

Per quale motivo il 16 febbraio 2017 ha ricevuto dalla società Barachetti un bonifico di 35 mila euro?

Nel periodo tra il 24 gennaio 2017 e 23 luglio 2018, risultano 9 bonifici da Pontida Fin diretti alla società Barachetti per un importo totale di 539 mila euro.

Che tipo di servizio ha svolto Barachetti per la società della Lega?

Perché Barachetti ha versato denaro a società a lei collegate, che è anche l'amministratore della Pontida Fin?

Quando era amministratore della Lombardia Film Commission, la fondazione ha acquistato un immobile a Cormano dall'immobiliare Andromeda. Per questo immobile sono stati versati 800 mila euro. Non è stato fatto un bando pubblico, quindi come è stata selezionata la immobiliare Andromeda?

È a conoscenza del fatto che parte di quei soldi pagati da Lombardia film commission sono finiti tramite l'immobiliare Andromeda alla società SDC srl ?

Che rapporti intrattiene con il dott. Michele Scillieri?

Lei è amministratore della Taaac srl. Per quale motivo questa azienda ha ricevuto 6.950 euro della Lega Nord il 4-8-2017?

La Taac ha venduto un immobile alla Barachetti service a Desenzano del Garda. Come mai ha venduto a un fornitore del partito?

Ha venduto un immobile a Desenzano anche alla società di Carrara, Cpz?

Per quale motivo il capitale sociale di Vadolive srl così come quello di SDC srl è stato versato con assegno circolare addebitato sul conto intestato allo studio Dea ?

Per Manzoni:

Per quale motivo dal 2016 risultano almeno 156 mila euro versati sul suo conto dal partito Lega Nord?

Per quale motivo il gruppo Lega le ha versato a luglio e ottobre 2018 in tutto 20 mila euro? Quanto ha incassato finora dal gruppo parlamentare?

Che ruolo svolge per la società SDC srl? A cosa sono dovuti i bonifici che ha ricevuto tra il 2016 e il 2018(211 mila euro) da questa società?

Che tipo di rapporto la lega ai titolare della Sdc?

Rivolta a entrambi:

Il 10 maggio 2018 Vadolive ha sottoscritto un contratto di 480 mila euro con il gruppo parlamentare Lega per Salvini Premier istituito presso il Senato. Per quale motivo parte di questi soldi, circa 87 mila euro, sono stati versati da Vadolive a uomini di fiducia dello staff del ministro dell'Interno?

Giulio Centemero, Quarant’anni, eletto alla Camera lo scorso 4 marzo, è il tesoriere di entrambi i partiti Lega Nord e Lega per Salvini premier. Ha fondato insieme a due suoi colleghi l’associazione Più Voci, destinataria di un finanziamento dal costruttore Luca Parnasi. Per questo è indagato a Roma: a breve il pm potrebbe chiedere il rinvio a giudizio per il finanziamento illecito, svelato dall'Espresso un anno fa. Gli abbiamo chiesto di rispondere ad alcune domande. Senza successo.

La società SDC srl in 11 mesi le ha versato circa 60 mila euro. Che servizio svolge per questa società?

Il 17/2/2017 lei ha ricevuto dalla società Barachetti Service 5.344,00 euro. Per quale motivo?

Dal 2016 a oggi più di 1,5 milioni- tra bonifici del partito e altri disposti da società del partito( Pontida Fin)- sono stati versati alla Barachetti Service. Per quale motivo?

Più di 1,6 milioni sono stati versati dal partito e da società del partito a Srl collegate a Di Rubba ( NSA, studio Dea, Cld). Per quale motivo?

La società SDC ha ricevuto circa 400 mila euro dalla Lega e da società del gruppo Lega. A cosa sono dovuti questi versamenti?

Il 10 maggio 2018 Vadolive srl ha sottoscritto un contratto di 480 mila euro con il gruppo parlamentare Lega per Salvini Premier istituito presso il Senato. Per quale motivo parte di questi soldi, circa 87 mila euro, sono stati versati da Vadolive a uomini di fiducia dello staff del ministro dell’Interno?

Chi è il reale proprietario di Vadolive srl?

Francesco Barachetti è il titolare dell'azienda Barachetti Service, destinataria in due anni di oltre 1,5 milion di euro da parte del partito e di società collegate ad esso. Anche lui ha preferito non rispondere. Ecco le nostre domande:

Negli ultimi 3 anni Pontida Fin ha versato alla sua azienda almeno 539 mila euro.

Che tipo di servizio avete svolto per la società del partito Lega Nord?

Per quale motivo la sua azienda ha disposto bonifici a società collegate ad Alberto Di Rubba, amministratore di Pontida Fin, in concomitanza dei bonifici ricevuti dalla medesima società della Lega?

Nel settembre 2018 la Lega per Salvini premier versa alla sua azienda 311 mila euro . Che tipo di servizio avete svolto?

Per quale motivo il tesoriere della Lega Giulio Centemero e Alberto Di Rubba sono destinatari di bonifici disposti dalla Barachetti? E perché altri versamenti sono stati fatti dalla sua azienda a società collegate a Di Rubba e Centemero (Dea Spa e Cld srl)?

Nel periodo 2016- 2018 la sua azienda riceve ulteriori bonifici dal partito Lega per 269.160 euro e da parte di Pontida Fin per oltre 400 mila euro. Che servizio ha offerto al partito?

Lei è titolare anche della Bmg srl. Nel 2018 questa società è beneficiaria di circa 60 mila euro dalla Lega. Per quale motivo sono stati fatti questi versamenti dal partito?

Esclusivo: così Matteo Salvini ha fatto sparire tre milioni. Un vortice di passaggi per far girare i soldi del partito. Finché approdano nelle casse di società private o sui conti di amici del ministro. A quale scopo? Ma la Lega non risponde. Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 26 aprile 2019 su L'Espresso. C'era una volta la Lega Nord di Umberto Bossi, i soldi del partito usati per gli affari privati del fondatore e della sua famiglia, la laurea di Renzo, le multe di Riccardo, la Scuola Bosina della moglie Manuela. Quella, insomma, diventata celebre alle cronache come la storia della “The family”. Oggi la Lega si è sdoppiata: c’è la Lega Nord e c’è la Lega per Salvini Premier. Entrambe fanno capo a Matteo Salvini, che le descrive come due realtà povere e oculate. Tutta un’altra storia rispetto ai tempi di Bossi, assicura il ministro. Se si scava sotto la superficie, però, viene a galla una gestione non molto diversa da quella del fondatore. Analizzando i conti correnti dei due partiti e delle società da essi controllate, da Pontida Fin a Radio Padania, abbiamo infatti scoperto che i soldi dei sostenitori leghisti, milioni di euro donati per sostenere la causa del Capitano, sono usciti dalle casse dei due partiti e sono spesso finiti, dopo lunghi e complicati giri, a società private e sui conti personali di uomini molto vicini allo stesso Salvini. Gente come il tesoriere Giulio Centemero, i commercialisti bergamaschi Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, alcune semisconosciute imprese lombarde che ultimamente hanno fatto grandi affari con la Lega salvininana. In tutto più di 3 milioni di euro, approdati a una cerchia strettissima di persone. Milioni che escono dalla Lega e si perdono in società private neonate. Tutto questo mentre i conti correnti del partito sono nel mirino della magistratura, la truffa da 49 milioni di euro mette a rischio la sostenibilità finanziaria del vecchio Carroccio, oggi invece al sicuro dopo l’accordo con la Procura di Genova che permetterà a Salvini di restituire il maltolto a rate in quasi 80 anni.

VI RICORDATE I 49 MILIONI DELLA LEGA? Marco Preve per ''la Repubblica'' il 10 aprile 2019. Si chiama Dario Bogni è l' ex responsabile della tesoreria della Sparkasse, la Cassa di Risparmio di Bolzano, è da sempre vicino alla Lega, oggi risiede in Svizzera ed è il dirigente di I Partners, società di gestione fondi di Lugano. Per la procura e i finanzieri di Genova - in possesso di alcune intercettazioni trasmesse da Bolzano - è lo snodo dell' inchiesta che ipotizza il riciclaggio di almeno una decina dei 49 milioni di rimborsi elettorali che la Lega deve restituire allo Stato (e lo sta facendo con l' ormai celebre rateizzazione ultradecennale) dopo la condanna per tuffa dell' ex segretario Umberto Bossi e del tesoriere dell' epoca Francesco Belsito. Fra giugno e settembre dello scorso anno una clamorosa perquisizione nella sede della Sparkasse e una rogatoria in Lussemburgo rivelarono l' esistenza della pista del Granducato. Subito dopo l' addio di Bossi e la presa del potere di Roberto Maroni (si sta indagando anche sull' utilizzo di alcune tranche di finanziamenti del 2013 alla sua associazione " Maroni Presidente") e poi di Matteo Salvini, i soldi del partito migrano sull' asse Genova- Milano di Banca Aletti, virano sull' Unicredit di Vicenza e poi su Sparkasse a Bolzano. Secondo l' accusa dei pm è Dario Bogni, tesoriere della Sparkasse di Bolzano Una decina di milioni verrebbero dispersi fra alcune fiduciarie riconducibili a soggetti vicini alla Lega per poi rientrare in un conto di " transito" della Cassa di Bolzano, quindi investiti nel fondo lussemburghese Pharus. Da qui, a inizio 2018, rientrerebbero in Italia 3 milioni. Secondo gli investigatori, l' artefice dell' investimento - che Sparkasse sostiene essere avvenuto con soldi di esclusiva proprietà della banca - sarebbe stato Dario Bogni. La procura avrebbe voluto sentirlo come testimone ma lui al momento ha declinato il colloquio e questo avrebbe convinto la procura a procedere con una rogatoria in Svizzera. Se sarà obbligato a rispondere molto probabilmente gli verrà chiesto conto delle preoccupazioni che, a settembre 2018, esprimeva riguardo alla rogatoria della procura di Genova in Lussemburgo. Bogni non sapeva di essere intercettato mentre era al ristorante assieme a Sergio Lovecchio, ex amministratore delegato di Sparkasse. Lovecchio è uno dei cinque indagati nell' inchiesta dei pm di Bolzano per truffa e altri reati bancari relativi ad un discusso aumento di capitale della Cassa locale. Nell' intercettazione ambientale Bogni, in relazione a quell' investimento parla di altri manager della banca. Lovecchio ascolta con interesse poiché è l' attuale direttore del fondo Pensplan - che gestisce le pensioni di oltre centomila trentini e altoatesini - il quale ha investito decine di milioni su una società d' investimento del Lussemburgo amministrata proprio da Bogni. E per la procura di Genova la rotta del Granducato diventa sempre più interessante.

Roberto Maroni rompe il silenzio: «I 49 milioni? Chiedete a Matteo Salvini». L'ex governatore e ministro dell'Interno leghista ha risposto alle domande dell'Espresso. Una lunga intervista sui 49 milioni, sui soldi, sui rapporti con la Russia, sul futuro del partito. E su che che cosa diventerà il governo dopo il voto del 26 maggio: «E' Giorgetti, l'uomo del momento». Giovanni Tizian e Stefano vergine il 23 maggio 2019 su L'Espresso. «Cosa accadrà dopo il 26 maggio? Si chiuderà la Seconda Repubblica. Come la Democrazia Cristiana di fatto sparì dopo le elezioni del ’94, così potrebbe succedere a Forza Italia dopo le europee. Giancarlo Giorgetti ha un ruolo strategico, è l’uomo delle relazioni con imprese e finanza. Adesso anche della diplomazia, in particolare con gli Usa. È il consigliere più ascoltato da Salvini. Dopo le elezioni la tenuta del governo dipenderà soprattutto da lui». Roberto Maroni rompe il silenzio e, a differenza del ministro dell’Interno, risponde alle domande de L’Espresso nel numero in edicola da domenica  e già online su Espresso+  sull’alleanza politica e finanziaria della nuova Lega con la Russia, sui rapporti con gli Usa, sul nuovo nazionalismo europeo, sugli obiettivi politici del partito in Italia. Sul dopo-elezioni, sul futuro della Lega, sui finanziamenti del partito di Matteo Salvini, sui 49 milioni oggetto di truffa. «Sulla storia della truffa da 49 milioni la Lega era parte lesa, perciò i giudici avevano accolto la costituzione di parte civile che avevo fatto io. Così facendo saremmo stati considerati parte offesa e avremmo tutelato la Lega da azioni risarcitorie. Poi avremmo dovuto chiedere noi i soldi ai condannati. Ovviamente non avrei mai obbligato Bossi a ridarci alcunché, ma in questo modo avrei salvaguardato il partito. Poi Salvini l’ha ritirata, e il partito oggi paga le conseguenze di questa scelta». L'ex ministro ha poi chiarito il motivo per cui Salvini successivamente, una volta diventato segretario, ha ritirato la costituzione di parte civile. «Io ho denunciato per infedele patrocinio Matteo Brigandì, lo storico avvocato di Bossi e della Lega, c’è una causa in corso. Proprio lui è andato da Salvini a chiedere di revocare la costituzione di parte civile, facendogli sottoscrivere una scrittura privata che impegna il partito a ritirare qualunque pretesa di risarcimento. Io non l’avrei fatto. Avevo detto a Salvini che non ero d’accordo. Ma lui ha fatto una scelta diversa. Diciamo che è stato mal consigliato». Maroni non esprime, invece, alcun giudizio sulla gestione finanziaria della nuova Lega di Salvini: «I collaboratori di Salvini non sono molto conosciuti tra la base. Il tesoriere: Centemero chi? Boh, si chiedono in tanti». L'ex governatore leghista ripete che finché Salvini godrà del consenso attuale non ci saranno problemi. «Magari Salvini fa cose poco condivisibili, ma ha portato il partito in alto. Mi auguro che continui su queste percentuali». Ma avverte: «Spero anche che la svolta nazionalista non precluda la questione settentrionale. Se la Lega di Salvini darà risposte ai ceti produttivi del Nord allora vola al 40 per cento. Altrimenti qui si aprirà lo spazio per un movimento nuovo. Io sono della Lega Nord. Nessuno mi può obbligare a iscrivermi a un nuovo partito».

E ora Matteo Salvini risponda alle nostre inchieste. Il ministro dell'interno bolla i nostri articoli sui soldi della Lega come «fantasie». Ma dimentica che il giornalismo di inchiesta ha il dovere di fare domande. Marco Damilano il 2 maggio 2019 su L'Espresso. Le inchieste dell’Espresso sono solo «fantasie», a giurarlo è il ministro dell’Interno Matteo Salvini. «L’inchiesta sui conti della Lega è la sedicesima, aspetto la diciassettesima», ha aggiunto il Capitano a proposito del servizio di copertina di domenica scorsa . Lo accontentiamo subito: questa settimana pubblichiamo un documento esclusivo e riservato, il report dell’Uif , Unità di informazione finanziaria per l’Italia, ovvero l’agenzia anti-riciclaggio della Banca d’Italia, che analizza le operazioni sospette della Lega, il partito che punta a conquistare il titolo di più votato dagli italiani alle elezioni europee del 26 maggio, tra tre settimane. Gli ispettori di Bankitalia confermano le notizie già rivelate sull’Espresso da Giovanni Tizian e Stefano Vergine, colgono il movimento sospetto con cui il tesoriere della Lega Giulio Centemero potrebbe aver versato soldi della Lega in una holding del Lussemburgo, avanzano dubbi e si pongono quesiti che sono gli stessi nostri. Con in più una domanda che giriamo direttamente al ministro Salvini: sono fantasie anche quelle di un’agenzia autonoma o indipendente istituita presso la Banca d’Italia? Sono tutte fantasie quelle delle procure di Genova, Bergamo e Roma che indagano a vario titolo sui soldi della Lega e sugli uomini che li amministrano per conto di Salvini, a partire dal tesoriere Centemero, che parla di «scoop inesistenti» su altri siti e giornali ma che rifiuta di rispondere alle nostre domande? Di certo, non sono fantasie le nostre inchieste che dal 2015 - quando regnava Matteo Renzi e nessuno ma proprio nessuno avrebbe potuto prevedere l’ascesa di Salvini alle vette della politica nazionale - provano a fare chiarezza su uno dei maggiori scandali politico-economici degli ultimi anni, la truffa ai danni dello Stato della Lega a proposito dei rimborsi elettorali, e su come il leader chiave di questo momento, Salvini, sia riuscito a scalare il suo partito e poi i vertici di governo e a costruirsi quella base economica che gli consente un’agibilità politica. Il problema storico di tutte le leadership, in special modo di quelle che si sentono assediate e che hanno bisogno di costruirsi una autonoma riserva di risorse. Matteo Salvini di professione risulta essere giornalista. È iscritto all’albo dell’Ordine dal 18 maggio 1999, quando aveva solo 26 anni, precoce rispetto ai tanti ragazzi e ragazze che sognano di fare questo mestiere ma che a quell’età praticano una difficile gavetta o frequentano una scuola di giornalismo. Salvini, come ha dimostrato Michela Murgia nella sua sinossi dei curriculum , non ha mai avuto di questi problemi: la Lega gli ha risolto ogni questione lavorativa, sociale, esistenziale. Da direttore di Radio Padania, in quegli anni, sosteneva la Resistenza ma come «fenomeno esclusivamente padano», organizzava il filo diretto con gli ascoltatori contro la bandiera nazionale, trasmetteva la diretta della finale dei campionati europei di calcio 2000 Italia-Francia tifando per Zidane e sperava, informava in una nota, «che alla fine a sventolare vittorioso sia il tricolore: quello blu, bianco e rosso». Salvini rappresenta dunque il più clamoroso caso di trasformismo politico del nostro tempo, pur denso di cuori deboli e di voltagabbana pluri-laureati. Non si è limitato a passare dalla destra alla sinistra o viceversa, come hanno fatto banalmente in tanti. Lui era partigiano padano e ora piace ai fascisti di ogni dove, amava Zidane e ora guida il fronte anti-Macron, predicava la secessione e ora incarna il nazionalismo, dirige insieme due movimenti, Lega Nord per l’indipendenza della Padania e Lega Salvini premier, con due elettorati diversi, con due ragioni sociali opposte, ma con un unico leader: un capolavoro di gattopardismo degno dei migliori esponenti di Roma Ladrona. Avrà dimenticato la Padania e il tricolore blu, bianco e rosso francese amato in disprezzo di quella bandiera simbolo di quella Repubblica che dovrebbe servire da ministro. Ma speriamo che Salvini non abbia cancellato dalla memoria quelle due o tre regole di giornalismo che si apprendono per passare l’esame professionale. Le notizie si pubblicano. Il diritto di cronaca è sacro. Chi ricopre una responsabilità politica o istituzionale ha l’obbligo di rispondere alle domande. Non si confonde il giornalismo di inchiesta nutrito di un solido impianto organizzativo con una campagna di diffamazione. Non si usano strumenti di intimidazione contro i giornalisti che controllano il potere, perché una democrazia muore del contrario, dell’omesso controllo, dell’opacità. Per questo torniamo a sperare che Salvini voglia rispondere ad alcune domande che gli riproponiamo da mesi. Non lo facciamo con lo spirito delle autorità giudiziarie, ma da giornalisti che hanno il diritto e il dovere di indagare sull’uomo che si candida a Palazzo Chigi. E lo facciamo con gli strumenti dell’inchiesta giornalistica che possono raggiungere conclusioni imperfette o incomplete, ma sono sempre più necessari per capire perché siamo arrivati a questo punto e dove ci troviamo. In più, ci sono le manovre di potere che vedono protagonista l’uomo forte della Lega nel governo Conte, il sottosegretario Giancarlo Giorgetti. Intelligente, abile, ben introdotto nei settori economici e finanziari del Paese, con mezzo gruppo parlamentare a lui fedele, il sottosegretario è l’uomo che deve far passare la nottata, l’alleanza con l’inconsistente Movimento 5 Stelle, per trasferire la Lega nella terra promessa, il partito architrave del nuovo sistema. Con gli interessi del Nord ben tutelati, anzi gli interessi lombardi, anzi di Varese e dintorni, come racconta Vittorio Malagutti. Il governo Conte è stato un taxi per molti, ma ora bisogna andare alla fase successiva, al momento in cui la Lega non sarà più obbligata a condividere la guida del governo con un altro partito. Sarà per questo che gli uomini di M5S, dopo mesi di letargo, sembrano essersi all’improvviso ridestati e cominciano a chiedere anche loro qualche chiarimento all’alleato leghista. C’è stato il tormentone sul sottosegretario Armando Siri, uomo di Salvini, a dividere i due vice-premier e a costringere il presidente del Consiglio Conte a scendere personalmente nell’arena dello scontro politico. Va in dissolvenza, come se non fosse mai esistita, la maggioranza che da quasi un anno governa l’Italia, per paradosso nel momento in cui potrebbe rivendicare qualche risultato sul fronte economico e dell’occupazione, ma è solo un effetto ottico. Dopo potrebbe rispuntare. Ora c’è una campagna elettorale che entra nella sua fase decisiva, in gioco non ci sono solo i seggi del Parlamento europeo, ma regioni (il Piemonte), città, comuni, capoluoghi di provincia. Ma dopo il 26 maggio si faranno i conti, tra i gialloverdi e tra le opposizioni. Il risultato delle elezioni in Spagna e quello parzialissimo del primo turno delle elezioni amministrative in Sicilia restituiscono la sensazione di una frenata dei sovranismi. Non si esaurisce, non si prosciuga il vento che continua a soffiare in quella direzione, ma si può inserire nella marcia trionfale qualche motivo di contraddizione. Per esempio lo spettacolo di un partito che si è proclamato difensore del popolo e della Nazione ma che per i suoi soldi non disdegna i paradisi fiscali, esteri, di quell’Europa che nelle piazze giura di voler distruggere e cambiare.

CHE FINE HANNO FATTO I 49 MILIONI DELLA LEGA? Giuseppe Pipitone per il Fatto Quotidiano il 25 maggio 2019. Chi comanda adesso fa il nome di chi comandava prima. Chi comandava prima non ci sta: e invita a rivolgersi a chi il potere lo tiene in mano adesso. Che quella della Lega fosse la storia di un partito animato da feroci lotte intestine era noto. Ed è anche comprensibile che gli scontri sotterranei diventino più violenti ed evidenti quando l’argomento è legato ai 49 milioni di fondi pubblici ottenuti con una truffa ai danni dello Stato. Mai però il conflitto era arrivato a essere esplicitato sui giornali. E con la faccia di due pesi massimi del Carroccio di oggi e di ieri: Giancarlo Giorgetti e Roberto Maroni. Che non corresse buon sangue tra l’ex governatore della Lombardia e il potente sottosegretario era cosa nota. Basta andarsi a rileggere l’intervista rilasciata da Maroni a La Stampa nei giorni successivi all’indagine per corruzione sul sottosegretario Armando Siri. “Il vero problema non è Siri, ma Giorgetti“, aveva detto a sorpresa l’ex ministro dell’Interno, focalizzando l’attenzione mediatica sul Richelieu di Matteo Salvini. Che aveva replicato lapidario: “Maroni gufa un po’, sta cercando di rientrare in gioco“. “La verità è che più di Richelieu, Giorgetti somiglia a Mazzarino. È l’unico vero politico di tutta la storia della Lega, dopo Bossi”, dice un vecchio e importante esponente del Carroccio al fattoquotidiano.it. Cresciuto all’ombra del senatùr, arrivato al vertice del partito già ai tempi della secessione della Padania, Giorgetti è rimasto in sella anche durante l’interregno di Maroni, quando riuscì a farsi nominare tra i saggi di Giorgio Napolitano. “Poi ha capito che il leader del futuro era Salvini, che a tirare sarebbe stato il nazionalismo non la Padania. E si è riposizionato per tempo, eliminando uno a uno i nemici interni. Maroni lo odia per questo. Perché ha fatto a lui quello che lui aveva fatto a Bossi”, continua la stessa fonte. In questo senso è facile intravedere una serie di messaggi trasversali anche dall’ultimo botta e risposta a distanza tra i due. Il solitamente riservato Giorgetti ha convocato una conferenza alla sala Stampa estera per rispondere – tra le altre cose – anche una domanda sugli ormai stranoti 49 milioni di euro. “Che fine hanno fatto quei soldi? Tutti i bilanci sono certificati e pubblici da quando divenne segretario Roberto Maroni, poi le inchieste possono andare avanti anche per decenni… finirà anche questa”, ha detto l’highlander del Caroccio. Una dichiarazione che può suonare pacifica e minimalista a tutti, tranne che al diretto interessato. Maroni, infatti, sa bene che il tesoretto lasciato nelle casse della Lega da Bossi è Francesco Belsito comincia a evaporare durante i suoi quindici mesi al vertice del partito di Alberto da Giussano: nel 2011 a bilancio era iscritto un patrimonio da 46 milioni, nel 2017 è sceso a 4,5 milioni. Che fine hanno fatto quei soldi? Sono semplicemente stati spesi. E i bilanci – come dice Giorgetti – sono stati certificati dalla Pwc, società di revisione ingaggiata proprio da Maroni per diradare ogni ombra su via Bellerio. Il problema, semmai – come segnalava l’ex revisore Stefano Aldovisi in un esposto alla procura depositato alla fine del 2017 – è capire come siano stati spesi. Come ha raccontato ilfattoquotidiano.it, proprio durante la gestione Maroni alcune voti nei bilanci – pubblici e certificati – esplodono: dai contributi alle associazioni, ai mai chiariti “oneri diversi di gestione“, fino alle spese legali. Sarà anche per questo che a poche ore dalle dichiarazioni di Giorgetti, il settimanale l’Espresso anticipa i contenuti di un’intervista a Maroni. Oggetto del colloquio? Ma ovviamente gli ormai notissimi 49 milioni di euro. L’ex governatore, ovviamente, non fa cenno alle parole del sottosegretario ma si focalizza su un passaggio molto più tecnico: la mancata costituzione di parte civile del Carroccio nei processi a Bossi. “Sulla storia della truffa da 49 milioni la Lega era parte lesa, perciò i giudici avevano accolto la costituzione di parte civile che avevo fatto io. Così facendo saremmo stati considerati parte offesa e avremmo tutelato la Lega da azioni risarcitorie. Poi avremmo dovuto chiedere noi i soldi ai condannati. Ovviamente non avrei mai obbligato Bossi a ridarci alcunché, ma in questo modo avrei salvaguardato il partito”. Maroni, che è tornato a fare l’avvocato nello studio del fidato Domenico Aiello, in pratica ricorda che di quella truffa ai danni dello Stato erano accusati Bossi e Belsito. Se la Lega fosse rimasta parte civile, nessuno oggi avrebbe chiesto al Carroccio quei 49 milioni, oggetto delle ricerche delle procure Genova, Milano e Bergamo. Solo che quella costituzione di parte civile “poi Salvini l’ha ritirata, e il partito oggi paga le conseguenze di questa scelta”, ricostruisce sempre l’ex governatore. Tradotto: per colpa di Salvini ora il partito deve restituire quei soldi. Dunque chi chiede notizie dei 49 milioni è con l’attuale segretario che deve parlare, non con quello passato. E per meglio specificare questo passaggio Maroni cita un episodio noto ai protagonisti delle faide interne al partito. “Io – dice sempre al settimanale – ho denunciato per infedele patrocinio Matteo Brigandì, lo storico avvocato di Bossi e della Lega, c’è una causa in corso. Proprio lui è andato da Salvini a chiedere di revocare la costituzione di parte civile, facendogli sottoscrivere una scrittura privata che impegna il partito a ritirare qualunque pretesa di risarcimento. Io non l’avrei fatto“. La vicenda lè quella della famosa scrittura privata siglata il 26 febbraio 2014 da Salvini, da Bossi, da Brigandì e dall’allora segretario amministrativo Stefano Stefani. Rappresenta la pace tra la Lega del passato e Lega del futuro. Brigandì rinunciava a rivendicare una parcella milionaria per aver difeso il partito dal 2000 al 2013 e in cambio l’attuale segretario sottoscrivevva una serie di impegni, tra i quali spicca il punto numero sette: “Il procedimento penale pendente avanti il tribunale di Milano ove Bossi è difeso da Brigandì, non avrà, da questo momento, alcuna interferenza da parte della Lega che non intende proporre azione risarcitoria nei confronti di alcuno dei membri della famiglia Bossi”. È il processo d’appello che si è concluso con l’estinzione delle condanne di primo grado per il senatùr e per il figlio Renzi. I Bossi, in pratica, sono stati salvati dalla mancata costituzione di parte della Lega. “Io – dice Maroni – avevo detto a Salvini che non ero d’accordo. Ma lui ha fatto una scelta diversa. Diciamo che è stato mal consigliato”. E chi l’ha mal consigliato? Probabilmente Giorgetti, visto che all’epoca dei fatti, alcuni dei protagonisti di questa storia erano intercettati dalla Dia di Reggio Calabria. “Tu hai l’obbligo di recuperare quello che è il patrimonio che il partito ha perso, non è che uno, solo per chiudere una transazione positiva perché altrimenti diventiamo noi anche compartecipi di questo reato. Guarda che ti assumi una responsabilità personale molto importante se fai una cosa del genere. Riflettici, eh”, dice l’avvocato Aiello, fidato di Maroni, a Stefani. Che risponde: “Non sono solo io“. Poi l’allora tesoriere sembra lasciarsi convincere: “Chiamo anche Giorgetti e glielo dico. Perché è una cosa troppo delicata”. Non si sa se Stefani abbia chiamato Giorgetti. Di sicuro due giorni dopo Salvini firma quell’accordo con Brigandì e Bossi. E oggi Maroni è a Salvini e Giorgetti che scarica ogni domanda sui 49 milioni. E sul sottosegretario aggiunge:  “Ha un ruolo strategico, è l’uomo delle relazioni con imprese e finanza. Adesso anche della diplomazia, in particolare con gli Usa. È il consigliere più ascoltato da Salvini. Dopo le elezioni la tenuta del governo dipenderà soprattutto da lui”. Il messaggio è stato lanciato.

DOVE SONO FINITI I 49 MILIONI DELLA LEGA SCOMPARSI? Giovanni Tizian e Stefano Vergine per “la Repubblica” il 4 maggio 2019.  «Sono solo fantasie» . Così lo scorso 28 aprile Matteo Salvini aveva risposto ai cronisti che gli chiedevano commenti sull' inchiesta pubblicata da L'Espresso la scorsa settimana. In quell' articolo avevamo raccontato, tra le varie cose, dei circa 3 milioni di euro che fra il 2016 e il 2018 erano usciti dalle casse della Lega per finire, dopo diversi passaggi, sui conti correnti personali di uomini molto vicini a Salvini. Gente come il deputato e tesoriere Giulio Centemero; i commercialisti bergamaschi Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, rispettivamente direttore amministrativo del gruppo Lega al Senato e revisore contabile dello stesso gruppo alla Camera. Fatti particolarmente rilevanti, visto che nello stesso periodo i conti del partito erano sotto sequestro da parte della magistratura per via della truffa ai danni dello Stato da 49 milioni di euro, che dovrebbero tornare ai cittadini italiani ma non si trovano più. Domani, su L'Espresso pubblichiamo i contenuti di un documento della Banca d'Italia che conferma le nostre rivelazioni. È un rapporto compilato dagli analisti della Uif, l'ufficio antiriciclaggio di Palazzo Koch, quello che monitora le operazioni sospette segnalate dagli istituti bancari. Le carte ribadiscono i nomi di tutti i beneficiari dei denari usciti dalle casse di Lega per Salvini Premier, Radio Padania, Lega Nord e dalle società controllate dal partito. Non solo. Il documento di Bankitalia si concentra su un bonifico che collega il tesoriere Centemero a una piccola società italiana controllata da una holding del Lussemburgo. Si tratta della Alchimia Srl, domiciliata in via Angelo Maj 24, a Bergamo, presso lo studio di Di Rubba. Come avevamo raccontato oltre un anno fa, Alchimia ( insieme ad altre sei imprese registrate sempre nello studio di Di Rubba) fa capo alla Ivad Sarl, società lussemburghese le cui azioni sono in mano a una fiduciaria italiana. Insomma, impossibile sapere chi sia il proprietario. Di certo nel 2016 Centemero ha versato denaro sui conti della Alchimia. E lo ha fatto « utilizzando provviste derivanti dall' accredito lo stesso giorno di un bonifico della Lega Nord » , si legge nel documento di Bankitalia. Traduzione: soldi del partito potrebbero essere finiti nel Granducato. Proprio l' ipotesi che sta seguendo la procura di Genova. Da mesi i magistrati liguri sono infatti sulle tracce dei 49 milioni frutto della truffa ai danni dello Stato, quella commessa tra il 2008 e il 2010 da Umberto Bossi, che però sui conti del partito lasciò diverse decine di milioni di euro prima di passare l' incarico di segretario federale a Roberto Maroni e poi a Salvini. Il sospetto degli investigatori - che quando hanno sequestrato i conti leghisti hanno trovato solo 3 milioni di euro - è che parte del tesoro padano, costituito da fondi pubblici, sia stato riciclato in Lussemburgo. Come? Proprio usando la Alchimia e le altre sei società domiciliate a Bergamo nello studio di Di Rubba. Non a caso i nomi di queste aziende sono contenuti nel decreto del dicembre scorso con cui la guardia di finanza ha perquisito lo studio del commercialista leghista. Finora si sapeva solo che una di queste imprese, la Growth and Challenge Srl, era amministrata da Centemero. Il dettaglio contenuto nelle carte di Bankitalia certifica per la prima volta il passaggio di denaro dalla Lega a una delle sette società controllate dall' anonima holding del Granducato. Un trasferimento avvenuto attraverso Centemero, il tesoriere del partito scelto da Salvini in persona.

I conti segreti di Salvini, per la Procura esiste il finanziamento illecito svelato da L'Espresso. Sulla base delle notizie pubblicate dal nostro settimanale ad aprile 2018, i pm della Capitale avevano aperto un fascicolo di indagine sul tesoriere della Lega Giulio Centemero e sul commercialista che gestisce i conti di uno dei gruppi parlamentari. Ora i magistrati hanno chiuso l'inchiesta e sono pronti a chiedere il rinvio a giudizio per i fedelissimi del Capitano. Giovanni Tizian il 6 novembre 2019 su L'Espresso. Chiusa l'indagine della procura di Roma sul finanziamento illecito alla Lega. Indagati il tesoriere Giulio Centemero, il commercialista del partito Andrea Manzoni e il finanziatore, il costruttore romano Luca Parnasi. La vicende riguarda i 250 mila euro versati dall'immobiliare Pentapigna di Parnasi all'associazione Più Voci, una sconosciuta associazione diventata nota solo dopo gli articoli dell'Espresso di un anno e mezzo fa. Era il primo aprile 2018, la copertina del nostro giornale recitava:  "I conti segreti di Salvini" . In quel lungo servizio svelavano l'esistenza della Più Voci e i soldi confluiti nelle casse di quella associazione culturale, registrata presso lo studio dei commercialisti del partito, a Bergamo in via Angelo Maj. Raccontavano di Luca Parnasi, dei 250 mila euro, divisi in due tranche, mesi prima che Parnasi finisse al entro dello scandalo "Nuovo stadio della Roma". E rivelavamo anche il bonifico di 40 mila euro versato da Esselunga sempre all'associazione leghista fondata dal tesoriere Centemero insieme ad Andrea Manzoni. Anche su Esselunga indagano i magistrati, però a Milano. Un filone questo che si sta chiudendo. Nella Capitale, i magistrati sono pronti a chiedere il rinvio a giudizio degli indagati. Il nome politico più pesante è proprio il tesoriere del partito di Matteo Salvini. Che doveva rivoluzionare la gestione contabile, dopo la bufera Belsito e Bossi, e che invece si ritrova a dover rispondere di reati da prima Repubblica. Insieme al finanziamento alla Più voci leghista, i pm capitolini hanno chiuso anche il filone sul tesoriere Dem Bonifazi, ora Italia Viva: la fondazione renziana Eyu ha ricevuto denaro di Parnasi. Anche in questo caso per i pm è un versamento illecito.

Milioni investiti illegalmente. E la onlus Più voci per incassare i soldi dei finanziatori. Ecco cosa nasconde la Lega. Giovanni Tizia e Stefano Vergine il 30 marzo 2018 su L'Espresso. Dov’è finito il tesoro della Lega? Dove sono spariti i 48 milioni di euro che il tribunale di Genova vorrebbe mettere sotto sequestro dopo la condanna di Bossi per truffa ai danni dello Stato? Da mesi i giudici di Genova sono a caccia di quei denari. Finora sui conti del Carroccio sono stati però rinvenuti poco più di 2 milioni. E gli altri? «Oggi sul conto corrente della Lega nazionale abbiamo 15 mila euro», ha detto lo scorso 3 gennaio Matteo Salvini, l'aspirante premier, l'uomo che vuole l'incarico di governo e che non perde occasione per ricordare come il suo partito sia senza un quattrino. Alcuni documenti bancari, tuttavia, aiutano a comprendere meglio che fine ha fatto la ricchezza leghista. Facendo emergere un fatto inedito: sia sotto la gestione di Roberto Maroni, sia in seguito sotto quella di Salvini, parecchi milioni sono stati investiti illegalmente. Una legge del 2012 vieta infatti ai partiti politici di scommettere i propri denari su strumenti finanziari diversi dai titoli di Stato dei Paesi dell’Unione europea. Il partito che si batte contro «l’Europa serva di banche e multinazionali» (copyright di Salvini) ha cercato di guadagnare soldi comprando le obbligazioni di alcune delle più famose banche e multinazionali. Ma c'è di più. In questa trama finanziaria si ritaglia un ruolo anche un'associazione finora sconosciuta. Si chiama Più voci. Una onlus come tante, ma di area leghista. Con una particolarità: è usata dalla Lega per ricevere finanziamenti dalle aziende, denari girati subito dopo a società controllate dal partito. L'associazione è stata creata da tre commercialisti fedelissimi a Salvini nell’ottobre del 2015, nel pieno del processo per truffa contro Umberto Bossi e l'ex tesoriere Francesco Belsito. Non ha un sito web, né sembra  attiva nel dibattito pubblico. Di certo, però, su quel conto corrente hanno lasciato traccia lauti bonifici. Chi ha finanziato la sconosciuta Più voci? L'Espresso, in edicola da domenica 1 aprile, pubblicherà i nomi delle aziende e degli imprenditori (insospettabili leghisti) che hanno offerto il loro contributo alla Lega sovranista di Salvini. Alle domande de L’Espresso, il partito guidato da Salvini ha preferito non rispondere. Ha commentato, invece, chi ha versato parte dei contributi sul conto della onlus.

Da ilfattoquotidiano.it il 5 novembre 2019. La procura di Roma ha chiuso il filone di indagine dell’inchiesta sul nuovo stadio della Roma nella parte riguardante i finanziamenti versati dall’imprenditore Luca Parnasi. Giulio Centemero, tesoriere della Lega, su cui indaga anche la procura di Milano, Francesco Bonifazi, ex tesoriere del Pd ora passato a Italia Viva. I finanziamenti da parte dell’imprenditore alla associazione Più Voci, secondo gli inquirenti, sono stati elargiti nel 2015 e nel 2016. Per quanto riguarda la fondazione Eyu il finanziamento risale al 2018.

Centemero, ancora guai: indagato anche a Milano. Nei confronti di Centemero è contestato il reato di finanziamento illecito così come per Bonifazi. Per quest’ultimo c’è anche l’emissione di fatture per operazioni inesistenti. Al centro dell’indagine, coordinata dal procuratore aggiunto Paolo Ielo, i finanziamenti dell’imprenditore romano, rinviato a processo lo scorso luglio. In particolare i 150mila euro destinati alla fondazione Eyu, vicina al Pd, e i 250mila euro all’associazione Più Voci presieduta all’epoca dei fatti da Centemero e ritenuta vicina al Carroccio. Nei confronti di Parnasi l’accusa è di concorso in finanziamento illecito. Questo filone di indagine era nato intorno al progetto per il nuovo stadio nella zona di Tor di Valle. Era stata una singola intercettazione ambientale ad attivare gli inquirenti. Si trattava di dialoghi avvenuti durante un incontro prima delle elezioni del 4 marzo, tra Parnasi, Bonifazi e un altro esponente di Eyu, Domenico Petrolo, e che aveva come oggetto il finanziamento da 150 mila euro in vista delle politiche del 4 marzo scorso. “Ho avuto vari colloqui con Bonifazi – aveva sostanzialmente detto l’imprenditore – sia in luoghi istituzionali che altrove”. I finanziamenti sarebbero partiti dalla società Pentapigna di Parnasi. Il tesoriere del Carroccio condivide la contestazione degli inquirenti con Andrea Manzoni, attuale revisore legale del gruppo Lega-Salvini al Senato: sotto la lente degli inquirenti ci sono 250mila euro erogati tra il 2015 e il 2016 in due tranche all’associazione. Per quanto riguarda invece l’altro filone, Bonifazi, è accusato di finanziamento illecito insieme con Gianluca Talone, commercialista di Parnasi, e Domenico Petrolo, responsabile delle relazioni esterne e di Eyu e accusato anche di emissione di fatture per operazioni inesistenti. Nell’indagine figura anche una funzionaria della soprintendenza archeologica, Anna Buccellato, accusata di tentata concussione ai danni di Parnasi che in questo caso è parte lesa: la donna avrebbe cercato di imporre alla società Euronova la nomina di un architetto di sua fiducia arrivando a minacciare una “vera e propria guerra”.

Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” il 5 novembre 2019. Finanziamenti da centinaia di migliaia di euro elargiti dal costruttore romano Luca Parnasi alla Lega e al Pd. Soldi versati come donazioni e sponsorizzazioni ma che in realtà, questa è l' accusa, servivano a sostenere in maniera occulta i partiti. Per questo i magistrati romani si apprestano a chiedere il rinvio a giudizio dell' attuale tesoriere del Carroccio Giulio Centemero e dell' ex tesoriere pd Francesco Bonifazi, ora passato a Italia viva di Matteo Renzi. Per lui è scattata anche la contestazione di false fatturazioni in concorso con Domenico Petrolo, che nel Pd era componente del dipartimento Cultura. Per la Lega il provvedimento di chiusura delle indagini è stato notificato anche ad Andrea Manzoni, attuale revisore legale del gruppo Lega-Salvini al Senato. Era stato proprio Parnasi ad ammettere durante i suoi interrogatori di aver «pagato le fondazioni e le associazioni per arrivare ai partiti e a certi ambienti». Un atteggiamento di collaborazione che gli aveva consentito di ottenere gli arresti domiciliari raccontando i suoi rapporti con i politici: «Mi chiamavano in tanti per farsi sostenere economicamente, io li accontentavo perché poi potevano tornare utili». Il denaro alla Lega viene versato in due diverse tranche . Attraverso la sua società «Immobiliare Pentapigna» Parnasi, questo scrivono i pubblici ministeri coordinati dal procuratore aggiunto Paolo Ielo «erogava un contributo economico pari a 125 mila euro il 1 dicembre 2015 e un contributo economico pari a 125 mila euro il 12 febbraio 2016 attraverso bonifici bancari a favore dell' associazione "Più Voci" rappresentata da Centemero coadiuvato da Manzoni». A far scattare la contestazione di finanziamento illecito è il fatto che «Più Voci» è, come sottolineano i pm, un'«associazione riconducibile al partito politico "Lega Nord", quale sua diretta emanazione e, comunque, costituisce una sua articolazione», ma soprattutto che «i contributi sono stati erogati in assenza di delibera da parte dell' organo sociale competente e senza l' annotazione dell' erogazione nel bilancio», nonostante fosse stata poi giustificata come pubblicità su Radio Padania. Il Pd è stato invece finanziato pagando un libro ben 150 mila euro. I pm contestano infatti a Parnasi di aver «erogato un contributo a Bonifazi camuffato attraverso il pagamento da parte di "Immobiliare Pentapigna" di uno studio commissionato dalla Fondazione Eyu avente ad oggetto "Casa: il rapporto degli italiani con il concetto di proprietà" pari a 150 mila euro attraverso due bonifici bancari di 100 mila euro il 1 marzo 2018 e 50 mila il 5 marzo 2018». E accusano: «Al fine di evadere le imposte Petrolo e Bonifazi emettevano in favore della "Pentapigna" una fattura per operazione inesistente».

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 21 novembre 2019. «Un fondo immobiliare per i tuoi progetti. Se ti può interessare posso sondare un paio di famiglie emiratine con cui lavoro per investire. Pensaci e in caso mi muovo volentieri». È così che il tesoriere del Carroccio Giulio Centemero dava consigli all'imprenditore Luca Parnasi su una chat Telegram nel dicembre 2017 e la data coincide con l'organizzazione di una cena nell'appartamento di Parnasi ai Parioli. All'incontro era prevista anche la partecipazione del leader della Lega Matteo Salvini e di uno dei suoi uomini più fidati, Giancarlo Giorgetti. Sono altri dettagli sui rapporti tra il costruttore romano e la politica che emergono dagli atti dell'inchiesta che vede il costruttore indagato per finanziamento illecito alla Lega e al Pd, rispettivamente attraverso l'associazione Più voci, riconducibile al Carroccio, ed alla fondazione Eyu, collegata ai dem. Con lui rischiano il processo Centemero e l'ex tesoriere del Pd Francesco Bonifazi, oggi in Italia Viva. È dal telefono di Parnasi che emergono altri dettagli sui 250 mila euro trasferiti dalla società Pentapigna a Più voci. Il riferimento ai bonifici è chiaro in una conversazione tra Parnasi e Andrea Manzoni, commercialista e referente dell'associazione Più voci e di Radio Padania. Il 25 novembre del 2015 via Telegram: «Ciao, Luca, sono Andrea Manzoni (Associazione Più Voci) appena fai il bonifico del contributo, mi puoi avvisare? Così provvedo all'emissione della ricevuta (con inclusa privacy). Grazie mille scusami se ti ho disturbato». E Parnasi replica: «Ciao Andrea credo parta lunedì. Entro fine mese come promesso. Il bonifico da 125 parte dalla società immobiliare Pentapigna». Cinque giorni dopo il costruttore romano invia un altro messaggio a Manzoni: «Ciao Andrea, mi mandi i dati dell'associazione Più Voci, mi serve l'Iban». I pubblici ministeri Barbara Zuin e Luigia Spinelli hanno verificato che l'ordine parte in effetti il lunedì successivo, ossia il primo dicembre. Ne seguirà un altro, per la stessa somma il 12 febbraio 2016. La cena al quartiere Parioli di Roma a casa di Parnasi. E gli atti confermano quanto già emerso nella fase istruttoria: il costruttore romano era pronto a fare un nuovo finanziamento al Carroccio. Ne parla direttamente con Centemero, con il quale prende appuntamento per l'incontro e contemporaneamente torna a chiedere i dati bancari. All'incontro è prevista anche la presenza del leader della Lega Matteo Salvini e di uno dei suoi uomini più fidati, ovvero Giancarlo Giorgetti Così scrive Parnasi: «Confermato cena il 19. Direi ore 20:30 in Piazza 9, interno 9 ok?» Centemero: «Perfetto () Viene anche Giancarlo ok? () Per Iban et similia facciamo de visu o vuoi tutto in anticipo?». Parnasi: «Okay io sono a Milano oggi e domani se vuoi ci incontriamo». Centemero: «Oggi tra un'ora sono in centro a Milano, domani sono abbastanza flessibile tutto il giorno». «Alle 23 da te». In un'altra conversazione si parla più nel dettaglio dell'incontro conviviale nella casa di Parnasi. Dice Centemero: «Ciao Luca se non è un problema domani oltre a Giancarlo, Matteo e me ci sarebbe anche il ragazzo che segue Matteo nella campagna elettorale () Alle 20:30 siamo da te. È ok se c'è anche il ragazzo (Andrea) che segue Matteo in campagna? Scusami davvero l'agenda di Salvini è sempre in divenire». Parnasi: «Ok».

M.E.V. per "la Repubblica" il 21 novembre 2019. Bonifici, cene, contatti. Luca Parnasi foraggiava e il clan di Matteo Salvini favoriva contatti, condivideva idee. C' è tutto questo nelle carte della procura di Roma depositate con la chiusura indagine del filone dell' inchiesta sul nuovo stadio della squadra giallorossa che riguarda i soldi alla politica e per il quale i pm contestano il finanziamento illecito al tesoriere della Lega, Giulio Centemero e ad Andrea Manzoni, revisore legale del gruppo al Senato. Lo stesso reato è contestato anche all' ex tesoriere del Pd Francesco Bonifazi. I finanziamenti alla Lega, attraverso l' associazione Più Voci, risalgono alla fine del 2015 e all' inizio del2016: 250 mila euro in due tranches da 125, decise in accordo con Manzoni come rivelato da una serie di chat. Soldi illeciti, secondo gli inquirenti, ma che a Parnasi hanno assicurato l' amicizia del Carroccio. Le conversazioni acquisite dai carabinieri del nucleo investigativo e riportate da L' Espresso raccontano come tra Centemero e Parnasi ci fosse un' amicizia solida. Tanto che, in piena campagna elettorale, Centemero porta a cena dal costruttore Matteo Salvini e Giancarlo Giorgetti, i pezzi forti della Lega e del governo gialloverde che verrà. Siamo nel 2017, sono passati due anni dai finanziamenti. Il 19 dicembre, per lo scambio degli auguri natalizi, Parnasi invita a cena il gotha sovranista. Nei messaggi Telegram per accordarsi, il tesoriere, scrive: "Per Iban et similia facciamo de visu o vuoi tutto in anticipo?". Il giorno dopo Centemero è entusiasta: "Ciao Luca, volevo ringraziarti molto per la cena, hai messo al tavolo delle persone di valore e sono contento Matteo ci si sia confrontato". E continua: "Ieri ho capito che Banca Igea sta costituendo un fondo immobiliare per i tuoi progetti, se ti può interessare posso sondare una paio di famiglie emiratine con cui lavoro per investirci. Pensaci, nel caso mi muovo volentieri", la proposta del deputato leghista che ieri ha parlato di "morbosa volontà di certi giornalisti di entrare nella mia vita privata e spiarci dentro". Non è l' unico incontro agli atti del fascicolo del procuratore aggiunto Paolo Ielo e dei pm Luigia Spinelli e Barbara Zuin. C' è una cena romana nell' aprile 2016 ("Una cena di foundraising [...] Nessuna domanda sarà illecita, unica regola è farla in pubblico e condividerla... io lo chiamo fight club", scrive Centemero su Telegram) e un pranzo a Milano nel 2016. Insomma, una frequentazione piuttosto assidua. Anche se, quando Parnasi fu arrestato, nel giugno 2018, il leader della Lega, definendolo persona «corretta e simpatica», ammise di essere andato allo stadio con lui una volta. Cene e pranzi il Capitano non li ricordava.

Ferruccio Sansa e Valeria Pacelli per "il Fatto quotidiano” il 21 novembre 2019. La Guardia di Finanza di Genova sta svolgendo accertamenti su "14 segnalazioni di operazioni sospette" riguardanti alcuni soggetti in orbita leghista. Sono tutte contenute in un' annotazione del Nucleo Valutario della Guardia di Finanza che ha analizzato i flussi finanziari tra una serie di società. L' annotazione è agli atti della procura di Roma che ha indagato Giulio Centemero per finanziamento illecito. Il tesoriere della Lega è finito sotto accusa per i 250 mila euro che la Immobiliare Pentapigna (società che era riconducibile all' imprenditore Luca Parnasi) ha versato nel 2015 alla onlus leghista Più Voci. Nulla a che vedere quindi con le operazioni sospette. L' informativa della Finanza però è stata inviata dai magistrati capitolini ai colleghi di Genova, che da mesi danno la caccia ai 49 milioni spariti dai conti della Lega. È nell' ambito di questo fascicolo che lo scorso 10 dicembre la Finanza ha perquisito gli uffici dei commercialisti bergamaschi Andrea Manzoni e Alberto Di Rubba (non indagati), revisori legali del Carroccio al Senato e alla Camera. Di Rubba è amministratore unico di alcune delle società citate nell' analisi pre-investigativa del Nucleo Valutario, riversata poi in un' informativa dei colleghi del gruppo investigativo criminalità economico-finanziaria. Per esempio ricopre questa carica nella Studio Dea Consulting srl (poi divenuta Partecipazioni Srl). Questa società viene citata sia tra i soggetti sui quali la società Sdc srl, "ha girato i fondi provenienti da Radio Padania, tramite bonifici con causale riferita a fatture". Poi nell' annotazione è scritto: "A tal proposito si rappresenta che la Studio Dea consulting risulta aver versato il capitale sociale della Sdc srl (costituita a febbraio 2016) e della Vadoline Srl, nonostante la sua formale estraneità alla compagine societaria di entrambe". In un altro passaggio invece è scritto che l' operatività finanziaria delle società riconducibili a Studio Dea Consulting "evidenzia come su tali società siano confluiti flussi finanziari provenienti dalla Lega Nord o comunque da altri soggetti collegati a tale partito (tra cui radio Padania)". Intanto altre novità emergono dalle carte depositate nell' inchiesta romana su Centemero. Dalle chat estrapolate dal cellulare di Parnasi - anticipate ieri da L' Espresso - vi sono i messaggi scambiati con Giulio Centemero. È il 9 dicembre e Parnasi scrive al tesoriere della Lega utilizzando l' applicazione Telegram: "Sto organizzando il 19 a casa mia. Che ne dici?". "Direi ottimo", risponde Centemero. Che il giorno dopo scrive di nuovo: "Viene anche Giancarlo ok?". E ancora: "Per Iban et similia facciamo de visu o vuoi tutto in anticipo?". Non è chiaro a cosa si riferisse. Qualche giorno dopo i due si sentono di nuovo. "Alle 20.30 siamo da te, ok? - scrive Centemero - è ok se c' è (Andrea) il ragazzo che segue Matteo in campagna. Scusami davvero l' agenda di Salvini è sempre in divenire". Il 20 dicembre il tesoriere ringrazia l' imprenditore: "Ciao Luca, volevo ringraziarti molto per la cena. () Hai messo al tavolo delle persone di valore e sono contento Matteo ci si sia confrontato". Chi siano le persone presenti alla cena non lo dicono. Ma in quello scambio di messaggi a un certo punto Parnasi chiede: "Grazie a te di cuore. Ma come fa Francesco Storace a sapere della cena con Matteo?". "Storace? - risponde Centemero - O glielo ha detto Matteo o l' addetta stampa di Matteo. Indago oppure Storace ha contatti in questura (Matteo gira con la scorta)". Lo stesso giorno Centemero parla anche di altro con Parnasi. Ad un certo punto infatti scrive: "Ieri ho capito che Banca Igea sta costituendo un fondo immobiliare per i tuoi progetti. Se ti può interessare posso sondare una paio di famiglie emiratine con cui lavoro per investirci. Pensaci, nel caso mi muovo volentieri".

Fondi Lega, perquisizioni della Finanza per l’inchiesta sui 49 milioni: indagato assessore lombardo. Il Riformista il 10 Dicembre 2019. I militari della Guardia di Finanza hanno effettuato una serie di perquisizioni e approfondimenti nell’ambito dell’inchiesta della procura di Genova legata ai 49 milioni di euro confiscati alla Lega per i rimborsi elettorali. Il blitz delle Fiamme gialle avrebbe riguardato l’Associazione Maroni Presidente. IL PROCESSO SUI RIMBORSI DELLA LEGA – L’indagine della procura ligure nasce da quella sui rimborsi elettorali che la Lega avrebbe ottenuto ai danni del Parlamento tra il 2008 e il 2010, falsificando rendiconti e bilanci. Il processo sulla vicenda si è chiuso lo scorso 6 agosto con la sentenza della Cassazione che ha dichiarato prescritti i reati per Umberto Bossi e per il tesoriere Francesco Belsito, confermando però la confisca dei 49 milioni di euro. L’INDAGINE SUL RICICLAGGIO – I magistrati di Genova stanno ora lavorando su un presunto riciclaggio di parte di quei fondi che il partito di Matteo Salvini sta restituendo a rate allo Stato: secondo i pm parte di quei 49 milioni di euro sono stati fatti sparire in Lussemburgo tramite la banca Sparkasse di Bolzano e poi fatti rientrare in parte dopo i primi sequestri disposti dalla Procura. L’istituto di credito del Trentino Alto-Adige ha invece sostenuto che i fondi, circa 10 milioni di euro, fossero della stessa banca e slegati invece della Lega.

IL RUOLO DELL’ASSOCIAZIONE MARONI PRESIDENTE – Le perquisizioni nella sede dell’Associazione Maroni Presidente fanno seguito all’esposto presentato dall’ex consigliere della lista Maroni Presidente, Marco Tizzoni: quest’ultimo chiedeva di capire se l’Associazione Maroni Presidente “fosse stata tenuta nascosta ai consiglieri dovendo servire quale soggetto occulto di intermediazione finanziaria in favore della Lega o di terzi”. Lo stesso Tizzoni nel giugno scorso era stato ascoltato come persona informata sui fatti dagli inquirenti genovesi.

INDAGATO L’ASSESSORE REGIONALE – La Finanza ha effettuato un blitz anche negli uffici dell’assessore regionale alle Culture, identità e autonomie di Regione Lombardia, Stefano Bruno Galli. L’esponente leghista sarebbe indagato in quanto presidente dell’Associazione Maroni Presidente nell’inchiesta della procura di Genova, con gli inquirenti che stanno cercando di rintracciare i 49 milioni di euro derivanti dalla falsificazione dei bilanci del partito.

LE ACCUSE DAL PD – Al diffondersi della notizia non è mancata la polemica politica. Ad attaccare la Lega e il suo leader è il senatore Pd Dario Parrini: “Una sentenza definitiva ha sancito che la Lega ha truffato lo Stato per 49 milioni, falsificando bilanci e rendiconti per ottenere i rimborsi pubblici. La Lega è condannata a restituire quelle somme ma non lo ha fatto. Da tempo sul partito di Salvini gravano forti sospetti di riciclaggio. Pochi minuti orsono un salto di qualità: mentre scrivo sono in corso perquisizioni della GdF relative a questa inchiesta. Al centro degli accertamenti l’Associazione Maroni Presidente. Stiamo ancora aspettando, dopo tante iniziative parlamentari, che Salvini ci dica dove sono finiti i proventi della truffa. Per ora ha fatto scena muta”.

Lega, Gdf setaccia le sedi. Nel mirino l’associazione “Maroni presidente”. Il Dubbio l'11 Dicembre 2019. A caccia dei fondi leghisti. A poche settimane dal voto emiliano, nuovi guai giudiziari per il partito di Salvini. Indagato l’assessore lombardo Bruno Galli. Il nuovo capitolo delle indagini sui fondi della Lega Nord – i 49 milioni di euro di rimborsi elettorali che il Carroccio dovrebbe restituire allo Stato – arriva nel momento in cui il Matteo Salvini sta impegnando tutte le sue energie sui tanti fronti aperti nel tentativo di consolidare la leadership del suo partito nel Paese: dalla battaglia contro il governo giallorosso sul Mes, alla campagna elettorale per «scippare» l’Emilia Romagna e la Calabria al Pd nelle prossime regionali, all’attacco quotidiano sferrato al sindaco di Roma Virginia Raggi con l’obiettivo di logorare l’inquilina del Campidoglio fino ad arrivare a issare la bandiera Padana sul colle capitolino nel 2021. Ieri mattina la Guardia di Finanza ha infatti eseguito una serie di perquisizioni nell’ambito dell’indagine della procura di Genova sui 49 milioni confiscati in via definitiva alla Lega. Le verifiche hanno preso di mira in particolare l’ «Associazione Maroni presidente». I magistrati genovesi stanno verificando l’ipotesi di un presunto riciclaggio di parte di quei fondi, che da settembre il partito sta restituendo allo Stato a rate. Quindi, la visita della Guardia di Finanza a Palazzo Lombardia, sede della giunta regionale, negli uffici dell’assessore Stefano Bruno Galli, che sarebbe indagato in quanto presidente dell’ «Associazione Maroni presidente». Membri del consiglio direttivo, secondo quanto riportato dallo statuto, sono anche Ennio Castiglioni, attuale direttore generale dell’assessorato di Galli, Andrea Cassani, e il senatore Stefano Candiani, già sottosegretario all’Interno nel governo gialloverde. Da Salvini nessun commento, per il momento. L’ultimo suo post su Facebook è ancora un attacco al sindaco di Roma, accompagnato dall’hashtag #virginiadimettiti.

Fondi Lega, perchè il partito è accusato di riciclaggio. Debora Faravelli l'11/12/2019 su Notizie.it.  Il primo ad essere accusato di riciclaggio nell'inchiesta sui 49 milioni è Stefano Bruno Galli: che ruolo ha Salvini nella vicenda? Emerge il primo indagato dell’inchiesta sui 49 milioni di cui la Lega si sarebbe appropriata tra il 2008 e il 2010, vale a dire l’assessore regionale Bruno Galli: il reato che gli viene contestato è quello di riciclaggio.

Lega accusata di riciclaggio. Secondo l’accusa, Galli sarebbe stato responsabile di operazioni illecite attraverso l’associazione Maroni Presidente su parte del denaro proveniente dai reati di truffa aggravata commessi da Bossi e Belsito, quello che sarebbe derivato dalla falsificazione dei bilanci del partito. Stando a quanto scritto dagli atti della Cassazione, la Lega si sarebbe infatti appropriata di rimborsi elettorali ai danni del Parlamento e li avrebbe fatti confluire nell’associazione controllata da Galli. La sentenza prevede ora la restituzione dell’intera somma tramite rate da 600.000 euro da versare per 80 anni.

Veniamo ora al ruolo dell’assessore. Le perquisizioni della Guardia di Finanza si sono concentrate in particolare su una somma di 450.000 euro che dalla Banca Aletti sarebbero passati all’associazione. Soldi erogati per la campagna elettorale di Maroni e che in realtà sarebbero stati girati su conti della Lega. Secondo gli inquirenti un’altra parte dei 49 milioni sarebbero poi stati nascosti in Lussemburgo attraverso la Banca Sparkasse di Bolzano. Quest’ultima ha sempre sostenuto che quei fondi, dell’ammontare di circa 10 milioni, fossero soldi dello stesso istituto che non c’entravano nulla con il partito.

Il ruolo di Salvini. In merito a questa vicenda il leader del Carroccio ha sempre dichiarato che si tratta di fatti antecedenti alla sua nomina di segretario adducendo che non vi ha nulla a che fare. L’associazione presieduta da Galli nata per sostenere Maroni alle elezioni regionali è in realtà nata nello stesso anno in cui Salvini assume la guida del partito. Per questo diversi esponenti dem l’hanno incalzato a far luce sulla vicenda.

Davide Milosa e Ferruccio Sansa per “il Fatto quotidiano” l'11 dicembre 2019. Operazioni per oltre 450 mila euro compiute tra il marzo 2013 e l' aprile 2018, quando Matteo Salvini era segretario della Lega. Secondo i pm genovesi sarebbero una fetta dei 49 milioni che gli inquirenti cercano da anni nelle casse del Carroccio. Nell' inchiesta sul tesoro scomparso della Lega arriva il primo indagato: Stefano Bruno Galli, assessore del Carroccio nella giunta di Attilio Fontana (Cultura e Autonomie), indagato per riciclaggio dai pm genovesi. Ieri la Finanza ha compiuto perquisizioni che, oltre a Galli - toccato dall' inchiesta in quanto presidente dell' Associazione Maroni Presidente - hanno riguardato le società Boniardi Grafiche srl e Nembo srl. Della prima è socio il parlamentare leghista Fabio Massimo Boniardi: è stato sequestrato materiale contabile, ma gli investigatori non hanno potuto acquisire il contenuto del pc e dei server aziendali perché Boniardi ha fatto valere le sue tutele in quanto la tipografia rientra tra le sue "residenze" e nella memoria sarebbero collocati file riservati relativi ad attività parlamentari. Ecco l' ipotesi dei pm: tra il 2013 e il 2018 parte del tesoro della Lega, depositato presso la banca Aletti, sarebbe passata all' Associazione Maroni Presidente. Di qui quasi 500 mila euro sarebbero andati alle due società tipografiche per la realizzazione di campagne elettorali (soprattutto per il "sì" al referendum per l' autonomia di fine 2017). Ma, sostengono i pm, poster e volantini non sarebbero stati stampati e il denaro sarebbe tornato nelle casse della Lega; sarebbe il provento della truffa ai danni del Parlamento. Di qui l' ipotesi di riciclaggio. La storia era scritta in un esposto di 30 pagine depositato alla procura di Milano nel febbraio 2018. A firmarlo l' ex consigliere regionale Marco Tizzoni eletto nel 2013 con la lista Maroni Presidente. Si leggeva: "Nello statuto dell' Associazione Maroni Presidente sono segnalati gli scopi e nessuno di questi risulta essere mai stato perseguito dai suoi membri Vi è il sospetto che l' associazione sia stata tenuta nascosta a noi consiglieri dovendo servire quale soggetto occulto di intermediazione finanziaria in favore della Lega o di terzi". Il fascicolo fu aperto e nel registro degli indagati venne iscritto Galli (appropriazione indebita) che poi ottenne l' archiviazione. Ma la Procura di Genova ha ripercorso la storia ritenendo di aver trovato traccia dei 49 milioni: nei bilanci dell' associazione si parla di quasi mezzo milione che risulta restituito al partito, senza che siano specificati i passaggi bancari. Ora i pm genovesi vogliono ricostruire il percorso del denaro che, in due fette da oltre 200 mila euro, è andato alle società perquisite (soci e amministratori non sono indagati). Da qui sarebbe tornato al partito. Boniardi nega: "Abbiamo fornito alla Finanza la documentazione contabile richiesta. Il materiale di propaganda è stato realmente stampato e spedito per corriere". Ma è vero che una parte del materiale richiesto dagli investigatori è stata negata? "Nel mio pc e nel server aziendale c' erano file sulla mia attività parlamentare. Per questo mi sono opposto". L' Associazione Maroni Presidente ha continuato a svolgere la sua attività anche dopo le elezioni 2013. Come racconta Boniardi e come risulta dal sito si è impegnata per il referendum del 2017 e ha sostenuto l' attuale governatore Fontana. Tra i fondatori, oltre a Galli, compaiono altri nomi noti del Carroccio (non toccati dall' inchiesta). Ci sono Andrea Cassani - sindaco di Gallarate indagato per turbativa d' asta nell' indagine milanese sulle tangenti legate a Nino Caianiello - e Aurora Lussana, ex direttrice della Padania e moglie di Nicola Molteni, ex sottosegretario di Matteo Salvini. Nel consiglio direttivo anche Stefano Candiani, sottosegretario agli Interni con Salvini ministro.

Stefano Zurlo per ''il Giornale'' il 12 dicembre 2019. Nuovi interrogatori in arrivo. L'esame dei documenti sequestrati nelle scorse ore fra Milano, Lecco e Monza. La sensazione che presto ci saranno nuovi indagati oltre al potente assessore della giunta Fontana, Stefano Bruno Galli, sotto accusa per riciclaggio. La storia è quella dei 49 milioni di rimborsi incassati a suo tempo dalla Lega e spariti nelle affamate casse del partito. «Quei soldi non ci sono più, non ne sappiamo nulla», ripetevano in coro i dirigenti del nuovo Carroccio a trazione salviniana. L'inchiesta della procura di Genova, nata da una costola di quella sulla truffa da 49 milioni orchestrata ai tempi di Umberto Bossi, sembra aprire un'altra partita. E fa tremare numerosi big del partito: gli investigatori hanno scoperto che un rivolo di quei 49 milioni, circa 450mila euro, è finito a suo tempo all'Associazione Maroni Presidente, guidata appunto da Galli. Non solo. È quel che accade in seguito, dal 2013 al 2018, a disegnare scenari inediti: quei soldi sulla carta servono per finanziare la vittoriosa campagna di Maroni per la conquista del Pirellone, ma qualcosa non quadra. I denari sarebbero stati impiegati per finanziare manifesti e materiale elettorale presso due tipografie: la Nembo di Monza, oggi chiusa, e la Grafiche Boniardi che per il 25 per cento fa capo al deputato Fabio Massimo Boniardi. Ma, secondo i detective, i costi sarebbero stati gonfiati, le forniture sarebbero state modeste se non inesistenti e dunque tutte le fatture emesse devono essere controllate una a una. L'ipotesi, insomma, è che i soldi siano rimasti alla Lega e siano stati nascosti da qualche parte, in una sorta di gioco a rimpiattino con la Procura di Genova. Certo, i versamenti vanno avanti per anni e finiscono solo ad aprile 2018, in piena era salviniana, in concomitanza con la chiusura dell'Associazione. Attiva in numerose campagne elettorali e anche in occasione del referendum sull'autonomia del 2017. Scattano le perquisizioni, anche nelle sedi istituzionali della Regione, e i finanzieri bussano in tipografia. A questo punto Boniardi decide che quello è il suo domicilio parlamentare e blocca i finanzieri che vorrebbero portare via copia degli hard disk. Maroni intanto prende le distanze dall'associazione, mentre emergono i nomi dei consiglieri: fra questi spicca il senatore Stefano Candiani, sottosegretario all'Interno nel passato governo gialloverde. La caccia al tesoro, iniziata quasi due anni fa, sembra arrivata ad un tornante delicato. I possibili sviluppi potrebbero avere ripercussioni sugli equilibri della politica. Tutto questo accade mentre la Lega ha iniziato a restituire il debito in comode rate spalmate nell'arco di 80 anni. La procura segue le tracce indicate da Marco Tizzoni, un militante deluso che ha firmato un esposto e consegnato informazioni ai pm. Dopo un lungo stallo, ecco l'accelerazione. E altri interrogatori sono in programma a Genova.

Riuscirà Salvini a sfuggire alla caccia al cinghiale? Piero Sansonetti l'11 Dicembre 2019 su Il Riformista. Forse è partito l’attacco alla Lega. L’attacco della magistratura, voglio dire. I sondaggi danno leggermente in calo il partito di Salvini. Sotto al 30 per cento. Magari qualcuno coi pensieri maligni può sospettare che sia stato scelto per questo il momento dell’azione. I magistrati di Genova, quelli che sono titolari dell’inchiesta famosa sui 49 milioni, hanno sguinzagliato i finanzieri in varie perquisizioni, a Milano, a Monza, a Lecco. Il bersaglio è l’associazione Maroni-Presidente, quella che sostenne Bobo Maroni nella sua campagna elettorale, vittoriosa, nel 2013 per la presidenza della regione Lombardia. Maroni in quell’occasione sconfisse Umberto Ambrosoli, giovane avvocato di sinistra, figlio di Giorgio Ambrosoli, anche lui avvocato, che fu ucciso dalla mafia nel 1979 perché stava incastrando Sindona (ricordate la storia del finanziere Sindona, gran faccendiere a metà strada tra politica e mafia, ucciso in carcere, come in un libro giallo, nel 1986?). I magistrati sospettano che i 49 milioni (illegalmente percepiti dalla Lega attraverso un meccanismo complicati di falsi rendiconti delle spese rimborsabili dallo Stato), almeno in parte siano transitati nei conti di questa associazione di Maroni. Il quale, dal 2012 fino al 2013, cioè fino all’elezione a governatore lombardo, era stato il segretario e capo della Lega, subito dopo Bossi e subito prima di Salvini e della svolta sovranista. Siccome il presidente di questa associazione intitolata a Maroni era Stefano Bruno Galli, che oggi è assessore regionale, i Pm hanno deciso di indagare Galli. Non per un reato piccolo piccolo ma addirittura per riciclaggio. L’accusa di riciclaggio è molto seria, il codice penale (articolo 648 bis) prevede pene fino a 12 anni. Superiori alle pene per stupro e appena appena inferiori a quelle per omicidio con qualche attenuante. Diciamo che Galli è nei guai. Anche perché Bobo Maroni, ieri, forse un po’ impaurito, è sembrato quasi quasi che lo scaricasse. Ha dichiarato di non sapere niente dei fondi usati dalla associazione intestata al suo nome. Ha detto che lui non se ne occupava, e che però – almeno questo lo ha dichiarato – ha piena fiducia negli amministratori. Cioè in Galli. Sembra però un po’ una frase fatta, quasi obbligatoria, non sembra proprio una difesa convinta e appassionata. Il fatto è che quando si capisce che i magistrati stanno muovendo guerra, guerra seria, i politici, non di rado, si impauriscono un po’. Galli è sulla graticola, chiaro. Ma è difficile immaginare che una inchiesta così, con le spettacolari perquisizioni di ieri, sia stata messa su per andare a colpire solo Stefano Bruno Galli. I Pm, forse, vorrebbero andare oltre. Cioè oltre l’orizzonte del povero Galli e anche di Maroni, che ormai è un ex, è fuorigioco e interessa poco alle Procure. E allora chi è l’obiettivo? Provate un po’ a immaginarlo? Già: Salvini. L’altro ieri Angelo Panebianco ha scritto un articolo sul Corriere della Sera molto bello – a proposito della democrazia giudiziaria e dello strapotere della magistratura – nel quale spiega come e perché la magistratura, appoggiata da una forte spinta popolare, quando vede un personaggio della politica salire troppo su, lo abbatte. Successe così con Craxi, con Andreotti, in parte con Renzi (con meno successo) e – diceva Panebianco – presto potrebbe succedere anche con Salvini. Zacchete. Non è passato manco un giorno dalla pubblicazione dell’articolo. I magistrati genovesi, a quanto si sa, sospettano che i famosi 49 milioni spariti siano passati attraverso il fondo di Maroni, poi siano finiti in una banca svizzera e infine siamo ritornati clandestinamente in Italia. Dove? Nelle casse della Lega? I Pm considerano improbabile l’idea che Maroni abbia consumato lui, in pochi mesi da segretario del partito, tutti quei soldi. E se non li ha spesi lui, chi li ha spesi? Il nome del suo successore qual è? E poi, lo sapete tutti, c’è quell’adagio – «non poteva non sapere» – sulla base del quale sono stati condannati in passato decine di politici, alcuni anche di grandissimo prestigio, per esempio proprio Craxi. In che consiste questo adagio? In una nuova idea di diritto, secondo la quale si può condannare una persona anche se non ci sono le prove di un suo coinvolgimento in qualche fatto di corruzione, sulla base della carica che ricopre. Craxi fu condannato per le tangenti prese dal Psi, anche se non risulta che le avesse prese lui. «Sapeva, sapeva», dissero i giudici, «sicuramente sapeva». Così, qualche anno dopo, Berlusconi fu condannato per un’evasione fiscale di un paio di milioni non sua personale ma della Fininvest (due milioni su circa 400 milioni di tasse pagate) sebbene all’epoca di quella dichiarazione fiscale lui fosse presidente del Consiglio ed è abbastanza improbabile che si occupasse direttamente della dichiarazione della Fininvest. E però… E però, appunto, non poteva non sapere, e così è finita la sua carriera politica. Non poteva non sapere è un principio giuridico applicato solo ai politici. È il nuovo diritto targato Anm. E Salvini, salvo smentite, è un politico. Riuscirà a sottrarsi alla morsa, oppure anche lui pagherà lo scotto al partito dei Pm? Per quel che mi riguarda – dico per le mie convinzioni e speranze politiche – posso augurarmi solo la sconfitta di Salvini. Che è il capo della destra reazionaria, almeno, io penso così. Se però questo succederà anche questa volta per mano del partito dei magistrati e non nel corso di una democratica lotta politica, per l’Italia sarà un’ennesima sciagura. Sarà una ferita profonda, molto profonda, per il sistema democratico. E così, anche uno che considera il sovranismo il male dei mali si trova a sperare che Salvini riesca a sottrarsi alla caccia al cinghiale delle procure.

·         Il Russiagate.

L'inchiesta di "Report" su Moscopoli, Moncalvo (ex direttore Padania): Legami con Savoini, ferie e note spese: vi racconto Salvini alla Padania. Repubblica Tv il 21 ottobre 2019. Il rapporto tra Matteo Salvini e Gianluca Savoini comincia molto prima della trattativa dell'ex portavoce del segretario leghista all'hotel Metropol di Mosca e l'inizio dello scandalo di Moscopoli, secondo l'inchiesta di Report in onda su Rai3 il 21 ottobre, ed è decisivo per il destino della Lega. Nelle immagini un'anticipazione del servizio di Giorgio Mottola in cui Gigi Moncalvo, ex direttore della Padania, dice: "Chiesi il licenziamento di Salvini perchè falsificò quattro note spese. Lui e Savoini erano compagni di merende. Salvini lo fece portavoce perché gli doveva molto, Savoini lo ha impostato, era una sua creatura". Il servizio poi ricorda il caso denunciato nel 2002 da La Stampa dei simboli nazisti all'interno della stanza della redazione politica de la Padania. "Furono messi su ordine di Savoini o con il suo placito", dice Moncalvo.

Dago Spia il 23 ottobre 2019. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, sarei molto grato a Luca Bottura se volesse cortesemente indicare con esattezza e riproducendo copia, in quale data, su quale giornale, in quale pagina io avrei scritto - come egli falsamente scrive - la stupidaggine secondo cui Gene Gnocchi faceva "uso di droghe". E' davero un'invenzione stupefacente. Anche perchè a Raidue fui il solo a condurre una non facile battaglia per contrattualizzare proprio il fratello di Gene, per una sua rubrica all'interno di un programma che stavo per realizzare, ovviamente segato proprio dai presunti capataz leghisti di viale Mazzini, Antonio Marano e tale Ferrario. Due tipi che firmarono invece senza porre difficoltà i contratti, ripetuti nel tempo, proprio con lo smemorato Bottura. Grazie per l'ospitalità, Gigi Moncalvo.

Luca Bottura per “la Repubblica” il 23 ottobre 2019. Quando lavoravo a “Quelli che”, Gigi Moncalvo dirigeva la Padania. Rai2 era invece nelle mani del competente Antonio Marano, leghistissimo scopritore nientemeno che di Maurizia Paradiso. Marano fu successivamente fatto fuori perché troppo autonomo e sostituito dall'ex vicepresidente della Provincia di Varese, uno che ne sapeva di tv come il sottoscritto di termodinamica non lineare. La Padania di Moncalvo ci attaccava ogni giorno e arrivò a insinuare in prima pagina che Gene Gnocchi, al quale al massimo ho visto delibare mezzo nocino, facesse uso di droghe. Pochi giorni dopo, perché l'Italia è un posto realmente meraviglioso, Moncalvo divenne il nostro capostruttura e si presentò al gruppo di lavoro, Gene compreso, con rara cordialità. Questo per dire che la sua denuncia ai danni dell'ex redattore padano Salvini, tacciato ieri sera a Report di falsificare fogli-presenze e rimborsi spese, va presa con le molle. Soprattutto perché il CapitonEx non è certo tipo che diserta il luogo di lavoro, come sanno bene a Bruxelles e al Viminale.

Luca Bottura per “la Repubblica” il 25 ottobre 2019. Giorni fa ho quivi motteggiato sul fatto che, ove provate, le accuse via Report dell'ex direttore della Padania Gigi Moncalvo a Matteo Salvini (assenteismo in primis) non mi avrebbero affatto stupito. Ho poi raccontato che Moncalvo diventò capostruttura di Rai2, con vista su Quelli che, dopo averci attaccato in tutti i modi e aver insinuato che Gene Gnocchi si drogasse. In una scomposta lettera, Moncalvo minaccia querele e mi sfida a indicare quando avrebbe scritto "questa sciocchezza". Pronti: Padania , 8 ottobre 2003, piede di prima, titolo: "Quella strana polvere nebbiosa che scende su Gene Gnocchi". Svolgimento: "Molti lettori elencano anche una nutrita serie di episodi che vedono la Lega e la persona dell'on. Bossi presi come bersaglio fisso di Gnocchi anche nella trasmissione domenicale, sempre su Rai2, che dovrebbe parlare di calcio. Ma che da tempo invece va in onda rivelando strane atmosfere, come se fosse sotto una specie di malefica polvere bianca che diradandosi da qualche locale (i bagni?) adiacente agli studi della Fiera, si infiltra in ogni anfratto, comprese le nari". Alla prossima.

Moscopoli, Letta e Gentiloni: "Dopo la puntata di Report deve accadere qualcosa". La trasmissione tv sostiene che il progetto leghista è inserito in un quadro internazionale che vuole demolire l'Unione europea. Il leader leghista: "Ieri sera ho guardato Checco Zalone". La Repubblica il 22 ottobre 2019. "Una bella inchiesta giornalistica: fa anche ottimi ascolti. Ignorarla sarà difficile". Paolo Gentiloni ha seguito l'ultima puntata di Report dedicata al Russiagate e adesso chiede chiede che si proceda. E lo stesso scrive anche Enrico Letta: "Adesso non può non succedere nulla. Non può tutto continuare come prima. Non può. No,". Il diretto interessato, anche se non indagato Matteo Salvini la butta sull'ironia: "'La puntata di Report? Ieri sera io ho visto Checco Zalone". Interviene anche Nicola Zingaretti: "Dall'inchiesta di Report su Rai3 una ricostruzione accurata e ben fatta da cui scaturiscono molti interrogativi sulla Lega. Notizie inquietanti per la tenuta della democrazia italiana. Chi deve indagare indaghi per fare piena luce su tutta la vicenda", dice il segretario del Pd.  E i gruppi parlamentari del Pd alla Camera e al Senato annunciano interrogazioni parlamentari. "Il Parlamento e i cittadini italiani devono sapere con chiarezza quanto è successo in merito ai presunti finanziamenti esteri alla Lega" - dice il deputato Emanuele Fiano - Pretendiamo la verità su quanto è successo. Ne va della sicurezza dell'Italia e della stessa Unione europea". "Dopo quanto riportato ieri da Report - dichiara il senatore Franco Mirabelli, vice presidente dei senatori del Pd - è sempre più evidente la ragione per cui Salvini si è sottratto a chiarire in Parlamento le vicende legate ai finanziamenti esteri alla Lega. Il quadro che emerge è davvero inquietante: legami evidenti della Lega con la destra americana e sovranista di Bannon, con la destra russa e con le frange dell'arcipelago della destra estremista italiana con il chiaro obiettivo di destabilizzare lo scenario europeo. Per questo al più presto, con Dario Parrini, presenteremo una interrogazione al Presidente del Consiglio perché è urgente e necessario che il Parlamento conosca i dettagli di una vicenda che rischia di essere molto pericolosa per la sovranità del nostro  Paese".

Un'altra puntata di Moscopoli. Ieri Matteo Renzi. subito dopo la fine della trasmissione aveva chiesto all'ex ministro dell'Interno "Ho una sola richiesta per Salvini: Senatore, perché non denuncia Savoini? Gliel'ho chiesto in Parlamento, gliel'ho chiesto in tv, glielo chiedo oggi. Perché non lo denuncia?. Salvini aveva risposto in maniera preventiva all'ora di pranzo, assicurando che non ha alcuna intenzione di presentarsi davanti al Copasir per rispondere alla domande sugli incontri moscoviti suoi e dei suoi collaboratori. "Non parlo di inchieste in corso, spero che la chiudano il prima possibile perché nessuno ha chiesto, ha preso o avuto niente. Io parlo di vita reale, non di fantasie". - aveva detto il leader leghista Al Copasir cosa ci vado a fare? - aggiunge Salvini-  A raccontare che non ho preso rubli? Non ho chiesto rubli, dollari, marchi sesterzi petrolio o altro". Dunque l'ex ministro dell'Interno ieri sera era  davanti alla tv a guardare "Che bella giornata", trasmesso da Canale 5. Chi invece si è sintonizzato su RaiTre avrà visto che Report ha cercato di dimostrare "come la trattativa della Lega per i soldi e il petrolio russo è solo una tessera di un mosaico molto più ampio, che vede sullo sfondo la nascita di un asse internazionale tra forze estremiste in Russia e negli Stati Uniti. Un mosaico in cui Matteo Salvini e la Lega sono solo le pedine di un progetto internazionale che punta alla destabilizzazione dell’Unione Europea". Report, raccontano gli autori dell'inchiesta, "ha incontrato Konstantin Malofeev, detto l’Oligarca di Dio, uno dei russi più ricchi e più vicini a Vladimir Putin. È la sua prima intervista a una televisione europea. Negli ultimi anni, Malofeev ha finanziato partiti di estrema destra in Europa e nel 2013 ha fondato una nuova Santa Alleanza tra le associazioni ultratradizionaliste russe e le più potenti fondazioni della destra religiosa americana, che hanno riversato in Europa oltre 1 miliardo di dollari negli ultimi dieci anni. Dal 2013 a oggi, Gianluca Savoini e Matteo Salvini sono andati spesso a Mosca a incontrare l’Oligarca di Dio. Che cosa si sono detti?!".

Report, Fazio attacca Salvini: "Dopo inchiesta non si fa nulla...?" Fazio su Twitter intona un "peana" per l'inchiesta di Report sul Rubligate. Ed è ancora scontro con Salvini. Angelo Scarano, Martedì 22/10/2019, su Il Giornale. Fabio Fazio cavalca Report. Dopo l'inchiesta del programma di Rai Tre sui presunti rapporti tra Salvini e alcuni oloigarchi russi, immediatamente è arrivato l'assalto rosso al leader della Lega. Proprio Salvini, intervenendo a Porta a Porta, ha chiarito subito la sua posizione: "L’oligarca russo Malofeev l’ho incontrato, incontro centinaia di persone che non mi hanno mai dato una lira. Quando incontro le persone non sono solito chiedere soldi". Poi l'affondo: "È un’inchiesta surreale - ha aggiunto - aspetto che finisca e poi qualcuno mi chiederà scusa". A quanto pare però le parole di Salvini non sono bastate per tenere a bada la reazione di Fazio. Il conduttore di Che tempo che fa ha voluto prendere posizione sui social in modo chiaro con un tweet che lascia poco spazio ai giri di parole: "Mi permetto di consigliarvi la puntata di Report di ieri. Incredibile che le domande fatte non abbiano avuto risposta. Incredibile la storia che racconta. Incredibile che non succeda niente di conseguenza. Guardatela, cercatela se non l'avete vista! Sigfrido Ranucci è stato bravissimo. Report è una trasmissione fondamentale, ma la storia di ieri riguarda tutti e si capiscono tante cose". E così dopo l'endorsement di Fazio è arrivata la risposta del conduttore di Report, Sigfrido Ranucci: "Ringrazio Fabio Fazio per la stima. Un apprezzamento che fa particolarmente piacere, fatto da un autore che ha scritto pagine importanti della storia della Rai. La puntata andrà in replica sabato prossimo e che è visibile su Raiplay". Insomma l'assalto a Salvini è solo all'inizio...

Salvini risponde a Report "Ho incontrato Malofeev e non ho chiesto soldi". Salvini attacca il programma di Rai Tre: "Questa inchiesta su di me è davvero surreale". Ma la sinistra la cavalca...Angelo Scarano, Martedì 22/10/2019 su Il Giornale. Matteo Salvini risponde per le rime all'inchiesta di Report sul Rubligate. Il leader della Lega intervistato a Bruno vespa a Porta a Porta respinge le accuse del programma di Rai Tre e fa chiarezza sull'incontro con Malofeev: "L’ho incontrato, incontro centinaia di persone che non mi hanno mai dato una lira. Quando incontro le persone non sono solito chiedere soldi". Poi arriva l'affondo sul servizio di Report che ha di fatto acceso i fari sui rapporti tra il leader leghsita e alcuni esponenti russi: "È un’inchiesta surreale - ha aggiunto - aspetto che finisca e poi qualcuno mi chiederà scusa". Eppure la sinistra ha cavalcato prontamente l'inchiesta andata in onda su Rai Tre. Fratoianni ha subito attaccato Salvini: "In un qualunque Paese normale, dopo un’inchiesta giornalistica accurata e documentata come quella di Report sui fondi russi e i rapporti della Lega con mondi inquietanti, il leader di quel partito, in assenza di giustificazioni provate, non avrebbe altra scelta che ritirarsi a vita privata". Non è stato da meno Fiano del Pd: "Il Parlamento e i cittadini italiani devono sapere con chiarezza quanto è successo in merito ai presunti finanziamenti esteri alla Lega. Per questo presenteremo immediatamente un’interrogazione al Presidente del Consiglio affinché si utilizzino tutti gli strumenti necessari per fare piena luce su una vicenda che, ogni giorno che passa, assume contorni sempre più inquietanti. La puntata di Report andata in onda ieri sera ha messo in evidenza nuovi legami tra la Lega di Salvini e una galassia di intermediari che definire oscura è poco". Salvini però ha messo le cose in chiaro nel salotto di Porta a Porta: "Report farà altre 18 puntate su di me. Ma questa inchiesta è surreale...".

RAI, IL CDA SI SPACCA SU REPORT PER LA PUNTATA SU MOSCOPOLI. Da repubblica.it il 23 ottobre 2019. Dopo la puntata di Report di due giorni fa dedicata a Moscopoli - l'inchiesta in corso che vuole fare luce su un presunto finanziamento russo alla Lega di Salvini-  la trasmissione condotta da Sigfrido Ranucci finisce sul tavolo di discussione del cda Rai, riunitosi oggi a Roma. Secondo quanto si apprende, però, il consiglio di amministrazione si è spaccato: da un lato i due consiglieri Igor De Biasio, in quota Lega, e Gianpaolo Rossi (in quota Fratelli d'Italia) hanno accusato il programma di violare le norme sulla par condicio, in riferimento alle elezioni regionali che si terranno in Umbria domenica 27 ottobre. De Biasio inoltre ha anche criticato nel merito il contenuto della trasmissione. Invece la consigliera Rita Borioni, in quota Pd, e Riccardo Laganà (rappresentante dei dipendenti), hanno difeso il diritto di inchiesta, rivendicando l'articolo 21 della Costituzione. Pasquale Napolitano per “il Giornale” il 23 ottobre 2019. Il Pd sale a bordo della macchina del fango, messa in moto da Report contro Matteo Salvini. I dem, terrorizzati dai 200mila in piazza San Giovanni e dalle possibili vittorie del centrodestra ai prossimi appuntamenti elettorali (regionali) provano a cavalcare l' onda di sospetti contro il leader della Lega. E rispunta, dall' esilio politico, anche l' ex premier Enrico Letta per sparare contro Salvini: «Dopo la puntata di Report su Salvini e la pista russa non può non succedere nulla». Mentre l' ex leader dei dem, Matteo Renzi, oggi senatore di Italia viva, chiede: «Ho una sola richiesta per Salvini. Senatore, perché non denuncia Savoini?». L' ex ministro dell' Interno non cade nelle provocazioni e si affida all' ironia: «Ho visto Checco Zalone». Il teorema su cui si poggia l' inchiesta di Giorgio Mottola, andata in onda su Rai3 lunedì, punterebbe a dimostrare il coinvolgimento di Salvini e della Lega in un piano di Vladimir Putin per destabilizzare l' Unione europea. In questo quadro, avrebbe avuto un ruolo fondamentale Konstatin Malofeef, detto l' Oligarca di Dio, uno degli uomini più ricchi della Russia. Sarebbe stato lui l' anello di congiunzione tra la Russia e il Carroccio. Malofeev che in passato ha finanziato il Front National di Le Pen conoscerebbe Salvini e la Lega.«L' ho incontrato ma non ho mai chiesto una lira», spiega in serata Salvini a Porta a Porta. Nel 2013 era stato invitato al congresso federale dove Salvini venne eletto nuovo segretario della Lega Nord. Ma, come ha spiegato a Mottola, non gli fu possibile andarci. Al suo posto però mandò Alexey Komov, che oggi è il presidente onorario dell' Associazione Lombardia-Russia di Gianluca Savoini e Claudio D' Amico. E Komov è anche vicepresidente di un' altra associazione: il World Congress of Families (Wcf), quelli che hanno organizzato il convegno di Verona di quest' anno. Secondo Report, negli anni scorsi da tre conti dell' Est Europa legati a società dell' Azerbaijan e della Russia sono partiti oltre 2 milioni di euro, destinati alla Fondazione Novae Terrae presieduta dall' ex parlamentare dell' Udc Luca Volontè. Dal 2015 del direttivo di Novae Terrae fa parte anche il senatore della Lega Simone Pillon che è uno dei più ferventi cattolici della nuova Lega di Salvini. Altra accusa che viene mossa al leader della Lega è di aver falsificato le note spese all' epoca in cui era un giovane giornalista de La Padania. Gigi Moncalvo, ex direttore, racconta di quando, nell' inverno 2003, voleva licenziare il redattore Salvini per assenteismo e falso. «Aveva falsificato una nota di presenza e quattro note spese ha dichiarato Allora per due volte l' ho convocato e gli ho comunicato l' intenzione di volerlo licenziare». La sua risposta? A muso duro: «Tu passi, io resto. E, credimi, diventerò sempre più potente». Accuse, teoremi, congetture su cui si fiondano i big del Pd. Il segretario Nicola Zingaretti chiede di indagare e andare fino in fondo. Paolo Gentiloni, commissario Ue, parla di «inchiesta giornalistica fa anche ottimi ascolti. Ignorarla sarà difficile».

Pietro Mancini per “Libero quotidiano” il 23 ottobre 2019. Nella Rai presieduta dal salviniano Marcello Foa, mentre Televideo parla di «centinaia di persone» a piazza San Giovanni, nella serata di lunedì, la terza rete è tornata "TeleKabul", di curziana memoria, per la gioia di Zingaretti e Gentiloni. Ma, mentre il comunista defunto, Sandrone "Kojak", mitragliava i governi in carica, Report ha tentato di affondare il «cattivo e fascista» Matteo Salvini, leader dell' opposizione, che incalza la divisa maggioranza demogrillina. Più di un' ora di colpi, a salve, sparati contro il segretario della Lega, vecchi filmati, intervistine a Carneadi moscoviti, presentati come «infami oligarchi fascioputiniani» - in primis, un riccone, sovranista e anti-gay, Konstantin Malofeev - e ad attempati ex detenuti fascisti, in pensione, il solito video dell' allora titolare del Viminale, in costume da bagno, al Papeete, nel fatal mese di agosto. Spazio alle immagini dell'indagato, silenzioso, per presunta corruzione internazionale, Gianluca Savoini, che il successore di Bossi ha ammesso di conoscere da anni. Reato di amicizia? Ma perché i cronisti di Report non tempestano di quesiti il suocero di «Giuseppi» Conte, condannato, come ha rivelato Libero, per evasione fiscale? Non ricordiamo l'inseguimento del premier, al termine di una manifestazione, come, invece, è accaduto all' allora ministro dell' Interno, bloccato, da un allievo di Michele «Sant' oro», sotto il palco del comizio a Cervia. E neppure inchiestone di Report sulle mega-cene elettorali del Partito democratico del Lazio, saldate dal «compagno» Buzzi, stangato per Mafia capitale. «C' è un'istruttoria, a Milano», ha risposto Salvini, «lasciamo lavorare i magistrati». Ma il cronista ha insistito a sparare domande: «Di cosa ha parlato con Savoini, a Mosca, il 16 ottobre 2018?». Matteo: «Lei mi interrompe, mi dà del bugiardone... c' è un'inchiesta...». L' ex direttore della Padania, il bossiano Gigi Moncalvo, ha riferito che l' allora redattore, Salvini, 15 anni fa, non era tra i giornalisti più solerti. E avrebbe percepito i compensi maggiorati, per le festività, non risultando presente in redazione. Sono queste le «notizie inquietanti» per la democrazia italiana, come le ha definite il segretario del Partito democratico? Una domanda: D'Alema e Veltroni, quando dirigevano l'Unità, erano in redazione, stremati dalla fatica, anche a Natale, Capodanno e Pasqua? La risposta non mancherà, certo, nel prossimo numero di Report, programma obiettivo, equilibrato, imparziale e mai aggressivo e anti-Lega. Vero, direttore attuale, Sigfrido Ranucci, ed ex, donna Milena Gabanelli?

"Ma quale censura su Report...". Il consigliere racconta la verità. Il consigliere d'amministrazione Giampaolo Rossi nella bufera perché ha chiesto all'ad Rai di verificare se Report ha violato la par condicio. Lui: "Voglio proteggere la Rai". Clarissa Gigante, Mercoledì 23/10/2019 su Il Giornale. Report ha violato o no la par condicio? Se la puntata in questione - a pochi giorni da un importante voto - coinvolge Salvini, meglio non farsi questa domanda. O si scatena un putiferio, con la sinistra sulle barricate che accusa chi pone la questione di voler tappare la bocca a Sigfrido Ranucci e i suoi giornalisti sulle vicende che riguardano l'ex ministro. "Ma quale censura", ci dice Giampaolo Rossi, il consigliere Rai che per primo ha chiesto all'ad Fabrizio Salini di verificare se ci fossero i presupposti per una violazione della par condicio, "Io ho semplicemente posto una domanda all'amministratore delegato. E cioè se l'ultima puntata di Report fatta a pochi giorni dalle elezioni in Umbria violasse le normative nazionali dell'Agcom e della commissione di Vigilanza sulla par condicio. Perché il servizio pubblico deve porsi questo problema". Nella puntata andata in onda lunedì scorso, a meno di una settimana dalle Regionali in Umbria del 27 ottobre, la redazione di Report ha affrontato la questione dei presunti finanziamenti russi alla Lega di Salvini e in particolare dell'incontro tra Salvini e Konstantin Malofeev, l'oligarca russo che avrebbe fatto da tramite nella trattativa. Ma non è dei contenuti che si interrogano Rossi e Igor De Biasio - anche lui critico in consiglio di amministrazione -, quanto sull'opportunità di mandare in onda la puntata poco prima del voto: "Poteva essere trasmessa la settimana dopo la stessa puntata?", si chiede Rossi, "Perché c'è stata la necessità di trasmetterla a tre giorni dalle elezioni in Umbria?". Anche perché, ricorda, "la puntata è stata costruita con mesi di lavoro giornalistico" e sulla questione non ci sono novità eclatanti. L'obiettivo, insomma, non era quello di evitare che Report parlasse di questa vicenda, ma di "proteggere la Rai da eventuali esposti che possono arrivare" e di proteggere "il pluralismo del servizio pubblico". "E spetterà all'ad verificare con gli elementi che gli verranno dati dall'ufficio legale se questa violazione c'è stata o meno", sottolinea, "Io non metto in discussione i contenuti: vada in onda, ma una settimana dopo. Che cosa cambiava se andava in onda la settimana dopo? Nulla, in termini giornalistici nulla. Allora viene il sospetto che si voglia condizionare l'opinione pubblica. E questo la Rai non se lo può permettere, ci sono i margini per la violazione della par condicio. Se non c'è stata meglio, ma se c'è stata l'ad dovrà intervenire". Del resto come si fa a parlare di censura su un contenuto già andato in onda?

Russiagate, la vera storia. Inchiesta Panorama. Meranda, Vannucci ed il "pizzino". Così va riscritta la storia del Russiagate che doveva inguaiare Salvini e la Lega. Giacomo Amadori il 22 ottobre 2019 su Panorama. Prendete uno di quei racconti di Anton Pavlovic Cechov con al centro oscuri impiegati o bancari truffatori, mescolatelo con la sceneggiatura di un film di Totò (in fondo lo ha già fatto il regista e autore Steno) e otterrete l’onesto racconto del cosiddetto Russiagate. I protagonisti della nostra storia sono un avvocato cosentino, orgogliosamente massone, e un ex bancario e sindacalista di Suvereto (Livorno). Si chiamano Gianluca Meranda, 49 anni, e Francesco Vannucci, 62, e hanno in comune una situazione economica tutt’altro che florida (anche se a inizio anno, attraverso una società svizzera, Meranda ha cercato di acquistare un appartamento dietro a piazza Navona, senza riuscirci). Uno è estroverso e tecnologico, molto social, l’altro è introverso, fumantino e praticamente luddista, un uomo che agli smartphone preferisce i bloc-notes e le Bic. Nei mesi scorsi hanno cercato di chiudere accordi nel settore petrolifero in nome di una banca d’affari, la Euro Ib di Londra, con cui entrambi collaboravano, ma senza contratto. La piccola società di diritto inglese ha infatti da qualche anno l’autorizzazione della Consob britannica a negoziare l’acquisto e la vendita di prodotti petroliferi, ma non lo ha mai fatto. In realtà, nel momento clou del Russiagate, quello dell’incontro all’hotel Metropol, come sottolineato dal Financial times, Meranda sembrava voler cambiare cavallo e fece riferimento alla viennese Winter bank di Thomas «Moskovics», con cui avrebbe avuto «ottimi collegamenti». Sia come sia, per capire il Russiagate bisogna partire da questa strana coppia, e non tanto o non solo da Gianluca Savoini, ex portavoce di Matteo Salvini. I due, come vedremo, in questi anni hanno provato a fare affari con politici dell’intero arco costituzionale, anche nel settore dell’oro nero. Tutti tentativi andati male, come la trattativa del Metropol. Eppure i nostri Totò e Peppino in missione nella terra delle matrioske, secondo i segugi di altri giornali, sarebbero stati lo strumento scelto nientepopodimeno che da Vladimir Putin per inondare di rubli la Lega. Ma davvero qualcuno può credere che se il presidente russo avesse voluto far uscire dei soldi dal suo Paese avrebbe scelto questa strana compagnia di giro, che in nove mesi di trattative non ha concluso nulla.

Da Putin ai 49 milioni di euro: in un libro-inchiesta i dubbi sulla Lega. Pubblicato lunedì, 11 marzo 2019 da Corriere.it. Come si finanzia il primo partito italiano (secondo i sondaggi)? E, soprattutto, come lo fa sotto la spada di Damocle dei famosi 49 milioni sequestrati dalla magistratura? Il libro nero della Lega muove da qui, rivendicando il diritto democratico dei cittadini di conoscere nei dettagli come funziona la nuova Lega di Matteo Salvini, protagonista, in pochi anni, di una vertiginosa ascesa: fondi, alleanze internazionali, «riciclati» al Sud. Giovanni Tizian e Stefano Vergine, che già per l’Espresso hanno realizzato una serie di inchieste sul tema, nel libro precisano il filo conduttore: la vecchia Lega nordista di Bossi e la nuova Lega nazionalista di Salvini, anche se la prospettiva politica si è ribaltata, restano indissolubilmente legate. Il nodo che le unisce sono appunto quei 49 milioni, il «tesoro padano» frutto della truffa (confermata in appello) sui rimborsi elettorali operata dall’allora tesoriere Francesco Belsito. Il cuore dell’inchiesta è qui: dimostrare che le parole dell’attuale leader su quell’indagine partita nel 2012 — «un processo politico su fatti di dieci anni fa, su soldi che non ho mai visto» — non corrispondono a verità. Un po’ perché, si sostiene, anche Salvini, diventato segretario alla fine del 2013, ne ha utilizzati una parte, un po’ perché il «Capitano» non ha fornito, né richiesto ai suoi predecessori, spiegazioni su dove sia finito il resto. Per inseguire la pista dei soldi, il libro si serve di un’ampia appendice di documenti, tra carte della magistratura, conti correnti e bilanci che, secondo gli autori, spiegano il motivo per cui l’ombra dei milioni «spariti» dovrebbe continuare a pesare anche su Salvini. L’inchiesta non si occupa solo del passato. Il racconto degli «uomini nuovi» del Carroccio segue due filoni. C’è il cerchio più stretto (e noto) del ministro dell’Interno: il tandem Luca Morisi-Andrea Paganella, artefice dell’enorme successo social del leader; il «russo» Gianluca Savoini, plenipotenziario delle relazioni con Mosca; il tesoriere Giulio Centemero, a capo, raccontano gli autori, di un team di commercialisti defilato ma cruciale, che ha il compito di mettere in sicurezza, sparpagliandole, le finanze del partito; e «mister flat tax» Armando Siri, curatore dei rapporti con i grandi gruppi economici. C’è poi un filone meno noto, quello dei «riciclati» del Sud: ex dc ed ex missini, alcuni con inchieste per voto di scambio sulle spalle, centrali nella crescita del consenso leghista in luoghi prima impensabili, da Catania a Gioia Tauro. Infine, la Russia. Il libro definisce le caratteristiche di un legame solidissimo: che è politico — Putin visto come bastione della tradizione contro l’Europa «meticcia» di Bruxelles — ma anche economico, con la battaglia per cancellare le sanzioni dell’Unione Europea. E racconta, in particolare, un episodio: un incontro, nell’ottobre scorso all’hotel Metropol di Mosca, in cui Salvini avrebbe trattato un finanziamento da tre milioni di euro alla Lega da parte di ambienti del Cremlino da destinare alla campagna per le Europee. «Da Mosca non è arrivato e non arriverà nulla» ha risposto il leader.

Matteo Salvini, è arrivato il momento di rispondere alle nostre domande. La trattativa con la Russia, il ruolo dell'associazione Più Voci, la ricerca dei soldi per il finanziamento della Lega: sono tanti i buchi neri del vicepremier che emergono dalle inchieste de L'Espresso. A lui e ai suoi alleati di governo ora chiediamo di fare chiarezza, scrive Lirio Abbate l'1 marzo 2019 su L'Espresso. Matteo Salvini ama presentarsi come un leader che parla chiaro, senza artifici retorici che ne nascondono il pensiero. E sui social informa puntualmente su ogni sua azione, spostamento, pranzo, cena, vacanza. Eppure dalle nostre inchieste emergono punti oscuri, che il capo del più importante partito di governo non vuole illuminare. La sua visita ufficiale a Mosca nello scorso ottobre, i cui risvolti Giovanni Tizian e Stefano Vergine hanno documentato  sullo scorso numero dell’Espresso, è un altro buco nero di Salvini e si somma alla struttura parallela chiamata a reggere economicamente la Lega, su cui abbiamo scritto in questi mesi.

LA CASSA PIÙ VOCI. Salvini deve spiegare il ruolo dell’associazione “Più Voci”. Una onlus usata per ricevere finanziamenti da aziende e girarli a società controllate dalla Lega. La porta girevole è stata creata da commercialisti fedelissimi a Salvini nel 2015, nel pieno del processo per truffa che ha poi mandato sul lastrico il partito imponendo il sequestro dei conti correnti. Ma questo non è l’unico segreto finanziario del leader leghista. I documenti ottenuti dall’Espresso permettono di andare oltre i bilanci ufficiali e ricostruire un pezzo delle trame finanziarie architettate dal Carroccio, che vanno dalla cacciata di Umberto Bossi ai primi passi della segreteria di Salvini. Il risultato è che alla narrazione “legalitaria” sostenuta pubblicamente da Salvini si sovrappone una gestione economica opaca, che richiama il passato bossiano. Secondo Giulio Centemero, tesoriere della Lega, i soldi ricevuti dalla Più Voci «non sono stati trasferiti al partito o utilizzati in attività di carattere politico, come ad esempio la campagna elettorale». Su tutto questo Salvini continua a tacere.

SPONSOR ANONIMI. Il tesoriere Centemero amministra una società controllata da una fiduciaria che fa capo ad una holding lussemburghese. Sostiene che la Più Voci «ha raccolto qualche centinaia di migliaia di euro da aziende e privati». L’Espresso, dopo aver scoperto due finanziatori, gli ha chiesto se poteva elencare gli altri nomi dei donatori con le relative cifre, ma il commercialista preferito da Salvini ha scelto il riserbo. Chissà cosa pensa Luigi Di Maio di questa riservatezza di Salvini, dopo che ha proposto un’operazione di trasparenza che obbliga partiti e fondazioni a rendere completamente pubblici i loro bilanci. Una linea sostenuta apertamente anche dal presidente della Camera Roberto Fico che chiedeva una legge anche sulle fondazioni legate ai partiti.

IL BLACK OUT DI 12 ORE A MOSCA. Il 17 ottobre 2018 Salvini è a Mosca per partecipare ufficialmente al convegno organizzato da Confindustria Russia al Lotte Hotel. Chi ha visto dopo il convegno? A L’Espresso risulta che abbia incontrato riservatamente il vicepremier russo, Dmitry Kozak, delegato agli affari energetici, uomo della stretta cerchia di Putin. Salvini non ha smentito, anzi ha dichiarato che contatti di questo tipo sono per lui doverosi. Perché allora non ha reso noto questo incontro? Di cosa ha parlato con Kozak, e in quale ruolo? Da ministro, vicepremier o leader della Lega? Luigi Di Maio, ministro dello Sviluppo competente per l’energia, è stato informato?

LO SHERPA SAVOINI. Di certo lo sherpa del leader leghista Gianluca Savoini, la mattina successiva, il 18 ottobre incontra all’hotel Metropol uomini legati al Cremlino per organizzare la vendita di gasolio che ha come scopo quello di incassare 3 milioni di euro per finanziare la campagna elettorale della Lega. Come dimostrano i documenti in possesso de L’Espresso, Savoini con i suoi interlocutori russi introduce la questione politica e poi lascia ai propri “partner tecnici” i dettagli della trattativa economica. La semplice circostanza che Savoini abbia trovato posto ad un tavolo d’affari russo per cercare denaro per finanziare la Lega è un fatto politicamente grave su cui Salvini deve pronunciarsi. Savoini parla a suo titolo? O prende iniziative personali? Savoini non ha incarichi ufficiali, ma nel board della sua associazione Lombardia-Russia c’è Claudio D’Amico, consigliere strategico di Salvini a Palazzo Chigi. Anche su di lui il vice-premier non ha niente da dire? E gli alleati di governo del Movimento 5 Stelle?

I FINANZIATORI RUSSI. La ricerca di soldi da parte della Lega coincide con il provvedimento di sequestro dei conti correnti del partito dello scorso luglio. Salvini, che non ha mai negato di avere simpatie per Putin, deve spiegare perché il suo uomo fidato, Savoini, possa avviare nello stesso periodo trattative di cui beneficia la Lega. Savoini, come dimostrano i documenti in possesso de L’Espresso, lo dice chiaro: l’obiettivo politico è la costruzione di una nuova Europa, un modello russo organizzato a favore delle forze politiche nazionaliste in Europa. Mosca appare il centro sovranista disposto a offrire denaro e opportunità di affari ai principali attori europei che lavorano per indebolire l’Unione europea. I sovranisti, insomma, chiedono aiuto a una potenza straniera. Ancora una volta: M5S ha qualcosa da dire su questo? 

La lunga trattativa di mister Lega: tutti i nuovi dettagli dell'inchiesta. Savoini, ex portavoce di Salvini, cominciò il negoziato con i russi per sostenere il Carroccio nel luglio 2018. Ben prima della visita di ottobre scorso. Ecco i particolari sulla storia che il capo della Lega vuole nascondere, scrivono Giovanni Tizian e Stefano Vergine l'1 marzo 2019 su L'Espresso. La trattativa per finanziare la Lega è partita molti mesi fa. È il 24 luglio scorso quando un’offerta commerciale arriva a una società petrolifera russa. A inviarla è Gianluca Savoini, l’uomo di Salvini a Mosca. Oggetto: la vendita di un quantitativo di gasolio. Nel documento si ipotizza già una consegna, «delivery», a settembre. L’azienda ha sede a Mosca, al 31 di Novinsky Boulevard. Un palazzo moderno di vetro e cemento rosso, che al quinto piano, nell’ufficio numero 1, ospita due società di proprietà dell’oligarca moscovita Konstantin Malofeev: Tsargrad, un’azienda editoriale, e Marshall Capital, il fondo d’investimento del miliardario russo. Classe 1974, laureato in legge, Malofeev ha iniziato la carriera lavorando per alcune banche russe, poi nel 2005 ha fondato la Marshall Capital, diventata oggi una delle principali società di investimento del Paese, con in passato quote importanti anche in società di Stato della Federazione come Rostelecom. Il finanziere è un fedelissimo di Putin sospettato da Stati Uniti e Unione europea di aver finanziato la conquista della Crimea e la guerra nel Donbass, motivo per cui il Tesoro statunitense e il Consiglio d’Europa lo hanno inserito nella black list. È accusato anche di aver avuto un ruolo attivo nei rapporti finanziari tra il Cremlino e i francesi del Front National. Il fortino del suo impero si trova, appunto, al 31 di Novinsky Boulevard. Nello stesso interno - il numero 1, appunto, dove hanno sede le sue società - è registrata anche Avangard oil & gas. Impossibile conoscere il proprietario ufficiale: l’azienda non è registrata alla Camera di commercio russa. Inoltre, proprio nei giorni in cui finivamo di scrivere, il sito dell’azienda è stato bloccato: in manutenzione. La Avangard oil & gas è però la società che riceve l’offerta di Savoini, l’emissario di Salvini in terra russa. Un’offerta inviata il 24 luglio al direttore generale della Avangard, Alexey Mustafinov. Il dettaglio documenta l’intraprendenza di Savoini lontano dall’Italia. E si aggiunge alle rivelazioni dell’inchiesta giornalistica sulla trattativa per finanziare la Lega che disturba il sonno del vicepremier e ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Lo preoccupa perché Gianluca Savoini è il regista della trattativa iniziata molti mesi fa, e che il 18 ottobre scorso ha raggiunto il suo apice nella riunione al Metropol di Mosca, un elegante hotel a cinque stelle situato a pochi passi dal teatro Bolshoi e della piazza Rossa. Savoini è uno degli uomini più vicini al vicepremier e ministro leghista. È stato suo portavoce, gode della massima stima, non a caso i russi lo considerano “il consigliere” di Salvini, nonostante non ricopra alcun ruolo ufficiale. Mosca è la sua seconda casa, tant’è che nel 2016 ha fondato lì anche una società, la Orion Lcc, che si occupa di consulenze. Suo socio nella Orion è Claudio D’Amico. Assessore leghista a Sesto San Giovanni, fondatore (con Savoini) dell’associazione Lombardia-Russia. Da qualche mese è stato chiamato a palazzo Chigi come “consigliere strategico” del vicepremier Salvini. È a partire dal luglio del 2018 che abbiamo collezionato tracce e documenti sulla strategia messa in atto da Savoini per gestire la delicata partita del finanziamento camuffato da compravendita di gasolio. Lo stesso affare che l’ex portavoce di Salvini stava trattando tre mesi dopo, il 18 ottobre 2018, il giorno della riunione all’hotel Metropol di Mosca. Savoini era presente. Lo abbiamo visto e fotografato insieme a un altro italiano, un uomo di mezza età dall’accento toscano e la barba lunga, chiamato Francesco. È lo stesso misterioso personaggio che compare in una foto, pubblicata il 19 ottobre da “La Stampa”, in compagnia di Savoini e di Aleksandr Dugin, filosofo molto apprezzato da Putin, mente del movimento euroasiatico e riferimento dei sovranisti europei. Il gruppetto è stato immortalato davanti al teatro Bolshoi. A cinquanta metri dal Metropol, l’hotel della trattativa del 18 ottobre. Quella mattina, intorno alle 9, ritroviamo Savoini e l’uomo dall’accento toscano seduti nella sala-colazioni dell’albergo. Dopo una mezz’ora i due raggiungono la hall, dove ad aspettarli ci sono tre russi e un terzo italiano, un uomo con gli occhiali, per tutti i presenti «l’avvocato». È Savoini a fare gli onori di casa, è lui a parlare per primo. Tutto in inglese. «La nuova Europa dev’essere vicina alla Russia», sono state le sue parole, «non dobbiamo più dipendere dalle decisioni di illuminati a Bruxelles o in Usa. Vogliamo cambiare l’Europa insieme ai nostri alleati come Heinz-Christian Strache in Austria, Alternative für Deutschland in Germania, la signora Le Pen in Francia, Orbán in Ungheria, Sverigedemokraterna in Svezia». Un normale discorso politico, non fosse che subito dopo Savoini introduce un’altra questione, poco teorica e molto pratica: «Adesso lascio la parola ai nostri partner tecnici per continuare la discussione», dice. «Nostri partner tecnici», è l’espressione utilizzata da Savoini. Da quel momento in poi, gli altri due italiani presenti all’incontro iniziano a parlare della fornitura di gasolio ai russi. I russi al tavolo sono tre: uno di questi - l’unico che abbiamo identificato con certezza - è Ilia Yakunin, manager moscovita legato all’avvocato Vladimir Pligin. Nello studio di Pligin la sera prima era avvenuto l’incontro tra Salvini e Dmitry Kozak, poi proseguito a cena. È il meeting del 17 ottobre mai smentito dal vicepremier italiano. Salvini si trovava a Mosca perché ospite al convegno organizzato in suo onore da Confindustria Russia presso il Lotte Hotel. Tra la fine di questo evento e la ripartenza del ministro verso l’Italia c’è però un buco di 12 ore. Mezza giornata di silenzio, senza incontri ufficiali in agenda. Una stranezza per Salvini, sempre pronto a fornire sui social network dettagli sulla sua vita pubblica e privata. Cosa ha fatto, dunque, in quel lasso di tempo il capo del Carroccio? 

Come abbiamo già scritto, Salvini ha incontrato il vicepremier del Cremlino Dmitry Kozak, che ha la delega agli affari energetici. Il 16 gennaio, mentre lavoravamo all’inchiesta per il giornale e per il “Libro Nero della Lega”, Salvini ha ricevuto le nostre domande ai suoi due indirizzi mail, quello personale e quello del Senato. «Lei è stato a Mosca il 17 ottobre 2018, in occasione del convegno organizzato da Confindustria Russia al Lotte Hotel», gli abbiamo scritto: «Sappiamo che la sera stessa, dopo la conferenza stampa, ha incontrato il vicepremier russo, Dmitry Kozak, nell’ufficio di Mosca dell’avvocato Vladimir Pligin. Perché non ha comunicato pubblicamente la sua presenza a questo incontro? Di cosa ha parlato con il suo omologo russo Kozak?» La nostra richiesta di commento è rimasta inevasa. Oltre un mese dopo, il 25 febbraio scorso, quando ormai la notizia aveva già fatto il giro del mondo, il ministro e capo della Lega non ha trovato il modo di smentire quell’incontro con Kozak. Alla domanda rivoltagli da Marco Damilano in diretta tv su La7, il vicepremier italiano ha risposto: «Non ricordo, ma se fosse successo, lo riterrei legittimo e doveroso». Perché è così importante quell’incontro con Kozak? È importante perché non è stato reso pubblico, e un ministro avrebbe il dovere della trasparenza e della verità. Ma è importante anche per ciò che è accaduto il giorno successivo. Ritorniamo così al 18 ottobre, Hotel Metropol. Dopo l’introduzione politica di Savoini, che lascia la parola ai «nostri partner tecnici», inizia la discussione in cui vengono esplicitati i termini dell’affare. Termini economici e politici. A vendere il gasolio sarebbe una compagnia di Stato russa. Rosneft, dicono i russi. A comprare sarebbe Eni, dicono gli italiani. Si parla di grandi quantitativi. I russi propongono 3 milioni di tonnellate di diesel da consegnare in 6 mesi o un anno. L’avvocato italiano dice che non c’è problema: assicura che Eni ha le capacità per comprarne anche di più all’occorrenza. Il diesel verrà venduto dalla major russa con uno sconto minimo del 4 per cento sul prezzo Platts, il principale riferimento del settore. In quel 4 per cento di sconto sarebbe il finanziamento per la Lega. Dopo una mezz’ora di discussione, l’avvocato italiano dice ai russi: «Il piano fatto dai nostri “political guys” è semplice. Dato lo sconto del 4 per cento, sono 250 mila al mese, per un anno. Così loro possono sostenere una campagna». E ancora: «Questa è solo una questione politica, vogliamo finanziare la campagna elettorale, e questo è positivo per tutte e due le parti». Savoini era presente quando venivano dette queste cose, lo abbiamo visto con i nostri occhi. E non si è dissociato dalle affermazioni dell’avvocato. Anzi, ha aggiunto poco dopo di aver parlato «ieri con Aleksandr, e che secondo lui io rappresento la connessione totale, sia da parte italiana politica che da parte loro».

Chi è Aleksandr? Si tratta di Dugin, il filosofo conservatore teorico dell’Eurasia, presidente onorario dell’associazione Piemonte-Russia? Di certo Gianluca Savoini, l’uomo che si è descritto lo scorso luglio a Il Foglio come colui che «coordina gli incontri di Matteo Salvini con gli ambienti russi», stava trattando una partita di gasolio del tipo Ulsd (ultra low-sulfur diesel) da vendere a Eni. Una compravendita dietro la quale, abbiamo spiegato nei dettagli citando le parole precise del summit del Metropol, Savoini puntava a ottenere il finanziamento per la Lega. E questo, lo precisiamo ancora una volta, non lo diciamo noi ma i protagonisti della vicenda, gli italiani e i russi seduti nella hall del Metropol di Mosca.Questo è ciò di cui abbiamo prova. E questo nessuno ha smentito. Non abbiamo parlato di bonifici, di versamenti effettuati né di soldi già incassati, come ha fatto intendere Salvini nelle sue dichiarazioni alla stampa. Non lo abbiamo fatto perché non sappiamo come sia andata a finire la trattativa. Ma sappiamo che una trattativa c’è stata, ed è il punto politicamente rilevante. Perché un esponente della Lega, un partito nazionalista, ha trattato con dei russi per far arrivare milioni di euro al suo partito? Qual era la contropartita? Per conto di chi parlava Savoini? In questi giorni Salvini ha detto che «Savoini è una persona che conosco da vent’anni, ma a nome mio parlo io». Insomma, il vicepremier lascia intendere che lui non sapeva niente della trattativa, che è stata un’iniziativa autonoma di Savoini. Dopo l’uscita del nostro articolo, la settimana scorsa, abbiamo ricevuto due richieste di rettifica da parte di Eni e Rosneft. Eni ha voluto precisare «di non aver preso parte in alcun modo a operazioni volte al finanziamento di partiti politici. Peraltro», ha aggiunto la società, «si tratta di un’operazione di fornitura che non è mai avvenuta». Come abbiamo già detto più volte, non abbiamo mai scritto che la fornitura di diesel sia avvenuta, ma che è stata negoziata. Eni garantisce di non aver mai preso parte ad alcuna operazione del genere. Ne prendiamo atto, ma ricordiamo che a fare il nome della compagnia di Stato italiana non siamo stati noi, bensì i presenti al meeting del 18 ottobre all’Hotel Metropol. Rosneft ci ha invece scritto che «tutte le informazioni relative a Rosneft Pjsc sono una menzogna, non corrispondono alla realtà». Ribadiamo che il nome di Rosneft è stato fatto, in relazione alla compravendita di gasolio finalizzata a finanziare la Lega, dal manager russo Yakunin e dagli altri presenti a quel tavolo. Le due società petrolifere dovrebbero dunque rivolgersi agli attori della trattativa, primi fra tutti Savoini e Yakunin. E lo stesso vale per il Cremlino che - attraverso il portavoce Dmitry Peskov - ci ha chiesto dove abbiamo ottenuto le informazioni e quali fonti abbiamo usato. Abbiamo la legge dalla nostra parte: in Italia l’identità delle fonti va protetta e tutelata. Non riveleremo certo nomi al Cremlino di Vladimir Putin. Ma abbiamo tutte le prove per dimostrare quello che abbiamo scritto.

E Savoini? Nemmeno lui è entrato nel merito della vicenda. Ma è significativo che invece di rispondere scrivendo all’Espresso abbia preferito affidare il suo pensiero a Sputnik, giornale online controllato dal Cremlino. «Non ho nulla da dire riguardo alle accuse e alla ricostruzione inventata degli eventi, di cui mi sento libero di parlare con i miei avvocati. Posso solo dire che non ho partecipato a nessuna trattativa e non ho mai ricevuto un singolo rublo né da Mosca né da nessun altro», ha riportato la testata russa. Eppure Savoini era all’Hotel Metropol, il 18 ottobre, a negoziare un finanziamento milionario per la Lega. Invece di chiederci di rivelare chi ci ha fornito le informazioni e di affermare di non aver partecipato a nessuna trattativa, Savoini potrebbe spiegare al governo russo, a Rosneft e a Eni cosa ci faceva la mattina del 18 ottobre al Metropol di Mosca, chi erano le altre persone presenti al tavolo, perché stavano parlando di un piano per finanziare la Lega e come mai ha intrattenuto rapporti commerciali con Avangard Oil, l’azienda che condivide gli uffici con le società dell’oligarca Malofeev.

L'Espresso: soldi russi alla Lega, il patto nell'hotel di Mosca siglato lo scorso autunno.  Matteo Salvini con il presidente russo Vladimir Putin. L'inchiesta sul settimanale in edicola domani. L'incontro è avvenuto nella hall del Metropol. L'idea di usare come copertura una compravendita di petroli, scrivono Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 2 marzo 2019 su L'Espresso. La trattativa per finanziare la Lega con soldi russi è iniziata perlomeno l'estate scorsa. Già allora l'obiettivo era nascondere il sostegno economico dietro una compravendita petrolifera. Lo dimostra un documento del 24 luglio. Un'offerta inviata da Gianluca Savoini, l'uomo di Matteo Salvini a Mosca, e ricevuta da una società russa che condivide gli uffici con due aziende intestate all'oligarca Konstantin Malofeev. È uno dei nuovi particolari che leggerete nel numero dell'Espresso in edicola da domani. La trattativa è proseguita il 18 ottobre, con l'incontro all'Hotel Metropol, a pochi passi dal teatro Bolshoi e dalla piazza Rossa. Quel giorno Savoini è seduto nella hall dell'albergo con tre russi e due italiani. Dopo un'introduzione politica, Savoini lascia la parola ai "nostri partner tecnici" per discutere i termini dell'affare. A vendere il gasolio sarebbe Rosneft, dicono i russi. A comprare sarebbe Eni, assicurano gli italiani. Si parla di 3 milioni di tonnellate di diesel. L'avvocato italiano dice che non c'è problema: assicura che Eni ha le capacità per comprarne anche di più all'occorrenza. Il diesel verrà venduto dalla major russa con uno sconto minimo del 4 per cento sul prezzo Platts, il principale riferimento del settore. Quel 4 per cento di sconto sarebbe il finanziamento per la Lega. A dirlo non siamo noi, ma i protagonisti della vicenda, gli italiani e i russi seduti nella hall del Metropol. Questo è ciò di cui abbiamo prova. Non abbiamo parlato di soldi già incassati, come ha fatto intendere Salvini nelle sue dichiarazioni dei giorni scorsi. Non lo abbiamo fatto perché non sappiamo come sia andata a finire la trattativa. Ma sappiamo che una trattativa c'è stata. E questo è già rilevante politicamente.

Dopo l'uscita del nostro articolo, la settimana scorsa, abbiamo ricevuto richieste di rettifica da parte di Eni e Rosneft. Entrambe hanno negato di aver partecipato a una trattativa e di aver finanziato partiti politici. A fare il nome della compagnia di Stato italiana e di quella russa, però, sono stati i presenti al meeting del 18 ottobre. Le due società petrolifere dovrebbero dunque rivolgersi agli attori della trattativa. A Savoini, ad esempio. Nei giorni scorsi il consigliere di Salvini piuttosto che rispondere all'Espresso, ha preferito affidare la sua risposta a Sputnik, giornale controllato dal Cremlino: "Non ho nulla da dire riguardo alle accuse e alla ricostruzione inventata degli eventi, di cui mi sento libero di parlare con i miei avvocati. Posso solo dire che non ho partecipato a nessuna trattativa e non ho mai ricevuto un singolo rublo né da Mosca né da nessun altro". Eppure quel giorno Savoini era all'Hotel Metropol: lo dimostrano le foto che pubblichiamo su L'Espresso. Chi erano le altre persone con cui si è seduto al tavolo pochi istanti dopo quegli scatti? E perché stavano parlando di un piano per finanziare la Lega?

DAGONEWS il 10 luglio 2019. Rumors dalla visita di Putin a Roma. Pare che lo Zar sia rimasto piuttosto sorpreso dal voltafaccia atlantista del Capitone Salvini. Le traduzioni dei comunicati stampa sugli incontri a Washington con Pence e Pompeo avrebbero lasciato l'amaro in bocca a Mosca. Sappiamo quello che Putin pensa dei ''traditori'', e se non l'avessimo saputo, lo ha ribadito in perfetto stile sovietico nell'intervista a Lionel Barber del ''Financial Times'', rispondendo a una domanda su Skripal, l'ex spia russa avvelenata vicino Londra. ''Il tradimento è il crimine più grave possibile e i traditori devono essere puniti. Non dico che l'incidente di Salisbury sia il modo in cui farlo…ma i traditori devono essere puniti''. Secondo i funzionari russi che hanno viaggiato con lui, i leghisti pagheranno caro l'abbandono dell'amicizia con Mosca. Forse gli audio in alta qualità che sono stati consegnati a Buzzfeed (non si sa da chi, ovviamente) fanno parte di un pizzino al Carroccio? Mentre si trovavano all'Hotel Baglioni di Via Veneto, che ospitava la delegazione russa e casualmente si trova di fronte all'ambasciata americana, un alto funzionario di Putin ha spiegato ai giornalisti russi come funziona la politica estera italica. Non esiste un capo dei servizi segreti che venga nominato senza l'ok della CIA, così come non esiste un ambasciatore italiano in Israele che venga scelto senza il placet della comunità ebraica italiana. I ministri italiani (a volte anche i premier) sono gli unici che partecipano, religiosamente, alla festa dell'Indipendenza americana. Ogni anno i giardini di Villa Taverna, residenza privata dell'ambasciatore statunitense, si riempiono dei principali personaggi politici, da Mario Monti a Beppe Grillo, da Matteo Salvini a Piero Grasso. Non si vedono Theresa May o Emmanuel Macron che mangiano hot dog a meno che non si tratti di un evento bilaterale e ufficiale. Insomma, forse un tempo i leghisti ci credevano di poter spostare l'asse italiano verso Est (si erano dimenticati quello che successe a Berlusconi nel 2011 e quanto gli fosse costata la sua special relationshipcon Putin), forse gli serviva una sponda politica, forse erano convinti davvero che le sanzioni erano scellerate. Fatto sta che ora sono arrivati al governo e hanno capito che all'amico americano, anche se ora è meno interessato alle faccende europee e convinto che l'Italia conti ancora meno, non si può dire di no.

Savoini, lobbista «putiniano»: soldi? Datemi le prove.  E il segretario lo scarica. Pubblicato mercoledì, 10 luglio 2019 da Fabrizio Caccia e Marco Galluzzo su Corriere.it. Colloquio via sms con Gianluca Savoini, presidente dell’associazione culturale Lombardia-Russia, il leghista del Metropol di Mosca: «Sono basìto dopo queste buffonate». Il suo tentativo di ottenere finanziamenti russi per la Lega? «Tutte illazioni, nulla di concreto perché mai sono arrivati soldi né fondi alla Lega dalla Russia. Mai!». Ma l’audio pubblicato dal sito americano Buzzfeed sembra chiaro: «Si fa un processo sul niente, fumo e basta per rompere le scatole a Salvini. Trovino i soldi che non ci sono e allora ne riparliamo». Ma che cosa ci faceva al Metropol il 18 ottobre 2018? «C’ero andato a dormire dopo il convegno del giorno prima». Che convegno? Il giorno prima del misterioso incontro in hotel, cioè il 17 ottobre 2018, a Mosca secondo Savoini «c’era stato un incontro pubblico di Salvini organizzato dagli imprenditori e nient’altro». Ma chi sono gli altri due italiani, i presunti «Luca» e «Francesco», che si sentono parlare nell’audio? «Non lo so — risponde pronto al Corriere —. Dopo 9 mesi tirano fuori queste cose. Mah! Finanziamenti zero, quindi non ho altro da dire. Scrivete quello che volete. I soldi non ci sono mai stati e quindi querele a raffica. Grazie». Fine degli sms alla fine del giorno più lungo di Gianluca Savoini, 55 anni, una passione di lunga data per la Russia e per Putin in particolare. Ex collaboratore di Roberto Maroni, già fedelissimo di Umberto Bossi e poi di Matteo Salvini che ora però alla luce dei fatti non esclude di querelarlo prendendo decisamente le distanze. Sposato con Irina, originaria di San Pietroburgo, con la quale ha avuto un figlio, Savoini ieri si è sfogato a lungo pure con l’Ansa e ha definito «una chiacchierata tra imprenditori su vari temi» la conversazione registrata (da chi? Lui non sa o non vuole dirlo) nell’esclusivo Metropol di Mosca con tre russi e altri due italiani in cui si parlava essenzialmente di petrolio. Era dunque Savoini l’emissario della Lega a Mosca? «Non ho mai detto di essere un emissario della Lega». E smentisce pure di essere un consulente di fatto del leader Matteo Salvini. «Lo conosco da 25 anni, essendo io nella Lega da inizio anni Novanta». E ribadisce: «Robe sporche». Nessuna ricerca di fondi segreti per le Europee: «I soldi dove sono? Il resto è fuffa». Lui, comunque, da anni sembra tenere in modo informale, ma visibile, i rapporti della Lega con il governo di Mosca e con il partito di Putin, “Russia Unita”, con il quale il Carroccio siglò un accordo nel 2017. Nell’audio di Buzzfeed, sette mesi prima delle elezioni europee, quel giorno al Metropol di Mosca Savoini tuonò: «Noi vogliamo cambiare l’Europa. E una nuova Europa deve essere vicina alla Russia come prima, perché vogliamo riprenderci la nostra sovranità. Salvini è il primo che vuole cambiare l’Europa». Passate le elezioni, il 4 luglio scorso, eccolo di nuovo comparire sullo sfondo nella foto ufficiale scattata alla cena a Villa Madama dopo il vertice tra Conte e Putin a Roma. A quella cena c’erano pure Salvini, Di Maio e il fiore dell’imprenditorialità italo-russa. Menu di mare, riferiscono le cronache: mezzemaniche con moscardini, gamberetti e scorfano; spigola agli agrumi e flan di verdure.

«Fondi alla Lega da petrolieri russi». Il Pd: Salvini chiarisca. Replica: Querelo. Pubblicato mercoledì, 10 luglio 2019 da Corriere.it. Per il giornale online americano Buzzfeed la mattina del 18 ottobre all’hotel Metropol di Mosca «uno stretto collaboratore» del vicepremier Matteo Salvini incontra degli uomini russi per «negoziare» i termini di un presunto accordo che avrebbe portato alla Lega decine di milioni di dollari. A sostegno della notizia, il sito americano pubblica una registrazione audio di quell’incontro. Lo stretto collaboratore di cui si parla è Gianluca Savoini, presidente dell’associazione Lombardia-Russia e responsabile per la Lega dei rapporti con Mosca. Non sarebbero note, invece, le identità dei tre russi presenti all’hotel. La registrazione, scrivono dal giornale americano, «fornisce la prima prova concreta dei tentativi clandestini della Russia di finanziare i movimenti nazionalisti europei». Secondo la ricostruzione di Buzzfeed la riunione sarebbe durata poco più di un’ora: l’obiettivo la vendita di 3 milioni di tonnellate di petrolio all’Eni da parte di un’importante compagnia petrolifera russa. Il valore della vendita sarebbe stato di circa 1,5 miliardi di dollari. Da questa transazione, secondo BuzzFeed, sarebbe avanzati 65 milioni di dollari. La replica del vicepremier leghista è stata immediata e secca: «Mai preso un rublo, un euro, un dollaro o un litro di vodka di finanziamento dalla Russia», ha detto Matteo Salvini. «Ho già querelato in passato, lo farò anche oggi, domani e dopodomani», ha aggiunto. Intanto dall’opposizione arrivano le prime reazioni: «O questa è una #FakeNews o questo è uno scoop clamoroso. Usare il petrolio russo per finanziare la Lega? Sarebbe pazzesco. L’unico che può chiarire è Salvini: deve chiarire lui, subito», ha twittato Matteo Renzi.

Matteo Salvini e la pagliacciata Pd sotto la sede in via Bellerio. "Cos'abbiamo scoperto", ma sono seri? Libero Quotidiano il 13 Luglio 2019. La deriva del Pd tutta in una "iniziativa politica". Lia Quartapelle ha guidato una delegazione piuttosto magra di democratici (una ventina di persone) sotto la sede della Lega in via Bellerio, periferia Nord di Milano, per contestare al partito di Matteo Salvini l'indagine per corruzione internazionale che vede coinvolto Gianluca Savoini, faccendiere vicino al Carroccio che in una intercettazione audio a Mosca, nell'ottobre 2018, avrebbe trattato con imprenditori petroliferi russi finanziamenti alla Lega in cambio di affari commerciali a prezzo di favore. "Andando là - scrive su Facebook la deputata, dopo aver agitato in aria una banconota russa - abbiamo anche scoperto che la sede di Lombardia Russia, l'associazione di Savoini, si trova proprio nello stesso edificio in cui ha sede la Lega". Per ora non è partita ancora nessuna denuncia dai dem per "reato di vicinato".

Denaro russo per la Lega di Salvini: ecco gli audio dell'incontro a Mosca con Gianluca Savoini. Il sito Buzzfeed pubblica la registrazione di un meeting all'Hotel Metropole - di cui aveva già scritto l'Espresso nello scorso febbraio - tra uomini vicino al ministro dell'Interno e esponenti del Cremlino. Nella riunione Salvini viene chiamato il "Trump italiano" e si parla di una possibile vendita di petrolio russo all'Eni. La Repubblica il 10 luglio 2019. Lo scorso 18 ottobre nel lussuoso Hotel Metropole di Mosca c'è stato un incontro tra esponenti della Lega e uomini del Cremlino per escogitare il modo di far arrivare al partito del ministro dell'Interno e vicepremier italiano Matteo Salvini decine di milioni di dollari. Lo aveva scritto l'Espresso in un'inchiesta pubblicata a febbraio e firmata da Giovanni Tizian e Stefano Vergine e ora ci sono anche gli audio a supporto di quella ricostruzione. BuzzFeed ha pubblicato la registrazione di quella segretissima riunione. La Lega ha sempre negato di aver ricevuto fondi dall'estero, ma l'audio del Metropole potrebbe essere la prima prova di un finanziamento clandestino di Mosca a un partito nazionalista europeo. Come già pubblicato su L'Espresso lo scorso febbraio, nell'audio si sente più volte Gianluca Savoini, ex portavoce di Salvini, presidente dell'associazione indipendente Lombardia-Russia e sherpa del ministro dell'Interno presso la corte di Putin, ripetere: "Vogliamo cambiare l'Europa. La nuova Europa deve essere molto più vicina alla Russia". L'Espresso aveva pubblicato a febbraio un'inchiesta, citata da BuzzFeed, che raccontava alcuni dettagli degli incontri di Savoini. In quella riunione, in cui Salvini viene più volte chiamato il "Trump italiano" , il ministro dell'Interno non era presente, ma il giorno prima aveva detto che le sanzioni contro Mosca sono "socialmente, economicamente e culturalmente folli". BuzzFeed non ha potuto identificare i russi presenti, ma sostiene che si tratti di alti esponenti del Cremlino i quali dicono di sperare nel "via libera" da parte di Vladimir Pligin,  membro influente del partito del presidente Putin, Russia Unita. La riunione è durata un'ora e un quarto e si è parlato del coinvolgimento di un gigante dell'energia russo per vendere 3 milioni di tonnellate di petrolio all'Eni per il valore di 1,5  miliardi di dollari. Da questa transazione, secondo BuzzFeed, sarebbe avanzati 65 milioni di dollari finiti nelle casse della Lega. I partecipanti al meeting dicono che quest'operazione serviva ad aiutare la Lega, in particolare durante la campagna elettorale per le Europee. Conversando con gli altri due italiani, Savoini dice di avere l'impressione che l'operazione andrà in porto. I tre insistono sul fatto che vada realizzata in fretta, perché le elezioni sono "dietro l'angolo". Parlando del loro "triumvirato", Savoini chiede di mantenere il massimo della segretezza sulla loro relazione. BuzzFeed ha più volte chiesto a Salvini di rispondere su un suo coinvolgimento senza mai ottenere risposta. La replica di Salvini "Ho già querelato in passato, lo farò anche oggi, domani e dopodomani: mai preso un rublo, un euro, un dollaro o un litro di vodka di finanziamento dalla Russia", ha dichiarato Matteo Salvini in una nota dopo la pubblicazione degli audio. Appena pubblicata la notizia Matteo Renzi ha scritto: "O questa è una Fake News o questo è uno scoop clamoroso. Usare il petrolio russo per finanziare la Lega? Sarebbe pazzesco. L'unico che può chiarire è Salvini: deve chiarire lui, subito". Quanto al segretario del Pd, Nicola Zingaretti, ha detto: "Rubli dalla Russia alla Lega per una campagna elettorale contro l'euro? Va tutto chiarito immediatamente".

LA POSIZIONE Di ENI. “Eni ribadisce con fermezza di non aver preso parte in alcun modo a operazioni volte al finanziamento di partiti politici. Peraltro, l’operazione di fornitura descritta non è mai avvenuta. Eni, in presenza di qualsiasi illazione volta a coinvolgerla in presunte operazioni di finanziamento a parti politiche, si riserverà di valutare le opportune vie legali a tutela delle propria reputazione.”

Fondi russi Lega, Bruno Giancotti: "Gianco sono io ma non so nulla di questa storia, avranno chiesto consigli". Libero Quotidiano il 12 Luglio 2019. "Sì, Gianco è come mi chiamano gli amici qua, ma di questa storia non ne so nulla", dice Bruno Giancotti, imprenditore italiano residente a Mosca e a lungo una delle figure di riferimento dei leghisti in Russia. Il suo nome è infatti finito al centro del caso Russia-Lega, dopo essere stato intercettato nel colloquio all'Hotel Metropol di Mosca pubblicata da Buzzfeed. Mentre risultano ancora sconosciuti i tre russi che, parlando tra di loro, fanno riferimento a quanto detto da "Gianco" in merito a una serie di tecnicalità dell'operazione. Giancotti - fa sapere La Stampa - dice di non sapere nulla dell'incontro, di chi fossero i russi presenti e neppure di chi fossero i due italiani, Luca e Francesco, che hanno accompagnato Gianluca Savoini all'appuntamento. L'imprenditore ammette sì di aver incontrato Savoini il giorno precedente, durante l'assemblea di Confindustria Russia e di averlo accompagnato spesso, assieme al suo socio, Claudio D'Amico - anche lui membro di Lombardia-Russia, attualmente consigliere di Matteo Salvini a Palazzo Chigi - ad incontri con politici e imprenditori russi. "Sono qua da 33 anni, quando sono arrivato c'era ancora l'Urss, pensi un po'. È ovvio che conosco molta gente. Ma di questo affare sul gasolio non so assolutamente niente". Eppure i tre russi lo citano parecchie volte, anche quando discutono di quale società interporre tra compratore (Eni, che però ha smentito) e venditore per realizzare la transazione. "Magari è qualcuno che mi ha chiesto un consiglio su come fare certe operazioni ma così in generale - ribadisce Giancotti -. Mi creda, non c'entro nulla con questa storia" conclude alla Stampa.

Audio di Savoini a Mosca, spunta un secondo uomo: “Ero al Metropol, ecco la verità”. L’avvocato Gianluca Meranda scrive a Repubblica: “La trattativa sul petrolio ci fu, ma alla fine non si perfezionò”. Salvini dice sì alla commissione d'inchiesta. I magistrati vogliono cercare i soldi in Russia. Tommaso Ciriaco e Carmelo Lopapa il 12 luglio 2019 su La Repubblica. Nella mattinata di venerdì 12 luglio siamo stati contattati da un avvocato che ci ha proposto di entrare in contatto con un altro avvocato, Gianluca Meranda. Lo abbiamo contattato. L'avvocato Meranda sostiene di essere il "Luca" delle intercettazioni al Metropol e di essere sorpreso dal clamore suscitato da quell'incontro. Si è proposto di inviare una lettera a Repubblica per rendere pubblico il fatto che il "Luca" di cui si parla è proprio lu...

Tutti gli uomini di Putin in Italia, il ruolo di Gazprom e i contatti con il caso Austria. Pubblicato venerdì, 12 luglio 2019 da Corriere.it. Da poco più di due anni i rapporti fra la Lega e Russia Unita, il partito del presidente Vladimir Putin, sono di natura formale. Fra le due forze esiste un «accordo di coordinamento e di cooperazione» firmato nel marzo del 2017. Il testo di quel documento rispecchia quello dell’unico altro accordo formale che Russia Unita ha mai concluso con una formazione politica occidentale: quello di pochi mesi prima con il partito della Libertà austriaco (Fpö), di estrema destra. Il politologo ucraino Anton Shekhovtsov nota che le intese sottoscritte dagli esponenti austriaci e italiani sono quasi identiche alla lettera, tanto da far pensare che non siano stati negoziate ma imposte da Russia Unita. Fra Lega e Fpö c’è però anche un’altra similarità nei rapporti con Mosca: le sole due forze ad aver stabilito rapporti formali con i russi, sono anche le uniche due ad aver subito fughe di notizie e registrazioni nascoste che ne espongono i rapporti in una luce (quantomeno) controversa. Sembra plausibile che ad aver registrato il colloquio del 18 ottobre fra Gianluca Savoini e i suoi interlocutori moscoviti sia stato uno degli italiani presenti con il leghista. Di questo mancano le conferme, ma in ambienti diplomatici si tende a pensare che la regia dell’operazione su Savoini sia stata dell’intelligence americana. Di certo alcune domande che ha rivolto al vicepremier leghista Matteo Salvini Buzzfeed, autore dello scoop, sono rimaste inevase. La prima: «Quale è la sua relazione con Savoini? Per quale motivo un uomo che non ricopre alcun ruolo ufficiale nel governo partecipa a viaggi ufficiali a Mosca con il ministro, sedendo nelle riunioni con ministri russi e partecipando a cene con il presidente Vladimir Putin? In che ruolo fa tutto questo?». In effetti Salvini si trovava a Mosca nel giorno dell’incontro di Savoini con gli affaristi russi. Nelle cronache di quel viaggio c’è un buco di dieci ore in cui Salvini non sarebbe reperibile. Buzzfeed chiede ancora: «Cosa ha fatto Salvini la sera del 17 ottobre a Mosca? E come mai i funzionari russi che avrebbe incontrato quella sera vengono poi nominati il giorno successivo durante l’incontro (di Savoini, ndr) al Metropol Hotel?». Infine Buzzfeed vuole sapere cosa sa Salvini sull’incontro in quell’hotel. Per ora non c’è risposta. Di sicuro uno dei funzionari russi nominati nei colloqui registrati è Vladimir Pligin, che ha legami antichi e stretti con lo stesso Putin ed è responsabile affari internazionali del partito Russia Unita. Del resto i rapporti di Savoini e quelli della Lega con esponenti russi vicini a Putin o al suo partito sono piuttosto strutturati. Come ricorda Giovanna De Maio per il German Marshall Fund, l’Associazione Lombardia-Russia di Savoini ha ospitato più volte l’ideologo putiniano Alaksandr Dugin; quanto alla Lega, ha invitato a parlare al congresso ultraconservatore della Famiglia a Verona Aleksey Komov, il molto putiniano presidente onorario dell’«Movimento dei giovani russi e italiani». Ci sono poi aspetti più pratici. Il sito anti-euro «scenarieconomici.it» per esempio è molto cresciuto per traffico e influenza in questi anni. Alla sua cerchia appartengono o sono stati vicini due eurodeputati leghisti (Francesca Donato e Antonio Rinaldi), un sottosegretario agli Affari europei (Luciano Barra Caracciolo) e il presidente della Rai Marcello Foa fra gli altri. «Scenari» non è una testata registrata, il nome dell’organizzazione che ha registrato e amministra il sito risulta «nascosta» e il contatto «tecnico» è fuori dall’Italia, a San Marino. Ma quando ripubblica sul proprio sito gli interventi in tivù dei politici d’area come Rinaldi stesso o l’altro leghista Claudio Borghi, «Scenari» si appoggia spesso a un canale particolare: rutube.ru, la piattaforma video di proprietà del colosso pubblico russo Gazprom.

Denaro russo alla Lega, Di Maio e il M5s: "Mai contatti con finanziatori occulti, solo l'interesse del Paese". Il post del M5S sulla pagina Facebook . Sulla pagina Facebook: "Al Movimento 5 Stelle non gliene frega nulla dei petrolieri e men che meno degli speculatori". La Repubblica il 10 luglio 2019. "Sto leggendo di audio di soldi dei petrolieri russi trasferiti alla Lega. Ogni volta che sento questa roba sono sempre più orgoglioso del M5s: mai un contatto con finanziatori occulti o petrolieri o altre nazioni per giochi geopolitici sotterranei". Così Luigi di Maio su Facebook rivendica la purezza del movimento alla luce della vicenda su cui in queste ore è finito sulla graticola l'alleato e co-vicepremier Matteo Salvini. "Abbiamo sempre avuto le risorse da voi con piccole donazioni - insiste Di Maio -, ce le siamo fatte bastare e ora siamo al governo. Sono orgoglioso del Movimento 5 stelle". Praticamente gli stessi argomenti e le stesse riflessioni diffuse dal M5s sulla sua pagina Fb. "In queste ore leggiamo di presunti finanziamenti provenienti dalla Russia e indirizzati alla Lega. Leggiamo di possibili querele e tutti ci chiamano per sapere la nostra posizione. La nostra posizione è semplice e l'abbiamo sempre ribadita: al Movimento 5 Stelle non gliene frega nulla dei petrolieri e men che meno degli speculatori". Lo scrive il Movimento 5 Stelle sulla sua pagina Facebook. "Sono mondi che proprio non ci appartengono e ne siamo orgogliosi. Avere le mani libere significa questo: non rispondere a nessuno di questi colossi, così come non ci facciamo piegare dai Benetton sulla tragedia del Ponte Morandi.

Il Movimento 5 Stelle risponde solo ai cittadini, dipende da loro. Punto!", si legge ancora nel post. "Quindi queste storie non ci sfioreranno mai e non devono, ovviamente, nemmeno sfiorare il governo! Sia chiara una cosa: l'Italia è un Paese autonomo e chi si candida a rappresentarla deve fare l'interesse dell'Italia, non di altri Paesi. Che questi si trovino a Est od Ovest fa poca differenza. Che vendano Vodka o Coca Cola non importa. Noi siamo liberi e lo resteremo. Noi spieghiamo sempre nel dettaglio ogni cosa, inoltre, e ci aspettiamo che tutte le forze politiche facciano lo stesso. Si chiama trasparenza ed è il minimo sindacale", conclude M5s.

Marco Travaglio sui presunti fondi russi: "Matteo Salvini rispondi alle domande e scusati con i grillini". Libero Quotidiano il 12 Luglio 2019. Marco Travaglio va all'attacco di Matteo Salvini e non perde l'occasione di rinfacciargli quei presunti fondi russi destinati alla Lega. "Era il 18 ottobre 2018 - ricorda il direttore del Fatto Quotidiano - mentre Matteo Salvini era in visita a Mosca e il giorno prima aveva parlato alla Confindustria russa, il suo ex portavoce Giampaolo Savoini, leghista a 24 carati e presidente dell'Associazione Lombardia-Russia, incontrava cinque personaggi di cui si ignora l'identità nella hall dell'hotel Metropol: due italiani (Luca e Francesco) e tre russi. I quali parlavano di una commessa di gasolio e cherosene all'Italia da 1,5 miliardi di dollari, per ricavarne una commissione del 6%, cioè una cresta da spartire tra faccendieri russi (2%) ed emissari leghisti (4%). Il Carroccio - per il giornalista - si sarebbe garantito un finanziamento illecito di circa 65 milioni di dollari per la campagna elettorale delle Europee del 26 maggio 2019: "Tutta manna dal cielo, viste le casse vuote del partito dopo la condanna per i 49 milioni di euro di finanziamenti pubblici rubati o comunque spariti". Poi ancora: "Salvini ha annunciato querele e giurato che la sua Lega non ha mai ricevuto un centesimo di rublo né un goccio di vodka. Ma, a parte il fatto che qui si parla di dollari, non può certo cavarsela con qualche battuta da Cazzaro Verde. Qui la faccenda è seria, serissima. E le domande a cui il segretario della Lega, nonché vicepremier, nonché ministro dell'Interno, deve rispondere per un elementare dovere di trasparenza sono parecchie". Ma Travaglio non si lascia sfuggire la sviolinata ai pentastellati: "Non è venuto il momento che Salvini si scusi con i 5Stelle, con il premier, con gli elettori leghisti e con tutti gli italiani?"

Aiuti alla Lega dalla Russia, il Pd: "Chiarire immediatamente". Ma Salvini smentisce: "Querelo". Renzi: "O è una fake news o è uno scoop clamoroso". Savoini, presidente dell'associazione Lombardia-Russia, protagonista dell'audio citato da BuzzFeed: "Mai detto di essere emissario della Lega. E mai visto un centesimo". La Repubblica il 10 luglio 2019. "Rubli dalla Russia alla Lega per una campagna elettorale contro l'euro? Va tutto chiarito immediatamente". Lo scrive su Twitter il segretario Pd Nicola Zingaretti in merito alla trattativa segreta per finanziare con soldi russi la Lega di Matteo Salvini. La riunione tra uomini vicino al ministro dell'Interno e esponenti del Cremlino, già svelata dall'Espresso, si è ora arricchita di un audio relativo a quell'incontro, pubblicato dal sito Buzzfeed. Anche l'ex premier Matteo Renzi chiede chiarimenti sulla vicenda: "O questa è una fake news o questo è uno scoop clamoroso. Usare il petrolio russo per finanziare la Lega? Sarebbe pazzesco. L'unico che può chiarire è Salvini: deve chiarire lui, subito". Sulla stessa linea il deputato dem Andrea Romano: "Oggi emergono nuove e decisive prove sulle manovre orchestrate dalla Lega di Salvini per avere dalla Russia di Putin finanziamenti illeciti da usare in campagna elettorale. Salvini non può più tacere: dica la verità agli italiani su quanti soldi ha ricevuto illecitamente da Mosca e come ha usato quei soldi". Anche l'eurodeputato dem Carlo Calenda commenta su Twitter: "Sovranisti che prendono soldi da Sovrani stranieri. È una vecchia storia. Se #Salvini non dimostrerà l'infondatezza di quanto emerge dall'audio, la sua permanenza al governo diventerà un problema di sicurezza nazionale". Da parte sua Salvini smentisce: "Ho già querelato in passato, lo farò anche oggi, domani e dopodomani: mai preso un rublo, un euro, un dollaro o un litro di vodka di finanziamento dalla Russia", scrive in una nota. Mentre Gianluca Savoini, presidente dell'associazione Lombardia-Russia ed emissario della Lega a Mosca, protagonista dell'audio messo online dal sito di informazione Usa, dichiara  all'Ansa: "Posso solo dire che non è stato mai dato un centesimo o un rublo alla Lega da chiunque e da nessuno di quelli citati nell'articolo" di BuzzFeed. "Il resto sono solo bla bla bla e illazioni da querela. E infatti sono dall'avvocato in questo momento".  "Io - prosegue Savoini - sono di Lombardia Russia (associazione culturale, ndr), mai detto di essere emissario della Lega". E non è nemmeno un consulente di fatto di Matteo Salvini? "No, conosco Salvini da 25 anni essendo io in Lega da inizio anni novanta", ribatte. Il giorno prima dell'incontro in hotel a Mosca registrato, il 17 ottobre 2018, c'era stata un'altra riunione alla quale aveva partecipato anche Salvini? "C'era stato un incontro pubblico di Salvini organizzato dagli imprenditori e niente altro".

Fondi russi alla Lega, Salvini: «Savoini? Non l’ho invitato io, non so perché fosse a quel tavolo». Pubblicato venerdì, 12 luglio 2019 da Corriere.it. «Savoini non era invitato dal ministero dell’Interno», né a Mosca, nell’ottobre 2018, né a Villa Madama nell’incontro bilaterale con Putin. Lo ha detto il ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Riferendosi alla visita a Mosca del responsabile dell'associazione Lombardia-Russia, indagato per corruzione internazionale, Salvini ha aggiunto: «posso produrre i documenti di tutti i passeggeri che hanno viaggiato con me. Che ne so cosa ci facesse al tavolo? Chiedetelo a lui. Faccio il ministro dell’Interno e preferisco occuparmi di cose serie. Questa inchiesta è ridicola». «Ho totale fiducia nella giustizia, che andrà fino in fondo in questa preziosissima indagine e se c'è un rublo fuori posto sarò il primo ad arrabbiarmi, ma suppongo che non ci sia», ha aggiunto. «Ho totale fiducia nella magistratura italiana, che è la più veloce, la più libera, la più indipendente al mondo, la più solerte, la più efficace, quindi sono tranquillissimo». Poi continua: «La Lega ha bilanci puliti e trasparenti». La commissione di inchiesta sul finanziamento ai partiti? «Sì, facciamo 7, 8 commissioni, i bilanci sono pubblici e trasparenti. Non siamo un partito ricco, non ho nulla da nascondere», ha garantito il vicepremier.

Giuseppe Conte, il grande imbarazzo: "Ho fatto fare accertamenti". Savoini imbucato alla cena con Putin? Libero Quotidiano il 13 Luglio 2019. La Lega prende le distanze da Gianluca Savoini. Il vicepremier Matteo Salviniesclude che il presidente di Lombardia-Russia facesse parte della delegazione ufficiale del Viminale a Mosca, lo scorso ottobre. Claudio Borghi lo definisce "un millantatore, non è mai stato un leghista vero, non ha incarichi, non è parlamentare". Le foto che lo ritraggono a Mosca quel 18 ottobre, e poi a luglio a Roma alla cena di gala con Giuseppe Conte, Salvini, Luigi Di Maio e tutte le massime autorità italiane per la visita di Vladimir Putin hanno però messo in imbarazzo anche il premier. Savoini si è per caso "imbucato" a Villa Madama? È questo il sospetto che gira a Roma. Il Cerimoniale di Palazzo Chigi, scrive il Corriere della Sera, spiega che "gli inviti sono stati gestiti dalla Farnesina, dice la Farnesina che sono gestiti dall'Ispi, che ha organizzato il Foro di dialogo con gli imprenditori, dice l'Ispi che al momento non ha la lista con gli invitati, che la persona che se ne occupa torna in sede lunedì". E lo stesso Conte precisa che Savoini "era presente solo perché partecipò al forum Italia-Russia del pomeriggio". In ogni caso, Conte ha "fatto fare accertamenti". Con grande piacere ho partecipato alla cena governativa in onore della visita di Vladi.

Soldi da Mosca, qualcuno in Russia inguaia Salvini. La storia del Metropol è una vicenda simile a quella che ha portato alle dimissioni dell'amico sovranista austriaco Strache. Simile sembra la manina. Per ora rubli non sono stati trovati ma certo il leghista rischia di impantanarsi nelle paludi russe. Gianni Del Vecchio su huffingtonpost.it il 10/07/2019.  Salvini è sotto scacco. È la deduzione più inquietante dello scandalo dei soldi russi. Forse ancor più inquietante dei contenuti dell’incontro all’Hotel Metropolfra il braccio destro del vicepremier leghista, Gianluca Savoini, e tre anonimi negoziatori russi, durante il quale quest’ultimo mendica soldi (in maniera illecita) per finanziare la campagna elettorale europea della Lega. Salvini è sotto scacco perché qualcuno ha registrato tutto e, dopo dieci mesi, ha passato i file audio a un giornale online, BuzzFeed. Una vicenda molto simile a quella che ha portato alle dimissioni dal governo di un altro sovranista, l’austriaco Heinz Christian Strache, peraltro grande amico proprio di Salvini, per un video “rubato” in cui proponeva e chiedeva soldi e affari a una sedicente oligarca russa. In entrambi i casi, la controparte è russa. In entrambi i casi, i sovranisti vogliono soldi e appoggio politico dalla Russia. In entrambi i casi, tutto viene registrato e tutto salta fuori, inguaiando i protagonisti. Che la vicenda Metropol - anticipata da L’Espresso qualche mese fa - inguai politicamente Salvini è fuori di dubbio. Prima di tutto perché il capo leghista non può agevolmente scaricare tutto sulle spalle di Savoini, minimizzando i rapporti intercorrenti tra i due. Savoini non solo è stato per anni il suo portavoce ma è da sempre il link con il mondo russo e la Lega. A parte le miriadi di riunioni con imprenditori e funzionari russi da lui organizzate (qui ben riassunte da Claudio Paudice), la sagoma di Savoini la si trova onnipresente nelle foto che ritraggono Putin con Salvini, Conte e Di Maio durante l’ultima visita di Putin a Roma di una settimana fa, prima alla Farnesina e poi a cena a Villa Madama. Una visita che ha fatto molto piacere a Putin, vista l’accoglienza da zar più che da star riservatagli dalle massime cariche politiche italiane, per tacere del Papa. Né Salvini può pensare di cavarsela con la raffazzonata difesa riassunta in una scarna dichiarazione affidata alle agenzie: “Mai preso un rublo”. Probabilmente sarà vero, l’affare cercato da Savoini non è andato in porto come sperato, tuttavia negli audio vien fuori senza ombra di dubbio come un emissario leghista abbia chiesto a non meglio identificati negoziatori russi vicini al partito di Putin soldi (65 milioni di euro nelle stime di BuzzFeed) per finanziare illecitamente la campagna elettorale. Il tentato finanziamento politicamente non è meno grave di un finanziamento ottenuto. Infine, a inguaiare Salvini è la domanda forse destinata a non avere mai risposta. Chi ha registrato quegli audio? E chi li ha diffusi seguendo un preciso timing? Perché passarli ai giornalisti solo adesso e non prima delle elezioni? Domande che la stampa austriaca e tedesca si è fatta un mese e mezzo fa quando è scoppiato lo scandalo Strache, il leader dei sovranisti d’estrema destra austriaco che è stato costretto a dimettersi e a portare il paese a elezioni anticipate a settembre prossimo. Anche in quel caso non si è mai saputo chi abbia registrato e poi diffuso il video compromettente in cui, fra le altre cose, il sovranista voleva coinvolgere la nipote di un’oligarca russo in operazioni enormi, tra cui l’acquisto del più diffuso giornale austriaco, la Kronen Zeitung, per garantirsi una stampa fedele e asservita, una volta al potere - promettendo in cambio niente meno che appalti e commesse nel settore delle autostrade austriache.

Due storie che hanno come filo conduttore affari sporchi fra partiti sovranisti e la grande madre Russia. E che sono finite allo stesso modo: con la pubblicazione di audio e video “rubati” non si sa come e da chi. Forse, come detto, non lo sapremo mai ed è giusto peraltro che i giornali difendano le proprie fonti. Certo è che una domanda è lecito porsi: non è che Salvini abbia deciso di rimanere al governo con i 5 Stelle, invece che rompere e andare alle elezioni forte del 40% nei sondaggi, perché sotto ricatto da qualcuno? Mentre si cerca una risposta definitiva, intanto bisogna accontentarsi di un dato di fatto parziale: sicuramente ora, dopo la pubblicazione di questa storia, Salvini è politicamente sotto scacco.

Caso Lega-Russia, tutti i dubbi sull’inchiesta di Buzzfeed. Roberto Vivaldelli l'11 luglio 2019 su it.insideover.com. Buzzfeed, il sito americano che ha pubblicato il falso dossier sulla Russiagate redatto dall’ex spia britannica Christopher Steele contro Donald Trump, ha lanciato un nuovo Russiagate, stavolta in Italia. Secondo il sito americano, Gianluca Savoini, presidente dell’Associazione Lombardia Russia, avrebbe incontrato, insieme ad altri due italiani, degli uomini russi per negoziare i termini di un presunto accordo che avrebbe portato alla Lega decine di milioni di dollari. Secondo la ricostruzione del giornalista Alberto Nardelli, si sarebbe parlato dei soldi (65 milioni di euro) da far arrivare alla Lega in vista della campagna elettorale per le Europee. Come spiega il Corriere della Sera, la riunione sarebbe durata poco più di un’ora: l’obiettivo era la vendita di 3 milioni di tonnellate di petrolio all’Eni da parte di un’importante compagnia petrolifera russa. Il valore della vendita sarebbe stato di circa 1,5 miliardi di dollari. Da questa transazione, secondo Buzzfeed, sarebbe avanzati 65 milioni di dollari, quella che (secondo la ricostruzione) sarebbe stata la contropartita per la Lega. L’incontro sarebbe avvenuto il 18 ottobre scorso all’hotel Metropol di Mosca. Il giorno prima, davanti a una platea russa e italiana, il vicepremier Matteo Salvini fece un intervento al Lotte Plaza Hotel nel centro di Mosca, dove ad ascoltarlo c’erano ambasciatori, diplomatici, imprenditori ma anche politici italiani e russi, riuniti per l’assemblea annuale di Confindustria Russia – oltre ad un ottantina di giornalisti accreditati. Gianluca Savoini, giornalista professionista, già direttore dell’ufficio stampa di Regione Lombardia dal 2006 al 2013, fa parte di quella delegazione. Il giorno dopo, secondo la ricostruzione di Buzzfeed, parteciperà all’incontro tenutosi all’Hotel Metropol di Mosca oggetto delle polemiche di queste ore.

I dubbi sulla ricostruzione di «Buzzfeed». Andiamo con ordine. Innanzitutto, l’inchiesta di Buzzfeed – che riprende ciò che aveva già in buona parte pubblicato L’Espresso a febbraio – non è stata in grado di determinare né l’identità dei russi che hanno partecipato all’incontro né degli accompagnatori italiani di Savoini. Né tantomeno di accertare se i soldi di cui si parla sono poi finiti effettivamente nelle casse della Lega. E questo non è un dettaglio di poco conto. Su Twitter, Alberto Nardelli, il giornalista che ha confezionato l’inchiesta per il giornale americano, pubblica un estratto audio di 1 minuto e 38 attribuito a Gianluca Savoini e scrive: “Questo audio fornisce la prima prova concreta dei tentativi clandestini russi di finanziare i movimenti nazionalisti europei e dell’apparente complicità di alcune figure di alto livello dell’estrema destra in quei tentativi”. Per quanto riguarda il breve estratto audio pubblicato su Twitter dal giornalista possiamo affermare tranquillamente che non è assolutamente vero né dimostra alcunché. È una legittima opinione politica quella che Savoini esprime: “Il prossimo maggio ci saranno le elezioni europee – dice – Vogliamo cambiare l’Europa. La nuova Europa deve essere vicina alla Russia, come prima, perché vogliamo avere la nostra sovranità. Vogliamo davvero decidere per il nostro futuro, per gli italiani, i nostri figli, i nostri figli. Non dipendere dalle decisioni di Bruxelles, degli Stati Uniti. Vogliamo decidere noi. Salvini è il primo uomo che vuole cambiare tutta l’Europa. Insieme ai nostri alleati, colleghi e altri partiti in Europa” come Freiheitliche Partei Österreichs in Austria, Afd in Germania, Le Pen in Francia, Orbán in Ungheria. “Vogliamo davvero costruire una grande alleanza con questi partiti che sono pro Russia, ma non per la Russia, ma per i nostri Paesi”. Cosa proverebbero queste dichiarazioni se non la volontà politica – legittima e comprensibile per un’associazione culturale che si chiama Lombardia-Russia – di avere migliori relazioni con una potenza come la Federazione Russa?

La trascrizione dell’incontro. I passaggi per così dire “controversi”, semmai, non sono certo nel breve audio pubblicato da Nardelli su Twitter, che non prova nulla, ma nella trascrizione completa dell’incontro pubblicata sempre da Buzzfeed. Come mai il sito americano ha pubblicato un file tutto sommato ininfluente attribuito a Gianluca Savoini e non ha diffuso altri estratti della conversazione durata circa un’ora e un quarto? Il file audio verrà pubblicato per intero? Attendiamo. Durante la riunione, secondo il sito americano, si sarebbe parlato del coinvolgimento di un gigante dell’energia russo per vendere 3 milioni di tonnellate di petrolio all’Eni per il valore di 1,5 miliardi di dollari. Da questa transazione, sempre secondo BuzzFeed, sarebbe avanzati 65 milioni di dollari finiti nelle casse della Lega, anche se il sito americano non è in grado di affermare se poi questa transizione sia effettivamente avvenuta o meno. Lo stesso Buzzfeedammette: “Non è chiaro se l’accordo negoziato al Metropol sia mai stato eseguito, o se la Lega abbia ricevuto finanziamenti, ma la registrazione ha sollevato seri interrogativi sui legami tra Lega e Mosca”. Secondo il sito americano la “prova” è al 25esimo minuto, quando uno degli italiani afferma: “È molto semplice. La pianificazione fatta dai nostri ragazzi in politica è stata che, dato uno sconto del 4%, 250.000 tonnellate più 250.000 al mese per un anno, possono sostenere una campagna”. Può essere certamente un indizio, ma non un elemento che confermi senza il minimo e ragionevole dubbio che l’affare prevedesse di finanziare le casse della Lega. Anche se questo lo appurerà, eventualmente, la magistratura.

La smentita di Savoini. Al Corriere della Sera, Gianluca Savoini ha spiegato: “Io sono di Lombardia Russia, mai detto di essere emissario della Lega”.  E alla domanda se il giorno prima di quell’incontro c’era stata un’altra riunione alla quale aveva partecipato anche Salvini, Savoini osserva: “C’era stato un incontro pubblico di Salvini organizzato dagli imprenditori e niente altro”. “I soldi dove sono? Ovviamente non ci sono – prosegue Savoini – e chi dice il contrario viene denunciato. Il resto è fuffa”. E al Foglio lo stesso Savoini aggiunge: “Era pieno di imprenditori quel giorno, visto il convegno del giorno prima. In un albergo! In mezzo a tanta gente…”.

In effetti, la domanda è lecita: perché negoziare un accordo così delicato e potenzialmente “compromettente” – secondo Buzzfeed – in mezzo a così tante persone? Perché non chiudersi in luoghi più sicuri e discreti? Una “leggerezza”? Oppure non c’era nulla da nascondere? I dubbi rimangono…

I segreti del “Metropol” con le cimici tra i fiori. L’albergo del summit - Da Mitterrand a Obama, da Lenin a Stalin, ai padani Salvini e Savoini. Antonello Caporale il 12 Luglio 2019 su Il Fatto Quotidiano. I corridoi verde pastello, i muri gialli, le passatoie blu. E le cimici. Nel grande, leggendario Metropol di Mosca, nel luogo esatto in cui la Rivoluzione d’Ottobre scelse di farsi ritrarre e il compagno Lenin di tenere il discorso di insediamento del Soviet, tutto era consegnato alle virtù e ai vizi della storia e delle […

Salvini e Savoini, storia da 007 all'Hotel Metropol: "Non annaffiate i fiori, rovinate i microfoni". Libero Quotidiano il 12 Luglio 2019. Bellissimo e pericolosissimo. Il leggendario hotel Metropol di Mosca è al centro di un nuovo giallo: qui Gianluca Savoini, secondo un articolo del sito americano Buzzfeed, è stato intercettato a colloquio con alcuni imprenditori italiani e russi accordandosi per un (presunto) finanziamento a favore della Lega in cambio di accordi commerciali in campo petrolifero. Lo scambio di battute risale all'ottobre 2018 ma è emerso solo ora, pur essendo già in mano ai pm. Quasi una spy storydegna della leggendaria fama dell'edificio, cantato dai capolavori della letteratura russa. Antonello Caporale, sul Fatto quotidiano, ripercorrendo i grandi eventi che hanno segnato la vita del Metropol (dai grandi leader comunisti sovietici a Mao, tutti ci sono passati) ricorda sibillino il avvertimento alle cameriere della inserviente che "sorvegliava" le piante in vaso lungo la lussuosa hall: "Non annaffiate i fiori altrimenti i microfoni si rovinano". Insomma, bellissimo e pieno zeppo di cimici. Una storia da 007, in cui ora si è infilata pure la Lega.

Fondi russi alla Lega, Savoini indagato per corruzione internazionale. Pubblicato giovedì, 11 luglio 2019 da Giuseppe Guastella, Francesco Verderami, Federico Fubini e Marco Galluzzo su Corriere.it. «Tutto ciò che è oltre il quattro per cento, noi non ne abbiamo bisogno, perché abbiamo stabilito che con il quattro per cento noi siamo a posto». A parlare nel salone riccamente arredato del lussuoso e storico hotel Metropol di Mosca è uno dei tre italiani che il 18 ottobre scorso partecipano con altrettanti russi a quello che sembra solo un normale incontro d’affari, ma che invece la Procura di Milano sospetta essere il momento centrale di un’operazione di corruzione internazionale parallela all’importazione in Italia di un fiume di petrolio che, nelle parole di chi sta trattando, in un anno dovrebbe far affluire 65 milioni di dollari nelle casse della Lega e permettere così al partito di Salvini di affrontare la campagna delle ultime elezioni europee. Sul registro degli indagati finisce Gianluca Savoini. Stretto collaboratore di Matteo Salvini e referente dell’associazione Lombardia-Russia. È accusato di avere quantomeno promesso (tanto è sufficiente per configurare il reato di corruzione) una corposa tangente ai tre russi i quali, evidentemente, vengono ritenuti dei pubblici ufficiali nell’inchiesta dei pm milanesi Gaetano Ruta e Sergio Spadaro, coordinata dall’aggiunto Fabio De Pasquale. Agli atti dell’indagine, aperta nei mesi scorsi dopo le prime rivelazioni sul caso fatte a febbraio dal settimanale l’Espresso, ci sono la registrazione del colloquio tra i sei, pubblicata ieri dal sito americano BuzzFeed, alcune foto dei partecipanti e i primi accertamenti eseguiti dagli uomini della Guardia di Finanza di Milano. L’ipotesi iniziale dell’accusa si basa sulla trascrizione della registrazione. In essa, i sei dicono che i loro rispettivi «amici politici», italiani e russi, si sarebbero messi d’accordo per far arrivare in Italia 300 milioni di tonnellate di petrolio, 250 mila al mese, a prezzo di favore. Il petrolio, sembra di capire dai discorsi, verrebbe venduto scontato da una società pubblica russa per essere acquistato, con l’intervento di una banca d’affari internazionale, da una o da due società intermediarie e poi rivenduto all’Eni a prezzo pieno. Il guadagno per gli intermediari si aggirerebbe, secondo i calcoli del sito americano, intorno ai 65 milioni di dollari che dovrebbero entrare nei forzieri della Lega. La società del cane a sei zampe, però, «ribadisce con fermezza di non aver preso parte in alcun modo a operazioni» di finanziamento di partiti. Nel caso in cui i funzionari pubblici russi riuscissero a strappare uno sconto maggiore, intascherebbero la differenza. «Se lo sconto arriva al dieci, il sei per cento è vostro», spiega colui che BuzzFeed indica come «Italiano 2», persona non identificata al pari di «Italiano 1». L’unico partecipante al quale viene dato nome e cognome, infatti, è Gianluca Savoini, degli altri due si capisce dai colloqui solo che si chiamano Luca e Francesco. È da questa trattativa che scatta l’accusa di corruzione internazionale nella quale, quindi, Savoini viene individuato dai pm come uno degli ipotetici garanti della tangente promessa ai funzionari russi. Prende le distanze il vice premier Matteo Salvini il quale, a chi gli domanda quale ruolo ha Savoini nel Carroccio, risponde: «Chiedetelo a lui, parla a nome suo. Per me è ridicolo quello che ho letto suo giornali». Al momento i magistrati milanesi non sembrano ipotizzare il reato di finanziamento illecito dei partiti. Le indagini non sono ancora al punto di stabilire se l’affare milionario si sia concluso o se, ciò che è stato descritto nell’incontro al Metropol di Mosca, soldi per la Lega compresi, sia stato un progetto che non si è mai realizzato. Intanto hanno cominciato ad interrogare i primi testimoni. «Stiamo facendo accertamenti per capire se ci siano reati o meno», assicura il procuratore Francesco Greco.

SALVINI-GATE. Luca Fazzo per “il Giornale” il 12 luglio 2019. Il solo a mantenere una cautela almeno di facciata è il capo della Procura milanese, Francesco Greco, che, assediato dai cronisti, dice che sulla storia dei (presunti) soldi russi alla Lega «stiamo facendo degli accertamenti per capire se ci sono ipotesi di reato». Ma tutti gli altri elementi a disposizione dicono che non si tratta affatto di una indagine «esplorativa», di quelle che ogni tanto si fanno per capire se davvero ci sia materia per indagare. No, il lavoro della Procura milanese sui rapporti tra Lega e governo russo è già in fase avanzata, e lo era prima ancora che il sito americano Buzzfeed pubblicasse l' audio della chiacchierata dell' ottobre scorso nella hall dell' hotel Metropol. La Procura sta scavando da settimane, ed è convinta che un reato ci sia stato. E per questo reato ha già iscritto nel registro degli indagati, «in concorso con ignoti», Gianluca Savoini, il leghista di casa Mosca protagonista della conversazione nell' hotel («Mai preso soldi dalla Russia, mai parlato a nome di Salvini, mai incontrato emissari del Cremlino e mai fatte cose illegali» si difende Savoini). Anche questa è una scelta significativa della asprezza con cui la Procura meneghina intende condurre la sua campagna d' estate sui rapporti tra Matteo Salvini e Vladimir Putin. A disposizione, dopo l' articolo dell' Espresso che nel febbraio scorso alzò per primo il velo sulla vicenda, Greco e i suoi pm avevano un reato quasi ovvio: finanziamento illecito dei partiti. Perché è chiaro che se davvero la campagna elettorale del Carroccio fosse stata foraggiata da aiuti provenienti da Mosca questo sarebbe avvenuto senza che i rubli comparissero a bilancio. E la violazione della legge sarebbe evidente. Invece la Procura milanese mette mano all' artiglieria pesante e sceglie di contestare il reato di corruzione internazionale. È un reato che apre le porte a rogatorie e intercettazioni in modo quasi illimitato. E che all' interno della Procura ha uno specialista: Fabio De Pasquale, il pm che ha condotto tutte le inchieste sulle tangenti che secondo lui il gruppo Eni avrebbe distribuito qua e là per il mondo. Oggi De Pasquale è il magistrato italiano che conosce meglio i retroscena del mercato petrolifero internazionale. E che, perquisizione dopo perquisizione, ha radiografato in profondità il sistema Eni. Anche stavolta c' è in qualche modo di mezzo l' Eni visto che il nome del nostro ente energetico viene citato ripetutamente dai commensali del Metropol, quando - almeno in apparenza - ragionano sulle modalità con cui alla Lega potrebbe arrivare una quota del prezzo del greggio. Ed è in quella direzione che si stanno muovendo i primi passi dell' indagine. Sono stati compiuti interrogatori e sono stati acquisiti documenti. Tra questi, già prima che li pubblicasse Buzzfeed, i file audio della conversazione al Metropol. È una conversazione la cui utilizzabilità nel processo è dubbia, sia che sia stata compiuta da uno dei presenti sia da qualche spione. Ma intanto è lo spunto da cui si sono mosse le indagini. Quali ruoli attribuisca la Procura ai vari personaggi della vicenda non è ancora chiaro. Savoini è accusato di corruzione, ma chi sarebbero i corrotti? «I funzionari del governo russo», viene spiegato in Procura. Ma per quanto si capisce finora i funzionari russi non avrebbero intascato tangenti, e si sarebbero mossi unicamente per aiutare un partito «amico». Come questo possa portare ad accusarli di corruzione non si sa. Rogatorie in Russia, d' altronde, avrebbero tempi lunghi e esiti incerti. Proprio per questo De Pasquale potrebbe cercare conferme in Italia, analizzando i contratti Eni. Tre milioni di tonnellate di greggio non passano senza lasciare tracce. 

Antonello Guerrera per la Repubblica il 13 luglio 2019. «Salvini è l' uomo più pericoloso in Europa». A dirlo non è un giornale di sinistra e nemmeno una ong, bensì l'Economist , il settimanale della finanza e della City di Londra, che dopo aver definito anni fa Silvio Berlusconi "unfit" (inadeguato), ora critica fortemente anche il leader della Lega, vicepremier e ministro dell' Interno italiano. L' Economist si concentra innanzitutto sulla pericolosità di Salvini in Europa su economia e finanze italiane, in quanto «la tregua dello scorso 8 luglio tra Roma e Ue sui conti italiani è solo temporanea ». L' Italia, continua il settimanale, è economicamente il malato d' Europa, «il debito pubblico è alle stelle e la crescita resta anemica ». Per questo l' Economist , per "disinnescare la minaccia" di Salvini, chiede alle autorità europee di concedere più flessibilità a patto che Roma investa le risorse in riforme strutturali. «Altrimenti», scrive il settimanale, «il risentimento che ha sinora sostenuto Salvini non potrà che aumentare». Ma il "Capitano" è ovunque sulla stampa internazionale anche, anzi soprattutto, per il suo "Russiagate", ossia il caso degli incontri sospetti a Mosca tra emissari leghisti e esponenti del Partito Russia Unita di Putin per presunti finanziamenti alla Lega da parte russa. Secondo Newsweek , difficilmente queste pesanti accuse ostacoleranno Salvini sulla strada verso Palazzo Chigi perché "l' inchiesta potrebbe durare anni". Per un altro media americano, il Washington Post , «Salvini ha ancora un pozzo di consenso profondo cui attingere, molti conservatori italiani vedono in lui un uomo forte come Putin e il suo alleato di governo, il Movimento 5 Stelle, ha rapporti cordiali con Mosca». Questo "Russiagate" di Salvini «ricorda il caso dell' estrema destra austriaca caduta per un filmato su finanziamenti russi?», si chiedono Focus e altri giornali germanofoni. I casi sono simili, scrive lo Spiegel , «ma sinora non si conoscono altri protagonisti coinvolti a parte Savoini, e anche la controparte russa sinora non ha un vero volto». Tuttavia, fa notare il francese Le Monde , "l' affaire russo" della Lega, nell' ambito dei legami tra Mosca e l' estrema destra europea, «è uno dei rari esempi documentati » e per questo è importante andare a fondo perché «l' Italia potrebbe essere il primo Paese a far emergere queste connessioni. E Salvini può essere fiero di avere un altro punto in comune con il suo idolo Trump, anche lui scottato da un affaire russo».

Da libero Quotidiano il 13 luglio 2019.  "Altro che rubli. Le nostre casse, come si sa, piangono". Giulio Centemero, tesoriere della Lega, in un colloquio con il Messaggero bolla il caso Savoini sui presunti finanziamenti russi al Carroccio come "una fake news". E lancia un messaggio sibillino al Movimento 5 Stelle, l'alleato di governo che chiede spiegazioni e trasparenza e si dice disponibile a una commissione d'inchiesta: "Hanno poco da parlare, se si sveglia un magistrato...". "Lo posso ripetere all'infinito - spiega Centemero -: noi, come Lega, non abbiamo nulla a che vedere con questa vicenda: non abbiamo mai percepito erogazioni dall'estero, magari ci fossero stati dei finanziamenti: non avremmo fatto scelte dolorose di ristrutturazione del personale". Ricorda che "anche prima dello Spazza-corrotti chiedevamo l'autorizzazione a pubblicare i nomi delle donazioni liberali, comprese quelle delle società". Quando gli viene chiesto, se per lui Savoini sia, nel migliore dei casi, un tipo spregiudicato o un millantatore, Centemero, secondo il quotidiano, si lascia sfuggire: "Forse entrambe le cose", e ribadisce: "Noi non solo seguiamo tutte le norme, ma operiamo nella massima trasparenza. Viviamo d'altronde in una casa di vetro, anzi di cristallo. Con mille riflettori addosso. E Matteo lo sa benissimo".

49 mln pesano su conti Lega. Francesco Saita e Vittorio Amato il 14/06/2019 su Adnkronos. Conti in rosso nel 2018, con un disavanzo di oltre 16 milioni di euro, per la 'Lega Nord per l'Indipendenza della Padania'. Sulle casse del Carroccio pesa il sequestro giudiziario disposto dal Tribunale di Genova lo scorso anno nell'ambito dell'inchiesta sulla maxi truffa ai danni dello Stato, stimata in 49 milioni di euro, per i rimborsi elettorali non dovuti dal 2008 al 2010. Secondo l'ultimo bilancio del partito, approvato oggi dal Consiglio federale, di cui è in possesso l'Adnkronos, ''la Lega Nord per l'Indipendenza della Padania chiude l'esercizio 2018" (al 31 dicembre) "con un disavanzo" pari esattamente "a 16 milioni 452 mila 997,49 euro''. ''Tale disavanzo - si legge nella relazione gestionale - è causato esclusivamente dall’allocazione tra i debiti, dell’importo corrispondente al valore netto attualizzato delle somme oggetto del noto sequestro giudiziario, (procedimento penale n. 16647/14/21 R.G.N.R. – Tribunale di Genova), che ha determinato l’insorgere di una sopravvenienza passiva di importo pari ad euro 18.421.578,67". Nonostante il disavanzo consistente, la Lega, però, ha prospettive di crescita sotto il profilo finanziario, grazie all'aumento dei proventi. ''L'esercizio 2018, in continuità rispetto all’esercizio precedente - scrive nella relazione il tesoriere Giulio Centemero - è stato caratterizzato dal robusto incremento del consenso sul territorio -confermato anche dai risultati elettorali - che ha garantito al partito un sensibile incremento proventi attivi". Dal bilancio emerge anche un attivo da 9 milioni di euro e un 'tesoretto' in banca di oltre 900mila euro. Carte alla mano, il partito presenta nel 2018 un attivo di 9 milioni 139 mila 518,48 euro e ha disponibilità liquide pari a 875mila 321,50 euro, di cui la parte del leone spetta ai depositi bancari e postali (865mila 329,03 euro) e 9mila 992,47 euro di denaro e valori in cassa. Nel 2017 la liquidità era ben inferiore, pari a 41.868mila euro. Circa 7 milioni di euro. A tanto ammonta il contributo versato nelle casse di via Bellerio dagli eletti, a cominciare da deputati e senatori. Spulciando le carte si scopre che le "contribuzioni da persone fisiche" sono pari a 6milioni950mila598,80 euro, mentre le "contribuzioni da persone giuridiche", ovvero aziende pubbliche o private, "associazioni, partiti e movimenti politici" sono stimate in 151mila350euro. Ammontano a 34mila786,88 euro i proventi "da attività editoriali. manifestazioni, e altre attività". Circa tremila euro, per la precisione, 2.822,40 euro, i proventi che arrivano dai tesserati del Carroccio, registrati nella voce quote associative annuali. Si registra un netto calo rispetto al 2017, dove i versamenti erano pari a 7.506 euro.

Altro che russi: nei conti della Lega buco da 18 milioni. Quali soldi da Mosca, il bilancio piange. Pesano i 49 milioni dovuti allo Stato ma volano i contributi dei privati. Franco Bechis il 12 Luglio 2019 su Il Tempo. Matteo Salvini si è difeso dal suo piccolo Russiagate scoppiato nelle ultime ore spiegando di non avere visto un solo rublo dalla Russia, così come non è arrivato a lui né a via Ballerio, sede della Lega, uno yen, un dollaro o altra valuta straniera. E a leggere i bilanci della Lega depositati proprio ieri c'è da credergli: il bilancio consolidato 2018 si è chiuso con un buco di gestione di ben 18,5 milioni di euro e con debiti complessivi di 20,4 milioni di euro. Nonostante i successi elettorali, il partito di Salvini ha tutta l'aria di essere in bolletta. Quello nazionale ha chiuso l'anno in perdita per 16,5 milioni di euro segnando sulla colonna dei debiti 19,4 milioni di euro. Delle 13 strutture territoriali otto hanno chiuso in rosso (Lombardia, Veneto, Liguria, Umbria, Trentino, Toscana, Romagna e Piemonte) e solo cinque (Valle d'Aosta, Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Marche ed Emilia) con un attivo risicato. Tutte insieme hanno registrato...

Franco Bechis sui presunti fondi russi: "Altroché finanziamenti, la Lega ha chiuso con 16,5 milioni di debiti". Libero Quotidiano il 12 Luglio 2019. Matteo Salvini dice di non aver preso alcun rublo, così come alcuno yen, altrettanti dollari e qualsiasi altra valuta straniera. E a leggere i bilanci della Lega depositati proprio ieri, giovedì 11 luglio, c'è da credergli: "Il bilancio consolidato 2018 si è chiuso con un buco. Nonostante i successi elettorali, il partito di Salvini ha tutta l'aria di essere in bolletta" spiega Franco Bechis sulle pagine del Tempo. Infatti, fa sapere il giornalista, i conti rilevano che la Lega ha chiuso l'anno in perdita per 16,5 milioni di euro segnando sulla colonna dei debiti 19,4 milioni di euro". Delle 13 strutture territoriali otto infatti hanno chiuso in rosso (Lombardia, Veneto, Liguria, Umbria, Trentino, Toscana, Romagna e Piemonte) e solo cinque (Valle d' Aosta, Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Marche ed Emilia) con un attivo risicato. Tutte insieme hanno registrato una perdita di poco più di due milioni di euro accumulando un debito annuo di poco inferiore al milione di euro. "I guai finanziari derivano dalla struttura nazionale, ma soprattutto dalle note vicende giudiziarie che riguardavano i bilanci precedenti della Lega Nord guidata prima da Umberto Bossi e solo alla fine da Roberto Maroni, che hanno portato al decreto di sequestro giudiziario dei famosi 49 milioni di euro - prosegue Bechis -. Dal punto di vista contabile ora quei 49 milioni sono scesi a 30, perché il buco di bilancio 2018 della Lega Nord Padania deriva proprio dalla scelta di spesare parte rilevante di quel contenzioso nei conti dell'anno passato, registrando nella gestione annuale una sopravvenienza passiva appena inferiore ai 19 milioni di euro (esattamente 18.968.755,82 euro) che sommato algebricamente al risultato di gestione reale dell'anno, in attivo per 2,5 milioni di euro ha prodotto la perdita ufficiale di 16,45 milioni di euro". Ma il tesoriere Giulio Centemero riserba anche altre voci sui debiti. Insomma, sembra proprio che alla Lega non sia giunto alcun aiutino: "Non si trovano finanziamenti in valuta straniera nel bilancio ufficiale, dove in ogni caso le contribuzioni da persone fisiche e giuridiche complessivamente hanno superato di poco i 7 milioni di euro. Somma anche questa assai lievitata rispetto all'anno precedente quando non si arrivava al milione di euro, ma spiegabile con l'autotassazione di parlamentari e consiglieri regionali che si sono moltiplicati grazie ai favorevoli risultati elettorali" conclude.

Il miracolo finanziario della Lega, i 49 milioni da restituire allo Stato sono diventati 18. Il pagamento dilazionato concordato riduce il costo reale per il partito di Salvini. Lo rivela la pubblicazione online del bilancio. Ettore Livini e Matteo Pucciarelli il 19 luglio 2019 su La Repubblica. I 49 milioni che la Lega deve restituire allo Stato si sono ridotti a 18,4. Il miracolo finanziario è fotografato dal bilancio 2018 del Carroccio ed è figlio dell'accordo con la procura di Genova del settembre 2018 che permette di restituire la somma del vecchio finanziamento pubblico in 75 anni in comode rate da 600mila euro l'anno a interessi zero. Il valore dello sconto è misurato al centesimo nei conti del partito di Matteo Salvini: "L'importo originale di 48.969.617 oggetto del provvedimento penale - recita il fascicolo - è stato iscritto alla voce altri debiti al valore attualizzato di 18.421.587,67 milioni" al netto dei 3,35 milioni "già sequestrati sui conti correnti della Lega Nord". Tradotto in soldoni: il pagamento dilazionato e senza alcun interesse riduce il costo reale per la Lega (ai valori di oggi) di oltre 30 milioni. La pubblicazione online dei bilanci della Lega è caduta nei giorni caldi dell'affare Russia. Proprio Matteo Salvini aveva detto "i bilanci sono pubblici, non c'è un rublo" e in effetti entrate "strane" non ce ne sono - ammesso che esista qualcuno così spericolato da inserire un eventuale finanziamento illecito dentro un bilancio ufficiale. Ma detto questo, si può vedere come ormai la transizione tra Lega Nord e nuova Lega è ormai per buona parte completata, anche se poi la sede è sempre quella di via Bellerio. Andando con ordine, la "Lega Nord per l'Indipendenza della Padania" chiude il 2018 con un disavanzo di esercizio di 16,5 milioni di euro. Il motivo è appunto l'inserimento alla voce "altri debiti" dei 18,4 milioni. Se non ci fosse stata la zavorra dei soldi da restituire allo Stato, sarebbe stato un anno da incorniciare, con utili per 2,5 milioni di euro. Sono state fatte due assunzioni (i 7 dipendenti sono diventati 9), in cassa ci sono 875 mila euro. "L'esercizio 2018 è stato caratterizzato dal robusto incremento del consenso sul territorio che ha garantito al partito un sensibile incremento proventi attivi". Le 81 mila scelte del 2 per mille hanno fruttato circa un milione di euro. Fondamentali poi sono i contributi degli eletti di Camera, Senato e dei territori: valgono 7,2 milioni di euro. Ciliegina sulla torta, 100mila euro arrivati da Vaporart, società che opera nel settore delle sigarette elettroniche premiato dal governo con un condono inserito nel milleproroghe.  Il nuovo movimento "Lega per Salvini premier" - il cui segretario è Roberto Calderoli - ha messo insieme 2 milioni di euro grazie al 2 per mille, 390 mila euro arrivano dalle contribuzioni di eletti e altre persone giuridiche (come la Confagricoltura Roma, che dona 25 mila euro), mentre i dipendenti sono passati da 2 a 3.

Rubli, 007 e "manine", il Russia-gate leghista è la spy story dell'estate. Intrigo internazionale o parodia di James Bond? Tutto quello che non torna nel caso. Paolo Bracalini, Sabato 13/07/2019 su Il Giornale. L'ombra del Cremlino, i servizi segreti russi, gli oligarchi, il petrolio, le montagne di rubli, le cimici all'hotel delle spie, le manine nascoste, i doppiogiochisti, l'ombra della Cia. Bisogna ammettere che il Russia-gate in salsa leghista ha tutti gli ingredienti di una appassionante spy story estiva da gustarsi a puntate sotto l'ombrellone. L'ambientazione moscovita e il cocktail di elementi alla James Bond esercitano un innegabile fascino, per quanto la vicenda, se ben analizzata, più che lo 007 di Ian Fleming ricordi le sue parodie italiane degli anni '60, James Tont o Le spie vengono dal semifreddo. Già dalla scelta della location per la riunione segreta, ovvero quel Metropol Hotel che è stato quartier generale dei bolscevichi e poi lussuoso ritrovo per diplomatici occidentali sempre controllato da orecchie in ascolto («Non annaffiate i fiori sennò si bagnano i microfoni» è la leggendaria raccomandazione di una inserviente dell'hotel). Per giunta a cento metri di distanza dal Palazzo della Lubjanka, sede dei servizi segreti russi, edificio che secondo un modo di dire sovietico è «il palazzo più alto di Mosca perché da lì si vede direttamente la Siberia» (cioè i gulag). Insomma il posto giusto per un incontro al riparo da occhi indiscreti. L'alone di mistero comunque c'è. I due italiani che accompagnano Savoini, di cui finora si conoscono solo i nomi, tali «Luca» e «Francesco». Forse imprenditori nell'orbita dell'«Associazione Lombardia-Russia», presieduta da Savoini, dove è impegnata anche la moglie, Irina Shcherbina, «russa di San Pietroburgo, la città dove Putin si è formato come agente del Kgb» ci tiene a specificare Repubblica per arricchire la sceneggiatura della spy story. Poi ci sono i tre russi misteriosi, quelli al tavolo con i tre italiani. Anche le figure sullo sfondo sono intriganti. C'è l'oligarca Kostantin Malofeev, fedelissimo di Putin, sospettato da Usa e Ue di aver finanziato la guerra in Crimea e la guerra nel Donbass. Confermati i suoi rapporti con Aleksei Komov, rappresentante del Congresso Mondiale delle Famiglie in Russia e creatore del fondo San Bonifacio in cui siedono esponenti del partito di Putin (Russia Unita): appunto Komov è il presidente onorario dell'associazione guidata da Savoini. Ma da qui a montare un Russia-gate sulle chiacchiere, ce ne passa. Per quanto maldestra e con forte odore di spacconata da bar, nella missione russa del consigliere di Salvini gli interrogativi per tenere alta la suspence non mancano. Chi ha registrato la conversazione all'hotel? A che scopo? Perché ha deciso di renderla pubblica? Perché proprio adesso? E perché attraverso il sito americano BuzzFeed? Anche quest'ultima circostanza è significativa. BuzzFeed non è il Washington Post, ma un sito che mescola gossip, notizie trash su diete miracolose, gallery di foto acchiappaclick, e inchieste. Alcune vere, altre no. E guarda caso proprio sulla Russia. Nel gennaio scorso BuzzFeed scrisse che Donald Trump aveva ordinato al suo avvocato, Michael Cohen, di mentire sotto giuramento al Congresso sulle trattative per costruire una Trump Tower a Mosca. Lo scoop fece subito il giro del mondo, prima di essere però smentito dal procuratore speciale Robert Mueller, ex capo del Fbi, che indagava sul Russiagate. Il fatto che il sito sia americano ha subito ispirato l'ipotesi di una pista a stelle e strisce per spiegare l'origine della notizia. Che sia uno sgambetto della Casa Bianca per colpire la Lega troppo filorussa? In realtà qui si sprecano le ipotesi e le controipotesi, sempre per tenere alta la tensione della spy story. Quindi c'è chi è convinto del contrario, cioè che sia un trappolone dei russi per dare un avvertimento a Salvini, diventato troppo atlantista da quando è al governo, e su posizioni opposte agli interessi di Mosca su troppi dossier (il gasdotto Tap, l'Iran, il Venezuela, la Cina). Ma c'è pure chi vede la «manina dei renziani», e ancora chi pensa che sia invece la stessa Lega che ha fatto uscire l'audio. Perché? Per rendere nota l'inchiesta già avviata dalla Procura di Milano. Quando si tratta poi di misteriose ingerenze russe sulla politica italiana, c'è sempre da separare verità da fake news. Ad esempio la storia che ci fossero dei troll russi dietro l'attacco a Mattarella quando mise il veto su Paolo Savona al Mef. Secondo la Procura di Roma, che sulla vicenda aveva aperto un'inchiesta, la «regia russa» era tutta una bufala.

Federico Fubini e Marco Galluzzo per il “Corriere della sera” il 13 luglio 2019. Da poco più di due anni i rapporti fra la Lega e Russia Unita, il partito del presidente Vladimir Putin, sono di natura formale. Fra le due forze esiste un «accordo di coordinamento e di cooperazione» firmato nel marzo del 2017. Il testo di quel documento rispecchia quello dell' unico altro accordo formale che Russia Unita ha mai concluso con una formazione politica occidentale: quello di pochi mesi prima con il partito della Libertà austriaco (Fpö), di estrema destra. Il politologo ucraino Anton Shekhovtsov nota che le intese sottoscritte dagli esponenti austriaci e italiani sono quasi identiche alla lettera, tanto da far pensare che non siano stati negoziate ma imposte da Russia Unita. Fra Lega e Fpö c'è però anche un' altra similarità nei rapporti con Mosca: le sole due forze ad aver stabilito rapporti formali con i russi, sono anche le uniche due ad aver subito fughe di notizie e registrazioni nascoste che ne espongono i rapporti in una luce (quantomeno) controversa. Sembra plausibile che ad aver registrato il colloquio del 18 ottobre fra Gianluca Savoini e i suoi interlocutori moscoviti sia stato uno degli italiani presenti con il leghista. Di questo mancano le conferme, ma in ambienti diplomatici si tende a pensare che la regia dell' operazione su Savoini sia stata dell' intelligence americana. Di certo alcune domande che ha rivolto al vicepremier leghista Matteo Salvini Buzzfeed , autore dello scoop, sono rimaste inevase. La prima: «Quale è la sua relazione con Savoini? Per quale motivo un uomo che non ricopre alcun ruolo ufficiale nel governo partecipa a viaggi ufficiali a Mosca con il ministro, sedendo nelle riunioni con ministri russi e partecipando a cene con il presidente Vladimir Putin? In che ruolo fa tutto questo?». In effetti Salvini si trovava a Mosca nel giorno dell' incontro di Savoini con gli affaristi russi. Nelle cronache di quel viaggio c'è un buco di dieci ore in cui Salvini non sarebbe reperibile. Buzzfeed chiede ancora: «Cosa ha fatto Salvini la sera del 17 ottobre a Mosca? E come mai i funzionari russi che avrebbe incontrato quella sera vengono poi nominati il giorno successivo durante l'incontro (di Savoini, ndr ) al Metropol Hotel?». Infine Buzzfeed vuole sapere cosa sa Salvini sull'incontro in quell' hotel. Per ora non c'è risposta. Di sicuro uno dei funzionari russi nominati nei colloqui registrati è Vladimir Pligin, che ha legami antichi e stretti con lo stesso Putin ed è responsabile affari internazionali del partito Russia Unita. Del resto i rapporti di Savoini e quelli della Lega con esponenti russi vicini a Putin o al suo partito sono piuttosto strutturati. Come ricorda Giovanna De Maio per il German Marshall Fund, l'Associazione Lombardia-Russia di Savoini ha ospitato più volte l'ideologo putiniano Alaksandr Dugin; quanto alla Lega, ha invitato a parlare al congresso ultraconservatore della Famiglia a Verona Aleksey Komov, il molto putiniano presidente onorario dell'«Movimento dei giovani russi e italiani». Ci sono poi aspetti più pratici. Il sito anti-euro «scenarieconomici.it» per esempio è molto cresciuto per traffico e influenza in questi anni. Alla sua cerchia appartengono o sono stati vicini due eurodeputati leghisti (Francesca Donato e Antonio Rinaldi), un sottosegretario agli Affari europei (Luciano Barra Caracciolo) e il presidente della Rai Marcello Foa fra gli altri. «Scenari» non è una testata registrata, il nome dell'organizzazione che ha registrato e amministra il sito risulta «nascosta» e il contatto «tecnico» è fuori dall' Italia, a San Marino. Ma quando ripubblica sul proprio sito gli interventi in tivù dei politici d' area come Rinaldi stesso o l'altro leghista Claudio Borghi, «Scenari» si appoggia spesso a un canale particolare: rutube.ru, la piattaforma video di proprietà del colosso pubblico russo Gazprom.

CHI HA DIFFUSO L’AUDIO DELL’INCONTRO DI SAVOINI A MOSCA? Michele Pierri per Formiche.net il 12 luglio 2019. Una mano americana dietro la diffusione dell’audio pubblicato da Buzzfeed? “Un’assurdità pensarlo” secondo Edward Luttwak, che risponde così all’ipotesi, riportata da alcuni articoli, di un possibile coinvolgimento di Washington nella vicenda, che ha visto la pubblicazione della registrazione di un incontro a Mosca di un (ex?) collaboratore di Matteo Salvini, Gianluca Savoini, per trattare – secondo la ricostruzione della testata – un presunto finanziamento con cui mandare avanti la campagna elettorale della Lega per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo. Gli Stati Uniti, evidenzia l’analista e politologo americano, già stratega militare della Casa Bianca, “si curano poco dei legami che l’Italia intrattiene con Mosca”. Piuttosto, rimarca in una conversazione con Formiche.net, sono preoccupati dei rapporti tra Italia e Cina.

Luttwak, che cosa ne pensa del caso sollevato dall’audio pubblicato da Buzzfeed?

«Posso solo dire che se la Lega – come qualunque altro partito in altre circostanze – avesse ricevuto del denaro in quel modo sarebbe molto grave, oltre che illegale. Ma finora non abbiamo nessuna prova che ciò sia accaduto. Tuttavia ci sono altri aspetti che mi danno da pensare».

Quali?

«Diverse testate hanno parlato di un legame tra Gianluca Savoini e Aleksandr Dugin, ultranazionalista di destra russo e ideologo dell’anti-Europa, sostenitore del presidente russo Vladimir Putin. Questo rapporto, se esiste, andrebbe approfondito o chiarito, perché – che i soldi siano stati dati o no, e ho già detto che non è possibile saperlo per ora – ci porta al cuore di quello che io ritengo sia il problema, che è soprattutto politico e che non riguarda solo l’Italia».

Di che tipo di problema si tratta?

«La Russia utilizza come metodo quello di sostenere, in vario modo, tutti i partiti politici in Europa contrari alla Nato e alle istituzioni europee. Anche se l’economia russa è ormai in declino – il Pil del Paese è inferiore a quello dell’Italia – Mosca tenta di foraggiare e influenzare i politici per indebolire l’Occidente. A volte ci riesce, a volte no. Ma in ogni caso basterebbe questo per rendersi conto che alcuni incontri andrebbero a mio parere quantomeno evitati, se non altro per ragioni di opportunità».

Alcuni articoli hanno riportato l’ipotesi di una mano americana dietro la fuoriuscita di quelle conversazioni. Lo ritiene verosimile?

«Considero un’assurdità pensarlo. In primo luogo perché si danno alla Cia più potere e più capacità di quelle che realmente abbia. E poi, cosa più importante, perché gli Stati Uniti si curano poco dei legami che l’Italia intrattiene con Mosca. Roma, sulle cose che contano davvero nel rapporto con la Russia – sanzioni e crisi ucraina innanzitutto – ha finora dimostrato di schierarsi sempre dalla parte di Washington. Piuttosto, al momento l’interesse americano è che l’Italia non vada con la Cina, che è considerato il vero rivale strategico dei prossimi anni».

DAGOREPORT il 17 luglio 2019. La più importante e decisiva domanda da farsi sul Russia-gate è: chi ha registrato l’audio dell’incontro di Savoini e compagni all’Hotel Metropol di Mosca? E’ nella logica delle cose che a salvare quella traccia in alta e chiarissima qualità siano stati gli amici di Putin, magari per premunirsi per un eventuale voltafaccia futuro di Salvini. Infatti l’audio è stato registrato a dicembre 2018 e ricicciato – visto che l’operazione da 65 milioni di euro non andò in buca - nel momento in cui si comincia a parlare della visita di Salvini a Washington e dei suoi vari incontri con l’ambasciatore Usa in Italia. Ecco che, cinque mesi fa, una manina russa fa volare l’audio della registrazione in Italia. Ma lo scoop dell’”Espresso” non trova audience e muore lì. Dopodiché il Truce vola negli Stati Uniti e dopo gli incontri con Pence e Pompeo è più felice di una Pasqua: ora mi sento più forte di un toro, l’Italia deve imboccare la via di Trump, e altre entusiaste dichiarazioni subito recapitate a Mosca. Dopodiché sbarca Putin in Italia e non ottiene dal governo gialloverde una parola contro le sanzioni europee alla Russia, ricevendo in cambio una insostenibile raccomandazione ad alleggerire la posizione in Crimea. Tornando a casa, la delusione dello zar Vlad è in queste parole: “Sono molto contento di aver incontrato il Papa e Silvio Berlusconi….”. Subito dopo Buzzfeed lancia la bomba audio del Metropol. Ed è ovvio che la manina è russa. Ma il vero problema è un altro: tipini come Savoini e l’avvocato massone Gianluca Meranda dovevano essere consapevoli che gli amici di Putin avrebbero registrato l’incontro d’affari e politica. Lo fanno da sempre e qualsiasi habitué italico a Mosca lo sa perfettamente. L’uomo chiave della storiaccia si chiama Ernesto Ferlenghi, un funzionario dell’Eni che da una vita vive a Mosca. Entra in contatto con Savoini perché mira ad essere l’uomo di riferimento italiano in Russia. Fino al fatal incontro con il leghista, Ferlenghi è sempre stato osteggiato dai funzionari dell’ambasciata italiana a Mosca perché considerato troppo filo-russo. Oggi è felice: via Salvini, viene nominato presidente del forum di dialogo Italia-Russia al posto di Luisa Todini, messa lì a suo tempo da Gianni Letta. Tra l’altro l’ambasciata italiana aveva proposto come presidente del Forum un imprenditore che aveva attività con la Russia come Tronchetti Provera, tant’è che il suo uomo a Mosca, Aimone di Savoia, negli ultimi giorni diceva apertamente che era fatta per il presidente di Pirelli. Ma gli interventi di Salvini, via Savoini, hanno partorito la nomina di Ferlenghi. E il lavoro di Ferlenghi ai fianchi di Salvini produsse subito una mirabolante dichiarazione a favore dell’Ad dell’Eni Claudio Descalzi, nei guai fino al collo con la Procura di Milano per lo scandalo Nigeria: “Lo stimo e ringrazio lui e l'Eni per quello che fanno in Italia e nel mondo”. E ancora: “Un sistema Paese dovrebbe tutelare le sue aziende migliori. Dico solo questo e non commento le sentenze”. Ma sia Trump sia Putin non perdonano a Salvini il solito immortale vizio italico di tenere il piede in due scarpe e di non finire mai la guerra con il proprio alleato. Anche se politicamente si era abbastanza posizionato su Trump, il Truce sotto sotto ha sempre mantenuto aperti i rapporti con Mosca. Ma Donald ha offerto al leghista solo promesse e incitamenti a spaccare l’Unione Europea. Concretamente, nisba. E vista anche la sonora sconfitta al Parlamento Europeo, urge per Salvini un corso di politica internazionale.

CHI HA REGISTRATO L’INCONTRO DI SAVOINI AL METROPOL E CHI HA CONSEGNATO IL MATERIALE ALLA MAGISTRATURA? Maurizio Belpietro per “la Verità” il 17 luglio 2019. Il procuratore di Milano, Francesco Greco, parlando ieri davanti alla porta del suo ufficio dopo aver avuto un colloquio con l' aggiunto Fabio De Pasquale, titolare dell' inchiesta sui presunti fondi russi alla Lega, ha risposto con un «no comment» alla domanda se fosse stato identificato il terzo italiano presente all' incontro in cui sarebbe avvenuta la trattativa sul petrolio. Le agenzie, però, hanno aggiunto anche un' altra risposta di Greco, questa volta a chi gli ha fatto notare che qualcuno sta sollevando dubbi sull' utilizzabilità di quell' audio per via delle modalità di acquisizione: la registrazione da cui è partita l' indagine, ha detto il procuratore, «è stata acquisita con un normale verbale». Questione chiusa dunque, almeno per quel che riguarda l'audio, la sua attendibilità e anche il suo arrivo nelle mani dei pm? Niente affatto, visto che la faccenda è tutt' altro che secondaria. Siamo stati i primi ad aver sollevato qualche dubbio sull'utilizzabilità della registrazione e non, ovviamente, per via dell'operato della magistratura: ci mancherebbe. È evidente che nel momento in cui l' audio è arrivato nelle mani della polizia giudiziaria, il «documento» è stato acquisito con un normale verbale. Che sia stato consegnato da chi ha registrato il colloquio o che il supporto digitale sia stato recapitato da un soggetto terzo, che a sua volta lo aveva ottenuto, gli ufficiali di pg erano tenuti a redigere un verbale. Sarebbe così anche se la registrazione fosse arrivata da fonte anonima, perché nel momento in cui arriva in Procura, va da sé che il funzionario o il magistrato che la ricevono debbono compilare un verbale. Dunque, la frase del procuratore di Milano non risponde alla domanda che ci siamo posti sin dal deflagrare del presunto scandalo, circa l'utilizzabilità della registrazione. Perché una cosa sono le modalità con cui si è acquisito l'audio, altro è se quel supporto digitale sia una prova, o se sia ipotizzabile a carico di chi l'ha maneggiato la ricettazione. Già, perché qui bisogna tornare alle origini: ovvero a chi abbia registrato il colloquio e a chi lo abbia fatto giungere in Italia, consegnandolo prima ai magistrati e poi ai giornalisti, ammesso e non concesso che il percorso non sia stato all' incontrario. Ieri a Quarta Repubblica, la trasmissione condotta da Nicola Porro su Rete 4, Stefano Vergine, uno dei giornalisti dell' Espresso che per primi hanno raccontato della strana trattativa di Mosca, ha detto di avere le prove di ciò che Gianluca Savoini e i suoi interlocutori si sono detti nella hall dell' Hotel Metropol. Certo, gli appunti non possono essere considerati prove, né lo può essere la stessa testimonianza del collega. Dunque, si torna alla domanda di partenza: chi ha registrato e chi ha consegnato il materiale alla magistratura? Il fatto a qualcuno potrà sembrare secondario se non di nessuna rilevanza, visto che la questione riguarda fondi neri da destinare al finanziamento di un partito. Ma visto che i fondi non si trovano, così come pure i milioni di tonnellate di kerosene che avrebbero dovuto dare origine alla maxi mazzetta da 65 milioni di dollari, di vero c' è una misteriosa riunione di cui si conoscono i nomi di soli tre partecipanti, più una registrazione. E allora, come in ogni spy story, le attenzioni si devono concentrare sui dettagli, dunque sull' audio e sulle persone presenti nella hall del Metropol. La registrazione, come abbiamo detto, è misteriosa, come lo è la possibilità di ascoltare nella hall di un albergo un colloquio fra sei persone - che si svolge in russo, in inglese e in italiano - distinguendone le voci e ricostruendo senza errori le frasi dette dai partecipanti. Ma altrettanto poco chiaro è il ruolo di Gianluca Meranda, l'avvocato d' affari che ha affiancato Savoini nella trattativa con i russi. Da quanto ha ricostruito il nostro Giacomo Amadori, il legale che nell' audio risulterebbe discutere di percentuali e di intermediari bancari attraverso i quali concludere l' operazione, negli ultimi mesi - cioè prima dell' esplodere del caso - avrebbe attraversato grossi guai finanziari, al punto da essere stato sfrattato e da avere difficoltà nel far fronte alle normali spese. L'avvocato internazionale è stato scaricato dai massoni, dalla banca che rappresentava (la quale nega che a Mosca Meranda agisse come suo consigliere legale) e a giugno era stato costretto a subire lo sfratto del suo ufficio. Ma Meranda è anche colui che scrive a Repubblica per «auto-denunciarsi», cioè per rivelare si essere lui uno dei sei personaggi seduti nella hall del Metropol. E guarda caso, è proprio lui che in quella sede parla di soldi, anzi di milioni, e di percentuali sul colossale affare che ha inguaiato Savoini e, di riflesso, avrebbe dovuto inguaiare Salvini. 

ITALIA CHI? AGLI USA NON FREGA NIENTE DEL CASO DEI FONDI RUSSI ALLA LEGA. Gabriele Carrer per “la Verità” il 17 luglio 2019. Perché sui giornali statunitensi, eccezion fatta per quelli liberal, non è stato dato grosso rilievo al caso di Gianluca Savoini nonostante l' ultima ondata d' attenzione mediatica sul tema nasca proprio da un sito con sede a New York, cioè Buzzfeed? Perché dall' amministrazione di Washington non sono ancora arrivati commenti ufficiali a parte un «no comment» del dipartimento di Stato? È il «no comment» la risposta più frequente che si ottiene quanto si prova a parlare del caso con fonti diplomatiche statunitensi in Italia. Ed è la stessa risposta che ha fornito in un colloquio con La Verità Frederick Fleitz, ex analista della Cia che è stato vice assistente del presidente Donald Trump e chief of staff del consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton, di cui è uno dei più stretti e fidati collaboratori anche oggi che ha lasciato l' amministrazione di Washington per diventare presidente del Center for security policy. Il caso delle presunte trattative tra uomini della Lega, businessman e avvocati russi a Mosca per finanziare il partito di Matteo Salvini «non rappresenta una notizia di grande attualità» per i media russi, come ha spiegato lunedì all' Agi Elena Pushkarskaya, corrispondente a Roma del quotidiano russo Kommersant. Ma non soltanto. Lo stesso vale infatti per gli Stati Uniti, «più spaventati dagli investimenti cinesi in Italia che da una presunta trattativa tra un partito italiano e alcuni uomini d' affari russi piuttosto improbabile, visto che la Russia finanzia Stati e non partiti», come spiega una fonte dell' intelligence statunitense alla Verità. Fleitz ripete il «no comment» anche quando gli si chiede del suo futuro. Secondo quanto ricostruito dall' informatissimo sito statunitense Axios, Fleitz sarebbe in cima alla lista dei nomi del presidente Trump per la guida dell' intelligence statunitense. La Casa Bianca pare infatti decisa a sostituire Dan Coats, attuale direttore della National intelligence, finito nel mirino del presidente per i suoi commenti critici nei riguardi del rapporto con il presidente russo Vladimir Putin e per il suo scetticismo sulle trattative con la Corea del Nord. Ma dietro ai «no comment» ufficiali, di Fleitz così come del dipartimento di Stato di Washington, c' è un certo disinteresse da parte degli Stati Uniti per lo scandalo. Nel suo colloquio con La Verità Fleitz si è sì soffermato sulla Russia: «Negli ultimi anni Mosca ha sempre tentato di interferire, attraverso attacchi hacker, nei processi democratici in Occidente, anche nelle elezioni Usa del 2016», ha spiegato aggiungendo però che «non riesco a vedere forti legami tra la Russia e l' Italia, sono convinto che il popolo italiano sia conscio di certi sforzi da parte del presidente Vladimir Putin di minacciare gli alleati degli Usa». Ma Fleitz è convinto che la collusione tra Trump e Mosca sia una «montatura dei democratici e di Hillary Clinton» per nascondere i loro guai e la loro impreparazione. Basti pensare, come ricorda alla Verità Fleitz, che la password delle mail di John Podesta, presidente della campagna presidenziale della candidata democratica del 2016, sarebbe stata, secondo Wikileaks, «password». A preoccupare il braccio destro di Bolton in chiave italiana, più della Russia, c' è piuttosto la Cina, anche alla luce della recente intesa sulla Nuova via della seta tanto voluta dal Movimento 5 stelle, come ha spiegato nella chiacchierata con il nostro giornale. Perché quindi tutti questi «no comment» sul caso Savoini dagli Stati Uniti? Due sono le possibili spiegazioni che riflettono i frequenti scontri tra la Casa Bianca e il dipartimento di Stato. La seconda, quella più in linea con il pensiero del segretario di Stato Mike Pompeo (a cui non è passato inosservato che Salvini abbia fatto tre viaggi in Russia prima di raggiungere Washington): la Lega è l' interlocutore privilegiato degli Stati Uniti, allineata su tre temi centrali come Cina, Venezuela e Iran; opporsi alle sanzioni contro la Russia sarebbe un azzardo troppo grande sia per la Lega sia per l' Italia, non rimane quindi che sganciare il Carroccio da certi mondi russofili. La seconda spiegazione è quella più trumpiana: il caso Savoini è una questione tutta italiana. Ma c' è un elemento che rafforza quest' ultima ipotesi e riduce i sospetti di una manina Usa dietro quell' audio: il fatto che la Procura di Milano abbia fatto sapere di essere in possesso da mesi delle registrazioni pubblicate da Buzzfeed. Ecco quindi che suonano profetiche le parole pronunciate alla Verità circa il futuro dei rapporti tra Stati Uniti e Unione europea da Fleitz, che si dice «certo» della riconferma di Trump l' anno prossimo grazie soprattutto ai suoi «successi in economia»: «Non penso che l' Unione europea sia disposta a lavorare con il presidente Trump, a cui certo non piace il modo in cui l' Ue "costringe" i popoli. L' Italia può essere un interlocutore privilegiato tra gli Usa e la nuova Commissione, ma al primo posto ci dev' essere il commercio». Fleitz così ridimensiona, anche alla luce dei tentativi di ingerenza di Putin, la forza di Mosca, gigante geopolitico ma media potenza sotto l' aspetto economico.

Edward Luttwak sul caso-Russia e Savoini: "Complotto Usa contro Matteo Salvini? Da analfabeti". Intervista di Pietro Senaldi del 16 Luglio 2019 su Libero Quotidiano.

«Chi parla di un complotto dagli Stati Uniti è un analfabeta politico. La Cia è molto efficiente e attiva nei film, ma nella pratica fa poche cose e pure male. L' intercettazione è italiana».

Ma dottor Luttwak, molti osservatori italiani sostengono che l' uscita dell'audio di Savoini alla ricerca di fondi russi per la Lega sia un messaggio in codice degli Usa a Salvini perché non si avvicini troppo a Putin.

«Nessun bisogno di messaggi in codice. Quando c' è un messaggio è urlato, non sussurrato, come fu per l'accordo con la Cina, visto come uno sgambetto anti-americano».

Gli Usa non sono preoccupati dei buoni rapporti tra Salvini e la Russia?

«Per niente. Qui a Washington riteniamo più probabile la caduta di un asteroide sul Pentagono piuttosto che l' uscita dell' Italia dalla Nato o un riposizionamento del vostro Paese nello scacchiere internazionale al di fuori del blocco Occidentale».

Perché ne è così sicuro?

«Salvini è appena stato in Usa e il suo viaggio è andato benissimo. Ha trasmesso l' immagine di un leader giovane e dinamico, con un futuro importante davanti. Un uomo concreto, che non si perde in discorsi astratti e condivide la linea di Trump di contrasto all' immigrazione illegale. Nessun bisogno per il leader leghista di promettere di rimanere nella Nato, visto dove si trova l' Italia neanche il vecchio Pci voleva un' uscita dal Patto atlantico, mentre politicamente e culturalmente Roma deve essere vicina agli States. Se poi il vostro Paese riuscirà a coltivare anche buoni rapporti diplomatici con la Russia, tanto meglio per voi. E poi sa una cosa? I legami strategici tra Italia e Stati Uniti sono così profondi che non sarebbero removibili neppure da cento Salvini determinati a farlo, figurarsi da uno che neppure lo vuole».

Il saggista e politologo Edward Luttwak, consulente strategico del governo americano, noto per la sua dialettica dura, provocatoria ma di logica ferrea, non dà credito alle accuse che in Italia vengono rivolte contro Salvini di voler allontanare il Paese da Washington per legarlo a Putin. «Da che è diventato il leader italiano più popolare e potente, Matteo è accusato di tutto dai propri rivali politici» taglia corto il grande ebreo romeno, che ha vissuto in Italia da bambino nel Dopoguerra e si è poi formato in Inghilterra.

«Quel che gli rimprovera la sinistra fondamentalmente è l' ambizione di voler far applicare la legge. Strano Paese il vostro, siete sempre alla ricerca di mille ragioni per rifiutare la legalità. Voi credete nei sentimenti, nella compassione ma non nella legge, e cadete vittime dei buonisti, i quali fanno finta di abbracciare l' umanità solo per farsi meglio i fatti propri. Avete una tendenza unica a fottervene della legge in nome di interessi personali o di famiglia, oppure di presunti atteggiamenti umanitari».

Non sta esagerando?

«Mi chiedo perché Gino Strada e compagni, se vogliono correre in soccorso dei poveri, vadano fino in Afghanistan e non vadano invece a sporcarsi le mani a Scampia».

Già, perché?

«Forse perché la loro è una battaglia politica e non umanitaria?».

Come quella della Capitana Carola?

«È incredibile che sia stata scarcerata. La sinistra stravolge il diritto del mare, il quale impone di salvare chi sta annegando ma non prevede che si prenda una barca per andare a prelevare dei finti profughi, fornendo una tacita ma consapevole collaborazione ai trafficanti di uomini. La collaborazione con gli scafisti è un crimine, ha ragione Salvini. Contro di lui c'è una campagna mediatica partita molto prima del Russiagate. Chi è per l' immigrazione ti fa vedere la foto di una bimba morta e ti fa sentire responsabile del decesso, ma è propaganda. La vostra Rai parla di ragazzi quando fa i servizi sui barconi; dovrebbe chiamarli clandestini, neppure profughi, perché la maggioranza di essi sono uomini giovani e forti, non famiglie. Bergoglio e la sinistra dovrebbero avere il coraggio della verità».

E quale sarebbe questa verità?

«Un sondaggio ha rivelato che il 50% delle persone sotto i trent' anni che vivono in un Paese musulmano vuole venire in Europa. Chi, come i parlamentari della sinistra, sostiene Carola e le ong, dovrebbe spiegare chiaramente agli italiani che questo significa accettare l' arrivo di cento milioni di persone dall' Africa, tutte da sistemare in Italia».

In Europa, vorrà dire?

«No, in Italia. Come potete pensare che l' Europa vi dia una mano, si faccia carico di una quota di arrivi e collabori, se non riuscite a presidiare i vostri confini? Nessuno ti porta il gelato a casa in Europa: se l' Italia non applica la legge e tollera i clandestini, è un problema suo, non degli altri Stati Ue, che giustamente vi lasciano ai vostri guai e alle vostre inefficienze. Salvini è il solo ad averlo capito, e infatti si dà da fare per far rispettare la legge. Chi attacca lui e difende Carola dovrebbe battersi conseguentemente per l' istituzione di un servizio di traghetti navetta per portare tutti gli africani sulle vostre coste, garantendo tre pasti al giorno, comode cuccette e una sala giochi per i bimbi durante la navigazione».

Torniamo a bomba: che idea si è fatto del Russiagate all' italiana?

«Innanzitutto che ve lo siete fatti voi e non c' entrano nulla gli Usa, e neppure penso la Russia. È chiaro che Salvini avrebbe dovuto tenere Savoini lontano da lui. Quando si è al governo bisogna diventare ancora più cauti: devi stare attento non solo agli amici, ma anche agli amici degli amici».

Comunque, anche secondo i media che accusano Salvini, l' acquisto di petrolio alla base del finanziamento alla Lega non c' è mai stato, e Savoini non ha agito per ragioni di lucro personale.

«In Russia c' è una destra nazionalista molto più a destra di Putin, che sostiene il presidente ma vorrebbe portare il Paese su posizioni ancora più estreme. Un conto è Putin, altro è questa destra, con la quale Savoini e non Salvini ha rapporti».

Qual è lo stadio dei rapporti tra Washington e Mosca, siamo tornati alla Guerra Fredda?

«Il livello di tensione è il medesimo che si aveva ai tempi dell' amministrazione Obama. Su alcuni temi, come l' Ucraina e l' influenza sull' Europa Orientale, c' è molta tensione, su altri, come la Mongolia e in parte anche il Medio Oriente, si può addirittura parlare di collaborazione, in economia c' è una situazione di concorrenza».

E il Russiagate americano a che punto è?

«Si è sgonfiato. Il rapporto del giudice Muller ha certificato che si trattava di una montatura. Le accuse a Trump non si basavano su fatti veri ma su un dossier falso commissionato dalla Clinton in campagna elettorale per screditare il suo rivale e preparato da un consulente inglese di Hillary, pagato per trovare scandali e costruire storie scabrose. Donald è stato vessato da investigazioni e attacchi mediatici eccessivi».

E nessuno paga per questo?

«In Usa non funziona come in Italia, dove perfino i magistrati querelano i giornalisti. Da noi, se sei famoso, non puoi rivalerti in giudizio contro le maldicenze. Trump ha pagato il fatto di aver detto in campagna elettorale che gli sarebbe piaciuto che i russi trafugassero le mail della Clinton, per svelarne gli altarini. Da lì, lo staff democratico ha costruito l' immagine di un Trump in combutta con il Kgb e Putin e l'élite progressista americana, scioccata per la vittoria di Donald, ha abbracciato acriticamente questa tesi nella speranza di destituire il presidente».

Ci sono delle similitudini con il Russiagate italiano?

«In Italia c' è un audio, in America non c' era nulla».

Secondo lei la transazione ventilata da Savoini c' è stata?

«Io non posso saperlo. Vorrei però dire che l' Italia è un Paese molto più ricco della Russia, che in realtà ha pochi mezzi. È capitato che Mosca abbia finanziato alcuni partiti europei, come per esempio in Francia, dove la pratica è del tutto legale. Ma senza dubbio, quando i russi pagano, poi vogliono qualcosa in cambio, pertanto per un politico è meglio non prendere i loro quattrini».

Ma cosa può volere Putin dall' Italia, o da qualsiasi altro Stato europeo?

«Putin guida un Paese in declino economico. Il suo obiettivo è supportare tutto ciò che può indebolire la Nato, l' Unione europea e le sue strutture. L' Italia è diventato un Paese euroscettico e, se si staccasse dalla Ue, per Mosca sarebbe un vantaggio».

Anche lei sostiene tesi euroscettiche in merito al rapporto dell' Italia con l' Unione, sbaglio?

«Io sono euroscettico per quanto riguarda la moneta unica, non l' adesione di Roma alla Ue. Credo che l' Italia dovrebbe restare nell' Unione ma uscire dall' euro. D' altronde, anche Svezia e Danimarca hanno una loro divisa nazionale ma fanno parte della Ue».

Gli europeisti sostengono che sarebbe sbagliato, probabilmente impossibile.

«Se voi usciste dall' euro sarebbe un bene per tutto il mondo. Siete un Paese importante e il fatto che con la moneta unica vi siate condannati a un' eterna mancanza di crescita non aiuta né serve a nessuno».

Perché l'euro fa male soprattutto a noi?

«Perché l' Italia è un Paese che convive con un gigantesco assistenzialismo ed enormi inefficienze che nessuno vuole cambiare, e allora l' unico modo che avete per restare competitivi è svalutare il vostro denaro».

Come cambierà l'Unione europea con l' insediamento della nuova Commissione?

«Ci sarà un riequilibrio, il Ppe non la farà più da padrone e il Pse conterà meno, il potere sarà più condiviso. Per l' Italia però temo che non cambierà nulla. In ogni momento della storia il potere di qualsiasi nazione dipende da due elementi, la massa, ovverosia il numero delle persone e la quantità di ricchezza del Paese, moltiplicata per la coesione, ovverosia la compattezza del popolo e della classe politica. Beh, se Salvini va a Washington, fa un figurone e contemporaneamente tutto l' establishment italiano, dagli alleati di governo all'opposizione, lo attacca, significa una perdita di potere per il Paese». Pietro Senaldi  

Maurizio Belpietro per “la Verità” il 12 luglio 2019. Per capire il Russiagate, ossia l' affaire di un presunto traffico di petrolio tra Mosca e Roma che avrebbe fatto arrivare 65 milioni alla Lega, bisogna tornare a un anno fa, all' inizio delle vacanze estive. Era l' 8 agosto quando Matteo Renzi apparve a sorpresa da Palazzo Giustiniani in una diretta Facebook, l'ultima prima di partire per le ferie. «Presto toccherà di nuovo a noi», annunciò perentorio l' ex presidente del Consiglio, vaticinando una rapida fine dell' esecutivo. «A settembre o ottobre vedrete che ci sarà da divertirsi», aggiunse, facendosi sfuggire che il motivo di tanta certezza di poter tornare presto a Palazzo Chigi fosse da ricercarsi in due indagini giudiziarie. La prima quella dei fondi pubblici incassati dal Carroccio: 49 milioni di rimborsi che, secondo lui, avrebbero finito per mettere nei guai la Lega. La seconda invece riguardante l'attacco di un certo numero di troll al capo dello Stato. Renzi, nella diretta online, si dilungò a spiegare come alcuni siti russi avessero influito sia sul referendum costituzionale del 2016, sia sulla campagna web contro Sergio Mattarella. Partito da falsi profili social, l'attacco contro il presidente della Repubblica non poteva considerarsi casuale, ma, secondo il senatore di Scandicci, un'operazione pilotata. «Ho chiesto al procuratore Pignatone di essere ascoltato come testimone, perché credo che su questa storia delle fake news si giochi il futuro della Stato democratico», concluse l'ex segretario del Pd. Non sappiamo se poi il procuratore capo di Roma abbia deciso di «ascoltare» Renzi per farsi raccontare di questo fantomatico attacco al cuore dello Stato. Una cosa però è certa: tra i primi a segnalare l'attività di troll russi contro Mattarella ci fu Alberto Nardelli, un giornalista italiano che vive a Londra e lavora per Buzzfeed, il sito che per un po' ha campato con la falsa notizia delle elezioni americane condizionate da Mosca a favore di Donald Trump e che ora è al centro dell' attenzione per lo scoop del Russiagate e dei soldi del Cremlino alla Lega. Nardelli è anche colui che nel 2017 fece esplodere sui media anglosassoni un'altra storia misteriosa, ovvero una specie di golpe messo in atto dal Movimento 5 stelle contro Matteo Renzi e il partito democratico. A parlarne furono sia il New York Times che lo stesso Buzzfeed: «I leader del partito anti establishment, il Movimento 5 stelle, hanno costruito una diffusa rete di siti e di account social media che stanno diffondendo notizie false, teorie cospiratorie e propaganda pro Cremlino a milioni di persone». In realtà, si scoprì poi che le notizie usate da Nardelli per confezionare queste accuse erano state attinte direttamente dalla ricerca di un giovane informatico, Andrea Stroppa, un mago del computer che nel 2013, quando aveva 17 anni, venne indagato per aver violato alcuni siti. Una vicenda legata ad Anonymus che nel giro gli procurò una certa notorietà e, soprattutto, una segnalazione a Marco Carrai, l'imprenditore prestacasa di Renzi con il pallino della cybersecurity. Insomma, tanto per ricapitolare: Stroppa, che lavora per Carrai, fa una ricerca in cui si dice che i grillini manipolano le notizie a danno di Renzi e compagni. Nardelli, che prima di scrivere per Buzzfeed ha lavorato per il Consorzio digitale di Roma quando il Comune era amministrato dalla sinistra, rilancia lo scoop che finisce anche sul New York Times. Poi, passato un po' di tempo, Nardelli se ne esce con la storia dei troll russi contro Mattarella e Renzi si mette davanti alla telecamera per la diretta Facebook e, invece di augurare buone vacanze a tutti, dice che presto 5 stelle e leghisti leveranno le tende e ci sarà da divertirsi, minacciando per di più un suo ritorno a Palazzo Chigi. Il cerchio si è chiuso? No. Passato un anno, ecco spuntare un nuovo affaire, ossia i fondi russi alla Lega, mascherati da una maxi fornitura di petrolio all' Eni, da far arrivare in Italia tramite Banca Intesa o qualche altro istituto di credito. Soldi che alla fine dovevano essere recapitati al partito di Salvini. Il tutto con un intermediario di nome Gianluca Savoini, ex giornalista della Padania, ma soprattutto putiniano convinto, un tipo che da anni naviga ai margini della Lega e che qualche volta è apparso attribuirsi più importanza di quella che abbia, ma che certo si muove con disinvoltura e anche con imprudenza. C' è un audio che proverebbe tutto, scrive Buzzfeed, cioè Alberto Nardelli, quello dei troll. E il New York Times rilancia, per la firma di Jason Horowitz, un giornalista che a ridosso del referendum del 2016 scrisse un pezzo in cui, oltre a definire Renzi «il primo ministro che farà ciò che serve per riformare il governo», lo descriveva così: «Con i suoi lineamenti morbidi e la risata contagiosa, può essere affascinante in modo disarmante». Dunque, i protagonisti dello scoop sul Russiagate sono gli stessi di un anno fa e forse non a caso il Pd e Renzi sulla faccenda si sono subito buttati a pesce, anzi da pescicani, parlando addirittura di commissione d' inchiesta. Quanto alla sostanza, 65 milioni non sono bruscolini e se davvero fossero finiti nelle casse della Lega non sarebbero certo entrati in una valigia di cartone, ma sarebbero approdati su un conto bancario e da qui segnalati a Banca d'Italia e quindi alla Procura. Dove sono dunque questi soldi? Qualcuno ha visto un bonifico oppure li ha scovati in una cassetta di sicurezza padana? A quanto pare no. Come nessuno ha visto le tonnellate di petrolio in arrivo da Mosca e di passaggio fra Intesa e Eni. Quindi, per ora al presunto scoop manca la pistola fumante. Un po' come per i troll che minacciavano Mattarella e lo Stato democratico. Di cui dopo le denunce si occupò il Copasir e pure l' antiterrorismo, ma - a quanto pare - senza grandi risultati. Infatti stiamo ancora aspettando di divertirci come un anno fa ci promise Renzi.

UN COLOSSO CHIAMATO BUZZFEED. Loretta Bricchi Lee per “Avvenire” il 12 luglio 2019. È stato finalista per il premio Pulitzer e si è aggiudicato il National magazine award nel 2018, anche se pochi anni prima un sondaggio del centro di ricerca americano Pew aveva rivelato che BuzzFeed era già considerato dalla maggior parte degli intervistati quale un' inattendibile fonte di notizie. La società internet e media con base a New York ha avuto origine nel 2006 come punto di riferimento di notizie di intrattenimento, raccolte da altri siti in base a un algoritmo di "popo-larità". Nel febbraio 2015 il sondaggio sulla percezione del colore di un abito (bianco e oro o blu e nero?) ha scatenato 28 milioni di visite in un solo giorno. Già da qualche anno, però, i fondatori - Jonah Peretti, John Johnson III e Kenneth Lerer dell' Huffington Post - avevano ampliato lo scopo del sito verso la copertura di notizie politiche con l'assunzione di uno staff di corrispondenti in 12 Paesi, tra cui Australia, Brasile, Francia, Germania, India, Giappone, Messico, Spagna e Regno Unito.Un investimento che ha portato a 1.700 il numero globale dei dipendenti e a 300 milioni di dollari di utili. Quest' anno BuzzFeed ha eliminato circa 200 posizioni, ma ha conservato una valutazione di circa 1,7 miliardi di dollari e (nonostante ben 41 accuse di plagio da parte di altri siti) e un giudizio 'stellare' da parte del New York Times per il «record di notizie straordinarie e articoli di approfondimento ». Resta comunque parecchio scetticismo sull' attendibilità delle notizie pubblicate da BuzzFeed, come nel caso del cosidetto “dossier Steele”, un rapporto d' intelligence con accuse piccanti al presidente Donald Trump.

I servizi segreti esteri dietro Carola e Buzzfeed? Un filo rosso pare legare la vicenda sella Sea Watch e quella dei presunti finanziamenti russi alla Lega. Marco Gervasoni l'11 luglio 2019 su Nicolaporro.it. Dopo Carola, Buzzfeed. Cosa lega la costruzione dell’azione della Greta dei migranti con lo «scoop» del sito online sui presunti finanziamenti russi alla Lega? Apparentemente nulla ma la tempistica sincronizzata ci fa sospettare che siano due episodi di una strategia di guerra ibrida, con l’obiettivo di mettere in difficoltà il governo, eventualmente facendolo cadere, e in ogni caso di lanciare avvertimenti al principale protagonista politico di questa fase, cioè Salvini. Che cos’è una guerra ibrida? Il concetto è degli strateghi del Pentagono e indica azioni in cui soggetti non militari, in molti casi neppure armati, intervengono per minacciare uno Stato e costringerlo a muoversi in una direzione a loro gradita. Quando sono armati si tratta di terroristi, ma ci possono essere guerriglieri ibridi che usano altri mezzi, apparentemente pacifici (le ong) e a scopi umanitari, come il salvataggio dei naufraghi (che poi non lo sono quasi mai). Fondamentale nella guerra ibrida è il ruolo dei media, sia quelli internazionali che quelli del paese aggredito, e ovviamente i servizi di intelligence di molti stati interessati a influire sulla politica della nazione presa di mira. Se sarebbe da ingenui non sospettare un ruolo dei servizi tedeschi e francesi nell’affare Carola, in quello Buzzfeed ci sembra di intravedere lo scontro, interno agli Usa, tra una fazione più vicina a Trump, che desidera un deal con Putin, e un’altra che vuole impedirlo, dimostrando che i russi si intromettono nella vita politica non solo americana ma pure di alleati come l’Italia. Non a caso Buzzfeed fu uno dei media più usati da coloro che organizzarono l’affare Mueller, nel frattempo sgonfiatosi. Ma è il solo Putin che, eventualmente finanziando partiti europei, prende parte alla guerra ibrida? Non si direbbe. La storia di versamenti esteri a partiti politici italiani è antica (già nel 1914 si accusò il socialista Mussolini di aver tradito dopo aver preso soldi dalla Francia). Durante la guerra fredda fiumi di denaro arrivarono al Pci da Mosca, tanto che se oggi vedete una sede del Pd, è molto probabile che sia stata acquistata tempo fa con l’oro dall’Urss. Per questo, come ha scritto qui Giovanni Sallusti, gli eredi piddini dovrebbero avere la decenza di tacere. Ma di soldi del Venezuela di Chavez e di Maduro a Podemos, al Labour di Corbyn e anche a partiti alla sinistra del Pd molto se è parlato. Per non dire poi dei ricchi bonifici di Soros, un investitore in fondi speculativi di cui sono stati vittima anche gli italiani, a + Europa. Nonostante l’immagine dei soldi colpisca l’immaginario popolare, non dobbiamo essere ingenui. Il Pci credeva nel comunismo sovietico e per questo era finanziato. Podemos era un fan del socialismo venezuelano e per questo riceveva il sostegno di Caracas. Così come Bonino è una fedele credente nelle politiche open border, e per questo Soros la finanzia. Del resto, il Pd dai tempi di Hollande e soprattutto di Macron è di fatto un agente interno dei francesi, di cui esegue per filo e per segno gli ordini, anche senza finanziamenti – al limite gli è bastata qualche legion d’honneur. Allo stesso modo non è un mistero la simpatia di Salvini e della Lega per Putin, del resto ricambiata nel recente viaggio del presidente in Italia. Non sarà certo un nastro più o meno manipolato a svelare chissà cosa. Alla stragrande maggioranza degli italiani, poi, il supposto scandalo non interessa, tanto più che condividono una certa simpatia per Putin.

I rubli che non si trovano mai. Andrea Indini l'11 luglio 2019. Il Russiagate è ovunque. Da qualche anno a questa parte c’è una tendenza sinistra ad addossare al Cremlino le peggiori macchinazioni politiche che hanno portato a cambiare il volto all’Occidente. Vladimir Putin e i suoi hacker, stando alla narrazione progressista, sarebbero dietro alla vittoria di Donald Trump, all’uscita del Regno Unito dall’Unione europea e, dulcis in fundo, all’exploit di Matteo Salvini. Il legame (e le simpatie) tra il leader leghista e Mosca sono innegabili, ma le macchinazioni, gli audio e gli abboccamenti suonano troppo strumentali e poco fondati. La procura di Milano parla di funzionari russi corrotti. Si ipotizza una compravendita di petrolio e il finanziamento illecito alla campagna elettorale della Lega. Un affare da 1,5 miliardi di dollari che avrebbe creato per i lumbard un margine di 65 milioni di dollari. Cifre da capogiro di cui al momento, è bene dirlo subito, non c’è traccia. Non un solo rublo è stato rintracciato. E nonostante l’audio, pubblicato ieri dal sito americano BuzzFeed, fosse da tempo nelle mani degli inquirenti, i pm sta ancora cercando di andare a fondo a questa presunta “corruzione internazionale”. Per Giancarlo Giorgetti abbiamo a che fare con delle “fanfaronate”, niente più. L’inchiesta farà il suo corso e ci dirà quanto c’è di vero. Resta lo “scoop” di un sito che in America è già scivolato sul Russiagate scodellando una notizia fatta dalle solite “voci e fonti anonime” che, tra le altre cose, è stata smentita addirittura dal procuratore Robert Muller. L’inchiesta di BuzzFeed, in larga parte già pubblicata dall’Espresso lo scorso febbraio, lascia numerosi punti in sospeso. Chi erano gli emissari russi al tavolo con Gianluca Savoini (da oggi indagato)? In nome di chi stavano trattando? Che valore aveva quella trattativa? E soprattutto: come è andata a finire? L’audio pubblicato dura poco più di un minuto e mezzo, mentre ci sono sterminate righe sulla trascrizione di quanto si sono detti. Ovviamente i passaggi controversi sono nella seconda parte. E comunque ancheBuzzFeed, alla fine, dove ammettere che “non è chiaro se l’accordo negoziato al Metropol sia mai stato eseguito”. La polpetta avvelenata, però, è stata lanciata e ha innescato una reazione a catena tesa a screditare Salvini e i suoi uomini e a ingrossare le ombre su Putin quale oscuro burattinaio che allunga i suoi tentacoli sull’Occidente. Non è la prima volta che la Lega viene accusata di tramare alla corte del Zar. Si è già parlato in passato dei troll russi che avrebbero deviato le elezioni politiche dell’anno scorso a favore di Salvini. Gli stessi troll che avrebbero favorito Trump nella corsa alla Casa Bianca e il partito pro Brexit. L’incontro al Metropol sembra, poi, un remake del caso del vice cancelliere austriaco Heinz-Christian Stache. Che però fu incastrato dalla nipote di un finto oligarca russo. Tutti ingredienti per una enorme spy story che, però, ancora manca di fatti concreti.

(ANSA il 12 luglio 2019) - "È tutto ridicolo. Non abbiamo mai chiesto un rublo, un dollaro, un gin tonic, un pupazzetto a NESSUNO. Rispetto il lavoro di tutti. Ho la coscienza a posto. Querelerò chi accosterà soldi della Lega alla Russia. Bilanci Lega TRASPARENTI". Lo scrive in un tweet Matteo Salvini, sulla vicenda dei presunti fondi dalla Russia alla Lega.

(ANSA il 12 luglio 2019) - "Chiarisco a Anm e Csm che ho pieno rispetto per la magistratura e le indagini, ma se cercate rubli a casa mia o nelle casse della Lega non li trovate. Io ritengo un errore le sanzioni economiche alla Russia, ma lo dico gratis". Cosi' il ministro della Interno Matteo Salvini su facebook, aggiungendo: "mi viene il dubbio che stiamo dando fastidio a qualcuno".

Francesco Verderami per il “Corriere della sera” il 12 luglio 2019. Il primo problema è capire da dove arriva il colpo. L' inchiesta per «corruzione internazionale» a cui lavora la Procura di Milano per certi aspetti è un fatto marginale, perché è solo la conseguenza dell' attacco. Per Matteo Salvini è determinante invece individuare la matrice che ha innescato «l'affaire Metropol». Un' idea dev'essersela fatta, se è vero che oltre a parlare «dei processi e delle indagini» a cui il Carroccio è sottoposto in Italia, il vicepremier aggiunge che «siamo anche intercettati. Non solo in Italia». Parole che insieme alla sindrome d' accerchiamento manifestano la preoccupazione di essere magari finiti in un gioco di spie, non si sa se interne o internazionali. Al vertice per la riforma delle Autonomie regionali Salvini si presenta nervosissimo e trascorre quasi tutto il tempo al cellulare. Da Washington il Dipartimento di Stato ha fatto già sapere di non voler commentare la vicenda. Da Mosca una fonte diplomatica russa sarà più loquace: e dopo aver detto che «non c'è nessuna ingerenza nella politica italiana», avverte che sarà «necessario capire chi sono queste persone, per chi lavorano e quali Paesi rappresentano o non rappresentano». L'innesco in casi come questo non è mai chiaro. Può darsi, come dice Giancarlo Giorgetti evocando Gianluca Savoini, che «qualche millantatore» l'abbia «sparata grossa»: poi però «qualcuno per chissà quali fini ne ha approfittato per gettare discredito su Salvini». È questo il punto, che prescinde al momento dall'esito delle indagini e dalla linea difensiva adottata dal vicepremier: «A casa mia non troveranno rubli». Sarà, ma per Salvini la priorità è tracciare l' origine del colpo, stabilire per chi «noi della Lega siamo scomodi». Il perché gli è chiaro: l' effetto politico generato dall'«affaire Metropol» produce ripercussioni sul piano interno e internazionale. In Italia porta il Pd a chiedere una commissione d' inchiesta, alla quale si accodano di fatto i grillini. L' obiettivo di M5S è duplice: non farsi scavalcare dai dem e precostituirsi un tema da campagna elettorale contro il Carroccio, semmai ce ne fosse bisogno. In Europa questa storia di petrolio e di danaro rende ancora più difficoltoso il percorso della Lega, che deve cercare di rompere l'isolamento in cui si trova per conquistare un posto nella futura Commissione Ue. Visto il clima, l' idea di votare la popolare tedesca Ursula Von der Leyen come successore di Jean Claude Juncker potrebbe non bastare per ottenere la «fiducia» dell' Europarlamento sul proprio candidato. È un fatto che Giorgetti non vorrebbe andare a Bruxelles, così come è un' ipotesi che Lorenzo Fontana possa sfruttare la nomina a ministro degli Affari europei al pari di un trampolino, e trasferirsi dal governo italiano al governo comunitario. Ma oggi l' emergenza per Salvini è un' altra. Perché se non risolve il primo problema non può risolvere il secondo, e cioè come reagire sul piano politico. Dinnanzi agli eventi e con la finestra elettorale che sta per chiudersi, deve impostare al più presto una nuova linea. Irretito dal tiki-taka dei Cinquestelle (anche) sulla riforma dell' Autonomia regionale, decide di prender tempo alzando il livello dello scontro sul decreto Sicurezza-bis, e mirando scientemente al capo dei movimentisti grillini, il presidente della Camera Roberto Fico. È una tattica con cui punta a spaccare il Movimento e a garantirsi uno spazio di manovra. Con quale obiettivo si vedrà. Prima Salvini deve capire da dove è partito il colpo. E se da lì ne arriveranno altri...

Carmelo Lopapa per “la Repubblica” l'11 luglio 2019. "Cosa sta succedendo? Perché adesso? Chi mi vuole colpire?" Gli audio diffusi dal sito americano d'informazione BuzzFeed fanno giusto in tempo ad essere pubblicati che Matteo Salvini viene paralizzato dal dubbio. E dalla paura. Qualcosa non gli torna, nella storia della presunta trattativa tra il leghista Gianluca Savoini e uomini di Putin, come racconta chi ha avuto modo di raccogliere sfoghi e inquietanti interrogativi del vicepremier, prima che iniziasse il vertice serale a Palazzo Chigi. Al capo del Viminale e allo stato maggiore del partito non sfugge affatto la circostanza che il sito sia statunitense e per di più considerato "non ostile" alla Casa Bianca. "I servizi americani possono aver interesse a screditarmi?" Per di più, viene fatto notare, tutto accade a meno di un mese dalla visita a Washington nel corso della quale il leader leghista (era il 17 giugno) ha incontrato il vicepresidente statunitense Mike Pence e il Segretario di Stato Mike Pompeo. L'operazione mediatica indubbiamente mette in cattiva luce la Federazione russa al cospetto della nuova Europa che sta prendendo forma. Ma è anche un colpo inferto al partito sovranista italiano che tenta di accreditarsi come interlocutore credibile proprio con gli Usa, nel tentativo di affrancarsi dal marchio filo-Putin. Dunque, cosa è accaduto, qualcosa può essere andato storto nel faccia a faccia di un mese fa?, è l'interrogativo. Impegni poi non rispettati? Sull'intervento di supporto in Siria, per esempio? Sul gasdotto da far transitare dalla Puglia? La galassia salviniana in queste ore è una maionese impazzita. "Oppure è opera degli stessi russi? Un segnale?" Nei capannelli di Montecitorio tra i leghisti non si parla d'altro, ma si brancola nel buio. Più o meno come il loro capo. C'è imbarazzo per la presenza di Savoini alla cena di Villa Madama di giovedì scorso organizzata dalla Presidenza del Consiglio per la visita di Putin a Roma. Nelle foto che immortalano il presidente russo e Salvini si intravede, sullo sfondo, la sagoma del faccendiere. Che ci faceva lì? Invitato da chi? Savoini stesso, in un tweet, si vanta in tempo reale: "Con grande piacere ho partecipato alla cena governativa in onore della visita di Vladimir Putin in Italia". In un primo tempo, Salvini non scarica la vecchia conoscenza, si limita a metà giornata a minacciare querele. Ma non chiarisce i suoi rapporti con l'ex portavoce, oggi alla guida dell'associazione Lombardia-Russia. In serata invece, lasciando Chigi, per la prima volta prende le distanze (cedendo in questo alle pressioni dei più fidati tra i suoi): "Io non so la gente con chi parla e perché parla - dice riferendosi all'imprenditore - Rispondo solo di quel che faccio io e il mio movimento. Non abbiamo mai avuto un soldo". Dunque, querela contro Savoini? "Da segretario della Lega farò tutto quel che devo fare". La linea difensiva diventa: l'imprenditore ha agito e parlato a titolo personale. Adesso il vero problema per la Lega sono le ricadute che lo scandalo produrrà in Europa, giusto in questi giorni cruciali di trattativa del governo gialloverde con la nuova Commissione per ottenere un commissario italiano di prima fascia (si punta alla Concorrenza), per di più leghista. Il clima è pessimo. Già ieri il gruppo Salvini-Le Pen a Bruxelles non ha incassato nemmeno una delle due presidenze e delle nove vicepresidenze di commissione parlamentare che sulla carta sarebbero spettate al gruppo sovranista Ue. "Vergognoso razzismo", ha definito il leader quella sorta di "cordone sanitario" che popolari e socialisti hanno costruito attorno all'asse di destra italo-francese. Era già accaduto con le vicepresidenze del Parlamento. Per il commissario, la Lega punta ancora su Giancarlo Giorgetti. Ma con quali chances?, si chiedono ora. L'immagine di una ipotetica trattativa con emissari della Russia sotto sanzioni Ue non aiuta. "Abbiamo dei principi sul rispetto del diritto internazionale e dello Stato di diritto - sottolineava giusto ieri la nuova presidente designata Ursula Von der Leyen - L'Ue deve negoziare con la Russia da una posizione di forza, perché il Cremlino non perdona la debolezza". I russi, anche per i prossimi cinque anni, non verranno considerati amici di Bruxelles, è il messaggio. Se a qualcuno ancora non fosse chiaro. 

L'INTERVISTA. Gianluca Savoini, fango e rubli su Matteo Salvini? "Una trappola, cosa è accaduto in quell'albergo". Alessandro Gonzato su Libero Quotidiano l'11 Luglio 2019. «È una cosa schifosa, una porcheria, non c' è nulla di nulla! La Lega non ha mai preso un centesimo o un rublo dalla Russia, è facilmente verificabile. Hanno piazzato microfoni, intercettato, magari hanno anche mandato qualcuno a recitare una parte. Però guardi, chi di dovere, visto che questi vogliono solo rompere i coglioni a un esponente di governo, riuscirà a capire chi ha registrato, e allora ci sarà da ridere, soprattutto se il mandante è qualcuno che ha voluto creare ad arte questo casino, chissà. Vedrà che si capirà tutto». Gianluca Savoini va dritto al punto. L' uomo di fiducia di Salvini a Mosca, presidente dell'associazione Lombardia-Russia, era già stato tirato in ballo a febbraio dall' Espresso per una presunta trattativa riguardante un finanziamento illecito di Mosca alla Lega in vista delle Europee. Ora è stato nuovamente scaraventato al centro dell'attenzione dal sito americano BuzzFeedche ha riportato il contenuto di una conversazione intercorsa lo scorso 18 ottobre nella hall dell' hotel Metropole di Mosca tra lui e altre persone italiane e russe.

Savoini, l'accusa è che lei per conto di Salvini avrebbe escogitato il modo di far arrivare alla Lega soldi da Mosca in cambio di grossi accordi commerciali, su tutti con Eni.

«Ma per favore! Denuncio chiunque mi attribuisca azioni illegali: sto facendo la cernita dei giornali. Ma le pare poi che certi colossi mondiali abbiano bisogno di me per fare affari? Con tutti gli uffici che Eni ha nel mondo vuole che scelga la hall di un albergo in mezzo a decine di persone per trattare? Non scherziamo».

Chi erano le persone che parlavano con lei?

«Non lo so, non ricordo, in quei giorni ne ho viste centinaia. Dato che sono così bravi a fare gli scoop, lo dicano questi giornalisti chi erano. Io ero sceso da solo. Ho trovato alcune persone che avevo incontrato il giorno prima al convegno organizzato da Confindustria Russia e a cui aveva partecipato Salvini. Evidentemente anche loro avevano dormito lì».

A un certo punto un uomo italiano che è con lei dice che c' è un accordo da chiudere velocemente perché «le elezioni sono dietro l'angolo». Cosa significa?

«Va chiarita una cosa: non era una riunione, io mi alzavo, andavo in giro, parlavo con tutti. Ripeto: non ci siamo dati alcun appuntamento e non ho la minima idea di cosa dica la gente quando non ci sono. Chi lancia queste accuse ne dimostri la fondatezza, ma non ci riuscirà mai. Mi faccia sottolineare una cosa». Dica. «Ho lavorato in ministeri, nelle istituzioni regionali, non ho mai avuto la minima contestazione, ci sarà un motivo».

In queste ore ha parlato con Salvini?

«No. Ho solo visto che è intervenuto dicendo anche lui che le accuse non stanno in piedi».

Lei non ha dubbi che si tratti di un attacco studiato ad arte «È evidente che si tratta di un tentativo di dare fastidio a Salvini».

Pensa più alla Sinistra o a M5S? I grillini hanno lanciato sospetti sulla Lega invocando trasparenza.

«Non so cos' abbiano detto. Mi sembra strano comunque, anche loro hanno rapporti con la Russia. Anni fa, ad esempio, a Mosca ho conosciuto il sottosegretario Di Stefano. Ma è una cosa normale quando si vuole cooperare bene a livello internazionale e provare a superare le divisioni».

Che ruolo ha nella Lega?

«Nessuno. Sono iscritto da sempre, conosco Salvini da 25 anni e ogni tanto mi limito ad aiutarlo nei rapporti con Mosca».

Com' è nato il suo rapporto con la Russia?

«Per passione, dopo la caduta del muro. Si erano rimessi in moto sentimenti identitari che prima erano stati soffocati. Mi è sempre piaciuta anche la loro letteratura. E poi ho pure sposato una donna russa».

È vero che nel '91 fu lei a convincere Bossi ad andare a Mosca per incontrare Zirinovskij, il leader dei liberal-democratici?

«No. Bossi era già convinto. Voleva ampliare i rapporti internazionali ad Est, e in Russia guardavano con interesse al suo progetto di creare la Padania». Alessandro Gonzato

Anche in Italia torna il “fantasma russo”: ma ecco quello che non torna. Roberto Vivaldelli il 10 luglio 2019 su it.insideover.com. “La registrazione che dimostra come la Russia ha cercato di far arrivare milioni di dollari al Trump europeo”. L’accusa proviene da un’inchiesta pubblicata da Buzzfeed, che parla di audio e trascrizioni di un incontro, avvenuto a Mosca, tra Gianluca Savoini, presidente dell’Associazione Lombardia Russa, e alcuni non meglio identificati cittadini russi. Durante l’incontro, che sarebbe avvenuto il 18 ottobre scorso all’hotel Metropol di Mosca, si parlò di politica e del progetto che aveva in mente Salvini, deciso a cambiare l’Europa stabilendo un asse con altre forze sovraniste. Secondo Buzzfeed, durante l’incontro si sarebbe parlato anche dei soldi (65 milioni di euro) da far arrivare alla Lega in vista della campagna elettorale per le Europee, attraverso una triangolazione con l’Eni per la vendita di 3 milioni di tonnellate di petrolio dalla Russia all’Italia .”Ho già querelato in passato, lo farò anche oggi, domani e dopodomani: mai preso un rublo, un euro, un dollaro o un litro di vodka di finanziamento dalla Russia” ha commentato il vicepremier Matteo Salvini, che nega di aver ricevuto soldi dal Cremlino. Interpellato dall’Adnkronos Gianluca Savoini smentisce ogni accusa: “Non ci sono mai stati fondi né soldi per la Lega da parte di nessuno di quelli citati da Buzzfeed. Tutte parole e blablabla, come peraltro ha appena detto Salvini”. Per Buzzfeed, infatti, “il vero beneficiario dell’accordo sarebbe stato il partito di Salvini – una violazione della legge elettorale italiana, che proibisce ai partiti politici di accettare grandi donazioni straniere superiori ai 100 mila euro”. Anche se lo stesso sito americano ammette di non sapere se poi l’affare è andato in porto.

Il “fantasma russo” sull’Italia. Dopo l’inchiesta dell’Espresso, che parlava di una presunta donazione di 3 milioni di euro dal Cremlino alla Lega, ecco un altro tassello del “Russiagate” in salsa italiana pubblicato dal sito Buzzfeed. L’isteria sull’interferenza russa in Italia si diffuse dopo la pubblicazione su Foreign Affairs, nel dicembre 2017, di un articolo firmato all’ex vicepresidente Joe Biden, ora candidato alle primarie dem. Secondo il vice di Obama, la Russia interferì nel referendum costituzionale italiano del 4 dicembre 2016 e avrebbe aiutato la Lega e il Movimento 5 Stelle in vista delle elezioni parlamentari. Nell’articolo, Joe Biden accusò Putin di influenzare le elezioni in Europa: “In Francia l’offensiva è fallita, ma la Russia non si è arresa, e ha compiuto passi simili per influenzare le campagne politiche in vari Paesi europei, inclusi i referendum in Olanda (sull’integrazione dell’Ucraina in Europa), Italia (sulle riforme istituzionali), e in Spagna (sulla secessione della Catalogna). Un simile sforzo russo è in corso per sostenere il movimento nazionalista della Lega e quello populista dei Cinque Stelle in Italia, in vista delle prossime elezioni parlamentari”. L’articolò generò un polverone e un fiume d’inchieste sulle presunte interferenze russe in Italia che non hanno mai portato a nulla di concreto.

Buzzfeed, il sito del “falso dossier” sul Russiagate. Non sappiamo se le accuse mosse da Buzzfeed nei confronti della Lega siano fondate: lo accerterà la magistratura nelle sedi opportune, a maggior ragione dopo le dichiarazioni di Matteo Salvini. Sappiamo però che Buzzfeed, in passato, ha avuto un ruolo decisamente controverso nel Russiagate americano. E non di rado ha preso buchi nell’acqua clamorosi. A gennaio di quest’anno, come osserva Fulvio Scaglione su InsideOver, il sito americano pubblicò una fake news clamorosa: “La notizia che avrebbe dovuto sconvolgere i lettori era questa – scrive Scaglione – Donald Trump ha costretto il proprio avvocato, Mike Cohen, a mentire durante l’inchiesta del Congresso sulle trattative per costruire una Trump Tower a Mosca. Peccato che Buzzfeed si sia preso sui denti la smentita non di Trump ma addirittura di Robert Mueller, il procuratore che indaga sul Russiagate. Proprio lo sbirro taciturno che sta cercando di incastrare Trump”. Un epic fail, quello di Buzzfeed, osserva sempre Scaglione, “che però la dice lunga sul clima che si respira negli Usa e non solo. Il presunto scoop su Cohen era fatto di voci e fonti anonime, nella migliore tradizione del Russiagate”. E non finisce qui. Fu proprio il sito americano a pubblicare, il 10 gennaio 2017, il dossier redatto dall’ex spia britannica Christopher Steele dal quale emergevano contatti frequenti tra lo staff di Donald Trump e gli intermediari del Cremlino durante la campagna elettorale del 2016. Un dossier che poi si è rivelato essere in larga parte infondato e falso, come lo stesso ex membro dell’agenzia di spionaggio per l’estero della Gran Bretagna ha ammesso in seguito. Lo ha raccontato in più articoli il giornalista investigativo John Solomon su The Hill. “Il resoconto del vice segretario di Stato Kathleen Kavalec del suo incontro dell’11 ottobre 2016 con l’informatore dell’Fbi Christopher Steele ci dice una cosa. Che il già funzionario dell’intelligence britannica, finanziato dalla campagna elettorale di Hillary Clinton, ammise che la sua ricerca era politica e doveva produrre qualcosa entro la data delle elezioni del 2016″.

"Savoini membro dello staff". Ora Buzzfeed assedia Salvini. Il sito americano torna all'attacco e pubblica due mail sui viaggi in Russia. Ma il Viminale smonta tutto: "Non è mai stato collaboratore". Sergio Rame, Sabato 13/07/2019 su Il Giornale. "Stanno cercando soldi in Russia, in Lussemburgo, nel Circolo Polare Artico...". Durante un comizio elettorale a Ferrara, Matteo Salvini liquida con una battuta l'inchiesta sui presunti finanziamenti russi alla Lega. "State attenti stasera tornando a casa che non ci siano dei rubli sotto il cuscino delle vostra camera...". Ma, mentre la giustizia italiana continua a indagare, il sito americao BuzzFeed, che nei giorni scorsi ha pubblicato l'audio della presunta trattativa, è tornato all'attacco parlando di una mail in cui Gianluca Savoini spiegava che faceva parte della delegazione di Salvini come "membro dello staff del ministro". La procura di Milano sta cercando di far luce sul caso. Gli inquirenti, che avevano da tempo in mano l'audio, ipotizzano una compravendita di petrolio che sarebbe servita a finanziare (illecitamente) la campagna elettorale del Carroccio. Ma di questo affare da 1,5 miliardi di dollari, che avrebbe creato per i lumbard un margine di 65 milioni di dollari, non c’è alcuna traccia. Lo stesso Gianluca Meranda, avvocato presente all'incontro all'Hotel Metropol, ha detto a Repubblica che "alla fine (la trattativa, ndr) non si perfezionò". Molto di quanto è stato pubblicato sui quotidiani non torna. A partire dal principale attore di questo giallo, BuzzFeed, un sito che già in passato non ha esitato a costruire fake news contro il presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Oggi, mentre in Italia la sinistra chiede una commissione di inchiesta per vedere se la Lega ha effettivamente incassato soldi dalla Russia, il sito ha pubblicato un articolo in cui vengono tirate in ballo alcune mail. Che, però, sembrano fare acqua da tutte le parte. In una, per esempio, Savoini spiega con quale titolo avesse partecipato a una visita a Mosca del ministro dell'Interno. "Non ho ufficio al ministero - scriveva il 17 luglio 2018 - ma collaboro con Salvini a seconda delle sue richieste. Conoscendoci da sempre". In un'atra mail, che oltre ad essere in terza persona non è nemmeno datata, si parla ancora degli incontri di Salvini a Mosca e Savoini viene definito "membro dello staff del ministro dell'Interno". Le affermazione contenute in entrambe le mail sono state categoricamente smentite dal ministero dell'Interno che ha fatto notare che Savoini non ha mai avuto "alcuna collaborazione né con il Viminale né con Palazzo Chigi". Oggi l'edizione online del FattoQuotidiano ha ricostruito i viaggi di Salvini a Mosca. Sotto la lente di ingrandimento sono finiti nove viaggi ufficiali fatti dal leader del Carroccio nel Paese di Vladimir Putin tra il 2014 e il 2018. "E Savoini - scrive il sito diretto da Peter Gomez - era sempre presente". In realtà il link tra la presunta trattativa e il leader leghista non c'è. Come, è bene ribadirlo, non c'è alcuna prova di passaggi di denaro. "Tirano fuori cose di soldi dalla Russia, dal Lussemburgo...", ha commentato Salvini durante un comizio in piazza a Ferrara, dove poco prima aveva incontrato il sindaco leghista appena eletto, Alan Fabbri, che ha espugnato una città considerata una roccaforte del centrosinistra. "Ma questo mi dice che sto lavorando bene, e continuerò per gli italiani, soprattutto per abbassare le tasse".

Rosalba Castelletti per la Repubblica il 14 luglio 2019. «Sì, ho letto tutto. Che dire? Innanzitutto BuzzFeed che ha pubblicato l' audio è una testata screditata. Tradotta alla lettera, vuol dire "nutrirsi di voci". In passato ha pubblicato articoli sul Russiagate smentiti dallo stesso Robert Mueller. Come si può prenderla sul serio? ». Eduard Limonov, 76 anni, diventato celebre grazie alla biografia romanzata di Emmanuel Carrère, risponde con gli stessi modi spicci con cui nella vita ha fatto tutto e il contrario di tutto. Come fondare il Partito nazional bolscevico, oggi fuorilegge, dalla bandiera nazista ma con falce e martello al posto della svastica, insieme ad Aleksandr Dugin, il politologo russo con cui Gianluca Savoini avrebbe trattato per ottenere finanziamenti per la Lega.

Per Limonov «è tutto un "fake"».

In Italia ne aveva già scritto L' ESPRESSO.

«Innanzitutto, Matteo Salvini non era presente a questo presunto incontro all' hotel Metropol, quindi non gli si può rimproverare nulla. I tre russi potrebbero essere chiunque, persino specialisti delle prese in giro...».

Uno dei tre dovrebbe chiamarsi Ilija Andreevich Jakunin. Le dice niente?

«Ho letto che sarebbe molto vicino a Vladimir Pligin. Ricordo che Pligin è stato deputato della Duma, adesso non so che cosa faccia. Non è mai stato in prima fila. Non conta niente e la sua implicazione non prova alcunché».

Ma Jakunin lo conosce?

«Ma che ne so. In Russia ci sono migliaia di Jakunin».

L' audio come è uscito fuori?

«Attorno ai politici girano sempre dei "ragni", personaggi-ombra, agenti dei servizi segreti. Un politico deve stare attento a chi incontra. Io cerco sempre di avere un dossier sulle persone che mi tocca incontrare. A chi non ha tanta esperienza in politica, possono capitare incidenti del genere».

Insinua che si sia trattato di una trappola?

«Penso solo che sia un "fake" di pessima qualità».

Perché ora?

«A chi giova tutto questo? Giova alle forze contro il rinnovamento in Italia.

Bene o male che sia, Salvini è una forza nuova. L' anno scorso sono stato nella sua terra, la Lombardia, e ho conosciuto tanta gente. Mi hanno fatto tutti un' ottima impressione».

Ha incontrato anche Gianluca Savoini?

«Non le dirò chi ho incontrato. Ho visto tanta gente. Però conosco l' argomento, non è che parlo soltanto per parlare».

Ma è a conoscenza del fatto che Dugin ha incontrato più volte Savoini? Perché quest' interesse per la Lega?

«Che importanza ha se si sono visti? Ho fondato un partito insieme a Dugin. Che significa? Che Dugin sia un Satana con gli zoccoli? Che c' è di strano se Dugin è interessato alla Lega? Conosce benissimo l' italiano per cui non c' è niente di strano nel fatto che abbia contatti con politici italiani. Io, per esempio, conosco Alain de Benoist, ma non vuol dire niente».

Molti in Occidente definiscono Dugin "l' ideologo di Putin". È d' accordo? In che rapporti è con il Lo scrittore bolscevico presidente Putin?

«Quello che si dice in Occidente non mi interessa affatto. I complottisti vedono nemici in ogni cespuglio. È una malattia. Sono sicuro che Dugin e Putin non si siano mai visti. Aleksandr Gelievich è uno studioso puro. Parla cinque lingue e ne legge nove. È un "uomo da libro", lo definirei così. Tutte le sue iniziative in politica però di solito sono un fallimento».

Stando all' audio, sarebbe direttamente implicato nella trattativa per finanziare la Lega. Che cosa pensa del suo coinvolgimento?

«La politica italiana è diventata una cosa vergognosa, simile alla politica russa. Fruga nel gossip».

Dugin è molto vicino a Konstantin Malofeev che Savoini pare conosca bene. Che interessi può avere Malofeev?

«Penso che sia una cavolata, scusi l' espressione, ma la scriva, per favore. Scriva che Limonov ha riso in modo antipatico e ha detto che pensa sia una balla».

Nell' audio, Savoini parla di un asse tra Lega, Fpö in Austria, Afd in Germania, l' ex Fn Francia. Che ne pensa?

«Vogliono creare una sorta di "Internazionale degli euroscettici".

Alle parlamentari europee hanno guadagnato voti. Tutto cambia: il vecchio non si vuole arrendere, il nuovo vuole vincere. Io sto sempre con il nuovo».

Marine Le Pen ha ricevuto soldi da una banca russa. È possibile che i suoi alleati vengano finanziati da Mosca?

«Penso di no. Sono cauti, sanno che sarebbe rischioso. Gli basta che la borghesia abbia capito che sono il futuro. Salvini di certo ha un futuro. Milano è una città ricca, si vede che lì la gente ha i soldi. Gli basta, a che gli servirebbero i soldi del Cremlino? Il denaro è dappertutto, non solo qui».

LEGA: CREMLINO ALL'ANSA, MAI SOLDI A PARTITI ITALIANI. (ANSA il 16 luglio 2019) - Il Cremlino non ha mai dato nessun sostegno finanziario a partiti o politici italiani: lo ha dichiarato il portavoce di Putin, Dmitri Peskov, commentando all'ANSA la vicenda dei presunti finanziamenti russi alla Lega di Matteo Salvini. "Come abbiamo già detto - ha affermato Peskov - nessuno di noi dalla Russia ha mai dato sostegno finanziario ad alcun politico o partito politico in Italia. Non c'è nessun dubbio".

(ANSA il 16 luglio 2019) - "C'è una base giuridica per la cooperazione che può essere attivata in qualsiasi momento su richiesta delle parti": lo ha detto all'ANSA il portavoce di Putin, Dmitri Peskov, rispondendo a una domanda su una possibile cooperazione tra Russia e Italia nelle indagini sulla vicenda dei presunti finanziamenti russi alla Lega.

"Storia inverosimile, Mosca non tratta con i partiti". L'ex ambasciatore Sergio Romano: "Euroscettici pagati da Putin? Non credo, i russi fanno affari solo con gli Stati". Carmelo Caruso. Domenica 14/07/2019 su Il Giornale. «Quando una vicenda di politica internazionale somiglia alla trama di un libro, la prima cosa da fare è esercitare l'arte del dubbio. Non sempre quanto si legge in un libro è necessariamente accaduto». E però, è sempre un libro che si vende... «Ma rimane letteratura e in questo caso bisogna essere prudenti». E dunque per Sergio Romano prima di cercare l'oro di Mosca, che sarebbe stato promesso alla Lega, è meglio dubitare delle notizie pubblicate dal sito BuzzFeed e non «prenderle per oro colato». Ambasciatore a Londra, Parigi e Mosca, editorialista del Corriere della Sera, Romano ha da poco compiuto 90, magnifici, anni, «che oggi mi permettono di dire che è visibile, in uno scenario infiammabile come quello italiano, l'interesse a sbarazzarsi di un avversario politico. Fino a quando non ci sono prove non credo che ci sia stato uno scambio di denaro fra la Russia e la Lega».

Ma c'è il negoziatore, Gianluca Savoini, che su alcuni giornali è descritto come il più abile tra i leghisti e in altri come il più goffo degli imbucati.

«L'unica cosa che si può dire è che è stato il presidente di un'associazione di amicizia italo-russa e che Salvini abbia smentito rapporti di altra natura con lui».

Uomini come Savoini vengono chiamati «mezzefigure». Le loro relazioni, le loro interferenze, sono solo «mezze millanterie»?

«Il mondo è pieno di figure che immaginano cose e che si lasciano prendere dall'immaginazione. Ma in politica non si può lavorare di immaginazione e io consiglio tutti, in Italia, di tenersi lontano da questo gioco».

Audio e foto dimostrerebbero che Savoini partecipava agli incontri con le delegazioni ufficiali russe e, dalle ricostruzioni, prometteva attenzioni in cambio di denaro. Non manca il petrolio, che serve a colorare la storia.

«Numerosi, tanto più in queste circostanze, sono gli uomini che creano bisogni e aspettative ma sempre in termini astratti. Che si sia verificato uno scambio è da dimostrare e al momento non mi sembra sia stato lontanamente dimostrato».

La cornice dell'incontro è quella dell'Hotel Metropol. Più che un albergo sembra una redazione editoriale che pubblica gialli. Avvocati, lobbysti, servizi...

«Conosco bene quell'hotel. Ma qui bisogna, a mio parere, interrogarsi sull'interesse dalla parte della Russia nel mettere fine alle sanzioni che hanno penalizzato la sua economia. E non solo la sua».

La Russia promette denaro ai partiti occidentali per ottenere in cambio la fine delle sanzioni?

«Non c'è dubbio che la Russia stia forzando per mettere fine a queste sanzioni. Se fossi russo lo capirei. Da parte loro c'è molta irritazione e rabbia. Così come non accettano che molti paesi dell'ex impero sovietico abbiano scelto di far parte della Nato. Ma c'è anche un'irritazione italiana».

Da dove soffia?

«Dalla Lombardia e dal Veneto. C'è una corrente di interesse da parte di medie industrie che dalle sanzioni sono state danneggiate. È un problema vero e il partito che ha difeso questi interessi è chiaramente la Lega».

Ieri la subalternità del Pci a Mosca, oggi le sfilate della Lega sulla piazza Rossa e ci fa impazzire il «maledetto» Limonov. Malati di Russia?

«Se c'è un Paese che ha sempre avuto rapporti positivi con la Russia, quello è l'Italia. Un rapporto cresciuto quando il Pci favoriva i viaggi dei giovani quadri. Numerosi sono stati i matrimoni fra italiani e russi. Abbiamo partecipato perfino ai piani quinquennali di Stalin».

A suo avviso è vero che la Russia sta cercando di costruire un'arca di partiti euroscettici con la Lega in testa?

«Non è verosimile. Per una semplice ragione: è vero che la Russia ha i suoi servizi che lavorano dietro le quinte ma, quando si tratta di forzare le relazioni, dialoga sempre e solo con gli Stati. La Russia non si fida dei singoli partiti italiani. Il loro pensiero è semplice: non si fanno affari seri se non fra Stati».

Rosalba Castelletti  per la Repubblica il 14 luglio 2019. «Il Cremlino sarebbe felice di finanziare i partiti populisti occidentali come la Lega. Ma per quanta simpatia nutra nei loro confronti, non ha alcuna speranza che possano cambiare alcunché». Oltre a ricoprire molte cattedre moscovite, il politologo Serghej Markov, 61 anni, ex deputato di Russia Unita, fa parte di diverse istituzioni tra cui il Consiglio per la politica estera e di difesa.

Professore, che cosa ne pensa dell' inchiesta aperta dalla procura di Milano sull' incontro al Metropol?

«Mi ricorda lo scandalo che ha travolto Heinz-Christian Strache in Austria. Il fatto è che i cosiddetti populisti girano per tutto il mondo con la mano tesa in cerca di soldi e così facendo alla fine vengono colti con le mani nel sacco. Non fanno caso a chi chiedono fondi, purché non sia legato alle élite globaliste».

Sembra che molti li chiedano al Cremlino...

«Il Cremlino finanzierebbe volentieri i partiti populisti, sa che sono suoi alleati, ma non può farlo. È consapevole che politici come Marine Le Pen o Matteo Salvini vengono spiati dai servizi americani».

Da dove nasce la simpatia tra Putin e Salvini?

«Entrambi difendono i valori tradizionali conservatori e il cristianesimo. Entrambi combattono per l' identità nazionale e contro il globalismo. I populisti sono molto apprezzati in Russia e vengono spesso invitati. A volte gli inviti a convegni internazionali sono più efficaci dei finanziamenti diretti. E parliamo di un sostegno legale».

Quando sono iniziate le relazioni tra Lega e Mosca?

«I contatti ci sono sempre stati. Le autorità russe hanno invitato i leghisti a vari eventi, tutti abbiamo visto Salvini con la t-shirt con il ritratto di Putin, i suoi uomini viaggiano spesso in Crimea nonostante le sanzioni. Ma il Cremlino non vede vantaggi reali».

Perché?

«Innanzitutto perché, come già detto, è consapevole che i leader populisti vengano spiati. E, cosa più importante, quando i populisti salgono al potere, alla fine non ne viene nulla di buono per la Russia.

Per far cadere le sanzioni, sarebbe bastato un solo voto perché il rinnovo richiede l' unanimità, ma nessuno ha votato contro. Né la Grecia di Tsipras né l' Austria di Kurz. Donald Trump aveva promesso di rafforzare le relazioni, ma che cosa ha fatto? Nulla. Investire è un rischio inutile».

Matteo Salvini inquieto dopo l'affaire Metropol: "Può arrivare dell'altro". Ma per Berlusconi è una "trappola". Libero Quotidiano il 13 Luglio 2019. L'affaire Metropol scuote la Lega che si domanda ancora chi sia stato il mandante delle intercettazioni-trappola. "Giancarlo, sono stati i servizi", sussurra Matteo Salvini all'orecchio di Giancarlo Giorgetti, che tanto insistette con lui per ottenere la delega sugli 007 durante la formazione del governo. "Ma se io vado al Viminale non ce la danno. Troppi poteri, dicono" replicava il ministro dell'Interno. E infatti la delega - riferisce Il Corriere della Sera - alla fine se la tenne Giuseppe Conte. Da allora passò del tempo prima che il vicepremier riuscisse a indicare un vice ai vertici della catena di comando. Ma se Salvini si mostra tranquillo davanti a i riflettori, dietro le quinte fa emergere un po' di inquietudine: "Un'intercettazione fatta a Mosca...". E il problema non sembra essere il fatto contestato, questa storia di petrolio russo e danari americani da destinare alla Lega. Il dubbio per il Carroccio è la tempistica sceltaper la pubblicazione del file registrato all'hotel Metropol, ma soprattutto, "se si tratta di uno spot o arriverà dell'altro". Di Savoini però parlavano da tempo tutti i partiti, ben prima delle inchieste giornalistiche: nel luglio dello scorso anno - ricorda il quotidiano di Fontana - il Pd presentò un'interrogazione parlamentare; e in ottobre - durante una riunione di Forza Italia - venne riferito a Berlusconi che "Savoini rischiava di mettere nei casini Salvini". Al Cavaliere - anche lui per anni vessato dalla gogna della magistratura - "l'affaire Metropol appare come un colpo per indebolire Salvini". Insomma, una vera e propria trappola meditata a tavolino. 

Gianluca Savoini, a Mosca partecipava agli eventi in qualità di presidente dell'associazione Lombardia-Russa. Libero Quotidiano il 15 Luglio 2019. L'inchiesta di Buzzfeed sui presunti finanziamenti russi alla Lega fa acqua da tutte le parti: Gianluca Savoini non fa parte formalmente "dello staff di Salvini" ma ha sempre partecipato alle iniziative - soprattutto a Mosca - in qualità di presidente dell'associazione Lombardia-Russa. "Savoini non era nella delegazione ufficiale del ministro dell'Interno partita dall'Italia. Idem il 17 e 18 ottobre 2018", date della successiva visita in Russia. Anche al foro di dialogo Italo-russo del 4 luglio 2019, svoltosi presso la Sala Conferenze Internazionali della Farnesina, Savoini c'era, ma era accreditato - scrive Il Giornale - come "Associazione culturale Lombardia-Russa" e non in qualità di collaboratore di Matteo Salvini. Ma Buzzfeed non è nuovo a marciare su false "indagini", basta ricordare il dossier sul Russiagate americano. A quanto pare non basta neppure la testimonianza dell'altro italiano presente al Metropol di Mosca, là dove si sarebbe "svolta una presunta trattativa attorno ai 65 milioni di dollari di un affare petrolifero". L'avvocato Gianluca Meranda ha ribadito, in una lettera a Repubblica, che nell'incontro si parlava di "compravendite internazionali" e di "oil products", e che "nonostante gli sforzi delle parti", la trattativa non si perfezionò. Ma proprio il quotidiano di Verdelli si accanisce sulla questione. In questi giorni infatti sulle pagine di Repubblica si è sempre parlato di questo "audio" che testimonierebbe la trattativa. Peccato però che di questa prova ci sia solo una trascrizione e per di più proprio di Buzzfeed. Su Twitter, Alberto Nardelli, il giornalista che ha confezionato l'inchiesta per il giornale americano, ha pubblicato un estratto audio di 1 minuto e 38 attribuito a Savoini, che non dice assolutamente nulla di rilevante, se non un'opinione politica, ribadita anche in pubblico. Il dubbio che questo file non esista, non può che sorgere. A prendere le parti di Salvini ci ha pensato anche L'Inkiesta: "In mancanza di prove concrete e non di sole parole, pare una cosa alla Totò e Peppino".

Matteo Salvini, Repubblica contro l'elettricista: "Ha ricevuto un milione e mezzo di euro dalla Lega". Libero Quotidiano il 14 Luglio 2019. Il denaro non sarebbe passato dalla Russia verso la Lega, ma dalla Lega verso la Russia. Ci sarebbe infatti un elettricista, che ha ricevuto quasi un milione e mezzo di euro dalla Lega, si chiama Francesco Barachetti. Ex consigliere del comune di Casnigo nel Bergamasco, 43 anni, è titolare di una società (Barachetti Service srl) - fa sapere Repubblica - che si occupa di impiantistica elettrica e idraulica, lattonerie, cartongessi e ristrutturazioni edili. Barachetti ne possiede il 95 per cento, il resto è in capo alla moglie, la russa Tatiana Andreeva. "La società - si legge nel report della squadra di financial intelligence di Bankitalia nell'ambito di un'indagine sullo Studio Dea Consulting di Bergamo del commercialista della Lega Alberto Di Rubba - risulta essere controparte di numerose transazioni finanziarie con il partito della Lega Nord e altri soggetti collegati". Dal 2015 al 2019 la Pontida Fin, la finanziaria della Lega, avrebbe - secondo il quotidiano di Verdelli - girato su uno dei conti di Barachetti nove bonifici per altrettante fatture per un totale di 539.000 euro. Qualche settimana dopo l'equivalente di 3.1 milioni di rubli viene trasferito su un conto della Banca Sberbank di Mosca, di cui è beneficiaria la OOO Sozidanier Oblast di San Pietroburgo, società di ingegneria e architettura. Sempre sullo stesso conto, appaiono tre bonifici per complessivi 300.000 euro che, secondo gli investigatori della Uif, provengono da Lombardia Film Commission, una fondazione partecipata dalla Regione Lombardia. Ci sarebbe poi un terzo, e ultimo, conto corrente di Barachetti, aperto presso Intesa Sanpaolo, su cui riceve 30.000 da Radio Padania, per poi girarne tre giorni dopo 22.500 ancora allo studio di Di Rubba. Dunque, Repubblica tira in ballo anche gli elettricisti pur di screditare Salvini.

Lega, presunti finanziamenti russi: "Dai profili social sembra chiara la predilezione di Meranda per Salvini". Libero Quotidiano il 14 Luglio 2019. "Confesso apertamente di non votare da dieci anni. Non mi sono mai occupato di finanziamento ai partiti - si legge nella lettera inviato dall'avvocato Gianluca Meranda a Repubblica -. Non ho mai avuto incarichi in nessun partito e non ho intenzione di cominciare". Il legale che ha ammesso di essere il "Luca" intercettato nell'incontro all'Hotel Metropol di Mosca, quello da cui è partita l'indagine contro la Lega accusata di "finanziamenti illeciti". Il Fatto quotidianoperò non perde l'occasione per attaccare Matteo Salvini: "Dai profili social, però - scrivono - sembra chiara la sua predilezione per Salvini. L'ultimo aggiornamento sulla sua pagina Facebook, del luglio 2018, segnala l'iscrizione al Comitato Salvini premier. Su Twitter, tra giugno e dicembre 2018 ha rilanciato 15 volte i cinguettii del Capitano. Quest'anno la presenza più assidua sul suo profilo è Germano Dottori, politologo di fama della Luiss di Roma, noto per le sue posizioni filo-atlantiste e per il suo apprezzamento di Putin come leader non ostile all'Occidente". Al quotidiano non va giù che Meranda si dica "stupito per l'inchiesta della Procura di Milano per finanziamento illecito ai partiti e corruzione internazionale e difende la correttezza della trattativa". "Tra i clienti dello studio SQ Law (di Meranda) ci sono compagnie petrolifere e banche d'affari italiane ed estere e, a parte Gianluca Savoini, gli interlocutori presenti a Mosca erano professionisti che si occupano di compravendite internazionali, oil products, che in quel momento erano oggetto di negoziato". "Luca - per il quotidiano di Travaglio - al Metropol, è l'italiano che sciorina i nomi delle aziende da coinvolgere nell'affare: Eni, Banca Intesa, Lukoil. Lo studio di cui Meranda è partner, in effetti, vanta importanti collegamenti in tutto il mondo attraverso la Legal Netlink Alliance". "La Camera di Commercio italo-russa - a cui era iscritto Meranda - è stata un collante fondamentale anche tramite i politici locali e in particolare alcuni consiglieri regionali". Fin qui nulla di strano, Meranda ha ammesso di essere un avvocato e di avere parecchi contatti, ma cosa c'entra la Lega di Salvini? 

"Repubblica", vodka e contraddizioni. Francesco Maria Del Vigo, Domenica 14/07/2019, su Il Giornale.  Ieri Repubblica strillava in prima pagina: «Moscopoli, Salvini non poteva non sapere». Benissimo, ma cosa? Non lo sanno neanche loro, perché nel leggere le lenzuolate di ricostruzioni, illazioni, sospetti e ipotesi viene un dubbio: mettiamo anche che Mosca abbia dato alla Lega dei rubli, ma siamo sicuri che non rifornisca Repubblica di casse di potente vodka? Nel qual caso, scatterebbe una certa invidia professionale. Ricapitoliamo: uno stranamente non ironico Luca Bottura, a pagina 3, dice che è in atto un'opera di disinformazione. Perché? Perché invece che parlare di Savoini & Co. (se ne parla anche dal verduraio, ma va beh) si rivanga nel passato dei rubli comunisti. Ignaro che, due pagine dopo, il medesimo quotidiano dica che Salvini è attorniato da fascisti. Quindi le ideologie del Novecento si possono usare solo a senso unico? Poi il meglio: si confondono le acque parlando troppo del caso di Bibbiano. Ah, certo, bisogna parlare solo della Lega e tacere di una orrenda storia di bimbi manipolati e strappati alla famiglie. Perché è più importante incastrare Salvini. Ma per essere una spy story perfetta, a questo plot, mancava ancora qualcosa: la donna. Nessun problema signori, ecco che sbuca Irina Osipova (nel tondo), «l'amica dei mercenari». Finita in un'inchiesta (senza mai essere condannata) sui contractor italiani che andavano in Donbass e talmente salviniana da essersi candidata con Fratelli d'Italia. Però ha una foto insieme Salvini e a questo punto della trama tutto fa brodo. D'altronde se voi doveste trattare affari milionari con Putin, non affidereste la pratica a un faccendiere, un'amica dei mercenari e a quattro fascistelli? È il dream team che ogni lobbista sogna di confezionare. A completare lo sbilenco copione arriva anche il filosofo Aleksandr Dugin, col quale Savoini avrebbe preso contatti per portare a casa questo benedetto oro nero. Giusto per capirci: Dugin è uno che non riesce nemmeno a vendere i suoi libri su Amazon perché glieli bloccano, figurarsi se riesce a far arrivare in Italia ettolitri di petrolio. Fa il filosofo euroasiatico, ha un grande seguito, ma non è mica un oligarca. Per fortuna, a pagina 6, arriva un'intervista maestosa allo scrittore Eduard Limonov che, in poche battute, cestina tutte le pagine precedenti. È, come sempre, lapidario: «Penso che sia un fake di pessima qualità». Tutto surreale. Tutto in contraddizione. Però bellissimo: il più bel romanzo dell'estate. Però è un romanzo, ricordiamolo. Si sono solo dimenticati di scrivere che «ogni riferimento a persone o cose è puramente casuale».

Travaglio sui presunti finanziamenti russi: "Savoini come Verdone nel film Italians, più che un pirla". Libero Quotidiano il 13 Luglio 2019. "Nello scandalo di Gianluca Savoini e dei presunti finanziamenti occulti alla Lega da Santa Madre Russia, la storia si ripete due volte: ma la prima come farsa e la seconda pure. Come sempre, quando ci sono di mezzo la Lega e i soldi". Marco Travaglio è ossessionato da Matteo Salvini, al punto di tirare in ballo Mani Pulite: "Il 7 dicembre 1993 il pool Mani Pulite, che indaga sulla maxitangente Enimont, fa arrestare Alessandro Patelli, di professione idraulico e dunque tesoriere della Lega Nord. Questi ammette di aver ricevuto 200 milioni di lire da un emissario di Carlo Sama al Bar Doney di Roma ladrona. Un'altra volta, per finanziarsi, la Lega mise in vendita le zolle del prato di Pontida: fallimento totale. Frattanto, il nostro Savoini da Alassio, classe 1963, leghista della prima ora, si faceva le ossa come giornalista del Corriere mercantile su su fino alla Padania, dove tutti lo ricordano simpaticamente come un nazista". Ecco che il direttore del Fatto quotidiano arriva finalmente al presente, o quasi: "Il 18 ottobre, a Mosca al seguito di Matteo suo, la grande occasione della vita dopo trent'anni di onorata gavetta: un conciliabolo top secret con due italiani e tre russi sul petrolio da esportare in Italia e la cresta che riempirà finalmente le casse vuote della Lega. Lui pontifica sull'imminente new deal che rivoluzionerà l'Europa grazie a Matteo & Vladimir in cambio di un modico 4%. Nella foga, purtroppo, né lui né gli altri cospiratori s'accorgono di trovarsi nella hall dell'Hotel Metropol, infestato di cimici fin dalla Guerra fredda. Vengono tutti intercettati e il nastro finisce in pasto agli amerikani". Poi Travaglio non perde l'occasione per lanciare offese e, citando un noto film con Verdone (Italians), dice di Savoini: "Pare che lui, diversamente da Patelli, alla Lega non abbia portato un rublo. Se quello era un pirla, lui che cos'è?

Cosa è accaduto in quel vertice, la lettera di Meranda a Repubblica: «Sono pronto a rispondere ai giudici». Open il 13 luglio 2019. L’avvocato Gianluca Meranda – il «Luca» dell’audio con Savoini – in una lettera a Repubblica conferma la sua identità e si dice pronto a riferire ai magistrati milanesi. Svolta nella vicenda del Russiagate della Lega. Uno dei partecipanti alla famosa riunione all’Hotel Metropol di Mosca insieme a Gianluca Savoini ha scritto una lettera a Repubblica ammettendo di essere stato presente all’incontro e raccontando la sua versione. Gianluca Meranda è un famoso avvocato internazionalista e commerciale di Roma – è partner dello studio legale internazionale “Sqlaw” – e si dice pronto a riferire ai magistrati milanesi che indagano per corruzione internazionale. Il testo della lettera ospitata dalle colonne del quotidiano La Repubblica: «Gentile direttore, in relazione a quanto apparso sulle vostre colonne, anche in data odierna (“Moscopoli – Petrolio e Tangenti”), desidero specificare quanto di seguito. Indicato come il “banchiere Luca” nelle intercettazioni che riguardano l’inchiesta “Moscopoli”, sono in realtà un avvocato internazionalista che esercita la professione legale da più di 20 anni tra Roma e Bruxelles, anche nel ramo del diritto d’affari. Tra i clienti dello studio (gli obblighi di riservatezza impostimi dai codici deontologici di Roma e Bruxelles presso i quali sono iscritto mi impediscono di essere più specifico) figurano compagnie petrolifere e banche di affari italiane ed estere con cui quotidianamente e da molto tempo vengono intrattenuti rapporti fiduciari di natura esclusivamente professionale. Avendo riguardo alle vicende che vi preoccupano, specifico di aver partecipato alla riunione del 18 ottobre 2018 a Mosca in qualità di General Counsel di una banca d’affari anglo-tedesca debitamente autorizzata al c.d. commodity trading ed interessata all’acquisto di prodotti petroliferi di origine russa. Confermo di aver conosciuto il dottor Gianluca Savoini e di averne apprezzato l’assoluto disinteresse personale nei pochi incontri avuti in relazione alle trattative. I restanti interlocutori all’incontro del 18 ottobre sono professionisti che a vario titolo si occupano di questa materia, esperti sia in compravendite internazionali, sia di prodotti specifici (oil products) che in quel momento erano oggetto del negoziato. Come spesso accade in questo settore, e nonostante gli sforzi delle parti, la compravendita non si perfezionò. Apprendo quindi con stupore dagli organi di stampa che questo incontro avrebbe indotto una Procura del Repubblica ad avviare una inchiesta per reati come corruzione internazionale o finanziamento illecito ai partiti. Confesso apertamente di non votare più da circa dieci anni. Non mi sono mai occupato di finanziamenti ai partiti. Non ho mai avuto incarichi in nessun partito e non ho intenzione di cominciare proprio adesso. Da uomo di legge so bene che non tocca a me stabilire se e quale reato sia stato commesso e, semmai dovesse esserci un’inchiesta, sarei a totale disposizione degli inquirenti. Da uomo libero e di buoni costumi, tuttavia, spero che il Paese si libererà presto di questo non più sopportabile modo di fare politica».

DAGOREPORT il 15 luglio 2019. Sono ormai vecchi ricordi lo stile anglossassone, la lealtà sportiva e il rigore sabaudo imposti per vari lustri da Guglielmo Grant a tutti i soci del Reale Circolo Canottieri Tevere Remo da lui fondato nel 1861. Sulle sponde del Tevere davanti al Ponte Regina Margherita a due passi da Piazza del Popolo la club house edificata in era fascista sulle fondamenta della Casina in legno utilizzata fin dall'inizio dai canottieri romani oggi si respira tutta un'altra aria. E non è, secondo molti frequentatori di quel circolo, un'aria rassicurante. Da luogo deputato per sport e incontri culturali il Tevere Remo si  è via via negli anni trasformato in un crocevia di interessi e affari di varia natura. Nulla di paragonabile al meno antico ma più gettonato Canottieri Aniene che Giovanni Malagò ha trasformato in una camera di compensazione per gli interessi delle grandi opere di Roma capitale e non solo.  Ma semmai un sottoprodotto con una non trascurabile variante regionale. Al Tevere Remo c'è infatti poca Roma (lontani i temi di Sigismondo Chigi presidente) e molta, moltissima Calabria. E' calabrese il deus ex macchina del circolo Ettore Spagnuolo ragioniere commercialista dai molteplici interessi (dal cinema ai fallimenti), è calabrese l'attuale presidente Giuseppe Toscano così come era di origini calabresi l'ex presidente Giuseppe Lupoi. E’ di Cosenza anche l'avvocato Gianluca Meranda oggi interrogato dai magistrati milanesi per un sospetto reato di corruzione internazionale avendo partecipato insieme a Gianluca Savoini all'ormai famoso incontro con plenopotenziari russi al Metropol di Mosca per una trattativa avente ad oggetto la creazione di un finanziamento occulto alla Lega mascherato da una fornitura di petrolio. Meranda non ha smentito la sua appartenenza alla massoneria. Sta di fatto che la Loggia Serenissima lo ha sospeso per mancanza di trasparenza. Un concetto che sembra  in contraddizione con la fratellanza massonica che accomunerebbe molti dei calabresi quasi quotidianamente attovagliatj al Tevere Remo, spesso con special guest noti generali.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 15 luglio 2019. L'ombra del presidente Emmanuel Macron o, se non la sua, quella della massoneria francese (ma per qualcuno sono la stessa cosa), compare sullo sfondo dell' affaire dell' Hotel Metropol. Infatti il personaggio chiave, salvo altre sorprese, il quarantanovenne avvocato cosentino Gianluca Meranda, è un massone affiliato a un' obbedienza d' Oltralpe, come sembra aver confidato lui stesso alla Repubblica. Cofondatore dello studio internazionale Sqlaw, con sedi a Roma e Bruxelles, e consigliere legale della banca anglotedesca Euro-Ib, nella registrazione in cui si parla di supposti finanziamenti alla Lega è così sfacciato da sembrare quasi un agente provocatore: «Il 4 per cento per noi è sufficiente, a condizione che ci sia un credito aperto in modo che non abbiamo i costi dello strumento finanziario. Direi che hanno fatto i loro piani con un 4 per cento netto, quindi se ora dici che lo sconto è del 10 per cento, direi che il 6 per cento è vostro (...) Ma se la [vostra] prima domanda è che cosa ottengo io se faccio uno sconto maggiore, direi che prendi tutto, qualsiasi cosa [cifra] oltre il 4 per cento, noi non ne abbiamo bisogno ( ) È molto semplice. L' idea come concepita dai nostri ragazzi politici è che con uno sconto del 4 per cento 250.000 più 250.000 al mese per un anno, possono sostenere [mandare avanti] una campagna». Frasi buttate lì, che pare non abbiano sortito nessun risultato, ma che hanno inchiodato i presenti all' incontro a un' accusa di corruzione internazionale. Beccato con le mani nella marmellata, Meranda si è fatto avanti con La Repubblica (l'ha cercata lui) per dire la sua e mettersi a disposizione della Procura. Per poi definirsi, alla fine della sua lettera, «uomo libero e di buoni costumi», una frase che è suonata come un razzo segnalatore per tutti i lettori con grembiulino e cappuccio. La sua era una dichiarazione d' appartenenza alla massoneria, ma non a quella italiana. Quella francese, atea e progressista che tra un Salvini e un Macron parteggerà sempre per il secondo. In Italia Meranda è, o forse era, legato alla piccola Serenissima Gran Loggia del Gran maestro Massimo Criscuoli Tortora (meno di 200 membri), che conta un' alta percentuale di fratelli affiliati a tre logge calabresi (30 per cento). E anche qui c' è un fil rouge che conduce in Francia. Criscuoli Tortora, davanti alla commissione Antimafia che lo aveva convocato per parlare dei suoi affiliati meridionali, spiegò: «Ricopro anche l' ufficio di vicepresidente internazionale della Confederazione Internazionale delle Grandi Logge Unite e di presidente della Confederazione delle Grandi Logge Unite d'Europa, entrambe con sede a Parigi presso la Gran Loggia di Francia». Ieri Repubblica ci ha informato che Meranda, dal 2016, si sarebbe trasferito armi e compassi in un' obbedienza francese, ma non la Gran loggia, bensì il Grande oriente. Nei mesi scorsi il Grand' Oriente, la Federazione francese del diritto umano, la Gran loggia mista universale, la Gran loggia mista di Francia e la Gran Loggia delle culture e della spiritualità hanno sottoscritto un comunicato congiunto contro il governo italiano. Il loro problema era che l'accordo tra i due partiti dell'esecutivo escludesse esplicitamente dalla compagine chiunque aderisse alla massoneria. Da qui, il duro attacco: «I principi massonici di tolleranza e adogmatismo sono imperscrittibili e chiamano alla più alta vigilanza contro il rischio d' un ritorno ad antiche discriminazioni». Deve più o meno pensarla così anche colui che ha accompagnato al Metropol il proconsole in Russia di Salvini, Gianluca Savoini, e tale «Francesco». E nella stessa trappola ha rischiato di trovarsi pure il vicepremier. Che, come nel caso di Heinz-Christian Strache, doveva finire nella rete. Per sua fortuna il segretario della Lega, messo in guardia da alcune persone di fiducia, come il vicepresidente di Confindustria Russia, Fabrizio Candoni, ha preferito tornare in Italia, scampando il pericolo. Nella paranza è rimasto impigliato così solo un pesce di media stazza come Savoini. Ma la pesca deve essere parsa comunque buona se qualcuno ha ritenuto di far arrivare a febbraio all' Espresso l' audio della riunione o almeno la sua trascrizione perfetta. Anche se i giornalisti hanno giurato di essere stati presenti all' incontro. Una versione che non ha convinto neppure il New York Times che, pur dando spazio alla storia, ha dovuto ammettere che si trattava di «audio registrato, che non può essere verificato in modo indipendente» e che lo scoop che «aveva intrigato i politici liberal» è passato in sordina perché aveva una «provenienza torbida (cloudy, ndr)». Quindi personaggi non meglio identificati, messi in moto da non si sa chi, hanno cercato di affossare pezzi da novanta di partiti sovranisti. Strache è stato azzoppato, Salvini per ora no. Ma di chi è la regia?

Si parla di russi, di americani, di italiani. Non bisogna, però, sottovalutare i francesi. Il presidente Macron, che si considera defensor dell' Unione europea nella sua versione attuale, è il principale avversario di Salvini e non intende concedere aperture, al contrario della candidata tedesca alla presidenza della commissione europea Ursula von der Leyen. C' è anche la guerra civile libica a separare i due contendenti. E ad aggiungere sospetto a sospetto è arrivata la notizia dell' affiliazione dell' avvocato Meranda, il chiacchierone del Metropol, alla loggia Salvador Allende del Grande oriente di Francia. Il Gof è un' obbedienza progressista ed è l' unica, tra quelle più grandi, a sposare l' ateismo. Anche il personaggio a cui è dedicata la loggia, il cileno Allende, è un simbolo del socialismo mondiale, nonostante fosse un grembiulino. Insomma un mondo distantissimo dal sovranismo e con idee di fratellanza mondiale. Meranda sui social appoggiava Salvini, ma poi nei fatti ha deciso di condividere informazioni sensibili con il gruppo editoriale a lui più avverso. E ancora ieri le uniche informazioni le ha concesse a Repubblica. Il cui editore onorario, Carlo De Benedetti, è commendatore della Legion d' onore, la massima onorificenza francese. Resta un ultimo quesito: perché l' attacco alla Lega è arrivato solo ora, a distanza di nove mesi dalla registrazione? Forse perché il presidente della commissione in pectore von der Leyen potrebbe avere bisogno dei voti del Carroccio al Parlamento europeo? Oppure non si vuole permettere a un lùmbard come Giancarlo Giorgetti di occupare una poltrona strategica come quella di commissario alla Concorrenza? La risposta la conoscono le manine che hanno passato «l' audio segreto» ai giornalisti, ma, forse, anche i cronisti che lo hanno ricevuto. Chissà se la Procura di Milano, con gli interrogatori che inizieranno oggi, proverà a risolvere il mistero e a spiegarci in modo convincente la parte in commedia di questo massone calabrese trapiantato a Parigi.

QUANDO PURE LA MASSONERIA PRENDE LE DISTANZE, FATTI DUE DOMANDE. Carlo Tarallo per ''la Verità'' il 16 luglio 2019. Colpo di scena nell' affaire-Savoini: il presidente leghista dell' associazione Lombardia-Russia, indagato per corruzione internazionale nell' inchiesta su presunti fondi russi alla Lega attraverso una compravendita di petrolio a prezzo scontato, ha scelto a sorpresa di avvalersi della facoltà di non rispondere ai pm di Milano, Gaetano Ruta e Sergio Spadaro. A differenza di quanto si era appreso in un primo momento, non ha partecipato all' interrogatorio il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale. Pochi giorni fa, alla Verità, Gianluca Savoini aveva dichiarato: «Io non ho preso una lira, questa è l' unica cosa che mi importa. Ed è dimostrabile». Il breve faccia a faccia tra Savoini e i pm non si è svolto in Procura ma presso la sede del Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di Finanza, in via Fabio Filzi a Milano: di solito è lì che si svolgono gli interrogatori di vip e personaggi importanti, per evitare la ressa di fotografi e telecamere. Infatti, fino alla serata di ieri, nessuno sapeva dove si sarebbe svolto l' interrogatorio. Savoini è arrivato intorno alle 16, accompagnato dal suo legale, Lara Pellegrini, dello studio Siniscalchi di Milano. Restano dunque avvolti nel mistero i dettagli di questa spy story che somiglia tanto a una «polpetta avvelenata» per Matteo Salvini. Tra le tante ombre che ancora avvolgono la vicenda, c' è quella che riguarda l' invio del file audio alla Procura di Milano. Il file è stato pubblicato dal sito americano di ispirazione liberal Buzzfeed, ma i contenuti del meeting erano stati già dettagliatamente anticipati lo scorso febbraio dall' Espresso. Era stata la rivelazione del settimanale a far aprire l' inchiesta alla Procura: il settimanale sostiene che i suoi giornalisti erano presenti all' incontro, ma i nostri dubbi su questa versione sono tanti. A nostro parere è assai probabile che L' Espresso sia entrato in possesso del file audio già lo scorso febbraio. Ieri mattina in Procura, nell' ufficio di De Pasquale, si era svolto un lungo vertice tra i pm titolari dell' inchiesta, scaturita dall' audio dell' incontro dello scorso 18 ottobre all' hotel Metropol di Mosca. Savoini, lo ricordiamo, era presente al Metropol quando si è svolta la presunta trattativa per far arrivare 65 milioni di dollari alla Lega. Secondo l' accusa, Savoini avrebbe avuto un ruolo di primo piano in questa vicenda. Savoini ha partecipato all' incontro del Metropol insieme a tre russi e ad altri due italiani, uno dei quali è l' avvocato Gianluca Meranda, che presto potrebbe a sua volta essere sentito dai magistrati di Milano. Fino a ieri sera, Meranda non era stato né sentito né convocato. Meranda è un massone , ed è stato legato in passato alla piccola Serenissima Gran Loggia d' Italia del Gran maestro Massimo Criscuoli Tortora, che ha meno di 200 membri. Ieri, la loggia ha preso nettamente le distanze da Meranda, attraverso una nota pubblicata sul sito Acaciamagazine.org. «Il Gran Maestro Massimo Criscuoli Tortora», recita il comunicato «per amore della Trasparenza e della Verità, precisa che il signor Gianluca Meranda non è più membro della Serenissima Gran Loggia d' Italia dall' autunno del 2015, in quanto è stato espulso dall' Obbedienza con Decreto Magistrale, comunicato a tutte le potenze estere. Pertanto, la Serenissima Gran Loggia d' Italia non ha più nulla a che fare con il predetto personaggio da ben quattro anni. La Fondazione Massonica, di cui il signor Meranda era uno dei soci fondatori, proprio a seguito della sua espulsione e di altre situazioni con ex membri che invece lo hanno seguito nel suo percorso successivo all' espulsione», prosegue la nota, «era stata immediatamente bloccata nella sua operatività e non aveva mai iniziato alcuna attività, non potendo provvedere alla sua chiusura. per mancanza del numero minimo previsto dallo statuto». Toni duri, sui quali i magistrati di Milano potrebbero decidere di indagare. Meranda è nella lista dei protagonisti di questo caso che potrebbero presto essere sentiti dai magistrati di Milano. Nell' elenco c' è anche il nome di Fabrizio Candoni vicepresidente di Confindustria Russia, che alla Verità, sabato scorso, ha spiegato di aver sconsigliato a Salvini di partecipare all' incontro al Metropol. Potrebbe essere ascoltato dai pm anche Claudio D' Amico, consigliere per le attività strategiche di rilievo internazionale del vicepremier Salvini. D' Amico, come spiegato da Palazzo Chigi, avrebbe «sollecitato» l' invito di Savoini al Forum Italia-Russia del 4 luglio scorso, al quale è seguita una cena a Villa Madama organizzata dal premier Giuseppe Conte in onore del presidente russo Vladimir Putin. D' Amico ha chiesto di accreditare, oltre a Savoini, anche il responsabile del progetto Ignitor, Bruno Coppi, e l' astronauta Walter Villadei. La sua richiesta è stata trasmessa dall' Ufficio diplomatico di palazzo Chigi all' Istituto per gli Studi di Politica Internazionale. «Io conosco brave persone. Fino a prova contraria», ha detto ieri Matteo Salvini a Quarta Repubblica, su Rete 4, «almeno che non si dimostri che qualcuno ha fatto qualcosa fuori posto io ho fiducia nelle persone. Se c' è uno stato di diritto liberale e democratico si è innocenti a meno che non si venga dimostrati colpevoli. Vivo in un Paese civile dove mi fido dei sindaci, degli artigiani e degli imprenditori, dei lavoratori, se c' è qualcuno che ogni tanto sbaglia non vanno messi tutti nel calderone». Intanto, gli analisti cercano di capire chi può aver tentato di «incastrare» Salvini. Riflettori accesi sui francesi e ovviamente sui russi: si fa notare che sarebbe davvero difficile portare a termine un' operazione di spionaggio così complessa a Mosca, al Metropol, senza una sorta di via libera da parte dei servizi russi. Tra i punti di frizione tra la Lega e il Cremlino, ad esempio, la posizione durissima di Salvini sul Venezuela: il vicepremier ha attaccato ferocemente Nicolas Maduro, sostenuto da Russia e Cina, dando invece pieno sostegno a Juan Guaidó.

Lega e fondi russi, Francesco Vannucci si fa avanti: «Ero io il terzo uomo  al Metropol, tutto regolare». Pubblicato martedì, 16 luglio 2019 da Marco Gasperetti su Corriere.it. «Ho partecipato all’incontro all’hotel Metropol di Mosca il 18 ottobre 2018 in qualità di consulente esperto bancario che da anni collabora con l’avvocato Gianluca Meranda. Lo scopo dell’incontro era prettamente professionale e si è svolto nel rispetto dei canoni della deontologia commerciale. Non ci sono state situazioni diverse rispetto a quelle previste dalle normative che disciplinano i rapporti d’affari». Lo scrive via WhatsApp Francesco Vannucci, che spiega di essere tra le persone citate nell’audio finito nell’inchiesta sui presunti fondi alla Lega.«Sono profondamente dispiaciuto di essere indicato in modo a volte ironico, a volte opaco, con lo pseudonimo di “nonno Francesco”. Confido nella serietà della magistratura italiana nel capire le chiare dinamiche di questa vicenda», ha aggiunto Francesco Vannucci, 62 anni, di Suvereto, in provincia di Livorno, dicendosi profondamente rammaricato di dover mettere a rischio la privacy sua e della sua famiglia. Contattato al telefono dall’Ansa, Vannucci racconta di essere una delle persone citate nell’audio riportato da BuzzFeed, dove si menzionano, tra gli altri, due personaggi che sembrano essere coinvolti nella discussione al tavolo dell’Hotel Metropol. Si tratta di un `Luca´ (Gianluca Meranda, ndr) e di un `Francesco´. Non vuole però rispondere alle domande dell’ANSA sui temi dell’incontro del Metropol, testimoniati dall’audio di BuzzFeed, aggiungendo solo di non essere stato ancora ascoltato dai magistrati che si occupano del caso. L’identità di Francesco Vannucci e l’autenticità del messaggio di quest’ultimo sono state confermata all’Ansa dall’avvocato Gianluca Meranda, di cui Vannucci dice di essere collaboratore.

CHI ''COMANDA'' GLI ITALIANI A MOSCA? Francesco Bonazzi per Alliance News il 15 luglio 2019. La guerra tra l'uomo di Eni e quello di Intesa Sanpaolo per diventare il primo lobbista italiano a Mosca, ma anche il derby Lega-M5S nel garantire l'alleato Usa al tempo del governo gialloverde. E le mosse, non certo casuali, dei grillini per avvicinarsi a Londra e alla sua business community in un momento in cui chi, come Giancarlo Giorgetti, s'era portato avanti sulla City, è in difficoltà o comunque distratto dalla corsa alla poltrona UE. Dietro al Russiagate si muovono pezzi di potere vero, come raramente si possono contemplare in azione, anche se dal punto di vista penale la storia non è affatto detto che decolli e, forse, addirittura è anche un po' gonfiata e copre l'ennesimo regolamento di conti tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini. Se oggi "Repubblica" ha un titolo choccante in prima pagina ("Ricordare Mario Chiesa"), in cui fa un parallelo piuttosto ardito tra la nascita quasi casuale di Mani Pulite e questo scandalo dei presunti rubli da Mosca alla Lega di Matteo Salvini, da Palazzo Chigi ostentano tranquillità. Giuseppe Conte ha "scaricato" il suo vicepremier leghista già sabato sera con una nota che riletta oggi è illuminante. L'uomo chiave sembra essere Gianluca Savoini, classico brasseur d'affaires che si muove tra Cremlino e Lega con il sogno di intermediare forniture di gas e petrolio. Nella nota, si legge: "L'invito di Savoini al Forum (del 4 luglio a Villa Madama, a Roma, ndr) è stato sollecitato dal signor Claudio D'Amico, consigliere per le attività strategiche di rilievo del vicepresidente Salvini". D'Amico si è presentato soprattutto come presidente dell'Associazione Lombardia-Russia. Ma non è soltanto quello. La presidenza del Consiglio non dice che oltre a D'Amico, ad accreditare con il governo Savoini è stato un uomo Eni di alto livello e bassissimo profilo come Ernesto Ferlenghi, 51 anni, presidente di Confindustria a Mosca. Ferlenghi gioca per sé, dicono fonti Eni, nel senso che ha l'ambizione non solo di essere l'uomo-chiave nel rapporto Putin-Salvini, ma anche l'italiano più potente a Mosca. Ferlenghi ha davanti un grande futuro, ma al momento quella posizione è occupato dal "Professore", ovvero Antionio Fallico, siciliano di Bronte, 72 anni di cui 40 passati in Russia, presidente di Intesa Sanpaolo Russia e del centro studi Eurasia. Fallico è un cattolico vecchia maniera, grande amico del presidente onorario di Intesa, Giovanni Bazoli, in ottimi rapporti con Silvio Berlusconi e Vladimir Putin. Ferlenghi è il simbolo di una nuova era che inizia, o stava iniziando, sulla direttrice dei grandi affari italorussi. Ma è anche la seconda volta in poco tempo che Eni compare, suo malgrado, in poco tempo, su due inchieste molto particolari. Tutto lo scandalo dei magistrati della procura di Roma, infatti, parte dall'ufficio legale di Eni, e da un avvocato esterno, Pietro Amara, accusati dai pm di Milano di depistaggio sulle inchieste africane che riguardano il ceo Cladio Descalzi. Inchieste di fronte alle quali Salvini, mesi fa, ha fatto uno strano endorsement "preventivo" a favore di Descalzi. "In qualunque altro paese d'Europa si starebbe parlando del caso Eni-Procura di Milano, e delle inchieste sui suoi vertici", rileva con una certa amarezza un magistrato, "in Italia invece siamo concentrati da giorni sul fatto che al Csm fanno le nomine al ristorante, non esattamente una notizia". Sul Russiagate, va detto, al momento il coinvolgimento di Eni è prossimo allo zero, Ferlenghi a parte. Penalmente, la procura di Milano sta sentendo tutti i mediatori tra Lega e amministrazione Putin, ma Salvini ha già scaricato Savoini e si è detto "tranquillo". E' stato poi tirato in ballo anche il consulente e amico più strategico di Giancarlo Giorgetti, ovvero l'avvocato di Varese Andrea Mascetti, il leghista più alto in grado nel mondo Cariplo e attivo anche lui su Mosca. Ma Mascetti, a "Repubblica", ha detto di non conoscere nessuno dei personaggi coinvolti e del resto è più che altro noto come animatore culturale. Per esempio, nei mesi scorsi, è stato lui a portare a Varese il suo amico Eduard Limonov, politico, avventuriero e soprattutto grandissimo scrittore, per il quale questo Russia-Lega gate è un gigantesco "falso". Ma che alcuni giornali abbiano tirato in ballo, senza appiglio giudiziario, uno come Mascetti, notoriamente non solo amico di Giorgetti ma arci-nemico di Roberto Maroni, in casa Lega significa molto. Sono infatti molti, nel Carroccio di stretta osservanza Fontana-Giorgetti-Salvini, a credere che Maroni stia lavorando a un nuovo soggetto politico alternativo alla Lega e non lontano dalle ceneri del berlusconismo. E il nome di Maroni incute anche un certo timore, perché è stato ministro degli Interni, conosce gli apparati dello Stato meglio di tutti gli altri leghisti e si è dimesso da presidente della regione Lombardia senza aver mai spiegato davvero questa sua scelta improvvisa. Tornando a Eni, in primavera il governo dovrà decidere se cambiare Descalzi o confermarlo. E la Lega sarà importante. Vedere all'opera personaggi come Amara e Ferlenghi, pur assai diversi tra loro, induce a qualche preoccupazione sul livello di opacità al quale si sta giocando questa partita. Dal canto loro, i 5 Stelle esigono chiarimenti in Aula, ma senza troppa convinzione. "A oggi, dalle carte non sembra che la Lega sia davvero nei guai, almeno non come con i famosi EUR49 milioni che deve restituire allo Stato", dice un grillino di peso. Ma i 5 Stelle sono in ottimi rapporti con gli Stati Uniti e si avvantaggiano di questi scandali del Carroccio, che con la Casa Bianca può schierare solo il sottosegretario agli Esteri, Giancarlo Picchi, sovranista convinto. E' sicuramente un caso, ma l'attività di autoaccreditamento con le cancellerie estere del M5S sta accelerando. Domani voleranno a Londra, per incontrare i grossi investitori della City, Stefano Buffagni ed Emilio Carelli. Buffagni, in particolare, è un giovane commercialista lombardo che si da molto da fare e che ha spesso in mano il pallino delle nomine per conto dei grillini. Perchè alla fine il tema è sempre lo stesso: conta capire chi, in primavera, farà le nomine in tutte le grandi partecipate pubbliche.

Al tavolo del Metropol gli emissari di Pligin,  il fedelissimo di Putin. Pubblicato sabato, 13 luglio 2019 da Fabrizio Dragosei su Corriere.it. I sei che al tavolo dell’hotel Metropol discutevano a ottobre di una mega-tangente agivano per conto di qualcun altro? Dei veri capi? Di Savoini, Gianluca Meranda e del terzo, Francesco, non sappiamo con certezza. La controparte, invece, faceva riferimento certamente al «superiore» che avrebbe dovuto poi approvare ogni cosa. Ilya Andreevich Yakunin dice chiaramente di dover attendere il ritorno a Mosca di Vladimir Pligin per avere «luce verde» all’affare. E Vladimir Nikolaevich Pligin, non è un semplice avvocato. È legatissimo ai più alti vertici del potere russo, fino a Vladimir Putin. Viene da San Pietroburgo. Studiava alla stessa facoltà di legge frequentata dal futuro presidente. Suo relatore per la tesi fu Anatolij Sobchak, professore pure di Putin e poi suo mentore.Putin non si dimenticò mai del suo protettore. Quando Sobchak rischiava l’arresto nel 1997, lo aiutò a fuggire all’estero. E chi era in quel momento l’avvocato di Sobchak? Proprio Pligin. Ma all’università Pligin aveva fatto un’altra conoscenza importante. Suo compagno di studi era Dmitry Kozak, attuale vicepremier responsabile del petrolio e del gas, con il quale fondò all’inizio degli anni Novanta la società giuridica Just. E nella sede della Just si sarebbe svolto l’incontro tra Salvini e Kozak smentito recisamente da quest’ultimo. Yakunin sarebbe stato forse dirigente dell’Agenzia per gli investimenti diretti che ha rapporti d’affari con aziende come Gazprom e le Ferrovie russe. A lungo presidente delle Ferrovie, è stato un altro Yakunin (parente?), il potentissimo Vladimir, compagno di dacia di Putin. Il sistema immaginato per «scremare» una percentuale da destinare a finanziamento illecito e a corruzione non è certo nuovo e i russi lo usano dai tempi dell’Urss. Nell’allegra tavolata al Metropol, Ilya fa riferimento a una società di trading usata con Naftogaz, la compagnia del gas ucraina. Nel 2006 uscì fuori che Gazprom aveva smesso di vendere direttamente il metano agli ucraini e che in mezzo si era intrufolata la RosUkrEnergo, di proprietà in parte ucraina e in parte russa. A Kiev scoppiò uno scandalo. La prima ipotesi di «scrematura» su forniture al nostro Paese fu probabilmente l’idea di vendere direttamente metano di Gazprom a una società del berlusconiano Bruno Mentasti che l’avrebbe poi girato a utilizzatori nostrani. In Russia sono stati usati anche altri schemi. Come il prestito di 9,4 milioni di euro al Front national di Marine Le Pen. Naturalmente non direttamente da istituti di credito statali russi, ma da una banca privata. In questo caso una banca ceca, che poi qualche anno dopo fallì e passò il credito alla Aviazapchast, una società che si occupa di esportare ricambi per aerei e non di finanziamenti. Di Pligin sappiamo anche che è sotto sanzioni europee. Anche per questo i russi al Metropol escludono con fermezza che il loro capo possa recarsi in Italia: «Non ci vuole andare».

Quando Salvini definì Savoini e D’Amico «i suoi rappresentanti ufficiali». Pubblicato sabato, 13 luglio 2019 da Corriere.it. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha smentito che Gianluca Savoini agisse, in qualunque modo, a suo nome, in riferimento alla notizia — svelata da Buzzfeed — di un incontro tra Savoini stesso e alcuni rappresentanti russi per discutere di finanziamenti alla Lega. Ma alcuni documenti sembrano smentire questa versione del ministro.Il primo elemento è una intervista del 2014, pubblicata dalla rivista russa «International Affairs» e firmata da Eliseo Bertolasi (il cui nome viene storpiato, dalla rivista stessa, in «Eliseo Bertolazo»). In questa intervista si parla di una «missione» avvenuta a Mosca tra il 10 e il 15 ottobre 2014. La delegazione della Lega, guidata da Matteo Salvini, comprendeva secondo quanto riporta la rivista «Claudio D’Amico, Paolo Grimoldi — presidente della Lega Nord a Milano, Alexander Morelli, presidente dell’Associazione Lombardia-Russia, Gianluca Savoini, il vice presidente dell’Associazione Lombardia-Russia Gianmatteo Ferrari e il rappresentante dell’Associazione Max Ferrari». Il compito della missione era quello di «ridurre le conseguenze della mossa russa in risposta al via libera da parte dell’Italia alle sanzioni contro Mosca». Alla prima domanda, Salvini avrebbe risposto in questo modo, stando ai virgolettati della rivista: «La visita ha avuto più successo di quanto potessimo aspettarci. Il nostro lavoro è stato quello di rafforzare i contatti costruiti nei mesi scorsi dai miei rappresentanti ufficiali Gianluca Savoini e Claudio D’Amico». Nell’intervista ci sono anche due domande a Gianluca Savoini stesso. Non viene chiarito però se Savoini e Salvini si trovassero nello stesso luogo durante l’intervista. Un secondo elemento deriva da un tweet di Savoini, relativo al periodo in cui Salvini era già ministro dell’Interno. «È stato per me un enorme piacere poter accompagnare il Ministro Matteo Salvini nel corso della sua visita ufficiale a Mosca», scrive Savoini. Salvini nega però che Savoini facesse parte della delegazione ufficiale.

Fondi alla Lega, Salvini 9 volte a Mosca in 4 anni: tutte con Savoini. Per Cremlino è il "responsabile dei rapporti con la Russia". "Sputnik News", braccio mediatico di Vladmir Putin in Occidente, definisce "responsabile dei rapporti con la Russia per la Lega Nord" il presidente dell'associazione "Lombardia-Russia". Lo stesso segretario della Lega lo definiva come uno degli "official representatives" in un'intervista del 2014. Marco Pasciuti il 13 Luglio 2019 su Il Fatto Quotidiano. “My official representatives Gianluca Savoini and Claudio D’Amico”. Mio rappresentante ufficiale. Intervistato dal sito International Affairs il 17 novembre 2014, Matteo Salvinidefiniva così Gianluca Savoini, il presidente dell’associazione Lombardia-Russia che il 18 ottobre 2018 al Metropol Hotel della capitale russa parlò con tre russi di un presunto finanziamento di 65 milioni di dollari alla Lega. Incontro per il quale l’ex portavoce è indagato per corruzione internazionale dalla procura di Milano. Savoini è l’uomo che da sempre cura i rapporti tra via Bellerio e la Russia. Sputnik News, braccio mediatico di Vladmir Putin in Occidente, lo definisce “responsabile dei rapporti con la Russia per la Lega Nord”. IlFattoQuotidiano.it ha ricostruito 9 viaggi ufficiali fatti dal leader del Carroccio nel Paese di Vladimir Putin tra il 2014 e il 2018. E Savoini era sempre presente.

10-15  OTTOBRE 2014 – Una delegazione della Lega guidata da Matteo Salvini, arriva a Mosca per incontrare esponenti istituzionali russi per ribadire la propria contrarietà alle sanzioni occidentali. A parlare con l’agenzia Ansa a nome della delegazione è Gianluca Savoini: “Oggi incontriamo il presidente della Commissione Esteri della Duma, Aleksei Pushkov, e il ministro russo per la Crimea, Oleg Saveliev”. La delegazione leghista ha in programma anche una puntatina in Crimea: “Domenica terremouna conferenza stampa a Simferopoli con i media locali, lunedì invece incontreremo il presidente Serghiei Aksionon e alcuni ministri della Repubblica di Crimea”, aggiungeva Savoini.

8 DICEMBRE 2014 – Salvini torna a Mosca con Savoini per la conferenza economica dal titolo Russia-Italia: salvare la fiducia e la partnership alla Duma federale e a chi gli domanda se si aspetta finanziamenti per la Lega spiega: “Non cerco regali, ma un prestito conveniente come quello concesso alla Le Pen lo accetterei volentieri. Lo accetterei da chiunque mi offrisse condizioni migliori di, per esempio, Banca Intesa“, è il virgolettato riportato il 9 dicembre da La Repubblica. D’altronde “i comunisti sono andati per 50 anni a Mosca e tornavano coi valigioni pieni di soldi, e quei soldi andavano bene…”, spiegava quel giorno a Radio Padania.

14 FEBBRAIO 2015 – Il segretario leghista è di nuovo a Mosca: “Il segretario della Lega Matteo Salvini ha incontrato privatamente esponenti politici, culturali e imprenditoriali russi nel corso di una rapida visita a Mosca. Tra gli appuntamenti, quello con il responsabile dei rapporti esteri del partito putiniano Russia Unita, Andrey Klimov. Lo ha reso noto il portavoce di Salvini, Gianluca Savoini, senza precisare la data della visita”, riportava l’Ansa quel giorno.

24 FEBBRAIO 2015 – Salvini torna a Mosca e viene intervistato da Sputnik News, braccio mediatico e voce ufficiale di Vladimir Putin in Occidente, e da Rossiya Segodnya.

16-17 DICEMBRE 2015 – Il segretario vola a Mosca e il giorno dopo tiene una conferenza stampa nella sede di Rossiya Segodnya. “Il segretario della Lega Nord Matteo Salvini sarà domani a Mosca per una visita di due giorni. Lo si apprende da Gianluca Savoini, presidente dell’Associazione Lombardia-Russia, che accompagnerà il leader del Carroccio nella missione in Russia”, recita un’Ansa del 16 dicembre. Lo stesso giorno in cui sul profilo Facebook dell’associazione Lombardia-Russia compare una foto che ritrae il presidente con Putin: “Domani arriverà anche Matteo Salvini“, si legge nel post.

28 GIUGNO 2016 – La Lega vola a Mosca per il convegno di Russia Unita, il partito di Putin. “Fra le oltre 40 delegazioni dei partiti esteri invitati c’era anche la Lega Nord. L’invito è stato fatto al segretario federale del Carroccio, Matteo Salvini, che non ha potuto essere presente a causa degli impegni politici già fissati. Al congresso del principale partito di governo la Lega è stata rappresentata da Gianluca Savoini, responsabile dei rapporti con la Russia per la Lega Nord“, riportava quel giorno Sputnik News.

19 NOVEMBRE 2016 – Salvini è di nuovo a Mosca “per la sua quarta missione russa” e due giorni prima Sputnik Newsdefinisce di nuovo Savoini “responsabile della Lega per i rapporti con la Russia”. Il 15 Savoini spiegava all’Ansa: “Venerdì saremo in mattinata alla Duma per incontri istituzionali e faremo una conferenza stampa nella sede di Ria Novosti alle 14.30″. Il 18 il segretario fa una puntata nella Piazza Rossa e si fa fotografare con un manifesto anti-referendum costituzionale voluto da Matteo Renzi che recitava “Io voto ‘No’, a dicembre Renzi a casa”. Nella foto c’è anche Savoini, che il 17 a Sputnik News spiegava: “Insieme a Matteo Salvini si tratta della quarta visita in due anni”. E che è protagonista anche di un altro scatto, quello con Salvini e il parlamentare leghista Claudio D’Amico nella sede dell’agenzia Ria Novosti.

6-7 MARZO 2017 – “Il segretario della Lega Nord, Matteo Salvini sarà oggi in visita a Mosca per la firma di un accordo con il partito Russia Unita. Lo ha confermato a Sputnik Gianluca Savoini, a capo dell’associazione culturale Lombardia-Russia”, scrive quel giorno il braccio mediatico di Putin in Occidente.

Il 7 marzo sul profilo Facebook dell’associzione Lombardia-RussiaSavoini pubblica due foto scattate nella capitale russa: la prima lo ritrae in compagnia del suo segretario nella Piazza Rossa e nel post annuncia che sarà in diretta su Radio Padania “per parlare dell’incontro di ieri che sia lui che Matteo Salvini hanno avuto con il ministro degli Esteri Serghiei Lavrov”; nell’altra è in compagnia del capo della diplomazia del Cremlino.

15-16 LUGLIO 2018 – Nelle vesti di vicepremier del governo M5s-Lega Salvini vola nella capitale russa per la finale dei mondiali di calcio Croazia-Francia e con lui, riporta Sputnik, c’è Savoini. Riguardo a questa visita giovedì scorso una portavoce del ministro dell’Interno ha consegnato questo virgolettato a La Repubblica: “Gianluca Savoini non ha mai fatto parte delle delegazioni ufficiali in missione a Mosca con il ministro né a quella del 16 luglio 2018 né a quella del 17 e 18 ottobre dello stesso anno”. Eppure Savoini il 17 luglio 2018 diceva l’esatto contrario allo stesso quotidiano: “Ho sempre fatto parte delle delegazioni in Russia di Matteo Salvini sin da quando veniva in visita nella Federazione come segretario della Lega. Visite che ho contribuito a organizzare“. Nella stessa direzione va una mail del 17 luglio 2018 pubblicata oggi da Buzzfeed, il sito americano che ha pubblicato l’audio integrale dell’incontro del 18 ottobre 2018: “Lunedì scorso (il 16 luglio, ndr) Savoini faceva parte della delegazione di Salvini in veste di membro dello staff del ministro”, scriveva Savoini a Buzzfeed.

17-18 OTTOBRE 2018 – E’ la visita in cui (il 17) Salvini incontra il vicepremier Dmitry Kozak e (il 18) Savoini parla al Metropol Hotel con tre uomini russi di un presunto finanziamento di 65 milioni alla Lega. Colloquio raccontato a febbraio da L’Espresso e di cui Buzzfeed ha pubblicato un audio su internet. Ma Savoini è al fianco del leader anche nelle occasioni ufficiali in Italia. Il 5 luglio 2016 a Milano il Consiglio regionale ha votato e approvato la mozione presentata dalla Lega Nord che vede il riconoscimento della Crimea come parte della Russia e la richiesta di togliere le sanzioni alla Russia. Savoini “immancabilmente presente sul posto“, scrive Sputnik News.

Il 7 giugno 2018  a Villa Abamelek, residenza dell’ambasciatore del Cremlino a Roma Sergey Razov, si tiene il tradizionale ricevimento in omaggio alla festa dell’Indipendenza russa. E chi c’è al fianco del neo-vicepremier del governo gialloverde?

Borghezio: «Savoini è un soldato della Lega. Matteo lo scarica? Fa parte del gioco». Pubblicato domenica, 14 luglio 2019 da Monica Guerzoni su Corriere.it.

«Certo che conosco il Savo, è un mio vecchio amico». 

Mario Borghezio, leghista da una vita. Lei non prende le distanze da Gianluca Savoini?

«Resterò sempre suo amico perché abbiamo la stessa ossatura dottrinale. Persone che, anche quando ci sono le turbolenze, restano ferme come torri. Ma lo sa che quasi sono contento? Per diventare un soldato politico non è male aver affrontato qualche prova dura».

L’indagato è un soldato di Salvini?

«È un soldato della Lega, delle nostre idee». 

Le foto lo ritraggono alla cena di gala con Putin e con Salvini a Mosca, ma il vicepremier dice di non averlo invitato.

«Savoini è presidente dell’associazione Lombardia-Russia non a caso, non è che si occupa della Cambogia. È normale che fosse agli incontri e forse era più interesse della parte russa, che si deve premunire dai mestatori e faccendieri che cercano di infilarsi ovunque». 

Savoini è un mestatore?

«No, si era guadagnato la stima della Russia. Lo consideravano un amico, interlocutore affidabile. Ma la prova assoluta che tutto fosse alla luce del sole è che in questa stagione le casse della Lega sono vuote».

Perché allora Salvini scarica Savoini?

«Sul perché preferirei non dichiarare. Ma si può capire una certa prudenza davanti a un’inchiesta che sembra una spy story». 

Petrolio e rubli dalla Russia per finanziare la Lega alle Europee?

«Della questione affari nulla so e nulla voglio sapere. Ma la linea ufficiale della Lega, “non sappiamo nulla”, è comprensibile. Prudenza doverosa da parte di chi ha responsabilità nel governo, visto il tentativo pesante di montatura indirizzata a colpire Salvini attraverso una persona facilmente identificabile come a lui vicina».

Gentiloni chiede perché Salvini non lo butta fuori. 

«Questa vicenda ha caratteri talmente oscuri che, prima di denigrare un militante leghista e credo anche tesserato, privo di cariche che possano incidere sul governo, ce ne passa».

Aveva gli uffici in via Bellerio, giusto?

«Sì, via Colombi 18, stesso edificio della sede della Lega. Però se io che presiedo la fondazione federalista faccio una caz... non è che questo implichi responsabilità dirette di Salvini».

Lei ha chiamato Savoini?

«Certo. È onesto, ha la schiena dritta e non ha nulla da temere, ma conoscendo i giudici di Milano gli ho consigliato di trovarsi il migliore avvocato, perché la questione è grossa».

È dispiaciuto di essere stato scaricato dal Capitano?

«Tiene botta, non è piagnucoloso. Quando sei nel gioco politico devi dare per scontato che un vicepremier debba difendere una certa posizione e sacrificare i valori dell’amicizia». 

Fu lei a portare Savoini nella Lega? 

«Sì, lo portai alla Padania nel 1997 quando era un giovane corrispondente del Giornale dalla Liguria. Se mi chiede di oggi, le rispondo che uno non viene nominato al Corecom Lombardia se è uno sconosciuto, ma perché c’è una indicazione. Il che non vuol dire che la Lega sia coinvolta, sono due cose diverse».

Ha ascoltato l’audio che inguaia Savoini? «No, ma da civilista avanzo riserve sulla sua attendibilità. È semplice manipolare conversazioni».

Savoini non ha preso soldi dalla Russia? «Se pure ha assistito a una trattativa di questo genere sono certo che non ha chiesto neanche un caffè. Fosse un intrallazzatore, non sarebbe mio amico. È molto competente in geopolitica, il primo a capire l’importanza di aprire alla visione euroasiatica. Non conosco le attività dell’associazione Lombardia Russia ma so che i vertici, Savoini e D’Amico, sono persone per bene». 

È indagato per corruzione internazionale.

«O c’è il finanziamento, oppure quei soldi da parte di uno Stato straniero non ci sono. Se non c’è reato, non c’è motivo di continuare questa speculazione politica e giudiziaria. Al di là di quello che Salvini dice dei suoi rapporti con Savoini, la cosa importante è quando dichiara di non aver preso un rublo».

"Volevo fare fotocopie". Carabinieri a casa Borghezio, l’ex eurodeputato della Lega accusato di furto nell’Archivio di Stato. Il Riformista il 30 Novembre 2019. Sospettato di aver prelevato illegittimamente alcuni documento dell’Archivio di Stato, l’ex deputato al Parlamento europeo della Lega Mario Borghezio ha ricevuto una perquisizione dei carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale dopo le disposizioni della procura di Torino e, nello specifico, del pm Enrica Gabetta. L’episodio sarebbe riconducibile a mercoledì scorso, 27 novembre, quando un funzionario dell’Archivio di Stato ha riferito che Borghezio, appassionato di storia, ha preso delle carte risalenti alla Seconda guerra mondiale (si tratta di documentazione relativa alle misure di prevenzione dei bombardamenti) con l’intenzione di portarle a casa. Borghezio si è difeso parlando di un “equivoco”: “Volevo solo effettuare delle fotocopie“, circostanza questa non consentita dal regolamento.  “In mio possesso – spiega  – non è stato trovato nessun documento originale degli Archivi di Stato, tanto meno dell’Archivio di Torino. Nonostante le complesse e minuziose ricerche effettuate nel mio molto ampio archivio personale”. “Riconfermo – aggiunge all’Ansa – che i documenti che sono stati oggetto dell’intervento all’interno dell’Archivio di via Piave sono di modestissimo valore, trattandosi di vecchie e consunte carte amministrative del periodo bellico”. Al termine della perquisizione effettuata oggi dai carabinieri, sarebbero state trovate solo alcune fotocopie nel ricco archivio di carte e documenti storici nell’abitazione di Mario Borghezio. “A perquisizione ultimata – ribadisce l’avvocato Mauro Anetrini, interpellato dall’Ansa – constatiamo che non è stato rinvenuto nessun documento originale proveniente dall’Archivio di Stato di Torino o da qualsiasi Archivio di altre città”.

La posizione di Conte: «Resto sbigottito dalla Lega che scarica i suoi». Pubblicato domenica, 14 luglio 2019 Marco Galluzzo su Corriere.it. È rimasto «stupito, quasi sbigottito», per come Matteo Salvini, e una buona fetta della Lega, abbiano scaricato, disconoscendolo, Gianluca Savoini.Uno stupore dettato dalla rigidità dei comportamenti dei vertici leghisti, che hanno considerato quasi come un corpo estraneo Savoini, talvolta contraddicendosi, altre ignorando del tutto il curriculum del personaggio, che da più di dieci anni gestisce i rapporti di Salvini con la Russia, il governo russo, le associazioni e il partito di Putin, Russia Unita. Con tanto di post sui social, di fotografie ufficiali, materiale difficilmente smentibile. Ma è rimasto stupito anche dal risultato del controllo minuzioso, scrupoloso, dell’invito fatto pervenire allo stesso Savoini per la cena a Villa Madama con Putin, invito sollecitato per mail da uno dei più stretti collaboratori di Salvini stesso, quel Claudio D’Amico che è consigliere per le attività strategiche di rilievo internazionale di Salvini a Palazzo Chigi, con tanto di ufficio e scrivania.Insomma insieme allo stupore per Giuseppe Conte c’è anche una sorta di fastidio per le reazioni alla vicenda, tutte tese a smentire o minimizzare, tutte coinvolgendo un personaggio, questo Savoini, che Salvini conosce benissimo e dal quale si è fatto rappresentare in più occasioni e più viaggi in Russia. Ma c’è almeno un altro motivo per cui il presidente del Consiglio non è soddisfatto da come è stata gestita la vicenda da parte di Salvini: l’ammissione che qualcosa è andato storto, che esiste qualche mela marcia, gli sarebbe sembrata doverosa. Insomma le richieste sia del Movimento 5 Stelle, sia delle opposizioni, non gli sono sembrate affatto infondate. Se Conte ha detto che sarà la magistratura a dover fare chiarezza, un minimo di chiarezza in più non gli sarebbe dispiaciuto se l’avesse fatta direttamente Salvini.E invece Salvini ha fatto in sostanza spallucce, anche a costo di scaricare una persona che gli è da anni molto vicina e che per un periodo fu persino suo portavoce.Ma a parte Savoini e la registrazione a Palazzo Chigi di una certa preoccupazione di Washington legata alla vicenda — confermata da fonti diplomatiche di alto livello, a riscontro del fatto che la pubblicazione dei nastri dell’incontro non è passata inosservata al Dipartimento di Stato (qualcuno ha anche contato i viaggi di Salvini in Russia, tre, prima di andare a Washington) — da parte di Conte nei confronti di Salvini in questo momento persiste tutta l’irritazione causata dalla convocazione per oggi di tutte le parti sindacali al Viminale. In questo caso la linea è molto chiara: la manovra economica ad ottobre verrà fatta e gestita e coordinata da Palazzo Chigi e dal Ministero dell’Economia, non certo dal ministero dell’Interno. Su questo punto Conte è stato molto chiaro con il suo staff: Salvini può incontrare 40 e passa sigle sindacali, può assumere tutte le informazioni che vuole, ma non è attività istituzionale, li incontra come leader politico, viceversa avrebbe dovuto scegliere Palazzo Chigi come sede dell’incontro. Insomma Salvini «non rappresenta il governo» con un’iniziativa di questo tenore, che «ha un sapore esclusivamente politico, non certo istituzionale».Considerazioni che allontanano, almeno momentaneamente, il presidente del Consiglio dal suo vice, che evidentemente ha deciso l’iniziativa in totale autonomia, senza informare prima il capo del governo, senza concordare una linea comune, dicendo semplicemente che è suo «dovere e diritto» parlare con chi chiunque, assumere informazioni dalle parti sociali. Il modo, però, ha scavato un altro fosso fra Conte e Salvini e non c’è dubbio, conoscendo Conte, che peserà nella costruzione della manovra finanziaria. Una manovra che a giudizio del presidente dovrà essere il frutto di una coralità di apporti, ma con un coordinamento molto stretto da parte di Palazzo Chigi, oltre che del Ministero dell’Economia. Diciamo che l’inizio, se questo è tale, non è dei migliori.

Ilario Lombardo per la Stampa il 14 luglio 2019.«Bpomeriggio Andrea, come d' accordo ti chiedo se gentilmente può essere inserito, per il prossimo Foro di dialogo italo-russo, in programma giovedì 4 luglio al Maeci, anche il dottor Gianluca Savoini, presidente dell' Associazione culturale Lombardia-Russia, come richiestomi dall' onorevole Claudio D' Amico, consigliere per le attività strategiche di rilievo internazionale (del vicepremier Matteo Salvini, ndr)». In questa mail, inviata l' 1 luglio alle 17.32, firmata da "Barbara" e che la Stampa ha potuto leggere, c' è l' impronta digitale, chiara e indelebile, di chi ha invitato Savoini a brindare all' amico Vladimir Putin il 4 luglio a Villa Madama, a Roma. Ed è un'impronta che potrebbe rimanere appiccicata addosso al futuro politico di Salvini, perché capovolge e annulla la sua verità. Di questo stiamo parlando: se il ministro dell' Interno e vicepremier abbia mentito, se di fronte a una cascata di fotografie che dicono il contrario di quello che lui sostiene, che cioè Savoini non sia un suo collaboratore di fiducia, riesca a mantenere una linea difensiva che appare indebolita dai fatti e contenuta in una frase frettolosamente assertiva: «Non è stato invitato da me». Né a Roma, né a Mosca in due occasioni: il 17 luglio 2018, al bilaterale con il ministro dell' Interno russo, e a ottobre, proprio nei giorni della trattativa al Metropol svelata dal sito BuzzFeed. Savoini vaga come un fantasma che aleggia sul destino della Lega, scaricato dal suo leader. Ebbene: l' uomo che dieci giorni fa lo ha portato a Villa Madama e che dunque fa crollare la versione di Salvini è Claudio D' Amico, che nella corrispondenza ufficiale di Palazzo Chigi si fa chiamare ancora onorevole anche se non lo è più dal dicembre 2012. In un' altra mail inviata a Serena, dell' Ispi, l' Istituto di politica internazionale che in questo caso svolge il ruolo organizzativo di segretariato per il Foro, è Raffaella Di Carlo, del diplomatico di Chigi, «su richiesta dell' On.D' Amico» a chiedere di inserire Savoini tra i partecipanti assieme a altri nominativi tra cui il cosmonauta Walter Villadei. E dunque la triangolazione era la più semplice, portata all' evidenza dalla consuetudine delle relazioni. D' Amico e Savoini sono i due filoputiniani della Lega, gli uomini che hanno tessuto la rete dei contatti di Salvini con il Cremlino e gli oligarchi di Mosca. Di casa nella capitale russa, dove sono stati decine di volte, e quasi sempre a fianco del leader del Carroccio. Per dire: il 15 novembre 2016 a Mosca la Stampa ascolta una telefonata di D' Amico con gli organizzatori di un incontro avvenuto con i parlamentari del M5S a Mia Rossiya Segodnya. Salvini non vuole farsi scippare il titolo di amico di Putin dai grillini e dà mandato a D' Amico di organizzare subito un viaggio in Russia. Tre giorni dopo, l' allora semplice segretario della Lega è a farsi fotografare in Piazza Rossa. L' ex deputato D' Amico oggi è assessore alla Pubblica Sicurezza a Sesto San Giovanni. Ma soprattutto è responsabile dello "sviluppo progetti" dell' associazione presieduta da Savoini e siede nell' ufficio del vicepremier a Chigi con un ruolo cruciale in ambito internazionale. I due soci si spalleggiano, uno fa in modo che l' altro sia presente alla serata di gala organizzata dal premier, e lo fa usando il proprio ruolo, pagato, di braccio destro di Salvini nel palazzo del governo. Il vicepremier, che si porta dietro entrambi ogni volta che incontra qualcuno che parla in cirillico poteva non sapere? Savoini è nella lista degli invitati al vertice del Foro di dialogo italo-russo previsto alla Farnesina il giorno della visita di Putin. È il primo vertice dal 2013, quando ancora su Mosca non gravavano le sanzioni europee per la guerra in Ucraina. Il ritardo del capo del Cremlino farà poi saltare l' incontro e tutti i presenti andranno a Villa Madama. Nello scambio di mail che prepara l' evento sono coinvolte una ventina di persone e in copia ci sono Palazzo Chigi, il ministero degli Esteri, il Foro di dialogo italo-russo, nella persona della presidente uscente Luisa Todini, e l' Ispi. Barbara, della segreteria di D' Amico, scrive al sottoposto del consigliere diplomatico del premier, Andrea, che a sua volta gira a Ispi e in conoscenza a Todini. È l' ultimo Foro che organizza l' ex presidente di Poste. Dopo 15 anni, Todini lascia la presidenza a Ernesto Ferlenghi, presidente di Confindustria Russia. Capo di Eni a Mosca fino al 2014 e vicepresidente dell' azienda, Ferlenghi è altra figura cruciale in questa storia, perché è lui a organizzare il convegno in Russia a cui partecipa Salvini a ottobre ed è lui anche a premere attraverso messaggi Whatsapp per assicurarsi che Savoini venga inserito nella lista del Foro. In serata «La Stampa» sollecita il premier Conte a rispondere in merito allo scambio di mail. La nota che arriva da Palazzo Chigi conferma la ricostruzione e precisa che come «già anticipato il presidente del Consiglio non conosce personalmente il sig. Savoini» e «dopo aver compiuto tutte le verifiche del caso» che «l' invito del sig. Savoini al Forum è stato sollecitato dal sig. Claudio D' Amico tramite l' ufficio di Vicepresidenza», «in virtù del ruolo dell' invitato» di presidente dell' associazione. D' Amico, continua la nota, «ha chiesto ai funzionari del presidente del Consiglio di inoltrarla agli organizzatori del Forum». L' invito alla cena offerta da Conte «è stata una conseguenza automatica della sua partecipazione al Forum».

Lega e fondi russi, Salvini: «Conosco Savoini da 25 anni, persona corretta». Pubblicato martedì, 16 luglio 2019 da Corriere.it. «Conosco Savoini da 25 anni, lo conosco dai tempi dell’Università Statale di Milano. L’ho ritenuto una persona corretta e continuo a ritenerlo una persona corretta». Il vicepremier Matteo Salvini torna sul caso fondi russi e Lega parlando proprio del suo rapporto con il presidente dell’associazione Lombardia-Russia, al momento unico indagato dalla procura di Milano. Il ministro dell’Interno ha anche parlato dei rapporti con la Russia: «Ci sono legami culturali legittimi di cui sono sostenitore che nulla hanno a che fare con le questioni economiche». E sulla vicenda legata ai presunti rapporti tra la Lega e la Russia Salvini ha chiarito che è pronto a riferire in Parlamento: «Certo che andrò in Parlamento, è il mio lavoro. Ci vado per il question time e a quello che mi chiedono io rispondo, rispondo sulle cose più varie ed eventuali». Tutto questo dopo la scelta di Gianluca Savoini di non rispondere ai pm nell’ambito dell’indagine sui soldi russi alla Lega e su quell’incontro dell’ottobre 2018 al bar dell’hotel Metropol di Mosca. Una decisione «puramente tecnica», ha detto il legale di Savoini: «Considerato che, per ora, siamo di fronte a un’inchiesta giornalistica trasferita in sede penale, preferiamo aspettare il deposito degli atti da parte della Procura», ha aggiunto la legale. Intanto il procuratore di Milano Francesco Greco ha detto che non c’è necessità da parte della procura milanese di sentire Matteo Salvini. In questo clima teso il vicepremier leghista svela un retroscena in merito al missile e alle armi sequestrate lunedì a un gruppo neonazista filoucraino a Torino. Secondo Salvini l’operazione è stata condotta nell’ambito di un’indagine sulla preparazione di un attentato contro di lui: «L’ho segnalata io - ha detto il ministro dell’Interno -.Era una delle tante minacce di morte che mi arrivano ogni giorno. I servizi segreti parlavano di un gruppo ucraino che attentava alla mia vita. Sono contento sia servito a scoprire l’arsenale di qualche demente». «Penso di non aver mai fatto niente di male agli ucraini - ha detto ancora Salvini - ma abbiamo inoltrato la segnalazione e non era un mitomane. Non conosco filonazisti. E sono contento quando beccano filo-nazisti, filo-comunisti o filo chiunque».

Salvini, gelo su Di Maio: devo andare in Parlamento a parlare di cene? Pubblicato domenica, 14 luglio 2019 da Monica Guerzoni su Corriere.it. È con un silenzio di ghiaccio, studiato e ostentato, che Matteo Salvini replica all’assedio delle opposizioni e al fuoco amico degli alleati. Il leader della Lega non sente, non vede, non parla. O almeno, finge di non sentire la voce di Giuseppe Conte che scarica sulle sue spalle la presenza dell’indagato Gianluca Savoini agli eventi ufficiali del governo. E ignora, o almeno finge di ignorare, l’insistenza con cui Luigi Di Maio in asse con Palazzo Chigi gli chiede di riferire in aula sull’affaire dei presunti finanziamenti russi.«Non è per mancanza di rispetto verso il Parlamento — ha spiegato ai suoi il vicepremier leghista —. È che se pure andassi a riferire al Senato non avrei proprio niente da dire». E poi, come per rispondere indirettamente e freddamente alla nota ufficiale del presidente del Consiglio: «Di cosa dovrei parlare in aula, di cene?». Oggi il faccendiere con ufficio in via Bellerio, sede del Carroccio, dovrà spiegare ai pm di Milano quell’audio diffuso dal sito americano Buzzfeed, in cui parla di gasolio e rubli tra i marmi e i velluti dell’hotel Metropole di Mosca. Ma per Salvini, Savoini sembra essere poco più un fantasma. E così Claudio D’Amico, l’ex deputato leghista che la presidenza del Consiglio definisce «consigliere per le attività strategiche di rilievo internazionale» di Salvini: colui insomma che avrebbe strappato l’invito per Savoini alla cena del 4 luglio a Villa Madama, offerta dal premier in onore di Vladimir Putin. «Di D’Amico non parliamo», si tengono alla larga i collaboratori del «Capitano» e spiegano come Salvini, per quanto sdegnato per lo «scaricabarile» di Conte e Di Maio, si sia convinto che lo tsunami mediatico e giudiziario passerà presto, come è stato per il caso di Armando Siri: «Ne avete più sentito parlare, dopo che è stato costretto a dimettersi da sottosegretario?». Dipinto come isolato e in difficoltà, Salvini vuole si sappia che lui è «tranquillissimo, niente affatto nervoso, per nulla preoccupato» e molto concentrato sull’incontro di oggi al Viminale con sindacati e associazioni, per impostare la manovra economica e far vedere chi davvero conta nel governo. Un appuntamento che sa di sfida a Giuseppe Conte e che il segretario della Lega offre all’interpretazione dei media come la prova che il ministro dell’Interno «si occupa di cose concrete» e non ha tempo per replicare agli attacchi, alle insinuazioni e alle polemiche. «Io rispetto i magistrati, lasciamoli lavorare con fiducia e non diciamo nulla finché l’inchiesta è in corso — è il senso dei suoi ragionamenti —. Questa storia russa è poco più di un gossip e sa molto di montatura. Sono convinto che si sgonfierà presto». E se i 5 Stelle lo pressano da ogni parte sbandierando una presunta diversità etica, se Di Maio ha (quasi) perso la pazienza con «l’amico Matteo» ed Enzo Moavero Milanesi gli pesta i piedi rivelando al Corriere il piano per i migranti che oggi stesso porterà in Europa, Salvini giura di non sentirsi assediato. «Non voglio alimentare una polemica sterile, che mi sembra strumentale a un disegno», ripete per placare le ansie dei parlamentari leghisti. Quanto alla tenuta della maggioranza, Salvini ha cambiato spartito e ha smesso di dichiarare che «si va avanti». Ora il leitmotiv del vicepremier nei colloqui riservati è un altro: «Il governo non cade su Savoini, cade se non si fanno le cose». Dove «le cose», per dirla in lingua leghista, sono l’autonomia, il decreto sicurezza bis e il taglio delle tasse.

Federico Capurso per “la Stampa” il 15 luglio 2019. Il filo rosso del "caso Savoini", che scorre tra ambienti politici russi e leghisti, si sta stringendo pericolosamente intorno ai già fragili equilibri dell' esecutivo, isolando Matteo Salvini dentro e fuori il governo. È il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, in mattinata, a scaricare pubblicamente sul leader del Carroccio le responsabilità della presenza di Gianluca Savoini alla cena organizzata a Villa Madama lo scorso 4 luglio, in occasione della visita di Vladimir Putin. Non offre sponde a Salvini nemmeno Luigi Di Maio, che anzi lo invita a rispondere in Parlamento, sposando la richiesta del segretario del Pd Nicola Zingaretti. Eppure, tra chi brucia l' ossigeno intorno al leader della Lega, non c' è nessuno che coltivi davvero l' idea di poter tornare alle urne. Il colpo più doloroso, perché inaspettato, viene inferto dal premier. Un «doveroso chiarimento» che Conte affida a una nota con la quale conferma - come anticipato ieri da La Stampa - che «l' invito di Savoini al Forum è stato sollecitato da Claudio D' Amico, consigliere per le attività strategiche di rilievo internazionale del vicepresidente Salvini». Per Palazzo Chigi è proprio D'Amico, tramite l' Ufficio di vicepresidenza di Salvini, ad aver giustificato l' invito «in virtù del ruolo di Savoini di presidente dell' Associazione Lombardia-Russia» e ad aver chiesto «ai funzionari del premier di inoltrarla agli organizzatori del Forum. L'invito alla cena del sig. Savoini è poi stata una conseguenza automatica della sua partecipazione al Forum». Di Maio sa che questa è l'occasione buona per mettere davvero in difficoltà il suo alleato. Non lo ha mai visto così nervoso. Ecco perché - pur senza mai nominarlo - cerca di gettare il più a lungo possibile un riflettore su Salvini e sui suoi problemi: «Quando il Parlamento chiama, il politico risponde, perché il Parlamento è sovrano e lo dice la nostra Costituzione». Fa filtrare di essere «irritato» dall'irriverenza con cui Salvini schernisce le inchieste di giornalisti e magistratura, pretende «chiarezza», invoca «serietà». Ma l' attacco diretto non è possibile. La finestra per tornare al voto a settembre non si è ancora chiusa e i sondaggi, vera bussola del Movimento, non hanno dato ancora segnali incoraggianti. «Aspettiamo una settimana per leggere le intenzioni di voto - ragionano i vertici del Movimento - Ma la recente storia politica ci ha abituati a non vedere reazioni dagli italiani di fronte alle ombre che si allungano sull' uomo forte del momento». Gli uomini di Di Maio evocano Berlusconi, «che continuava a vincere, nonostante le inchieste», e anche il caso più recente di Armando Siri, sul quale «abbiamo martellato fino al giorno prima delle Europee, ma sappiamo bene come sono andate a finire». Dunque, più di tutto, occorre prudenza: «Quando si ha la certezza di essere strumentalizzati - aggiunge infatti Di Maio -, l' Aula diventa anche un' occasione per dire la propria, difendersi e rispondere per le rime alle accuse, se considerate ingiuste». La posizione dei Cinque stelle, però, si annoda a quella dei Dem, e anche questo è motivo di preoccupazione in casa Lega. È Zingaretti a chiamare al telefono i due presidenti di Camera e Senato, Roberto Fico ed Elisabetta Casellati, per chiedere un incontro e valutare insieme le modalità con cui il governo dovrebbe riferire in Aula. Oggi i due presidenti informeranno il ministro per i Rapporti con il Parlamento Riccardo Fraccaro, e sarà la conferenza dei capigruppo a mettere in calendario l' interrogazione per Salvini. Nella Lega, per ora, l' argomento "Savoini-Russia" è tabù. Lo stesso Salvini sui social glissa: «Mentre altri si occupano di fantasie, noi lavoriamo sui problemi concreti: riforma del diritto di famiglia e inchiesta sulle case famiglia». Come ripete da giorni: «Voglio parlare di cose concrete».

Amedeo La Mattina per “la Stampa” il 15 luglio 2019. Matteo Salvini non vuole parlare di «fantapolitica», di cose che non esistono, lontane dalla realtà, dalle questioni reali del Paese. «È totalmente concentrato sull' incontro al Viminale con le parti sociali», dicono i suoi collaboratori facendo riferimento al vertice di oggi con 40 sigle sindacali e associazioni di categoria. Un modo per dimostrare che la Lega vuole mantenere il contatto con la realtà economica del Paese e non si perde in «chiacchiere e pettegolezzi». «Salvini è tranquillo - dicono le stessi fonti - possono fare tutte le inchieste giudiziarie e parlamentari del mondo: non verrà fuori un rublo». Altra cosa è invece la storia dell' invito di Gianluca Savoini alla cena a Villa Madama in occasione della visita del premier russo Vladimir Putin. Un invito arrivato al servizio diplomatico di Palazzo Chigi con una mail partita dagli uffici di Salvini su indicazione di Claudio D'Amico, consigliere del vicepremier leghista a Palazzo Chigi. In casa Carroccio sostengono che il capo non ne sapesse proprio nulla, che D'Amico conosce da vent'anni Savoini e lo ha fatto inserire nell' elenco degli invitati in veste di presidente dell' Associazione Lombardia-Russia. «Nulla di strano e di scandaloso. Si tratta comunque di una iniziativa personale di D'Amico», spiegano i leghisti. Viene così scaricato anche lui, dopo averlo fatto con Savoini all' indomani della diffusione della registrazione rubata all'hotel Metropol di Mosca in cui si sentono imprenditori e affaristi parlare della vendita di una grande quantitativo di petrolio. Altra precisazione di fonte leghista: Salvini non ha mai negato di conoscere Savoini, ma di avere precisato che non faceva parte della delegazione del ministro dell' Interno. Ora però gira voce, non confermata e non smentita, che D'Amico potrebbe essere allontanato da Palazzo Chigi. E fin qui siamo alle faccende interne di partito. Ma poi c'è un altro aspetto, tutto politico, che ha irritato il leader del Carroccio. Quello di aver svelato prima ad alcuni giornali sabato sera e ieri con una nota ufficiale il nome di D'Amico. Il ministro dell'Interno non pensa che questo provi nulla di particolare, ma considera «sleale» il comportamento di premier Conte. È stato infatti autorizzato dal premier la diffusione del nome, come a volere prendere le distanze dal suo vice. «È stato sleale. Mi ha colpito alle spalle», avrebbe detto Salvini. C' è una sorta di consegna del silenzio in alcuni ambienti del Carroccio, quelli autorizzati a parlare ufficialmente. Non si devono alimentare polemiche e sospetti nei confronti degli alleati, non bisogna replicare alle provocazioni di Luigi Di Maio che invita Salvini ad andare in Parlamento per chiarire la vicenda, come chiede il Pd: e se è necessario, aggiunge il grillino, si faccia pure una commissione d' inchiesta ma sul finanziamento di tutti i partiti. Questo invito e il modo di buttare la palla in tribuna da parte del vicepremier 5 Stelle non è piaciuto a Salvini, che di tutto questo non vuole sentir parlare. «Ha la coscienza pulita, c' è un' inchiesta in corso: ha fiducia nell' operato della magistratura», sottolineano ancora i suoi collaboratori. Ma il capo, aggiungono altri in maniera più esplicita, comincia ad avere dei sospetti che si agganciano a quel comportamento «sleale» di Conte che, svelando il nome di D' Amico, ha voluto allontanare da sé ogni sospetto. Il sospetto che i 5 Stelle si stiano preparando anche all' ipotesi che il Russiagate in salsa italiana possa avere sviluppi imprevisti e molto negativi per la Lega. I grillini stanno monitorando i sondaggi per vedere se questa storia, mano a mano che emergeranno altre circostanze imbarazzanti (se emergeranno), farà calare i consensi all' alleato. Solo allora potrebbero fare una mossa di rottura. «C'è il rischio - spiega una fonte di primo piano del Carroccio - che i grillini ad un certo punto ci mollino e poi, non avendo il coraggio di andare ad elezioni, facciano un altro governo o sostengano un altro governo contro di noi. Un governo di unità nazionale, mettendo all'opposizione il partito che alle elezioni europee è diventato il più grande». Sospetti di altre pugnalate alle spalle nei confronti di alleati che «potrebbero creare le condizioni per rompere». «Poi magari sarà Matteo (Salvini ndr) a giocare di anticipo e mollare loro, cogliendo una buona occasione, perché non è vero che la finestra per votare in autunno si chiude il 20 luglio». I leghisti che non devono dire le cose ufficiali e parlano senza remore dicono questo, ma sperano che non venga fuori altro da Mosca.

Matteo Salvini, agguato politico: "Conte sleale, mi ha pugnalato alle spalle". Libero Quotidiano il 15 Luglio 2019. Il problema di Matteo Salvini non è giudiziario, ma politico. Sul caso Savoini il leader della Lega si dice tranquillo: "Possono fare tutte le inchieste giudiziarie e parlamentari del mondo: non verrà fuori un rublo". Ma sui presunti fondi russi al Carroccio, il vicepremier ha accolto con delusione e rabbia la reazione dell'alleato grillino Luigi Di Maio e soprattutto quella del premier Giuseppe Conte. Il primo ha invitato Salvini a presentarsi in Parlamento per rispondere sul caso, aprendo a una commissione d'inchiesta sui finanziamenti ai partiti che fa sponda a quella "ad hoc" sulla Lega annunciata dal Pd. Conte, invece, ha preso le distanze dalla Lega per la presenza di Gianluca Savoini a Palazzo Madama, in occasione della cena ufficiale con Vladimir Putin. Palazzo Chigi non c'entra nulla con l'invito, ha spiegato il premier in una nota ufficiale, "l'invito è stato richiesto dal consigliere di Salvini, Claudio D'Amico". "È stato sleale. Mi ha colpito alle spalle", si sarebbe sfogato Salvini con i suoi uomini, a proposito di Conte.  E la linea difensiva, come con Savoini a Mosca nell'ottobre 2018, non cambia: il leader leghista non c'entra nulla, l'invito a Palazzo Madama è stata tutta farina del sacco di D'Andrea, "una iniziativa personale".

Pd, Gentiloni: “Perché Salvini non dice che Savoini è un mariuolo? Gisella Ruccia il 12 Luglio 2019 su Il Fatto Quotidiano. “Caso Lega-Russia? Perché Salvini non dice che Savoini è un imbroglione, un mariuolo, una mela marcia? E non a caso ho scelto due espressioni non casuali”. Così, ai microfoni di “24 Mattino”, su Radio 24, il presidente del Pd, Paolo Gentiloni, si pronuncia sulla vicenda che ha riguardato la Lega e lo fa citando Bettino Craxi, quando gli chiesero di definire Mario Chiesa.

Marcucci: «Salvini ricorda Craxi quando scaricò il “mariuolo” Chiesa». Giulia Merlo il 13 luglio 2019 su Il Dubbio. Andrea Marcucci, capogruppo del Pd in Senato sul “caso Rubli”: «Serve una commissione d’inchiesta e anche un’informativa esaustiva del premier Conte in aula»

Qualche potenziale affinità con la stagione di Tangentopoli?

«Quando sento Salvini scaricare Savoini, che è stato suo portavoce e che lo accompagna in tutte le visite ufficiali in Russia o è al suo tavolo alla recente cena al Quirinale in onore di Putin, mi torna in mente Craxi quando definì Mario Chiesa un mariuolo».

La Lega ci crede: «Contro di noi un complotto di Fi, Pd e 5Stelle». I leghisti sono convinti che dietro il “caso Rubli” ci sia lo zampino di Putin. Paolo Delgado il 13 luglio 2019 su Il Dubbio. «La situazione è chiara», spiegava due giorni fa un dirigente leghista di primissima fila, con espressione tanto sicura quanto allarmata, mentre montava l’onda del Russiagate all’amatriciana. «E’ una manovra – entrava nel dettaglio il leghista – per arrivare a un governo con dentro tutti tranne noi, che durerebbe per l’intera legislatura». Inutile strabuzzare gli occhi e segnalare che per tenere Berlusconi, Zingaretti e Di Maio insieme per anni ci vorrebbe, più che Savoino, il mago Merlino. Quando si arriva al complotto anche dirigenti di vasta e provata esperienza, nella politica italiana, soccombono al fascino della trama occulta. In questo caso, poi, di possibili trame internazionali ce ne sono a bizzeffe. Quella già citata non è infatti la sola. C’è chi subodora lo zampino di Putin nel fattaccio, un po’ per “punire” l’avvicinamento dell’amico padano a Donald Trump, un po’ per offrire lo scalpo del ruggente ai nuovi amici tedeschi. In fondo anche lì è in corso un riavvicinamento, e di maggior momento rispetto all’idillio tra Salvini e the Don. Ma non manca chi invece individua proprio nella Casa Bianca la regia dello scandalo, con l’obiettivo di rendere definitivo il divorzio tra il ruggente leghista e l’orso russo. Manovra un po’ macchinosa, impossibile negarlo, ma appunto: di fronte al complotto nessun intrigo, per gli eletti come per gli elettori italiani, suona mai del tutto incredibile. Neppure si può dire che i leghisti, al momento sotto tiro, siano di solito in cima alla classifica della paranoia politica, anche se quando esplose il caso Siri un pensierino e forse qualcosa in più sulla singolare coincidenza tra la scottante inchiesta e l’approssimarsi delle elezioni europee lo avevano già fatto. Ma su quel podio campeggiano comunque i soci a cinque stelle, che di complotti a loro danno ne sospettano a mazzi. Il disastro di Roma? «Un complotto dei poteri forti, che bruciano autobus e impediscono di smaltire rifiuti per togliersi di torno la sindaca più onesta». Il declino elettorale? «Una manovra dei media nazionali e internazionali, e dei loro potenti padroni, per nascondere i risultati di Di Maio». Le asperità incontrate nella missione di quadrare il cerchio dei conti pubblici: «Un sabotaggio dei tecnici del ministero dell’Economia» . Non che chi oggi è all’opposizione possa scagliare pietre di sorta. Renzi ha inanellato per anni una sfilza di errori politici, ma la responsabilità della sconfitta l’ha sempre attribuita al sabotaggio dei gufi, all’esterno e soprattutto all’interno del suo partito. Berlusconi ha speso un paio di decenni oscillando tra la denuncia di svariati golpe imbastiti dalla magistratura rossa e quella di un intrigo internazionale ordito tra Bruxelles, Berlino e Parigi. Salvo poi convertirsi negli ultimi anni a un europeismo in stridente contrasto con quelle non lievi accuse. Il problema non sta nel tentativo di scaricare ogni responsabilità da parte delle varie forze politiche, che in Italia raggiunge in effetti vette toccate di rado ma nel complesso fa parte di una liturgia politica comune a tutti e ovunque. Il punto dolente è che, nove volte su dieci, a quei complotti i leader politici credono davvero. Da questo punto di vista la distanza tra rappresentati e rappresentanti è quasi inesistente, e forse non potrebbe essere diversamente dal momento che sono cresciuti entrambi in una cultura convinta che nulla sia mai come sembra, che i burattinai siano sempre nell’ombra, che la stessa assenza di prove di un presunto complotto dimostri non che il complotto è inesistente ma, al contrario, l’estrema potenza dei congiurati che riescono anche a distanza di decenni a occultare ogni traccia dei loro misfatti. Non è una faccenda recente. Affonda le proprie radici nella prima Repubblica e nella sua decadenza. Nella P2, nella stagione sanguinosa delle stragi, nei presunti “misteri del caso Moro”. Poggia sull’assunto pasoliniano diventato poi a tutti gli effetti motto nazionale: “Io so anche se non ho le prove”. I risultati sono doppiamente disastrosi: prima di tutto perché intere strategie politiche finiscono spesso per essere impostate con la convinzione di dover fronteggiare non solo e non tanto i rivali politici conclamati ma registi che agiscono nell’ombra. In secondo luogo, e soprattutto, perché quella convinzione, proprio perché delegata a rassicurare se stessi ancora più che a fornire alibi agli occhi degli elettori, finisce per impedire di fare i conti con la realtà. E rende i problemi irresolubili.

Salvini e il caso del missile: frasi della spia dell’Est ma dalle verifiche nessun indizio. Pubblicato martedì, 16 luglio 2019 da Elisa Sola su Corriere.it. La spia venuta dall’Est aveva riferito quasi un anno fa — agosto 2018 — di aver sentito parlare, in Ucraina, di un attentato contro il ministro dell’Interno italiano. Voci circolate in ambienti che conosceva e frequentava nella Repubblica sul Mar Nero, niente di più preciso. Ricevuta l’informazione, servizi segreti nostrani e polizia di prevenzione si mettono al lavoro, alla ricerca di qualche appiglio per verificarne l’attendibilità, ma senza risultato: non trovano alcun riscontro all’ipotesi di un progetto terroristico ai danni di Matteo Salvini. L’unica conferma che si riesce a ottenere sul racconto del cittadino russo sedicente ex agente del Kgb, attiene a ciò che lo riguarda direttamente: effettivamente tanto tempo fa, negli anni Ottanta, ha avuto a che fare con gli apparati di sicurezza sovietici. Ma quel che ha detto di aver ascoltato in Ucraina rimane senza prove. Nemmeno un indizio. Ciò nonostante, lo scrupolo degli investigatori antiterrorismo porta ad estendere le indagini — coordinate dalla Procura di Torino — su un altro fronte che poteva essere ricompreso nella soffiata dell’ex spia sovietica: quello dei miliziani reclutati in Italia per andare a combattere nella regione del Donbass, l’area orientale dell’Ucraina dove gli insorti filorussi hanno dichiarato guerra al governo di Kiev.Sono così finiti sotto intercettazione alcuni aspiranti guerriglieri (estremisti di destra in realtà vicini al battaglione Azov, quindi nazionalisti e filogovernativi che contrastano gli insorti) per vedere se dai loro discorsi poteva affiorare qualcosa che potesse riguardare l’inquilino del Viminale. Ma ancora una volta, per intere settimane, le microspie non hanno registrato nulla di utile. Finché, circa quattro mesi fa, uno degli intercettati ha ricevuto la telefonata di un bolognese che gli proponeva l’acquisto di un missile, per il quale era stato a sua volta contattato. Sentendosi rispondere che si trattava di un’idea troppo pericolosa, per la quale si rischiava la galera. Tuttavia la sola proposta ha determinato l’avvio di una nuova indagine, separata e stralciata da quella iniziale e senza esito sul presunto attentato a Salvini. Per un ipotetico traffico d’armi. Gli investigatori hanno seguito e intercettato il mediatore bolognese, finché hanno deciso di perquisirlo. Da lì è saltato fuori il missile, grazie a una fotografia inviata via WhatsAppda Fabio Del Bergiolo, il sessantenne di Gallarate che nel 2001 si era candidato al Senato per Forza Nuova (senza successo). A casa sua gli investigatori hanno trovato un arsenale di armi di varia provenienza: austriaca, tedesca e statunitense. Arrestato in flagranza, l’uomo ha svelato anche il segreto del missile, conducendo i poliziotti presso l’hangar di Rivazzano Terme dove era custodita l’arma aria-aria con esplosivo e propellente attivo. Che però, per essere lanciato, ha bisogno di un aereo. Lo stesso Del Bergiolo ha chiamato in causa l’amico e collega d’affari Alessandro Monti. Ramo d’attività: commercializzazione aerei. Era stato lui a fargli vedere il missile e consentirgli di scattare le foto (in un altro deposito) per metterlo in vendita. Di qui il fermo di Monti e di Fabio Bernardo, l’altro titolare della ditta Star Air Service, su ordine della Procura di Torino. Reato contestato: violazione della legge 497 del 1974 contro la criminalità organizzata «per aver detenuto e posto in vendita un’arma da guerra del tipo missile aria-aria Matra R530 delle forze armate del Qatar, attivo e in perfetto stato di conservazione». L’inchiesta prosegue ora soprattutto per capire la provenienza del missile e delle armi custodite da Del Bergiolo. In particolare sono stati avviati contatti con le autorità del Qatar, che si sono dichiarate e mostrate molto collaborative, per ricostruire i passaggi del missile prima di arrivare a Monti e al suo socio. Niente a che vedere, al momento, con l’estremismo di destra. E neanche con l’Ucraina o eventuali finalità di terrorismo. Men che meno con un possibile attentato al ministro dell’Interno. L’unico legame con le asserite minacce a Salvini sta nell’innesco dell’indagine: l’ex spia sovietica che nulla sapeva del missile scoperto a Rivazzano Terme.

Matteo Salvini e i fondi russi, sospetto Lega. "Ricordate il 20 giugno?", avvertimento dopo il viaggio in Usa. Libero Quotidiano il 14 Luglio 2019. Nella Lega il responsabile del "caso-rubli" ha un nome e cognome, e non è quello di Gianluca Savoini. Semmai, scrive il Messaggero in un suo retroscena, gli uomini di Matteo Salvini pensano che la trappola sia stata orchestrata dai servizi segreti americani, "irritati per i rapporti forti tra la Lega e il Cremlino". Un avvertimento che ne ha fatto venire in mente un altro, sospetto: "lo scorso 20 giugno, due giorni dopo il ritorno di Salvini dal viaggio a Washington, uscì un rapporto molto duro di Mike Pompeo, segretario di Stato americano, sulla lotta al traffico di immigrati". Quel dossier portò Roma a essere "declassata a livello 2" e irritò profondamente Salvini. Forse era solo l'antipasto di un piatto ancora più indigesto. 

 DALLA CINA. Lao Xi: Russiagate, cosa deve dire Salvini per non finire come Craxi. Il Sussidiario il 15.07.2019. Questa settimana è l’ultima a disposizione di Salvini per disinnescare il Russiagate e una crisi di governo che la Lega dovrebbe subire. L’argomento della settimana entrante non sarà la vicenda dei migranti da respingere in Africa, come sembrava dovesse essere dieci giorni fa e come pareva sperare il vicepremier e leader della Lega Matteo Salvini. Il tema vero sarà quello delle relazioni pericolose tra Salvini e la Russia, un tema su cui il leader leghista sembra avere perso già i nervi. Qui il nodo, per ora, è chi era amico di Gianluca Savoini, l’uomo che nella registrazione pubblicata dichiara che Salvini non vuole obbedire all’America e all’Europa ma vuole allearsi con Mosca. Il premier Giuseppe Conte in merito ha farfugliato cose incomprensibili, inframmezzando di non conoscerlo personalmente. Una sortita leguleia che sta per: so bene chi è ma non è mio compagno di giochi. Per Salvini il rapporto con Savoini è certamente più stretto, almeno a vedere le decine di foto pubblicate su tutti i giornali. Il vicepremier appare sempre più confuso. Ha tentato di metterla in ridere, ha cercato di fingere indifferenza e minimizzare. Ma ogni tentativo ha finora ingigantito la cosa, come quando ai tempi di Mani Pulite l’allora segretario del Psi Bettino Craxi con un gioco di parole definì Mario Chiesa, il suo primo uomo incappato nelle maglie della giustizia, un “mariuolo isolato”. In realtà, come ai tempi di Chiesa, oggi la tempesta del Russiagate in cotoletta sta montando ma non è ancora diventata uragano. Però la progressione è rapidissima e forse Salvini ha solo la settimana prossima per districarsene. Dopo, come per Craxi allora, potrebbe essere troppo tardi. Quello che Salvini potrebbe e dovrebbe fare nelle prossime ore è capire il punto politico della vicenda. Dovrebbe dire in sostanza: “io sono fedele all’America e all’Europa e non voglio allearmi alla Russia. Conosco bene Savoini ma lui era lì per tenere contatti, non prendere iniziative e tantomeno attribuirmi tesi politiche che non mi appartengono”. Dopodiché dovrebbe coprirsi il capo di cenere e fare il giro degli alleati a giurare che non succederà mai più. Naturalmente questa è un’operazione delicata e pericolosa, perché Savoini e Mosca potrebbero reagire. Quindi ci vorrebbero nervi saldi, profondità di analisi e determinazione. Salvini possiede tutto questo? Lo scenario più probabile invece è che la settimana trascorra in modo inconcludente, con solo una montagna di rivelazioni e dettagli in più che renderanno le azioni della Lega ed il suo leader sempre più confuse. Quindi potrebbe arrivare una tempesta per agosto, quando i mercati sono “sottili” e pochi investimenti in alto o in basso creano sbalzi straordinari. Oppure, anche se agosto passasse liscio, alla ripresa, in settembre, la finanziaria si farebbe tutta all’ombra del Russiagate. Mani Pulite arrivò quando l’Italia era un’economia molto solida e aveva la lira (senza le costrizioni della moneta unica). Oggi il Russiagate arriva con la moneta unica, un’economia traballante e nell’impellenza di varare una finanziaria di lacrime e sangue. Riesce l’Italia a sopportare tutto questo? In tutto ciò, almeno per ora, per fortuna di Salvini, non ci sono alternative chiare. Il partito di opposizione Pd pare un vecchio motore diesel, che fa fatica a mettersi in marcia, e poi ha tanti “gerarchi” che forse tirano contro il loro segretario Nicola Zingaretti più che contro Salvini. Ma anche i diesel alla fine si mettono in moto e l’aria di sta riempendo di odori di crisi di governo ed elezioni anticipate burrascose dove ogni esito è incerto. 

COME MAI L'AUDIO DI MOSCA, GIÀ RACCONTATO DA ''L'ESPRESSO'', HA FATTO CASINO SOLO DOPO ESSERE FINITO SU ''BUZZFEED''? Gian Micalessin per ''il Giornale'' il 16 luglio 2019. Per capire la stangata a Matteo Salvini basta leggerne la trama e seguirne i tempi. Ma soprattutto chiedersi se un'intercettazione ambientale acquisita da inquirenti inviati in missione a Mosca senza mandato della magistratura possa acquisire dignità di prova giudiziaria. O se per farlo non dovesse prima trasformarsi in «elemento notorio» grazie alla provvidenziale pubblicazione su BuzzFeed. Per capire l'importanza del quesito, avanzato da una fonte del Giornale, bisogna seguire tre date. La prima è quella del 18 ottobre 2018 quando Gianluca Savoini incontra i suoi interlocutori russi e italiani nella hall dell'Hotel Metropol di Mosca. La seconda è quella del 24 febbraio quando il settimanale L'Espresso pubblica in anteprima il capitolo de Il Libro Nero della Lega in cui gli autori Giovanni Tizian e Stefano Vergine presentano lo scoop realizzato a Mosca. La terza è quella di giovedì 11 luglio quando BuzzFeed, sito famoso negli Usa per rivelazioni a cavallo tra scandalo e pettegolezzo, pubblica la registrazione e la trascrizione dei colloqui del Metropol. Partiamo dal 18 ottobre 2018. Per capire come la stangata non sia frutto dell'improvvisazione, ma sia stata programmata da tempo basta la presenza a Mosca del giornalista Giovanni Tizian. Figlio di una vittima della ndrangheta, Tizian è un cronista di razza che si è fatto le ossa raccontando le infiltrazioni mafiose nel Nord e vive sotto scorta. Lui stesso ammette di non essere arrivato a Mosca per caso. Assieme a Vergine indaga sui soldi della Lega da tempo, ma in quella precisa occasione ha ottenuto indicazioni da una fonte riservata. Una fonte capace di guidarlo con notevole precisione nei meandri di quella inchiesta. Non a caso il 18 ottobre 2018 Tizian si presenta nella hall del Metropol almeno un'ora prima dell'inizio dell'incontro e fotografa Savoini ancora solo ad un tavolo in attesa dei suoi interlocutori. Non a caso nell'anteprima dall'Espresso del 24 febbraio ricostruisce esattamente le mosse di un Matteo Salvini arrivato a Mosca, alla vigilia dei colloqui del Metropol, per partecipare ad un convegno organizzato da Confidustria al Lotte Hotel. Subito dopo il convegno, secondo il resoconto di Tizian e Vergine, Salvini incontra «in gran segreto un personaggio di spicco del Cremlino: il vicepremier Dmitry Kozak, delegato agli affari energetici, uomo della stretta cerchia di Putin. L'incontro è avvenuto nell'ufficio di Vladimir Pligin, un noto avvocato moscovita legato a Kozak, il cui studio si trova al numero 43 di Sivtsev Vrazhek». Tizian non dice di aver seguito il capo della Lega. Quindi le sue mosse gli sono state riferite da qualcuno incaricato di tenere sotto controllo le mosse del gruppetto leghista. L'altra stranezza è la precisione con cui Tizian e Vergine, pur non disponendo di una registrazione che altrimenti avrebbero pubblicato sul sito dell'Espresso già a febbraio, ricostruiscono passo dopo passo le fasi della discussione. Anzi il riepilogo dell'introduzione politica ai colloqui del Metropol svolta da Savoini e offertaci già a febbraio dai due giornalisti sembra la trascrizione esatta di quella ascoltata cinque mesi dopo su Buzzfeed. Escludendo l'ipotesi che abbiano potuto avvicinarsi così tanto al tavolo da origliare l'unica spiegazione plausibile è che abbiano potuto ascoltare il nastro senza però poterlo trattenere o utilizzare. Come mai? Perché evidentemente la presenza dell'intercettazione ambientale avrebbe reso evidente la presenza di un regista con finalità ben diverse da quelle giornalistiche. Probabilmente nei piani dell'invisibile demiurgo le rivelazioni di febbraio dovevano bastare già da sole a sollevare il polverone. O forse chi «indagava» sperava di trovare le prove di una compravendita di kerosene in realtà mai realizzatasi. E allora per trasformare intercettazioni ambientali «pirata» in vere e proprie prove capaci di sorreggere un'indagine per corruzione internazionale era indispensabile trasformarle in «atto notorio». Ma per quello grazie al cielo c'era Buzzfeed. E così grazie al sito americano un'acquisizione ottenuta sottobanco potrà forse arrivare in tribunale.

Con la Russia “tradiva” Savoini o Salvini? Al di là del LegaGate, l’Italia si desti. Oltre quelli penali, la vicenda presenta risvolti politici; e su questi si può azzardare la riflessione su quanto l'Italia sia tornata vaso di coccio d'Europa. Valter Vecellio sulavocedinewyork.com il 14 Luglio 2019.  La composizione con cui Buzzfeed.com ha presentato il suo scoop sui rapporti tra la Lega e il Cremlino: Così parlò a Mosca Gianluca Savoini agli inviati di Putin: “Salvini è il primo uomo che vuole cambiare tutta l’Europa…Vogliamo davvero iniziare ad avere una grande alleanza con questi partiti che sono pro Russia… perché questi sono i nostri interessi”. Ma il ministro degli interni parla di "favole" e minaccia querele a chi dice il contrario. Ma basta guardare alle foto, ascoltare l'audio pubblicato da buzzfeed.com, per capire che in realtà quelle favole sono incubi per l'Italia, l'Europa e la Nato. Le cose van dette per come sono: si ciurla nel manico. Per quel che riguarda l’“affaire” Lega-Salvini-Russia (come lo si vuol chiamare: Lega-gate? Salvini-gate? Moscopoli?), l’impressione è che si stia sollevando un grande polverone; alla fine tutto si intorbiderà, per concludersi in un rassegnato, sconsolato: “E’ così da sempre”. Con questo spirito si attenderà il prossimo “gate”, che farà smarrire memoria e ricordo di questa vicenda…

No. Animati da quel pessimismo della ragione e da quell’ottimismo della volontà di cui parla il premio Nobel della Letteratura Romain Rolland, conviene mettere in fila i vari elementi, e poi cercare di ricavarne un qualche succo. Ma subito: non è cosa liquidabile come “semplice” illecito finanziamento a un partito, cosa pur sempre e comunque deprecabile. Dunque: il sito “BuzzFeed” dà notizia di una serie di conversazioni negli splendidi saloni dell’hotel Metropol di Mosca. Da una parte Gianluca Savoini, presidente di un’associazione di amicizia lombarda-russa collegata con la Lega di Matteo Salvini; dall’altra emissari di Vladimir Putin. Non è ben chiaro a che titolo Savoini parli; ora c’è chi lo descrive come millantatore (può essere), ma anche come potente e influente lobbista che opera per conto della Lega (può essere). Come sia, Savoini ai suoi interlocutori russi promette tante cose: accordi che hanno oggetto il petrolio, l’ente petrolifero italiano; interventi a vario livello per mettere fine alle sanzioni dell’Occidente nei confronti della Russia; e si riprendono “voci” già in passato raccolte da “L’Espresso” circa finanziamenti, naturalmente illeciti, da parte di Mosca alla Lega. Il leader della Lega, nonché ministro dell’Interno e vice-presidente del Consiglio, smentisce tutto; minaccia fuoco e fiamme sotto forma di querele a raffica nei confronti di chiunque mette in dubbio l’onestà e la “pulizia” sua e del partito che capeggia. Tratta Savoini con lo stesso sprezzo con cui, a suo tempo, Bettino Craxibollò Mario Chiesa (“mariuolo isolato”; poi finì come sappiamo;  chissà, forse una minor irruenza sarebbe consigliabile; ma Salvini sa sbagliare da solo senza aiuti esterni). Il capo della Lega nega particolari rapporti con Savoini; sostiene che il suo partito è povero, e sfida destra e manca a trovare i soldi che sarebbero piovuti da Mosca. E’ affare della procura di Milano che ha aperto doverosamente un’inchiesta, stabilire come stanno le cose. Ma al di là di quelli penali, la vicenda presenta risvolti politici; e su questi si può azzardare qualche riflessione. Si può principiare da una considerazione elementare, ma che è sempre bene riaffermare: buona regola prendere in considerazione le rivelazioni di “BuzzFed” accompagnandole a una buona dose di dubbio. Non è la prima volta che in uno scenario turbolento come quello italiano si faccia ricorso a manovre torbide per sbarazzarsi di un avversario politico. Insomma: fino a quando non si esibiscono prove concrete meglio esser cauti, quando si vocifera di scambi di denaro tra Russia e Lega.D’altra parte non è solo arrogante, è insostenibile la pretesa di Salvini di non fornire chiarimenti in Parlamento: “Io mi occupo di fatti, di cose serie che interessano gli italiani, non di favole”. Le opposizioni hanno tutto il diritto di chiedere chiarimenti, e sbaglia il presidente del Senato signora Elisabetta Casellati, a porre il veto a interrogazioni e dibattito. In quale altra sede politica si dovrebbe dibattere una vicenda carica di problematiche politiche?

E’ comunque il caso di avvertire Salvini che non si tratta di “favole”; sono cose molto serie, e vanno ben oltre presunti finanziamenti. Savoini è immortalato a tavoli e incontri ufficiali del Governo italiano con Vladimir Putin; si assiste, al momento, a un goffo rimpallo di responsabilità: si dice che si tratta di una presenza ad “insaputa” del ministro e del suo entourage. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte a sua volta fa sapere che Savoini è invece stato invitato dal Viminale. Un chiarimento su questo aspetto, si impone. Anche un neonato comprende che Savoini a quei tavoli non si è imbucato, come può accadere in un matrimonio con centinaia di invitati. Qualcuno mente; qualcuno si deve assumere precise responsabilità, per quella presenza oggi evidentemente valutata come imbarazzante. Anche perché continuare a mantenere il punto (la presenza a “insaputa”), al di là dell’incredibilità della cosa, sarebbe perfino più grave. Non è comunque sufficiente stabilire a che titolo Savoini era presente agli incontri, e interveniva, e parlava a nome e per conto di chi. Il fatto è che Savoini, in quegli incontri di cui “BuzzFed” ha divulgato la trascrizione, testualmente dice, nel suo stentato ma comprensibile inglese:

“È molto importante che in questo periodo storico geopolitico l’Europa stia cambiando. Il prossimo maggio ci saranno le elezioni europee. Vogliamo cambiare l’Europa. Una nuova Europa deve essere vicina alla Russia come prima, perché vogliamo avere la nostra sovranità. Vogliamo davvero decidere sul nostro futuro, sugli italiani, per i nostri bambini, per i nostri figli… Non dipendere dalla decisione di illuminati a Bruxelles, negli Usa. Vogliamo decidere. Salvini è il primo uomo che vuole cambiare tutta l’Europa. Insieme ai nostri alleati, colleghi e altri partiti in Europa. Freiheitliche Partei Österreichs in Austria, Alternativa Tedesca per la Germania [Alternative für Deutschland], Francia: Madame Le Pen, e in altri paesi lo stesso, Ungheria con Orban, in Svezia Sverigedemokraterna. Abbiamo i nostri alleati. Vogliamo davvero iniziare ad avere una grande alleanza con questi partiti che sono pro Russia, ma non pro Russia per la Russia ma per i nostri paesi. Perché per stare bene con la Russia… le buone relazioni sono per [servono] i nostri paesi. Quindi questo è il mio unico inizio [la mia unica introduzione] alla situazione politica. Ora voglio i nostri partner tecnici, che possono continuare questa discussione. Grazie tante”. Questa è la carne del problema, che fa rizzare i capelli alle cancellerie occidentali, da Washington a Berlino, da Parigi a Bruxelles: “Salvini è il primo uomo che vuole cambiare tutta l’Europa…Vogliamo davvero iniziare ad avere una grande alleanza con questi partiti che sono pro Russia…”.

Un discorso che è musica e miele per le orecchie russe. Non c’è dubbio che Mosca abbia tutto l’interesse a mettere fine alle sanzioni che penalizzano la sua economia; non da ora la Russia opera e lavora per mettere la parola fine a queste sanzioni. Mosca non le accetta, come non digerisce che molti paesi dell’ex Unione Sovietica abbiano scelto di fare parte della NATO. Questo è più che comprensibile, da parte russa. Si può anche comprendere il lavorio della Lega per superare le sanzioni: i bacini elettorali del partito di Salvini sono, ancora oggi, concentrati nel Nord-Est d’Italia, in particolare Lombardia e Veneto: regioni con tante piccole e medie industrie con solidi legami commerciali con la Russia, e che dalle sanzioni sono fortemente penalizzate. La Lega da sempre difende e si erge a tutela degli interessi di questo elettorato. Il partito di Salvini non ha mai negato la sua contrarietà alle sanzioni. Ma ora la Lega è il partito maggioritario; il suo capo è il perno su cui si regge il Governo; e ricopre la carica, “pesante”, di ministro dell’Interno. Ecco, dunque, che si possono comprendere le preoccupazioni di Stati Uniti, Germania e Francia. La vicenda investe come uno tsunami la credibilità del governo Conte rispetto agli alleati della NATO. In questa vicenda non sono in ballo finanziamenti illeciti, ma delicati rapporti ed equilibri internazionali. Certamente non sono “favole”, come dice Salvini; sono cose molto serie.   Le inquietudini, le perplessità che si “respirano” a Washington, Parigi, Berlino, Bruxelles sono relative a questa frase di Savoini: “Salvini è il primo uomo che vuole cambiare tutta l’Europa”. Cambiare per avvicinare l’Italia e l’Europa a Mosca: “perché questi sono i nostri interessi”. Gli accordi unilaterali con la Cina, i rapporti con l’Iran, ora la Russia… La diffidenza suscitata dalla “politica” sovranista del governo Salvini-Di Maio-Conte, appare pienamente giustificata. E’ questa la carne del problema, è questo che deve chiarire Salvini. L’aver o no intascato del denaro da Mosca, è questione suggestiva, ma irrilevante. Il silenzio del leader della Lega su questo aspetto della questione, è eloquente; per nulla rassicurante. Valter Vecellio

Le aziende dei Salvini boys all'ombra del Cremlino. Un estratto del Libro Nero della Lega edito da Laterza in uscita il 28 febbraio, scrivono Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 25 febbraio 2019 su L'Espresso. Gli affari privati dei leghisti nella terra di Putin. Una rete di società nate negli ultimissimi anni, dopo l’ascesa al potere di Salvini e il patto con Russia Unita, che siamo riusciti a ricostruire nel dettaglio lavorando insieme ai ricercatori di Global Witness e alla collega giornalista Costanza Spocci. Il quadro che emerge è quello di una rete d’imprese con scarsa attività economica, ma all’interno delle quali si trovano personaggi che uniscono la Lega all’estrema destra, italiana ed europea. Un filo nero-verde che porta fino a Mosca, alla propaganda pro-Putin e all’ideologo del «fascismo perfetto», il filosofo ortodosso Aleksandr Dugin. Partiamo da un anonimo portoncino marrone, al civico 7 di Furmannyy Pereulok, a Mosca. A pochi passi dall’istituto di cultura italiana, in un palazzo basso, hanno sede alcune società, una di queste molto particolare. Si chiama Orion ed è stata fondata di recente da due leghisti di spicco sulla scena russa, entrambi membri dell’associazione Lombardia Russia. I due sono Gianluca Savoini, ancora lui, e Claudio D’Amico, parlamentare già ai tempi di Bossi, assessore a Sesto San Giovanni, ingaggiato da Salvini a Palazzo Chigi dopo l’ultima tornata elettorale con il ruolo di consigliere strategico e uno stipendio pubblico di 65 mila euro l’anno. D’Amico è stato incaricato dal vicepremier di mantenere i rapporti con i partiti esteri. Soprattutto con la Russia, nazione che il politico lombardo segue da anni. Nel 2014 è stato lui il regista ufficiale dell’incontro tra Putin e Salvini, quando il Capitano era da poco diventato segretario. Ma D’Amico è stato soprattutto uno degli osservatori internazionali presenti al referendum per l’annessione della Crimea a Mosca, un momento delicatissimo nei rapporti tra Russia e Occidente. Due anni dopo quel referendum, nel 2016, D’Amico e Savoini hanno fondato a Mosca una società privata. Oggetto sociale: consulenza. Il bilancio dell’azienda indica che qualche attività economica è stata realizzata, poche decine di migliaia di euro. Sicuramente D’Amico finora non ha mai dichiarato la proprietà della Orion in Italia, come invece ci sembra avrebbe dovuto fare secondo le norme vigenti, essendo un assessore e consigliere di Palazzo Chigi. Resta il fatto che gli uomini di Lombardia Russia si stanno dando da fare per mettere a frutto la rete di imprese anti-sanzioni raccolte intorno alla loro associazione. E stanno provando a fare affari anche con le imprese italiane che vogliono delocalizzare, non proprio il massimo della coerenza per i patrioti salviniani. Allo stesso civico e nello stesso ufficio di Orion è infatti registrata la ItalAgro. Anch’essa avviata nel maggio 2016, si occupa di macchinari agricoli ed è intermediatrice tra acquirenti russi e venditori italiani.  Documenti ufficiali ci dicono che il fondatore è Pasquale Vladimiro Natale, originario di un paesino della provincia di Catanzaro, attivo in affari anche nel paradiso fiscale delle Isole Vergini Britanniche con la società Bergalt Management Inc. A legare la ItalAgro e la Lega non è solo l’ufficio dove hanno sede le aziende ma un nome, quello di Bruno Giancotti, referente dell’impresa agricola italo-russa. Giancotti e la ItalAgro erano in Crimea nel 2015, portati da Savoini con l’associazione Lombardia Russia. Una gita d’affari, una delle tante, per mostrare alle imprese italiane le nuove possibilità di investimento all’estero. Più o meno lo stesso business che stanno cercando di organizzare altri salviniani doc. Tra il 2017 e il 2018 sono state infatti fondate oltre gli Urali altre due società con azionisti membri fondatori dell’associazione Lombardia Russia: Gianmatteo Ferrari e Luca Bertoni. Ferrari ha creato insieme ad altri soci italiani nel 2018 la Far Global Service e nel 2017 la Global Service International. Oltre a Bertoni, nella compagine azionaria tricolore della Global Service International ci sono Gerardo Catelotti, un imprenditore italiano del settore raffinazione petrolifera, e il bulgaro Hristo Marinov. Non propriamente un businessman, Marinov: è il capo amministrativo del partito di estrema destra bulgaro Attack, una delle tante stelle della galassia euroscettica corteggiata da Putin. Edito da Laterza, Il libro nero della Lega di Giovanni Tizian e Stefano Vergine sarà nelle librerie dal 28 febbraio. Nel capitolo che gli autori spiegano in questo video il focus sulle aziende fondate nella Federazione da uomini vicini al partito sovranista italiano. La maggior parte dei titolari fanno della Lega e dell’associazione Lombardia-Russia, fondata dall’ex portavoce del vicepremier Salvini. Vicepremier che ha nominato di recente uno di loro a palazzo Chigi, con il ruolo di consigliere strategico.

Affari e politica, dunque, dall’Italia alla Russia passando per la Bulgaria. E arrivando fino alla piccola repubblica di Calmucchia, zona meridionale della Federazione, Mar Caspio, l’unico distretto russo a maggioranza buddhista. Lì hanno investito Palmiro Zoccatelli ed Eliseo Bertolasi. Zoccatelli è un leghista dell’associazione Veneto Russia, costola di quella lombarda, ed è anche tra i componenti della onlus Famiglia e civiltà, con la quale ha organizzato eventi pubblici alla presenza sia di Alexey Komov (amico e collaboratore dell'oligarca Malofeev) che dell’attuale ministro della Famiglia, il leghista Lorenzo Fontana. In Russia Zoccatelli risulta tra i fondatori della Agrovenetsiya, con sede appunto in Calmucchia, insieme a Bertolasi, anche lui molto convinto della visione putiniana del mondo, quasi sempre presente nei viaggi di Savoini in Crimea e nel Donbass, collaboratore di vari siti Internet d’informazione in Italia e in Russia. Bertolasi si presenta online come ricercatore di Antropologia all’Università Bicocca, ha studiato russo all’Università statale umanistica di Mosca e scrive anche su «Sputnik Italia», una delle testate controllate dal Cremlino. Come Zoccatelli è membro dell’associazione Veneto Russia, ma anche ricercatore dell’Istituto di Alti studi in geopolitica e scienze ausiliarie (Isag), un think tank fondato a Roma nel 2010. All’interno dell’Istituto si ritrovano personaggi dell’estrema destra italiana. Come Tiberio Graziani, romano classe 1954, esperto di geopolitica e animatore di diversi pensatoi filo-russi, per anni presidente dell’Isag. Graziani è legato a uno storico volto della destra radicale: Claudio Mutti, professore “militante”, una biografia che si intreccia al neofascismo anni Settanta e incrocia le vicissitudini di altri nomi noti dell’ideologia nera violenta come quelli di Roberto Fiore, Gabriele Adinolfi, Franco Freda. Mutti ha fondato in Italia una casa editrice, le Edizioni all’insegna del Veltro, specializzata in pubblicazioni su temi internazionali. Primo fra tutti quello dell’Eurasia, il megacontinente che avvicinerebbe il Vecchio Continente a Mosca. Le stesse idee che sostiene oggi pubblicamente il presidente della Federazione erano però già chiare nella testa di Dugin, il Rasputin del Cremlino, il filosofo preferito da Savoini. Dugin sostiene da anni la necessità di costituire un impero euroasiatico contrapposto all’Occidente, definito schiavo dell’America. «Putin è ovunque, Putin è ogni cosa, Putin è assoluto, Putin è indispensabile»: questa la summa del Dugin-pensiero. Appassionato di Julius Evola, in passato leader del partito nazional-bolscevico e simbolo del rossobrunismo internazionale inteso come sintesi delle istanze di sinistra e destra radicale, l’intellettuale moscovita teorizza una filosofia politica basata su un mix di zarismo, tradizionalismo, stalinismo e fascismo. Un’ideologia a cui proprio Mutti ha dato per la prima volta ospitalità in Europa pubblicando con la sua casa editrice, nel 1991, il libro Continente Russia, scritto proprio da Dugin. La casa editrice di Mutti pubblica oggi una rivista intitolata «Eurasia», periodico fino a pochi anni fa diretto dal suo amico Graziani. E qui torniamo all’Isag, l’Istituto in cui hanno avuto ruoli di spicco Graziani e Bertolasi. «Un’associazione di promozione sociale senza finalità di lucro», si legge sul suo sito Internet. Approfondendo i nomi dei partner dell’associazione si scoprono connessioni dirette con il Cremlino. Nel 2012 l’Isag ha infatti stretto una partnership con la rivista ufficiale del ministero degli Esteri russo. Nello stesso anno è stata firmata un’alleanza anche con Rossotrudnichestvo, il centro di scienza e cultura che, secondo l’esperto Shekhovtsov, è in realtà «il maggior strumento usato dalla Russia per esercitare soft power in Paesi stranieri». Alla stesura di questo paragrafo del libro ha collaborato Costanza Spocci.

Matteo Salvini affonda Marco Damilano che lo interroga sulla Russia: la strepitosa risposta da Mentana, scrive il 25 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Siamo alle battute finali della Maratona Mentana dedicata alle elezioni in Sardegna. Su La7 si ragiona sulla vittoria del centrodestra e il tracollo del M5s. In collegamento c'è anche il vincitore, Matteo Salvini. E la parola va al direttore de L'Espresso, Marco Damilano. Il quale, però, sceglie di non parlare del voto in Sardegna col leader leghista. No, non si parla della vittoria di Solinas. No, non si parla dell'ennesima sconfitta del Pd. No, non si parla neppure della catastrofe pentastellata. Damilano sceglie di parlare di Russia. Come è noto l'ultima uscita de L'Espresso che Damilano dirige - in edicola dal 24 febbraio - è tutta dedicata a quella che il direttore definisce "la trattativa segreta per finanziare con soldi russi la Lega". Dunque, Damilano si rivolge a Salvini scambiando lo studio di Enrico Mentana con la stanza di un interrogatorio: "Dove si trovava nella notte tra il 17 e il 18 ottobre? Dove si trovava?". Salvini, serafico, risponde: "Posso dirle cosa ho mangiato ieri sera. Non dove mi trovassi una notte di parecchi mesi fa. Certo, di ministri e autorità russe ne ho incontrate parecchie...", aggiunge sornione. E l'ispettore-Damilano deve accontentarsi di questa risposta e di una figura un poco magra: ok lo spot al suo settimanale, ma forse parlare del voto sarebbe stato meglio. La maratona di Mentana, infatti, non era dedicata alla Russia.

Salvini in tv non smentisce l'incontro riservato a Mosca con esponenti del Cremlino, scrive il 25 febbraio 2019 Repubblica Tv. Matteo Salvini non smentisce l'incontro con il vicepremier russo, con delega all'Energia, Dymitri Kozak la sera del 17 ottobre a Mosca. Un incontro "riservato" svelato da L'Espresso nell'inchiesta sulla trattativa per finanziare la Lega avviata nella capitale della Federazione dall'ex portavoce di Salvini, Gianluca Savoini, pubblicata sul numero in edicola e online su Espresso Plus. Il vice premier ha risposto in tv alle domande del direttore de L'Espresso, Marco Damilano, ospite della MaratonaMentana su La7. È stato chiesto a Salvini se escludeva di aver incontrato esponenti del governo russo nella notte tra il 17 e il 18 ottobre in occasione del suo viaggio a Mosca per intervenire al convegno di Confindustria presso il Lotte Hotel. E lui non lo ha fatto. Dopo la conferenza stampa nella sala congressi dell'albergo, il vicepremier italiano ha incontrato in gran segreto un personaggio di spicco del Cremlino: il vicepremier Dmitry Kozak, delegato agli affari energetici, uomo della stretta cerchia di Putin. L’incontro è avvenuto nell’ufficio di Vladimir Pligin, un noto avvocato moscovita legato a Kozak, il cui studio si trova al numero 43 di Sivtsev Vrazhek. Anche su questo incontro con Kozak il ministro ha detto di non ricordare di averlo visto. Incalzato dalle domande Salvini non smentisce: «Ho incontrato tanti ministri, sottosegretari, imprenditori, se questo è successo tra il 17 e il 18 francamente non lo so». Damilano insiste: «Anche il vicepremier e ministro dell'energia?». «Se fosse successo, lo riterrei legittimo e doveroso», ha risposto Salvini. Sul ruolo di Savoini nella trattativa dell'Hotel Metropol di Mosca avvenuta il giorno successivo alla visita del vicepremier italiano, Salvini ha spiegato: Savoini è una persona che conosco da vent'anni, ma a nome mio parlo io». E ha poi aggiunto: «se volete fare attacchi politici va bene, io adoro la libertà di stampa e le inchieste giornalistiche. Ma se andate a cercare soldi in Lussemburgo o alle Cayman andrete avanti per anni e non troverete niente» assicura Salvini. Li stanno cercando le procure, ha insistito Damilano.

Esclusivo - La trattativa segreta per finanziare con soldi russi la Lega di Matteo Salvini. Tre milioni di tonnellate di gasolio da vendere a un'azienda italiana: così il piano della Russia per sostenere i sovranisti alle prossime Europee si maschera da scambio commerciale. Il negoziato, condotto da un fedelissimo del vicepremier italiano, su L'Espresso in edicola domenica 24 febbraio, scrivono Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 21 febbraio 2019 su L'Espresso. Un affare a sei zeri per finanziare la Lega in vista delle elezioni europee. Un sostegno camuffato da compravendita di carburante. Soldi russi per i nazionalisti italiani del vicepremier Matteo Salvini. Lo stesso che ha dichiarato pubblicamente di non essere interessato ai denari di Vladimir Putin, ma di appoggiarlo per pura sintonia politica. La trattativa per finanziare la Lega è stata portata avanti in questi mesi nel più assoluto riserbo. Riunioni, viaggi, email, strette di mano e bozze di contratti milionari. Da un lato del tavolo uno dei fedelissimi di Salvini, dall'altro pezzi pregiati dell'establishment putiniano. Al centro, uno stock di carburante del tipo “Gasoil EN 590 standards Udsl”.

Almeno tre milioni di tonnellate di diesel, da cedere a un'azienda italiana da parte di una compagnia russa. Una compravendita grazie alla quale il Cremlino dovrebbe riuscire a rifocillare le casse del partito di Salvini alla vigilia delle europee del prossimo maggio. Il condizionale è d'obbligo, perché non sappiamo se l'affare è stato concluso. Possiamo però indicare con certezza diversi fatti che compongono questa trama internazionale ambientata tra Roma, Milano e Mosca. E soprattutto possiamo raccontare gli obiettivi dichiarati: sostenere segretamente il partito di Salvini. Il negoziato per finanziare la Lega che troverete sul primo numero del nuovo Espresso in edicola da domenica 24, è solo uno dei capitoli de “Il Libro nero della Lega”, edito da Laterza, in uscita il 28 febbraio.  Un’inchiesta giornalistica sul lato oscuro del partito di Matteo Salvini: dai 49 milioni di euro della truffa, ai candidati impresentabili del Sud Italia fino, appunto, all’internazionale sovranista, che da Mosca arriva fino a Washington passando per il Vaticano.

Un incontro segreto a Mosca. E una trattativa coi russi per finanziare la Lega. L'escamotage: una mega partita di gasolio. Il disegno: aiutare i sovranisti a vincere le elezioni europee utili al ministro è l’ex portavoce del vicepremier, Gianluca Savoini. L'uomo attorno al quale ruota tutta questa vicenda. «Il consigliere» di Matteo: questo è il ruolo affibbiatogli dai media russi negli articoli in cui si lodano le attività della sua associazione Lombardia-Russia e le prese di posizione della Lega contro le sanzioni imposte dall’Europa alla Russia. Pur non avendo un ruolo ufficiale né nel partito né nel governo, Savoini è sempre stato presente durante le visite ufficiali di Salvini a Mosca. Ha sancito l’alleanza tra la Lega e il partito di Putin, Russia Unita. Ha fatto decine di viaggi a Mosca, in Crimea e nel Donbass. E ha condotto fin dall’inizio il negoziato per il finanziamento russo. Tutto ha inizio a luglio scorso. Savoini esplora prima una pista che porta a un palazzo di Mosca dove hanno sede le più grandi compagnie petrolifere del mondo e anche le società di uno degli uomini più ricchi di Russia. Non un paperone qualunque, ma un avvocato, ortodosso, anti abortista e anti gay a capo di un impero economico e fortemente legato al progetto sovranista europeo.

Ma la data più importante in questo intrigo è il 18 ottobre 2018. La data in cui avviene una riunione di cui siamo stati testimoni. È passata solo qualche ora dalla visita di Matteo Salvini a Mosca. Infatti, il giorno prima, il 17, il vicepremier e ministro italiano era stato ospite del convegno organizzato da Confindustria al Lotte Hotel. Una trasferta russa conclusa con un incontro riservato che il leader della Lega non ha voluto pubblicizzare. Abbiamo chiesto al ministro Salvini se dopo il convegno ha incontrato il suo omologo del Cremlino Dymitri Kozak in un luogo ben preciso. Gli abbiamo inviato domande specifiche a due indirizzi mail, tra cui quella del Senato, ma non abbiamo ricevuto alcuna risposta. 

Torniano, dunque, al 18 ottobre. La mattina all’hotel Metropol di mosca sono stati definitivi alcuni dettagli dell’affare. Da un lato Gianluca Savoini e altri due italiani. Dall'altro lato del tavolo nella hall dell'albergo, gioiello architettonico dei primi del '900, tre russi. Di cosa hanno parlato? Dell'affare destinato a sostenere le finanze leghiste, per irrobustirle in previsione delle Europee di maggio prossimo: una fornitura di 250 mila tonnellate metriche di gasolio Usld al mese per un anno. In totale fanno 3 milioni di gasolio in 12 mesi. E, stando a quanto stabilito in quella riunione del Metropol, almeno altrettanti milioni di euro destinati al partito di Matteo Salvini.

Era il 18 ottobre 2018. Nel momento in cui abbiamo terminato questa inchiesta giornalistica, non sappiamo com’è andato a finire l’affare, se l’accordo è stato siglato e in che termini. Se quello che abbiamo ascoltato si è tradotto in pratica, però, ci troveremmo di fronte a un clamoroso paradosso: un partito nazionalista, la Lega di Salvini, finanziato per la prossima campagna elettorale europea da un’impresa di Stato russa. Insomma, la principale forza di governo italiana sostenuta da Putin, nemico numero uno della Ue. Il tutto discusso a Mosca da un uomo, Savoini, che non avrebbe alcun titolo per occuparsi di petrolio né tantomeno di finanziamenti della Lega.

Quei 3 milioni russi per Matteo Salvini: ecco l'inchiesta che fa tremare la Lega. Un incontro segreto a Mosca. E una trattativa coi russi per finanziare la Lega. L'escamotage: una mega partita di gasolio. Il disegno: aiutare i sovranisti a vincere le elezioni europee, scrivono Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 21 febbraio 2019 su L'Espresso. Un affare a sei zeri per finanziare la Lega in vista delle elezioni europee. Soldi russi per i nazionalisti italiani del vicepremier Matteo Salvini. Lo stesso che ha dichiarato pubblicamente di non essere interessato ai denari di Vladimir Putin, ma di sostenerlo per pura sintonia politica. La trattativa per finanziare la Lega è stata portata avanti in questi mesi nel più assoluto riserbo. Riunioni, viaggi, email, strette di mano e bozze di contratti milionari. Da un lato del tavolo uno dei fedelissimi di Salvini, dall’altro pezzi pregiati dell’establishment putiniano. Al centro, uno stock di carburante del tipo “Gasoil EN 590 standards Udsl”. Almeno tre milioni di tonnellate di diesel, cedute da una compagnia russa e acquistate da un’azienda italiana. Una compravendita grazie alla quale il Cremlino sarebbe in grado di rifocillare le casse del partito di Salvini alla vigilia delle europee del prossimo maggio. Il condizionale è d’obbligo, perché nel momento in cui scriviamo non sappiamo se l’affare si è concluso. Possiamo però indicare con certezza diversi fatti che compongono questa trama internazionale ambientata tra Roma, Milano e Mosca. E soprattutto possiamo rivelare gli obiettivi dichiarati: sostenere segretamente il partito di Salvini. La forza politica di destra che attualmente cresce di più in Europa. Capace, dicono i sondaggi, di fare da traino agli altri movimenti sovranisti del Vecchio Continente. La trattativa per finanziare la Lega che raccontiamo sull’Espresso è uno dei capitoli de “Il Libro nero della Lega”, edito da Laterza, in uscita il 28 febbraio. Un’inchiesta giornalistica sul lato oscuro del partito di Matteo Salvini: dai 49 milioni di euro della truffa, ai candidati impresentabili del Sud Italia fino, appunto, all’internazionale sovranista, che da Mosca arriva fino a Washington passando per il Vaticano.

Ma torniamo alla trattativa per il finanziamento. Il perno attorno al quale ruota la vicenda è l’ex portavoce del vicepremier, Gianluca Savoini. «Il consigliere» di Matteo: così lo definiscono i media russi negli articoli in cui si lodano le attività della sua associazione Lombardia-Russia e le prese di posizione della Lega contro le sanzioni imposte dall’Europa alla Russia. Pur non avendo un ruolo ufficiale né nel partito né nel governo, Savoini è sempre stato presente durante le visite ufficiali di Salvini a Mosca. Ha sancito l’alleanza tra la Lega e il partito di Putin, Russia Unita. Ha fatto decine di viaggi a Mosca, in Crimea e nel Donbass. E ha condotto fin dall’inizio la trattativa per il finanziamento russo. Ma andiamo con ordine. Iniziamo da un indirizzo. Al numero 31 di Novinsky Boulevard, uno stradone a sei corsie di Mosca, a tre fermate di metropolitana dalla Piazza Rossa, c’è un palazzo moderno di vetro e cemento rosso. Sullo sfondo svetta una delle cosiddette “sette sorelle”, gli imponenti grattacieli fatti realizzare da Stalin ai prigionieri dei gulag. Nel palazzo, al piano terra, c’è un grande centro commerciale, con negozi e ristoranti. Sopra ci sono gli uffici di alcune delle più grandi multinazionali al mondo: ExxonMobil, Repsol, Shell, Glencore, Samsung. Al quinto piano c’è invece un’azienda poco nota. Si chiama Tsargrad, almeno così è indicato sulla parete a vetro retroilluminata all’ingresso dell’edificio. Di chi è? È una delle tante società dell’oligarca Kostantin Malofeev. Un’azienda editoriale con un sito e una tv, che si dedica a veicolare messaggi religiosi in linea con le politiche conservatrici del Cremlino. Nello stesso ufficio, il numero 1, sono registrate altre due imprese. Una è la Marshall Capital, il fondo d’investimento dell’oligarca. L’altra è una piccola e sconosciuta azienda petrolifera. Si chiama Avangard oil & gas, non ha attualmente un sito Internet (scomparso dalla rete nei giorni in cui stavamo per finire di scrivere) né una presentazione pubblica dei suoi proprietari e dei suoi asset. Seguendo la Avangard si arriva però direttamente a Savoini, l’emissario di Salvini in terra russa. Alcuni documenti testimoniano infatti che l’ex portavoce del leader leghista è stato in contatto diretto con il direttore generale della Avangard, Alexey Mustafinov. Una trattativa con tanto di offerta commerciale, inviata dalla società petrolifera russa a luglio del 2018 e ricevuta da Savoini. Oggetto: la vendita di un quantitativo di gasolio. In seguito la Avangard è uscita di scena, ma l’affare non è sfumato. Anzi.

L’OLIGARCA DI DIO. Prima di entrare nei dettagli della trattativa è utile approfondire la figura di Mr K, ossia Konstantin Valerevich Malofeev. Il collegamento più evidente tra lui e la Lega è Alexey Komov, suo grande amico, che il 15 dicembre 2013 era presente all’incoronazione di Salvini a segretario del partito al Lingotto di Torino. Komov è l’ambasciatore russo del World Congress of Families, associazione internazionale che si batte contro l’aborto e le unioni tra omosessuali, e lavora per Malofeev nella San Basilio, la più grande fondazione russa sostenuta da fondi privati. Oligarca moscovita classe 1974, laureato in legge, Malofeev è un finanziere che ha iniziato la carriera lavorando per alcune banche russe, poi nel 2005 ha fondato la Marshall Capital, diventata oggi una delle principali società di investimento del Paese, con in passato quote importanti anche in società di Stato della Federazione come Rostelecom. Il finanziere moscovita non è solo uno dei tanti paperoni locali. È un fedelissimo di Putin sospettato da Stati Uniti e Unione europea di aver finanziato la conquista della Crimea e la guerra nel Donbass, motivo per cui il Tesoro statunitense e il Consiglio d’Europa lo hanno inserito nella black list. È accusato anche di aver avuto un ruolo attivo nei rapporti finanziari tra il Cremlino e i francesi del Front National. Come rivelato dalla testata “Mediapart” nel 2015, il miliardario russo avrebbe infatti contribuito ad agevolare il prestito da 9 milioni di euro ottenuto dal partito di Marine Le Pen tramite una banca controllata da Mosca (la First Czech Russian Bank) e un altro di 2 milioni da una società cipriota (la Vernonsia Holdings). Scorrendo l’elenco delle aziende e delle fondazioni di Malofeev, l’impressione è quella di trovarsi di fronte a un impero economico globale. Alcune di queste società di famiglia portano alle Isole Vergini Britanniche, alle Seychelles, a Cipro. Paradisi fiscali dove i capitali sono anonimi e possono circolare con estrema facilità. Ma questa non è una novità per oligarchi del suo calibro. Ciò che colpisce è l’ideologia del personaggio. E le sue connessioni con diversi sovranisti europei di estrema destra. L’imprenditore russo si definisce monarchico, spera nella restaurazione zarista sulla Moscova. Chi sarebbe il suo zar ideale? Vladimir Vladimirovich, ovviamente. «Non ha mai cercato di farsi eleggere, è stato individuato e messo all’opera, e alla fine si è rivelato un inviato di Dio», ha dichiarato nel 2017 al quotidiano britannico “The Guardian”. Malofeev sta lavorando concretamente al suo progetto assolutista, alla restaurazione dell’ancien régime russo. Ha persino fondato un collegio con questo obiettivo. L’ha chiamato Grande Scuola di San Basilio, vuole farne un prestigioso istituto dove allevare l’élite della nuova Russia monarchica, quella che saprà «fornire una spina dorsale all’inevitabile futuro zarista» del Paese.

IL FILOSOFO DI PUTIN. Malofeev sa che per realizzare il suo ambizioso progetto politico deve convincere anche le élite, in patria ma soprattutto all’estero. Perché a livello internazionale l’obiettivo è quello di formare un nuovo continente, un nuovo blocco geopolitico guidato da Mosca: l’Eurasia. Una delle strutture create dal miliardario con questo obiettivo è il “centro analitico” Katehon, un sito in varie lingue che diffonde il conservatorismo dell’estrema destra sovranista in tutta Europa. Tra i collaboratori di Katehon c’è ad esempio Marine Le Pen, la leader francese del Front National, alleata da tempo con Salvini. Dall’Italia scrivono invece Alessandro Fiore, figlio del leader nero Roberto, storico capo dell’estrema destra italiana, e alcuni giornalisti di Casa Pound, il movimento degli autodefinitisi “fascisti del terzo millennio”, fondato da Gabriele Adinolfi e per un breve periodo alleato con la Lega di Salvini nel movimento Sovranità. Per il sito Internet del monarchico putiniano ha collaborato anche Savoini. Che a Katehon ha una conoscenza importante. Aleksandr Dugin, il filosofo più ascoltato da Putin, nominato in Italia presidente onorario dell’associazione Piemonte Russia, lavora infatti da tempo per il centro studi di Malofeev. Cura una rubrica dal titolo “Transumanesimo”. Del resto Dugin è vicino fisicamente al think tank del miliardario. Il suo Movimento euroasiatico ha infatti sede allo stesso indirizzo di Katehon, al numero 7 di Tverskaya street, una delle strade più eleganti di Mosca. Che esista un interesse politico comune tra Malofeev e Dugin è quindi certo. I due condividono una visione del mondo anti-occidentale, la negazione dell’omosessualità, le istanze anti-abortiste, la necessità di riportare l’Ucraina sotto il controllo russo, l’egemonia di Putin sull’intera Unione europea. Ma c’è un altro particolare rimasto finora sommerso. Dugin risulta tra i fondatori del “Centro della competenza geopolitica” insieme a Pyotr Suslov. Secondo un’inchiesta pubblicata il 6 febbraio del 2009 dalla “Novaya Gazeta” (il giornale per cui lavorava Anna Politkovskaja, uccisa per aver svelato le violenze russe in Cecenia), Suslov è un personaggio di spicco dei servizi segreti russi. Un veterano che ha condotto operazioni segrete in Afghanistan, Mozambico e Angola, molto introdotto con i vertici della Federazione e attivo anche in affari petroliferi privati in Cecenia. Secondo la ricostruzione della “Novaya Gazeta”, nel 2001 Suslov ha contribuito a costituire il Movimento euroasiatico di Dugin. Questo è insomma il contesto in cui si muove il filosofo più amato dai salvinisti. Da Malofeev agli ex spioni russi, uniti nel nome del tradizionalismo e della devozione per Putin. E degli affari. Già, perché all’ipotesi di concludere l’affare del gasolio con la società Avangard, quella che ha sede nello stesso ufficio della Marshall Capital di Malofeev, se ne affianca una seconda. Che porta direttamente al colosso petrolifero di Stato Rosneft e chiama in causa la società di Stato italiana Eni.

OTTOBRE PADANO. Dugin e Savoini si sono visti spesso negli ultimi mesi. In Italia e in Russia. Lo testimoniano alcune foto di cui L’Espresso è venuto in possesso. Una di queste riguarda un incontro avvenuto in via del Babuino, a Roma, il 25 settembre scorso. L’occasione per un saluto, e anche per ipotizzare una visita del ministro e vicepremier Salvini a Mosca. Viaggio che poi in effetti si è concretizzato, il 17 ottobre 2018, in occasione del convegno organizzato da Confindustria Russia, la filiale presieduta da Ernesto Ferlenghi, storico capo di Eni oltre gli Urali. Per capire meglio le cose abbiamo seguito la missione di Salvini. E abbiamo scoperto parecchie incongruenze rispetto ai resoconti ufficiali di quei giorni. Partito la mattina del 17 ottobre da Roma con un volo Alitalia, il ministro è atterrato alle 15,45 all’aeroporto Sheremetyevo per poi raggiungere il Lotte Hotel, dove alle 17 era prevista la conferenza organizzata da Confindustria. Seppur seduto nelle prime file, Savoini è rimasto in disparte durante l’evento. Chi ci ha messo la faccia è stato invece Claudio D’Amico, consigliere strategico per l’estero del vicepremier. Tutto normale, protocollo rispettato alla perfezione. Tranne per un particolare. Finito il convegno, dopo i selfie sorridenti, il ministro ha salutato ed è uscito da una porta secondaria del Lotte Hotel. Nessun impegno pubblico nell’agenda ufficiale. Eppure, stando a quanto raccontato da alcuni suoi più stretti collaboratori, la serata non è finita così. Dopo la conferenza stampa, il vicepresidente del Consiglio italiano ha incontrato in gran segreto un personaggio di spicco del Cremlino: il vicepremier Dmitry Kozak, delegato agli affari energetici, uomo della stretta cerchia di Putin. L’incontro è avvenuto nell’ufficio di Vladimir Pligin, un noto avvocato moscovita legato a Kozak, il cui studio si trova al numero 43 di Sivtsev VrazhekIl civico dove ha sede l’ufficio dell’avvocato Pligin, qui Salvini avrebbe incontrato Kozak. Perché Salvini, il ministro italiano più attivo sui social network, sempre pronto a condividere con i follower momenti di vita pubblica e privata, non ha voluto comunicare questo faccia a faccia con il suo omologo russo? Alle nostra richiesta di commento inviate a due suoi indirizzi mail - tra cui quella istituzionale del Senato - Salvini ha preferito non rispondere. A destare ancora più curiosità è ciò che è accaduto poco dopo quella notte.

GASOLIO A PERDERE. Il giorno seguente siamo stati testimoni di un incontro avvenuto nella hall dell’Hotel Metropol, gioiello architettonico affacciato sulla piazza del teatro Bolshoi. Savoini si presenta in albergo alle 9.30. Si siede insieme a un altro italiano nella maestosa sala-ristorante del Metropol. Dopo circa mezz’ora i due si alzano e raggiungono quattro persone che li attendono nella hall. Si accomodano in uno dei tavoli a poca distanza dal bancone del bar. Siamo riusciti a individuare una persona con certezza: Ylia Andreevich Yakunin, manager molto vicino a Pligin, l’avvocato che la sera prima aveva ospitato l’incontro Salvini-Kozak. Al tavolo c’erano poi un traduttore russo, un avvocato italiano e un altro italiano chiamato Francesco. La compagine ha trascorso oltre un’ora a discutere bevendo caffè espresso. Dopo i convenevoli iniziali, Savoini ha elogiato il sovranismo di Salvini e glorificato l’amicizia con Putin e la Russia. Poi ha spiegato la sua geopolitica per l’Italia: «La nuova Europa deve essere vicina alla Russia. Non dobbiamo più dipendere dalle decisioni di illuminati a Bruxelles o in Usa. Vogliamo cambiare l’Europa insieme ai nostri alleati come Heinz-Christian Strache in Austria, Alternative für Deutschland in Germania, la signora Le Pen in Francia, Orbán in Ungheria, Sverigedemokraterna in Svezia». Poi ha passato la parola ai tecnici, che hanno trascorso il resto del tempo a disquisire i dettagli dell’affare. Quale? Sempre la stessa questione dibattuta a luglio tra Savoini e il direttore generale della Avangard: una fornitura di carburante russo. Questa volta però della sconosciuta Avangard non si parla più. A vendere il gasolio sarebbe una compagnia di Stato russa. «Rosneft», dicono i russi. A comprare sarebbe invece Eni, l’azienda di Stato italiana. Si parla di grandi quantitativi. I russi propongono 3 milioni di tonnellate di diesel da consegnare in 6 mesi o un anno. L’avvocato italiano dice che non c’è problema: assicura che Eni ha le capacità per comprarne anche di più all’occorrenza. Il diesel verrà venduto dalla major russa con uno sconto minimo del 4 per cento sul prezzo Platts, il principale riferimento del settore. Su richiesta dei russi, le parti si accordano affinché lo sconto sia maggiore, ipotizzano un 6 per cento. Con la promessa che tutto quanto superiore al 4 per cento venga restituito ai russi. «Questa è una garanzia, loro prendono pure 400... quel cazzo che devono prendere, ma è una garanzia», dice Savoini ai connazionali. L’operazione ha un’architettura complessa. Non sarà Eni a pagare direttamente Rosneft: i soldi passeranno attraverso una banca europea non meglio specificata e una società russa ancora da scegliere. Dettagli. Qual è l’interesse di Savoini in tutta questa storia lo spiega, dopo una mezz’ora di discussione, l’avvocato italiano alla sua controparte russa: «Il piano fatto dai nostri “political guys” è semplice. Dato lo sconto del 4 per cento, sono 250 mila al mese, per un anno. Così loro possono sostenere una campagna». E ancora: «Questa è solo una questione politica, vogliamo finanziare la campagna elettorale, e questo è positivo per tutt’e due le parti». Insomma, grazie a questo affare con i russi la Lega riceverebbe almeno 250 mila dollari al mese per un anno, cioè 3 milioni di euro in tutto, e userà questi soldi per la campagna elettorale delle europee. A chiarirlo meglio ci pensa subito dopo Savoini, che dice di aver parlato «ieri con Aleksandr, e che secondo lui io rappresento la connessione totale, sia da parte italiana politica che da parte loro». Aleksandr come Aleksandr Dugin, il filosofo preferito da Putin, che in quei giorni Savoini ha certamente incontrato, come dimostrato da una foto pubblicata da “La Stampa”. L’incontro di cui siamo stati testimoni all’Hotel Metropol si è concluso con un riassunto degli aspetti ancora da decidere. Il tipo di diesel, a cui si potrebbe aggiungere anche carburante per aerei. Il luogo della consegna, con le opzioni Rotterdam o Novorossisk. I soldi da restituire ai russi con l’escamotage dello sconto superiore al 4 per cento. La banca usata da Rosneft, con i russi che suggeriscono Banca Intesa Russia e gli italiani che li rassicurano perché che nel consiglio d’amministrazione c’è già «un nostro uomo... si chiama Mascetti». Come Andrea Mascetti, il leghista che siede nel cda della controllata russa di Intesa. Era il 18 ottobre 2018. Nel momento in cui abbiamo terminato questa inchiesta giornalistica, non sappiamo com’è andato a finire l’affare, se l’accordo è stato siglato e in che termini. Se quello che abbiamo ascoltato si è tradotto in pratica, però, ci troveremmo di fronte a un clamoroso paradosso: un partito nazionalista, la Lega di Salvini, finanziato per la prossima campagna elettorale europea da un’impresa di Stato russa. Insomma, la principale forza di governo italiana sostenuta da Putin, nemico numero uno della Ue. Il tutto discusso a Mosca da un uomo, Savoini, che non avrebbe alcun titolo per occuparsi di petrolio né tantomeno di finanziamenti della Lega.

Rubli Rubacuori. Luca Bottura il 12 luglio 2019 su La Repubblica. Dice che querela. Cioè: c’è l’audio del suo plenipotenziario in Russia che parla con gli emissari di Putin sulle possibili modalità di finanziamenti occulti alla Lega, e lui dice che querela. A questo punto manca il complemento oggetto. Chi querela? Chi ha dato la notizia, e cioè l’Espresso a suo tempo e Buzzfeed poi, con tanto di documento sonoro? Il suo inviato a Mosca, che come lui ha limonato con Putin a favore di microfono? Putin stesso? Il Kgb? L’Fsb? Anas? Aiscat? Autostrade per l’Italia? No, quelle li querela Di Maio subito prima di chiedere il salvataggio di Alitalia. Chi allora? Forse il suo social media manager, che da due giorni viaggia a una media di dodici tweet al minuto, ma ha postato anche il video di un portoghese africano su un treno. Solo che quel post acchiappagonzi l’aveva già pubblicato la Meloni due giorni prima. E quando nella rincorsa all’odio pro domo voti arrivi secondo, ecco, è il segnale che stai perdendo colpi. O che forse ti stai chiedendo come mai, subito dopo che hai giurato fedeltà a Trump, esca un audio russo che potrebbe incastrarti.  Magari la prossima volta meglio dare un’occhiata a “Dalla Russia con amore”. Ma bastava anche “Il compagno Don Camillo”.

Quei blitz alla Camera per cancellare il reato di finanziamento estero. Le modifiche dei leghisti a “Spazzacorrotti” (pochi giorni dopo l’incontro a Mosca) e Decreto crescita, su soldi a partiti e fondazioni. Fontana: “Basta con le sanzioni alla Russia”. Carmelo Lopapa l'11 luglio su La Repubblica.  Cancellare il divieto di finanziamento ai partiti da parte di uno Stato straniero. Emendamento 7.23, targato Lega. Sono le settimane calde di fine ottobre-inizio novembre, quelle della guerra campale tra il M5S e i leghisti sul decreto “Spazzacorrotti” del Guardasigilli Bonafede. E sono i giorni che seguono l’incontro moscovita del 18 ottobre 2018 tra Gianluca Savoini e misteriosi emissari vicini al presidente Putin, registrato dall’audio pubblicato ora da BuzzF...

Da Lettera 43 il 12 luglio 2019. A cavallo tra ottobre e novembre del 2018, la Lega presentò un emendamento che avrebbe cancellato il divieto di finanziamento ai partiti da parte di uno Stato straniero. A rivelarlo, il 12 luglio, è stato il quotidiano Repubblica, sottolineando come il blitz del Carroccio sia avvenuto pochi giorni dopo l’incontro per parlare di possibili finanziamenti alla Lega tra il neo indagato Gianluca Savoini, consigliere di Matteo Salvini, ed emissari del presidente russo Vladimir Putin. L’emendamento in questione aveva l’obiettivo di modificare l’articolo 7 della legge “Spazzacorrotti” (per esteso “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione”), cavallo di battaglia del Movimento 5 stelle, con cui in quei giorni non mancarono tensioni sul tema. In particolare, nel mirino della Lega finì il comma 2: «Ai partiti e ai movimenti politici è fatto divieto di ricevere contributi provenienti da governi o enti pubblici di Stati esteri, da persone giuridiche aventi sede in uno Stato estero o da persone fisiche maggiorenni non iscritte nelle liste elettorali o private del diritto di voto». Quella norma secondo noi andava cancellata perché vietava per esempio a un’associazione di veneti emigrati di inviarci un contributo qualsiasi. Il Carroccio depositò un emendamento a firma di nove deputati tanto stringato quanto eloquente: «Sopprimere il comma 2». L’emendamento, alla fine, fu ritirato. Per la precisione, il 18 novembre del 2018. Esattamente un mese dopo l’incontro di Mosca che oggi scuote la Lega. Parlando a Repubblica, uno dei nove firmatari di quell’emendamento, il fedelissimo di Salvini Igor Iezzi, giustifica così il blitz leghista: «Quella norma secondo noi andava cancellata perché vietava per esempio a un’associazione di veneti emigrati, che è persona giuridica con sede all’estero, di inviarci un contributo qualsiasi. Una carognata vera ricollegarlo alla storia dei russi di questi giorni. Sono arrivati a tanto?». Divenuto legge lo” Spazzacorrotti”, e con esso la norma che vieta i finanziamenti esteri ai partiti, la Lega spostò il mirino sul decreto Crescita. Riferisce ancora Repubblica: «All’articolo 43 (lettera d) compare una deroga non da poco al divieto di finanziamento estero: “Alle fondazioni, associazioni e comitati non si applica”». Il M5s riuscì a depotenziare la deroga con un emendamento che vieta alle fondazioni di devolvere gli eventuali finanziamenti esteri ai partiti. «Argine effimero, fanno notare i tecnici in materia, dato che», spiega Repubblica, «è già difficile collegare una fondazione a un partito di riferimento. Figurarsi monitorare tutti i suoi canali di finanziamento».

 “Mai stato con noi nella delegazione” Ma in foto a Mosca è al tavolo di Salvini. Il 16 luglio del 2018 Gianluca Savoini era nella sala delle riunioni del Ministero dell’Interno della Federazione Russa dove la delegazione ufficiale italiana guidata dal segretario della Lega incontrò i rappresentanti del Consiglio per la sicurezza nazionale. Carlo Bonini l'11 luglio 2019 su La Repubblica. Savoini chi? Nello spazio di un mattino, l’uomo plenipotenziario dei rapporti tra la Lega e Mosca viene derubricato dal partito e dal suo segretario, ministro e vicepremier, Matteo Salvini, al rango di appestato. Non potendo negare la conoscenza ventennale con il “nazista” di Alassio, ora presidente dell’associazione Lombardia-Russia (Gianluca Savoini è stato portavoce di Salvini quando venne eletto segretario), il vicepremier azzarda infatti una mossa che, pe...

L'incontro segreto della Lega a Mosca in cerca di fondi: la trascrizione degli audio. Nella conversazione pubblicata da Buzzfeed News si sentono sei uomini che si accordano su un possibile affare per finanziare la Lega nella campagna elettorale per le europee 2019. TRASCRIZIONE DEGLI AUDIO PUBBLICATI DA BUZZFEED. Traduzione di Marina Parada l'11 luglio 2019 per La Repubblica. Buzzfeed News ha ottenuto la registrazione audio di un incontro avvenuto il 18 ottobre 2018 all’Hotel Metropol di Mosca nel quale Gianluca Savoini, uomo vicino al segretario della Lega e vicepremier italiano, Matteo Salvini, e altri cinque uomini – tre russi e due italiani – parlano dei termini di un possibile accordo che dovrebbe incanalare segretamente circa 65 milioni di dollari del petrolio russo alla Lega per finanziare la campagna elettorale per le Europee 2019. Quella che segue è la trascrizione completa dell'incontro, durato circa un'ora e 15 minuti. Buzzfeed News ha contattato le persone menzionate nella registrazione per un loro commento, e laddove è stato fornito, lo ha incluso nel resoconto sui nastri del Metropol. Nella conversazione si sentono i sei uomini parlare in inglese, russo e italiano. Quando parlano in russo o in italiano, il dialogo è stato tradotto in inglese (e qui dall’inglese). La conversazione:

SAVOINI: È molto importante che in questo periodo storico geopolitico l'Europa stia cambiando. Il prossimo maggio ci saranno le elezioni europee. Vogliamo cambiare l'Europa. Una nuova Europa deve essere vicina alla Russia come prima, perché vogliamo avere la nostra sovranità. Vogliamo davvero decidere sul nostro futuro, sugli italiani, per i nostri bambini, per i nostri figli… Non dipendere dalla decisione di illuminati a Bruxelles, negli Usa. Vogliamo decidere. Salvini è il primo uomo che vuole cambiare tutta l'Europa. Insieme ai nostri alleati, colleghi e altri partiti in Europa. Freiheitliche Partei Österreichs in Austria, Alternativa Tedesca per la Germania [Alternative für Deutschland], Francia: Madame Le Pen, e in altri paesi lo stesso, Ungheria con Orban, in Svezia Sverigedemokraterna. Abbiamo i nostri alleati. Vogliamo davvero iniziare ad avere una grande alleanza con questi partiti che sono pro Russia, ma non pro Russia per la Russia ma per i nostri paesi. Perché per stare bene con la Russia… le buone relazioni sono per [servono] i nostri paesi. Quindi questo è il mio unico inizio [la mia unica introduzione] alla situazione politica. Ora voglio i nostri partner tecnici, che possono continuare questa discussione. Grazie tante.

UOMO RUSSO 1 [RU1]: Grazie. Ora i nostri documenti tecnici sono già stati fatti [pronti] e sono pronti per essere consegnati al Vice Primo Ministro.

SAVOINI: Sì, sì.

RU1: Ma dobbiamo discutere delle ultime decisioni forse.

SAVOINI: Prego, prego.

RU1: Per controllare il nostro [Inudibile] da preparare per il vice primo ministro.

RU1: [In russo] Quindi, dalla nostra parte, tutto è pronto, ma abbiamo dobbiamo discutere i dettagli finali.

UOMO RUSSO 3 [RU3]: [In russo] Quindi parliamone.

UOMO RUSSO 2 [RU2]: Solo un punto riguardante il legale [l’aspetto legale]. Quanto dibattuto ieri riguardava i due tipi di carburante, cherosene per l’aviazione o diesel.

RU1: [In russo] No, no, no! Non si è parlato di questioni specifiche. Lo gestiamo dopo.

RU2: Ok, quindi parlando in generale.

RU1: Ya, in generale...

RU2: Quindi ora possiamo procedere con i nomi delle forse due società in particolare che consegneranno, prima consegnando dalla Russia perché non saranno l'appaltatore finale, quindi dopo questo capiremo chi sarà l'appaltatore della compagnia che ci manderete.

UOMO ITALIANO 2 [IT2]: Intendi la banca.

RU2: Banca, banca d'investimento. Quindi, dopo questo , come tu/lei menzioni/menziona, potremmo anche discutere qualunque cosa sarà la più conveniente per entrambe le parti per quanto riguarda la consegna.

SAVOINI: Ilya [pronunciato male?], a volte è meglio che Luca traduca per Francesco.

RU2: Ok, ok, a volte...

SAVOINI: [in italiano] Meglio altrimenti lui ... [Inudibile]

IT2: Mio dio, milon [pronunciato male?] lavoro non retribuito.

SAVOINI: Ho bisogno che Francesco sappia dovunque [tutto], ora.

IT2: Ok, quindi suggerirei, Ilya, suggerirei che tu faccia [dica] solo frasi piccole [brevi] in modo che io possa...

RU?: Certo, certo, certo, ok.

IT2: Quindi cancelliamo, ricominciamo dall'inizio. Nonno. Come si dice "nonno" in Russia? Gadushka [pronunciato male?]?

UOMO ITALIANO 3 [IT3]: Sprits, spiriti.

IT2: Sì, sì, umorismo.

SAVOINI: Umorismo inglese.

RU?: Sì, umorismo inglese.

IT2: Sai, questa è l'unica cosa che posso fare [ripete la stessa frase in italiano] Parlare in inglese in modo che tu non capisca e [mi] prendo alcune libertà... Mi dispiace.

IT3: [in italiano] Lo so.

[Ridono]

RU2: In generale.

IT2: [iun italiano] Parlando in generale...

RU2: Abbiamo l’Eni per la parte italiana, giusto? Abbiamo una compagnia petrolifera russa per la nostra parte e abbiamo due società in mezzo. La banca, tu sei la banca, e una società russa che sarà… che firmerà il contratto con la banca.

[IT2 traduce all’italiano]

IT2: La quarta società è... Possiamo dire mandato come venditore per la quarta società? [Riferirci alla quarta società come avente mandato da venditore?] Non compreremo direttamente da una società tra le più grandi, giusto?

RU2: Sì.

IT2: Non compreremo direttamente da una società tra le più grandi.

RU2: Sì.

[Inudibile in italiano in secondo piano]

IT2: Francesco dice che non c’è problema ad avere una quarta compagnia in mezzo. La cosa più importante è che si tratti di un'azienda nota, perché altrimenti avremo problemi con il Kyc [Know Your Client] e l’Am... [Norme antiriciclaggio]

RU1: Quali sono i criteri? Potete darci dei criteri ai quali dovremmo attenerci?

IT2: Ebbene, l’ideale sarebbe da grande compagnia a grande compagnia con la banca in mezzo. Corretto. L’ideale sarebbe da grande compagnia a grande compagnia. Perché? Poiché stipuliamo un contratto di acquisto con la grande compagnia russa, stipuliamo un contratto di vendita con l'acquirente italiano, e abbiamo quindi un contratto back-to-back [contratto con intermediario, ndt] che si può mostrare a tutti, forse senza  il prezzo ma è chiaro che i contratti sono collegati. Se abbiamo bisogno di un'altra società in mezzo, allora abbiamo bisogno di avere, sai, dobbiamo avere una compagnia che sia ragionevolmente ben nota. Faccio un esempio. Se è Lukoil che vende, vorremmo avere Litasco. Ok. Solo per... O se è ...

[Sul tavolo arrivano caffè espresso e bevande]

RU2: Rosneft, per esempio.

IT2: Se la compagnia in mezzo è Trafigura, nessun problema per nessuno. Dovrebbe essere una ben nota, altrimenti corriamo il rischio.

RU2: Cosa è meglio? Tanto per parlarne. Questa compagnia sarà in Russia o nella [Unione] Europea...

IT?: In Europa, sicuramente.

[Inizia parlato in russo]

RU2: Quindi di cosa stiamo parlando...

RU1: Io l'ho capito. L'unica cosa che non ho capito è che cosa è un contratto back-to-back.

RU2: Se l'accordo sarà firmato tra, diciamo, Rosneft e la loro società, la banca d'investimento che lui ha menzionato sarà formalmente la banca acquirente e otterrà il margine aggiuntivo. Difatti, il petrolio passerà da un [Inudibile] a un'altra società. Loro faranno tutti i calcoli. In sostanza, i soldi passeranno dalla banca che finanzia [Inudibile] alla banca che finanzia [Inudibile]

RU1: Quattro strumenti?

RU2: È preferibile. Perché? Perché se la società, che sta acquistando dai nostri grandi produttori di petrolio, Rosneft o Lukoil, e che successivamente venderà, se poi appare una quarta società, allora questo è... [Inudibile] Hanno una certa procedura di monitoraggio e se la società non corrisponde al...

RU1: Parametri?

RU2: [Inudibile] avranno dei problemi.

RU1: E questa compagnia proviene dal nostro lato?

RU3: Non potrebbero…?

RU2: Sì, ma lui sta dicendo che se questa compagnia è del livello di Trafigura – una struttura commerciale di TNK o Rosneft – allora va bene. Vale a dire che, se questa è una compagnia ben nota, una [società] normale… Ci sono delle ragioni per cui questo accordo passa da essa.

RU3: [Inudibile] Non possiamo far vedere?

RU2: Se assomiglierà a una società di comodo, ci saranno dei rischi.

RU3: Come dovremmo agire, allora?

RU2: Dovremo scegliere la compagnia che soddisfa le condizioni. Janko [pronunciato male?] Ha detto che idealmente questa dovrebbe essere una società che sta nella UE.

RU1: Sì.

RU2: Questa compagnia non può essere dell'Europa dell'Est.

RU1: Ma in generale, questo è un compito che possiamo risolvere?

RU2: Tutto è risolvibile.

[Finisce il parlato in russo]

RU2: [Abbiamo] un po’ parlato [a lungo] perché abbiamo parlato molto di alcune opzioni.

IT2: Ma Ilya, guarda, è... è, voglio solo mettere in chiaro che se ci sono dei metodi che voi suggerite, non potremmo essere molto flessibili. Ora spetta a voi individuare o trovare la migliore strategia per vendere i prodotti. La banca è una banca inglese e quindi è soggetta all’Fca [l’Autorità per la condotta finanziaria britannica, ndt] o alla BaFin [il  Supervisore federale tedesco per i servizi finanziari] in Germania. Quindi, se l’operazione sarà grande società a grande società, non ci sono problemi. Tutti conoscono Rosneft. Tutti conoscono Eni. Tutti sanno. Se c'è un’altra in mezzo...

RU2: Un trader.

IT2: Se è  un trader è meglio, ma se ci sarà bisogno di una società sconosciuta, cosa anche  possibile, allora dovremo condurre bene la procedura "conosci il tuo cliente". Ci vorranno alcune settimane, quindi ma...

RU2: Sarà... Dovremo modificare i tempi.

IT2: Perchè il meglio per noi, e ancora una volta se per voi è più facile vendere FOB Mar Nero [petrolio dal Mar Nero con il trasporto pagato dal venditore fino al porto, ndt], per noi va bene, perché  chiederemo uno sconto di zero punti per coprire la logistica, quindi forse i costi di spedizione. Ma se per voi è più conveniente  fornirlo a Rotterdam, allora potete farci semplicemente venire a Novorossiysk, dirci “questa è la quantità, venite con le vostre navi, caricate e ve ne andate”. Anche questa potrebbe essere un'opzione. Se è più conveniente per voi. Abbiamo solo... ancora una volta, la banca è la nostra banca, quindi siamo flessibili. E possiamo, sai, essere molto flessibili.

[Inizia parlato in russo]

RU2: Poiché la banca si trova nel Regno Unito, deve soddisfare i requisiti di [Inudibile] Quindi non ci dovrebbero essere problemi con un trader importante. Ma se la società si trova in una sorta di altro livello [intende per grandezza], allora, secondo gli standard del processo di verifica, non ottempererà ai criteri formali. È possibile, ma se ci vorrà molto tempo, non saranno contenti. Ma sono flessibili su tutto il resto, come il porto di Rotterdam o il porto di Novorossiysk o qualche altro porto in Russia. La differenza di spesa [Inudibile] non è significativa. Dal punto di vista da dove farlo partire, possiamo anche scegliere Novorossiysk. Ma l'unica questione è la banca. [Inudibile] a causa di ciò, l'intero processo può fermarsi. [Inudibile] ciò creerebbe un difetto [nel processo, ndt].

[Finisce il parlato in russo]

[Inizia parlato in italiano]

IT2:  Gli ho detto che potremmo comprare dal Mar Nero se per loro è più facile. Manderemo le navi a prenderlo. Ci applicherebbero un piccolo sconto  per coprire la logistica se è più facile. Abbiamo contatti con grandi società a Rotterdam. Sono miei clienti. Verwater, che ha costruito tutto il porto di Rotterdam, sono miei clienti. Non è un grande problema.

IT2: Del  secondo problema e del secondo e ultimo problema per noi forse abbiamo parlato in passato, ma ora è il caso di parlarne di nuovo. La migliore formula per noi sarebbe quella di acquistare a credito aperto. Perché? Perché vendiamo a credito aperto. Che cosa significa? Significa che Eni prende il prodotto e paga in una finestra, una finestra temporale, una al mese. Di solito è dal 17 al 27 di ogni mese per pagare. Quindi, se Eni lo prende il 16, allora si pagano in quei 10 giorni. Se l’Eni lo prende il 28, allora dobbiamo aspettare... In gergo tecnico questa è una formula di credito aperto. Noi dovremo avere lo stesso [la stessa formula]. Perché? Perché ovviamente la grande società vende all’Eni. L’Eni compra. Quindi l’Eni paga se possibile nella stessa banca  e la banca ha già l'ordine di, una volta che la fattura dell’Eni è depositata sul loro conto, sistemare l'altro aspetto. E qualcosa rimane e poi vedremo come banca come gestirlo per le necessità, ok. Quindi, ancora una volta, solo questi due problemi. Il primo, ancora una volta, siamo flessibili. E flessibili nel senso che se Rotterdam non è conveniente, andiamo a prenderci il prodotto. Il secondo dovrebbe essere la formula di credito aperto, e in tal caso o coinvolgiamo Intesa Russia, Banca Intesa Russia, e credo tutte le società principali qui. Rosneft, potrebbe averci un conto, Eni ce l’ha. O se è dell'Austria o se è della Svizzera. Perché se è Litasco, Litasco in genere è Svizzera, o se è Austria per la Rosneft, l'Austria per esempio. Lo stesso per quanto riguarda le banche. Se è l'Austria, abbiamo ottimi rapporti con il signor Moscovic, che è il proprietario della Winter Bank. A lui possiamo chiedere di aprire un conto bancario per l’Eni, un conto bancario per il venditore e avere dei buoni tassi. Quindi è anche facile. Ma la cosa migliore sarebbe semplicemente dare alla banca un cosiddetto ordine irrevocabile così che la banca, appena ricevuto il pagamento, stabilisce il ritmo. Non c'è più bisogno di entrare in questo aspetto. Devi solo dare un ordine irrevocabile. E dalla nostra parte è tutto ciò che penso.

[Finisce il parlato in italiano]

[Inizia parlato in russo]

RU2: [Inudibile] L’ideale è, ovviamente, se entrambe le parti aprono un conto nella stessa banca. Se stiamo parlando di [Inudibile], allora è più facile lavorare con Intesa. Possono dare indicazioni di un trader senza conto, che quindi lo può aprire rapidamente. Ci sono anche banche europee che si possono aiutare. Dobbiamo pensarci con attenzione. [Inudibile]

RU1: Non capisco tutto questo! Tu sei quello che deve capire tutto questo!

RU2: Andrà tutto bene!

RU1: Mi sto perdendo con questi tecnicismi. Comincia per favore a fare le domande che sono più o meno importanti per te.

RU3: Quando arriva [Inudibile] Nikolaevich?

RU1: Domani o oggi. [Inudibile]

RU3: [Inudibile]

RU1: Quindi Ilya, tu dovresti fare le domande che t’interessano. Capisci tutto ora?

RU2: Sì.

RU3: E se chiameremo [Inudibile]?

RU2: Beh, in termini di ciò di cui abbiamo bisogno...

RU3: [Inudibile]

RU1: Parla di tutto adesso! Quando [ne potrai] parlare dopo? Parla, discuti di tutto in modo che ci siano risposte a tutte le domande.

[Finisce il parlato in russo]

RU2: Stiamo parlando della quantità. Per esempio, 3 milioni di tonnellate [metriche]  Se facciamo partire ora questo affare da 3 milioni, allora l'accordo è chiuso, non abbiamo grandi rischi. Che cosa ne pensi? È solo per un mezz’anno, giusto?

IT2: Dipende da voi. Dipende dalle vostra capacità. Noi abbiamo le capacità, le capacità tecniche, di assorbire qualsiasi quantità dato che il prodotto è il prodotto che serve. Anche qualunque quantità abbiate disponibile, ma ovviamente non credo che i vostri sforzi siano illimitati. Perché parli di sei mesi?

RU2: Per esempio, stiamo parlando di 3 milioni di tonnellate nel corso di mezz’anno.

IT2: Mezz’anno o un anno? È un anno.

RU2: Un anno.

IT2: Perché altrimenti sono 6 milioni in un anno, che è 500.000 al mese. Possiamo accettarlo, possiamo assorbire 500.000 al mese per un anno.

RU2: Se dopo quest'anno siete interessati ad andare avanti?

IT2: Assolutamente sì, ma anche se nello stesso anno, se voi ci dite, ragazzi, abbiamo difficoltà a vendere questo prodotto, diciamo che è mazut e che nessuno vuole mazut. Facciamo un esempio.  Durante l'anno in cui stiamo già comprando voi ci chiedete se possiamo comprare anche quell’altro [prodotto], noi siamo assolutamente in grado dal punto di vista tecnico di acquistare quel prodotto.

[In russo]

RU1: In realtà possiamo fare molto di più. Queste domande mi rendono molto nervoso. Quante tonnellate? E la domanda era – e poi? [Inudibile]

RU1: Diglielo: tutto è chiaro nel partito in generale. Otterremo il permesso per cominciare a lavorare, per iniziare la parte operativa intensa. Ma che cosa succederebbe se trovassimo che il nostro stesso [Inudibile]. Verkhniy mi ha detto che possiamo chiedere – che se individuiamo i nostri volumi, indipendentemente  da qualsiasi tipo di forza politica, allora possiamo ottenere qualche tipo di commissione? Come lo vedi questo?

[Finisce il parlato in russo]

RU1: Ora, ad esempio, stiamo parlando di questo messaggio politico su qualunque cosa per [Inudibile] ma abbiamo anche alcuni dei nostri contatti nelle compagnie petrolifere e del gas [Inudibile] forse proporranno qualche opzione per fornire anche del gas se sono interessati. È possibile discuterne?

IT2: Assolutamente.

RU2: Ma la domanda è: anche i contatti sono interessati ad avere una qualche commissione, se ciò è possibile per quanto vi riguarda.

IT2: Riconoscere una commissione a un intermediario?

RU2: Sì.

IT2: Nessun problema. Naturalmente, se acquisto a credito aperto, ad esempio, posso risparmiare una quantità significativa di denaro. Perché? Risparmio perché non sono costretto ad accedere ai mercati e a comprare uno strumento, un credito elettrico di riserva [così nell’originale, ma dovrebbe riferirsi a uno Sloc (Standby Letter of Credit) uno strumento per cui la banca paga nel caso il suo cliente diventi insolvente, ndt]. È più di una garanzia bancaria, un documentario [documento] perché tutto questo ha un costo. Quindi, se non ho questo costo, perché non pagare una commissione? Quindi assolutamente sì.

RU2: Quindi, per esempio, questo livello del 4 per cento di sconto dal prezzo a Rotterdam: è un prezzo base che vi copre tutti i costi? E abbiamo alcuni [Inudibile] questo è un contratto replicabile [Inudibile]. È possibile, per esempio, uno sconto del 5 per cento, è possibile?

IT2: Qualunque cosa sia superiore a 4, noi possiamo restituirla.

[Inizia parlato in russo]

RU2: Esiste un certo livello al quale [Inudibile] è difficile pagare, [Inudibile] ma da qualsiasi livello superiore, qui non ci saranno domande.

RU1: E come faranno tecnicamente in questo caso?

[Finisce parlato in russo]

RU2: Tecnicamente, che tipo di contratto [Inudibile] è possibile discorrere [pronunciato male?] questa commissione?

IT2: Abbiamo due modi. Il primo è quello di avere un normale Nc Nbia o Impfa secondo l'Icc di Parigi. Impfa è un accordo internazionale ombrello a salvaguardia del pagamento, quindi è un contratto standard emesso dalla Camera di commercio internazionale di Parigi e [in esso] è esattamente chiaramente espresso chi sono le controparti, chi è per così dire il mandato, qual è la percentuale, come è pagato, e così via. Questo è quello che si fa normalmente. Ma ancora una volta, abbiamo una banca, quindi la controparte, che è quella che prende la commissione, dovrebbe essere una società perfetta; altrimenti la banca avrà dei problemi a firmare. La seconda opzione è tra avvocato e avvocato. Posso anche stipulare un accordo con un avvocato, localizzato dove sia [domiciliato ovunque si voglia]. Sono un avvocato e posso quindi fare un contratto tra avvocato e avvocato che dice...

[Inizia parlato in russo]

RU1: Aspetti legali, sì?

RU2: Uno studio legale con uno studio legale.

RU1: Sì, ho capito [Inudibile].

[Finisce parlato in russo]

IT2: Quindi tra avvocato e avvocato è ancora più facile perché io come avvocato posso stipulare un accordo normalmente. Si chiama ‘correspondents fee agreement’ [accordo per corrispettivo della banca intermediaria] quindi dato che io sono pagato attraverso un ‘council fee agreement’ [un accordo per una tassa stabilita dall’ordine], dato che ho bisogno delle tue competenze e qualità perché tu sei un collega e sei molto ... e dopo il pagamento da lui, io pago te ed è facile. È ancora più solido, quindi dipende da voi. Dipende.

[Inizia parlato in russo]

RU1: Forse dovremmo usare questa opzione ovunque?

RU3: Se faremo di più, quindi [Inudibile]. Se otterremo lo sconto del 6 per cento, a noi che cosa viene?

RU1: Dipende dal prezzo di mercato, ha detto.

RU3: Ad esempio  [Inudibile] questa situazione.

RU2: La domanda è se possiamo usare la compagnia che è coinvolta nel traide [pronunciato male? – forse trade‘: nello scambio commerciale’] con Naftogaz. Questa è la società commerciale  [Inudibile]. È un contratto standard. Questa è una cosa. Ma questo non farebbe una grande differenza con la quarta società. La seconda opzione è più comoda. Due società [Inudibile] che di fatto collaborano. Sono le nostre aziende e si sta facendo un certo profitto  [Inudibile] trovando il partner. Stanno ricevendo una certa percentuale.

RU1: È  anche una buona opzione.

RU2: Sì, e abbiamo lo studio legale.

RU3: Lo studio legale.

[Finisce parlato in russo]

RU2: Forse è anche questo, la seconda opzione sarebbe più accettabile.

IT2: È standard.

RU2: Che cosa è la pratica abituale?

IT2: La pratica corrente è che non ho bisogno di fare controlli sulla mia controparte in base al mio codice etico perché ho di fronte a me un avvocato, non ho bisogno di fare alcuna due diligence… lui è un avvocato.

RU2: [Inudibile] Per esempio, se otteniamo uno sconto del 6 per cento quale potrebbe… che tipo di commissione sarebbe possibile avere?

IT2: È molto semplice. L’idea come concepita dai nostri ragazzi politici è che con uno sconto del 4 per cento 250.000 più 250.000 al mese per un anno, possono sostenere [mandare avanti] una campagna. Quindi se mi chiedi ora che cos'è, qual è la percentuale se facciamo il 6 per cento… la mia prima risposta sarebbe qualunque [cifra] superiore al 4 per cento, non ne abbiamo bisogno. Questa sarebbe la risposta. Non ne abbiamo bisogno, perché abbiamo fatto un piano che con il 4 per cento siamo soddisfatti. Direi che non abbiamo bisogno. Naturalmente, se sai...

[Inizia parlato in russo]

RU2: Penso che dobbiamo avere un comune interesse reciproco con loro.

RU1: È  tutto a posto con la logistica? Come otterrà lui il 4 per cento?

RU2: Funzionerà.

RU3: Lui dirà semplicemente che il costo è del 4 per cento e questo è quanto.

RU2: Da quello che ho capito, non vogliono guadagnare soldi, ma sono interessati. Voglio dire che devono essere interessati anche loro.

RU3: Certo, se a noi verrà il 6 per cento.

RU2: Diciamo  [Inudibile], in modo che possano ricavare un po' di soldi da questo accordo.

[Finisce parlato in russo]

RU2: Ovviamente, capisco che anche le mini operazioni dovrebbero riguardare entrambe le parti, ovviamente. Pensiamo che anche in questo caso anche voi dovreste ricevere una qualche commissione aggiuntiva superiorE al 4 per cento.

IT2: Perché no? Ma sai, finora non è una questione professionale, è solo una questione politica. Quindi noi non contiamo… lui non conta di farci dei soldi. Contiamo di sostenere una campagna politica, che è di beneficio, direi di reciproco vantaggio per i due paesi. Detto questo, se la ragione è che c’è spazio per organizzare uno sconto maggiore, la mia prima risposta è che il 4 per cento per noi è sufficiente, a condizione che ci sia un credito aperto in modo che non abbiamo i costi dello strumento finanziario. Direi che hanno fatto i loro piani con un 4 per cento netto, quindi se ora dici che lo sconto è del 10 per cento, direi che il 6 per cento è vostro. Ok? Certo, possiamo sederci al tavolo, ma penso che questo non sia più il mio campo, ma è facile perché hanno l'autorità per discuterne. Ma se la [vostra] prima domanda è che cosa ottengo io se faccio uno sconto maggiore, direi che prendi tutto, qualsiasi cosa [cifra] oltre il 4 per cento, noi non ne abbiamo bisogno.

[Inizia parlato in russo]

RU1: È perseguibile legalmente o penalmente?

RU2: È standard. La cosa di cui [Inudibile] sta parlando è una società che firma un contratto con un'altra società riceve un compenso e non fa alcunché.

RU1: Va bene.

RU2: In questo caso la quarta società non è necessaria. Dobbiamo parlare di questo con il Compagno.

RU1: Ok. Ora dobbiamo confermare il tipo di carburante? O non abbiamo alcuna domanda sul carburante?

RU3: Conosciamo la quantità.

RU2: Sì, abbiamo discusso 250.000 al mese e il contratto per un anno. Otterremo diesel, se non saremo in grado di ottenere del cherosene per aviazione.

RU1: Abbiamo qualche alternativa?

RU3: Parla ancora di diesel e del cherosene.

RU1: Ne sono a conoscenza?

[Finisce parlato in russo]

RU2: Abbiamo anche discusso del tipo di carburante che vi interessa. Probabilmente sarà possibile avere una certa quantità di carburante per aviazione, 100.000, 200.000, ma non ogni caso si proveremo perché voi avete detto che è una grande quantità [Inudibile] per carburante per aerei.

RU1: [In russo] Sto semplicemente pensando al fatto che più offriamo al capo, più avremo, e se offriremo in maniera specifica, allora...

RU2: Quindi proveremo a fare un contratto per entrambi i tipi.

IT2: Se per il carburante per aviazione sarà complicato, non vi preoccupate. Forse potremo trovare un prodotto diverso o forse possiamo metterci come dicevamo a Roma, lo sostituiamo con Ulsd [Ultra Low Sulfur Diesel, ndt] . Se sono 500.000 di Ulsd, per noi è ok.

[Inizia parlato in russo]

RU2: Questo non è un problema se...

RU1: Lui [si riferisce a uno degli italiani] aggiungerà qualche altra cosa alla lista per ogni evenienza? Voglio dire non quantità, ma tipo di prodotti. Aggiungerà qualcos'altro alla lista?

[Finisce parlato in russo]

RU2: Vi chiedo… su, forse, nell'aviazione aerea, abbiamo un problema perché è...

IT2: Non farlo.

RU2: È [Inudibile] licenza, ho un altro carburante con specifiche per questa lista.

IT2: Dimmelo e controllerò il mercato, se questo è un prodotto che posso vendere.

RU2: Ma devi darci il nome di questo tipo di carburante e lo aggiungiamo a questa lista che daremo al [Inudibile] primo ministro. Ci stiamo pensando.

IT2: Ok.

RU2: Ci stiamo pensando. Oggi due punti [tipi?] di carburante, il primo è il diesel, il secondo è aviazione, ma forse aggiungere un altro tipo di diesel sarebbe la soluzione.

IT2: Posso controllare. Devo chiedere al responsabile del… si chiama ufficio dei distillati. L’ufficio dei distillati è aviazione, benzina, gasolio. Gli chiederò se questo è un altro tipo di prodotto che siamo in grado di vendere ad un buon prezzo, perché se il prezzo è molto alto e riceviamo uno sconto del 4 per cento, sai che non c'è accordo. Ma controllerò. Ma chi dovrei... Perché a questo punto penso che la cosa migliore sarebbe uno scambio via email con lui. Quindi il dominio ".su". Perché ha un'e-mail [con dominio] ".su".

RU1: [In russo] Quindi! Parliamo del nuovo tipo [di carburante]. Se ce ne sarà bisogno, ti farà sapere.

IT2: Possiamo anche usare WhatsApp. WhatsApp è migliore.

RU2: WhatsApp o Telegram.

[Inizia parlato in russo]

RU1: Hai ricevuto le informazioni di contatto? Hai lasciato le tue informazioni di contatto? Quali sono le altre domande che abbiamo?

RU3: Dobbiamo dire loro che aspettiamo che ritorni Vladimir Nikolaevich. Lo stiamo aspettando. Con un po’ di fortuna avremo il via libera la settimana prossima.

RU1: Stavo pensando a qualcos'altro... Sento che devo ritornare in aereo.

[Finisce parlato in russo]

RU2: Stiamo aspettando che il signor Pligin torni [per] discuterne.

IT2: Lui è via? Ha lasciato la Russia?

RU2: Mosca.

IT2: Ah, Mosca. Non la Russia. Ho esaminato questo caso. Allora dirò di no, non è in allarme rosso [?nella lista rossa dell’] Interpol, non è...

RU2: Quindi è possibile [Inudibile]

IT: È possibile che se vuole venire in Italia possiamo organizzarlo, ma è possibile che nessuno controlli il nome nel suo passaporto. Ok.

[Inizia parlato in russo]

RU2: Parliamo di nuovo del viaggio di lavoro a Italia.

RU3: Ne abbiamo già parlato, Sasha, attieniti al copione! Andrà tutto bene.

RU1: Ho parlato con Vladimiv Nikolaevich. Ha detto che non vuole [andare in Italia].

RU3: Oh! Lui non vuole ?! Dobbiamo spiegarlo ai nostri colleghi italiani che [Inudibile] ne stavamo parlando proprio ora.

[Finisce parlato in russo]

RU2: Quindi discuteremo di quest… [Inudibile] tre società, per chi discute il prezzo, la commissione potenziale potrebbe essere superiore al 4 per cento di sconto.

IT2: Potrebbe essere migliore. Penso che entrambe le parti debbano sentirsi a proprio agio rispetto a ciò che dobbiamo fare. Non è facile. Ci sono molti problemi nascosti. La nave [petroliera] è in ritardo. O la nave ha caricato e le autorità portuali, le autorità portuali russe, dicono di no, non puoi partire. Ci sono molti problemi nascosti. Facciamolo in modo facile dall'inizio.

RU2: Quindi Eni utilizzerà le proprie navi?

IT2: Eni ha le proprie navi, ma normalmente dipende da dove si trova la petroliera, perché potrebbe, potrebbe essere più conveniente chiedere, ad esempio, alla Esse Di Maria [pronunciato male?], una delle più grandi compagnia di logistica, o a qualche altra compagnia secondo dove debba andare. Quindi Eni ha le proprie navi, ma normalmente quelle Eni arrivano a 50.000, quindi il modo migliore per risparmiare sui costi del trasporto sarebbe avere almeno un Aframax. Aframax è una categoria di nave da carico fino a 250.000.

RU2: Ad esempio, se è per il Mar Baltico, possiamo solo fino a 120.

IT2: Baltico?

RU2: Sì. Per quanto riguarda Novorossiysk, controlleremo.

IT2: Lì avete Transneft, quindi forse [basta che] aprano l’oleodotto, carichino e partano.

[Inizia parlato in russo]

RU1: Dovremmo discutere di porti.

RU2: Ne stiamo parlando ora. Ci sono opzioni di consegna nel Mar Baltico e nel  Mar Nero.

RU3: [Inudibile] piccole navi.

RU2: Ci sono dei costi aggiuntivi. Se è il porto di Rotterdam, i costi potrebbero essere più alti a causa del fatto che ci sarà una commissione. Lo risolveremo. Anche se Janko ha detto che il 4 per cento è abbastanza per loro. Non ci saranno problemi.

[Finisce parlato in russo]

IT2: Penso che forse ora dovremo sforzarci, che il nostro sforzo comune dovrebbe concentrarsi sul calendario. Se saremo molto veloci, ma dobbiamo essere molto, molto veloci, penso che la prima consegna potrebbe essere a novembre e non penso che dipenda da voi, ma dobbiamo essere molto veloci.

RU2: Anche io sono d'accordo con voi perché dobbiamo agire molto rapidamente.

[Inizia parlato in russo]

RU2: Secondo Janko, è meglio creare [Inudibile] sin dall'inizio.

RU1: Dovremmo agire rapidamente. Siamo d'accordo con Gianluca.

RU2: Se è più semplice, inizierà a funzionare prima.

[Finisce parlato in russo]

RU2: Ci siamo detti che dobbiamo agire molto rapidamente.

IT2: Sai che sono disponibile, a vostra disposizione. Se mi mandate un WhatsApp domani, vieni qui a Mosca, ho un visto per più ingressi, posso tornare e tornare qui.

RU2: Per il visto puoi passare dall’ambasciata, puoi farlo un giorno.

IT2: Non voglio che il mio passaporto passi dalla vostra ambasciata. Sai che la vostra ambasciata in Italia è un mio cliente. Ho visto per più ingressi. Prendo solo...

[In italiano Inudibile]

IT2: Francesco sta dicendo che la rapidità è della massima importanza perché le elezioni sono dietro l'angolo, quindi dice che va bene partire molto rapidamente e forse poi tra sei mesi, c'è qualche problema, è ok se [davanti a] qualche problema si ritarda, ma è meglio concentrare gli sforzi una volta per tutte e iniziare il prima possibile.

IT3: Il problema è [Passa all’italiano]... dunque dopo due o tre mesi va bene.

 [Inizia parlato in russo]

RU1: Ho l'opportunità di andare in Italia a novembre. Ha senso?

RU3: Chi ha l'opportunità? Tu l’hai? E allora?

RU2: E allora?

[Finisce parlato in russo]

[Alcuni degli uomini fumano]

RU3: Capisco l'inglese, ma non lo parlo.

IT2: Capirlo è sufficiente. Vieni/viene in Italia qualche volta? Con moglie, figli?

RU3: Marzo. L'anno prossimo.

IT3: Io non parlo inglese.

RU3: [In italiano] Non parlo italiano.

IT2: Ora ci stiamo concentrando sulla rapidità. Se ci diranno se saranno 250 o 500.000. Se ci diranno se c'è qualche altro prodotto,  se ci diranno se c'è uno sconto extra da rendere. Va tutto bene. L’ho detto e Andrey ha convenuto che la rapidità è della massima importanza. Se siamo veloci ora forse la prima consegna [sarà] a novembre; se non siamo veloci, allora forse è dicembre, e poi a dicembre sappiamo che in Italia è Natale e tutti diventano molto pigri.

SAVOINI: anche in Russia. In Russia, Natale [è] a gennaio. Vacanza italiana poi russa, abbiamo un mese di vacanze: 15 dicembre-15 gennaio, le festività di Italia e Russia insieme.

IT2: Ho detto loro che sono disponibile a chiamata. Voglio dire se hanno bisogno che prenda un volo e venga a Mosca domani, nessun problema. Mi concentrerò su questo, sono lì. Possono fare quello che serve. Se hanno bisogno di me, sarò lì anche con un manager che può eseguire. Prendo il telefono a Londra, salgo su un aereo e sono qui. E il resto dipende da voi. Cercate di trovare la soluzione migliore. Sono sicuro che queste elezioni saranno buone elezioni. Quelle europee a maggio.

SAVOINI: Sì certo, certo. Stiamo davvero cambiando la situazione in Europa. Ed è impossibile che ciò si arresti. La storia sta marciando, quindi è impossibile. È davvero un new deal, una nuova situazione, un nuovo futuro per noi. Siamo al centro di questo processo. Ma abbiamo molti nemici, siamo in una situazione pericolosa perché il nostro governo è attaccato da Bruxelles, dagli uomini globalisti, non da Trump, ma dall’establishment di Obama… molto, molto fortemente e internamente anche in Italia. Siamo in [Inudibile] pericolosa/o... non è così semplice, ma vogliamo combattere perché siamo dalla parte della verità.

IT2: Se avete qualche gulag, vi possiamo mandare qualcuno dall'Italia. Il gulag. Gulag. È uno scherzo, ma se avete un gulag, vi mandiamo un mucchio di gente.

IT?: Per la rieducazione.

IT?: Riabilitazione.

RU?: Riabilitazione.

IT?: Riabilitazione mentale.

[Inizia parlato in italiano]

IT2: Sono molto fiducioso.

SAVOINI: Il sentimento è buono/C’è un buon feeling.

IT2: Non capisco quel reso, a chi va.

SAVOINI: A loro. Prendono anche 400 o il cazzo che hanno bisogno di prendere. Non importa. È una garanzia Significa che lo continueranno a fare e a noi questo va bene.

IT2: Certo. Con la prima consegna, Gianluca, prendiamo la banca. Voglio essere nella sala di comando.

SAVOINI: Lui mi ha già detto dove sarai.

IT2: Con la prima consegna tu prendi tutto. Dalla seconda sei libero. L'attuale presidente, che ha già avuto i suoi margini, lo mettiamo a contratto, 20.000 sterline al mese, ottimo; dopo di che 'io ti dirò', noi gli diremo cosa fare. La banca quindi sarà necessaria per altre enne operazioni.

SAVOINI: C'è il controllo totale.

IT2: Hanno un problema bancario, a loro potrebbe essere utile una banca con doppio passaporto dopo Brexit. A quel punto ti posizioni su una corsia finanziaria che è molto più redditizia del commercio fisico. Perché il commercio fisico presenta sempre dei rischi. Vai dal panettiere e il pane è finito. Nel ramo finanziario, invece, addebiti zero virgola [qualcosa] sulle transazioni e attendi a casa che ti arrivi il bonifico . Dopo Francesco vedrà come organizzare il rientro. È necessario essere prudenti.

SAVOINI: Ovviamente. Lì non saprò nulla, niente. Devo essere più che prudente. Avremo tutti la/il [Inudibile] e i loro satelliti [puntati] su di noi. Ma sono fiducioso in tutte le nostre capacità nei nostri rispettivi campi. Abbiamo creato questo triumvirato, io, te e lui, che deve lavorare in questo modo. Solo noi tre. Un compartimento stagno. Anche ieri Aleksander ha detto che la cosa importante è che siamo solo noi [tre]. Tu, io, rappresentiamo il collegamento con entrambi, l'italiano e il loro 'lato politico', e tu – con me – siete i miei partner. Solo noi. Tu, Francesco e io. Nessun altro.

IT2: Se ci incontriamo, non parliamo di questa roba.

SAVOINI: Non è che non ci incontreremo. Conosci Francesco meglio di me. Non è che non ci incontreremo più. Ci incontreremo quanto sarà giusto. Andiamo d'accordo.

IT2: Devi toglierti quel fottuto pettorale/bavaglino. Vieni con noi e troverai degli amici, ne sono sicuro.

[Finisce parlato in italiano]

[Inizia parlato in russo]

RU3: Diremo che è uno studio legale.

RU2: Sì, cambieremo tutto. Andrey!

RU1: Abbiamo finito qui? Dovremmo pagare e andare?

RU2: A proposito di [Inudibile].

IT3: [In italiano] Voglio dire quanto è importante per noi farlo entro dicembre, anche se poi si ritarderà di due, tre mesi, giugno, luglio non ci interessa.

[Fine parlato in italiano e in russo]

RU2: Per quanto riguarda il futuro contratto, penso che abbiamo tutte le informazioni. Aspetteremo di parlare con Mr. Evgeny [pronunciato male?] dopo questo. Capisco l'urgenza. Quindi più facile è, meglio è. Penso [Inudibile].

IT2 [prende appunti]: Ok. Solo perché sia chiaro: aspetterò la vostra conferma del prodotto, le quantità e qualunque altra cosa vi riuscirà. Confermate prodotto, quantità e prezzo. Perché lo sapete. E io posso aggiungere un “nota bene” che va bene il 4 per cento, forse di più, "da rendere".

RU2: Meglio di tutto [sarà] per passare il contratto da qualche studio legale. Sarà la cosa migliore.

IT2: Penso di si. Per me, è molto facile.

RU2: A noi sembra che sia molto facile. Meglio per voi. Altrimenti restrizioni.

IT2: Non ho bisogno di fare alcuna due diligence se agisco da avvocato con un altro avvocato, do per scontato che l’ordine degli avvocati di cui il mio collega fa parte garantisca le sue... Quindi non ho bisogno fare alcune due diligence. Ok, aperto, credito aperto.

RU2: Irrevocabile.

IT2: Credito aperto. E poi è istruito dalla banca.

RU2: Intesa.

IT2: I-n-t-e-s-a irrevocabilmente per pagare una volta ricevuti i fondi. Intesa BCI Russia. E penso che abbiano dentro un loro uomo, quindi dovrebbe essere facile.

[Inizia parlato in russo]

RU1: Che cos'è Intesa?

RU2: È una banca italiana.

RU1: Ha rappresentanza in Russia?

RU2: Sì! Gianluca ha la sua gente lì. Ha detto che così sarà più facile.

 [Finisce parlato in russo]

IT2: Alla Lega hanno già nel comitato direttivo un uomo che si chiama Mascetti e quindi possiamo parlare con lui. Ma se sarà un'altra banca, se sarà un'altra banca, forse una banca europea, svizzera o austriaca, allora non preoccupatevi, abbiamo contatti sia in Svizzera sia in Austria. Ok a Intesa BCI, e questo è un “nota bene” che confermerete i prodotti e le operazioni.

RU2: [Quanto alla] consegna abbiamo discusso se porti russi o [Inudibile].

IT2: Ok ai termini di consegna sia FOB Rotterdam o FOB, direi, altri porti del Mar Nero. Porti del Mar Nero. Altro? Direi anche che la rapidità di NB [new business??] è della massima importanza. Prima consegna a...

[Inizia parlato in russo]

RU1: È italiano, non italiano, ma il Trump europeo, perché ora è diventato il capo di tutta l’ultra destra [in Europa].

RU2: Destra?

RU1: Dell'estrema destra – Le Pen, AfD. Il terzo [più forte] partito in Finlandia...

RU2: … in Svezia.

RU1: È il capo di tutta la destra.

 [Finisce parlato in russo]

IT2: Farò solo uno screenshot qui e ve lo manderò in modo che siamo sincronizzati. Ok, signori, penso che le cose stiano andando nella giusta direzione e...

RU1: Ed sarà la mia fortuna farli agire rapidamente e immediatamente.

IT2: Ci riuscirai. Forse potremmo anche incontrarci a Roma se voleste, o a Londra, magari in banca o magari anche presso l’Eni. Questi sono solo dettagli. Diamoci da fare con le cose fondamentali e, una volta che i punti fondamentali saranno a posto, il resto saranno solo dettagli da concordare. Altro?

[Italiano Inudibile sullo sfondo]

SAVOINI: Impossibile.. dollari non puoi in Russia.

[Fine parlato in italiano]

IT2: In Russia non si può operare in dollari Usa?

RU2: Possiamo operare in qualsiasi valuta.

IT2: Dice che se la banca è russa, non si può operare in dollari.

SAVOINI: [Inudibile] ... in Ucraina ...

RU2: Non possiamo operare in dollari tra compagnie russe.

IT2: In ogni caso, possiamo anche usare euro. Possiamo convertirli. Ma dovremmo capire se il Platz Index [l’indice applicabile alla provenienza del petrolio, ndt] è anche [pubblicato] in euro, potrebbe non essere solo in dollari. Ma questi sono ancora una volta dei tecnicismi. L'ultimo sarà… abbiamo detto quindi termini di consegna Rotterdam o Mar Nero... [Riprende a parlare in italiano]

SAVOINI [in italiano]: Lo si è sentito [SAVOINI] suggerire consegna iniziale più piccola se più semplice. Ha ribadito preoccupazioni su dollaro. "Il codice Swift non si trasferisce".

[Inizia parlato in italiano]

IT?: Dopo questo incontro, dobbiamo parlare con il tizio che inizia con un "Ma" e finisce con "etti" in modo che si incontrino dopo che avremo chiuso gli aspetti fondamentali. Perché m’interessa? Perché Eni ha già dei conti presso Intesa, e loro anche, probabilmente.

[Fine parlato in italiano]

IT2: Sta dicendo di fare attenzione alla transazione finanziaria per non incorrere in alcun problema. Posso dire di sì, che ci lavoreremo?

RU2: Se lo facciamo in una [sola] banca, per esempio Intesa, non ci saranno problemi.

IT2: Sono d'accordo che dobbiamo coinvolgere la banca. Secondo passo chiamare la banca, questa è la necessità, e che non addebiti molto. Sai che è facile. Quindi è ancora una volta politico.

[Al tavolo portano il conto. Segue una breve discussione, risate su chi paga]

IT?: Lo facciamo, Andrey! [Inudibile].

RU?: Questa non è Roma.

SAVOINI: Mosca è la terza Roma.

IT2: Tempo bellissimo. Voglio solo fare una piccola passeggiata. Se volete.

RU?: Non mi piacciono questi pacchetti [riferendosi all'etichetta di avvertimento sul pacchetto di sigarette]. Non mi piacciono queste foto. In Italia è anche peggio.

RU1: Non posso comprare sigarette a Roma. Dunhill. Quando le ho viste. Era una foto terribile. Questo paese è molto più aperto ai fumatori, non ci sono immagini.

IT2: La sai la barzelletta. In Italia di foto ce ne sono diverse. Ce n’è una con una donna incinta che dice di non fumare perché corri il rischio di non rimanere incinta, e noi maschietti chiediamo sempre [il pacchetto con quella immagine], quella che dice che non rimarremo incinti, per favore. Mi dà per favore uno di quelli contro la gravidanza?

A dire il vero, è stupido fumare. Dovremmo smettere. D'altra parte, è molto difficile. Ora la Philip Morris produce una sigaretta elettronica. Voglio provarla.

RU1: Yuri ha una esperienza. Ha smesso di fumare da un giorno all’altro giorno. Dopo 13 anni da fumatore. Ma ora ha ricominciato.

IT2: Chiudiamo l'accordo e smettiamo tutti insieme.

RU1: Sì.

IT2: Smettiamo di fumare e cominciamo ad andare con le ragazze.

RU1: La moglie sarà felice.

[Si sentono sedie spostate e gli uomini parlare di vacanze in Sicilia e in Sardegna, nomi di alberghi, orari di voli].

IT?: Andiamo.

[Si sente il rumore degli uomini che si allontanano dal tavolo]

BuzzFeed Traduzione di Marina Parada

Nota: Il testo è stato pubblicato originariamente da Buzzfeed News, che ne ha autorizzato la pubblicazione in italiano.

La sinistra si indigna sui rubli che ha incassato per 50 anni.

“UNA TRAPPOLA ORCHESTRATA AD ARTE. COME NEL CASO DEL VICE-CANCELLIERE STRACHE”.  Igor Pellicciari (docente Università di Urbino - Università Statale di Mosca per le Relazioni Internazionali)  il 21 luglio 2019 su Dagospia. A commentare il famigerato (ed un po’ comico) affaire leghista in Russia c’è il rischio, come diresti tu Maestro Dagonov, che scappi alla grande la frizione. Per prima cosa sarebbe il caso di analizzare i fatti certi per poi arrivare a fare qualche supposizione su cosa sia realmente avvenuto e perché. Ma sappiamo che in Italia la tentazione di commentare prima ancora di raccontare è forte - in questo come in altri casi. Ricapitolando. 

Ad oggi sappiamo che alcuni individui pare molto collegati alla Lega si sarebbero avventurati in un incontro nella lobby di un albergo a Mosca con dei partner russi, cercando di mettersi al centro di una transazione di petrolio ceduto a prezzi di favore per ottenere, nel rivenderlo, una marginalità di ben 65 milioni di Euro - da spartire in modi e forme non chiare, anche perché ad oggi pare che l’affare non sia andato in porto, nemmeno in minima parte. Le prime domande spontanee da porsi sono: 

1) è credibile questo incontro?

2) quale era il suo obiettivo e chi ne ha trasmesso la registrazione dei dialoghi, degni della parodia di uno spy movie di serie B? 

Sulla prima questione - la dinamica dell’episodio più che un incontro al vertice ricorda una trappola orchestrata ad arte per fare abboccare degli ingenui interlocutori stranieri, esaltati da luoghi comuni sulla Russia paese dei balocchi e calatisi nel ruolo delle spie venute dal freddo. Chi vive a Mosca sa perfettamente che seguendo una tradizione iniziata nel periodo sovietico per motivi di controllo e rafforzatasi di recente per motivi di sicurezza anti-terrorismo, tutte le lobby degli alberghi 5 stelle nella zona del Cremlino (e spesso anche quelli nelle immediate vicinanze) pullulano di telecamere di sicurezza e microfoni ad alta definizione. L’Hotel Metropol si trova ad un centinaio di metri dalla zona del Cremlino e a pochissima distanza dalla Lubyanka (l´ austero palazzo dove hanno sede centrale i servizi di intelligence russa dell’ ex-KGB, oggi FSB) e della omonima stazione della metropolitana dove pochi anni or sono un sanguinoso attentato terroristico riuscì a fare deflagrare una bomba. Insomma si tratta di una zona presidiatissima e un luogo osservato di default - non proprio un posto discreto dove discutere dei dettagli di una operazione a dir poco delicata. 

Inoltre, non si capisce perchè degli interlocutori russi che giocano in  casa  scelgano un posto cosi informale ed esposto come la lobby di un Hotel centralissimo per incontrarsi - come se abbiano la necessità di nascondersi goffamente da quelle stesse istituzioni che governano e controllano stabilmente. La Russia è paese molto istituzionale con fortissimo senso della liturgia formale nei luoghi di potere. A differenza della tradizione latina, dove regnano incontrastati “pranzi e cene di lavoro”,  le principali questioni in Russia, specie quando di parla di "Aiuti di Stato", vengono decise  negli uffici preposti e discussi dalle persone direttamente responsabili. Non c’è motivo alcuno politico o funzionale di affidarsi come in Italia ad un sottobosco contiguo che operi in zone di semi-ombra e border-line. Insomma la Russia non agisce né negozia così quando decide di aiutare qualcuno. Se per i locali moscoviti questa del Metropolè una location irrituale, a dir poco non credibile se non rischiosa, altro discorso è per gli italiani coinvolti – che si muovono in maniera molto ingenua in un contesto che dimostrano di conoscere poco a partire dalla lingua che non parlano, per nulla (??!). All’epoca del PCI e dei partiti veri tradizionali vi era una generazione di politici alla Togliatti, Pajetta & Co. che a momenti si esprimevano meglio in Russo che in Italiano perché avevano studiato e vissuto per anni a Mosca. Nel contesto fluido dell’affarismo trasversale della seconda/terza repubblica, i partiti non hanno veri quadri intermedi e devono obtorto collo affidarsi a soggetti improvvisati. A costoro basta fare alcuni viaggi a Mosca in coda a qualche missione istituzionale e avere magari una fidanzata dell’area (russa o bielorussa, che differenza fa ?) per considerarsi già esperti tout court del paese. E lasciarsi trascinare in un trip mentale convinti di essere agenti che muovono le fila del gioco, soggiogati però dal narcisismo di apparire a cene ufficiali ed in prima fila a conferenze stampa ed incontri, invece di tenere un profilo bassissimo come un ruolo del genere, se interpretato seriamente, richiederebbe. Come avvenuto nel caso del vice-cancelliere austriaco Strache, la trappola è scattata ed ha funzionato benissimo, giocando sull’ignoranza, narcisismo protagonista, provincialismo internazionalista delle vittime predestinate  nonché  - ma questo va dimostrato - su un senso di affarismo tutto italico, dove si parte sperando di fare un Golden Golda 65 milioni ma poi ci si accontenta male che vada anche di 65.000 euro quando si capisce che probabilmente non si quaglierà nulla. 

Riguardo la seconda domanda che ci siamo posti - è più semplice rispondere a quale fosse l’obiettivo di questa trappola rispetto a chi ne sia stato il vero mandante.  Una cosa infatti è certa. Questo episodio già da ora ha dato una forte e immediata ridimensionata ad un muoversi internazionale leghista piuttosto contraddittorio, che pretendeva di applicare a russi ed americani la stessa strategia (o meglio dire, tattica) del doppio forno usata in Italia, dove si può   governare al centro con i 5Stelle restando alleati con Berlusconi a livello regionale. I recenti viaggi di Giorgetti e Salvini negli States – seguiti dalla visita di Putin a luglio a Roma hanno fatto emergere con chiarezza imbarazzante una spregiudicatezza nel volere tenere, a seconda dei casi, posizioni a parole super trumpiane o turbo filo-russe, non curanti del fatto che USA e Russia siano in una fase dei loro rapporti non facile e delicatissima. Si sono dimenticati che l´Italia del secondo dopo guerra è un paese filo-atlantico a sovranità limitata e non è autorizzata a muoversi nelle relazioni Internazionali come play maker autonomo. E poi c’è  l’attitudine Salviniana -tipica di un leader la cui immagine si sovrappone a quella del suo partito- di ripetere l’errore compiuto a suo tempo da Berlusconi con Forza Italia. Ovvero di cercare di essere non semplicemente in buoni rapporti con USA e Russia ma di diventare l’amico personale da pacca sulla spalla ai due Presidenti, personalizzando così proclami di amicizia ma anche contraddizioni. E’ uno split brain che ha innervosito sopratutto il versante americano, infastidito da queste accelerazioni non concordate sul versante Russo da parte del leader di un paese alleato sì – ma non di pari livello e con la nomea storica di essere inaffidabile.

La Russia se l'è presa di meno. Al Cremlino accettano benissimo che l’Italia appartenga al campo opposto atlantico e per essere amici di Mosca in questa fase basta non cadere nell’ isteria russo-fobica che ha da tempo pervaso molte delle cancellerie europee. E però anche Mosca è rimasta sorpresa - quando non infastidita - nel constatare che Salvini, vero campione della critica alle sanzioni alla Russia quando era all’opposizione; una volta giunto al governo ha preferito fare la voce grossa con l’Europa sulla questione dei migranti mentre si è fatto di nebbia sul cavallo di battaglia storico di alleggerire la pressione su Mosca. Sul rinnovo delle sanzioni europee contro il Cremlino il governo Conte ha seguito docilmente la linea del rigore tedesca ed ha fatto molta meno opposizione in Consiglio Europeo di quando abbia fatto a suo tempo –addirittura - Renzi. Pista americana e russa a parte, vi è poi una terza ipotesi sul possibile mandante dell’ affaire del Metropol che sta girando in queste ore a Mosca, molto meno sofisticata e più banale delle precedenti. E’ una ipotesi che appassiona meno gli analisti ma che risveglia l’italico interesse per il gossip in salsa politica, tanto caro alle nostre cronache. Essa vorrebbe l’esca del Metropol essere il risultato di una faida tutta interna ai salviniani che operano su Mosca, ovvero tra quanti cercano di accreditarsi come il rappresentante primo e vero del leader leghista al Cremlino. E’ questa una posizione a cui in molti puntano che oltre ad uno status prestigioso politico, assicura anche di riflesso un grande potere negoziale e di indirizzo delle numerose relazioni tra Italia e Russia, in tutti i campi. Vista da questa prospettiva, il vero obiettivo iniziale della trappola della intercettazione sarebbe non tanto Salvini, quanto lo stesso Savoini – che, risvolti penali a parte, vede oramai compromesso il suo ruolo futuro di ambasciatore leghista a Mosca – a tutto vantaggio di quanti ancora puntano all’ambito ruolo. Quale delle ipotesi riportate qui sopra è quella vera? O forse, come nei migliori spy movie di serie B – sono un po' vere tutte e tre? Come dici tu, Maestro Dagonov, ah saperlo...

Maurizio Belpietro per “la Verità” il 15 luglio 2019. Più ci si addentra nell' affaire russo e più si capisce una cosa e cioè che c'è chi ha sperato e forse ancora si illude di far fuori Matteo Salvini con lo stesso metodo con cui è stato fatto fuori Heinz-Christian Strache, leader di Freihitliche Partei Osterreichs, il Partito austriaco delle Libertà. Per Strache fu costruito un trappolone con promesse di soldi russi, proprio come si sarebbe voluto fare con Salvini. Invitato in una villa a Ibiza, da misteriosi emissari di un oligarca vicino a Putin, Strache fu filmato mentre discuteva di petrolio e finanziamenti al suo partito e il video a un certo punto comparve in Germania, sui siti di alcuni giornali, tra questi l' equivalente tedesco dell' Espresso, costringendo il vicecancelliere viennese alle immediate dimissioni. Ecco, con Salvini lo schema doveva essere identico. Farlo partecipare a un incontro, per poi incastrarlo. Qualche cosa però deve essere andato storto, perché alla fine, all' Hotel Metropol, luogo di mille intrighi, invece del capitano leghista si è presentato solo Gianluca Savoini, un ex giornalista della Padania che da anni ruota intorno alla Lega attribuendosi un ruolo di consigliere. Un tipo in grigio, sempre pronto a partecipare, soprattutto quando si parla di Russia, di cui, per via di una moglie nata da quelle parti, si sente un grande esperto. Savoini era l' uomo dei grandi affari e delle ottime relazioni? Lo racconta bene Irina, l'interprete moscovita (il grande consulente infatti non spiccica una parola di russo) in un'intervista al Corriere della Sera, quando per spiegare il personaggio dice che un giorno le fece una scenata perché si era dimenticata di citarlo in una intervista. Commento di Irina: se uno è davvero potente come vuole far credere certo non se la prende se non è citato. Qualcuno però deve aver creduto che Savoini fosse un personaggio chiave per incastrare Salvini e così è scattata la trappola del Metropol. Una hall aperta al pubblico e alle orecchie indiscrete per concludere un affare riservato da 65 milioni. Tonnellate di petrolio, le prime delle quali avrebbero dovuto arrivare via mare già nel novembre scorso. Dove sono finite queste navi, che avrebbe dovuto rifornire l'Eni, nessuno lo sa. La società petrolifera smentisce di aver mai stretto accordi commerciali del genere, ma questo è un dettaglio per il circo mediatico che punta alle dimissioni di Salvini per scardinare la Lega. Nessuno si interroga su chi abbia avuto interesse a registrare il colloquio e poi a renderlo pubblico. Nessuno si chiede se i giornalisti dell' Espresso, che per primi parlarono di questa storia, davvero ascoltarono dal tavolo di fianco la conversazione tra Savoini e i suoi misteriosi emissari. Possibile captare un discorso in lingue diverse senza destare sospetti e riuscire a riportarlo senza errori? I colleghi del settimanale debenedettiano sono in grado di dimostrare di non essere stati loro a registrare il colloquio e di non essere stati loro a consegnarlo alla Procura? E in questo caso, se la registrazione non arriva da loro, che pure hanno dichiarato di essere stati presenti, chi altri ha realizzato l' audio per poi consegnarlo alla magistratura? Come è poi possibile che la segretissima operazione che doveva pompare milioni nelle casse della Lega fosse nota ai giornalisti e anche ad altri che poi precostituirono una prova fonica delle registrazione? Le domande, per ora, sono destinate a restare senza risposta, soprattutto fino a che non sarà chiaro come sia stata acquisita la registrazione da parte della Procura. Nel frattempo si scopre che uno dei partecipanti all' incontro è un avvocato massone, affiliato a una loggia francese. E guarda caso i francesi sono anche i più acerrimi nemici di Salvini, perché sull' Europa, sull' Italia e sulla Libia, Emmanuel Macron ha progetti che non coincidono esattamente con quelli del capitano leghista. Far cadere il vicepremier, ossia l'unico uomo forte italiano rimasto su piazza, per l'Eliseo sarebbe un gran colpo. Per ora, proprio da Parigi, torna a farsi vivo un desaparecido della politica, ossia quell' Enrico Letta che, oltre a dirigere in Francia una scuola politica e ad aver conquistato una Legion d' onore transalpina, è anche una possibile risorsa da mettere a Palazzo Chigi in un eventuale governo tecnico dopo quello pentaleghista. Letta, in un'intervista a Repubblica, indovinate che cosa dice? Ovvio, no? Chiede le dimissioni di Salvini. La trappola per l'Italia, insomma, è pronta.

 SERVIZI & SEGRETI. Dal “Corriere della sera” il 18 luglio 2019. I servizi segreti italiani monitoravano i movimenti di Gianluca Savoini e di Claudio D'Amico, i due fedelissimi di Matteo Salvini ritenuti emissari per i rapporti con la Russia. La conferma arriva dopo l' audizione del direttore dell' Aise Luciano Carta di fronte al Comitato di controllo parlamentare. Ma i dettagli rimangono segreti perché, come chiarisce l' alto funzionario, «è in corso un' inchiesta della magistratura milanese, dunque nulla può essere rivelato». Al Copasir Carta assicura che «la vicenda non ha rappresentato un pericolo per la sicurezza nazionale». Il direttore dell' Agenzia parla per quattro ore e la seconda parte del suo intervento - dopo l'analisi sul dossier Libia - è tutta dedicata alle «influenze e ingerenze dei russi in Italia». Per ribadire che l' attenzione, anche con l' arrivo al governo della coalizione Lega-Movimento 5 Stelle, non è calata e soprattutto che «ci sono interferenze, come dimostrano le numerose operazioni effettuate negli ultimi mesi». Il direttore sottolinea anzi che c' è stato un «continuo e crescendo attivismo» degli 007 e questo ha portato a numerosi risultati nell' attività di controspionaggio e dunque nel fronteggiare proprio le numerose intrusioni russe che sembrano essere aumentate proprio negli ultimi mesi. La prossima settimana sarà il direttore dell' Aisi, il servizio segreto interno, a dover riferire alle Camere ma anche nel suo caso esiste il problema del segreto istruttorio. Nei prossimi giorni il Copasir chiederà alla Procura di trasmettere tutti i documenti che è possibile rendere noti proprio per ricostruire quale sia stato il ruolo effettivo di Savoini nella trattativa con i russi registrata all' hotel Metropol nell' ottobre del 2018 in cui parlava a nome della Lega. E dunque la natura del legame con il leader leghista Matteo Salvini di cui è stato per anni il portavoce.

Intervista di Federico Ferrau per Il Sussidiario ripubblicata da “il Giornale” il 18 luglio 2019.

Giulio Sapelli, cosa pensa dell' inchiesta sui presunti fondi russi alla Lega?

«Va collegata a molte cose. In primo luogo a quello che è successo in Austria, dove il giochetto è servito a liquidare una maggioranza di governo sgradita all' Ue: un patto inedito tra un partito aderente al Ppe e un partito di destra, candidato a trasformarsi e ad assumere maggiore responsabilità politica».

Continui.

«Il caso Metropol è esploso dopo che la sindaca di Parigi ha concesso la massima onorificenza della città, la medaglia Grand Vermeil, alla capitana Rakete. C'è un concerto internazionale e nazionale per far fare a Salvini la fine di Craxi. Ovviamente i francesi sono in prima fila».

E in Italia?

«La7, di proprietà di un imprenditore che aspira ad entrare in politica e a fare il capo del governo, ha appena fatto uno speciale su Tangentopoli dove Di Pietro, Colombo e soprattutto Davigo hanno dato la linea politica».

Chi è stato secondo lei a raccogliere la registrazione al Metropol?

«Non sono stati gli Usa. Mi pare piuttosto il tipico gioco della disinformacija russa: dare a tutti i cani un piccolo bocconcino, in modo che girando qua e là, li diffondano. Ezio Mauro sente l' odore del sangue dell' animale ferito. È quello che scrivevano i fascisti quando parlavano degli inglesi o degli ebrei».

Le procure sono sempre al lavoro. Differenze tra ieri e oggi?

«Nel '92-94 si trattò di un di un grande disegno internazionale con a capo la centrale del mercatismo mondiale che era Londra. Adesso la disgregazione dello Stato italiano ha colpito anche la magistratura, come si vede dalla crisi del Csm».

Questo cosa comporta?

«Una lotta senza esclusione di colpi. L'Ue sta implodendo, tutto è molto più complicato da gestire anche per loro».

Ci vuole dire con più precisione chi o che cosa si tratta di gestire?

«Il problema è che certi gruppi puoi farli salire, agevolandone la presa del potere, ma poi le persone fanno quello che vogliono».

Si riferisce ai 5 Stelle?

«Certo. Alcuni sono manovrabili, altri no e questo crea grandi problemi. Anche se sono stati scelti con cura per il loro compito».

Qual era?

«Continuare il lavoro di Monti. L'esempio più chiaro è sotto gli occhi di tutti: l'accanimento sull'Ilva. Se chiudono l'Ilva, i 5 Stelle hanno assolto il loro compito».

A quel punto?

«A quel punto M5s non serve più. All'Italia invece serve la Lega. Ma qui Salvini paga il suo più grande errore: invece di corteggiare Orbán, avrebbe dovuto dare battaglia al Fiscal Compact dall' interno del Ppe».

Adesso cosa può fare Salvini?

«La Lega deve elaborare in modo più compiuto una politica economica non ordoliberista e approfondire la sua fisionomia di partito dei produttori».

L'incontro con le sigle sindacali e datoriali non va in questa direzione?

«Non lo avrei fatto al Viminale, piuttosto in una sede della Lega. Non è stato ciò che poteva essere: dei veri e propri Stati generali della produzione. Per concepire una cosa del genere però occorre sostituire i social con la politica».

Sta rimproverando a Salvini, il più scaltro animale politico italiano, un deficit di politica. Ci spieghi meglio.

«Solo se rappresenta veramente la borghesia nazionale, l'industria, le Pmi la Lega può rafforzare i suoi legami con gli Usa, evitando di cadere nelle braccia dell' imperialismo cinese e salvando così il paese».

Secondo lei fa bene o no la Lega ad intrattenere rapporti così stretti come sembra con la Russia?

«La domanda è mal posta. Salvini ha ragione a dire che le sanzioni alla Russia sono sbagliate. Anzi: questo è perfettamente in linea con la vecchia politica estera italiana. Mosca vuole giocare un ruolo euroasiatico di primo piano. Salvini lo ha capito, ma serve una politica estera».

Le risulta che l'Eni possa servirsi di mediatori come quelli che c'erano al Metropol di Mosca?

«Non scherziamo. L'Eni conosce l' interesse italiano prevalente e lo difende. È ministerialista per definizione. Come tutte le nostre grandi imprese, conduce trattative con tutti i governi, ma non nelle hall degli alberghi. Come si possono fare illazioni così?».

Il governo è spacciato?

«Non credo. Penso che gli Usa vogliano ancora che una delle poche provincie ribelli contro il dominio franco-tedesco sull'Unione Europea continui ad esistere e funzionare. I ribelli partono scamiciati, indossano felpe, ma devono trasformarsi in politici, ancor meglio se riformisti. Altrimenti faremo la fine di Portogallo e Grecia».

Matteo Salvini, Repubblica e "gli amici moscoviti del Capitano". Gira una voce: "Nonostante i proclami....". Libero Quotidiano il 15 Luglio 2019. Nel lontano 2013, quando il Congresso di Torino incoronava Matteo Salvininuovo segretario dell'allora Lega Nord, ad applaudire in prima fila c'erano anche due rappresentanti moscoviti: Viktor Zubarev, deputato alla Duma di Russia Unita e già uomo chiave dell'Alleanza europea per la libertà (coalizione di euroscettici di estrema destra) e Aleksej Komov, ambasciatore russo presso l'Onu del Congresso mondiale delle famiglie, nonché manager della fondazione San Basilio il Grande. La presenza dei due a Torino - riporta La Repubblica - è stato l'inizio di una svolta nei rapporti tra Lega e Mosca. Da quel momenti il ministro dell'Interno Salvini è una presenza ricorrente su Rt, ex Russia Today. A Mosca non passano inosservati neppure gli strali del leader leghista contro Bruxelles, né gli elogi al leader del Cremlino come "statista che non serve gli interessi dei globalisti". Quando nasce il governo gialloverde Mosca è la prima a esultare per quel nuovo "Capitano per l'Europa". Il tifo però va scemando. I commentatori russi continuano a ricordare a Salvini la promessa di portare sul tavolo di Bruxelles l'abolizione delle sanzioni antirusse, per cui ad oggi l'Italia non ha mai votato contro. E così ai moscoviti viene il dubbio che il ministro dell'Interno possa essere "un camaleonte politico". 

Matteo Salvini e "il nazista di Alassio". Repubblica lancia l'offensiva finale: l'ombra di Mani Pulite. Libero Quotidiano i 15 Luglio 2019. Ricordati che devi morire, o giù di lì. Repubblica affronta il caso dei fondi russi alla Lega (presunti e mai giunti a destinazione) come un redde rationem nei confronti di Matteo Salvini. L'inchiesta, già diventata "Moscopoli" per il giornale-guida della sinistra, con tanto di domande-interrogatorio al vicepremier e focus sui vari personaggi coinvolti (l'avvocato Meranda è "il teste-chiave", anche se ha ammesso di non sapere nulla), secondo Carlo Bonini ricorderebbe molto da vicino Tangentopoli e merita di entrare nel libro "dei grandi scandali italiani". Ancora prima di un rinvio a giudizio a chicchessia, ovviamente. Ma secondo Repubblica "nell'affaire Metropol comincino ad allinearsi delle ricorrenze che ricordano altri passaggi cruciali della storia politica del Paese". Il faccendiere Gianluca Savoini (definito "il nazista di Alassio", addirittura) l'unico indagato per ora, richiamerebbe alla mente il "modesto esponente dell'allora Partito Socialista milanese, Mario Chiesa". "Bettino Craxi - sottolinea Bonini - lo liquidò come un mariuolo isolato. Sappiamo come è andata a finire". Altro giro, altra gufata: "I 49 milioni di euro non sono una faccenda che si è chiusa nell'autunno scorso con la transazione che ne prevede il comodo rimborso a rate in 79 anni - sussurra la firma di Repubblica -. C'è infatti un'inchiesta complessa divisa per competenza tra le Procure di Genova e di Reggio Calabria. E, per quel che se ne sa, è un'inchiesta che cammina e, prima o poi, arriverà". A questa inchiesta si aggiunge quella "su una singolare rete di fiduciarie e società schermo, tutte curiosamente create tra il 2014 e il 2016 (quando lui cioè si è preso il partito) che fanno perno nella città di Bergamo, dove la Lega ha trasferito la sua cassaforte". Quella, per intendersi, dell'ormai famoso elettricista coi conti in Russia. Tra citazioni di Mark Twain e faldoni giudiziari, Repubblica si scorda di parlare dell'unica cosa che a ognuno, leghista o no, verrebbe in mente mettendo al loro posto i tasselli di questo mosaico: accerchiamento giudiziario.

Sceneggiata Pd alla Camera: occupano Aula contro Salvini. Il ministro dell'Interno Matteo Salvini non ha risposto alla richiesta di un'informativa sui presunti fondi russi alla Lega. E il Pd occupa la commissione Affari Costituzionali. Giorgia Baroncini, Martedì 16/07/2019, su Il Giornale. Nessuna informativa in Aula e il Pd insorge. In conferenza dei capigruppo di Montecitorio il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Riccardo Fraccaro, ha riferito di non avere avuto alcuna risposta da Matteo Salvini alla richiesta di Pd, Leu e +Europa di un'informativa sui presunti fondi russi alla Lega. Così il Pd ha deciso di "sospendere le attività parlamentari" e di "occupare la commissione Affari costituzionali" impegnata nell'esame del decreto Sicurezza bis. Lo ha annunciato il capogruppo alla Camera del Pd, Graziano Delrio. "È un fatto di una gravità inaudita. Il ministro Salvini non si è degnato di rispondere e questo umilia il Parlamento. Se la Camera si fa trattare così non ha senso farla funzionare quindi attueremo misure di occupazione della commissione Affari Costituzionali", ha affermato il capogruppo dem. Il presidente della Camera, Roberto Fico, si è riservato di scrivere una lettera al governo per reiterare la richiesta dal ministro Salvini di dare la disponibilità per riferire in Aula sui presunti fondi russi al partito. Il Pd ha così occupato l'aula della sala del Mappamondo, dove si riuniscono le commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera per l'esame del decreto Sicurezza bis. A inizio seduta Delrio è intervenuto per spiegare i motivi dell'iniziativa e subito dopo i deputati Pd si sono alzati in piedi e posizionati davanti ai banchi della presidenza. A quel punto il presidente della Affari costituzionali, il grillino Giuseppe Brescia, ha chiesto ai parlamentari dem di allontanarsi per poi sospendere la seduta. "Non è nelle prerogative di un ministro sottrarsi alla volontà del Parlamento che chiede di ascoltarlo", ha affermato il segretario dem Nicola Zingaretti.

Romano (Pd): "Visto che Salvini non capisce in italiano, gli ho chiesto in russo di venire in aula". Giovanna Casadio il 16 luglio 2019 su La Repubblica.

Il deputato dem: "La mia è stata una provocazione politica. Noi chiediamo: il ministro dell'Interno italiano è ricattato dalla Russia di Putin?"

"Sono uno storico, insegno storia della Russia all'università di Tor Vergata, e mi scuso con la presidente della Camera di avere parlato in russo. Ma pensavo di intervenire di fronte alla Duma, visto che il ministro dell'Interno ignora il Parlamento italiano". Andrea Romano, deputato dem, ex condirettore dell'Unità ai tempi in cui a dirigere il quotidiano era Sergio Staino, prende la parola a Montecitorio per chiedere che Salvini riferisca su Moscopoli. Lo fa in russo.

Romano, lei conosce il russo?

"Insegno storia russa all'università di Tor Vergata. Ho scritto libri sulla storia dell'Unione sovietica e spesso ho visitato la Russia".

Ma nel Parlamento italiano non si può usare una lingua straniera? 

"No, certo. Ma era una provocazione politica".

Cioè?

"Visto che Salvini fa finta di non capire, come deputati del Pd chiediamo che il ministro dell'Interno venga qui a riferire sui suoi rapporti con Mosca e sul ruolo di Savoini e i soldi alla Lega. Dal momento che in italiano non capisce, proviamo col russo".

E cos'altro ha detto in russo?

"Alla fine ho chiesto scusa a Maria Edera Spadoni che presiedeva la seduta della Camera, dicendo: mi sembrava di parlare davanti alla Duma...".

Farete pressing voi del Pd per portare il ministro a informare sui soldi russi?

"Il segretario Zingaretti e il capogruppo al Senato Andrea Marcucci parleranno con la presidente Elisabetta Alberti Casellati insistendo sulla richiesta che Salvini venga alle Camere, domani Graziano Delrio e sempre il segretario dem porranno la questione al presidente Roberto Fico. Salvini scappa ed è disposto a concedere i due minuti di question time. No. Deve riferire in Parlamento in modo esaustivo".

Voi quindi chiedere una informativa dettagliata?

"Abbiamo depositato la richiesta di una informativa. Noi, come ho detto anche in russo e poi tradotto in italiano, poniamo una sola domanda: il ministro dell'Interno italiano è ricattato dalla Russia di Putin?".

Lo chiedono anche le altre opposizioni?

"Non lo chiede Forza Italia, che sente evidentemente il richiamo del "lettone" di Putin, quello regalato a Berlusconi, più di quanto non senta l'esigenza di tutelare gli interessi dell'Italia. Sul tema Putin, i forzisti sono sensibili".

Carmine Gazzanni per lanotiziagiornale.it il 17 luglio 2019. A notarlo per primo è stato Tommaso Ederoclite, politologo vicino al Partito democratico. “Sapete perché la Casellati non ha voluto discutere dei fondi neri in Russia dati alla Lega di Salvini? – scrive sulla sua pagina Facebook – Semplice, perché alle riunioni della associazione di Savoini Lombardia-Russia ci andava anche lei. A pensar male…”. E lì eccola, la foto che ritrae in mezzo a una serie di bambini vestiti secondo tradizione russa, la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati insieme a Matteo Salvini. E’ il 7 giugno 2018 (dunque sia la Casellati che Salvini ricoprono già ruoli istituzionali) e a pubblicare la foto è proprio l’associazione culturale Lombardia-Russia di Gianluca Savoini. E, non a caso, insieme alla foto con la Casellati, sul sito filo-russo ne spicca anche un’altra che ritrae Salvini, Savoini, il segretario dell’associazione Gianmatteo Ferrari e l’ambasciatore russo Sergej Razov. A quanto pare, dunque, l’associazione ha sfruttato subito l’occasione per farsi vanto della sua presenza in mezzo a tante autorità. Bisogna infatti precisare che, contrariamente a quanto scritto da Ederoclite, l’incontro, tenutosi presso Villa Abamelek, sede dell’ambasciata moscovita, era stata organizzata dalle autorità russe – e non da Savoini & Co. – per la tradizionale festa per la Giornata della Russia. Una precisazione doverosa e che, come confermato a La Notizia da fonti vicine alla presidenza del Senato, spiega la ragione istituzionale della presenza della Casellati. Resta, tuttavia, la coincidenza di un evento a cui erano presenti, inseme alla seconda carica dello Stato, anche i personaggi di vertice dell’associazione filo-russa. Il dettaglio sarebbe assolutamente superfluo, se non fosse per quanto accaduto negli ultimi giorni proprio a Palazzo Madama. Come si ricorderà infatti, all’indomani delle rivelazioni dell’Espresso e poi dell’audio pubblicato dal sito internet statunitense BuzzFeed sulla presunta trattativa volta a far confluire finanziamenti russi nelle casse della Lega, la presidente del Senato è stata aspramente criticata dal Partito democratico, che invece avrebbe voluto discutere in Aula a Palazzo Madama quanto emerso dalle inchieste. Alle rimostranze del senatore Alan Ferrari, la Casellati ha risposto che non si può dare spazio in un luogo istituzionale a “pettegolezzi giornalistici”. Fa niente se quello stesso giorno, poche ore più tardi, anche la Procura di Milano ha aperto un fascicolo per corruzione internazionale. La seconda carica dello Stato, invece, in quella circostanza ha deciso di respingere tre interrogazioni parlamentari relative alla vicenda. Accusata di faziosità dalle opposizioni, ha ribadito il punto: “Non potevo ammettere quelle interrogazioni perché l’articolo 145 del regolamento prescrive che deve esserci un oggetto determinato”. Altrimenti è meglio tacere. E non fare domande.

Salvini e la Russia, Dagospia bombarda il senatore renziano del Pd: "Il rapporto tra sua moglie e l'oligarca". Libero Quotidiano il 16 Luglio 2019. Dago-bomba in salsa russa sul Pd. Secondo Alberto Dandolo, firma (indiscreta) di Dagospia, mentre i dem accusano la Lega per i presunti fondi russi (mai pervenuti) e la Procura di Milano indaga per corruzione internazionale su Gianluca Savoini, zitto zitto ci sarebbe "un senatore renziano che intrattiene da tempo rapporti con influenti oligarchi russi". "La sua compagna - suggerisce con succosi dettagli Dandolo - dirige un hotel stellato di proprietà di un noto e discusso tycoon moscovita". Ovviamente, come da stile Dago-flash, non vengono forniti nomi e cognomi dei diretti interessati, rifugiandosi nella godibile e classica formula "chi è? Ah, saperlo...". Stando così le cose, si rinnoverebbe la già ricca storia a sinistra, fin dai tempi del Pci, di chi predica bene e razzola male. D'altronde, come ha ricordato il capogruppo FdI alla Camera Francesco Lollobrigida, in un suo veemente discorso in Aula a Montecitorio, chi nel Pd parla di "tradimento alla sovranità nazionale" da parte della Lega dovrebbe "chiedere scusa", memore di quanto accaduto per anni con il Pci e i rubli russi. 

Russiagate, FdI asfalta la sinistra: "Destra mai stata serva, gli eredi del Pci sì…" Il deputato di Fratelli d'Italia Francesco Lollobrigida ricorda al Pd e alla sinistra parlamentare dei rubli intascati dal Pci. Pina Francone, Martedì 16/07/2019 su Il giornale. Il Partito Democratico, per bocca del suo segretario Nicola Zingaretti, ha annunciato che non darà tregua a Salvini finché non chiarirà, nei dettagli e in aula, il caso dei presunti finanziamenti russi alla Lega. Ecco l'affaire che ha scosso il Carroccio e che le opposizioni stanno cercando di cavalcare per dare contro il ministro dell'Interno e il suo partito è arrivato anche nell'emiciclo di Montecitorio, dove dai banchi della sinistra si è alzata la protesta contro il responsabile del Viminale, accusato di aver intascato soldi dalla Russia per sostenere la compagine leghista. E qualcuno da quegli scranni ha tirato in ballo pure il patriottismo, facendo storcere il naso, soprattutto, a Fdi.

Sono arrivate, infatti, le parole di Francesco Lollobrigida, deputato di Fratelli d'Italia, che durante il suo intervento ha rinfrescato la memoria ai colleghi-avversari politici, visto che il fu Partito Comunista Italiano prese vagonate di rubli dall'ex Urss: "Fa sorridere che proprio dai banchi della sinistra sentiamo parlare di questo grande senso di patriottismo […] La destra non è mai stata pagata e non è serva di nessuno, da sempre". Dunque, l’esponente di Fdi ha aggiunto: "Sui banchi del fu Pci di Togliatti, che definiva Stalin un gigante del pensiero a pagamento con i rubli russi, quelli che hanno permesso alla sinistra italiana di sopravvivere, oggi c'è una sinistra ipocrita e serva. È successo nel 2011, quando festeggiavate dopo che un colpo di stato aveva abbattuto a colpi di spread l'ultimo presidente del Consiglio eletto. È successo quando avete solidarizzato con la Francia durante l'attacco alla Libia ed è successo quando il governo Gentiloni provò a regalare un pezzo di mare italiano alla Francia". Infine, Lollobrigida ha concluso con un'ulteriore stilettata: "Ha ragione Renzi a usare l'hashtag #AltoTradimento: è giusto, visto che è da sempre il vostro core business principale. Prima di parlare di sovranità nazionale chiedete scusa per la vostra storia!".

Enrico Ruggeri linciato dai compagni di sinistra perché parla di rubli rossi. Libero Quotidiano il 16 Luglio 2019. Ieri cantante Enrico Ruggeri, su Twitter, ha postato un articolo sui fondi sovietici al Pci dal 1970 al 1977 accompagnato da questo commento: «Io la prima pietra non la scaglierei». Insomma, un messaggio, polemico ma molto garbato nella forma, indirizzato a quanti, da sinistra, dopo aver fatto incetta di rubli veri in passato, oggi si scandalizzano per i rubli presunti alla Lega. Il suo post, però, come racconta il Secolo d' Italia, non è piaciuto a tanti "compagni da tastiera". Che hanno attaccato il cantante con messaggi di questo tipo: «Scrivi na canzone va»; «Ruggè, semplice semplice, canta che ti passa e nel frattempo vaff...». «Io te la ficcherei dove non ti batte il sole scemo». «Perché fare queste brutte figure quando potevi semplicemente dire come tutti che quando c' era lui i treni arrivavano in orario?». «Quanti salti mortali fanno i "personaggi" per restare a galla. Perciò non bisogna demonizzare la merda, almeno è più sincera, gli riesce naturale». Numerosi poi i commenti di chi accusa Ruggeri, infine, di scrivere simili tweet per guadagnarsi un posticino in Rai Per questi insulti, però, a differenza di quanto accade quando il bersaglio dell' odio social è un vip di sinistra (si pensi ai recenti insulti rivolti a un' altra cantante, Emma Marrone, per un suo post in difesa di Carola Rackete) nessuno si è indignato...

La Lega è sotto attacco per i presunti soldi russi. Ma chi ha veramente preso fondi da Mosca è stato solo il Pci. Paolo Guzzanti, Venerdì 12/07/2019 su Il Giornale. Questa storia dei rapporti fra Matteo Salvini e Vladimir Putin, ammesso e non concesso che sia tutta vera (ma è difficile anche pensare che possa essere tutta inventata) rischia di essere una bomba devastatrice sui cui effetti e cause si deve ragionare con i piedi per terra, ma anche - come diceva il presidente americano Teddy Roosevelt - impugnando un nodoso bastone. È infatti in corso un'operazione di confusione storica che consiste nel dire: e allora? Non è forse ciò che è sempre successo? Non è vero che il Pcus riempiva ogni anno la valigetta dell'emissario di Botteghe Oscure con quei milioni di dollari, poi portati alla banca Ior del Vaticano per essere controllati da agenti del Tesoro americano e convertiti in lire sui conti del Pci? Sì, in apparenza è vero, ma si tratta di tutt'altra storia come sa chiunque abbia letto L'Oro da Mosca di Valerio Riva. Era una grande storia, una oscura storia (ma neanche tanto: lo sapevano tutti) ma era assolutamente un'altra storia. Si trattava infatti del finanziamento «fraterno» del Partito comunista sovietico al Partito comunista italiano e persino al piccolo e potentissimo Partito comunista americano. Lo scopo di tanta fraternità, anche a quei tempi (1945 fino agli anni Novanta) era quello di acquisire un vantaggio strategico in Europa secondo la dottrina di Yuri Andropov, sponsor e «creatore» di Michail Gorbaciov. Per poter arrivare a una egemonia sull'Europa occidentale (oggi Unione Europea) di cui la Russia comunista come la Russia di oggi aveva bisogno per tecnologia e ricerca. Gorbaciov secondo questa linea chiuse l'azienda sovietica per bancarotta, sganciando gli Stati «satelliti» dell'Est (oggi gruppo di Visegràd) per farne adottare i costi all'Europa. Oggi la Russia conta sempre sull'indebolimento politico dell'Europa comunitaria in maniera parallela al gioco di Donald Trump che conta di trascinarsi il Regno Unito come 51simo Stato e far crollare l'Europa Unita dalle sue fondamenta franco-tedesche. Questo è il motivo geo-politico per cui grillini e leghisti si sono trovati di fronte alla disponibilità di due sontuosi forni presso cui servirsi, uno alla Casa Bianca e uno al Cremlino. In gioco poi ci si è messa anche la Cina con una politica aggressiva e supertecnologica, nota anche come «Via della Seta». In questo quadro si inserisce il film che si sta proiettando a spezzoni da un più di un anno e che da pochi giorni è diventato un colossal come Via col vento: quello di imponenti finanziamenti russi alla Lega di Salvini, attraverso una corsia riservata di politica estera ed economica che prevede una sintonia sui temi fondamentali: cancellazione delle sanzioni alla Russia con implicito bonus per quanto avvenuto in Crimea, Ucraina e Georgia. Al punto due sta una iniezione di sovranismo molto spregiudicato che dovrebbe spezzettare l'Europa comunitaria alimentando una destra non liberale, anzi nemica del liberalismo e incline all'autoritarismo democratico, in tutti i Paesi che si riconoscono in un rapporto speciale con la Federazione russa. Per ottenere questo obiettivo certamente la Russia è disposta a pagare e come è noto oggi i pagamenti non si fanno più con una valigetta portata dal corriere. Oggi i pagamenti si possono fare in sconti petroliferi, commesse, transazioni, esiste una grandiosa sezione della nuova economia del finanziamento occulto, per cui ogni finanziati può ben dire, con una certa faccia di bronzo ma senza tecnicamente mentire «Io non ho mai preso un euro, né un rublo, né un dollaro». Ovviamente qui si apre il capitolo degli accertamenti tecnici su ciò che realmente accadde nella hall dell'Hotel Metropol, che cosa si diceva davvero nel chiacchiericcio in parte confuso e in parte chiarissimo fra Gianluca Savoini (descritto un po' come Rasputin e un po' come Richelieu) e i suoi interlocutori russi. Secondo BuzzFeed news è tutto vero e il fatto che l'informazione provenga da un media americano ha alimentato l'ipotesi secondo cui l'America tirerebbe un siluro a Salvini per indebolire l'egemonia russa in Italia che, detta così, sembra un'ipotesi priva di fondamento. Ma, come è d'obbligo dire, tutto può essere e tutto deve essere controllato e sottoposto al siero della verità che sta nella logica dello scontro in Europa.

Quelle valigie piene di rubli per Pci. Poi arrivò Berlinguer…I soldi entravano in Italia con i ” bagagli diplomatici” direttamente nell’ambasciata. L’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga si divertiva a rinfacciare la cosa all’incolpevole Occhetto. Francesco Damato il 12 luglio 2019 su Il Dubbio. Quelle valigie piene di rubli. A dispetto del cambiamento datosi come parola d’ordine nell’omonimo governo realizzato l’anno scorso con i grillini, e destinato a durare ben oltre le previsioni maturate in Silvio Berlusconi quando autorizzò il leader leghista a prendersi una libera uscita dal centrodestra per evitare che alle elezioni politiche del 4 marzo ne seguissero altre tra luglio e agosto, con tutti i nostri elettori – disse il Cavaliere – inchiodati alle vacanze, Matteo Salvini continua a far rivivere ai vecchi cronisti parlamentari scene del passato. Alla rovescia, potrebbe rispondere il “capitano” del Carroccio, cioè a parti rovesciate, e quindi senza tradire il motto o l’aspirazione al cambiamento, ma sono pur sempre situazioni e spettacoli del passato quelli ch’egli, volente o nolente, ci ripropone.

Bacioni e bacini. Ho appena paragonato su queste pagine, qualche giorno fa, i bacioni con cui il vice presidente vicario del Consiglio e ministro dell’Interno cerca di liquidare critici ed avversari dai banchi del governo ai bacini che nel 1987 Cicciolina, appena eletta nelle liste radicali, cominciò a indirizzare nell’aula di Montecitorio ai “cicciolini”, come li chiamava, che non ne gradivano la presenza o non ne condividevano pose e interventi: compreso Giulio Andreotti. Del quale mi sono dimenticato di riferirvi il rimprovero, da lui stesso raccontatomi con l’umorismo che lo distingueva, ricevuto una sera a casa dalla moglie per essersi lasciato chiamare in quel modo dalla pornodiva senza perdere, una volta tanto, il suo storico controllo dei nervi, limitandosi a berci sopra qualche bicchiere d’acqua. Ebbene, quel diavolo di Salvini è appena riuscito a far tornare a gridare nell’aula di Montecitorio contro i rubli, quelli russi naturalmente, con vivaci richieste di chiarimento, nonostante le smentite da lui già opposte, le querele già presentate e le nuove che ha minacciato a chi ha preso sul serio le “rivelazioni” del sito americano Buzz-Feed. com, secondo cui durante un suo soggiorno a Mosca nell’autunno scorso il quasi omonimo, amico e collega di partito Gian Luca Savoini avrebbe negoziato, concordato, tentato e non so cos’altro con quattro russi in un grande albergo finanziamenti alla Lega, in vista della costosa campagna elettorale europea dell’anno dopo. E tutto ciò all’ombra di grandi affari petroliferi. Di questa vicenda si occupò già in Italia, fra altre smentite e querele, il settimanale L’Espresso. La visita di Salvini a Washington. Che naturalmente se n’è vantato, con i ritorni americani, ed ha ripreso a intingere il pane nell’inchiostro quando, vere o false che siano, le notizie sono rimbalzate da oltre Atlantico. Dove peraltro Salvini ha il torto di essere appena andato in visita ufficiale, di avere avuto incontri di alto livello, anche se non altissimo come quello del presidente Donald Trump. Che tuttavia non nasconde certamente né direttamente né indirettamente, attraverso i suoi collaboratori, l’interesse e la simpatia per il leader leghista, che in quell’albergo di Mosca è stato addirittura definito “il Trump italiano”. Cui manca soltanto il passaggio politico, e forse anche elettorale, per diventare il capo del governo prendendo il posto di Conte, pure lui tuttavia apprezzato dal presidente americano, che gli parla chiamandolo “Giuseppi”, perché gli americani hanno problemi con la e finale dei nomi. Ho trovato curioso, divertente e non so dirvi cos’altro ancora vedere nell’aula di Montecitorio insorgere con grida e cartelli contro i presunti rubli a Salvini e alla Lega quegli stessi settori, a sinistra, contro cui negli anni Cinquanta e Sessanta, ma anche oltre, insorgevano i deputati della destra e del centro contro i rubli non presunti ma veri, anzi verissimi, che arrivavano dall’allora Unione Sovietica al Pci per finanziarne in modo decisivo la grande e costosa organizzazione.

I rubli del Pci. Non potevano onestamente bastare allo scopo né le quote di iscrizione, né i contributi pur consistenti dei parlamentari, né i soldi pubblici forniti dalla legge cui si ricorse dopo lo scandalo dei finanziamenti privati dei petrolieri, che coinvolse pure quel partito dell’odore inconfondibile di bucato come Indro Montanelli chiamava il Pri del suo amico Ugo La Malfa. Né potevano bastare a sostenere i costi di quella potente macchina organizzativa ed elettorale del Pci i consumi di salamelle ed altro nelle pur affollate, a volte affollatissime, feste dell’Unità, dove si mescolavano passioni per i compagni e odi per gli avversari, persino nei menù dove si proponeva il piatto imperdibile della “trippa alla Bettino” Craxi. Dei rubli arrivati lungamente, sistematicamente e abbondantemente al Pci da Mosca tramite gli affari delle Cooperative o con le valigie diplomatiche direttamente nell’ambasciata sovietica a Roma, a poca distanza dalla Stazione Termini, si divertiva spesso a parlare, anche quando il traffico era o sembrava cessato, l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Che li rinfacciava, in particolare, all’ultimo e forse davvero incolpevole segretario del Pci: Achille Occhetto, da lui liquidato come “zombi”. Nel parlarne, quell’impenitente di Cossiga si divertiva a ricordare, o precisare, che da Mosca arrivavano all’ambasciata romana solo e rigorosamente rubli, alla cui conversione in dollari, non in lire, provvedevano esperti noti alle tolleranti, anzi tollerantissime autorità di vigilanza. Ed erano anni, quelli, di guerra fredda davvero, col muro ben piantato e sorvegliato a Berlino, con i missili puntati nelle basi del Patto di Varsavia contro le capitali europee, Roma compresa: missili diventati ad un certo punto così tanti e così pericolosi da costringere la Nato ad un riarmo al cui passo l’Unione Sovietica non resse sul piano economico e finanziario. Come se avesse sentito arrivare, anzi tornare attraverso gli Stati Uniti, le polemiche sui rubli ancora una volta incombenti a torto o a ragione sulla politica italiana, il giornalista e romanziere Walter Veltroni, forse ancora più fortunato in questa veste che come segretario di partito, ministro, vice presidente del Consiglio e sindaco di Roma, dove pure ha fatto molto e spesso anche bene, ha appena riproposto ai lettori del Corriere della Sera, intervistando questa volta sui misteri e sulla fine della prima Repubblica il vecchio amico Aldo Tortorella, con i suoi 93 anni appena compiuti, la storia dei finanziamenti russi al Pci. E dei danni, forse superiori anche ai vantaggi, che ne derivarono al partito allora più forte della sinistra italiana, compromettendone l’autonomia o ritardandone l’evoluzione, come la chiamavano quelli che la volevano pure nella Dc per liberarsi di un alleato scomodo come Craxi.

La svolta di Berlinguer. Tortorella non ha fatto numeri ma ha parlato di date, o periodi, raccontando in particolare che a chiudere la pratica dei finanziamenti sovietici al Pci fu Enrico Berlinguer poco dopo la sua elezione a segretario, avvenuta nel marzo del 1972, e l’attentato che subì l’anno successivo, rimasto a lungo segreto e controverso, durante una visita in Bulgaria. Dove i padroni di casa gli procurarono un incidente stradale sperando di liberarsene per l’abitudine che aveva preso di parlare dei limiti, chiamiamoli così, della democrazia nei regimi comunisti. Ciò accadeva quindi ben prima del 1980, quando il leader comunista commentando in televisione il colpo di Stato militare compiuto in Polonia autonomamente dal generale Jaruzesky per prevenire il solito intervento delle truppe sovietiche, trovò il coraggio di dichiarare l’esaurimento della “spinta propulsiva” della rivoluzione comunista di ottobre del 1917 in Russia. Allora egli finì di compromettere quel poco ch’era ancora rimasto dei vecchi rapporti di scuola e di politica con Mosca. Berlinguer decise di fare a meno dei rubli in modo sostanzialmente solitario, consultandosi – ha raccontato Tortorella- solo con Gerardo Chiaromonte, e poi passando le direttive necessarie al capo dell’’ organizzazione del partito Gianni Cervetti, che si occupava anche dei delicati rapporti finanziari con Mosca. Seguirono non a caso, nel 1973, i tre saggi consecutivi affidati da Berliguer alla rivista del partito Rinascita sulla lezione da trarre dal colpo di Stato militare in cui era sfociata, per reazione interna e internazionale, la svolta dell’alternativa di sinistra realizzata da Salvatore Alliende, che ne sarebbe morto. Non l’alternativa di sinistra ma il “compromesso storico” con le forze moderate avrebbe dovuto diventare la linea del Pci, che infatti la perseguì con Berlinguer, rivestendola anche dei panni del cosiddetto “eurocomunismo”, sino a realizzare nel 1976 e a rafforzare nel 1978, con l’ultima crisi gestita nella Dc da Aldo Moro, prima del sequestro e dell’assassinio per mano delle brigate rosse, quella che è passata alla storia come “maggioranza di solidarietà nazionale”. Berlinguer potette farlo – ha raccontato Tortorella- pur non proprio a tutte le condizioni da lui volute, viste le resistenze opposte da Moro a una partecipazione diretta del Pci al governo, che fu invece composto solo di democristiani, e guidato da Giulio Andreotti per garantire o rasserenare i sospettosissimi americani, ma anche la Chiesa; Berlinguer, dicevo, potette farlo solo per essersi nel frattempo garantita sul piano finanziario “l’autonomia necessaria al partito per essere coerente forza nazionale e di governo”.

I legami indissolubili con Mosca. Eppure, anche se Tortorella non lo ha ricordato né Veltroni ha voluto aiutarlo incalzandolo con qualche domanda, il Pci continuò a tenere i suoi legami con Mosca contrastando, per esempio, il riarmo missilistico della Nato, nonostante Berlinguer avesse detto in una famosa intervista a Giampaolo Pansa per il Corriere della Sera, censurata in questo passaggio dall’Unità, di sentirsi anche come comunista garantito sotto l’ombrello atlantico. Dovettero arrivare i già ricordati fatti polacchi del 1980 perché veramente la storia dei rapporti con l’Urss cambiasse e i rubli fossero probabilmente destinati solo a una parte del Pci, quella organizzata alla luce del sole da Armando Cossutta dopo lo “strappo” da questi rimproverato a Berlinguer. E Cossutta fece tutto intero il suo dovere di militante filosovietico rimanendo nel Pci sino a quando Occhetto, anche a costo di piangerne, non decise di cambiargli nome e simbolo per non lasciarlo sepolto sotto le macerie del muro di Berlino. Ora, francamente, non so come andrà a finire lo scontro, politico e forse anche giudiziario, di Salvini con quanti lo immaginano imbottito di rubli, o con qualche amico che avrà pensato di fargli un piacere cercando di procurarglieli intrufolandosi in alberghi, ristoranti e quant’altri, ma di certo mi ha fatto una certa impressione – vi ripeto- vedere protestare contro i rubli veri o presunti della Lega parlamentari negli stessi banchi parlamentari dove sedevano i deputati appartenenti al partito che i rubli li prendeva davvero. E ne fu a lungo anche orgoglioso. Mancano alla chiama o ai richiami, almeno per ora, i dollari che i comunisti ai loro tempi accusavano la Dc e gli alleati di prendere dagli Stati Uniti. E chissà se, coi tempi e con gli umori che corrono, Salvini non finirà per sentirsi accusare di prendere anche quelli, i dollari, e non solo i rubli.

"L'Urss pagava tutti non soltanto il Pci. Greganti? Un gigante". L'ex pm di Mani Pulite: «Il Pd non ha mai voluto fare i conti con le tangenti rosse». Felice Manti, Sabato 13/07/2019, su Il Giornale. Milano «Abbiamo voluto cancellare la memoria di questo Paese. E questo ha consegnato il governo a gente senza storia». Tiziana Parenti risponde dal suo studio legale di Genova. La sua toga da magistrato l'ha appesa al chiodo tanti anni fa, oggi fa l'avvocato dopo l'esperienza in Parlamento con Forza Italia. Per la storia è Titti la Rossa, allontanata dal pool perché aveva osato indagare sul fiume di rubli che dall'Est finiva nelle casse del Pci. «Mani Pulite per te finisce qui», le avrebbe detto Gerardo D'Ambrosio, per cui le tangenti rosse erano «un vagone staccato» di Mani Pulite. E così le indagini di Titti, iscritta per tre anni nel Pci, finirono in un binario morto nonostante le prove che sul conto «Gabbietta» Primo Greganti, il famigerato «compagno G», incassava soldi dai Paesi dell'area sovietica e da imprenditori italiani per conto di Botteghe Oscure. «La Russia ha sempre pagato qualcuno. Grosse tangenti, soldi. E non solo al Pci. Già negli anni Sessanta numerose cooperative facevano scambi culturali o import-export di facciata con l'Urss, tutti modi per giustificare in maniera lecita un finanziamento di un certo livello. Ma Greganti era un gigante rispetto alle comparse come questo... Savoini? Savoini chi?».

Che cosa ne pensa?

«Bisogna leggere le carte, ovviamente. Ma se mi chiede se Savoini sarà il Greganti della situazione le dico di no. Certe cose non si fanno da estranei, non è che uno passa per caso e parla di tangenti, con la Russia di Putin che è cresciuto in quel sistema sovietico di soldi e favori poi... Figurarsi. Certo, nascondersi dietro un ma chi l'ha invitato è una cosa triste».

Ironia della sorte, c'è il Pd che chiede chiarezza. E già si parla di una commissione d'inchiesta...

«Guardi, altra cosa triste. Questo Pd non ha niente a che fare con il Pci di prima, anche se Zingaretti è certamente un uomo d'apparato. Ma se il Paese in balia degli ignoranti è perché il Pd ha un'eredità sula quale non ha mai riflettuto seriamente. Abbiamo perso la memoria delle tangenti di una volta. Il finanziamento illecito ai partiti da parte di una potenza straniera, allora come oggi, è un fatto destabilizzante. Invece di riflettere sul passato si ridicolizzano vicende che invece sono molto serie. Galleggiamo su un enorme punto interrogativo. E questa è la condanna del Paese. O facciamo i conti seriamente con quel passato o finiamo nel nulla».

Quando Mani Pulite si fermò davanti ai rubli al Pci qualcuno disse che la magistratura era politicizzata. Oggi, a leggere certe intercettazioni, si capisce che alcuni parlamentari Pd decidevano a tavolino i capi delle Procure. Non è cambiato niente?

«La politica fa pressioni perché sa che le può fare».

Ma è un'invasione di campo?

«Ma la magistratura è un soggetto politico. Quando 60 milioni di italiani ti chiedono di garantire i loro diritti sei un soggetto politico. I contatti tra politici e i vertici della magistratura esistono da sempre. Quando ci sono entrata io, nel 1980, c'erano già da anni. La cosa non ci deve meravigliare. Il vicepresidente del Csm è eletto dal Parlamento, no? I magistrati sono dappertutto: al Quirinale, nei gabinetti dei ministri, in Parlamento, nelle istituzioni. Meravigliarsi ora è da ipocriti».

Oggi però la commistione è sotto gli occhi di tutti.

«Era inevitabile che scoppiasse una guerra interna, ora che non c'è più un nemico da combattere, ora che - come nei partiti - le correnti dentro Md, Unicost, dentro Magistratura indipendente si stanno regolando i conti».

È l'indipendenza della magistratura, no?

«Ma quale indipendenza, magari ci fosse. Io l'ho subita sulla mia pelle, io me ne sono dovuta andare. La magistratura deve difendersi da sé stessa. Va gestita con delle regole per evitare questo straripamento, che peraltro è figlio delle regole che ha fatto il Parlamento».

Cosa si rimprovera?

«Io ho fatto tutto in buona fede. La mia battaglia per l'indipendenza non è stata inutile. Il mio collega Marco Boato diceva che ognuno deve fare le sue battaglie. Meglio farle che non farle. Forse qualcosa resta. Anche solo un po' di memoria».

Vittorio Feltri: "Vi dico chi era davvero Berlinguer". Il bluff della sinistra: così smonta il mito comunista. Libero Quotidiano l'11 Luglio 2019. Walter Veltroni è diventato un editorialista del Corriere della Sera. Normale che scriva articoli sul Pci facendolo passare per un partito morbido e tollerante quanto la Dc. Egli infatti disse di essere più kennediano che comunista, pur rimanendo fedelmente inchiodato a Botteghe Oscure. Le contraddizioni in politica sono all' ordine del giorno. Ma rileggere le vicende dei marxisti italiani è un esercizio stupefacente che insegna molte cose. E Veltroni è capace di presentare Enrico Berlinguer sul quotidiano di via Solferino come un super democratico. La mia opinione è diversa. Penso che il famoso segretario rosso non fosse affatto rosso. Neppure lui sapeva di quale colore fosse, forse era bianco, cioè innamorato della Dc a capo della quale avrebbe voluto ergersi. Egli era un tipo tranquillizzante, come Rumor e come Piccoli, uomini miti e furbi, praticamente volpi in grado di muoversi con disinvoltura nel ginepraio capitolino. È un fatto che Berlinguer, pur dichiarandosi bolscevico, tale non era per mancanza di fede e di adesione alla folle ideologia sovietica. Tanto è vero che a un certo punto, egli si inventò il compromesso storico, ossia una possibile alleanza tra Pci e Democrazia cristiana ovvero un matrimonio spurio, non compatibile, tra pauperisti di centro e di sinistra, allo scopo di spartirsi il potere. Il nobile Enrico si illuse di realizzare simile progetto non calcolando che la Dc era un partito-mamma, strutturalmente identico al fascismo nel senso che inglobava chiunque, purché non rompesse i coglioni. Il cosiddetto compromesso storico rimase una sterile teoria, suggestiva e tuttavia irrealizzabile. Cosicché il politico sardo, di fronte alle difficoltà tecniche di realizzare il proprio piano, ripiegò su un' altra formula altrettanto astrusa: l' eurocomunismo che nessuno capì mai in che cosa consistesse. L' unico Paese in Europa che avesse una parentela stretta con Mosca e dintorni era l' Italia che non aveva certo la forza di persuadere il continente a sposare i sogni berlingueriani. Ogniqualvolta un giornalista, per esempio Scalfari, chiedeva al segretario come intendesse l' eurocomunismo e con quali tecniche trasformarlo in realtà, non riceveva che risposte fumose, prive di connotati credibili. Enrico era un sognatore bravo nel marketing ma fuori dal mondo. Probabilmente neppure lui sapeva che desiderare per la falce e martello. Gli piaceva comandare e arringare le folle ciononostante ignorava dove portarle. Se aggiungiamo che il nostro a un dato momento tirò fuori dal cilindro la questione morale, il quadro confuso si completò. In effetti tutte le formazioni della prima Repubblica rubavano a mani basse, incluso il Pci, attraverso il sistema degli illeciti finanziamenti, eppure Enrico accusò chiunque tranne se stesso e il suo gruppo. Semplicemente ridicolo. Costui in sostanza, pur in buona fede, fu un grande bluff e proprio per questo è ricordato quasi fosse un fenomeno di onestà. Mentre all' epoca sua, Botteghe Oscure riceveva montagne di rubli dall' Urss per stare a galla. Ora che Veltroni lo santifichi non ci stupisce, la nostalgia fa brutti scherzi, però il comunismo rimane una porcheria che Walter dovrebbe risparmiarsi di santificare. Vittorio Feltri

Matteo Salvini, Savoini e fondi russi, Repubblica ci sguazza: "Moscopoli, i blitz della Lega alla Camera". Libero Quotidiano il 12 Luglio 2019. A sinistra si buttano a capofitto sul caso "fondi russi" alla Lega e Repubblica, come da copione, ci sguazza. E così l'inchiesta milanese su Gianluca Savoini, il presidente dell'associazione Lombardia-Russia intercettato nell'ottobre 2018 a Mosca mentre secondo il sito americano Buzzfeed trattava finanziamenti al Carroccio in cambio di affari in campo petrolifero, offre il là al quotidiano per titolare a caratteri cubitali su "Moscopoli" e puntare il dito contro "i blitz alla Camera per cancellare il divieto di finanziamento estero". Siamo tra ottobre e novembre 2018, si parla (anzi, si battaglia) di manovra, Spazzacorrotti e Decreto crescita e i leghisti propongono un emendamento su soldi a partiti e fondazioni. Lo scontro con i 5 Stelle per eliminare il divieto di finanziamento estero presente nel comma 2 della Spazzacorrotti è cruento, finirà con una parziale deroga allo stesso divieto inserita nel Decreto Crescita. Ma Repubblica non molla e rilancia, ricordando la presa di posizione del neo-ministro agli Affari Ue Lorenzo Fontana, contrario alle sanzioni economiche contro la Russia. La Lega si batte da anni, "per difendere gli interessi di tante aziende italiane", ha sottolineato solo giovedì Salvini. E anche una posizione economica e politica trasparente viene usata come capo d'accusa.

Elisabetta Casellati, la lezione al Pd: "Faziosa io? Ma si ricordano quando con Salvini..." Libero Quotidiano il 12 Luglio 2019. "Trovo l’accusa del Pd del tutto ingiustificata e pretestuosa". Il presidente del Senato Elisabetta Alberti Casellati respinge al mittente le accuse di faziosità rivoltegli dal Pd dopo non aver ammesso le interrogazioni dem sul caso dei presunti finanziamenti russi alla Lega. "Non potevo ammettere quelle interrogazioni perché l'articolo 145 del regolamento prescrive che deve esserci un oggetto determinato - spiega la Casellati a Repubblica -. Non posso investire l'Aula del Senato su supposizioni e circostanze presumibili tutte coniugate al condizionale: Come riferirebbe l'Espresso... Io non mi diverto a respingere le interrogazioni e non ne ho ammesse recentemente anche altre, come quelle di Forza Italia piuttosto che di Fratelli d’Italia. Ma il Pd sa bene che quando sequestrarono i fondi della Lega, si discusse la loro interrogazione con Salvini in Aula. Quindi possono dirmi tutto ma non che sono faziosa, termine fra l’altro assai sgradevole. Io sono un presidente di garanzia. Ciò significa che salvaguardo i diritti dell’opposizione e della maggioranza, usando lo stesso metro". "Valuterò i nuovi fatti e le nuove richieste. Qui non è in discussione il lavoro e la professionalità dei giornalisti, per i quali ho grande rispetto", aggiunge, mentre sulla vicenda Csm sottolinea: "Non c’è dubbio che quanto sta emergendo può minare la fiducia dei cittadini nei confronti di una istituzione come la magistratura che non solo deve essere ma anche apparire imparziale, terza e indipendente. Il richiamo del Presidente Mattarella sulla necessità di voltare rapidamente pagina ha ben definito i termini della questione. Le immediate iniziative intraprese dal Csm sono certamente un primo passo in questa direzione. Ritengo però che non sia più rinviabile una riforma organica della giustizia che metta mano, in linea con le previsioni costituzionali, anche alla composizione e al funzionamento dell’organo di autogoverno. L’obiettivo è quello di riacquistare la credibilità e l’autorevolezza. Se ciò non dovesse avvenire, sarebbe la Caporetto della giustizia italiana e quindi dello Stato".

Matteo Salvini e i fondi russi, il Tg2 bombarda la sinistra: "Vi ricordate il Pci e i sovietici?". Libero Quotidiano il 12 Luglio 2019. "Ma vi ricordate il Partito comunista?". Il Pd chiede una commissione d'inchiesta contro Lega e Matteo Salvini per i (presunti) finanziamenti dalla Russia. Memoria corta, e ci pensa il Tg2 a rinfrescarla a chi, a sinistra, si indigna per il caso di Gianluca Savoini, indagato dal Tribunale di Milano. Un servizio del tg diretto da Gennaro Sangiuliano ripercorre infatti la lunga e proficua "collaborazione" occulta tra via delle Botteghe Oscure e il Cremlino. Eravamo in piena Guerra Fredda, non c'era Vladimir Putin ma Josip Stalin e poi i suoi munifici successori, che non hanno mai fatto mancare il proprio sostegno economico al più importante partito comunista Oltrecortina, che sarebbe potuto diventare, nei progetti sovietici, più che la testa di ponte della Rivoluzione in Occidente il primo avamposto di un eventuale scontro armato con la Nato. Promemoria per chi oggi, tra i democratici, ha il coraggio di parlare di "Italia al soldo di una potenza straniera". 

Sull'audio "rubato" l'ombra delle toghe italiane. La trappola perfetta in cui è caduto il Carroccio. Il mistero della registrazione dell'incontro al Metropol, dove quel 18 dicembre c'era anche il cronista dell'«Espresso». La strana triangolazione con il sito Usa di gossip. Gian Micalessin, Martedì 16/07/2019, su Il Giornale. Per capire la stangata a Matteo Salvini basta leggerne la trama e seguirne i tempi. Ma soprattutto chiedersi se un'intercettazione ambientale acquisita da inquirenti inviati in missione a Mosca senza mandato della magistratura possa acquisire dignità di prova giudiziaria. O se per farlo non dovesse prima trasformarsi in «elemento notorio» grazie alla provvidenziale pubblicazione su BuzzFeed. Per capire l'importanza del quesito, avanzato da una fonte del Giornale, bisogna seguire tre date. La prima è quella del 18 ottobre 2018 quando Gianluca Savoini incontra i suoi interlocutori russi e italiani nella hall dell'Hotel Metropol di Mosca. La seconda è quella del 24 febbraio quando il settimanale L'Espresso pubblica in anteprima il capitolo de Il Libro Nero della Lega in cui gli autori Giovanni Tizian e Stefano Vergine presentano lo scoop realizzato a Mosca. La terza è quella di giovedì 11 luglio quando BuzzFeed, sito famoso negli Usa per rivelazioni a cavallo tra scandalo e pettegolezzo, pubblica la registrazione e la trascrizione dei colloqui del Metropol. Partiamo dal 18 ottobre 2018. Per capire come la stangata non sia frutto dell'improvvisazione, ma sia stata programmata da tempo basta la presenza a Mosca del giornalista Giovanni Tizian. Figlio di una vittima della ndrangheta, Tizian è un cronista di razza che si è fatto le ossa raccontando le infiltrazioni mafiose nel Nord e vive sotto scorta. Lui stesso ammette di non essere arrivato a Mosca per caso. Assieme a Vergini indaga sui soldi della Lega da tempo, ma in quella precisa occasione ha ottenuto indicazioni da una fonte riservata. Una fonte capace di guidarlo con notevole precisione nei meandri di quella inchiesta. Non a caso il 18 ottobre 2018 Tizian si presenta nella hall del Metropol almeno un'ora prima dell'inizio dell'incontro e fotografa Savoini ancora solo ad un tavolo in attesa dei suoi interlocutori. Non a caso nell'anteprima dall'Espresso del 24 febbraio ricostruisce esattamente le mosse di un Matteo Salvini arrivato a Mosca, alla vigilia dei colloqui del Metropol, per partecipare ad un convegno organizzato da Confidustria al Lotte Hotel. Subito dopo il convegno, secondo il resoconto di Tizian e Vergine, Salvini incontra «in gran segreto un personaggio di spicco del Cremlino: il vicepremier Dmitry Kozak, delegato agli affari energetici, uomo della stretta cerchia di Putin. L'incontro è avvenuto nell'ufficio di Vladimir Pligin, un noto avvocato moscovita legato a Kozak, il cui studio si trova al numero 43 di Sivtsev Vrazhek». Tizian non dice di aver seguito il capo della Lega. Quindi le sue mosse gli sono state riferite da qualcuno incaricato di tenere sotto controllo le mosse del gruppetto leghista. L'altra stranezza è la precisione con cui Tizian e Vergine, pur non disponendo di una registrazione che altrimenti avrebbero pubblicato sul sito dell'Espresso già a febbraio, ricostruiscono passo dopo passo le fasi della discussione. Anzi il riepilogo dell'introduzione politica ai colloqui del Metropol svolta da Savoini e offertaci già a febbraio dai due giornalisti sembra la trascrizione esatta di quella ascoltata cinque mesi dopo su Buzzfeed. Escludendo l'ipotesi che abbiano potuto avvicinarsi così tanto al tavolo da origliare l'unica spiegazione plausibile è che abbiano potuto ascoltare il nastro senza però poterlo trattenere o utilizzare. Come mai? Perché evidentemente la presenza dell'intercettazione ambientale avrebbe reso evidente la presenza di un regista con finalità ben diverse da quelle giornalistiche. Probabilmente nei piani dell'invisibile demiurgo le rivelazioni di febbraio dovevano bastare già da sole a sollevare il polverone. O forse chi «indagava» sperava di trovare le prove di una compravendita di kerosene in realtà mai realizzatasi. E allora per trasformare intercettazioni ambientali «pirata» in vere e proprie prove capaci di sorreggere un'indagine per corruzione internazionale era indispensabile trasformarle in «atto notorio». Ma per quello grazie al cielo c'era Buzzfeed. E così grazie al sito americano un'acquisizione ottenuta sottobanco potrà forse arrivare in tribunale.

Quarta Repubblica, Nicola Porro ridicolizza chi vuole far fuori Salvini con Savoini e la Russia. Libero Quotidiano il 16 Luglio 2019. Grossa sorpresa nel finale dell'ultima puntata stagionale di Quarta Repubblica, il talk-show condotto da Nicola Porro su Rete 4. Nelle battute finali, infatti, ecco che viene mostrata la ricostruzione della tavola del cosiddetto Russiagate, il caso con al centro Gianluca Savoini con cui provano per l'ennesima volta a colpire Matteo Salvini e la Lega. Nella ricostruzione ecco Savoini, l'avvocato Meranda e altre comparse non meglio identificate. Figuranti muti e impassibili, una scena un poco surreale. Ma soprattutto, si è fatto sentire il commento dello stesso Porro, mentre si muoveva attorno a quella tavola apparecchiata: "Se non ci fosse un’inchiesta della Procura di Milano, se non ci fosse addirittura la richiesta del Pd di una commissione d’indagine, sembrerebbe un feuilleton estivo". E chi ha orecchie per intendere, intenda...

Gianluca Savoini rompe il silenzio: "Perché non ho risposto ai pm di Milano". Libero Quotidiano il 16 Luglio 2019. Nessuna fuga dai giudici, nessuna paura delle toghe. Gianluca Savoini, ex portavoce di Matteo Salvini e fondatore dell’associazione Lombardia-Russia, indagato dalla procura di Milano per corruzione internazionale, "si è avvalso della facoltà di non rispondere, si tratta di una scelta puramente tecnica". Lo spiega di primissimo mattino all'AdnKronos il suo avvocato difensore, Lara Pellegrini. Savoini era stato convocato ieri, lunedì 15 luglio, negli uffici della Guardia di finanza in via Filzi a Milano, ma ha preferito non rispondere alle domande dei pm Sergio Spadaro e Gaetano Ruta. "Considerato che ad oggi siamo di fronte ad un’inchiesta giornalistica trasferita in sede penale, preferiamo aspettare il deposito degli atti da parte della Procura per confrontarci su una base concreta", ha concluso l'avvocato, rispondendo indirettamente a chi - dal Pd in giù - dietro alla scelta ha visto, come detto, una fuga dalla giustizia. O, peggio, una colpevolezza certa.

Social e vanità. Savoini,  il faccendiere 2.0 ossessionato dai selfie. Pubblicato lunedì, 15 luglio 2019 da Pierluigi Battista su Corriere.it. Chissà se Matteo Salvini, scottato dal pasticcio russo, saprà finalmente capire che l’ossessione compulsiva dei selfie può anche portare male. Una malattia con molti e spiacevoli effetti collaterali: come fai a dire di ignorare Gianluca Savoini se poi un intero archivio di foto dimostra che Savoini ti sta fotograficamente attaccato come una ventosa, sulla Piazza Rossa a Mosca e a Palazzo Chigi e dappertutto, chissà quante altre decine di immagini stanno a testimoniare una lunga e continuativa frequentazione? Per Savoini vale ovviamente il contrario: lui è come Zelig che si ficca ovunque per godere dell’opportunità fotografica universale e per farsi vedere con i potenti e nelle occasioni storiche. Solo che lui, Savoini, non Zelig, non si ficca ovunque, ma solo nei posti dove sia possibile farsi immortalare con Salvini. I faccendieri di una volta, quelli affidabili, lavoravano nell’ombra, non si facevano vedere mai, stavano sempre due passi indietro, protetti dall’invisibilità che li rendeva ancora più potenti e carismatici. Il faccendiere dell’età dei social invece deve apparire, deve far vedere che frequenta chi davvero conta per accreditarsi con interlocutori sospettosi: gli interlocutori dei faccendieri sono sempre sospettosi, figuriamoci i russi. Quindi per Savoini la foto è tutto, è curriculum, è prova, è alimento della propria vanità, è l’accredito della propria esistenza pubblica, insomma è un documento di identità. Ma per Matteo Salvini? Tutto il contrario. Al limite si potrebbe dire che propria la sua disponibilità a lasciarsi immortalare con Savoini è la prova che non era suo desiderio nascondere una frequentazione che avrebbe potuto metterlo in imbarazzo. Ma poi arriva il conto. Savoini chi? E poi Savoini appare in mille foto, in mille pose, in mille occasioni, in mille incontri. E il tentativo di relegare Savoini a intruso occasionale, oppure a una delle migliaia e migliaia di persone che si lasciano fotografare con il «Capitano», come era capitato con il mariuolo al raduno del Milan. Ma la voglia incontenibile di apparire può diventare un boomerang, una tagliola. Una foto in più, che vuoi che sia. Ma una foto in più con una persona che alla fine dovrai rinnegare, far finta quasi di non conoscerlo, può essere l’eccesso che fa vacillare il terreno. Troppa vanità non porta niente di buono, lo dicevano anche le nonne. Troppa vanità e dalla Russia può partire un siluro che può produrre conseguenze nefaste. Un selfie in meno e un po’ di (buon) governo in più: magari questa è la ricetta giusta.

Meranda tace in Procura. Le carte della trattativa. Luca Fazzo, Venerdì 19/07/2019, su Il Giornale. Arrivati a questo punto, nel pasticcio dell'hotel Metropol e dei presunti soldi russi alla Lega, una sola cosa è certa: la Procura della Repubblica è parecchi passi più avanti di quanto ufficialmente appaia. Il silenzio sinora osservato dagli indagati sottoposti a interrogatorio - prima Gianluca Savoini, il «mister rublo» amico di Matteo Salvini, e ieri il suo amico Gianluca Meranda - non ha affatto irritato i pm che conducono le indagini: un po' perché se lo aspettavano, e soprattutto perché l'inchiesta è già così avanti da non rischiare di impantanarsi. E uno dei passi principali compiuti dall'indagine è la certezza che la trattativa non si è arenata la sera del Metropol. Dopo la discussione sullo sconto da effettuare sui milioni (tre o sei) di greggio da vendere all'Italia, Savoini e i suoi complici hanno avuto altri contatti con i russi. Non è detto, anzi è improbabile, che alla fine l'affare si sia concluso. Ma se le trattative sono proseguite, questo dimostra per la Procura che i russi consideravano i tre italiani, a dispetto del loro inglese zoppicante, degli interlocutori affidabili. E questo rafforza l'ipotesi che i tre avessero (o millantassero) appoggi all'interno del governo. La notizia del consolidamento della trattativa viene resa nota ieri da una anticipazione dell'Espresso, che nel febbraio scorso aveva parlato per primo dell'indagine al Metropol. Si tratta di notizie che trovano in ampia parte conferma negli ambienti investigativi, che da mesi si muovono su questa traccia. A dimostrare la prosecuzione della trattativa è in primo luogo un documento del 29 ottobre scorso, undici giorni l'incontro al Metropol, in cui la banca di investimenti inglese Euro-IB, per cui lavora l'avvocato Meranda, scrive al colosso petrolifero russo Rosneft proponendosi per l'acquisto di tre milioni di tonnellate di gasolio e tre milioni di tonnellate di cherosene con il 6,5 per cento di sconto: entità coincidenti con quelle citate nell'incontro del Metropol. Il banchiere della Euro-IB che firma l'accordo è l'italiano Glauco Verdoia, e ieri spiega che l'operazione non andò in porto, e che comunque la Lega non c'entrava nulla e l'Eni nemmeno. Ma la coincidenza di tempi e di numeri con la trattativa del Metropol è oggettiva. In un altro documento, del febbraio scorso, è sempre la Euro-IB a scrivere, questa volta a Savoini. Stavolta la firma è di Meranda, e in realtà racconta di un fallimento: la Gazprom, altro colosso russo del petrolio, ha rifiutato di vendere alcunché alla Euro-IB perché non la considera affidabile, «non ha indicato nella richiesta quali sono le sue infrastrutture logistiche». Meranda si lamenta con l'amico Savoini di questa decisione dei russi, ricordando che il petrolio era destinato a Eni che le strutture indubbiamente le possiede. Ma Eni, interpellata dall'Espresso, cade dalle nuvole. Il quadro in mano agli inquirenti, a questo punto, comincia a farsi preciso. Cinque mesi di indagine sotto traccia, a partire almeno dal febbraio scorso (se non da prima), hanno consentito al procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e ai pm Gaetano Ruta e Sergio Spadaro di acquisire una serie di tasselli, prima che la divulgazione dell'audio del Metropol sul sito americano BuzzFeed scatenasse l'attenzione dei media. Anche la decisione dei due «consulenti» che parteciparono con Savoini all'incontro del 18 ottobre, ovvero Meranda e Francesco Vannucci, di uscire allo scoperto con interviste ai media non ha colto gli inquirenti di sorpresa, probabilmente perché erano già arrivati da tempo con i loro mezzi a dare una identità al «Luca» e al «Francesco» dell'audio. Ieri si era sparsa la notizia che al Metropol ci fosse un quarto italiano, e magari anche un quarto russo: ma ai pm milanesi, almeno dell'italiano, non risulta traccia. Ha invece un nome almeno uno dei russi, si chiama Ilya Andreevic Yakunin. Il problema è che Yakunin, per il poco che se ne sa, non è un pubblico ufficiale, e quindi non può essere lui il destinatario della corruzione ipotizzata dai pm milanesi. Ma per ora questo è solo un dettaglio.

Salvini, Savoini e la cena a Mosca alla vigilia del Metropol Spunta un incontro «segreto». Pubblicato venerdì, 19 luglio 2019 da Fiorenza Sarzanini su Corriere.it. La sera precedente la riunione all’hotel Metropol di Mosca, il 17 ottobre 2018, il ministro dell’Interno Matteo Salvini cenò con Gianluca Savoini. Con loro, al ristorante Rusky all’85esimo piano del grattacielo Eye, c’erano altre sei persone. Qualche ora prima, al termine del convegno organizzato all’hotel Lotte da Confindustria Russia, il leader leghista ebbe invece un incontro coperto dalla «massima riservatezza». Quanto basta per alimentare nuovi e inquietanti interrogativi su quella trasferta del vicepremier e sulla trattativa che proprio Savoini e altri due italiani stavano conducendo con tre cittadini russi per far arrivare finanziamenti alla Lega per 65 milioni di dollari attraverso la vendita di carburante. Si torna dunque a quel 17 ottobre 2018, quando Salvini va a Mosca per partecipare all’assemblea di Confindustria Russia. Pronuncia un discorso di grande vicinanza, «io qua mi sento a casa mia, in alcuni Paesi europei no», dice alla platea. Secondo il programma ufficiale reso noto dall’ambasciata deve ripartire per l’Italia al termine dell’evento. Savoini, che si intrattiene con i giornalisti al seguito, lo conferma. In realtà Salvini lascia la sala, ma rimane a Mosca. Forse proprio in quell’albergo dove — come conferma adesso lo staff — ebbe un incontro segreto di circa un’ora. Nessuno al momento vuole dire chi fosse l’interlocutore. Il settimanale L’Espresso aveva ipotizzato che abbia visto Dmitry Kozak, vice primo ministro russo con delega all’energia che non può entrare in Europa perché inserito nella lista dei politici sanzionati dall’Ue. Salvini qualche mese fa ha risposto genericamente: «Ho incontrato tantissimi esponenti del governo russo, adesso non mi ricordo se nella notte del 17-18, ma ho incontrato tanti ministri, tanti sottosegretari, tanti imprenditori, ma lo faccio sempre quando vado all’estero». Finora nessuno sapeva che cosa fosse accaduto dopo, tanto che da giorni si parla di un mistero di 12 ore nella visita di Salvini. L’unica foto ufficiale risale infatti alla mattina del 18 ottobre alle 11.07 quando Salvini posta su Twitter una sua immagine: «Spuntino dietetico in aeroporto a #Mosca, dopo aver incontrato imprenditori italiani e ministri russi, si riparte direzione #Bolzano! Chi si ferma è perduto, vi abbraccio». In realtà, si scopre adesso, Salvini era andato a cena proprio con Savoini. L’appuntamento è al Rusky, panoramico ristorante noto per la sua vista mozzafiato e per l’ice bar. Al tavolo con il ministro ci sono Savoini, il presidente di Confindustria Russia Ernesto Ferlenghi, il direttore di Confindustria Russia Luca Picasso, il consigliere strategico di Salvini Claudio D’Amico, che con Savoini condivide la gestione dell’associazione Lombardia-Russia. E tre uomini dello staff del ministro: capo della segreteria, portavoce e uno degli addetti alla comunicazione. Appena 12 ore dopo, esattamente alle 9.30 del 18 ottobre, Savoini entrerà al Metropol per incontrare i tre russi insieme con l’avvocato Gianluca Meranda e Francesco Vannucci. Argomento: i finanziamenti alla Lega. Possibile che durante la cena non si parlò di quella riunione che doveva tenersi a breve? «Ci occupammo di altro», smentisce lo staff. Salvini — dopo aver categoricamente smentito di «aver mai preso un rublo» — ha finora detto che lui non ne sapeva nulla. Fabrizio Candoni, fondatore di Confindustria Russia ha però raccontato di essere stato «invitato all’hotel Metropol e a Salvini, che era stato invitato anche lui, ho sconsigliato di andare». Dunque tutti sapevano che ci sarebbe stata quella riunione, compreso il vicepremier. E allora perché negarlo pubblicamente? Del resto che quella missione a Mosca potesse essere per lui strategica lo dimostra anche il fatto che decise di non portare con sé il consigliere diplomatico del Viminale, preferendo inserire nella delegazione Claudio D’Amico, che è il suo consigliere a Palazzo Chigi e con Savoini ha fondato Lombardia-Russia.

Esclusivo: soldi russi alla Lega, ecco i documenti che svelano le bugie di Salvini. Dopo l'incontro al Metropol di Mosca la trattativa di Gianluca Savoini per finanziare il partito è andata avanti per mesi. L'inchiesta con le carte segrete sull'Espresso in edicola da domenica. Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 17 luglio 2019 su L'espresso. La trattativa per finanziare la Lega con soldi russi non è finita il 18 ottobre 2018. È proseguita anche dopo l'incontro nella hall dell'hotel Metropol, a Mosca, di cui avevamo scritto in esclusiva cinque mesi fa. L'Espresso, in edicola da domenica 21 luglio, pubblica i documenti esclusivi della proposta commerciale indirizzata a Rosneft dieci giorni dopo il summit di affari e politica in cui era presente Gianluca Savoini, ex portavoce e uomo di assoluta fiducia del ministro Matteo Salvini. Le condizioni indicate nella proposta, preparata da una banca d'affari londinese di cui riveliamo il nome, ricalcano esattamente quelle di cui hanno discusso Savoini e gli altri interlocutori al tavolo del Metropol. C'è di più. Grazie ad altri documenti, L'Espresso è in grado di svelare che la negoziazione è andata avanti almeno fino a febbraio, a tre mesi dalle elezioni europee stravinte dalla Lega di Salvini. Lo prova una nota interna di un'altra società di Stato russa, Gazprom, e la risposta inviata direttamente a Savoini dalla banca londinese rappresentata al tavolo di Mosca dall'avvocato Gianluca Meranda. In questa risposta, Meranda cita esplicitamente Eni come compratore finale della maxi fornitura petrolifera, allegando una lettera di referenza commerciale della società di Stato italiana. Savoini, Meranda, Rosneft e Gazprom non hanno invece risposto alle domande de L'Espresso. I documenti in nostro possesso rendono però inverosimile la versione di Savoini, secondo cui quella riunione del Metropol è stato «solo un incontro casuale in cui la politica non c’entra nulla, i soldi alla Lega neppure». 

COSA HA FATTO SALVINI NELLE 12 ORE PRIMA DEL FAMIGERATO INCONTRO AL METROPOL? Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della sera”  il 19 giugno 2019. La sera precedente la riunione all' hotel Metropol di Mosca, il 17 ottobre 2018, il ministro dell' Interno Matteo Salvini cenò con Gianluca Savoini. Con loro, al ristorante Rusky all' 85esimo piano del grattacielo Eye, c' erano altre sei persone. Qualche ora prima, al termine del convegno organizzato all' hotel Lotte da Confindustria Russia, il leader leghista ebbe invece un incontro coperto dalla «massima riservatezza». Quanto basta per alimentare nuovi e inquietanti interrogativi su quella trasferta del vicepremier e sulla trattativa che proprio Savoini e altri due italiani stavano conducendo con tre cittadini russi per far arrivare finanziamenti alla Lega per 65 milioni di dollari attraverso la vendita di carburante. Si torna dunque a quel 17 ottobre 2018, quando Salvini va a Mosca per partecipare all' assemblea di Confindustria Russia. Pronuncia un discorso di grande vicinanza, «io qua mi sento a casa mia, in alcuni Paesi europei no», dice alla platea. Secondo il programma ufficiale reso noto dall' ambasciata deve ripartire per l' Italia al termine dell' evento. Savoini, che si intrattiene con i giornalisti al seguito, lo conferma. In realtà Salvini lascia la sala, ma rimane a Mosca. Forse proprio in quell' albergo dove - come conferma adesso lo staff - ebbe un incontro segreto di circa un' ora. Nessuno al momento vuole dire chi fosse l' interlocutore. Il settimanale L' Espresso aveva ipotizzato che abbia visto Dmitry Kozak, vice primo ministro russo con delega all' energia che non può entrare in Europa perché inserito nella lista dei politici sanzionati dall' Ue. Salvini qualche mese fa ha risposto genericamente: «Ho incontrato tantissimi esponenti del governo russo, adesso non mi ricordo se nella notte del 17-18, ma ho incontrato tanti ministri, tanti sottosegretari, tanti imprenditori, ma lo faccio sempre quando vado all' estero». Finora nessuno sapeva che cosa fosse accaduto dopo, tanto che da giorni si parla di un mistero di 12 ore nella visita di Salvini. L' unica foto ufficiale risale infatti alla mattina del 18 ottobre alle 11.07 quando Salvini posta su Twitter una sua immagine: «Spuntino dietetico in aeroporto a #Mosca, dopo aver incontrato imprenditori italiani e ministri russi, si riparte direzione #Bolzano! Chi si ferma è perduto, vi abbraccio». In realtà, si scopre adesso, Salvini era andato a cena proprio con Savoini. L' appuntamento è al Rusky, panoramico ristorante noto per la sua vista mozzafiato e per l' ice bar. Al tavolo con il ministro ci sono Savoini, il presidente di Confindustria Russia Ernesto Ferlenghi, il direttore di Confindustria Russia Luca Picasso, il consigliere strategico di Salvini Claudio D' Amico, che con Savoini condivide la gestione dell' associazione Lombardia-Russia. E tre uomini dello staff del ministro: capo della segreteria, portavoce e uno degli addetti alla comunicazione. Appena 12 ore dopo, esattamente alle 9.30 del 18 ottobre, Savoini entrerà al Metropol per incontrare i tre russi insieme con l' avvocato Gianluca Meranda e Francesco Vannucci. Argomento: i finanziamenti alla Lega. Possibile che durante la cena non si parlò di quella riunione che doveva tenersi a breve? «Ci occupammo di altro», smentisce lo staff. Salvini - dopo aver categoricamente smentito di «aver mai preso un rublo» - ha finora detto che lui non ne sapeva nulla. Fabrizio Candoni, fondatore di Confindustria Russia ha però raccontato di essere stato «invitato all' hotel Metropol e a Salvini, che era stato invitato anche lui, ho sconsigliato di andare». Dunque tutti sapevano che ci sarebbe stata quella riunione, compreso il vicepremier. E allora perché negarlo pubblicamente? Del resto che quella missione a Mosca potesse essere per lui strategica lo dimostra anche il fatto che decise di non portare con sé il consigliere diplomatico del Viminale, preferendo inserire nella delegazione Claudio D' Amico, che è il suo consigliere a Palazzo Chigi e con Savoini ha fondato Lombardia-Russia.

Lega-Russia, la banca fantasma (con 2 dipendenti) del mediatore del Metropol. Pubblicato sabato, 20 luglio 2019 da Mario Gerevini su Corriere.it. La banca d’affari anglo-tedesca al centro dell’affaire Metropol è un promettente sito web dietro il quale non c’è alcuna banca ma una finanziaria privata con due dipendenti e un bilancio da pizzeria. Prima di arrivare a Londra, alla porta anonima della sede di Euro-IB Limited, riassumiamo la vicenda: il 18 ottobre 2018 tre russi e tre italiani seduti intorno a un tavolo dell’Hotel Metropol di Mosca, tra caffè sigarette e microfoni che registrano, trattano la possibile compravendita di 3 milioni di tonnellate di petrolio da un’azienda russa all’Eni (che ha smentito più volte). Il piano prevede, in sintesi, che l’azienda russa venda il carburante a un intermediario con lo sconto del 6% e poi l’intermediario rivenda a prezzo pieno all’acquirente finale, creando così la provvista da girare, in nero, alla Lega (65 milioni) e ai funzionari russi. Valore dell’operazione: 1,5 miliardi di dollari. Il presunto affare però non si sarebbe mai chiuso e ora indaga la Procura di Milano. Ma chi è l’intermediario? Dei tre russi sappiamo poco. I tre italiani (tutti indagati) sono:

1) Gianluca Meranda, 49 anni, un vero avvocato di sedicenti affari internazionali, in difficoltà con gli affari personali (sfrattato dallo studio per morosità come ha scritto La Verità) che dice di rappresentare la banca anglo-tedesca;

2) Francesco Vannucci, 62, ex bancario e sindacalista in pensione che si è riciclato con risultati altalenanti, a livello provinciale, come sedicente esperto (anzi: advisor) di finanza;

3) Gianluca Savoini, 55 anni, folgorato sulla via di Mosca, selfie made man con Putin in sottofondo, legatissimo a Matteo Salvini e ancor di più a Claudio D’Amico, il geometra ex deputato nello staff del vice premier come esperto di strategie internazionali.

Che cosa colpisce di questo quadro? Il livello (anzi: lo standing). La posta in gioco (e le cifre) suggerirebbero la presenza di negoziatori di ben altra caratura, per quanto spregiudicati, e di professionisti della finanza altrettanto qualificati e disinvolti. Invece sembrano faccendieri da quattro soldi. Però, si diceva, c’è una banca di mezzo ed è quella che potrebbe dare spessore e qualità alla task force italiana. Ne parla l’avvocato Meranda nella lettera in cui fa outing: «Specifico di aver partecipato alla riunione (...) in qualità di General Counsel (cioè capo dello staff legale, ndr) di una banca d’affari anglo-tedesca interessata all’acquisto di prodotti petroliferi di orgine russa». È proprio la «nostra» Euro-IB. È l’intermediario. E L’Espresso, che per primo ha fatto emergere il caso Metropol, ha appena anticipato l’uscita di nuovi documenti su carta intestata Euro-IB. Dunque il perno dell’operazione da 1,5 miliardi è dietro una porta al piano strada di County Street 87. «Euro-IB è una Banca d’Investimenti e Corporate Finance — dice il sito — Il nostro management ha alle spalle un’esperienza con banche internazionali». Il loro bilancio è però desolatamente striminzito, non certificato, in perdita, con un capitale sociale di 241 mila sterline e Lloyds Bank ha in pegno una parte del patrimonio a fronte di un piccolo prestito erogato il 13 maggio scorso. Pochi affari e tre uffici: Londra, Francoforte e Roma. Dove a Roma? Nello studio (ex dopo lo sfratto) di Meranda. Il telefono è lo stesso. L’avvocato è indicato nel sito web della società come uno dei sei top manager del team guidato dal tedesco Alexander von Ungern Sternberg, azionista di maggioranza. Ne fa parte un secondo nostro connazionale, Glauco Verdoia che oggi prende le distanze da Meranda. Caso vuole che Verdoia sia socio d’affari vinicoli dell’altro italiano del Metropol, il pensionato Vannucci. Sembra un mix tra una spy story e un film di Totò. E tutto riconduce alla Euro-IB la banca d’affari che banca non è e che nella City nessuno ha mai sentito nominare.

Giacomo Amadori Alessandro Da Rold per “la Verità”  il 19 giugno 2019. Le presunte bombe dell'Espresso in edicola domenica prossima sulla prosecuzione della trattativa tra i traffichini dell' hotel Metropol e compagnie petrolifere russe, i lettori della Verità le avevano già apprezzate su questo giornale lo scorso 14 luglio, quando davamo conto di come, dopo l' incontro del 18 ottobre, Gianluca Meranda fosse tornato a Roma e il 20 avesse informato i suoi assistiti della banca Euro-Ib sulla possibilità di acquistare dalla Rosneft a buon prezzo 3 milioni di tonnellate di petrolio, lo stesso quantitativo citato nella registrazione del Metropol. Come ha confermato Glauco Verdoia, responsabile della banca all' Espresso, dopo averlo fatto con noi. Da notare che Verdoia non è mai stato convocato dai magistrati e Euro-Ib è parte lesa nella vicenda. La Verità scrisse anche che «tra il 12 e il 14 dicembre Meranda era tornato a Mosca e dalla Russia aveva scritto a Verdoia questo Whatsapp: "Non ci sono sviluppi". Avevamo poi aggiunto che l' avvocato, a inizio 2019, tentò di cambiare cavallo e si rivolse, per acquistare petrolio in Russia a un noto lobbista romano con solidi rapporti a Mosca. Ma anche in questo caso non si concretizzò nulla». Insomma che Meranda abbia cercato di portare avanti la trattativa in modo autonomo e probabilmente insieme con Gianluca Savoini è già stato scritto da questo giornale. L' Espresso ha aggiunto che Meranda l' 8 febbraio avrebbe fatto, a ridosso proprio dello scoop dei colleghi, un'altra offerta, questa volta indirizzata a Savoini per Gazprom ma, a quanto risulta al nostro giornale, mai arrivata alla società russa. La Verità, insomma, aveva già anticipato tutto delle mosse di Meranda, l'avvocato cacciato dalla massoneria e in difficoltà economiche, intercettato a un tavolo del Metropol insieme con il leghista Gianluca Savoini e Francesco Vannucci, un ex bancario toscano della Margherita. I tre sono indagati per corruzione internazionale. Ieri Meranda è stato ascoltato al comando della Guardia di finanza vicino alla stazione centrale di Milano, proprio come Savoini. Accompagnato dall' avvocato albanese Ersi Bozheku del foro di Tirana, Meranda si è avvalso della facoltà di non rispondere e ha ribadito uscendo con i cronisti quanto scritto nella sua lettera a Repubblica della scorsa settimana. «Vedremo cosa farà la magistratura», ha spiegato uscendo dalla caserma. «Credo nel lavoro dei magistrati e confido facciano le indagini in modo sereno e con la tempistica propria che indicano gli inquirenti», ha invece commentato l'avvocato Bozheku. Del resto il pezzo dell' Espresso non fa che confermare come in realtà la trattativa fosse più che mai aleatoria. La Verità può aggiungere altri dettagli. E spiegare come i colleghi Giovanni Tizian e Stefano Vergine non abbiano raccontato fino in fondo quale sia stata la fine di quei documenti che, stando al banchiere di Euro-Ib Glauco Verdoia, non sono arrivati a Gazprom: «Non ero nemmeno a conoscenza della nuova offerta dell' 8 febbraio 2019 rivelata dall' Espresso». Non solo. Il settimanale ha dimenticato di ribadire che quella transazione era morta e sepolta «nelle chiacchiere di metà dicembre» e «che la banca non era minimamente a conoscenza delle possibilità che i soldi sarebbero stati destinati alla Lega» di Matteo Salvini. E ancora. Euro-Ib non ha mai avuto contatti con Eni, a parte una compliance interna che non ha mai portato alla chiusura di transazioni. Per di più nel pezzo dell' Espresso si legge che sarebbe stata la banca inglese a fare il nome di Eni con Gianluca Savoini, ma in realtà è stato Meranda a farlo. Anche perché Verdoia non ha mai visto, conosciuto o parlato con Savoini. Per di più nell' articolo di Tizian e Vergine è stata omessa tutta la parte del ribaltamento della maggior parte dello sconto ai compratori finali e il fatto che la banca avrebbe contattato tali compratori solo ad avvenuta conferma della fornitura. Verdoia lo ha ribadito ieri: «È una vicenda che è peraltro rimasta sempre allo stato embrionale non avendo mai raggiunto nessuna concretezza». Non solo. In pratica l' unico destinatario è stato sempre Meranda che ha confezionato anche il secondo documento inviato a Savoini. In sostanza di ruoli attivi da parte delle compagnie petrolifere non c' è ombra. Anzi. Proprio nell' inchiesta pubblicata dal settimanale si leggono le prese di posizione di Rosneft e di Eni. La prima scrive: «Non abbiamo avuto alcun ruolo nell' operazione descritta». Del resto, non l' avevano neppure ricevuto. La seconda è ancora più forte: «Eni ribadisce di non aver preso parte in alcun modo a operazioni volte al finanziamento di partiti politici. E tiene a precisare che, in presenza di qualsiasi illazione volta a coinvolgerla in presunte operazioni di finanziamento a parti politiche, si riserverà di valutare le opportune vie legali a tutela della propria reputazione». 

Mario Gerevini per il “Corriere della sera”  il 20 luglio 2019. La banca d'affari anglo-tedesca al centro dell' affaire Metropol è un promettente sito web dietro il quale non c' è alcuna banca ma una finanziaria privata con due dipendenti e un bilancio da pizzeria. Prima di arrivare a Londra, alla porta anonima della sede di Euro-IB Limited, riassumiamo la vicenda: il 18 ottobre 2018 tre russi e tre italiani seduti intorno a un tavolo dell' Hotel Metropol di Mosca, tra caffè sigarette e microfoni che registrano, trattano la possibile compravendita di 3 milioni di tonnellate di petrolio da un' azienda russa all'Eni (che ha smentito più volte). Il piano prevede, in sintesi, che l' azienda russa venda il carburante a un intermediario con lo sconto del 6% e poi l' intermediario rivenda a prezzo pieno all' acquirente finale, creando così la provvista da girare, in nero, alla Lega (65 milioni) e ai funzionari russi. Valore dell' operazione: 1,5 miliardi di dollari. Il presunto affare però non si sarebbe mai chiuso e ora indaga la Procura di Milano. Ma chi è l' intermediario? Dei tre russi sappiamo poco. I tre italiani (tutti indagati) sono:

1) Gianluca Meranda, 49 anni, un vero avvocato di sedicenti affari internazionali, in difficoltà con gli affari personali (sfrattato dallo studio per morosità come ha scritto La Verità ) che dice di rappresentare la banca anglo-tedesca;

2) Francesco Vannucci, 62, ex bancario e sindacalista in pensione che si è riciclato con risultati altalenanti, a livello provinciale, come sedicente esperto (anzi: advisor) di finanza;

3) Gianluca Savoini, 55 anni, folgorato sulla via di Mosca, selfie made man con Putin in sottofondo, legatissimo a Matteo Salvini e ancor di più a Claudio D'Amico, il geometra ex deputato nello staff del vice premier come esperto di strategie internazionali.

Che cosa colpisce di questo quadro? Il livello (anzi: lo standing). La posta in gioco (e le cifre) suggerirebbero la presenza di negoziatori di ben altra caratura, per quanto spregiudicati, e di professionisti della finanza altrettanto qualificati e disinvolti. Invece sembrano faccendieri da quattro soldi. Però, si diceva, c'è una banca di mezzo ed è quella che potrebbe dare spessore e qualità alla task force italiana. Ne parla l'avvocato Meranda nella lettera in cui fa outing: «Specifico di aver partecipato alla riunione (...) in qualità di General Counsel (cioè capo dello staff legale, ndr ) di una banca d'affari anglo-tedesca interessata all'acquisto di prodotti petroliferi di orgine russa». È proprio la «nostra» Euro-IB. È l'intermediario. E L' Espresso , che per primo ha fatto emergere il caso Metropol, ha appena anticipato l'uscita di nuovi documenti su carta intestata Euro-IB. Dunque il perno dell' operazione da 1,5 miliardi è dietro una porta al piano strada di County Street 87. «Euro-IB è una Banca d' Investimenti e Corporate Finance - dice il sito - Il nostro management ha alle spalle un' esperienza con banche internazionali». Il loro bilancio è però desolatamente striminzito, non certificato, in perdita, con un capitale sociale di 241 mila sterline e Lloyds Bank ha in pegno una parte del patrimonio a fronte di un piccolo prestito erogato il 13 maggio scorso. Pochi affari e tre uffici: Londra, Francoforte e Roma. Dove a Roma? Nello studio (ex dopo lo sfratto) di Meranda. Il telefono è lo stesso. L' avvocato è indicato nel sito web della società come uno dei sei top manager del team guidato dal tedesco Alexander von Ungern Sternberg, azionista di maggioranza. Ne fa parte un secondo nostro connazionale, Glauco Verdoia che oggi prende le distanze da Meranda. Caso vuole che Verdoia sia socio d' affari vinicoli dell' altro italiano del Metropol, il pensionato Vannucci. Sembra un mix tra una spy story e un film di Totò. E tutto riconduce alla Euro-IB la banca d' affari che banca non è e che nella City nessuno ha mai sentito nominare.

Francesca Basso per il “Corriere della sera” il 20 luglio 2019. Alto, sempre elegante, Luca Picasso è conosciuto a Mosca oltre che per l' attività in Confindustria Russia anche per la passione per la vita notturna: è un habitué delle discoteche più esclusive della capitale. È il nuovo protagonista nella vicenda che ruota attorno alla trasferta a Mosca del vicepremier Salvini e alla trattativa che Gianluca Savoini e altri due italiani avrebbero portato avanti con tre cittadini russi per far arrivare finanziamenti alla Lega per 65 milioni di dollari attraverso la vendita di carburante. Picasso era alla cena a cui ha partecipato il ministro dell' Interno, che si è tenuta alla vigilia dell' incontro del 18 ottobre 2018 all' Hotel Metropol, su cui ha avviato un' inchiesta la Procura di Milano. Picasso alcuni giorni dopo (il 22 ottobre) ha postato su Instagram la sua foto con #matteosalvinipremier, commentando la cena che si è svolta al termine dell' assemblea generale di Confindustria Russia, a cui erano presenti anche il numero uno Ernesto Ferlenghi, Gianluca Savoini e Claudio D' Amico. Il nome di Picasso girava da un po' nell' ambiente moscovita, da quando nelle intercettazioni è spuntato un «Luca». Picasso ieri su Instagram ha escluso il suo coinvolgimento: «Non ho nulla a che fare con la riunione al Metropol» e «non ho mai saputo gli argomenti trattati». Vicepresidente di Confindustria da tre anni, Picasso ha anche creato un' agenzia di modelle, la Moscow Starz il cui sito ieri era fuori uso ma ancora lunedì lo indicava come fondatore. L' account Instagram dell'agenzia è invece attivo (ultimo post 26 febbraio scorso). Tra le foto di modelle ce n'è una del 30 giugno 2018 con la copertina di un magazine dedicata a Picasso. I primi passi li muove in Italia. Nel 2010 sfiora l'elezione alla guida dei giovani di Assolombarda. Titolare di una piccola impresa che si occupa di mediazione creditizia, la Pick Money, è il candidato unico ma tre probiviri gli stoppano la corsa per «l' evidenza di comportamenti personali e associativi ben lontani dal canone di rigorosa e sostanziale ineccepibilità richiesti dal codice etico». Lo stesso anno risulta anche vicepresidente di Tuvia Italia, gruppo della logistica di cui nel 2012 a Mosca fonda la filiale russa. Continua a lavorare con i giovani di Confindustria e nel 2012 è in missione in Kazakistan. Picasso diventa socio di Confindustria Russia e l' amicizia con Ferlenghi rappresenta una svolta. Nel 2014 fonda una società di consulenza nel settore dell' energia, la Italian Companies for oil&gas (Icog). I rapporti con Assolombarda restano costruttivi e organizza diversi incontri in Italia. Nel 2017 è a un workshop che illustra alle aziende italiane le procedure per lavorare con i grandi operatori russi nel settore energetico.  

QUALE COMPLOTTO INTERNAZIONALE: IL RUSSIAGATE È TUTTO ITALIANO. Giacomo Amadori per “la Verità” il 2 agosto 2019. Il direttore dell' Espresso Marco Damilano, parlando del cosiddetto Russiagate, è arrivato a citare il Watergate. Un paragone ardito. All' epoca, eravamo nei primi anni '70, Mark Felt, vicedirettore del Federal bureau of investigation (Fbi), riferì a due giornalisti del Washington Post che i vertici del Partito repubblicano, quello del presidente Richard Nixon, avevano ordinato intercettazioni illegali nel quartier generale del Partito democratico. Lo scandalo costrinse Nixon alle dimissioni. Anche in questo caso gli ingredienti sono simili: abbiamo due giornalisti d' inchiesta, Giovanni Tizian e Stefano Vergine, delle intercettazioni e un Partito democratico. Ma la storia è molto diversa. Infatti l' intercettazione che è alla base dell' inchiesta per corruzione internazionale avviata dalla Procura di Milano non è stata eseguita dalle forze dell' ordine o dalle microspie russe, come si era fantasticato nelle ultime settimane, immaginando complotti internazionali che coinvolgevano la Russia di Vladimir Putin e gli Usa di Donald Trump. Più modestamente, come anticipato dalla Verità, è sempre più chiaro che ci troviamo di fronte a un trappolone contro Matteo Salvini che ha come protagonisti tutti personaggi italiani. Ieri la Procura di Milano ha depositato alcuni atti riguardanti le indagini contro l'ex portavoce di Salvini, Gianluca Savoini, e due attori apparentemente minori: un avvocato massone, Gianluca Meranda, e un consulente finanziario con un passato di bancario e di funzionario della Margherita e del Pd, Francesco Vannucci. I tre avrebbero partecipato a un summit con altrettanti russi all' hotel Metropol di Mosca il 18 ottobre 2018 per discutere di petrolio e finanziamenti alla Lega. Tra gli atti depositati in vista del Riesame (l' udienza è prevista per il 5 settembre) anche la trascrizione dell' audio di quell' incontro. Ieri l' agenzia Ansa ha scritto: «Da quanto è stato riferito dopo il servizio dell' Espresso i pm che coordinano le indagini hanno convocato uno dei due autori (Tizian e Vergine, ndr), per altro testimoni oculari dell' incontro nel grande albergo moscovita (erano presenti ma a debita distanza come hanno già scritto loro stessi) e lo hanno sentito a verbale. Nel corso della deposizione è venuto a galla che i due giornalisti non solo erano in possesso dell' audio sulla presunta trattativa, ma che la registrazione era stata fornita da una "fonte", di cui non è stata rivelata l' identità (è stato fatto valere il segreto professionale). Il file audio, poi, è stato acquisito dalla Procura con una richiesta di consegna formale. L' ipotesi è comunque che a fare la registrazione possa essere stato uno dei partecipanti italiani alla trattativa». Dunque l' audio che il sito americano Buzzfeed ha diffuso il 10 luglio, facendo uno scoop mondiale, era già da mesi nella disponibilità del settimanale italiano. Ma perché i giornalisti dell' Espresso non l' hanno pubblicato prima di Buzzfeed? E quando ne sono entrati in possesso? La storia del Metropol e alcuni virgolettati di quell' incontro fanno parte del volume Il libro nero della Lega, pubblicato a febbraio da Tizian e Vergine e ripreso in anteprima dall' Espresso il 21 dello stesso mese. Di certo il libro è stato terminato nelle settimane precedenti e quindi il file potrebbe essere stato consegnato ai giornalisti in un arco di tempo compreso tra ottobre e gennaio. Ma da nessuna parte, né sul libro, né sul settimanale è stato riportato che le cinque pagine del capitolo «Tre milioni da Vladimir» si basassero su una registrazione. Inoltre stupisce che un simile scoop in un libro anti Lega sia stato confinato tra pagina 156 e pagina 160. Non sappiamo perché, ma quell' audio viene utilizzato al minimo del suo potenziale. Come una bomba che viene fatta esplodere in mare. Eppure i giornalisti scrivono di essere stati presenti al Metropol e di essere stati informati anche di un incontro preparatorio tra Savoini e l' ideologo sovranista russo Aleksandr Dugin: «Il 25 settembre i due si sono incontrati in via del Babuino. Un meeting riservato in cui si è parlato di un viaggio a Mosca del ministro dell' Interno. Viaggio che poi in effetti si è concretizzato il 17 ottobre 2018[]. Per capire meglio le cose abbiamo seguito la missione di Salvini a Mosca a metà ottobre» hanno scritto Tizian e Vergine. In pratica i cronisti fanno intendere di essere stati avvertiti del summit romano e di essere volati a Mosca per verificare personalmente le trattative. Eppure liquidano in tre righe l' incontro all' hotel De Russie di via del Babuino e ne dedicano poche di più a quello moscovita. Insistono solo sul fatto di essere «stati testimoni» dell' incontro. C' è un altro particolare che non torna: a febbraio Tizian e Vergine, nell' anticipazione del loro libro pubblicata sull' Espresso, riferiscono di un colloquio al Metropol tra tre italiani e tre russi. Peccato che nel volume, chiuso probabilmente qualche settimana prima, parlassero di cinque uomini: «Savoini era al tavolo seduto con altre quattro persone. Siamo riusciti a individuarne uno con certezza: Ylia Andrevich Yakunin [] al tavolo c' erano poi un traduttore russo, un avvocato italiano e un altro italiano chiamato Francesco. La compagine ha trascorso oltre un' ora a discutere bevendo caffè espresso». Nessun altro particolare. Ma i due giornalisti, che hanno contato in modo diverso gli uomini della trattativa e che hanno notato solo la bevanda bollente, erano davvero presenti? E se non lo erano, perché hanno trascritto parte dell' audio consegnatogli da uno degli italiani senza dichiarare di averlo? Anche ieri, come la settimana scorsa, abbiamo provato a chiederlo al direttore dell' Espresso Marco Damilano, che però anche questa volta ha preferito non rispondere. È stato più disponibile Stefano Vergine, freelance che ha da poco lasciato il settimanale romano, dove era vicecaposervizio. «Non mi sento di dire se sono stato io a consegnare il file, c' è un' inchiesta in corso. Perché non abbiamo pubblicato l' audio sul sito dell' Espresso? Questo deve chiederlo a Marco Damilano». Facciamo notare che quando è uscito, l' audio ha fatto il giro del mondo e che Vergine lo aveva molto prima «Certo certo. Non è che ci inventiamo le cose, se le abbiamo scritte con precisione Abbiamo sempre detto che avevamo le prove, ma non abbiamo mai specificato che avevamo l'audio». Ribattiamo che hanno dovuto mandar giù ogni genere di smentita e che un giornale gemello, Repubblica, ha addirittura parlato dello «scoop di Buzzfeed» e la contestazione fa sospirare Vergine: «Sono mesi che leggo queste cose, stando in silenzio». Lo incalziamo: da scoopista si sarà arrabbiato? «Un po' mi è spiaciuto, ma per lo meno ora un po' se ne parla» è la replica del collega. Resta irrisolto l'ultimo mistero: chi è la fonte dell' Espresso? I maggiori sospettati restano il Meranda, grembiulino calabrese, e Vannucci, l' uomo del Pd. L'avvocato albanese Ersi Bozheku, difensore di entrambi, non risolve il mistero: «Non so nulla di quello che mi sta chiedendo».

INSISTIAMO PERCHÉ C'È ODORE D'INGANNO. Maurizio Belpietro per “la Verità” il 5 agosto 2019. Da giorni Giacomo Amadori insegue il direttore dell'Espresso. La sua non è una passione per il capo di una testata in qualche modo concorrente, ma solo interesse professionale. A Marco Damilano vorrebbe porre alcune domande semplici semplici, in merito all' inchiesta del settimanale sul famoso incontro a sei nella hall dell' hotel Metropol di Mosca. A febbraio di quest' anno, il giornale del gruppo De Benedetti ha pubblicato in esclusiva la notizia di una riunione tra Luca Savoini, uomo vicino a Matteo Salvini, e altri cinque signori, tra i quali due italiani e tre russi. In quella sede, secondo L' Espresso, sarebbero state gettate le basi di una compravendita di 3 milioni di tonnellate di prodotti petroliferi, operazione che avrebbe avuto come contropartita una tangente da 65 milioni per la Lega. Come è noto, di questi soldi e del gasolio finora non si è trovata traccia, ma in compenso è comparsa una registrazione, che prima è stata consegnata alla magistratura e poi è finita online su un sito americano. Ecco, finora l' unica cosa certa di questo pasticcio è proprio la registrazione che, come Giacomo Amadori ha rivelato, non solo è stata offerta anche a un programma di Rai 3, Report, ma era sin dai giorni della pubblicazione dell' articolo dell' Espresso nelle mani dei giornalisti del direttore Marco Damilano. La domanda che il nostro vicedirettore vuole porre al collega del settimanale a questo punto è ovvia: ma se avevate tra le mani l' audio, ovvero la prova-regina dell' incontro a Mosca, perché non lo avete messo online e vi siete fatto «fregare» lo scoop da un sito americano? A qualcuno la questione potrà sembrare secondaria, roba che importa solo a chi fa il nostro mestiere, ma in realtà è tutt' altro che poco interessante. La registrazione è infatti la chiave di tutto, perché scoprendo chi l' ha fatta e chi l' ha diffusa, c' è la possibilità di risolvere il giallo di un intrigo internazionale che sempre più sembra essere stato congegnato ad arte per incastrare una persona vicina al ministro dell' Interno. Se Amadori insiste con Damilano, dunque, non è per svelare le fonti del collega, ma per chiarire i dettagli di questa storia e soprattutto per comprendere come mai, fin dall' inizio, i giornalisti dell' Espresso abbiano scelto di non raccontare di essere venuti in possesso di un audio, sostenendo di aver ascoltato a distanza una conversazione a sei che si è svolta in tre lingue. Da subito il resoconto era apparso inverosimile, perché attribuire le parole corrette pronunciate dai partecipanti a un incontro pur non essendo seduti a quel tavolo era un lavoro non facile. In realtà, L' Espresso scrisse della trattativa perché era in possesso della registrazione, anche se non ne fece cenno. E a questo punto scatta una seconda domanda: da quanto tempo l' avevano? Da ottobre, cioè quando si svolse l' incontro moscovita, oppure venne loro consegnata successivamente, cioè poco prima che i giornalisti dell' Espresso ne scrivessero? In questo ultimo caso sarebbe spontaneo anche un secondo quesito: ma se hanno avuto il file con le voci dei partecipanti all' incontro mesi dopo, siamo sicuri che i colleghi di Damilano fossero davvero presenti a Mosca durante la riunione? E se c' erano perché non sono riusciti a scattare altre foto o a fare un video? Insomma, pur senza voler scoprire le carte dell' Espresso, è importante ricostruire la vicenda per come si è svolta e al momento abbiamo la sensazione che il settimanale debenedettiano non abbia raccontato per filo e per segno ciò di cui è venuto a conoscenza. Dunque, nonostante il caso ormai abbia conquistato addirittura le pagine del New York Times, nel numero dell' Espresso in edicola Damilano ha scelto di non scrivere del Russiagate e di ignorare sia le polemiche che le domande. Scelta curiosa per un giornale che dovrebbe essere orgoglioso dello scoop. Scelta che ci spinge a insistere per avere una riposta. Speriamo che, nonostante i molti impegni, prima o poi il collega trovi il tempo per chiarire la genesi del giallo e soprattutto della registrazione. Noi restiamo in fiduciosa attesa, anche perché, se a Repubblica si inseguono le moto d' acqua, noi preferiamo inseguire l' odore dei soldi. O per lo meno l'odore di un inganno.

LE DOMANDE CHE IL POTERE NON TOLLERA. Marco Damilano per “la Repubblica” il 5 agosto 2019. Nel 1989 pensavamo che l' Europa fosse il nostro avvenire. Oggi pensiamo di essere noi l' avvenire dell' Europa», ha rivendicato il premier ungherese Viktor Orbán, citato da Jacques Rupnik in Senza il muro (Donzelli). Trent' anni fa si immaginava in Europa e in Occidente che la liberal-democrazia fosse il destino dei Paesi dell' Est usciti dal muro. Oggi, invece, l'ha detto Vladimir Putin, avanza chi vorrebbe la democrazia senza liberalismo, senza il contrappeso del Parlamento e dell' opposizione, con le istituzioni di controllo esistenti nella forma ma asservite nei fatti: la magistratura indipendente, la stampa libera. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella il 25 luglio, ricevendo i giornalisti al Quirinale, ha ricordato la sentenza del giudice Hugo Black della Corte Suprema Usa del 1971: «La stampa è fatta per servire i governati, non i governanti. La stampa è protetta affinché possa mettere allo scoperto i segreti del Governo e informare il popolo». Oggi, però, quei principi sono sotto attacco. I sovranisti in maggioranza in alcuni Paesi europei e in Italia predicano l' identità assoluta tra governo e popolo. Il governo deriva dal popolo, non può essere controllato né giudicato. E chi esprime una critica va trattato così: come un nemico del popolo. Il ministro Matteo Salvini sfugge al Parlamento, sogna un Paese che assomigli ai suoi ossessivi monologhi sui social e sguinzaglia il branco dei cacciatori in rete contro i (pochi) giornali non ancora sdraiati sulla spiaggia del Papeete. I nostri, soprattutto, allergici al conformismo di qualunque colore, per dna e per storia. Repubblica con il videomaker Valerio Lo Muzio, insultato dal ministro per avere documentato il figlio a bordo della moto d' acqua della Polizia. E L'Espresso , sotto tiro per l' inchiesta di Giovanni Tizian e Stefano Vergine sulle trattative d' affari tra la Lega e la Russia. Dopo la nostra pubblicazione, il 24 febbraio, la procura di Milano ha aperto un' inchiesta per corruzione internazionale e indaga su Gianluca Savoini, l'uomo chiave, intimo di Salvini. Il sito americano BuzzFeed ha pubblicato l'11 luglio l'audio dell' incontro all'hotel Metropol che confermava quanto scritto cinque mesi prima. Il premier Giuseppe Conte ha ammesso di fronte al Senato (24 luglio) che il suo ministro dell' Interno ha mentito sulla presenza di Savoini nelle delegazioni ufficiali. Di fronte a tutto questo chi fa il nostro mestiere ha il dovere di rilanciare. Salvini era informato della trattativa di Savoini al Metropol di Mosca con i russi il 18 ottobre 2018? Cosa ha fatto Salvini la sera prima nella capitale russa, dopo aver parlato per soli dodici minuti in pubblico nel pomeriggio all' incontro di Confindustria Russia? Si è incontrato con il vice-premier con delega all' Energia Dmitry Kozak? Perché l' incontro non figura nell' agenda del ministro? E soprattutto: che grado di autonomia da una potenza straniera ha l' Italia governata dai sovranisti? Nessuna risposta, solo qualche battuta infastidita, il coraggiosissimo Capitano scappa. E nessuna smentita, nessuna querela. Negli ultimi giorni, invece, alcuni squadristi di Salvini a mezzo stampa hanno provato a imbastire una inchiesta sull' inchiesta. Reclamano di sapere come mai non abbiamo pubblicato l'audio dell' incontro al Metropol, poi consegnato alla procura di Milano, quali sono le nostre fonti e i nostri metodi. Eppure dovrebbero sapere bene che la riservatezza di una fonte per un giornalista è sacra, tutelata in sede legale, e che le altre sono decisioni editoriali. Nessun segreto sulla mancata pubblicazione dell' audio: lo abbiamo usato per confermare gli elementi che ci servivano, considerandolo uno strumento importante che non esaurisce un' inchiesta molto più vasta e complessa. Ogni documento, anche un audio ai tempi della Rete, non è il punto di arrivo, è il punto di partenza di una inchiesta giornalistica, che richiede verifiche, analisi, contesto, racconto. E capacità di reggere l' assalto di un potere che non si limita a mentire o a non rispondere alle domande, come in passato, ma vuole delegittimare, isolare, infangare chi le fa. Un atteggiamento che dice molto degli obiettivi dei neo-governanti. «La tranquilla superficie della menzogna», come la chiamava Vaclav Havel, il dissidente cecoslovacco diventato presidente dopo il 1989: «Per sua natura la vita tende al pluralismo, alla varietà, a realizzare la propria libertà, il sistema invece esige monolitismo, uniformità, disciplina». Cancellare la possibilità di esistere di quello strumento parziale, fallibile, mite, ma molto determinato, chiamato giornalismo. Che non può terminare mai la sua ricerca, per tutti i cittadini, la tensione continua della democrazia.

Così abbiamo scoperto la trattativa fra Mosca e la Lega. L'inchiesta giornalistica iniziata un anno fa. L'appuntamento di Savoini al Metropol. Gli inviati dell'Espresso a pochi metri da lui. I riscontri, le conferme, l'audio. E ora, il fango mediatico degli squadristi di Salvini. Giovanni Tizian e Stefano Vergine il  5 agosto 2019 su L'Espresso. Dalle inchieste giornalistiche che abbiamo pubblicato nell'ultimo anno e in particolare da quella uscita sull'Espresso il 24 febbraio, dopo la “trattativa” all'hotel Metropol fra leghisti e russi, emergono tanti punti oscuri che Matteo Salvini, il capo del più importante partito di governo, non vuole chiarire. Durante la sua visita a Mosca nello scorso ottobre, abbiamo documentato la ricerca di soldi nella lunga discussione svelata dall'Espresso - su cui la procura di Milano ha avviato un'indagine - e riemersa nelle scorse settimane dopo la pubblicazione dell'audio sul sito di Buzzfeed. Le parole di chi stava al tavolo della trattativa, in particolare lo sherpa leghista Gianluca Savoini, hanno confermato ciò che era stato scritto. Una prova che rafforza la nostra inchiesta e quella della magistratura milanese. In queste settimane alcuni hanno però voluto guardare al dito e non alla luna, tralasciando il nocciolo vero dell’inchiesta, e cioè la ricerca dei finanziamenti all'estero da parte della Lega. Nel tentativo di trovare un diversivo, sono stati evocati scenari da guerra fredda, infilando i servizi segreti di vari paesi che avrebbero architettato la registrazione dell'audio all'hotel Metropol, e insinuando dubbi sul fatto che L'Espresso con i suoi giornalisti fosse davvero presente nella capitale russa in quei giorni, a pochi metri dai tavoli in cui sedevano Gianluca Savoini, mentre brigava per ottenere fondi in nome del suo partito. Per questo forniamo ai lettori alcune informazioni utili per capire meglio come sono andate le cose. Lo facciamo adesso, dopo che la procura di Milano ha disposto perquisizioni e accertamenti che hanno portato a svelare l'esistenza dell'inchiesta giudiziaria aperta dopo la pubblicazione della notizia del Metropol. Il nostro lavoro è iniziato un anno fa, quando da alcune fonti abbiamo saputo che Savoini si stava dando un gran da fare in Russia per una maxi compravendita petrolifera. Obiettivo finale: finanziare il partito del ministro dell'Interno. Ci siamo messi al lavoro, abbiamo girato diverse città e consultato diverse fonti. A ottobre siamo arrivati a Mosca e lo scorso febbraio, sull'Espresso e nelle pagine de "Il Libro Nero della Lega", abbiamo dato conto di quanto scoperto. Abbiamo sempre riportato fatti documentati.

Il clou della trattativa - iniziata nel luglio del 2018 - è avvenuto tra il 17 e il 18 ottobre a Mosca. Noi eravamo nella capitale russa in quei giorni. Eravamo lì perché le nostri fonti ci avevano informato che il 18 ottobre si sarebbe tenuta una riunione importante al Metropol. E che il giorno prima Salvini avrebbe incontrato riservatamente il suo omologo russo, Dmitry Kozak, vice premier con delega all'energia. Abbiamo chiesto già cinque mesi fa a Salvini spiegazioni su quell'incontro, avvenuto nello studio dell'avvocato Vladimir Pligin, ma il vice premier italiano non ci ha mai risposto. Siamo arrivati all'aeroporto di Mosca Sheremetyevo il 17 ottobre e siamo ripartiti per l'Italia il 19. Uno di noi ha peraltro viaggiato sul volo Roma-Mosca, operato da Alitalia, lo stesso in cui ha viaggiato il ministro Matteo Salvini. Non si possono dimenticare, infatti, alcuni particolari, come quando il leader leghista è salito a bordo e i passeggeri hanno fatto partire un un lungo applauso, come se fosse una rock star. Avevamo ottenuto per tempo i visti di ingresso in Russia, i nostri passaporti presentano i timbri di entrata e di uscita. Per due notti abbiamo dormito all'Hotel Metropol. In 48 ore abbiamo fotografato e filmato tutto quello che si poteva documentare, e diverse immagini le abbiamo pubblicate sulle pagine de L'Espresso e sul sito. Fotografare il gruppo di persone sedute al tavolo della hall del Metropol ci avrebbe esposto inutilmente al rischio già alto di essere notati da Savoini e dagli altri commensali. Per questo ci siamo tenuti sempre a distanza. Ci siamo limitati a controllare con i nostri occhi che quanto ipotizzato dalle fonti corrispondesse a verità: e cioè che Savoini era al tavolo con altre persone. La registrazione della loro trattativa, ottenuta da una fonte, ci ha permesso di ricostruire e di raccontare nei dettagli quella riunione durata circa un'ora e quindici minuti. Mentre la trattativa proseguiva abbiamo continuato a indagare cercando riscontri, tentando di capire chi fossero gli altri presenti il 18 ottobre a Metropol, arrivando infine identificarne uno con certezza (Ilia Yakunin). Per questo arriviamo a febbraio, cinque mesi prima della pubblicazione dell'audio da parte del sito americano Buzzfeed. L'Espresso ha scelto di pubblicare la notizia della trattativa con tutti i dialoghi riportati in un contesto di informazioni più ampio. Non è stato ritenuto necessario pubblicare anche l'audio, che abbiamo tenuto come prova a supporto di quanto scritto. Infatti nessuno ha smentito ciò che avevamo riportato della conversazione, perché quelli seduti al tavolo sapevano bene che ciò che era stato pubblicato erano le loro parole. In seguito al servizio giornalistico pubblicato a febbraio, uno di noi è stato convocato dalla procura di Milano e sentito dai pm come persona informata sui fatti. L'atto è stato secretato perché parte del fascicolo di indagine preliminare. Non ci sono stati dubbi nella scelta di avvalerci del segreto professionale per non svelare la fonte, come ogni giornalista sa che si deve fare per proteggere chi sceglie di collaborare. I magistrati hanno quindi firmato un ordine di esibizione del file audio e davanti a questo provvedimento giudiziario non era possibile esimersi. Sentito il parere dei legali è stato fornito l'audio ai magistrati. Nel "Libro Nero della Lega" abbiamo scritto che al tavolo erano sedute cinque persone, mentre negli articoli pubblicati da L'Espresso abbiamo riportato che erano in sei. Il numero corretto è sei. Nel libro non siamo riusciti a correggere in tempo l'errore perché era già andato in stampa. Infine, ci permettiamo di sottolineare un paradosso. Mentre a L'Espresso si chiede insistentemente di rivelare l'identità delle fonti, al ministro Salvini è concesso di continuare a tacere sul suo viaggio a Mosca, sul ruolo di Savoini all'hotel Metropol e sulla contropartita prevista a fronte dei 65 milioni di dollari promessi dai russi. A febbraio il Cremlino, attraverso il suo portavoce, aveva chiesto al nostro giornale di rivelare le fonti informative usate per l'inchiesta. Pensavamo fossero metodi putiniani, invece ora assistiamo alla stessa pressante richiesta anche in Italia, talvolta fatta da nostri stessi colleghi. Per noi, però, la tutela di chi contribuisce a svelare fatti di interesse pubblico viene prima di ogni altra cosa.

È STATO CONSEGNATO PURE ALLA RAI L'AUDIO PER INTRAPPOLARE SALVINI. Giacomo Amadori per “la Verità” il 5 agosto 2019. Per capire sino in fondo la portata del Russiagate bisognerebbe avere chiara la genesi dello scoop. Sono stati davvero due cronisti d' assalto a scoprire con le loro indagini e il loro fiuto investigativo i presunti tentativi di uomini vicini alla Lega di ricevere finanziamenti dalla Russia di Vladimir Putin? Oppure qualcuno, magari legato al Pd come abbiamo scritto ieri, ha preparato un bel pacchetto già confezionato sull' incontro dell' hotel Metropol con audio annesso e l' ha consegnato ai giornalisti? Oggi ci sentiamo di propendere per la seconda ipotesi. Anche perché c' è una notizia importante che sembra confermarlo. Diversi mesi fa, probabilmente nello stesso periodo in cui la gola profonda ha contattato i giornalisti dell' Espresso, qualcuno ha consegnato la stessa registrazione anche alla redazione di Report, il programma d' inchiesta della Rai. Insomma nei mesi scorsi una specie di venditore di tappeti avrebbe proposto a destra e a manca l' audio dell' incontro. Ma se i giornalisti del settimanale hanno infilato la storia in un piccolo capitolo del Libro nero della Lega, a Report si sono presi il tempo necessario per fare le opportune verifiche. Sigfrido Ranucci, conduttore e autore del programma, spiega: «L' audio noi lo avevamo da mesi, già dall' inverno scorso. Appena lo abbiamo ricevuto, grazie al collega Giorgio Mottola, ho detto di verificarne il contenuto, utilizzando le banche dati internazionali e gli archivi a cui abbiamo accesso. La nostra preoccupazione era di non trasmettere una cosa fine a sé stessa, come ha fatto sostanzialmente l' Espresso, ma di andare in profondità come facciamo sempre. Posso anticiparle che andremo in onda con questa cosa a ottobre in una delle prime puntate della nuova edizione». Ma chi ha consegnato il file a Report? È stato uno dei partecipanti italiani all' incontro del Metropol, in particolare il consulente finanziario d'area Pd Francesco Vannucci o l' avvocato massone Gianluca Meranda? «Posso dire che a noi non l' ha dato né Vannucci, né Meranda. Ma la fonte è di Mottola e non posso svelarla io». Il reporter con La Verità, evidentemente molto geloso della sua inchiesta, arriva a smentire il suo capo e sostiene di essere entrato in possesso del file molto più di recente: «Forse a maggio». Nei giorni scorsi Mottola ha incontrato Vannucci, che secondo le nostre fonti avrebbe consegnato all' Espresso la registrazione. Nell' incontro l' ex bancario ed ex funzionario dei dem non avrebbe rilasciato dichiarazioni significative, anche se ha accettato di rincontrare il giornalista tra qualche settimana. «Questi sono personaggi che per la televisione è importante anche solo far vedere», commenta Ranucci. Dalla redazione non si stupiscono per le incongruenze che stanno emergendo nell' inchiesta dell' Espresso: «Loro purtroppo sono molto approssimativi. L' abbiamo verificato su diversi lavori che abbiamo condiviso, non ultimi quelli del consorzio (internazionale dei giornalisti investigativi, ndr), ma anche nella storia della palazzina (quella acquistata dall' ex sottosegretario leghista Armando Siri grazie al finanziamento senza garanzie di una banca di San Marino, ndr): si attribuiscono meriti che non hanno». Stefano Vergine, uno degli autori dell' inchiesta in questione, a giugno ha consegnato ufficialmente il file ai magistrati e il 10 luglio la registrazione è finita sul sito americano Buzzfeed. A pubblicarla è stato l' italiano Alberto Nardelli, esperto più di analisi politiche e flussi elettorali che non di giornalismo investigativo. Vergine l' 11 luglio non ha nascosto la soddisfazione per il rilancio dell' inchiesta e ha scritto su Facebook: «Oggi (11 luglio, ndr) il New York Times cita Il Libro Nero della Lega ricordando che nel libro, pubblicato cinque mesi fa, svelammo per la prima volta la trattativa per finanziare la Lega con soldi russi di cui oggi si parla tanto. E niente, solo per dire che per me è un po' come aver fatto un' amichevole con l' Inter. Vabbè, non proprio così importante, ma quasi...». Vergine era rimasto deluso per la mancata pubblicazione dell' audio sul sito dell' Espresso e per l' attribuzione dello scoop a Buzzfeed: «Un po' mi è spiaciuto, alla fine per lo meno se ne parla», ha commentato con La Verità. Ma chi ha spinto affinché se ne parlasse? Lo stesso Vergine? Oppure è la persona che ha consegnato la registrazione all' Espresso o quella che l' ha proposta a Report? Nel Russiagate il settimanale debenedettiano si è limitati a fare da cassetta della posta. Sul giornale diretto da Marco Damilano e sul Libro nero della Lega sono stati riportati alcuni passaggi dell' audio della trattativa del Metropol, senza indicazione della fonte (fingendo anzi di aver captato personalmente le parole) e con l' aggiunta di pochissimi altri particolari utili a orientarsi: il nome di battesimo di Vannucci, il mestiere di Meranda e l' identità di uno dei russi. Davvero poco per un' inchiesta durata mesi. I giornalisti del settimanale non hanno scattato neanche una foto del summit del Metropol a cui avrebbero assistito dal vivo. «Io se un mio inviato fosse tornato senza immagini lo avrei mandato a quel Paese», chiosa Ranucci. «Il primo dubbio che ho avuto è stato: ma 'sti audio? Noi mandiamo le telecamere nascoste perché c' è l' audio-video, l' audio non sai mai ma dove possa venire». Per questo Ranucci aveva deciso di prendersi il tempo giusto per approfondire la notizia, anche perché gli articoli dell' Espresso sembravano caduti nel dimenticatoio. Poi, all' improvviso, l' audio è uscito su Buzzfeed: «È come se ci fosse stata una accelerazione improvvisa» ragiona Ranucci. «Il fatto che sia uscito sul sito americano ci ha sorpreso, pensavamo di lavorarci noi su questa storia. Qualcuno ha avuto fretta di far uscire la registrazione e di farla uscire alle proprie condizioni. Però non comprendo la tempistica. Avrei capito se l' avessero fatto uscire alla vigilia delle elezioni, ma dopo». Dopo la vittoria alle europee di Salvini, c'è stata un'escalation: prima la consegna alla Procura di Milano e poi la diffusione urbi et orbi su un sito evidentemente di bocca buona, l' americano Buzzfeed, già usato dal Giglio magico come cassa di risonanza per i propri dossier anti Lega e anti 5 stelle. Un circuito che ha potenziato i decibel della macchina del rumore, ma che non ha risolto i dubbi sulla reale consistenza dell' inchiesta. Ormai sono due settimane che proviamo a chiedere al direttore dell' Espresso Damilano di rispondere a poche e semplici domande (che riproponiamo in pagina) e lui svicola sempre. L' ultimo segnale di vita ce lo ha dato l' 1 agosto, quando alle 23.35 ha risposto così al nostro messaggio: «Ho visto ora, ero fuori. Buon lavoro!». Sei ore prima gli avevamo mandato le nostre domande. Ma lui ha preferito glissare, anche se si tratta di quesiti decisivi per comprendere la solidità dell' inchiesta del suo settimanale. Ci auguriamo che prima o poi Damilano, tra un' ospitata in tv e un' altra in radio, troverà il tempo per risponderci.

PERCHÉ “L'ESPRESSO” NON HA PUBBLICATO L’AUDIO-SCOOP DI MOSCOPOLI? Giacomo Amadori per “la Verità” il 6 agosto 2019. Dopo due settimane, sono arrivate le risposte dell' Espresso alle nostre domande sul controverso scoop dell' hotel Metropol. Il direttore Marco Damilano ha preferito insultarci definendoci «squadristi di Salvini», ma per fortuna i cronisti Giovanni Tizian e Stefano Vergine hanno deciso di dare la loro versione dei fatti. Alla fine, però, la ricostruzione dell' affaire resta piena di ombre. I due autori dell'inchiesta sui presunti rubli alla Lega sostengono di aver assistito personalmente all' incontro all' hotel moscovita tra l'ex portavoce di Salvini, Gianluca Savoini, l' avvocato massone Gianluca Meranda, il consulente finanziario d' area Pd Francesco Vannucci e tre russi per discutere di petrolio e finanziamenti alla Lega. Il 17 ottobre Tizian avrebbe viaggiato alla volta di Mosca sullo stesso volo Alitalia preso da Salvini. Con il collega sarebbe entrato in Russia con un visto turistico e avrebbe dormito al Metropol («Abbiamo i voucher dell' hotel» hanno detto). In albergo, visto che sono stati immortalati nella sala colazioni, probabilmente soggiornavano anche Vannucci e Savoini. I cronisti erano lì per quello? Sapevano dove andare a dormire su indicazione della loro gola profonda? Di certo un summit nella hall non può essere pianificato nel tempo. Un pernottamento sì. Dunque Tizian e Vergine, seppure non siano riusciti a immortalare l' incontro, sapevano dove trovare Savoini, Vannucci e Meranda. «In 48 ore abbiamo fotografato e filmato tutto quello che si poteva documentare, e diverse immagini le abbiamo pubblicate sulle pagine dell 'Espresso e sul sito» hanno scritto i cronisti. In realtà hanno messo sul giornale solo due foto di Savoini nella sala colazioni del Metropol, ma nessuna del summit. Tizian e Vergine hanno spiegato il perché: «Fotografare il gruppo di persone sedute al tavolo della hall del Metropol ci avrebbe esposto inutilmente al rischio già alto di essere notati da Savoini e dagli altri commensali. Per questo ci siamo tenuti sempre a distanza. Ci siamo limitati a controllare con i nostri occhi che quanto ipotizzato dalle fonti corrispondesse a verità: e cioè che Savoini era al tavolo con altre persone». Poi hanno aggiunto: «La registrazione della trattativa, ottenuta da una fonte, ci ha permesso di ricostruire e di raccontare nei dettagli quella riunione durata circa un' ora e quindici minuti». Quindi Tizian e Vergine non hanno ascoltato in diretta la trattativa come hanno lasciato intendere per mesi, ma erano lì a supervisionare che si verificasse quanto rivelato da una fonte, la stessa che probabilmente ha registrato l' incontro e che li avrebbe informati dei movimenti di Savoini: «Noi eravamo nella capitale russa in quei giorni. Eravamo lì perché le nostri fonti ci avevano informato che il 18 ottobre si sarebbe tenuta una riunione importante al Metropol». Quindi nell' entourage di Savoini c'era qualcuno che da mesi (almeno giugno-luglio sostengono i cronisti) stava facendo il doppio gioco: da una parte accompagnava Savoini e dall' altra trescava con l'Espresso. Ma i giornalisti, come è legittimo che sia, hanno deciso di non svelare la fonte e di «proteggere chi sceglie di collaborare». Chi è il testimone del settimanale? E perché si è prestato? Ha deciso di consegnare l' audio ai giornalisti prima o dopo l' incontro? A voler credere ai cronisti, prima. E la cosa sarebbe più grave, visto che significherebbe che qualcuno era al tavolo come una sorta di agente provocatore: Meranda, l' avvocato massone, è stato quello che più di altri ha discusso gli aspetti tecnici del presunto finanziamento, discettando di plusvalenze e mazzette da dare e ricevere mentre il piddino Vannucci è stato il più taciturno di tutti. Sia come sia, i due paiono il gatto e la volpe e ora sono difesi dallo stesso avvocato. Ma se la fonte era seduta al tavolo della trattativa ed era d' accordo con i reporter perché questi ultimi hanno pubblicato le notizie a rate, mettendo in pagina inizialmente solo pochi stralci della conversazione? Non potevano chiedere alla gola profonda di dar loro un quadro completo del summit e di sganciare le carte in suo possesso? Ci sono due possibilità: o la fonte ha preferito centellinare le informazioni, magari nel corso di una lunga negoziazione, oppure l' audio potrebbe essere arrivato all' Espresso attraverso canali diversi da quelli finora ipotizzati. Ancora a luglio Tizian parlava delle «registrazioni di Buzzfeed» e aggiungeva: «Chi ha registrato l'audio ovviamente non saprei proprio indicare». Eppure, qualche giorno prima, il 20 giugno il suo collega Vergine aveva consegnato il file alla Procura di Milano. Perché questa cortina fumogena intorno alla registrazione e perché il settimanale ha deciso di lasciare che a metterla in Rete fosse Buzzfeed? «Non è stato ritenuto necessario pubblicare anche l' audio, che abbiamo tenuto come prova a supporto di quanto scritto» hanno spiegato Tizian e Vergine. Damilano ha aggiunto: «Lo abbiamo usato per confermare gli elementi che ci servivano, considerandolo uno strumento importante che non esaurisce un' inchiesta molto più vasta e complessa». Una versione che il sito Dagospia ha bollato come un' arrampicata sugli specchi. Infatti di approfondimenti nel Libro nero della Lega non ce ne sono molti. Nessuno dei documenti allegati al volume si riferisce alla trattativa del Metropol e solo a luglio l' Espresso ha pubblicato un paio di lettere riconducibili agli accordi presi nell' occasione. Insomma a febbraio la trascrizione dell' audio era l' unica notizia del capitolo intitolato «Tre milioni da Vladimir». Savoini nella sbobinatura parla soprattutto di politica e fa due o tre brevi cenni al denaro. «Prendono anche 400 o il cazzo che hanno bisogno di prendere. Non importa. È una garanzia» esclama a proposito dei soldi da restituire ai russi. Questa frase è stata riportata nel libro insieme ad altre sei: due di Savoini e quattro di Meranda, di cui una parafrasata, per un totale del 5% dell' intera trascrizione. Davvero uno spreco. Non è che, come ci ha riferito una fonte, l' autore della registrazione, o chi per lui, ha fatto ascoltare l' audio ai giornalisti, ma non glielo ha consegnato, almeno inizialmente? C' è stata una contrattazione? Nel fior da fiore del libro vi è una clamorosa discrepanza rispetto alla traduzione di Buzzfeed. Il settimanale italiano ipotizza che la frase «250.000 plus 250.000 per month per one year» significhi 250.000 dollari al mese da versare alla Lega per un anno (in totale 3 milioni di euro). Mentre per il sito americano «250.000» andrebbe riferito alle tonnellate di gasolio. Quindi - al tasso di sconto pattuito del 4 per cento - farebbe 5,5 milioni di dollari al mese per un totale di 65 milioni di dollari in un anno. Una bella differenza. Chi ha ragione? Nelle cinque scarne pagine del capitolo sul Metropol c'era anche un altro clamoroso sbaglio scoperto dalla Verità: «Nel Libro Nero della Lega abbiamo scritto che al tavolo erano sedute cinque persone, mentre negli articoli pubblicati dall' Espresso abbiamo riportato che erano in sei. Il numero corretto è sei. Nel libro non siamo riusciti a correggere in tempo l' errore perché era già andato in stampa» hanno ammesso i due cronisti. Dunque due inviati d'esperienza gravitano per 48 ore intorno a Savoini e non solo non lo fotografano mentre partecipa a un incontro con altre cinque persone in una hall piena di gente, ma nel libro, in cui elencano i presenti, ne dimenticano uno. C' è un' ultima questione da chiarire: articoli dell' Espresso e libro risalgono a febbraio, ma la Procura di Milano ha verbalizzato Vergine solo il 19 giugno e si è fatta consegnare il file audio il giorno successivo. Perché i pm si sono mossi concretamente quattro mesi dopo l' uscita della notizia? Hanno voluto far passare le europee? Oppure il caos Csm, con lo spostamento a sinistra del parlamentino dei giudici, ha creato uno scenario più favorevole per un' inchiesta tanto delicata? O ancora, un uccellino ha fatto sapere ai magistrati che circolava quella registrazione e che era il caso di sequestrarla? In tutta questa storia ci sono ancora troppi punti oscuri.

CHI HA FREGATO SAVOINI? Cristiana Mangani per “il Messaggero” il 2 agosto 2019. Sarebbe stato uno dei tre italiani presenti alla trattativa dello scorso 18 ottobre all'hotel Metropol a registrare l'audio al centro delle indagini della Procura di Milano sui presunti fondi russi alla Lega. Nel fascicolo sono indagati per corruzione internazionale Gianluca Savoini, il presidente leghista dell'Associazione Lombardia-Russia, l'avvocato Gianluca Meranda e l'ex consulente bancario Francesco Vannucci. La ricostruzione sulla registrazione e la diffusione dell'audio, al momento, è solo un'ipotesi di lavoro, sulla quale stanno lavorando i pm Sergio Spadaro e Gaetano Ruta, che ieri hanno depositato alcuni atti dell'inchiesta - quanto necessario per dare un quadro generale di una indagine andata avanti per cinque mesi sotto traccia - in vista dell'udienza davanti al Tribunale del riesame, prevista per il 5 settembre, per discutere del ricorso presentato degli indagati contro i sequestri avvenuti un paio di settimane fa. Qualora fosse vero che la conversazione su una fornitura di petrolio, che prevedeva una tangente per i burocrati di Mosca e fondi in nero per circa 65 milioni alla Lega, sia stata registrata da un italiano presente all'incontro - essendo la fonte segreta non si può escludere che la diffusione sia avvenuta per mano di un russo - il campo si restringe. Tra gli atti messi a disposizione dei legali, ci sono le trascrizioni della registrazione su quell'affare legato alla compravendita di petrolio, ma anche una relazione sulle modalità con cui è stato acquisito quel file audio di cui i tecnici hanno verificato l'autenticità e l'assenza di manomissioni. Da quanto emerge dall'informativa, è stato convocato al quarto piano del Palazzo di Giustizia uno dei due giornalisti che per primi hanno scritto della vicenda e lo scorso 18 ottobre si trovavano nel grande albergo moscovita ma, come loro stessi hanno raccontato, a debita distanza dal meeting. Dall'analisi di quella conversazione, oltre all'ipotesi che a fare la registrazione con un cellulare possa essere stato uno dei partecipanti italiani alla trattativa, i pm sono certi che ci siano state altre riunioni precedenti. Inoltre hanno anche qualche indicazione su chi possano essere i tre russi, Andrey, Yuri e Jlia, presenti quella mattina nella hall dell'hotel. Se Jlia ritengono sia Jakunin, manager vicino a Vladimir Pligin, esponente di rilievo del partito di Putin Russia Unita, uno degli altri due è quasi certamente un funzionario pubblico. In attesa che parta la rogatoria per la Russia, gli investigatori della Gdf stanno analizzando il materiale sequestrato durante le perquisizioni. Vogliono fare luce anche su un'altra cena che si sarebbe invece tenuta la sera prima, sempre a Mosca, alla quale avrebbero partecipato, tra gli altri, il vicepremier Matteo Salvini, lo stesso Savoini, il presidente di Confindustria Russia e manager Eni Ernesto Ferlenghi e Luca Picasso, direttore di Confindustria Russia, oltre a Claudio D'Amico, consigliere per le attività strategiche di rilievo internazionale del leader della Lega. Ieri Salvini ha ironizzato su ulteriori fondi: «Non ho ancora finito di nascondere i rubli, dopo mi occupo del Marocco, buona caccia».

Russiagate, Gianluca Savoini fregato dal suo amico: tutta la verità sulla registrazione. Alessandro Gonzato su Libero Quotidiano il 3 Agosto 2019. Altro che Cia, servizi segreti e agenti internazionali sotto copertura. Gianluca Savoini, secondo quanto trapela dalla procura di Milano, sarebbe stato incastrato molto più banalmente da uno dei partecipanti italiani alla trattativa, o presunta tale, sui fondi russi. Detta in altri termini, l' ex portavoce di Salvini e presidente dell' associazione "Lombardia-Russia" sarebbe stato venduto alla stampa dai suoi stessi amici.

SEGRETO PROFESSIONALE. Per gli inquirenti, dunque, la cerchia di chi ha registrato con lo smartphone la conversazione dello scorso 18 ottobre all' hotel Metropol di Mosca per poi consegnarla ai cronisti dell' Espresso si restringe all' avvocato cosentino Gianluca Meranda, 49 anni, il quale ha ammesso di aver partecipato all' incontro in veste di consulente per conto di una banca d' affari anglo-tedesca - pur avendo subito precisato che l' operazione da un miliardo e mezzo di dollari non si è mai conclusa - e il consulente 62 enne livornese Francesco Vannucci, collaboratore di Meranda, ex vice coordinatore della Margherita, poi nel direttivo locale del Pd fino al 2010, quando si è ritirato ufficialmente dalla politica. Il file audio è stato acquisito dalla procura a febbraio, poco dopo l' avvio dell' indagine per corruzione internazionale che vede indagati Savoini, Meranda e Vannucci partita dagli articoli dei due cronisti dell' Espresso, i quali finora hanno fatto valere il segreto professionale per non rivelare chi gli abbia dato la registrazione. Il primo dei giornalisti a essersi occupato del caso, a quanto si apprende, non avrebbe consegnato spontaneamente l' audio agli inquirenti, i quali avrebbero dovuto emanare una "richiesta di consegna" formale. La procura ha quindi valutato la veridicità del file. Gli investigatori lo ritengono autentico: «Con i tecnici è stata verificata la genuinità e l' assenza di manomissione» hanno fatto sapere ieri. Nelle scorse ore, su richiesta degli avvocati dei tre indagati, i pm hanno depositato gli atti dell' inchiesta (compresa la trascrizione del colloquio durato un' ora e un quarto al Metropol) al Tribunale del Riesame. I legali in questo modo sperano di riottenere gli smartphone e gli altri supporti informatici sequestrati ai loro assistiti: l' udienza è stata fissata il 5 settembre. Secondo i pm è possibile che l' incontro nella capitale russa non fosse il primo: stando alla ricostruzione della conversazione sembra che Meranda sul finale faccia notare che gli accordi presi sono lontani da quelli delineati in precedenza, ed è anche per questo che a Milano stanno lavorando per presentare a Mosca una rogatoria finalizzata a indagare su eventuali episodi del passato.

IL RUSSO MISTERIOSO. Gli investigatori nel frattempo sono vicini all' identificazione dei tre interlocutori russi: uno di questi, detto Jlia. potrebbe essere un funzionario pubblico, tale Jakunin, manager vicino a Vladimir Pligin, esponente di rilievo del partito di Putin "Russia Unita", ma non è stato ancora escluso del tutto che si tratti di un millantatore. Intanto prosegue lo scontro politico. Alla Camera, sul "Russiagate", è stata di nuovo bagarre tra Pd e Lega. Il vicepremier Matteo Salvini, attaccato a distanza anche dal grillino Di Battista, rispondendo ai cronisti a Milano Marittima ha ironizzato sui fondi (anche questi presunti) che Savoini secondo certe ricostruzioni di stampa avrebbe ricevuto pure dal Marocco: «Non ho ancora finito i nascondere i rubli, poi mi occupo di altre cose. Andate in Marocco, in Tunisia o negli Usa, buona caccia: io non ho una risposta sulle non notizie. Sono mesi che leggo con enorme divertimento le notizie che state pubblicando: Repubblica è un giornale che ormai mi diverte un sacco». Alessandro Gonzato

Russiagate: chi è l'uomo che ha incastrato Salvini. Ecco chi è Gianluca Meranda, l'avvocato al centro dell'inchiesta sui presunti fondi alla Lega. Giacomo Amadori e Simone Di Meo il 30 luglio 2019 su Panorama. Ci sono altre sliding doors nella vita dell’avvocato-massone Gianluca Meranda, indagato per corruzione internazionale a Milano per il Russiagate leghista. E non sono le porte scorrevoli dell’hotel Metropol, ma quelle di un albergo molto meno famoso. È un tre stelle di Roma e si chiama Piccadilly. Lo snodo, finora segreto, di una vita altrettanto misteriosa che nessuno davvero conosce. Forse neppure la moglie. Ma partiamo dalla sala centrale del Metropol di Mosca, quasi una tappa obbligata per chi vuole respirare l’aria della storia. Oggi i turisti in quelle stanze possono sorseggiare il borsch, ma un tempo qui uomini senza pietà combattevano la Guerra fredda offrendo agli sfortunati ospiti ben altri menù. Da quelle sale sono passati personaggi come Tolstoj, Lenin, Kennedy e Gorbaciov. La mattina del 18 ottobre del 2018 nel salone centrale, quello delle colazioni, c’erano un gruppo di russi e uno di italiani che parlavano fitto. Tra questi l’ex portavoce di Matteo Salvini, Gianluca Savoini. Ma come spesso succede al Metropol non erano soli. Il vicepresidente di Confindustria Russia, Fabrizio Candoni, è molto chiaro al riguardo: «Al Metropol non si porta nemmeno l’amante, a meno che non ci si voglia fare una recita. Là sei sempre in mondovisione». Le microspie sono numerose almeno quanto i croissant. Ma un uomo adatto a quella recita forse c’era. Gianluca Meranda è un Maestro venerabile della massoneria. E grazie al grembiulino è entrato in contatto con il mondo slavo nelle sue declinazioni più inquietanti. La sua storia apre piste libiche, ma anche balcaniche. Collega islamismo e religione ortodossa, massoneria e ateismo. Ma soprattutto è un rabdomante del petrolio. Dove c’è l’oro nero, spunta lui. In Libia, Algeria, Russia. Classe 1970, cosentino, è un tipo che colpisce anche per il look non banale. Un gran frequentatore di cene romane, di circoli sul Tevere, di personaggi di tutto il mondo che blandisce con i suoi modi eleganti e le sue chiacchiere fluenti. Anche perché Meranda è poliglotta, inglese, francese, russo, persino un po’ di svedese. Un avvocato «internazionalista» con studio al fianco del palazzo della Marina militare, la costola italiana del noto Sq law di Bruxelles. Per tutti i suoi clienti erano certificati, ambasciate, grandi compagnie aeree. Insomma una carriera brillante con i figli che studiavano in un elegante collegio del quartiere Flaminio. Una storia di successo. Che procedeva parallela e forse si sovrapponeva a quella di Maestro venerabile della massoneria. Anche se, come vedremo, di quale massoneria non è chiaro. Ma quando i finanzieri sono andati a bussare alla sua porta, nell’appartamento non certo lussuoso di via Acherusio, hanno trovato l’altro Meranda, quello che l’1 giugno è stato sfrattato dallo studio e che, per problemi economici, teneva gli scatoloni con le sue carte presso un’autorimessa perché non era riuscito nemmeno a pagare la ditta di traslochi che aveva svuotato le stanze del Lungotevere. È lo stesso che era diventato socio del cognato Giovanni in una impresa edile miseramente fallita. Anche la casa in cui sono entrati i militari delle Fiamme gialle non rispecchia l’immagine che Meranda ha sempre cercato di dare all’esterno di sé. Si tratta di una banale truffatore o è finito in giri che lo hanno condotto in disgrazia? Per ora con i magistrati di Milano che lo hanno indagato, insieme con Savoini e il consulente bancario Francesco Vannucci, tace. Nei giorni scorsi La Verità ha raccontato che sino almeno a inizio anno si è speso per portare in porto l’accordo per il petrolio scontato dei russi, quello su cui, a parole, immaginava di fare una plusvalenza del 4 per cento a favore della Lega. O forse di sé stesso. Per condurre quelle trattative e dialogare con le più grandi compagnie petrolifere russe, da Rosneft a Gazprom, utilizzava la carta intestata di una banca anglo-tedesca che però ha dichiarato che quello non era il suo ruolo e che Meranda agiva in autonomia. Le indagini stabiliranno chi abbia ragione. A noi interessa invece provare a lumeggiare il lato oscuro di Meranda. E che è, in parte, raccontato nelle carte segretate che il Gran Maestro Massimo Criscuoli Tortora ha depositato presso la commissione Antimafia nel 2017, quando venne convocato dal presidente Rosy Bindi per parlare di mafia e massoneria. Infatti la Bindi e i suoi commissari erano convinti che la primula rossa della Piovra, Matteo Messina Denaro, fosse coperto da una loggia deviata trapanese. Criscuoli Tortora, come si può ancora ascoltare nelle registrazioni della sua audizione su Radio radicale, accettò questa singolare intromissione della politica nella Fratellanza da uomo di mondo. «Abbiamo qualche problema a consegnarvi gli elenchi dei nostri iscritti per via della privacy ma se mi arriva una richiesta ufficiale, se lei me lo ordina, io vi do la chiave della cassaforte e vado al bar» rispose alla Bindi il 24 gennaio 2017. Aggiungendo che «indubbiamente la criminalità ha tutto l’interesse a infiltrarsi nella massoneria e ovunque vi siano lustro e potere». Alla fine, gli elenchi degli iscritti furono sequestrati dalla Finanza in casa del Gran Segretario. Criscuoli Tortora è un Gran maestro di lunga esperienza. Di famiglia nobile amalfitana (in casa parlavano francese), fisico imponente da ex giocatore di rugby qual è, laurea in economia, è un personaggio che ha navigato il mondo della massoneria in ogni suo lido, incrociando anche personaggi come Licio Gelli e Flavio Carboni. Ma come dice lui, che ha anche fondato l’agenzia di stampa dei massoni, Acacia news, se uno si vuole sporcare lo può fare anche al di fuori della massoneria. Criscuoli Tortora è entrato in massoneria attraverso l’obbedienza della Gran loggia generale d’Italia di Fausto Bruni. Poi per un anno ha condiviso l’avventura di Giuliano Di Bernardo, e ha fatto l’ingresso, una ventina di anni fa, nella storica Serenissima Gran Loggia, nata a Roma il 25 gennaio 1951. Un’obbedienza che è tra i membri fondatori della Confederazione Internazionale delle Grandi Logge Unite. Criscuoli Tortora è diventato Gran maestro della Serenissima nel 2003 ed è stato vicepresidente mondiale per quasi un lustro fino al 2018. «La massoneria è un percorso iniziatico, ma se io vendo banane e dentro la loggia incontro chi le compra è normale che l’affare lo faccia, nella massima trasparenza, con un mio fratello. Funziona così anche al Rotary» spiega ai suoi adepti. Insomma non è un moralista, ma su Meranda ebbe da dire in tempi non sospetti. È lui che per primo, il 21 ottobre 2015, ha messo sotto i riflettori l’avvocato del Russia-gate, il massone elegante e poliglotta, di cui era stato anche vicino di scrivania quando aveva occupato una stanza nel grande ufficio di Lungotevere per sbrigare gli affari della sua piccola casa editrice. Il Gran maestro ha firmato il decreto magistrale 183, un provvedimento di espulsione immediata a cui l’avvocato calabrese non si è opposto. L’intestazione era solenne: «Noi Massimo Criscuoli Tortora XIV Gran maestro per i poteri e le prerogative a noi conferiti dalla costituzione e dal regolamento dell’ordine…». Seguivano, come in un decreto presidenziale gli articoli del regolamento dell’ordine violati da Meranda le sue «colpe gravi» e «gravissime». Meranda veniva espulso «per aver attentato all’armonia e all’integrità della comunione massonica italiana Serenissima gran loggia d’Italia e in particolare per la ribellione contro il Gran maestro e le autorità massoniche e la violazione dei principi fondamentali della massoneria comunque posta in essere». Per il Gran maestro, evidentemente, il disegno dell’avvocato cosentino era chiaro: conquistare la Serenissima per poter sfruttare la struttura mondiale a cui era collegata. In fondo Meranda è sempre stato un uomo di relazioni e in tanti lo ricordano scambiare biglietti da visita in giro per il mondo durante gli incontri tra delegazioni. «La massoneria è una rete di conoscenze e una rete di rispetto» commentano alla Serenissima. Come abbiamo detto, nel suo lavoro, Meranda aveva rapporti con importanti ambasciate: quelle russa, iraniana e indonesiana. E, per esempio, le relazioni con Giacarta, a quanto risulta, sarebbero stati facilitati dalla conoscenza di un noto avvocato massone originario dell’isola asiatica. L’attivismo di Meranda non destò sospetto in gran parte dei fratelli e molti non apprezzarono la sua espulsione. Anche nei consessi internazionali arrivò al Gran maestro più di qualche segnale di fastidio per quella decisione. E, in Italia, alcune piccole logge hanno continuato a invitare Meranda come ospite d’onore, con tanto di posto a oriente dentro al Tempio. Ma le vicende attuali sembrano dare ragione a Criscuoli Tortora che, all’epoca, inserì alcuni interessantissimi passaggi su Meranda nel dossier segretato che consegnò all’Antimafia a proposito di «situazioni da monitorare». Atti parlamentari che Panorama ha potuto visionare e che potrebbero aprire interessanti scenari anche per gli inquirenti milanesi che stanno portando avanti l’inchiesta sul presunto oro nero di Mosca. Ma andiamo nel dettaglio. Meranda è entrato in massoneria attraverso la Gran Loggia di via Tosti e oggi farebbe parte della loggia Salvador Allende del Grande Oriente di Francia, l’obbedienza atea, quella che ha abolito la storica figura del Grande architetto e il volume della legge sacra. Ma tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014 si presenta alla Serenissima gran loggia con un piano che secondo Criscuoli Tortora era chiarissimo: destituirlo. Meranda fa entrare con sé una quindicina di fratelli di altre obbedienze come se volesse lanciare un’opa sulla Serenissima. Ottiene di rifondare una loggia, la De dignitate hominis, e di divenirne il maestro venerabile. Il tempio si trovava a Roma in via Terni 62. Meranda in quella nuova avventura porta con sé un generale dell’esercito in pensione, D. P., che aveva operato per quasi tutta la carriera nel Sismi, i servizi segreti esteri, un noto costruttore calabrese, un mediatore italiano di petrolio in Algeria. Dopo l’espulsione di Meranda, anche i suoi uomini si dimisero in blocco e dopo qualche tempo alla Serenissima seppero che in una «dimora» nel quartiere Appio-Latino, a Roma, si era tenuto il battesimo della Protective, una loggia riservata serba che aveva filiali anche in Ungheria e Romania. Ma che soprattutto era un viatico con la massoneria russa e i suoi gran maestri. I nuovi fratelli avevano alloggiato e preparato la cerimonia d’iniziazione nell’hotel Piccadilly della catena Best Western di via Magna Grecia. Una struttura non certo monumentale come il Metropol, e di sicuro tutt’altro che compromettente, scelta forse perché richiamava alla memoria la statua londinese dell’ammiraglio Horatio Nelson, Gran maestro della massoneria inglese, che si trova a Piccadilly Circus. Un episodio che Criscuoli Tortora, come risulta a Panorama, ha denunciato nel suo dossier, inserendo, come si legge nelle carte, anche nomi pesantissimi della vecchia nomenclatura serba. Come D. D., ex berretto rosso di Milosevic. Il dossier del Gran maestro elenca, inoltre, un bulgaro S. B., un austriaco W. G., un filippino R. S. E., e un altro ex jugoslavo P. P. che ne formavano un «cerchio magico» borderline. Il suo braccio destro era, però, un italiano convertitosi all’Islam. Si chiama Gianluigi Biagioni Gazzoli, detto Khaled, e ha una storia davvero interessante. Originario di Misurata (Libia), ha sempre avuto stretti rapporti con il paese d’origine e con le associazioni filogovernative anche ai tempi del colonnello Muhammar Gheddafi. Insegnante di arabo, segretario generale della Unione islamica d’Occidente, la più antica d’Italia, è stato anche candidato alla Camera, nel 2006, per l’Udeur di Clemente Mastella. Esistono anche su Facebook prove fotografiche dei viaggi all’estero di Khaled e Meranda, per esempio di uno Belgrado, fatto su invito dell’obbedienza serba, la locale Gran loggia. I grembiulini slavi avrebbero quindi messo le radici a Roma e i loro emissari sarebbero gli uomini di Meranda. Ma nei documenti della commissione Antimafia depositati da Criscuoli Tortora si trovano anche altre presunte informazioni su Meranda che potrebbero essere rivelatrici di una vita che alterna le ambizioni per i grandi affari e le miserie delle piccole transazioni. Della sua compagnia di giro fa parte la guardia del corpo, un muscoloso e rissaiolo frequentatore di palestre e di tribunali fallimentari. Con Khaled, Meranda, secondo il dossier, sarebbe stato due volte a Tirana (città da cui proviene il suo difensore, Ersi Bozheku) per incontrare esponenti locali del mondo arabo e organizzare un master che consentisse l’iscrizione all’albo degli imam in Italia, finanziato e promosso dall’Università di Cosenza, in cui l’uomo mantiene rapporti strettissimi con la famiglia di origine. In Calabria - secondo le informazioni in mano al Gran maestro - sembra che Meranda curasse rapporti riservati di alcuni parlamentari calabresi. L’avvocato, all’epoca, sarebbe stato impegnato pure ad aiutare un importante uomo politico africano, in quel momento in esilio a Londra, a rientrare in patria per partecipare alle elezioni presidenziali. Meranda sarebbe stato inoltre denunciato, con tanto di segnalazione all’Ordine degli avvocati di Roma, da un ingegnere per un contenzioso con una società internazionale di assicurazioni. Per lui, la politica è sempre stata la porta d’accesso più facile e veloce per entrare in certi meccanismi. Prima che con quella estera, Meranda ci avrebbe tentato anche con quella italiana. «Provò a entrare in contatto anche con un importante uomo politico di Roma che per dieci anni è stato protagonista delle stagioni del berlusconismo e del renzismo», ci rivela una fonte, «senza però riuscirci». Poi conobbe Savoini. E con lui varcò la porta del Metropol. Le sliding doors che hanno cambiato la sua vita e rischiano di cambiare anche la storia dell’Italia di oggi.

E il quotidiano la Stampa attacca Salvini: "Lui non dà il buon esempio, ma moderate il linguaggio". Il quotidiano La Stampa scrive un commento contro il ministro Salvini. Il vicepremier leghista lo vede e lo mostra in rete. Giovanna Stella, Venerdì 19/07/2019, su Il Giornale.  Sono giorni davvero particolari questi. Il governo è appeso un filo, anche se oggi entrmabe le parti si sono aperte l'una all'altra. Diciamo che hanno cercato di venirsi incontro anche se sul tema delle autonomie non vanno troppo d'accordo. Ma proprio mentre si cercano di spegnere alcuni fuochi, la notizia del rientro in Germania di Carola Rackete riaccende i riflettori sull'eroina della sinistra. Il motivo? La sua manovra spericolata nel porto di Lampedusa non è paciuta ai più, le medaglie di Francia e Catalogna nemmeno e ora pure un commento dell'autorevole quotidiano La Stampa agita ( di nuovo) le acque. Non si sa di quando sia questo commento, fatto sta che Matteo Salvini lo ha "screenshottato" e postato sui suoi profili social. Ma vediamo bene cosa è successo. Nello screenshot pubblicato dal vicepremier leghista, si vede un video pubblicato La Stampa. Nel video in questione Salvini replica a Carola Rackete. Fin qui nulla di strano se non fosse per un commento del quotidiano: "Gentili lettori, capiamo bene che il ministro Salvini è il primo a non dare il buon esempio, ma vi preghiamo di moderare il linguaggio. Grazie". Commento circondato di rosso dal leader del Carroccio. Commento che ha lasciato un po' perplessi gli utenti e lo stesso Salvini: "Accidenti".

Giovanna Casadio per “la Repubblica” il 20 luglio 2019. «Non mi faccio intimidire dagli attacchi sessisti sui social o dalle spacconate di Salvini. Figurarsi se mollo per questi fenomeni da tastiera». Maria Elena Boschi è al mare per qualche ora, a smaltire le offese e soprattutto, dice, la preoccupazione. L'ex ministra delle Riforme del governo Renzi è abituata a finire nel mirino. Pesanti gli attacchi per Banca Etruria. Ma mai si era ritrovata nella gogna degli insulti sessisti esposti sulla pagina social del ministro dell' Interno e accompagnati da faccine sorridenti postate da Matteo Salvini stesso. Qualche giorno fa ha proposto al Pd di sfiduciare il capo del Viminale dopo lo scoppio del caso Moscopoli. Da quella richiesta è partita la guerra social. E Boschi si sfoga: «Sono preoccupata. Non per me, ma per il clima di odio che si sta diffondendo. Soprattutto sono preoccupata se una donna non può esprimere la propria opinione senza essere aggredita a livello personale in quanto donna». Cosa si aspettava, l' ex ministra dem? «Trovo grave che il ministro dell' Interno anziché condannare questi comportamenti vergognosi li fomenti. Dovrebbe tutelare la mia sicurezza e quella di ogni donna, non mettere le faccine che ridono ai commenti contro di me». Gli insulti sono grevi. Del tipo: "Torna a fare la cubista". Una valanga di volgarità di cui Boschi fa lo screenshot e allega in un suo post su Facebook. Sono offese che commentano il post di Salvini e, prima ancora, la pagina del quotidiano Libero sulla mozione di sfiducia. «E questi hanno ancora il coraggio di parlare?», è la prima mossa del ministro. Si scatena l' odio sessista dei followers del ministro. Replica Boschi sempre via social: «Caro Salvini, ho ancora il coraggio di parlare. Con noi l' Italia cresceva, c' erano più diritti e meno odio: noi abbiamo portato risultati, non rubli. Soprattutto ho ancora la libertà di parlare: come ministro dell' Interno viene pagato per garantirmela, non per attaccarmi. Bacioni». A questo punto l' odio social cresce, Salvini commenta con tre emoticon: faccine che si sbellicano dalle risate. Il segretario dem, Nicola Zingaretti denuncia: «Da diversi giorni si sta muovendo una galassia di profili social, tutti dell' orbita di Salvini, che passano il proprio tempo ad agitare la gogna contro esponenti del Pd. Ora è il turno di Maria Elena Boschi a cui va la solidarietà del partito». Il Pd si mobilita, si indigna. Ma anche Forza Italia protesta e solidarizza. Mara Carfagna avverte: «È inutile approvare il Codice rosso se si tollerano violenza e misoginia». Solidarietà da Maria Stella Gelmini. «Contro Boschi metodi squadristi », per il dem Francesco Verducci. «Disgustoso», afferma Luigi Zanda, il tesoriere e il capogruppo Delrio: «Il Pd non si fa intimorire». Boschi spera nella solidarietà dei «leghisti perbene, che tristezza non riceverla». Tra Salvini e Boschi in passato rapporti improntati al fair play, tanto che alcuni mesi fa in una cena sulla giustizia organizzata dall' associazione "Fino a prova contraria", tra i due ci fu un affettuoso saluto. La Bestia, la macchina social salviniana, questa volta ha perso ogni freno.

La Boschi contro Salvini: "Scatena odio su di me". Gli utenti insultano la Boschi. Lei: "Colpa di Salvini che scatena l'odio dei suoi contro di me". Chiara Sarra, Sabato 20/07/2019, su Il Giornale. Gli utenti la insultano con commenti beceri? La colpa è di Matteo Salvini. Dopo La Stampa che ha preso il ministro da (cattivo) esempio per redarguire i propri lettori, pure Maria Elena Boschi se la prende con il vicepremier leghista. Lo scontro a distanza era iniziato già ieri, quando il titolare del Viminale ha criticato sui social la decisione della dem di presentare una mozione di sfiducia nei suoi confronti. "Ancora parlate?", aveva scritto. Lei aveva replicato mandandogli i "bacioni" che lo stesso Salvini dispensa ai suoi avversari. Ma oggi la Boschi lamenta che quello scontro abbia scatenato gli insulti contro di lei: "Lo schema è sempre quello", dice su Facebook, "Appena dico qualcosa che lo fa arrabbiare, Salvini scatena l'odio dei suoi. Che tristezza sapere che questi insulti appaiono sulla pagina del responsabile della sicurezza nazionale. E che Salvini sceglie di non cancellarli. Che tristezza non ricevere un solo commento di solidarietà da parte dei leghisti perbene. E delle donne leghiste o grilline. Che tristezza pensare che ci siano donne e uomini che sfogano su di me le loro frustrazioni. Quello che è certo è che io non mollo". L'ex ministro ricorda anche gli attacchi ricevuti per la questione banche. "E poi abbiamo visto che io non c'entravo niente e che i salvabanche li hanno approvati loro", dice, "Sulle mie azioni da ministro, il tempo ha chiarito che noi abbiamo fatto il bene dell'Italia. Adesso mi attaccano per aver proposto la mozione di sfiducia. La reazione rabbiosa di Salvini e dei suoi dimostra che quella mozione andava fatta subito come proposto da alcuni di noi. Ma è una reazione rabbiosa che non mi fa paura. Io non taccio perchè me lo ordina Salvini".

Francesco Maria Del Vigo per “il Giornale”  il 20 luglio 2019. La vera opposizione a Salvini? La fanno i rapper e i trapper. La sinistra è in naftalina. Mettiamo le mani avanti: non è un consiglio a Nicola Zingaretti. Che non si tatui strani simboli in faccia (magari quello del Pd), non indossi vestiti extra-large e inizi a parlare biascicando come se fosse strafatto. Dubitiamo che possa funzionare. Il problema di questa estate è che non si riesce a sfuggire dalla tesi salvinista e dall' antitesi antisalviniana. Accendi la tv e c'è il Capitano che parla, dai un' occhiata a Instagram e invece di trovare qualche natica balnearmente esposta e c' è lui che divora con voluttà un cono gelato, apri Facebook ed è in diretta tutto sudato concionante da un palco (che poi ora non ci sono elezioni in vista - almeno ufficialmente - e quindi cosa comizia a fare su e giù per l' Italia?) e comunque se non c' è direttamente lui c' è qualcuno che parla di lui. Malissimo, ovviamente. Ed è molto peggio. È impossibile andare in vacanza dall' antisalvinismo, non c' è pace. Scendi al bar per bere qualcosa e dalle casse sgangherate della radio c' è un rapper che straparla - impossibile dire che stracanti, sarebbe un ossimoro - contro il ministro dell' Interno. Non se ne può più. Invece, purtroppo, la metamorfosi è avvenuta: i rapper e i trapper a corto di idee sono i nuovi Zagrebelsky, i nuovi Gad Lerner in servizio permanente. D' altronde questi ultimi sono troppo impegnati a passare le loro estati a Capalbio, in ammollo pubblico all' Ultima spiaggia o rinchiusi nel terrore privato che qualcuno gli molli qualche migrante sotto casa. Così, con Zingaretti afono e gli intellettualoni in crisi depressiva, l' ultimo avamposto della sinistra sono i rapper. E il Capitano, come fossero una vera opposizione, perde pure tempo a rispondere loro. Chiariamoci: è una storia che dura da anni, ma in questa torrida estate è esplosa.

L'ultimo in ordine di tempo è Ghali che, nella sua nuova cliccatissima hit, starnazza: «Salvini dice che chi è arrivato col gommon / Non può stare .it ma stare .com / Anche se quando consegnavo pizze ai campi Rom / Mi lasciavano più mance degli artisti Pop». Giudizio: banale. Vi offriamo un piccolo florilegio di chi ha preceduto il cantante italotunisino.

Rocco Hunt: «Sono contento che è finita quella storia con lui / Tu che fingevi di amarlo come Salvini col Sud». Giudizio: passatista, ormai la Lega prende più volti neo Meridione che in Lombardia. Principe (di nome ma non di fatto): «Il mio sogno nel cassetto non è stato rimosso / Salvini sappia che a Piazzale Loreto c' è ancora posto». Giudizio: più che i sogni bisognerebbe rimuovergli il microfono.

Tommy Kuti: «Salvini c' hai rotto le palle». Giudizio: severo ma efficace. In confronto J-Ax e Fedez, nella ormai datata Vorrei ma non posto, sembrano due stilnovisti: «Salvini sul suo blog ha scritto un post/ Dice che se il mattino ha l' oro in bocca si tratta di un Rom». Ma il coro è polifonico.

Hanno attaccato il vice premier, con canzoni o interviste, quasi tutti i rappresentanti della scena hip hop: da Caparezza a Frankie Hi Nrg («è una miseria umana»), passando per Willie Peyote, Piotta e Gemitaiz («Se muori facciamo una festa»). Lo stile è quello dei loro predecessori, i paladini dell' odio anti berlusconiano. I nomi sono improbabili, ma sono i nomi dei nuovi intellettuali anti-destra.

Chiudiamo la breve antologia con Sfera Ebbasta che nei suoi versi ammette esplicitamente: «Io di politica non so un ca...». Giudizio: bravo, anzi bravissimo. I suoi colleghi prendano spunto da lui.

Marco Travaglio insulta Matteo Salvini: "Nuovo Mussolini? No, ecco cos'è davvero". Ma i sondaggi lo asfaltano. Libero Quotidiano il 19 Luglio 2019. Dal "nuovo Mussolini" al "nuovo Ridolini". Marco Travaglio si esibisce in variazioni sul tema dell'insulto a Matteo Salvini. Nel suo editoriale sul Fatto quotidiano, il direttore regala perle di odio sul conto del leader della Lega, definito "strano soggetto che cambia idea e umore col tasso di umidità". Si parla di crisi e Travaglio, come tutti i grillini, si sente un po' sulla graticola anche se, c'è da sottolinearlo, a differenza di Luigi Di Maio il direttore più grillino d'Italia sotto sotto vi spera.  Così, come da copione, cavalca la tigre giudiziaria e affonda: "Da quando è esploso il Caso Rubli (Salvini, ndr) s'è buscato la savoinite e pare un tantino suonato. Ha perso la lucidità e il tocco magico. Non ne azzecca una manco a pagarlo (nemmeno in euro)". E giù rampogne su Ursula von der Leyen ("Il M5s la vota, salvandola dallo smacco e acquisendone la riconoscenza. Ma i leghisti dicono astutamente no, sperando nello smacco per Conte e Di Maio. Che invece la spuntano. Risultato: bye bye Giorgetti"), euro-complotti (Travaglio, punto nel vivo, arriva a sostenere che non sono i 5 Stelle ad essersi intesi con i dem sulla Von der Leyen, ma la Lega ad andare a braccetto con il Pd e Forza Italia "su Tav e altre grandi opere inutili, Autostrade, Radio Radicale, Tap, inceneritori, trivelle, F-35, Venezuela, bavaglio alle intercettazioni, separazione delle carriere e no al salario minimo". Praticamente tutte le campagne fuori di senno dei 5 Stelle) e autonomia ("In alto mare perché la legge leghista fa acqua da tutte le parti anche per la Corte dei Conti", assicura il direttore). Conclusione? L'unica cosa seria è il caso Rubli. E l'abbiamo capito. Lo capiranno anche gli italiani?". A giudicare dai sondaggi, no. 

Sondaggio Swg, Enzo Risso: "Matteo Salvini continua a salire nonostante il Russia-gate". Libero Quotidiano il 19 Luglio 2019. La Lega non solo tiene ma continua a crescere, nonostante il Russia-gate sia stato al centro delle polemiche di questi ultimi giorni. Secondo Enzo Risso di Swg la Lega di Matteo Salvini è addirittura passata dal 35,7 al 37,7 per cento. Insomma, ha guadagnato due punti netti. "Alla maggioranza delle persone è arrivato il fatto che qualcuno della Lega sia andato in Russia ma anche che non ci sia stato alcun passaggio di denaro e che quindi non si possa parlare di corruzione", scrive Risso su Il Fatto quotidiano. Non solo: "Va anche detto che in Italia i soldi russi alla politica non sono certo una novità e hanno riguardato altre aree politiche in passato, ma soprattutto c'è da considerare che Vladimir Putin è popolarissimo tra gli italiani", continua Risso, "molto più di Trump, dunque essere percepiti vicini a lui e alla Russia non è affatto detto abbia un impatto negativo".

Da “il Messaggero” il 19 giugno 2019. Nell’aprile del 2018 Boris Johnson, all’epoca ministro degli Esteri britannico, venne in Italia senza scorta per la festa di Evgeny Lebedev, miliardario di origine russa e figlio di un ex ufficiale del Kgb. Lo ha rivelato il quotidiano “The Guardian”, sottolineando che l’interessato finora non ha voluto rispondere ai giornalisti per confermare o smentire la notizia. Johnson - che ora è il grande favorito per la successione a Theresa May come leader dei conservatori e premier del Regno Unito - avrebbe partecipato alla festa nello spettacolare Palazzo Terranova di Perugia, proprio nei giorni in cui Londra e Mosca erano ai ferri corti per l’avvelenamento dell’ex spia russa Serghei Skripal.

Carlo Nordio: "Nelle intercettazioni russe non c'è nulla contro Matteo Salvini". Fausto Carioti su Libero Quotidiano il 23 Luglio 2019. Chi se la prende con «i magistrati» in generale, prima di aprire bocca dovrebbe ricordare che tra loro ci sono personaggi come Carlo Nordio. Classe 1947, una vita passata in toga, come procuratore aggiunto a Venezia si è occupato di Brigate rosse, sequestri, tangenti ai partiti. È in pensione da due anni e ha da poco dato alle stampe il suo libro migliore, "La stagione dell' indulgenza e i suoi frutti avvelenati". Vi scrive cose crudelmente vere, ad esempio che «ormai la Chiesa è più una organizzazione equa e solidale che una dispensatrice di speranze escatologiche», oppure che «tanto è facile entrare in prigione durante le indagini, da presunti innocenti, quanto è difficile restarci dopo la condanna, da colpevoli conclamati». Dotato di una cultura anglosassone e liberale, non ha problemi ad andare controcorrente rispetto ai tanti (suoi ex colleghi inclusi) che oggi individuano in Matteo Salvini il nemico della democrazia da abbattere a colpi di machete giudiziario. Subito dopo la vicenda di Carola Rackete, lei ha scritto che «la concentrazione di imbarcazioni ong diretta alle nostre coste è troppo massiccia per essere casuale, ed anche senza evocar complotti è ragionevole pensare che la strategia per mettere in difficoltà il nostro Paese sia ben più raffinata di quella rappresentata dalla singola capitana».

Parole forti, dottor Nordio, tanto più se dette da uno che le pesa ed aborre la cultura del sospetto. Cosa significano?

Chi ha interesse a indebolire la sovranità italiana?

«Una coincidenza è una coincidenza, ma due coincidenze sono un indizio e tre fanno quasi una prova. Vi è stata, in quei giorni, una concentrazione tale di ong e una spavalderia nello sfidare le nostre leggi che è più facile pensare a una strategia pianificata, piuttosto che a una serie casuale. Molti Paesi hanno interesse a destabilizzare il nostro governo, e questo può esser ritenuto un mezzo efficace».

Da pm, lei si occupò dei finanziamenti al Pci-Pds da parte delle coop rosse. Che idea si è fatto, adesso, della trattativa condotta da Gianluca Savoini con i russi nell' hotel Metropol? C' era dietro un tentativo di finanziamento illecito alla Lega?

«Le conversazioni diffuse non evidenziano trattative di tangenti, e ancor meno di finanziamenti alla Lega.

Si parla di affari con una banca che, a quanto ho letto, ha un bilancio da pizzeria. La procura di Milano indaga da mesi, e non ha ipotizzato il reato di finanziamenti illeciti. Infine, e come al solito, quando si tratta di intercettazioni diffuse a spizzico, c' è il rischio che vengano selezionate in modo interessato per colpire qualcuno».

C'è l' altra questione, riguardante chi ha registrato quella conversazione e l' ha recapitata al sito BuzzFeed. L'ipotesi che in quell'albergo qualcuno diverso dai servizi russi riesca a compiere un simile lavoro è poco credibile. Lei quali mani e intenzioni ci vede dietro?

«Le ipotesi sono molte, ma oggi i sistemi di intercettazione, anche a distanza, sono tali e tanti che chiunque può esserne stato l' autore. Con queste captazioni di conversazioni vale l' ammonimento di Richelieu: "Datemi una lettera e un paio di forbici e ne farò impiccare l' autore"».

Si stupirebbe se, dopo quella consegnata a BuzzFeed, dalla Russia arrivassero altre rivelazioni su Salvini?

«Mi stupirei se ci fossero intercettazioni "di" Salvini, non se ci fossero "su" Salvini. Il modo migliore per compromettere un uomo politico è parlar male di lui sapendo di essere intercettati».

Peraltro l'inchiesta aperta sulla vicenda moscovita non sembra avere scosso minimamente gli italiani: nei sondaggi la Lega continua a crescere. Non crede che questo sia dovuto anche alla scarsa credibilità della magistratura, oggi ai minimi storici?

«È vero che la credibilità della magistratura è ai minimi storici, soprattutto dopo le vicende di Palamara e del Csm. Ma in questa vicenda la magistratura non c' entra. La procura di Milano è stata ed è estremamente riservata e prudente. Piuttosto è assai scarsa la credibilità del sito che ha diffuso l' intercettazione che peraltro, ripeto, pare rivelare ben poco».

Nell' occasione si è rivista la voglia dei partiti di usare le inchieste giudiziarie come clava contro gli avversari. Consegnandosi acriticamente nelle mani dei magistrati, il cui errore è contemplato dal diritto italiano almeno sino alla sentenza definitiva, la politica contribuisce al proprio discredito?

«Certamente sì. Si dice che la magistratura è invasiva, e magari qualche volta lo è. Ma è stata la politica, in questi ultimi venticinque anni, a fare incredibili passi indietro, dimostrandosi supina nei confronti dei giudici, e soprattutto provando a estromettere l' avversario valendosi delle indagini. Sperando cioè, per dirla con Winston Churchill, che il coccodrillo mangi il nemico, mentre alla fine il coccodrillo mangerà anche lui».

A questo proposito, non trova il caso di Armando Siri un pericolosissimo precedente? È stato costretto alle dimissioni un membro del governo solo perché indagato: cosa accadrà nel momento in cui la stessa cosa toccherà a un premier o a un ministro di primo piano? Non si compromette, in questo modo, anche la serenità del lavoro dei magistrati?

«Sì. È stato un grave errore perché confligge con la presunzione d' innocenza e con l' autonomia della politica. Ed è anche vero che responsabilizza il magistrato in modo anomalo. Se io so che l' informazione di garanzia che sto per spedire in quanto atto dovuto farà cadere un ministro, o un governo, o magari la legislatura, mi sento investito di un ruolo che eccede le mie funzioni, e altera la mia serenità».

Mentre il governo litiga, nessuno pare prestare attenzione al fatto che dal primo gennaio entrerà in vigore la norma che, in pratica, abroga la prescrizione. È stata una mossa scellerata rinunciare a un principio cardine dello Stato di diritto?

«La riforma della prescrizione non solo è sciagurata e probabilmente incostituzionale, ma sortirà l' effetto contrario a quello sbandierato, perché allungherà i processi in attesa della sentenza definitiva, con grave danno delle vittime in attesa di risarcimento».

La riforma del processo penale, in qualche modo non ben definito, dovrebbe compensare la cancellazione della prescrizione. Cosa rischiamo se la sconquassata maggioranza gialloverde non riesce a correggere le regole del processo?

«Non credo che la riforma della prescrizione entrerà in vigore, perché Salvini ha dichiarato solennemente che essa dovrà essere accompagnata da una riforma radicale del processo. E sono convinto che questa non si farà entro l' anno, sia per mancanza di tempo, sia per le diversità di vedute dei due alleati». Fausto Carioti

RENZI-SALVINI: E ORA PARTONO LE QUERELE? Da La Repubblica il 25 luglio 2019. Non ha parlato al Senato e sceglie invece Facebook per dire cosa avrebbe detto oggi a Palazzo Madama Matteo Renzi e per sfidare Salvini: "Vi racconterò le domande che gli avrei fatto, mentre gli altri Paesi corrono. In Inghilterra c'è un nuovo premier, e in Italia che facciamo? Boh. Stiamo inseguendo Toninelli. In America Mueller parla di Trump. E in Italia? C'è la flat grow, la crescita piatta, anche perchè se stiamo ad aspettare quel che dice il presidente Conte, che è stato imbarazzante oggi, stiamo freschi". E dopo un richiamo al presidente Casellati - "le avrei chiesto le scuse: il senatore Parrini in questi mesi ha chiesto conto più volte in questi mesi di questa storia dei rubli, anche perchè vi erano già state delle indagini e degli importanti articoli. E Casellati lo impediva è venuta meno ai suoi doveri di terzietà e garanzia" - sfida Salvini. Parte da Moscopoli: "Non era in aula oggi, ma gli avrei chiesto ma lei su questa storia ci sta raccontando la verità? Se lui avesse detto in aula di non aver preso rubli, ci avrei creduto. Fino a prova contraria. Però Salvini ha fatto di più: ha detto guai a chi accosta il mio nome o quello della Lega alla richiesta dei soldi ai russi. Io querelo tutti quelli che dicono che c'è scambio tra soldi russi e lega. Caro Salvini, gli avrei detto, deve querelare l'uomo che a nome della Lega ha chiesto i soldi ai russi, che lei ha portato a Mosca e alla cena a Villa Madama. Se è in buona fede, deve querelare domattina Gianluca Savoini. O querela il suo braccio destro o Salvini sta nascondendo qualcosa. E vedremo chi ha ragione". Ma l'affondo di Renzi arriva dopo: "Signor ministro Salvini, che fine hanno fatto i 49 milioni di euro degli italiani? Dove sono? C'è un altro nome per le querele: Matteo Renzi. Io ho sostenuto che lei abbia preso una parte consistente di quei denari e li abbia messi nella creazione di una macchina da propaganda, la Bestia, che è lo strumento con cui la Lega ha utilizzato strumenti ai limiti delle fake news. Vi sono due alternative: che io stia mentendo o che lei abbia preso i soldi degli italiani e li abbia messi lì. Io rinuncio alla immunità parlamentare, quella con cui lei ha evitato un processo in Sicilia, con i voti 5S. Vediamoci in tribunale". Renzi poi ha attaccato il leader leghista "che legittimamente prende soldi dagli italiani dal 1993, c'erano ancora le lire", e ne ha ricordato un tweet di quando lo stessi Renzi era a Palazzo Chigi: "Hei, imbecille, perchè continui a rinnovare le sanzioni alla Russia?" mi scriveva". Non manca un attacco ai 5S: "Tutti hanno capito che la Tav è la cosa giusta, tranne Toninelli, che non conosce la dignità delle dimissioni. Per Di Maio "uno vale uno" è uno vale zero, come i suoi mandati". E ha ricordato la sua scuola politica in agosto e la decima Leopolda in ottobre. La chiusura è per la mozione di sfiducia presentata dal Pd oggi contro Salvini. "Si è persa un'occasione: se il Pd l'avesse chiesta prima, Salvini sarebbe stato in aula, e i Cinque stelle avrebbero dovuto scegliere tra dire "ha ragione Salvini" e mandarlo a casa. Meglio tardi che mai. Io non smetterò mai di fare opposizione a un governo pericoloso. Io sono qui, senatore della Repubblica, grazie ai voti dei cittadini della Firenze. E questo è il peggior governo della Repubblica". E Matteo Salvini interviene poco dopo dallo stesso social, ma non risponde alla sfida di Renzi: "E' stata una bella e proficua giornata, io ero a lavorare mentre qualcuno chiacchierava di aria fritta e gli amici del Pd urlavano in Parlamento chiedendo la testa di Salvini. A loro mando un bacione: che Italia sarebbe senza Renzi, senza Boschi, senza Boldrini? Peggio di Renzi e di Boschi è difficile fare". E snocciola i provvedimenti odierni, non tutti del suo ministero - opere pubbliche, lavori, strade - e poi la Tav: "E' un simbolo, la faremo con meno impatto ambientale, resto sicuro che il treno inquini meno delle auto. Anche qui ha avuto ragione la testa dura della Lega e ancora oggi non capisco come gli amici 5S continuino a dire no alla Tav, alla Tap, alla Pedemontana, alla terza corsia in autostrada. I no lasciamoli dire al Pd" E snocciola altri numeri delle opere pubbliche sbloccate: "Per la Pdemontana investimenti da 1.6 miliardi di euro, altri 460 milioni per la strada statale Telesina tra Caianello e Benevento e tra Toscana e Marche il nono lotto della strada Grosseto Fano per 161 milioni di euro, 15 miliardi sbloccate per le ferrovie, non solo alta velocità, la Napoli-Bari, la Gallarate-Rho, il terzo valico dei Giovi e il valico di Genova, la valorizzazione delle reti regionali per un miliardo di euro. E 2 miliardi solo per ponti, viadotti e gallerie. E cento milioni per Contina che ospiterà i mondiali nel 2021 e le Olimpiadi del 2026". E ancora: "Mentre il Pd urlava e chiedeva la mia testa, io ero impegnato al comitato per l'ordine e la sicurezza, i numeri ci confermano che rispetto ai 18mila sbarchi siamo fermi a 3mila, meno 81%, aumentati i respingimenti alla frontiera, e al tavolo oggi abbiamo stabilito nuovi controlli aerei anche con droni". Quasi alla fine la polemica con Macron, dandogli del tu: "C'è la nave di una Ong francese battente bandiera norvegese sta per arrivare a giorni nei pressi di un posto francese, se sei così generoso Macron impegnati a fare in modo che, se raccoglierà anche un solo immigrato, la accoglierai in Francia. Amici francesi, 'nisba', qui non ce n'è", ha aggiunto il ministro dell'Interno: "Non prendo lezioni da nessuno". E infine ai 5S. "Non ho capito perché oggi il presidente del Consiglio quando è intervenuto in Senato ha detto "se dovessero togliermi la fiducia, tornerò in Senato per chiedere la fiducia"... Noi vogliamo guardare avanti, liberare sbloccare, costruire, detassare, approvare una riforma vera sull'autonomia, la giustizia e il fisco italiano. Che bisogno c'è  di andare e lasciare pensare che ci possano essere altre maggioranze, raccolte come i funghetti del Trentino, con uno Scilipoti di qua e uno di là. Se c'è un governo è questo e va avanti con i sì. Giochetti di palazzo non ne esistono". Ancora su Facebook parla anche Luigi Di Maio. "Noi battaglieremo sul tema del Tav Torino-Lione fino alla fine. Non è finita, perché bisogna andare in Parlamento e comunque non sarà mai finita, perché per noi quell'opera resta inutile e questo fa parte della nostra storia. Nei prossimi giorni spiegheremo tutte le ragioni per cui la tratta non si deve fare. È possibile fermare la Tav, basta votare in Parlamento. E vedremo come voteranno i partiti, vedremo chi voterà con il Pd di Renzi e con Forza Italia di Berlusconi. Quelli non saremo certamente noi". Non manca una stoccata a Salvini: "Non dobbiamo farci dividere. Il 4 marzo 2018 abbiamo preso il 33% e quei consensi li stiamo usando per fare cose buone per gli italiani, non per accrescere il consenso della nostra forza politica. Noi stiamo pensando all'Italia, non a un partito o a un movimento". Dal capo politico M5S l'unico accenno al caso Moscopoli e alle assenze dei suoi parlamentari arriva quando dice: "Io ringrazio il presidente Conte per essere andato in Senato", l'assenza dei senatori M5S in Aula "credo fosse un atto politico, perché lì ci doveva andare qualcun altro ed è per questo che i nostri senatori hanno voluto segnalare quest'assurdità in Senato". E sull'ipotesi di crisi del governo Conte: "Se vogliamo dargliela vinta, va bene, apriamo la crisi. Se non vogliamo tagliare 345 parlamentari a settembre e darla vinta ai partiti, va bene, apriamo la crisi. Aprendo la crisi ci troveremmo un governo tecnico o politico che non solo fa le opere utili, ma fa anche le centrali nucleari o gli inceneritori, che con noi non si faranno mai".

Da Libero Quotidiano il 24 luglio 2019.  Matteo Renzi è stato censurato dal Pd. "Speriamo che nessuno venga a sapere di questa nostra discussione interna: è incredibile che con il governo nei guai sui soldi russi noi gli facciamo il favore di accapigliarci sul diritto di parola di Renzi", dice sconvolto il senatore dem Salvatore Margiotta, durante l'assemblea a porte chiuse del gruppo a Palazzo Madama. L'ex premier, rivela Il Giornale, aveva chiesto di poter intervenire a nome del Pd oggi 24 luglio in Senato sul Russiagate ma la maggioranza zingarettiana si è opposta: "Renzi non rappresenta l'unità del gruppo, quindi non deve essere lui a intervenire", sbotta il tesoriere, Luigi Zanda. E Antonio Misiani, zingarettiano pure lui, e Roberta Pinotti contestano l'intervento. Andrea Marcucci, capogruppo piddino, non è d'accordo: "Renzi mi ha chiesto sabato di poter intervenire, seguendo la corretta procedura, e io ovviamente ho detto di sì: è stato presidente del Consiglio, ed è la voce più autorevole che possiamo avere, su un tema di questa portata internazionale". 

Ferruccio Sansa per “il Fatto Quotidiano” il 24 luglio 2019. Il puzzle si compone. I pm milanesi e gli investigatori della Guardia di Finanza avrebbero identificato un altro russo - il secondo - presente alle 9,30 del 18 ottobre scorso all' hotel Metropol di Mosca. Il nome è avvolto ancora dal riserbo, ma sembra trattarsi di un pubblico funzionario. Anche da qui viene l' ipotesi di reato, corruzione internazionale, scritta sul fascicolo dell' indagine condotta dai pm Fabio De Pasquale, Gaetano Ruta e Sergio Spadaro. La presenza di un rappresentante dello Stato russo darebbe una luce diversa all' incontro di ottobre. Certo, occorre sapere se l' uomo fosse presente in veste ufficiale (e su mandato di chi). Finora alla ricostruzione del famoso incontro mancavano tasselli fondamentali. Si conoscono ormai le identità degli italiani presenti: oltre a Gianluca Savoini (presidente di Lombardia- Russia), c' erano l' avvocato Gianluca Meranda e Francesco Vannucci, ex impiegato del Monte dei Paschi di Siena. Dall' altra parte del tavolo si sapeva soltanto della presenza di Ylia Anreevich Yakunin, un manager vicino all' avvocato Vladimir Pligin (che la sera prima avrebbe ospitato nel suo studio un incontro tra Matteo Salvini e il vicepremier russo con delega all' Energia Dimitry Kozak). Ma si trattava, appunto, di un manager, una figura del mondo dell' imprenditoria privata, pur se con legami al Cremlino. La presenza di un pubblico funzionario potrebbe agganciare l' incontro al governo russo. È un momento importante per l' inchiesta che fa tremare la Lega. Per definire meglio il quadro i pm sembrano decisi a sentire come persona informata sui fatti (non è indagato) Ernesto Ferlenghi: la sera precedente all' incontro del Metropol, il manager Eni e presidente di Confindustria Russia era presente con Matteo Salvini e Savoini a una cena organizzata da Luca Picasso (direttore di Confindustria Russia, neppure lui indagato). Anche la versione di Picasso potrebbe presto essere oggetto di interesse da parte dei magistrati milanesi. Ferlenghi potrebbe fornire ai pm dettagli importanti per ricostruire l' agenda della delegazione italiana a Mosca. Savoini, Meranda e Vannucci, infatti, essendo indagati hanno deciso di avvalersi della facoltà di non rispondere ai pm. Ma Ferlenghi come testimone è obbligato a rispondere e a dire la verità. Intanto le indagini proseguono su altri fronti. C' è da esaminare la grande mole di materiale sequestrato agli indagati nelle scorse settimane. Un lavoro che richiederà tempo. Mesi, forse. Non solo: dagli accertamenti sulle celle telefoniche in Italia e dalle informazioni per esempio acquisite dalle compagnie aeree potranno arrivare altri elementi utili. Poi, certo, ci sarebbe da indagare anche in Russia, ma finora non sono state avanzate richieste di rogatoria. Difficile dire se le autorità moscovite sarebbero disposte a collaborare. I rapporti tra autorità giudiziarie sono regolate da una convenzione di assistenza giudiziaria che risale al 1959, in piena epoca sovietica.

Conte: «Savoini era al seguito di Salvini». Strappo M5S: disertano l’Aula Diretta tv. Pubblicato mercoledì, 24 luglio 2019 da A. Sala su Corriere.it. «Il signor Savoini non riveste e non ha rivestito incarichi formali per componenti di questo governo» anche se «risulta presente ad una missione ufficiale a Mosca» del ministro Matteo Salvini svoltasi il 16 luglio dello scorso anno, all’indomani della finale dei mondiali di calcio nella capitale russa. Missione «organizzata direttamente dal ministero dell’Interno» che aveva fornito l’elenco dei componenti della delegazione al seguito di Salvini, di cui faceva parte anche Claudio D’Amico, che invece un incarico di collaborazione con il Viminale ce l’ha. Proprio D’Amico aveva sollecitato l’invito di Savoini al Forum delle società civili svoltosi in altra data a Roma, alla Farnesina, in quanto presidente dell’associazione Lombardia-Russia. Questa partecipazione aveva comportato anche il suo invito automatico, «come per tutti i partecipanti al forum», anche alla cena serale con il presidente Putin. Sono questi alcuni degli elementi illustrati dal presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, nella sua informativa al Senato sull’inchiesta della Procura di Milano sui rapporti tra il leader della Lega e Savoini, in cui si ipotizzano manovre per la creazione di fondi occulti a favore del Carroccio. Conte ha tuttavia sottolineato che «allo stato non vi sono elementi tali che possa incrinare la fiducia che nutro in componenti del governo». L’informativa si è svolta in un’aula di Palazzo Madama dove spiccava l’assenza dei senatori del Movimento 5 Stelle. Un’assenza sottolineata immediatamente dai primi interventi seguiti a quello del premier Conte e letta come segnale di sfiducia politica nei confronti del capo del governo dopo la presa di posizione a favore dell’alta velocità Torino-Lione. Ma questa lettura viene smentita dal gruppo parlamentare pentastellato che spiega che la protesta non era nei confronti del premier Conte ma per il fatto che «oggi non era lui a doversi presentare nell’Aula del Senato per rispondere all’informativa sul caso Russia-Lega». Un affondo, senza citarlo, contro Matteo Salvini che nei giorni scorsi aveva escluso di andare a riferire in Aula «per parlare di soldi che non ho preso».

L'inchiesta sui fondi russi alla Lega: le due smentite a Salvini sul ruolo di Savoini. Pubblicato mercoledì, 24 luglio 2019 da Fiorenza Sarzanini su Corriere.it. Sono due le smentite alla versione ufficiale fornita sul «caso Russia» dal ministro dell’Interno Matteo Salvini. La più clamorosa è certamente quella consegnata al Parlamento dal premier Giuseppe Conte. Ma quanto emerge dall’inchiesta avviata a Milano potrebbe portare a sviluppi determinanti per le indagini. Perché entrambe riguardano Gianluca Savoini, l’ex portavoce di Salvini che il 18 ottobre scorso è stato registrato nella hall dell’Hotel Metropol di Mosca mentre trattava con tre russi — al fianco dei due italiani Gianluca Meranda e Francesco Vannucci — una fornitura di carburante con relativo finanziamento per il Carroccio da 65 milioni di dollari. E perché dimostrano che le prese di distanza da parte del titolare del Viminale erano false. Quando il sito Buzzfeed pubblica l’audio degli incontri dell’ottobre scorso, Salvini nega di aver mai saputo di quella riunione e smentisce che la Lega abbia «mai preso un rublo», ma anche che Savoini potesse aver parlato a nome del partito. Le chat e le mail trovate dalla Guardia di Finanza nel telefono e nel computer dello stesso Savoini — indagato per corruzione internazionale e sottoposto a perquisizione — sembrano raccontare una realtà ben diversa, documentando i contatti con lo stesso Salvini e con altri rappresentanti di livello del partito. Tanto che secondo alcuni indiscrezioni, ci sarebbe la prova che a quel tavolo Savoini si era seduto come «uomo della Lega» proprio perché era stato delegato a trattare l’affare. Un ruolo che del resto sembra essere accreditato anche dal fatto che la sera precedente era uno dei partecipanti alla cena organizzata al ristorante nella capitale russa Rusky, proprio con Salvini e con i vertici di Confindustria Russia. Savoini è a Mosca anche il 16 luglio 2018 quando la delegazione guidata dal ministro dell’Interno Salvini incontra i rappresentanti del Consiglio per la sicurezza nazionale. «Non so chi l’abbia invitato, chiedete ai russi», afferma un mese fa il titolare del Viminale nonostante fosse al tavolo dell’incontro con accredito e segnaposto nominativo. All’epoca il sito Buzzfeed aveva già chiesto a che titolo fosse presente e Savoini aveva risposto via mail: «Faccio parte della Lega dal 1991, ho sempre fatto parte dello staff di Salvini ancor prima che il ministro degli Interni entrasse nel governo», prima di specificare di aver «contribuito a organizzare tutti i viaggi di Salvini a Mosca». Al Viminale negano questa circostanza, sostengono che non era «al seguito del ministro». Ma ieri, in Senato, Conte è stato categorico: «Il 16 luglio 2018 per l’incontro con le controparti russe su indicazione del protocollo del ministero dell’Interno, la delegazione ufficiale comprendeva anche il nominativo del signor Savoini». Ieri sera il Viminale ha ribadito che «Savoini non era partito da Roma con lo staff ed era un semplice accompagnatore». Ma nessuno ha ancora chiarito chi abbia pagato i suoi numerosi viaggi, spesso al seguito del consigliere Claudio D’Amico.

I sospetti di Salvini: Conte sta giocando una partita tutta sua. Pubblicato mercoledì, 24 luglio 2019 da Alessandro Trocino e Tommaso Labate su Corriere.it. «Si è parlato di partite di calcetto, cene e inviti a cena. Io stavo lavorando al Cipe allo sblocco di 50 miliardi di euro in tutta Italia». Salvini si sente distante dalle polemiche, non le vuole commentare. Ai suoi uomini spiega: «Il caso Russia è morto e sepolto, un film di spionaggio di serie B». Quanto al passaggio di Conte che lo chiama in causa per non aver fornito nessuna indicazione, risponde così: «Il presidente del Consiglio ha voluto sottolineare questa cosa, ma non è stata scortesia istituzionale, erano solo informazioni inutili. È coerente con quello che ho detto finora. Non c’è nulla da sapere». Quanto alla presenza o meno di Gianluca Savoini nelle delegazioni ufficiali, replica ricordando che non è mai partito con le delegazioni del Viminale. Ma è il passaggio chiave del discorso di Conte, quell’accenno alla possibilità che torni in Aula «nel caso maturino le condizioni per una cessazione anticipata del mio incarico», che irrita profondamente Salvini. Il quale fa notare ai suoi che non si tratta di una frase sfuggita sull’onda dell’emozione, visto che il discorso era scritto ed è stato letto. Che cosa significa quella frase, si interroga il vicepremier. Che chiederà la fiducia su se stesso, ma su cosa? Sulla mozione della Tav? «Sa bene che conseguenze potrebbe avere sul governo — spiega Salvini ai suoi uomini — .Perché se Conte vuole fare davvero questo, vuole dire che si propone per creare una maggioranza alternativa. Vuol dire che sta lavorando a una sua partita personale». Lo dice anche in chiaro, nella diretta Facebook, dove accenna a «giochetti di palazzo», ad altre maggioranze «raccolte come i funghetti in Trentino, magari recuperando uno Scilipoti». La sensazione di Salvini è che Di Maio non controlli più i suoi gruppi, con il rischio che il Movimento possa spaccarsi e dare luogo a possibili maggioranze alternative anche se Palazzo Chigi nega e contesta «letture strumentali e malevole». Di prima mattina Salvini si incrocia con Conte al Cipe, Durante il rapido colloquio, il premier ha voluto riassumere «per correttezza» alcuni contenuti dell’informativa che, secondo Palazzo Chigi, «potevano risultare più delicati». Più tardi Salvini twitta per «Super Fede Pellegrini, orgoglio nazionale», fa un paio di dirette per annunciare lo sblocco della Pedemontana e l’archiviazione per il caso Sea Eye e per fare il punto finale. Con i suoi è quasi divertito dalle turbolenze tra i senatori del Movimento e Conte: «Li ringrazio, così non si è parlato più della Russia, ma dello scontro tra il Movimento 5 Stelle e il premier. È evidente che, al di là delle smentite, la loro diserzione dall’Aula aveva a che fare con il via libera alla Tav e non con la mia presenza in Aula».

“E QUESTO SECONDO VOI È IL DISCORSO CHE FA UN ALLEATO?” Ilario Lombardo per “la Stampa” il 24 luglio 2019. «E questo secondo voi è il discorso che fa un alleato?». Matteo Salvini fa una smorfia di disappunto mentre spegne lo schermo sul quale ha seguito la diretta dal Senato, con un orecchio rivolto alle notizie che arrivano dalla procura di Milano. Ma bisogna capovolgere per un attimo la narrazione della cronaca politica e ascoltare attentamente cosa dice Salvini nel primo video di ieri, che è precedente al discorso di Giuseppe Conte sul caso Russia: «È una giornata fortunata. Mi risparmio uno dei tanti processi che stanno provando a intentare contro di me». Salvini annuncia l'archiviazione della procura di Roma che lo aveva indagato per abuso d'ufficio sul caso della ong Sea eye. Lo dice mentre da Milano filtrano nuove indiscrezioni sulle indagini che fanno da sfondo all' informativa del premier a Palazzo Madama. Conte mette in fila una dopo l'altra le cose che non gli sono andate giù di questa storia ancora affogata nel mistero su gas, rubli e uomini della Lega dalle relazioni pericolose. Di fatto il premier ha dato del bugiardo al leghista, perché ha smontato la tesi che dal suo entourage continuano a sostenere: che cioè anche nel luglio del 2018 Gianluca Savoini non era nella delegazione di Salvini, nonostante ci sia una foto che lo ritrae al tavolo del bilaterale con il ministro dell' Interno russo. Conte dice invece che il presidente dell' Associazione Lombardia-Russia, che a ottobre siederà anche a parlare con emissari russi all' hotel Metropol, era «al seguito» di Salvini. Usa proprio quel termine, che a Salvini suona come una coltellata nel fianco. «Sa benissimo che non era al mio seguito». Qui però le versioni non sono concordanti. Perché il leader della Lega si dice certo che Savoini non fosse inserito negli elenchi governativi dei partecipanti alla delegazione, mentre da Chigi ribattono: «Allora dica perché era lì, se lo era per conto dei russi, o della Lega, perché non può essersi autoinvitato». «Ambiguo», «insinuazioni inaccettabili», «cerca pretesti per farsi altre maggioranze?». Lo sfogo di Salvini contro il premier consegnato ai suoi collaboratori non è tenero. E il leghista, che già non aveva gradito «la solerzia» con cui ha risposto alla richiesta delle opposizioni di andare in aula, ci tiene a farlo arrivare a Conte, nonostante si siano incrociati ieri mattina, subito dopo la riunione del Cipe. Da tempo non hanno un confronto. Il premier gli illustra, «per estrema correttezza» i contenuti più delicati dell' informativa. Salvini li ascolterà a distanza e un passaggio del discorso scatenerà più di altri i suoi sospetti. Quando il capo del governo dice che «a questo consesso tornerò ove mai dovessero maturare le condizioni per una cessazione anticipata del mio incarico». Il leghista gliene chiederà conto a conclusione del video su Facebook. Con un avvertimento: «Pretendo lealtà. Oggi non ho capito perché il presidente del Consiglio ha detto che in caso di crisi chiederebbe la fiducia alle Camere: Che bisogno c' è di lasciar pensare che ci possano essere altre maggioranze raccolte un po' qui e un po' lì come funghetti in Parlamento, magari recuperando uno Scilipoti?». Le ipotesi si sprecano: dalla Lega addirittura arrivano a pensare che potrebbe essere la parlamentarizzazione del dibattito sulla Tav, annunciata dal M5S, l' occasione per una crisi. Uno scenario che dallo staff di Conte smentiscono perché, dicono, «andrà come è andata con Radio Radicale, sarà una decisione in mano al parlamento e il governo non ci metterà bocca». Quella frase di Conte però tradisce il timore che una crisi possa far precipitare tutto. Ma per il premier - viene specificato in una nota - si tratta comunque di «regole elementari di trasparenza» che «non possono prestarsi a fraintendimenti o letture strumentali e malevoli per chi abbia un minimo di sensibilità istituzionale». In un rapporto che si consuma in estenuanti botta e risposta è l' ennesima stoccata a Salvini, che un pugno di minuti prima aveva detto di pensare a lavorare mentre «qualcuno in Senato chiacchierava di aria fritta».

Salvini: "Le parole di Conte? Mi interessano meno di zero". Salvini a muso duro dopo l'informativa sul caso Russia: "Fantasy di spionaggio". Mozione di sfiducia de Pd? "Fa ridere". Nico Di Giuseppe, Giovedì 25/07/2019, su Il Giornale. "Mi interessano meno di zero". Così il ministro dell'Interno, Matteo Salvini, ha commentato le parole del premier Giuseppe Conte mercoledì in Senato durante l'informativa sul caso Russia-Lega. "Mi alzo ogni mattina per andare al Viminale per lavorare, io finché posso far le cose sto al governo, se dovessi accorgermi che sto al governo per non fare le cose...", ha aggiunto il leghista parlando a Radio anch'io. Che poi ha bollato il caso Russia come "fantasy di spionaggio" e come "una storia dell'estate". "Ci pagano per far lavorare le persone, per sistemare strade e autostrade, Conte al Senato ha detto quello che dico io da settimane. Non ho mai preso un rublo, vado all'estero per far politica non per far accordi commerciali. Incontrare ministri è il mio lavoro, per l'interesse nazionale italiano". E ancora: "Conte ha detto quello che già sapevo. So perfettamente perché sono andato in Russia, chi ho incontrato, che non ho mai visto né chiesto soldi. Poi sentirsi accusare in Aula di altro tradimento o di essere al servizio di Putin fa ridere. La mozione di sfiducia del Pd fa ridere. Io vado a rispondere su elementi concreti e reali. La presunta accusa parla di 3 milioni di tonnellate di gasolio che è più della quantità di quello che Eni importa in Italia. È chiaro che siamo su Scherzi a parte". In merito alla minaccia dei No Tav di creare problemi di ordine pubblico sabato prossimo, Salvini è stato chiaro: "Speriamo non ci siano episodi di violenza, ma nel caso ci fossero verranno perseguiti come prevede la legge. Non tollereremo violenza contro le forze dell'ordine, niente resterà impunito".

Nel Russiagate italiano spunta l’ombra dei servizi stranieri. Roberto Vivaldelli su it.insideover.com il 25 luglio 2019. Quella che poteva sembrare un’affascinante teoria del complotto è diventata un’ipotesi molto diffusa tra analisti e commentatori nel raccontare le intricate trame dell’affaire Lega-Russia e l’incontro all’Hotel Metropol di Mosca del 18 ottobre 2018. Ossia l’ipotesi che dietro questa storia vi sia la regia occulta dei servizi segreti tedeschi e francesi. La vicenda è nota: lo scorso 8 luglio il sito liberal Buzzfeed – lo stesso che ha pubblicato il falso dossier sulla Russiagate redatto dall’ex spia britannica Christopher Steele contro Donald Trump – riprendendo in larga parte quanto già scritto a febbraio dal settimanale L’Espresso, ha lanciato un nuovo Russiagate, questa volta in Italia. Secondo il sito americano, Gianluca Savoini, presidente dell’Associazione Lombardia Russia, leghista da più di vent’anni, avrebbe incontrato, insieme all’avvocato massone Gianluca Meranda e all’ex Monte dei Paschi di Siena Francesco Vannucci, alcuni – non meglio identificati – emissari russi per negoziare i termini di un presunto accordo che avrebbe portato alla Lega decine di milioni di dollari. Il piano prevedeva, come ricorda il Corriere della Sera, e stando a questa ricostruzione, che l’azienda russa avrebbe venduto il carburante a un intermediario con lo sconto del 6% e poi l’intermediario lo avrebbe a sua volta rivenduto a prezzo pieno all’acquirente finale, creando così la provvista da girare, in nero, alla Lega (65 milioni) e ai funzionari russi. Valore dell’operazione: 1,5 miliardi di dollari. Tutti e tre gli italiani presenti al Metropol sono indagati per corruzione internazionale. Nell’attesa che i pm di Milano appurino la verità, analisti e commentatori hanno ipotizzato il ruolo dei servizi segreti stranieri in questa vicenda. Chi ha registrato l’incontro? Era una trappola per incastrare Matteo Salvini?

Lega-Russia, c’è lo zampino della Germania? Uno dei primi a ipotizzare un ruolo attivo dei servizi segreti tedeschi (e francesi) nella vicenda Savoini è stato Giulio Sapelli. Secondo il professore ordinario di Storia economica all’Università degli Studi di Milano, dietro all’inchiesta sui presunti fondi russi alla Lega di Matteo Salvini c’è la “manina” di Francia e Germania. Intervistato dalla Verità, l’economista sottolinea che “se uno deve veramente condurre un’operazione illegale non va a farlo nella hall dell’hotel Metropol, dove lo vedono tutti. Peraltro è stata tirata in ballo l’Eni…”. Anche secondo Sapelli a “Savoini è stata chiaramente tesa una trappola”. Una trappola magari orchestrata da Parigi e Berlino: “Non credo sia un caso se il Russiagate è scoppiato quasi in concomitanza con il premio consegnato a Parigi alla capitana tedesca, Carola Rackete, come campionessa dei diritti umani. Quando pure la magistratura italiana pare si sia accorta che la Rackete ha solo violato la legge”. Chi vede la “manina tedesca” in questa vicenda è soprattutto l’Huffpost: “Se dei giornalisti sapevano, a maggior ragione è probabile che anche l’intelligence straniera che opera in Russia sapesse e tenesse sotto controllo i protagonisti italiani, ben noti nelle vicende russe per posizioni e attività. E in Russia operano tutti i Servizi occidentali, ma di questi il tedesco rimane comunque quello con maggiore agibilità nella ex oltre cortina”. Si tratta soltanto di un’ipotesi ma “si può però dire con certezza che l’operazione è il secondo atto in due mesi di una trappola ostile costruita contro i sovranisti d’Europa”. Il primo atto, naturalmente, ha colpito l’austriaco Heinz-Christian Strache, leader del Freedom Party, incastrato con un video girato nel 2017 in una villa di Ibiza, dove Strache prometteva a Aljona Makarowa, sedicente nipote di un oligarca russo vicino a Putin, licenze per gioco d’azzardo, la vendita di un vecchio hotel di lusso, contratti per costruire una nuova autostrada, arrivando a suggerire l’acquisizione del Kronen Zeitung. Il video che incastrava Strache fu pubblicato Il 17 maggio 2019, esattamente alle ore 18.00, dal settimanale tedesco Der Spiegel, dal Die Süddeutsche Zeitung e dal settimanale austriaco Der Falter. Fu quindi la stampa tedesca a lanciare l’offensiva contro il politico sovranista austriaco: chi aveva teso la trappola a Strache? Chi ha fornito il video alla stampa tedesca? Annunziata si chiede se “è questo l’inizio di un nuovo ruolo della Germania in Europa, una leadership che si schiera contro i sovranisti, che non si nasconde più (anche perché non c’è più spazio per farlo) dietro la funzione tecnica del guardiano di Maastricht?”.

Non solo tedeschi: e se ci fosse lo zampino anche di inglesi e americani? Scartata l’ipotesi della “vendetta russa”, secondo la quale i russi avrebbero voluto vendicarsi di Matteo Salvini per la “svolta” neo-atlantista del suo partito, è più probabile che, seguendo invece la pista tedesca, i servizi di Berlino non abbiano agito da soli ma di concerto con servizi segreti di altri paesi europei. “La Germania non potrebbe politicamente agire da sola, perché nel corso di tutta la Guerra Fredda in quanto avamposto dello scontro con i sovietici, ha sempre lavorato insieme a inglesi, francesi e americani” afferma un esperto d’intelligence citato dall’Huffpost. Sicuramente i rapporti fra la Lega e la Russia avevano ricevuto molte attenzioni da parte del Regno Unito e della sua intelligence. Le attività dell’Associazione Lombardia-Russia di Gianluca Savoini, nonché i rapporti di Matteo Salvini e della Lega con il Cremlino, erano finiti da tempo nel mirino di Integrity Initative, istituita nell’autunno 2015 dall’Institute for Statecraft in collaborazione con la Libera Università di Bruxelles (Vub) per “portare all’attenzione di politici, politici, opinion leader e altre parti interessate la minaccia rappresentata dalla Russia per la democrazia istituzioni nel Regno Unito, in Europa e Nord America” (QUI il rapporto sulla Lega e la Russia). Sebbene sostenga di non essere un “ente governativo” il 95% dei finanziamenti che vanno a Integrity Initative proviene direttamente dal governo britannico, dalla Nato e dal Dipartimento di Stato americano, da sedicenti imprenditori tedeschi. L’account twitter di Integrity Iniative, oltre a supportare i White Helmets in Siria – naturalmente denunciando i presunti crimini russi – e sostenere le dichiarazioni dei politici ucraini in funzione anti-russa, ritwitta Alberto Nardelli (l’autore dell’inchiesta di Buzzfeed sul caso Savoini) e il 24 febbraio scorso condivideva su facebook un post inerente l’inchiesta dell’Espresso sui presunti fondi russi alla Lega. Insomma, Savoini e Matteo Salvini erano “sorvegliati” da un’organizzazione finanziata dal governo di Sua Maestà ma anche dall’Alleanza atlantica, di cui l’Italia fa parte. Singolare, no?

D’altro canto nella “seconda Guerra Fredda”, così come l’ha definita il Council on Foreign Relations (Cfr) americano, l’affaire Lega-Russia assume significati che vanno ben oltre la vicenda giudiziaria…

Debora Serracchiani: "Salvini ha voluto scambiare 65 milioni di dollari". Dario Galli: "E i 1046 indagati Pd?" Libero Quotidiano il 25 Luglio 2019. "Matteo Salvini ha voluto scambiare 65 milioni di dollari", attacca Debora Serracchiani, ospite a L'aria che tira su La7. Ma Dario Galli, della Lega, la asfalta: "Allora perché non parliamo dei 1046 indagati del Pd e del Giglio Magico?". Lo scontro tra la dem ex governatrice del Friuli Venezia Giulia e il leghista si consuma sul Russiagate. Galli minimizza il caso e spiega alla Serracchiani: "Se verrà fuori che ci sono stati movimenti di soldi nei confronti della Lega ci sarà un problema della Lega che dovrà giustificare, ma in questo momento non c'è".

«Savoini va accreditato». Ecco la mail del Viminale che smentisce Salvini. Pubblicato venerdì, 26 luglio 2019 da Fiorenza Sarzanini su Corriere.it. «Agli incontri del signor Ministro con le autorità russe saranno presenti anche l’onorevole Claudio D’Amico e il dottor Gianluca Savoini»: eccola la mail che smentisce la versione del titolare dell’Interno Matteo Salvini. È stata inviata mercoledì 11 luglio 2018 alle 15.27 dal capo cerimoniale del ministero dell’Interno all’Ambasciata italiana a Mosca.Il leader leghista ha sempre negato che Savoini facesse parte della delegazione, ma i documenti allegati alla relazione consegnata dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte al Parlamento ricostruiscono ogni passaggio. E rivelano il ruolo di primo piano a lui assegnato per quella missione, proprio su richiesta del Viminale. Carte che potrebbero rivelarsi preziose anche per l’inchiesta avviata dai magistrati di Milano proprio per chiarire che cosa accadde prima dell’incontro del 18 ottobre 2018 al Metropol, quando Savoini trattò con tre russi e due italiani una fornitura di carburante per fare arrivare nelle casse della lega 65 milioni di dollari. Numerosi elementi sulla rete di contatti sono gia stati acquisiti grazie all’esame di computer e telefonino di cui Savoini ha chiesto ieri il dissequestro. Si torna dunque all’estate di un anno fa. Il governo è insediato da poco più di un mese, Salvini programma un bilaterale per il 16 luglio 2018 per incontrare presso la sala delle riunioni del Ministero dell’Interno della Federazione Russa i rappresentanti del Consiglio per la sicurezza nazionale, Yuri Averyanov e Alexandr Venediktov, e il ministro dell’Interno Vladimir Kolokoltsev. Cinque giorni prima, l’11 luglio, parte la richiesta del Viminale. Il 13 luglio «con nota verbale della Ambasciata italiana a Mosca indirizzata al Ministero degli affari esteri della Federazione Russa veniva comunicata la lista della delegazione ufficiale e dei partecipanti agli incontri in programma e in entrambe le liste erano presenti l’onorevole Claudio D’Amico e il dott. Gianluca Savoini, indicati nello “Staff del Ministro Salvini”». Il 10 luglio scorso, quando il sito Buzzfeed pubblica gli audio della riunione al Metropol, Salvini prende le distanze da Savoini. nega che abbia mai fatto parte del suo staff. E di fronte alle foto dell’incontro di un anno fa afferma: «Posso produrre i documenti di chi ha viaggiato con me. Savoini al tavolo? Che ne so cosa ci facesse, chiedete a lui». Versione che il premier Conte demolisce nel corso dell’audizione in Senato. Ora rimane il mistero su chi abbia finanziato i viaggi di Savoini e quelli di Claudio D’Amico, il consigliere strategico di Salvini a palazzo Chigi, che fanno la spola tra l’Italia e Mosca almeno una volta al mese. E insieme guidano l’associazione Lombardia Russia, ritenuta strategica per curare le relazioni tra i due governi. Il 22 luglio il Corriere ha presentato una richiesta di accesso agli atti alla presidenza del Consiglio per conoscere i dettagli delle missioni svolte per conto del governo, con i relativi costi e ieri sera è stata data la risposta ufficiale. Secondo le informazioni raccolte dal segretario generale di palazzo Chigi «il consigliere Claudio D’Amico dal 29 agosto 2018 è stato inserito, con decreto del Vice Presidente Salvini, nei suoi uffici di diretta collaborazione, come consigliere per le attività strategiche di rilievo internazionale, con un compenso annuo lordo di euro 65.000. Dal 29 agosto 2018 ad oggi, il consigliere D’Amico si è recato una sola volta in missione istituzionale in Russia (a Mosca) dal 16 al 18 ottobre 2018». È la trasferta durante la quale Salvini partecipa all’evento organizzato all’hotel Lotte dai vertici di Confindustria Russia Luca Picasso ed Ernesto Ferlenghi. Il 17 ottobre al termine del convegno, il ministro ha un incontro di «massima riservatezza», poi partecipa alla cena al ristorante Rusky dove è invitato anche Savoini. La mattina dopo c’è la riunione al Metropol, con Savoini, l’avvocato Gianluca Meranda e il suo socio Francesco Vannucci. Scrive palazzo Chigi: «Per quanto il signor Gianluca Savoini, nessun costo o missione è stata mai posta a carico della Presidenza non esistendo alcun rapporto di collaborazione e/o consulenza del signor Savoini e in occasione della missione del 16-18 ottobre 2018 il signor Savoini non ha fatto parte della delegazione al seguito del Vice Presidente Salvini».

Thomas Mackinson e Luigi Franco per “il Fatto quotidiano” il 31 luglio 2019. Gli interessi in valuta estera di Savoini non sono iniziati coi rubli. Prima dell' incontro al Metropol di Mosca, c' è stato quello a Le Méridien di Parigi. Prima di quella russa, una pista marocchina passata per la Francia e finita in una turca. Una storia dal copione molto simile che il Fatto rivela per la prima volta. Siamo nella primavera 2016, due anni prima del famoso incontro dell' hotel moscovita. Al centro c' è sempre l' ex portavoce e uomo di fiducia di Matteo Salvini oggi indagato per corruzione internazionale nell' inchiesta su rubli e petrolio. La scena, riferita da due fonti convergenti, è da film. Gianluca Savoini è seduto in un bistrot di boulevard Pereire, non lontano dall' Arc de Triomphe, con un' altra persona. A un certo punto i due si passano fugacemente un plico alto come un pacchetto di Marlboro, fasciato in fogli di giornale. Al suo interno ci sono 150mila euro in contanti. Savoini va in bagno a contare la sua parte, un altro cliente irrompe e le banconote nuove di zecca finiscono dritte nello scarico. Lui le ripesca dal fondo della turca e le pulisce una a una. Di nuovo al tavolo, i due italiani se la ridono di gusto. Incidente a parte, hanno fatto un ottimo affare. Mezz' ora prima - raccontano le fonti - nella sala de Le Méridien Etoile, a due passi dall' Ambasciata del Marocco, hanno ricevuto il prezioso plico dalle mani di Mohamed Khabbachi, ex direttore generale dell' agenzia di stampa nazionale Map, emissario di re Mohammed VI per le attività di lobby su scala europea, Italia compresa. Il suo profilo WhatsApp riporta tutt' ora una veduta della stazione centrale dal Pirellone, dove Savoini è stato capo ufficio stampa e oggi è vicepresidente Corecom. Qual era la contropartita di quel denaro? Savoini era a Parigi per un affare privato o per conto della Lega? Raggiunto sul cellulare della moglie, l' ex portavoce di Salvini riattacca al primo accenno alla vicenda. Monsieur Khabbachi, che in Marocco ha fama di essere ufficiale di collegamento tra il mondo dei Servizi e la manipolazione dei media a fin di propaganda, nega: "Sono un giornalista, seguo cosa succede nel mondo, ma non dò soldi". Chiede poi di essere richiamato dopo un' ora, e invece non risponderà più al telefono e neppure alle domande inviate via WhatsApp che sicuramente ha letto, come dimostra la spunta blu sui messaggi. Cosa c' è dietro? "L' incontro all' hotel Le Méridien - spiega una fonte - era stato organizzato per definire una lista di aziende italiane da segnalare per futuri appalti in Marocco e per garantire una copertura di stampa favorevole al governo di Rabat". A spianare la strada è stata una missione leghista in Marocco di ottobre 2015, quando Salvini e Savoini vanno alla corte di Re Mohammed dove, tra gli altri, incontrano un magnate della tv e i ministri dell' immigrazione e dei lavori pubblici. La delegazione ricorda l'armata Brancaleone: "Abbiamo incontrato ministri con due lauree prese negli Usa, Salvini non sapeva neanche parlare francese. I marocchini sembravamo noi", racconta Claudio Giordanengo, organizzatore del tour nonché dentista di Paesana (Cuneo) che si presentava come "responsabile esteri della Lega" e a marzo si è candidato a Saluzzo. Giordanengo conosce Savoini dal 1997 e ha un' antica amicizia con Mario Borghezio, che si è personalmente speso sul fronte marocchino per arginare l' attrazione dei leghisti della prima ora verso il fronte indipendentista e islamista del Polisario. Borghezio ricorda quella delegazione come "qualcosa di non esattamente ufficiale, di quelle che fanno i politici e qualche imprenditore a carattere non voglio dire turistico, ma quasi". Nella delegazione ci sono anche due figure esterne al partito. Sono Massimo Gerbi, figlio dell' ex patron del Torino calcio Mario Gerbi, e Kamal Raihane, ex agente di leve calcistiche del Maghreb che in quel periodo faceva sfoggio di foto con Salvini e rivendicava: "Gli ho organizzato l' incontro con alcuni esponenti del mondo politico marocchino. S' è parlato di politica e non solo. Un incontro costruttivo". Da fine 2017 Raihane è titolare di Eurafrica srl, una società di Torino da 10mila euro di capitale sociale, che si occupa di procacciamento di affari. Al Fatto non ha risposto sul suo ruolo nella comitiva leghista. Più loquace è Giordanengo: "L'iniziativa era nata con un intento provocatorio: la Lega che va a parlare di immigrati in Marocco". C' erano altri interessi? "C'era un interesse parallelo, credo legittimo, di unire alla missione politica anche la presentazione di aziende interessate a operare in Marocco. Se poi ci sono stati altri personaggi che hanno stabilito rapporti economici non lo so". Salvini rimane soddisfatto delle missione, come folgorato dal Marocco. L' 1 novembre 2015 twitta "È una terra stupenda", e in un' intervista al Corriere afferma: "Qui in Marocco si deve investire". Qualcuno lo ha preso in parola. Nelle settimane successive i rapporti con gli emissari del governo di Rabat andranno avanti, suggellati da più visite di Khabbachi a Milano, fino all' appuntamento clou di Parigi, all' hotel Le Méridien Etoile. Ma qui, proprio come a Mosca, non fila tutto per il verso giusto. Khabbachi dà conto a Savoini e al compagno di un incidente che ostacola le operazioni di intermediazione per cui si erano spesi: i dossier delle imprese italiane erano da tempo sulla scrivanie delle autorità marocchine, già verificati. I due italiani restano di sasso: non avevano ancora fornito alcun elenco. Qualcuno li ha battuti sul tempo. I sospetti ricadono subito sugli intermediari marocchini, ma poco importa. A ore torneranno via aereo in Italia con il premio di consolazione nascosto nella giacca, nei pantaloni e nelle scarpe. Dal fondo della turca, la parte di Savoini finirà nella cassetta di sicurezza di una banca.

Lega e fondi russi, «Savoini non è negli elenchi degli stranieri presenti in Russia». Pubblicato giovedì, 08 agosto 2019 da Corriere.it. Gianluca Savoini è stato in Russia almeno 14 volte nel 2018. Il suo nome, però, sarebbe introvabile sul database su cui il ministro dell’Interno russo registra l’ingresso nel Paese di ogni cittadino straniero. E una persona che fa ancora parte dello staff del ministro dell’interno Matteo Salvini, Claudio D’Amico, aveva un posto sul suo stesso aereo di Savoini (sia all’andata, sia al ritorno) lo stesso giorno dell’incontro al Metropol, il 17 ottobre 2018, in occasione del quale il presidente dell’associazione Lombardia-Russia (nonché responsabile per la Lega dei rapporti con Mosca) avrebbe trattato con tre russi e due italiani una fornitura di carburante per fare arrivare nelle casse della lega 65 milioni di dollari, circostanza che il partito ha sempre smentito e su cui è stata avviata un’inchiesta dai magistrati di Milano. Sono queste le rivelazioni contenute nella nuova inchiesta realizzata da BuzzFeed News, Bellingcat (una piattaforma investigativa che ha realizzato diverse inchieste sulla Siria, anche in collaborazione con il New York Times, e ha scoperto l’identità dell’uomo che ha avvelenato l’ex spia russa Skripal ) e The Insider e pubblicata sulla testata online americana l’8 agosto. L’assenza del nome di Savoini sul Central Database for the Registration of Foreigners — chiamato “Database dei migranti” — riguarda gli ultimi cinque anni e sarebbe, secondo Buzzfeed, spiegabile solo in due modi: o Savoini beneficia di uno status privilegiato, o i suoi dati sono stati cancellati ex post. Secondo Buzzfeed, il database è compilato sulla base delle informazioni che i viaggiatori di nazionalità non russa sono tenuti a fornire prima di essere ammessi nel Paese. Savoini non ha risposto alla richiesta di chiarimenti in merito della testata Usa. D’Amico, 53 anni, è un ex parlamentare della Lega, è stato capo di gabinetto di Roberto Calderoli ed è sposato con Svetlana Konovalova, bielorussa che è stata interprete di Umberto Bossi. Attualmente, oltre ad essere il «Responsabile sviluppo progetti» dell’Associazione Lombardia-Russia, lavora nell’«Ufficio di diretta collaborazione» di Salvini in qualità di «Consigliere per le attività strategiche di rilievo internazionale del vicepresidente Sen. Salvini». Non si sa se D’Amico abbia partecipato all’incontro al Metropol: Buzzfeed riferisce che non ha risposto alle richieste di chiarimento in merito. Secondo la ricostruzione dei fatti di Buzzfeed, il 18 ottobre 2018 all’hotel Metropol di Mosca «uno stretto collaboratore» del vicepremier Salvini — Gianluca Savoini — ha incontrato tre uomini russi per «negoziare» un accordo che avrebbe portato alla Lega decine di milioni di dollari. La testata Usa ha pubblicato anche una registrazione audio di quell’incontro (qui la trascrizione). La replica del vicepremier leghista è stata immediata e secca: «Mai preso un rublo, un euro, un dollaro o un litro di vodka di finanziamento dalla Russia», ha detto Matteo Salvini. «Ho già querelato in passato, lo farò anche oggi, domani e dopodomani», ha aggiunto. Il leader leghista ha inoltre sempre negato che Savoini facesse parte della delegazione ufficiale, circostanza contraddetta da una mail del Viminale. Anche Savoini ha smentito: «Finanziamenti zero. I soldi non ci sono mai stati e quindi querele a raffica». Dopo le rivelazioni di Buzzfeed la procura di Milano ha rivelato che stava indagando sulla vicenda da febbraio, quando era stata pubblicata una ricostruzione dal settimanale l’Espresso. Savoini, indagato insieme a Gianluca Meranda e Francesco Vannucci, si è avvalso della facoltà di non rispondere quando è stato interrogato dai magistrati.

Le 17 missioni russe di Savoini, prima e dopo il Metropol. Le relazioni moscovite della Lega. In alcuni dei viaggi era assieme a D’Amico: alla frontiera non venivano schedati. Paolo G. Brera il 09 agosto 2019 su La Repubblica. Prima e dopo quella mattina d'affari torbidi nella hall dell'hotel Metropol di Mosca, Gianluca Savoini - consigliere e amico di Matteo Salvini - ha fatto su e giù decine di volte: Milano-Mosca e ritorno, per lo più, con puntate toccata e fuga di un giorno o due. Almeno 14 missioni nel 2018, e almeno tre quest'anno. In molti di questi voli, accanto a lui c'era Claudio D'Amico, il consulente strategico di Salvini per gli affari internazionali. I loro nomi sono spesso insieme nell'elenco delle prenotazioni aeree divulgato ieri da un'inchiesta giornalistica internazionale che ha rivelato anche un altro bel mistero: Come fantasmi, i loro passaggi non lasciano tracce nelle registrazioni obbligatorie ai varchi aeroportuali. Nel database del ministero degli Interni russo, in cui i giornalisti dicono di avere spulciato, i loro nomi non ci sono.

Savoini e il caso Lega-Russia: cosa c'è da sapere. L'ultimo capitolo di Moscopoli, la trattativa sul petrolio russo con cui la procura di Milano sospetta che la Lega volesse finanziare la corsa alle Europee, è firmato insieme da BuzzFeed, Bellingcat e dal russo The Insider. L'elenco dei voli a cui ha preso parte Savoini, spiegano i tre media, è "in un database online non indicizzato (cioè non accessibile con i motori di ricerca, ndr) con le prenotazioni online, utilizzato da dipartimenti russi per la sicurezza aziendale". Dati che sono stati poi "incrociati con l'attività social" dei protagonisti. Per ogni viaggio vengono indicati la data e la rotta, la compagnia e il numero del volo. E si dà prudentemente atto che sono prenotazioni e non voli. Ma è il mondo dei social a collocare poi effettivamente Savoini in Russia in molte date compatibili con le prenotazioni. Un assiduo, Savoini. Nulla si sa del motivo di tutte quelle prenotazioni, di tutti quei voli ravvicinati, di quella lunga serie di blitz prenotati. Ma certo collima coi sospetti della procura di Milano: i magistrati che indagano sulla trattava del Metropol ipotizzano che il tentativo di portare a casa l'accordo sia durato molto più a lungo di una mattina di vodka e caffè nero nel lussuoso albergo dei misteri, il 18 ottobre. E Savoini, a Mosca, c'era. Vola quasi sempre Aeroflot. Prima dell'incontro al Metropol, i viaggi si infittiscono. Eccolo il 21 settembre sul "Su2415" da Milano a Mosca, con ritorno il 24 sul "Su2404". Riparte il 4 ottobre e rientra il 6. Eccolo ancora a Mosca il 16, e il 18 - dopo la riunione al Metropol - riparte per Milano. Ma non passano neanche sei giorni e riecco il suo nome: decollo il 24, rientro il 28. Altri due voli a novembre, con puntata interna a Kazan (andata e ritorno in giornata, da e per Mosca, il 30 novembre). E torna a Mosca a dicembre, a gennaio, a febbraio e a marzo di quest'anno. I tasselli dell'inchiesta giornalistica sono compatibili con quelli dell'inchiesta giudiziaria: la procura ipotizza una trattativa durata almeno fino a febbraio. L'ultimo volo scovato dai segugi dei media è il "Su2613" del 15 marzo, con rientro il 18 sul volo "Su2414". Il vice premier Matteo Salvini ha più volte preso le distanze dal suo amico ed ex collaboratore Savoini con un'alzata di spalle. Ma non può fare altrettanto con D'Amico, il suo consulente strategico cofinanziatore con Savoini dell'attività economica di cui è stato direttore in Russia (la Orion Ltd): era con Savoini anche sul Milano-Mosca e ritorno di ottobre, alla vigilia e dopo l'incontro del Metropol. Ed era accanto a lui ameno un paio di volte quest'anno, e un altro paio prima del Metropol. Eppure, nessuno dei due lascia le inevitabili tracce ai varchi obbligatori, quelli che registrano i dati di tutti gli ingressi e le uscite riversandoli nel "Database centrale per la registrazione degli stranieri" presso il ministero degli Interni russo. Evidentemente ricevevano un trattamento speciale.

Scandalo Russia-Lega, BuzzFeed: «Ecco i protagonisti dello scandalo petrolifero». Pubblicato martedì, 03 settembre 2019 su Corriere.it. Si aggiunge un tassello alla vicenda che ruota attorno alla trasferta a Mosca, nell’ottobre 2018, del leader della Lega Matteo Salvini (che non ha voluto riferire in Parlamento né fornire spiegazioni al premier Giuseppe Conte) e alla trattativa che Gianluca Savoini e altri due italiani avrebbero portato avanti con tre cittadini russi, durante un incontro all’Hotel Metropol, per far arrivare finanziamenti alla Lega per 65 milioni di dollari attraverso la vendita di carburante. Anche questa volta è il sito BuzzFeed a rivelare nuove informazioni sul caso, dopo che in luglio aveva diffuso alcuni audio dell’incontro: due dei tre russi presenti alla cena sarebbero stati identificati. Si tratta - scrive BuzzFeed - di Andrey Yuryevich Kharchenko a Ilya Andreevich Yakunin: «Hanno legami con il demagogo di estrema destra di alto profilo Aleksandr Dugin e Vladimir Pligin, un politico profondamente invischiato nell’inner circle del presidente Vladimir Putin». BuzzFeed ha lavorato in collaborazione con il sito di giornalismo investigativo Bellingcat e con un nuovo sito russo di news Insider. Sono riusciti a identificare due delle tre voci attribuendole a Andrey Yuryevich Kharchenko a Ilya Andreevich Yakunin. «Dugin è il padre di un’ideologia che Putin ha abbracciato in anni recenti – continua BuzzFeed -, che vede una Russia rinascente baluardo contro l’ovest liberale». Mentre Pligin ha avuto un ruolo nella politica estera russa «lavorando a una bozza di legge» che certificasse nel 2014 l’annessione della Crimea. La tempistica della rivelazione è quanto mai singolare. Oggi la piattaforma Rousseau deve votare sull’alleanza tra il M5S e Pd per la nascita del nuovo governo. E tra i Cinquestelle sembrano non essere pochi i nostalgici dell’alleanza con la Lega naufragata in agosto. Ancora ieri Salvini ha difeso la sua amicizia con Savoini: «Su Russiagate non c'è nulla da chiarire. Se conosco una persona da 25 anni non sono uno che tradisce. Ritengo Savoini una persona perbene, lo difendo fino a prova contraria. C'è un'inchiesta che va avanti da mesi: ci dicano se qualcuno ha sbagliato. Se qualcuno ha preso un dollaro o un rublo illegalmente sono il primo a prenderlo a calci nel sedere, ma finora ho sentito solo chiacchiere».

(ANSA il 4 settembre 2019) Sono Andrey Yuryevich Kharchenko e Ilya Andreevich Yakunin due dei tre russi presenti all'incontro dell'hotel Metropol a Mosca del 18 ottobre. Lo rivela il sito BuzzFeed e, come apprende l'ANSA, la conferma della loro identificazione arriva anche da fonti vicine all'inchiesta che vede indagato, tra gli altri, il leghista Gianluca Savoini. Il nome di Yakunin era già emerso e i due russi, scrive BuzzFeed, hanno legami "con il demagogo di estrema destra" Aleksandr Dugin e con Vladimir Pligin, politico vicino a Putin. Il sito americano BuzzFeed già a luglio aveva diffuso l'audio dell'incontro all'hotel moscovita tra tre italiani, ossia Savoini, anche presidente dell'associazione LombardiaRussia, l'avvocato Gianluca Meranda e l'ex bancario Francesco Vannucci (tutti indagati per corruzione internazionale nell'inchiesta dei pm di Milano), e tre russi con al centro una presunta compravendita di petrolio per far arrivare 65 milioni di dollari alla Lega ma anche 'stecche' a funzionari russi. Ora BuzzFeed ha rivelato i nomi di due dei tre russi, gli stessi nomi, da quanto si è saputo, già sul tavolo degli inquirenti. "Hanno legami con il demagogo di estrema destra di alto profilo Aleksandr Dugin e Vladimir Pligin, un politico profondamente invischiato nell'inner circle del presidente Vladimir Putin", scrive il sito americano. "Dugin - scrive ancora BuzzFeed - è il padre di un'ideologia che Putin ha abbracciato in anni recenti che vede una Russia rinascente baluardo contro l'ovest liberale". Pligin, invece, prosegue il sito, ha avuto un ruolo nella politica estera russa lavorando anche "ad una bozza di legge" per dare l'avvallo all'annessione della Crimea. Nel frattempo, da quanto si è saputo, nell'inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e dai pm Sergio Spadaro e Gaetano Ruta sono stati già identificati tutti e tre i russi (il terzo uomo, tra l'altro, non sarebbe stato un semplice traduttore nell'incontro, come è stato scritto nelle scorse settimane) e, in particolare, Yakunin sarebbe stato un "veicolo" di intermediazione nella presunta trattativa. Nell'ipotesi della Procura, infatti, la presunta compravendita doveva servire anche a far arrivare denaro ad uno o più funzionari pubblici russi. Da qui l'accusa di corruzione internazionale.

(ANSA il 4 settembre 2019) - Gianluca Savoini, il leghista presidente dell'associazione Lombardia Russia indagato con l'avvocato Gianluca Meranda e l'ex bancario Francesco Vannucci nell'inchiesta su presunti fondi russi al Carroccio, ha deciso di non rinunciare al procedimento davanti al Tribunale del Riesame di Milano per discutere il ricorso contro i sequestri a sua carico effettuali lo scorso luglio. Da quanto ha appreso l'ANSA, il suo legale, l'avv. Lara Pellegrini, sta preparando una memoria da depositare nell'udienza di giovedì prossimo.

Moscopoli, identificato il secondo russo della trattativa al Metropol. Si tratta di Andrej Kharchenko e, come Repubblica aveva scritto, di Ilja Andreevich Jakunin. Entrambi legati il filosofo sovranista Aleksandr Dugin e a Vladimir Pligin, avvocato vicino al presidente Putin. Fino ad oggi l'identità del primo non era nota, e quella di Jakunin non confermata. La Repubblica il 03 settembre 2019. Rivelati i nomi dei protagonisti russi della "trattativa" all'hotel Metropol, avrebbero stretti legami con personalità di spicco nella politica russa. Un'indagine congiunta di BuzzFeed News, il sito web di giornalismo investigativo Bellingcat e il sito di notizie russo Insider ha identificato le voci ascoltate nella registrazione pubblicata a luglio: si tratta di Andrej Kharchenko e, come Repubblica aveva scritto, confermato la presenza di Ilja Andreevich Jakunin. Entrambi legati il filosofo sovranista Aleksandr Dugin e a Vladimir Pligin, avvocato vicino al presidente Putin. Fino ad oggi l'identità di Kharchenko non era nota, e quella di Jakunin non confermata. Nato in Azerbaigian nel 1980 e diventato cittadino russo 15 anni dopo, Kharchenko fa parte del Movimento Internazionale Euroasiatico fondato da Dugin e avrebbe viaggiato all'estero più volte con il filosofo, ad esempio nel novembre 2016 i due si sarebbero recati insieme nella penisola di Crimea annessa dalla Russia per incontrare una delegazione turca. Nello stesso mese sarebbero andati anche ad Ankara. L'inchiesta di BuzzFeed-Bellincat-Insider evidenzia stretti rapporti dei due russi sia con figure politiche che con organizzazioni statali: uno dei due avrebbe viaggiato usando un passaporto di servizio, concesso solo a delegazioni governative ufficiali. Questi elementi potrebbero essere fondamentali per l'indagine condotta dai pm di Milano, che ipotizza appunto la tentata corruzione di pubblici ufficiali russi: accusa che nasce dalla discussione sulla percentuale dei profitti destinata a restare nelle mani dei russi. Lo scandalo nasce il 10 luglio, quando BuzzFeed pubblica l'audio di un incontro riservato tenutosi nella hall dell'hotel Metropol di Mosca il 18 ottobre 2018. L'audio ripropone e rilancia un'inchiesta dell'Espresso a firma di Giovanni Tizian e Stefano Vergine che, nel febbraio scorso, aveva rivelato questa storia. A un tavolo si siedono tre italiani e tre russi. Non si sa chi faccia la registrazione. Gli italiani presenti sono il leghista Gianluca Savoini, presidente dell'Associazione Lombardia-Russia con sede in via Bellerio a Milano, l'avvocato d'affari Gianluca Meranda, il consulente finanziario Francesco Vannucci. Tra i russi c'è Ilja Andreevich Jakunin, il quale durante l'incontro specifica che avrebbe riferito i termini della conversazione a Vladimir Pligin, avvocato vicino al presidente Putin. Fino ad oggi era ignota al momento l'identità degli altri due. Con Andrej Kharchenko, ne resta uno solo che nell'audio viene chiamato Jurij. Le identità di Jakunin e Kharchenko sono state stabilite abbinando le loro voci ad altre registrazioni. La voce di Jakunin può essere ascoltata in un'intervista che ha condotto con il canale televisivo russo Arkhyz 24 nel dicembre 2017. La voce di Kharchenko è stata catturata da The Insider durante una telefonata del mese scorso. L'analisi di Bellingcat ha confermato definitivamente che le voci di Kharchenko e Yakunin corrispondono a quelle degli uomini sul nastro Metropol. Le registrazioni della voce di Jakunin, si legge su BuzzFeed, "sono state inviate agli specialisti del National Center for Media Forensics dell'Università del Colorado Denver per un'analisi forense completa (la qualità audio della voce di Kharchenko sul nastro Metropol non è abbastanza elevata per un'analisi così approfondita)". Né Dugin né Pligin hanno partecipato alla riunione Metropol del 18 ottobre ma entrambi sono citati nell'audio pubblicato da BuzzFeed. Una terza voce, non ancora identificata, dichiara però di aver bisogno della "luce verde" di Pligin prima di andare avanti con i negoziati. Mnetre Savoini cita "Aleksandr" Dugin che tra l'altro alla vigilia dell'incontro era stato fotografato mentre incontrava Savoini e Vannucci proprio davanti al Metropol. Raggiunto per telefono, Pligin ha dichiarato a Insider: "Non ho alcuna relazione con queste persone". Kharchenko, Jakunin e Dugin non hanno risposto alle molteplici richieste di commento né a domande dettagliate.

Bonifici, contanti e vendita di case nella rete del Metropol. Pubblicato martedì, 03 settembre 2019 da Florenza Sarzanini su Corriere.it. Prelevamenti in contanti in sequenza, trasferimenti di somme su conti esteri per milioni di euro, investimenti immobiliari effettuati da società o dai rappresentanti legali per spostare capitali: sono le «operazioni sospette» effettuate dagli uomini che hanno gestito i rapporti con la Russia per conto della Lega. È un rapporto riservato della Guardia di Finanza a svelare le segnalazioni arrivate negli ultimi mesi sulle movimentazioni di denaro che riguardano il consigliere di Matteo Salvini a palazzo Chigi Claudio D’Amico e l’ex portavoce Gianluca Savoini — protagonista dell’incontro del 18 ottobre scorso all’Hotel Metropol di Mosca durante il quale si discusse un finanziamento da 65 milioni di euro al Carroccio — ma anche alcune associazioni che sarebbero state gestite proprio per curare le relazioni tra i due Paesi e utilizzate come schermo per gli affari. Un fiume di denaro di cui si sta cercando di ricostruire origine e destinazione anche per accertare se alcuni passaggi possano essere serviti ad occultare i 49 milioni di rimborsi elettorali per il Carroccio che risultano spariti. Il report su D’Amico risale al 2012 ed è relativo «all’esecuzione di 14 prelevamenti in contanti in sequenza temporale (da gennaio 2011 a marzo 2012) per complessivi 110mila euro dal conto corrente intestato al Gruppo Lega Nord Padania presso il Banco di Napoli in seguito all’accreditamento di bonifici con cadenza mensile di 8.460 euro provenienti dalla Camera dei Deputati con causale “saldo ricevute”». Ma gli altri elementi ritenuti utili per le indagini riguardano l’associazione Lombardia-Russia che gestisce proprio con Savoini, così come la «Orion llc, società con sede a Mosca creata come rappresentanza commerciale di aziende». La «rete» tessuta da D’Amico e Savoini porta anche a Oleg Ossipov che ha gestito fino a due mesi fa la fondazione «Rossotrudnichstvo». È il padre di Irina Ossipova, l’interprete amica di Savoini che ha seguito Salvini nei numerosi viaggi in Russia e nel 2016 fu candidata al Comune di Roma per Fratelli d’Italia. Scrive la Finanza: «Ossipov risulta segnalato per rilevanti movimentazioni finanziarie che ammontano a 2 milioni 253mila euro tra aprile 2015 e marzo 2016. A fronte di consistenti bonifici dalla Russia sul suo conto (per circa 900mila euro) seguono bonifici in uscita (per circa 760mila euro) disposti a favore di altro conto corrente intestato a lui e ad altre cinque persone fisiche con causali riguardanti il pagamento degli stipendi». Strategica viene ritenuta pure l’associazione «Conoscere Eurasia» rappresentata da Antonino Fallico, presidente di Banca Intesa Mosca, che ha avuto un ruolo strategico nelle trattative del Metropol. Non a caso nel dossier viene citato l’avvocato Andrea Mascetti componente del board che viene menzionato nel corso della riunione proprio come partner affidabile. In questo intreccio spiccano le «segnalazioni» relative alla «Rosneft Oil Company» che, come evidenziano gli investigatori, «è controparte delle negoziazioni italo-russe durante l’incontro». Annota la Finanza: «Rosneft viene menzionata per l’operatività anomala riconducibile a Galina Lazareva, moglie del direttore finanziario Petr Ivanovich Lazarev. La donna è una libera professionista nel settore della compravendita immobiliare e riceve: da novembre 2016 ad agosto 2017 9 milioni di euro provenienti dalla Russia, in particolare 3 milioni di euro il 22 settembre 2016 da Banca Intesa Russia tramite bonifico disposto dal marito con causale “regalo”; bonifico per circa 3 milioni pervenuto sul conto corrente in dollari Usa giustificato come controvalore di dividendi percepiti in quanto socia della Winkler Limited con sede a Gibilterra; a novembre 2017 e gennaio 2018 ulteriori 5,4 milioni di euro di cui parte del coniuge Lazarev, giustificati quali saldo finanziario di una vendita di un immobile in Finlandia. A fronte della provvista sono stati emessi assegni circolari per 1,2 milioni di euro finalizzati all’acquisto di immobili; a maggio 2018 oltre 3 milioni e mezzo di euro da un conto russo per vendite immobiliari» sulle quali sono in corso ulteriori verifiche.

Inchiesta (presunti) fondi russi: dai telefoni di Savoini non risultano contatti con Salvini. Il Corriere del Giorno il 6 Settembre 2019. Stando agli esami sui due telefoni cellulari, sequestrati dalla Procura di Milano, al presidente dell’Associazione Lombardia-Russia nell’ambito dell’inchiesta milanese sui presunti fondi russi al Carroccio, non è emersa alcuna traccia di contatti diretti tra Savoini e il leader della Lega. Sarebbero emersi invece contatti preparatori allʼincontro al Metropol di Mosca tra il presidente dellʼassociazione LombardiaRussia e gli altri due italiani coinvolti. Secondo quanto si apprende in ambienti giudiziari della Procura di Milano dall’esito dell’analisi dei due telefoni sequestrati allo stesso Savoini e dell’esame dei tabulati telefonici, non risulterebbero contatti via chat, mail o telefono tra il presidente dell’Associazione LombardiaRussia Gianluca Savoini e il leader della Lega Matteo Salvini. Sarebbero invece emersi contatti preparatori all’incontro all’ Hotel Metropol di Mosca tra Savoini e gli altri due italiani coinvolti. Quindi stando agli esami sui due telefoni cellulari, sequestrati dalla Procura di Milano, al presidente dell’Associazione Lombardia-Russia nell’ambito dell’inchiesta milanese sui presunti fondi russi al Carroccio, non è emersa alcuna traccia di contatti diretti tra Savoini e il leader della Lega.  Dalle analisi effettuate dai consulenti tecnici incaricati dalla procura di esaminare documenti e file contenuti nei due smartphone, infatti non sono emersi scambi di chat, mail o telefonate tra il leader della Lega e il suo ex portavoce nel periodo compreso tra giugno 2018 e luglio 2019. Gli investigatori della Gdf, coordinati dall’aggiunto Fabio De Pasquale e dai pm Gaetano Ruta e Sergio Spadaro, avrebbero trovato nei telefoni di Savoini elementi utili (come chat ed email soprattutto) dai quali si evince che il leghista, ex portavoce di Salvini, avrebbe avuto una serie di contatti, almeno dal giugno dello scorso anno, preparatori all’incontro nell’albergo moscovita. Contatti, che emergerebbero anche dai tabulati, non solo con l’avvocato Gianluca Meranda e l’ex bancario Francesco Vannucci (gli altri due italiani indagati per corruzione internazionale) ma anche con persone legate ai tre russi (i due nomi emersi finora sono Ilya Andreevich Yakunin e Andrey Yuryevich Kharchenko ) che erano seduti al tavolo il 18 ottobre scorso. In particolare, Yakunin sarebbe stato un “veicolo” di intermediazione nella presunta trattativa. Nell’ipotesi della Procura, infatti, la presunta compravendita doveva servire anche a far arrivare denaro ad uno o più funzionari pubblici russi. Da qui l’accusa di corruzione internazionale.

Andrey Yuryevich Kharchenko e Ilya Andreevich Yakunin: hanno legami “con il demagogo di estrema destra” Aleksandr Dugin e con Vladimir Pligin, politico vicino a Vladimir Putin.

Uno dei due telefoni Savoini ora sotto sequestro è nuovo essendo  stato acquistato di recente. Giovedì mattina si è celebrata l’udienza davanti al Tribunale del Riesame di Milano che dovrà valutare la richiesta di dissequestro presentata dal difensore di Savoini.  I sospetti degli inquirenti , che sono ancora tutti da verificare, è proprio che, nel passaggio dal telefono vecchio a quello nuovo, non siano volutamente stati trasferiti alcuni file (come chat, video, mail o telefonate) utili allo sviluppo delle indagini. Il difensore di Savoini. L’ avvocato Lara Pellegrini, ha sostenuto l’inutilizzabilità dell’audio del Metropol, e depositato una memoria di 20 pagine . A suo avviso, non sapendo quale sia la provenienza e chi sia stato l’autore, non può essere posto a sostegno del decreto di perquisizione e del sequestro di luglio dei cellulari e di documenti. Decreto che, secondo la difesa, va annullato. I pm hanno invece insistito con la legittimità di quell’atto istruttorio in quanto ritengono la registrazione una “notizia di reato”. L’accusa nell’udienza a porte chiuse a cui non ha partecipato l’indagato ha insistito sulla legittimità del sequestro scattato lo scorso luglio. “Non essendo certa la provenienza del file non si può porre alla base di un provvedimento di sequestro”, spiega. “Se la captazione è illecita”, e non si conosce in che modo e da chi è stata fatta, aggiunge il difensore “allora non può legittimare un sequestro. Ho fatto anche un rilievo relativo a un problema di traduzione della conversazione che i pm hanno depositato”. Gli inquirenti stanno anche lavorando per identificare con certezza il funzionario o i funzionari che avrebbero dovuto intascare le presunte tangenti attraverso una compravendita di petrolio che avrebbe dovuto anche, stando alla registrazione audio dell’incontro, portare 65 milioni di dollari nelle casse della Lega. Ad acquistare il petrolio, stando sempre alla registrazione, avrebbe dovuto essere l’Eni, che ha più volte smentito ogni coinvolgimento nella vicenda.

Caso Russia-Lega, il «terzo uomo» ha l’immunità diplomatica. Pubblicato venerdì, 06 settembre 2019 da Mario Gerevini per il Corriere.it. Andrey Kharchenko, uno dei tre russi che erano seduti al tavolo dell’Hotel Metropol di Mosca lo scorso ottobre, risulterebbe membro ufficiale del corpo diplomatico dell’ambasciata russa in Italia con l’incarico di «Primo Segretario». L’accredito della Farnesina porta la data del 9 luglio 2019, soltanto 24 ore prima che esplodesse il caso Savoini-Salvini e dei presunti fondi russi alla Lega con la pubblicazione dell’audio della trattativa. L’appartenenza del misterioso Kharchenko allo staff dell’ambasciatore Sergey Razov risulta al Corriere da documenti ufficiali e da riscontri con fonti attendibili. Pochi giorni fa il sito Usa BuzzFeed, che lo scorso luglio aveva pubblicato gli audio della riunione, ha rivelato di aver identificato due dei tre russi presenti al Metropol con i tre italiani (già tutti noti). Ma se di Ilya Yakunin già si sapeva perché il nome era stato fatto dall’Espresso, il primo a far emergere la controversa storia, il nome del tutto nuovo è appunto Kharchenko, 39 anni, azero di origine, legato ad Aleksandr Dugin, filosofo e politologo sovranista in forte sintonia con Putin.

Mettiamo in fila le date per capire. Il 18 ottobre 2018 tre russi e tre italiani seduti intorno a un tavolo dell’Hotel Metropol di Mosca, tra caffè, sigarette e microfoni che registrano, trattano la possibile compravendita di 3 milioni di tonnellate di petrolio da un’azienda russa all’Eni (che ha smentito più volte). Il piano prevede, in sintesi, che l’azienda russa venda il carburante a un intermediario con lo sconto del 6% e poi l’intermediario rivenda a prezzo pieno all’acquirente finale, creando così la provvista da girare, in nero, alla Lega (65 milioni) e ai funzionari russi. Valore dell’operazione: 1,5 miliardi di dollari. Il presunto affare però non si sarebbe mai chiuso e ora indaga la Procura di Milano.

Il 10 luglio 2019 BuzzFeed pubblica l’audio dell’incontro. C’era Gianluca Savoini, presidente dell’associazione LombardiaRussia, un leghista amico di vecchia data di Matteo Salvini. Gli altri due italiani spuntano fuori nel giro di pochi giorni: l’avvocato Gianluca Meranda e il bancario in pensione Francesco Vannucci. Professionisti di provincia, figure mediocri che sembrano fuori ruolo per un affare così complesso e importi così elevati.

Il 22 agosto il ministero degli Esteri predispone l’ultimo aggiornamento sulle missioni straniere in Italia. E’ un’anagrafe dettagliata di tutto il personale diplomatico. A pagina 169 della lista, capitolo Ambasciata di Russia, compare per la prima volta Andrey Kharchenko (senza il patronimico «Yuryevich»). Tra parentesi la data ufficiale di accreditamento: 9 luglio 2019. E’ lui? E’ l’uomo del Metropol? Sì, secondo le fonti interpellate dal Corriere. L’ambasciata e il consolato russi, cui è stata inviata una dettagliata richiesta di chiarimenti per confermare o eventualmente smentire tale ricostruzione, non hanno risposto. Se dunque fosse confermato, come risulta al Corriere, che Kharchenko è a tutti gli effetti un diplomatico, gode di immunità in Italia. Dal giorno prima che scoppiasse il caso. E ovviamente nessun pm potrà mai costringerlo a spiegare che cosa ci facesse al Metropol o farsi raccontare cosa faccia davvero nella vita Andrey Kharchenko.

Intanto, ieri, dall’inchiesta dei magistrati milanesi è emerso che l’analisi dei due cellulari di Savoini avrebbe escluso ogni genere di contatto con Salvini. Resta però da chiarire se non vi fossero altri telefoni in uso al faccendiere.

IL CASO RUSSIAGATE ORA TOCCA UFFICIALMENTE ANCHE L'ENI. Davide Milosa per il “Fatto quotidiano” il 24 settembre 2019. Il caso Russiagate ora tocca ufficialmente anche l' Eni. Nella prima settimana di settembre, infatti, la Procura di Milano ha inviato una richiesta di acquisizione atti alla sede centrale del colosso petrolifero. Richiesta alla quale la società del cane a sei zampe ha risposto esibendo alla Guardia di finanza quanto chiesto dai pm Gaetano Ruta e Sergio Spadaro. Si tratta di un'acquisizione di atti e non di una perquisizione. Al momento nessun dirigente di Eni risulta iscritto nel registro degli indagati. Ma certo il passo della Procura, arrivato dopo tre mesi dall' acquisizione dell' audio dell' hotel Metropol e dall' iscrizione di Gianluca Savoini per corruzione internazionale, è di quelli importanti perché segna con chiarezza la direzione presa dall' indagine. Al centro dell'inchiesta c'è una compravendita di petrolio per 1,5 miliardi di dollari (6 milioni di tonnellate metriche di gasolio).Vende uno dei colossi russi (Rosneft e Gazprom), acquista, stando all' audio registrato il 18 ottobre ai tavoli dell' hotel Metropol di Mosca, proprio l'Eni che, però, fin dal luglio scorso, quando si è saputo dell' inchiesta giudiziaria, ha negato ogni suo coinvolgimento. Da questa vendita, spiegherà l' avvocato d' affari Gianluca Meranda - anch' egli indagato per corruzione internazionale come pure il consulente finanziario Francesco Vannucci (entrambi presenti al Metropol con Savoini e tre russi) - dovranno uscire 65 milioni di dollari da far arrivare sui conti della Lega di Matteo Salvini in vista delle elezioni europee del maggio scorso. In quel momento, Savoini rappresenta l' uomo dell' allora vicepremier per i rapporti con personaggi influenti vicini a Putin. La richiesta avanzata dalla Procura all' Eni riguarda elementi emersi durante l' indagine. I pm hanno delegato la Finanza ad acquisire tutti i documenti relativi a rapporti finanziari tra società del gruppo Eni e società terze. Il riserbo resta massimo. Sul tavolo della Procura, al momento, non sono arrivate informative relative all' analisi degli atti che sono ancora in via di acquisizione e di studio da parte degli esperti della Guardia di finanza. Rapporti tra società terze e società del gruppo Eni sono già emersi in atti pubblicati dall' Espresso e acquisiti dalla Procura. Durante l' incontro del Metropol, al quale sono presenti due russi legati all' entourage del presidente Putin, Meranda spiega: "Abbiamo Eni che sarà dalla parte italiana. Abbiamo una compagnia petrolifera russa e abbiamo due società nel mezzo. La banca e una società russa che firmerà il contratto con la banca". Meranda, nel periodo del presunto affare, è il general counsel della banca d' affari londinese Euro-Ib che già il 29 ottobre 2018 prepara una richiesta di fornitura a Rosneft. I parametri sono quelli discussi al Metropol. Su tavoli diversi si muove Savoini che invia una richiesta di fornitura anche a Gazprom. La società russa, però rifiuta perché, spiega, non è specificato l'acquirente, che dall' audio del 18 ottobre dovrebbe essere Eni. Savoini invia la lettera a Meranda che l' 8 febbraio gli risponde allegando un documento di referenze commerciali firmato da Eni Trading and Shipping (società del gruppo Eni) a favore della Euro-Ib di cui Meranda è consulente. L'avvocato, nella lettera, spiega a Savoini che la banca acquista per vendere a Eni. Questo quanto emerso dalle indagini. Al momento, però, non vi è conferma che gli atti acquisiti in Eni riguardino proprio il rapporto tra Euro-Ib ed Eni Trading and Shipping. Di certo, come scritto dal Fatto, anche Savoini ha avuto rapporti con il colosso petrolifero italiano. Una fonte politica qualificata lo colloca con Salvini a un incontro con l'ad di Eni Claudio Descalzi avvenuto a primavera. Incontro che la società ha negato. Nessun mistero, invece, sulla reciproca stima tra l' ex vicepremier e Descalzi. Oggi, intanto, si terrà l'incidente probatorio per acquisire i messaggi della chat segreta di Savoini. Mentre dai dati analizzati negli altri telefoni si capisce che la preparazione del vertice al Metropol inizia a giugno con un primo incontro con i russi avvenuto a Roma già nel mese di luglio.

Sandro De Riccardis e Luca De Vito per “la Repubblica” il 24 settembre 2019. Documenti per capire quali sono i rapporti tra il gruppo Eni e società terze, nell' ambito dell' inchiesta Moscopoli. A inizio settembre, la procura di Milano ha chiesto e ottenuto dalla società di San Donato carte aziendali per far luce sull' eventuale ruolo del Cane a sei zampe nella presunta trattativa intavolata al Metropol di Mosca il 18 ottobre: incontro che secondo l' accusa è stato organizzato dal leghista Savoini per discutere una compravendita di petrolio russo con lo scopo di finanziare la Lega. Non è chiaro quali siano i riscontri che i pm Segio Spadaro e Gaetano Ruta, coordinati dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, stanno cercando. Al momento, l'unico collegamento tra Eni e altre società emerso in questa vicenda è quello di cui ha scritto l' Espresso, citando un carteggio tra Meranda e Savoini, i due partecipanti all' incontro insieme a Vannucci (tutti e tre indagati per corruzione internazionale): in una lettera di referenza commerciale firmata da Eni Trading and Shipping si dice che la Euro IB Ltd, la banca d' affari per cui lavorava Meranda, avrebbe avuto a che fare con la società in diverse occasioni. Dalla registrazione al Metropol emerge come Eni, nei dialoghi degli italiani, dovesse essere l' acquirente finale. Da qui la necessità di vederci più chiaro. Oggi il Nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza proverà anche a estrapolare informazioni dal cellulare di Savoini, alla presenza del suo legale Lara Pellegrini, aprendo la app Signal, rimasta bloccata. Intanto, nell' ambito del processo Eni-Nigeria in corso a Milano per corruzione internazionale, la procura ha ottenuto dalla Corte suprema federale della Svizzera la valigetta sequestrata nel 2016 a Obi Emeka, uno dei presunti mediatori, già condannato in abbreviato a 4 anni dal gip di Milano. Al suo interno, documenti, hard disk, usb e passaporti.

SENZA SERVIZI. Stefano Feltri per il “Fatto quotidiano” il 30 luglio 2019. Qualche giorno fa l'agenzia Adnkronos ha rilanciato una vecchia leggenda metropolitana, di inizio anni Duemila: quella del "verme" del Sismi. Un agente segreto russo infiltrato nell' allora servizio segreto militare che, per oltre un decennio, avrebbe passato informazioni a Mosca. L'intelligence riuscì a sventare una operazione del "verme", cioè "il tentativo russo di acquisire i segreti industriali di un' azienda fornitrice del ministero della Difesa", scrive l'AdnKronos. Che avanza poi un dubbio: "Il verme è ancora tra noi?". Nessuno ne ha mai scoperto l'identità. In pochi credono che quelle storie siano vere. Ma come mai tornano in circolazione ora? Perché la vicenda dell' hotel Metropol e del negoziato sui presunti finanziamenti russi alla Lega hanno attirato l' attenzione sull' operato dell'intelligence italiana: possibile che non si sia accorta di nulla? Il 24 febbraio L'Espresso rivela il viaggio di Matteo Salvini a Mosca e le trattative del suo collaboratore Gianluca Savoini con i russi al Metropol, ma non succede niente fino a luglio. Quando Savoini è tra gli invitati accreditati da palazzo Chigi alla cena ufficiale con Vladimir Putin, organizzata dal premier Giuseppe Conte che pure ha la delega all' intelligence. Subito dopo BuzzFeed pubblica l'audio di Savoini al Metropol e Salvini si trova sotto accusa, cinque mesi dopo le prime notizie. Dov'è stata l'intelligence nel frattempo? Nella sua audizione parlamentare, il 18 luglio, il generale Luciano Carta che guida l'Aise, il servizio segreto estero, si è concentrato su un aspetto apparentemente marginale: i prezzi e i quantitativi del petrolio oggetto della transazione che doveva generare la tangente da 65 milioni per la Lega non erano giudicati credibili dall'intelligence. Sembra una scusa per giustificare la mancata attenzione al tentativo di uno Stato estero di influenzare la politica italiana. Ma va ricordata una cosa rilevante: i servizi si muovono con la libertà di manovra richiesta dal loro lavoro soltanto su un preciso input dalle autorità titolate di legittimità democratica. Abbiamo visto negli anni Settanta cosa succede quando un servizio segreto "devia" e stabilisce una propria agenda, diversa da quella del governo che ne nomina i vertici. Si comincia con i dossier e si finisce con le bombe. Morale: con quell'accenno alla scarsa credibilità della trattativa, Carta stava facendo capire che lui non ha avuto alcuna indicazione specifica di occuparsi di Russia oltre quello che legge sui giornali. E neppure di monitorare personaggi opachi come Savoini che pure - ci ha tenuto a sottolineare - erano ben noti agli 007. Poco dopo qualcuno dagli ambienti intorno ai servizi rievoca la leggenda del "verme" del Sismi, quasi a mandare un doppio messaggio: c' è stato un tempo in cui l' intelligence faceva controspionaggio per arginare i russi e, secondo malizioso segnale, il "verme" potrebbe essere ancora attivo e questa compromissione forse spiega una certa inerzia. Malignità che indicano però un problema reale. Carta e l'Aise non possono fare la guerra alla Russia se nessuno glielo chiede. Nella relazione annuale sull' intelligence presentata a febbraio la Russia viene citata come un Paese attivo in Siria, in Sud America, nei Balcani, ma non come una minaccia in Italia. Non è sempre stato così. Ai tempi del governo Gentiloni, all' allora direttore dell' Aise Alberto Manenti erano arrivate indicazioni di verificare interferenze russe nella vita dei partiti italiani, a cominciare dai Cinque Stelle. Per le elezioni del 2018 erano calati a Roma anche gli analisti dell' Atlantic Council, un think tank di Washington legato al mondo dell'intelligence americana, proprio per monitorare i social e cercare tracce di possibili azioni di disturbo russe come quelle durante le presidenziali Usa 2016. Non avevano trovato nulla. Poi è arrivato il governo gialloverde. Salvini - pur senza deleghe formali - si è messo a occuparsi anche di intelligence: ha perorato un avvicendamento all'Aise, si è interessato di Libia, principale campo d' azione del servizio estero. Ha fatto sentire la sua influenza. Il generale Carta viene dalla Guardia di Finanza, ha un suo percorso autonomo e una rete di relazioni che era solida prima di Salvini e gli sopravviverà, non è ostaggio della Lega. Ma per occuparsi di Russia e di legami con la Lega deve ricevere un preciso mandato. Che, ha fatto capire in Parlamento, non è mai arrivato. Neppure dopo l' uscita del pezzo dell' Espresso, secondo quanto risulta al Fatto, il titolare della delega all' intelligence, cioè il premier Conte, ha chiesto ai servizi di capire cosa fosse successo al Metropol. Il compito viene lasciato alla Procura di Milano. E così, le spie russe - vere o immaginarie come il "verme" - possono vivere senza troppi stress. Così come i loro mandanti. E i beneficiari del loro lavoro.

Russiagate, più che una spy-story, una storia incredibile. Cosa c'è dietro la vicenda "Salvini-Savoini" ed i presunti soldi che la Russia avrebbe fatto arrivare alla Lega. Maurizio Belpietro il 29 luglio 2019 su Panorama. «Ma ci prendono per fessi?». L’amico che ho al telefono ce l’ha con i giornali che parlano dei presunti fondi alla Lega. Lui non è un tifoso di Matteo Salvini. Anzi, da quel che mi risulta, cova una segreta passione per Maria Elena Boschi e infatti tutte le volte che ho preso di mira la primadonna del Giglio magico mi ha sempre rimproverato, dicendo che non avrei dovuto attaccarla. Perfino Renzi so che gli è piaciuto, per lo meno fino a che non s’è montato la testa e ha cominciato a straparlare come se davvero si considerasse uno statista. Tuttavia, nonostante le opinioni facciano sembrare che il suo cuore batta a sinistra, il mio amico, che non è un politico ma un imprenditore, alla storia dei barili di petrolio usati per mascherare una tangente alla Lega non ci crede. «Si capisce lontano un miglio che un affare del genere non lo si fa nella hall di un albergo, ma lontano da orecchi e occhi indiscreti. E si capisce anche che questa storia debba servire, secondo qualcuno, a far abbassare le penne a Salvini, il quale per merito suo e demerito degli avversari, in cinque anni è passato dal 4 al 40 per cento». Nelle pagine interne ovviamente troverete tutti i dettagli di quella che pare una spy story internazionale. Gli ingredienti per condire un affaire losco all’ombra del Cremlino, in effetti, ci sono tutti. C’è il travet che con i suoi completi grigi da orfanello passa dalle ristrettezze di una collaborazione con La Padania a una transazione da 1,5 miliardi di dollari. C’è l’avvocato d’affari che forse nella sua vita di grandi affari non ne ha mai fatti, visto che lo hanno appena sfrattato perché non paga l’affitto. C’è l’ex politico della Margherita, uno che ha lasciato lo sportello di una banca nella speranza di riuscire a inserirsi nel giro giusto. E poi ci sono gli oligarchi russi, veri o inventati, con tutto il coté di misteri che da sempre Mosca si porta dietro: Putin, i soldi, il petrolio. Non importa che la spy story puzzi di trappolone a chilometri di distanza, perché al momento non c’è traccia né dei barili che dovevano essere venduti in Italia tramite l’Eni, né della maxi mazzetta che doveva arrivare nelle casse vuote della Lega. Non importa neppure che la società del cane a sei zampe abbia negato di aver mai avuto a che fare con i personaggi di cui si parla, né che la banca tirata in ballo scarichi il legale che dice di averci lavorato: di questi tempi, le aziende del petrolio e quelle del credito non godono di ottima reputazione e dunque qualsiasi sospetto è lecito. E poi, anche prendendo per buone le obiezioni di chi, come il mio amico, la faccenda non se la beve, resta sempre la registrazione. Quell’audio captato a Mosca è la prova regina, anzi la pistola fumante che ha colpito Salvini. Lì si sente l’avvocato che parla di percentuali e di milioni. Lì c’è Savoini che discute di futuro dell’Europa e di alleanza tra partiti sovranisti. Lì c’è l’ex sportellista della banca che invita a fare in fretta, perché le elezioni sono alle porte e non bisogna perdere il treno, anzi la petroliera. È vero, ci sono le voci dei protagonisti della trattativa Stato (russo)-Lega, un documento che in una transazione fra corrotti mai si era udito. Che chi si sta per spartire i soldi si registri per avere la prova della propria corruzione è una cosa che neppure ai tempi di Tangentopoli si era vista, nemmeno  quando Antonio Di Pietro provava a usare qualche imprenditore taglieggiato come esca. Chi ha fatto la registrazione del Metropol? Uno dei sei (o sette) che hanno partecipato all’incontro, con l’intenzione di fregare o ricattare gli altri? Oppure, come ha scritto qualcuno, è stato Putin perché voleva fare un dispetto a Salvini che, dopo averlo illuso di essere dalla sua parte, ha flirtato con Trump? No, forse è stato il presidente americano che non ha gradito tutte quelle visite a Mosca e così ha voluto dare un avvertimento al capitano leghista. Ma l’inquilino della Casa Bianca non era quello che voleva usare l’Italia come ariete contro l’Europa e la Germania? E Putin non era colui che aveva messo a libro paga i sovranisti affinché l’Europa gli togliesse le sanzioni? Ma forse il tiro mancino è di Macron, a cui il ministro dell’Interno leghista non è mai stato simpatico e per questo non vede l’ora di disfarsene. Oppure, la grande trattativa per il petrolio russo, è una storia messa in piedi da una banda di piccoli truffatori, che speravano di ricavare qualche cosa. Una storia molto simile a quella di Totò che cerca di vendere la Fontana di Trevi o del Gatto e la Volpe con il povero Pinocchio. Che si tratti di un intrigo internazionale o di una più modesta bufala locale, una cosa però appare certa ed è che la vicenda terrà banco ancora a lungo, perché tra rogatorie all’estero, accertamenti bancari e giudiziari, prima che sia fatta luce sulla trattativa del Metropol passeranno mesi. E questo, come dice l’amico a cui piace la Boschi, servirà a qualcuno per far abbassare le penne a Salvini. Che resterà per parecchio sulla graticola.

Francesco Bechis per Formiche.net il 28 luglio 2019. Il caso Savoini e dei presunti fondi russi alla Lega promessi in una trattativa all’Hotel Metropol di Mosca lo scorso ottobre, ora finito al vaglio della procura di Milano, continua a far parlare di sé. La ricerca di un bandolo nella matassa porta a volte i media a semplificare i tratti della storia, riducendola a due soli protagonisti: il partito di Matteo Salvini e il governo russo di Vladimir Putin.  “Non è così semplice – spiega a Formiche.net Giovanni Savino, senior lecturer presso l’Istituto di scienze sociali dell’Accademia presidenziale russa dell’economia pubblica e del servizio pubblico a Mosca, dove insegna storia contemporanea e storia delle idee politiche. Chi, come lui, vive e insegna da anni nella capitale russa sa che da quelle parti non esiste una sola “torre” del potere. “La Lega ne ha scelta una, e non è detto che sia quella della residenza presidenziale”.

Professore, che si dice dell’affare Savoini in Russia?

«Se ne parla pochissimo. C’è stata solo una dichiarazione del portavoce di Vladimir Putin Dmitry Peskov lo scorso 12 luglio che smentisce i finanziamenti da parte del governo».

È una versione credibile?

«Direi di sì. Da quanto è emerso non sembra un’iniziativa del Cremlino. Fra Italia e Russia esiste un’amicizia che va avanti da anni, a prescindere dalle singole forze politiche. Matteo Renzi, per fare un esempio, è stato il premier che ha fatto più affari con la Russia e Romano Prodi è ancora uno degli italiani più ascoltati».

Lei che idea si è fatto delle trattative al Metropol?

«C’è stata grande ingenuità da parte di Savoini, Miranda e Vannucci, forse dettata da una certa presunzione. È curioso che per discutere un affare simile abbiano scelto il Metropol, uno degli hotel più osservati del Paese».

Dunque secondo lei il Cremlino non c’entra?

«Putin è un politico estremamente accorto e pragmatico. Ha interesse a intrattenere relazioni ufficiali, non a scattare selfie in un corridoio o a stringere accordi sottobanco. Non credo che al momento al governo russo convenga destabilizzare Roma».

Perché?

«L’Italia è sempre stata uno dei Paesi occidentali più dialoganti con l’Urss. Ma i russi si rendono benissimo conto che il Paese non uscirà né dall’Ue né dalla Nato».

Però c’è il tema delle sanzioni Ue, dove l’Italia può fare la differenza.

«Vero, ma non sarà il governo gialloverde a farla. Renzi e Gentiloni hanno provato concretamente a costruire un’opposizione alle sanzioni Ue. Questo governo invece, a dispetto delle intenzioni iniziali, non ha proferito parola per bloccarle in seno al Consiglio europeo.

Matteo Salvini non è l’alleato ideale per Putin in Europa?

«I fatti raccontano altro. Salvini in Europa si è alleato con i Paesi del gruppo di Visegrad e dell’Europa orientale. Alcuni di questi, come Polonia e Paesi baltici, fanno della russofobia una bandiera, per evidenti motivi storici».

La special relationship fra via Bellerio e Mosca è certificata da un accordo di cooperazione siglato nel 2017 fra Lega e il partito di Putin Russia Unita.

«A prescindere dall’accordo, questo desiderio della Lega di porsi come unica depositaria dell’amicizia con la Russia è un po’ ridicolo. In Occidente si pensa che in Russia il potere sia un monolite, ma non è così. Non esiste una sola “torre” del Cremlino, ce ne sono tante, ognuna delle quali ha una sua ricetta di politica domestica ed estera. La Lega ne ha scelta una, non necessariamente quella della residenza presidenziale».

La torre russa della Lega termina col nome di un giovane oligarca: Konstantin Malofeev.

«Una personalità di spicco del mondo nazional-conservatore e ortodosso russo. È proprietario di una rete tv, Tsagrad, dove sia Savoini che Salvini sono stati ospiti. Finanzia da anni le realtà più oscurantiste in Russia e in Europa Orientale ed è stato accusato di aver supportato i separatisti nel Donbas. Igor Girkin, ex colonnello dell’Fsb che ha guidato i separatisti a Slovansk e Donesk, era il capo della sua sicurezza».

Cosa c’entra con la Lega e il Metropol?

«Come ho detto, sia Salvini che Savoini sono stati ospiti delle sue strutture. È presto per tirare conclusioni sull’inchiesta. Sappiamo che una delle società citate nel caso Savoini ha la sede legale nello stesso palazzo che ospita le società di Malofeev. Non è da escludere che gli interlocutori italiani, per rivolgersi a grandi player come Gazprom e Rosneft, abbiano fatto ricorso a qualche contatto dell’oligarca russo».

L’attivismo di Malofeev piace al governo russo?

«In Russia la musica non può essere suonata da troppa gente contemporaneamente. Questo tipo di gestione privatistica della diplomazia infastidisce il Cremlino, tanto più quando è guidata dall’ideologia e non dal realismo».

A proposito di ideologia, nelle carte dell’affaire Savoini spunta di continuo il nome di Alexandr Dugin, il filosofo che ha fondato negli anni ’90 il movimento per una nuova Eurasia. È davvero così influente in Russia?

«Su Dugin sento storie a dir poco irrealistiche. È vero, ha un suo seguito, ma non è il consigliere di Putin né tantomeno è popolare in Russia, tanto che non appare da un pezzo in televisione. Nel 2014 ha perso la sua cattedra all’Università statale di Mosca per aver augurato un genocidio degli ucraini. Al Cremlino non piacciono queste personalità esuberanti».

Insomma, la Russia su cui ha scommesso la Lega non è quella vincente.

«Non esiste più e forse non è mai esistita. Malofeev esalta la Russia zarista, dove il ruolo della donna era relegato ai margini della società, mentre Dugin rimescola visioni alla Julius Evola con suggestioni esoteriche e geopolitiche. Sono visioni antistoriche e che non rispondono alla complessità della società russa».

Malofeev invece avrà un ruolo nel dopo-Putin?

«Credo che oligarchi come lui proveranno a fare la propria partita. Sono scettico sulla possibilità che conquistino il potere e soprattutto che riescano a mantenerlo. Insegno e vedo crescere le nuove generazioni, questa visione ultraconservatrice di cui sono depositari non ha grande presa».

Da “il Giornale” il 30 luglio 2019. La nuova grana per il Partito democratico arriva d' Oltralpe dove l'ex sottosegretario con delega agli Affari Europei del governo Renzi ha ottenuto la stessa nomina, ma all' Eliseo. A volere il renziano, che all' ultimo congresso ha sostenuto la mozione di Roberto Giachetti, è stato il presidente Emmanuel Macron in persona. Una vicenda che si lega alla corsa per le Europee, con l' abbraccio di una parte delle fila renziane alla creatura voluta da Macron per fronteggiare i populisti e i sovranisti europei e sostenuta dallo stesso Matteo Renzi. Ma, al di là delle vicende elettorali, il caso apre un nuovo fronte in Parlamento. Per il vicepresidente del Consiglio, Matteo Salvini, la vicenda assume dei tratti paradossali: «Gozi, già sottosegretario agli Affari europei con Renzi e Gentiloni, con la benedizione di Macron viene ora nominato, stesso ruolo, nel governo francese. Immaginate di chi facesse gli interessi questo personaggio quando era nel governo italiano... Pazzesco, questo è il Pd». «Caro Salvini - replica il democratico - quando vuoi ci confrontiamo, atti e documenti alla mano, per vedere chi tra me e te ha curato di più e meglio gli interessi del nostro Paese. Facciamo così?». Ma il caso Gozi ha delle ripercussioni anche sui rapporti, sempre tesi, tra azionisti del governo. Fonti del M5s non esitano a parlare di tradimento dell' Italia e interpellano proprio la Lega su uno dei dossier che riguardano Francia e Italia: «Solo lo scorso maggio Gozi definiva la Tav Torino-Lione il simbolo di un'Europa che vogliamo ricostruire. Tempo due mesi e Macron gli ha dato un incarico nel suo governo. Gozi accettandolo ha dimostrato che tradiva il Paese prima e lo tradisce oggi. Ma in tutto ciò la Lega che dice? Sostiene le stesse idee di Gozi, del Pd e degli amici di Macron che hanno girato le spalle alle italia... Perchè?». Fratelli d' Italia ha già presentato una interrogazione per sapere quali dossier Gozi aveva trattato quando era a palazzo Chigi e se fra questi ve ne erano anche alcuni che interessavano la Francia. «Abbiamo detto che era un po' bizzarro che uno che aveva fatto il sottosegretario venisse candidato con un posto quasi blindato dai francesi. Ora si scopre che questo Sandro Gozi è entrato nel governo francese come responsabile degli Affari Esteri. Cioè, il ruolo che Sandro Gozi aveva nel governo italiano ora ce l' ha nel governo francese. La cosa assume dei connotati interessanti: voglio sapere le ragioni per le quali Macron e il governo francese ritengano di premiare così un signore che, fino a prova contraria, fino a qualche mese fa avrebbe dovuto fare gli interessi degli italiani», sottolinea Giorgia Meloni.

Gozi alla corte di Macron: è l'ariete di Parigi in Italia. Da sottosegretario democratico ha avuto in mano diversi dossier bollenti. E adesso va a lavorare al servizio di Parigi. Agostino Corneli, Martedì 30/07/2019 su Il Giornale.  Cosa ci faccia il dem Sandro Gozi all'interno del governo francese è un dubbio che adesso scatena il dibattito politico. Perché il rappresentante del Partito democratico, ex sottosegretario con delega agli Affari Europei con Matteo Renzi, ha ottenuto la stessa nomina che aveva in Italia: ma questa volta all'Eliseo. Proprio alla corte di quell'Emmanuel Macron che ha ingaggiato da tempo una battaglia senza tregua con l'attuale governo italiano. Ed è chiaro che questa nomina, soprattutto in un momento in cui i rapporti tra Roma e Parigi non sono idilliaci, ponga degli interrogativi. Domande poste soprattutto da Movimento Cinque Stelle, Lega e Fratelli d'Italia, che adesso chiedono al Pd e agli esponenti dei vecchi governi di centrosinistra di spiegare perché Macron abbia voluto a corte Gozi. Non un uomo qualsiasi di En Marche (il partito per cui si è candidato alle europee), ma proprio il presidente francese, che da Parigi non fa altro che dare bordate all'Italia in tutti i dossier principali della nostra strategia. E in effetti i dubbi restano. Il governo chiaramente cavalca la notizia, con Matteo Salvini che si esprime in maniera molto netta: "Gozi, già sottosegretario agli Affari europei con Renzi e Gentiloni, con la benedizione di Macron viene ora nominato, stesso ruolo, nel governo francese. Immaginate di chi facesse gli interessi questo personaggio quando era nel governo italiano... Pazzesco, questo è il Pd". Un affondo durissimo che si unisce a quello del Movimento 5 Stelle che parla di una nomina dai "connotati inquietanti". Mentre Giorgia Meloni non solo ricorda come l'ex sottosegretario Pd sia stato candidato nelle liste di Macron, ma mette anche in dubbio i veri interessi che tutelava Gozi quando era a Palazzo Chigi.

Le domande su Gozi. E quel dubbio resta, sopratutto perché i dossier passati tra le mani di Gozi quando governava il Partito democratico hanno interessato eccome l'Italia in Europa. Anche nei rapporti con la Francia. C'era Gozi, come ricordati dai vari esponenti del governo, quando l'Italia perse la corsa per la sede dell'Agenzia del Farmaco. Una vittoria praticamente constata: eppure quella sede andò ad Amsterdam. Con sgomento di Milano che pensava di avere la vittoria in tasca. Ma Gozi non è stato solo l'Agenzia del Farmaco. È stato anche l'uomo che, nel momento di crisi fra Italia e Francia per quanto accadeva in Libia, chiedeva al governo giallo-verde di sostenere una strada di piena collaborazione con Parigi. Un'idea che è giusta nella teoria, ma anche nella pratica non poteva non essere vista come uno smacco nei confronti non tanto dell'esecutivo guidato da Giuseppe Conte, quanto proprio nei confronti dell'Italia, visto che il nostro Paese sta subendo proprio le conseguenze peggiori da quanto realizzato dalla Francia in questi anni. Ed è chiaro a tutti che Macron abbia, come i suoi predecessori, l'obiettivo di far fuori Roma dall'influenza su Tripoli e dintorni. Tanto è vero che è stato proprio l'Eliseo a bloccare la condanna verso il generale Khalifa Haftar. La domanda a questo punto non può che tornare: da che parte sta Gozi? L'uomo che piace così tanto ai francesi da premiarlo come Cavaliere delle Palme accademiche nel 2007 e con la Legion d'Onore nel 2014 è diventato sottosegretario con due dei premier italiani più filo-francesi di tutti, Renzi e Paolo Gentiloni. Ed è amico di un altro cervello in fuga a Parigi: Enrico Letta. Il suo partito è quello che ha siglato il Patto del Quirinale fra Italia e Francia, che ha fatto sì che il tessuto industriale italiano venisse invaso dai francesi. Questo Pd aveva un sottosegretario che adesso è al governo di Francia in attesa di essere parlamentare a Strasburgo... è evidente che qualcosa non torna.

La difesa di Gozi non regge: tace su soldi e dà del "fascista". Il democratico che passa ai francesi non riesce a rispondere alle domande che pongono governo e opposizioni. E il Pd è in imbarazzo. Agostino Corneli, Venerdì 02/08/2019 su Il Giornale. Sandro Gozi continua a essere nell'occhio del ciclone per la sua scelta di trasferirsi in Francia alla corte di Macron. E il passaggio dell'ex sottosegretario dem a Parigi per entrare nella squadra di Emmanuel Macron continua a scatenare lo scontro politico. Fra i silenzi imbarazzati di un Partito democratico che inanella errori mediatici su errori mediatici (dopo Gozi, la scelta di Ivan Scalfarotto di andare a trovare in carcere gli assassini del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega), ora il novello funzionario francese si difende. Ma la sua difesa dalle colonne di Repubblica non riesce a togliere i dubbi sul suo trasferimento a Parigi. Se non altro perché oltre a sciorinare le solite accuse sul "fascismo" e sui "periodi bui" del nostro Paese, dimentica completamente una promessa: quella di dire quale sia il suo compenso per il servizio prestato al governo francese. Il problema però è che non solo non si sa quanto sia pagato Gozi per diventare sottosegretario in Francia. Un gesto che, secondo lui, è un segnale di amicizia con l'Italia e che dovrebbe invece essere un'opportunità per entrambi i Paesi. Ma Gozi non spiega neanche il motivo reale dietro questa scelta. Una decisione che pare che dal Pd nessuno abbia realmente apprezzato, specie i suoi vecchi "datori di lavoro", ovvero Paolo Gentiloni e Matteo Renzi. Che fino ad ora tacciono, forse per paura che questo affare complici ha loro posizione come ex presidente del Consiglio che avevano Gozi in squadra proprio quando Roma e Parigi si accordavano (o negoziavano) pdei punti molto importanti delle rispettive agende politiche. E non è un caso che l'unico ad aver espresso la sua totale contrarietà alla decisione del dem sia stato Carlo Calenda, che da ministro Pd aveva trattato con i francesi per Saint Nazaire e per l'affare Telecom e che in un tweet ha espresso tutto il suo sdegno: "Non si entra in un governo straniero. Non si ratta di un gruppo di lavoro, ma di ricoprire per due mesi nel governo francese la carica che ha ricoperto nel nostro governo, conoscendo posizioni e interessi anche riservati non sempre coincidenti. Semplicemente non esiste". La difesa dei democratici è sempre la stessa. C'è chi dà del "fascista" a coloro che mettono in dubbio la fedeltà di Gozi e chi parla di nuovo delle ombre russe sulla lega, facendo un paragone fra lì'asse Pd-Parigi e la presunta alleanza tra via Bellerio e Mosca e il caso Savoini, il Russiagate italiano. Ma intanto le risposte alle domande dei critici su Gozi non arrivano. Quanto verrà pagato? E soprattutto perché Macron in persona si è speso prima per averlo nelle liste di En Marche alle europee e adesso per un posto al governo in attesa di farlo entrare a Strasburgo tra le fila del suo eurogruppo? Tutto tace. E la sua difesa non fa che gettare ancora ombre: ancora più inquietanti.

Da “Libero quotidiano” il 17 agosto 2019. La foto, pubblicata dal Primato nazionale, mostra l'allora segretario del Msi, Giorgio Almirante, insieme ad alcuni ragazzi, tra i quali un giovane Sandro Gozi, esponente del Pd recentemente arruolato da Macron. Il Primato mostra poi un elenco in cui Gozi compare tra gli iscritti del Fronte della Gioventù. Insomma, era un missino? «Avevo 16 anni», risponde lui, «il mio migliore amico era il segretario locale del Fronte della Gioventù, un po' per amicizia e un po' per curiosità mi sono avvicinato e ho subito capito che non era roba per me. Venivo da una famiglia di centrosinistra e in un certo qual modo è stato un atto di ribellione».

Sandro Gozi, renziano, assunto dai francesi e ora consulente di Malta. Governo francese: "Dia spiegazioni". La denuncia de Le Monde. Il caso sollevato da un'inchiesta de Le Monde che denuncia un "misterioso contratto maltese" all'insaputa del premier transalpino Edouard Philippe. L'ex sottosegretario smentisce con forza. La Repubblica il 22 ottobre 2019. Dopo le indiscrezioni pubblicate ieri dal quotidiano francese Le Monde, in partenariato con Times Of Malta, il governo francese ha invitato Sandro Gozi, ex sottosegretario italiano e attuale collaboratore del premier francese, Edouard Philippe, a fornire spiegazioni sul suo presunto contratto di consulenza con il governo maltese. "Gozi è stato invitato ieri dal capo di gabinetto del premier a produrre delle spiegazioni sui fatti addotti da diversi organi di stampa", hanno dichiarato fonti del governo a Parigi citate dai media francesi, riferendosi agli interrogativi circa il presunto doppio incarico dell'ex esponente del Pd a Malta e a Parigi. Una circostanza che Gozi ha smentito con forza. Dal 29 luglio scorso, Gozi, sottosegretario nei governi Renzi e Gentiloni, svolge un incarico per gli uffici del primo ministro transalpino, che consiste nell'occuparsi dello sviluppo di nuove istituzioni europee. Questo in attesa di recuperare il proprio scranno di eurodeputato eletto in Francia alle ultime europee, nelle file di La Rèpublique En Marche, il partito di Emmanuel Macron. Il politico italiano potrà sedere nel parlamento Ue solo dopo la Brexit, visto che è il primo dei non eletti per quel partito. Durante il "question time" all'Assemblea Nazionale di questo pomeriggio, il deputato del partito Le Rèpublicains (destra moderata) Pierre-Henri Dumont, ha chiesto a Philippe: "Per chi lavora realmente il vostro consigliere? Per se stesso, per la Francia, per Malta o per l'Italia?". Il deputato ha anche chiesto se Sandro Gozi "non abbia mai utilizzato alcuna informazione della quale sia venuto a conoscenza a Matignon (sede del primo ministro francese, ndr) a favore di un altro governo". Il primo ministro ha risposto che "tutti coloro che hanno l'onore di servire la Francia, lavorando in un gabinetto ministeriale devono essere, quando sono oggetto di un attacco politico, difesi dal capo del governo". Il primo ministro ha però aggiunto che "il capo del governo esige da loro una perfetta probità e il rispetto di tutte le regole che si impongono a coloro che hanno l'onore di servire la Francia". Gli uffici del primo ministro hanno reso noto che Gozi  "ha confermato, come già fatto al momento della sua assunzione nel luglio 2019, che il suo incarico nel gabinetto di Matignon è esclusivo". Il direttore del gabinetto del Primo ministro  "ha preso atto" della risposta di Gozi e "l'ha invitato a produrre al più presto le prove che attestano la fine della sua collaborazione con il governo maltese al momento della sua assunzione, al fine di chiudere le polemiche". Il politico italiano eletto per En Marche è stato anche invitato "a giustificare rapidamente lo svolgimento delle proprie obbligazioni dichiarative all'Alta Autorità per la trasparenza della vita pubblica".

Albert Doinel per “Libero quotidiano” il 22 ottobre 2019. "Il misterioso contratto maltese di un consigliere di Edouard Philippe". Il "consigliere" del primo ministro francese di cui parla Le Monde, in un articolo incandescente pubblicato ieri pomeriggio, risponde al nome di Sandro Gozi, ex sottosegretario agli Affari europei nei governi Renzi e Gentiloni, oggi dipendente del governo di Parigi come consigliere per l' Europa. Gozi, si sa, ama vantarsi del suo «approccio transnazionale», dice di essere un «pioniere» dell' Europa post-sovrana, ed è per questo che lo scorso 30 luglio ha accettato, da cittadino italiano, di entrare nel gabinetto del premier Philippe. Solo che il suo "approccio transnazionale", come rivelato ieri da un' inchiesta del quotidiano Times of Malta arricchita da informazioni del Monde, lo porta a lavorare per diversi governi simultaneamente, in barba ai conflitti di interesse. Secondo quanto affermato dal portavoce del primo ministro maltese Joseph Muscat al Times of Malta, Gozi ha infatti firmato un contratto di consulenza con il governo della Valletta nel giugno del 2018, prima di abbracciare la causa di Emmanuel Macron e diventare l' italiano preferito dei macronisti. «Lo consiglia su tutte le istituzioni e le priorità europee in un ruolo simile a quelle che ha avuto, o ha, con altri governi e organizzazioni europee», ha riferito il portavoce di Muscat. Gozi era 22° nella lista della République en marche (Lrem) alle elezioni europee (la lista ha ottenuto 21 seggi). E la poltrona di consigliere a Matignon, sede dell' esecutivo di Parigi, era stata concessa al fedelissimo di Renzi per tenerlo occupato in attesa della Brexit (che libererà cinque scranni per Lrem). Le rivelazioni esplosive del Times of Malta, però, potrebbe cambiare le carte in tavola. Contattato dal Monde e dal Times of Malta, Gozi ha cambiato più volte versione in merito alla consulenza per Muscat. «Non c' è conflitto di interessi. Non sono le stesse missioni, non sono gli stessi temi e non è lo stesso lavoro. Capisco che l' approccio transnazionale possa non passare, persino nella stampa, ma è un lavoro assolutamente regolare», si è difeso Gozi, descrivendosi come un «libero professionista con un numero di partita Iva». Poche ore dopo, Gozi ha affermato che il contratto di tre anni col governo maltese è stato sospeso dopo la sua elezione al Parlamento europeo, a fine maggio, e che ha scritto una lettera a Muscat dove gli ha chiesto di versargli un' indennità di 12 mesi di stipendio come compensazione per la fine anticipata. «Da marzo in poi, mi sembra di non aver prodotto nulla», ha aggiunto. Durante la prima telefonata, Gozi aveva invece dichiarato che il suo ultimo lavoro per conto di Muscat è stato realizzato «prima dell' estate, durante la crisi migratoria». Le versioni non combaciano, insomma, e regna molta confusione. Gli stessi tentennamenti, sottolinea il quotidiano parigino, riguardano la comunicazione del suo lavoro per Malta al premier francese. Nella prima telefonata, Gozi ha assicurato di aver informato Philippe del suo lavoro parallelo, poi, poche ore dopo, ha cambiato versione: «Gli ho detto che avevo sviluppato delle attività di consulenza, ma non ho fornito dettagli sui contratti». Secondo diverse fonti sentite dal Monde, né il premier Philippe, né l' Eliseo sono stati informati del «misterioso contratto maltese». E Gozi, a quanto pare, non avrebbe avvertito nemmeno l' Alta Autorità per la trasparenza della vita pubblica (Hatvp), incaricata, tra le altre cose, di lottare contro i conflitti di interesse dei consiglieri ministeriali. «Un incredibile conflitto di interessi. Sandro Gozi è un ex deputato e membro del governo Renzi. Ha fatto parte della campagna elettorale di Macron come candidato al Parlamento europeo, mentre era pagato con una somma sconosciuta - dalle nostre tasse - per fare lobby per conto di Muscat e del suo partito corrotto per entrare nel gruppo Renew Europe (il gruppo dei liberali, che racchiude l' Alde e il Pde, ndr)», ha twittato Matthew Caruana Galizia, giornalista investigativo maltese. Le Monde, ieri, ha confermato la volontà di Muscat di abbandonare la famiglia social-democratica per raggiungere il gruppo centrista di Macron. «Ci sono diverse idee, ma ancora niente di concreto», ha sussurrato un fedelissimo di Macron. Il progetto suscita grandi reticenze tra i macronisti in ragione del profilo sulfureo di Muscat e di alcuni membri del suo entourage, implicati in brutti affari di corruzione. Gozi, a quanto pare, è stato pagato dalla Valletta anche per sbloccare queste reticenze.

S.C. per "il Fatto Quotidiano” il 22 ottobre 2019. Non bastava andare a lavorare per il governo francese. Ora si scopre che l' ex missino, ex prodiano, ex renziano, ora macroniano, Sandro Gozi, ha addirittura un contratto con il governo maltese. A rilevare l' ingombrante incarico è il quotidiano francese Le Monde. "Ama vantare il suo 'approccio transnazionale'", scrive il giornale francese che si chiede: "Questo significa spingersi fino a lavorare simultaneamente per diversi governi?". Gozi, infatti, dopo l' incarico di sottosegretario agli Affari europei diventa, piuttosto irritualmente, consulente del governo francese guidato da Edouard Philippe. L' allora vicepremier Luigi Di Maio lo aveva etichettato come "traditore dell' Italia". Ora si scopre che oltre all' incarico francese esiste un contratto di consulenza con Joseph Muscat, che guida il governo di Malta. La notizia è stata diffusa dal quotidiano maltese Times of Malta, partner di Le Monde. Il portavoce di Muscat conferma che Gozi, insignito dell' Ordine nazionale al Merito nel 2016, lavora per il premier maltese dal giugno 2018. L' incarico prevede la consulenza "su tutte le istituzioni e priorità europee nel ruolo, identico o simile, che ha avuto o ha con governi e istituzioni europee". Nel frattempo, però, Gozi è diventato consulente anche del governo francese. E dopo essere arrivato ventiduesimo alle elezioni europee nella lista francese En Marche!, si prepara a divenire eurodeputato non appena l' uscita della Gran Bretagna dall' Unione europea lascerà liberi gli scranni inglesi a Strasburgo. Interpellato da Le Monde, Gozi ha cambiato più volte versione sull' argomento dicendo prima che tra i due incarichi "non c' è conflitto di interessi". Qualche ora più tardi, però, rettifica spiegando che il contratto maltese è stato sospeso in seguito all' elezione europea con una lettera scritta a Muscat. A Le Monde, poi, ha assicurato che il premier Philippe era a conoscenza di tutto, ma poco dopo spiega: "Gli avevo detto di avere delle consulenze, ma non i dettagli su questo contratto". Ora i francesi hanno acceso i riflettori. Si tratta di capire se Gozi possa finire nel mirino dell' Autorità per la trasparenza della vita pubblica. Va anche sottolineato che recentemente i rapporti tra Macron e Muscat sono molto migliorati sia sul fronte delle politiche migratorie sia su quello politico generale. E questo, nonostante la disinvoltura fiscale della piccola isola o scandali più rilevanti come l' omicidio di Daphne Caruana Galizia. Ma "l' approccio transnazionale" di Gozi, per natura, non ha limiti.

Francia: Sandro Gozi si dimette da incarico governo Philippe. Le dimissioni al governo francese arrivano dopo le rivelazioni di stampa di Le Monde e del Times of Malta, secondo cui l'ex sottosegretario agli Affari europei dei governi Renzi e Gentiloni oltre che con il governo francese aveva in essere dei contratti consulenza anche con primo ministro maltese Joseph Muscat. La Repubblica il 23 ottobre 2019. "Da lunedì scorso, sono nuovamente oggetto di rivelazioni di stampa che hanno come unico intento quello di minare il mio impegno e le mie nuove attività professionali. Per questa ragione ho preso la decisione di dimettermi a partire da oggi dalla mia funzione di incaricato di missione presso il primo ministro della Francia per evitare qualsiasi strumentalizzazione politica, vista anche l'attuale situazione europea". È quanto si legge in una nota di Sandro Gozi. Le dimissioni di Gozi dal governo di Edouard Philippe arrivano dopo le rivelazioni di stampa di Le Monde e del Times of Malta, secondo cui l'ex sottosegretario agli Affari europei dei governi Renzi e Gentiloni oltre che con il governo francese aveva in essere dei contratti consulenza anche con primo ministro maltese Joseph Muscat. Dopo avere annunciato le sue dimissioni, Gozi cita proprio "il contratto citato nelle suddette rivelazioni di stampa" e dice di aver "svolto legalmente una missione consultiva come consulente tecnico esterno delle autorità maltesi, che ha avuto luogo a posteriori rispetto alla mia funzione ministeriale in Italia ed è stata interrotta su mia richiesta a seguito della convalida del risultato delle elezioni europee in Francia, il 28 maggio come confermato oggi stesso dall'amministrazione Maltese. Inoltre, l'attività consultiva prestata, svolta in piena trasparenza, sulla base di riconosciute e specifiche competenze, era comunque priva di ogni potenziale incompatibilità con l'incarico ricevuto successivamente dal Governo francese". "Deploro fortemente di essere l'obiettivo ricorrente di numerosi attacchi da quando ho deciso di compiere un altro passo nella realizzazione dell'ambizione transnazionale - battaglia che porto avanti da molti anni - candidandomi prima per la maggioranza presidenziale francese ed esercitando poi un ruolo professionale nella squadra del Primo Ministro", prosegue. "Poiché non intendo vedere minata l'integrità della mia carriera e il mio impegno costantemente sfidato da vili attacchi senza essere in grado di difendermi completamente, ho scelto di dimettermi per riguadagnare la piena libertà di parola e rispondere alle strumentali accuse che mi vengono rivolte", continua Gozi. "Rimango determinato nella mia ambizione transnazionale e nella mia azione per l'Europa e ringrazio il Primo Ministro francese, il suo gabinetto e i membri del personale di Matignon per il lavoro svolto insieme e la fiducia condivisa - conclude - non ci saranno ulteriori commenti su queste dimissioni. E' una scelta di responsabilità per proteggere l'interesse del Primo Ministro e della causa europea".

Albert Doinel per ''Libero Quotidiano'' il 26 ottobre 2019. A Parigi, il silenzio di Sandro Gozi sulle sue attività di consulente per il governo maltese suscita diversi interrogativi sulla stampa. Mercoledì sera, Le Monde, che assieme al Times of Malta ha rivelato l' esistenza del contratto con La Valletta, motivo scatenante delle sue dimissioni da consigliere per l' Europa del premier francese Édouard Philippe, ha scritto che la sua partenza lasciava comunque «una domanda in sospeso: il Signor Gozi è venuto meno ai suoi obblighi legali non dichiarando il suo incarico maltese presso l' Alta autorità per la trasparenza della vita pubblica (Hatvp), incaricata di esaminare i possibili conflitti d' interesse dei collaboratori ministeriali?». Nella nota diffusa su Facebook la sera delle sue dimissioni, l' ex segretario per gli Affari europei dei governi Renzi e Gentiloni, ha assicurato di «aver rispettato tutte le dichiarazioni della Hatvp, che non ha ancora reso pubbliche le conclusioni dell' esame in corso» sulla sua situazione. Ma la sera stessa, in un' intervista al Parisien, ha cambiato subito versione, affermando di aver rettificato la sua dichiarazione «a metà ottobre» per aggiungere «le altre attività professionali».  «Non avevo capito la sottigliezza della nozione di vita pubblica. In Italia, si devono indicare soltanto le attività istituzionali e politiche», ha cercato di giustificarsi l' ex cocchino di Romano Prodi. Ma il "candidato senza frontiere", come è stato definito perfidamente dal settimanale Le Point, non è stato preciso nemmeno col Parisien. Secondo quanto rivelato dal giornale d' inchiesta Mediapart, Gozi, infatti, avrebbe rettificato la sua dichiarazione presso l' Alta autorità per la trasparenza della vita pubblica, con l' aggiunta del contratto di consulenza maltese, soltanto la sera del 21 ottobre, ossia poche ore dopo gli scoop del Times of Malta e del Monde. Altro che «metà ottobre», insomma. Se i due giornali non avessero rivelato il suo rapporto di lavoro con il premier maltese Joseph Muscat, Gozi quella rettifica non l' avrebbe mai fatta, continuando a lasciare il governo francese, la République en marche e l' Hatvp all' oscuro di tutto. «Nessuno era al corrente delle sue missioni per il governo maltese. Né Matignon (sede dell' esecutivo di Parigi, ndr), né i suoi compagni di campagna elettorale, né le autorità amministrative, che lo hanno saputo attraverso la stampa», ha scritto Mediapart. Ma il giornale d' inchiesta ricorda soprattutto ciò che l' omissione dichiarativa comporta. «Per un consigliere, il fatto di omettere di dichiarare una parte sostanziale dei suoi interessi è passibile di una "pena di tre anni di reclusione e di 45mila euro di multa", prevista dall' articolo 26 della legge per la trasparenza della vita pubblica», ha scritto Mediapart. Gozi, insomma, rischia di incorrere in ulteriori guai penali, dopo l' iscrizione al registro degli indagati da parte del Tribunale di San Marino per una sospetta consulenza "fantasma" da 220mila euro. Il giornale diretto da Edwy Plenel ha raccontato anche alcuni retroscena sulle sue dimissioni. Nelle 24 ore che hanno preceduto il suo addio a Matignon, l' entourage del fedelissimo di Renzi ha inondato la stampa con frasi volte a sdoganarlo e a mostrare la sua probità, senza tuttavia fornire la minima prova materiale. Ai suoi pasdaran, e a chi si mostrava preoccupato per la sua sorte, Gozi, mercoledì pomeriggio, diceva che era tutto ok: dopo un secondo colloquio, in mattinata, con il capo di gabinetto di Philippe, Benoît Ribadeau-Dumas, era riuscito a convincere tutti, diceva. Poche ore dopo, però, è arrivato l' annuncio delle dimissioni all' Afp. Lo hanno spinto a dimettersi? È quello che pensano un po' tutti. Macron e i suoi non avevano voglia di gestire un altro grattacapo, dopo la bocciatura di Sylvie Goulard come commissario per il Mercato interno. Resta da capire, ora, se la macronia prenderà decisioni drastiche anche in ambito europeo. 22° nella lista Renaissance, Gozi è in attesa della Brexit, che sbloccherà cinque posti per Lrem, per diventare eurodeputato. Ma i più perfidi, a Parigi, dicono che in Europa, Macron, non lo vuole più mandare.

Gozi è stato iscritto al Msi: "Avevo 16 anni" (in realtà ne aveva 22). Dopo le polemiche per l'ingresso di Sandro Gozi nel governo francese, spunta una foto che attesta l'iscrizione dell'ex deputato Pd alla sezione di Forlì del Fronte della Gioventù. Lui commenta: "Avevo 16 anni". In realtà ne aveva già 22. Gianni Carotenuto, Sabato 17/08/2019 su Il Giornale. Uno scoop che fa venire i brividi, a destra come a sinistra. Lo ha fatto il Primato nazionale, che ha diffuso la foto della lista degli iscritti alla sezione di Forlì del Fronte della Gioventù - l'organizzazione giovanile del Movimento sociale italiano - dell'anno 1990. Nell'elenco c'è Sandro Gozi, l'ex sottosegretario agli Affari Esteri del governo Renzi che di recente è stato nominato responsabile degli Affari Europei per conto del governo francese. Una bella giravolta per Gozi, che secondo fonti dell'allora Msi avrebbe addirittura fatto parte della scorta al servizio del segretario missino Giorgio Almirante in occasione di una sua visita a Cesena. Interpellato da Adnkronos, Gozi si è giustificato così: "Avevo 16 anni, il mio migliore amico era il segretario locale del Fronte della Gioventù. Venivo da una famiglia di centrosinistra e il mio fu un atto di ribellione. Ci ho messo molto poco a capire che quella non era la mia strada". E ancora: "È noto a tutti che il mio primo voto fu infatti per il Partito repubblicano italiano. D'altra parte - commenta Gozi - mi pare che anche Salvini fosse del Leoncavallo, o che altri leader da giovanissimi abbiano fatto scelte che poi nel corso della vita sono cambiate". Anche se quasi sempre il "salto" è da sinistra verso destra, e non il contrario. Tuttavia, nelle parole di Gozi c'è qualcosa che non convince. Infatti, l'ex deputato Pd è nato nel 1968. Dunque nel 1990 - anno della sua iscrizione al FdG - aveva 22 anni, non 16 come da lui dichiarato. Una bella differenza. E una notevole imprecisione (non si sa quanto voluta), forse per provare a stemperare le polemiche provenienti in egual modo da destra e da sinistra. Polemiche aumentate ancora di più dopo la diffusione della foto di gruppo dove Gozi è in posa insieme ad Almirante e agli altri iscritti della sezione forlivese del FdG. Non è un'estate felice per l'ex deputato Pd. Dopo essersi candidato con En Marche - il partito del presidente francese Emmanuel Macron - all'Europarlamento (dove entrerà una volta ratificata la Brexit), Gozi è stato scelto dal premier transalpino Edouarde Philippe come consulente agli Affari Europei. Una nomina che ha fatto interrogare tutti sull'opportunità di accettare un incarico viziato dal conflitto d'interessi legato alla precedente - e recente - esperienza nello stesso ruolo per il governo tricolore. Tra le reazioni più violente quella della leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, che ha chiesto di revocargli la cittadinanza italiana.

Davide Di Stefano per Il Primato Nazionale il 18 agosto 2019. Sandro Gozi ha mentito rispetto alla sua militanza nel Movimento Sociale Italiano. Dopo la notizia lanciata ieri dal Primato Nazionale, in cui si raccontava della sua adesione in giovane età al Fronte della Gioventù con tanto di tessera di partito e foto di gruppo con Giorgio Almirante nella sezione Msi di Cesena, l’ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio del Pd e attuale responsabile per gli Affari Europei del governo francese si è affrettato a smentire. “Avevo 16 anni il mio migliore amico era il segretario locale del Fronte della Gioventù, un po’ per amicizia e un po’ per curiosità mi sono avvicinato e ho subito capito che non era roba per me. Il mio primo voto fu infatti per il Pri. Venivo da una famiglia di centrosinistra, e in un certo qual modo è stato un atto di ribellione. D’altra parte mi pare che Salvini fosse del Leoncavallo”. Gozi minimizza, ma i fatti lo smentiscono. L’esponente del Pd prova addirittura a fare un parallelismo con la frequentazione del Leoncavallo da parte di Matteo Salvini. L’attuale ministro dell’Interno frequentò qualche volta il centro sociale milanese da adolescente, per poi essere eletto consigliere comunale nella Lega a vent’anni. Alla stessa età Gozi era ancora un convinto militante del Fronte della Gioventù. Come riferito da lui si avvicinò alla sezione dell’Msi di Cesena a 16 anni, quindi nel 1984. Come testimonia la tessera, fu tesserato almeno fino al 1990, quando aveva 22 anni e frequentava l’università. Dunque una militanza durata almeno 6 anni e ben oltre l’adolescenza, di cui Gozi era pienamente consapevole. Non solo quindi “un atto di ribellione” come sostiene l’esponente democratico. La foto in cui viene ritratto con Giorgio Almirante è del 9 giugno 1987 (giorno del comizio del segretario a Cesena, una settimana prima del voto per le Politiche). Come raccontano al Primato Nazionale alcune persone che all’epoca militavano con lui, partecipò addirittura alla scorta che venne messa in atto dagli attivisti per Giorgio Almirante. Gozi aveva da poco compiuto 19 anni, è possibile quindi che il suo voto, magari pochi giorni dopo aver posato con Almirante, sia andato al Pri come ha riferito all’Agi? Per poi continuarsi a tesserare all’Msi fino al 1990? Per non parlare delle elezioni studentesche del 1986/87 al Liceo Classico V. Monti di Cesena, alle quali partecipò come candidato nelle liste di Fare Fronte (organizzazione studentesca del FdG) e venne addirittura eletto. Molti ex militanti cesenati dell’Msi ci hanno confermato la convinta adesione di Sandro Gozi al partito di Giorgio Almirante. E sembra che le foto in circolazione non siano terminate, ma ce ne siano anche di più compromettenti. Forse il consigliere degli Affari Europei di Macron farebbe meglio a non minimizzare e a nascondere la realtà. In Francia qualcuno potrebbe risentirsi per la sua convinta militanza neofascista in gioventù.

CAMERATA A SUA INSAPUTA. Adriano Scianca per “la Verità” il 23 agosto 2019. Iscritto a sua insaputa. La telenovela sul passato neofascista di Sandro Gozi acquisisce un nuovo capitolo. E, adesso, valica i confini nazionali. Parlando a Le Point, che ha scomodato il suo corrispondente da Roma per far luce sulla vicenda, Gozi ha fornito una nuova versione sulla passata militanza nel Msi, decisamente diversa dalla prima («Avevo 16 anni, seguii un amico, ci ho messo poco a capire che quella non era la mia strada»). Alla testata transalpina, l' esponente dem ha detto che si tratta di una «polemica ridicola» ma che comunque non nasconde «un passaggio della mia vita che è noto da molto noto a Cesena e in tutta la regione». Ma è quando ha cercato di circostanziare meglio la sua militanza che Gozi ha detto le cose più interessanti: «A partire dal 1987/1988 questo impegno è diminuito. Non ho alcun altro ricordo di azioni condotte negli anni successivi. È molto probabile che ci sia stato un rinnovo automatico dell' adesione per qualche anno, come si faceva sempre all' epoca». Altro che «avevo 16 anni», quindi! Gozi ammette ora candidamente di essere stato missino in modo attivo almeno fino all' età di 20 anni (tanti ne aveva nel 1988). Per gli anni successivi non si sbilancia, spiegando che il suo impegno a destra «è diminuito» (quindi non si è bruscamente interrotto) e che comunque lui «non ricorda». Meglio cautelarsi nel caso escano altri particolari imbarazzanti... Questa seconda versione è in effetti più compatibile con i documenti che erano usciti sulla vicenda, pubblicati dalla testata sovranista Il Primato nazionale: una foto del giovane Gozi con Giorgio Almirante risalente al 1987 e un modulo di iscrizione al Fronte della gioventù con la data del 1990, quello, pare di capire, che secondo l' esponente dem sarebbe stato rinnovato automaticamente senza il suo consenso. La questione, ovviamente, può sembrare di lana caprina: 1984 o 1988, che differenza fa, sono passati 30 anni... E comunque non è certo reato aver militato nel Msi. È un'argomentazione sensata, ma a cui si possono opporre due obiezioni. La prima è che se Gozi ha sentito il bisogno di minimizzare fino a stravolgere la realtà, forse il dettaglio biografico una importanza ce l'ha innanzitutto per lui. Del resto il dettaglio va a riscrivere un' autobiografia politica accuratamente costruita, a cominciare da quel primo voto dato al Partito repubblicano più volte sbandierato, anche a Le point, ma che mal si concilia con la foto accanto ad Almirante scattata a pochi giorni dalle prime elezioni politiche in cui Gozi è stato elettore attivo. Il mercoledì in posa con Almirante e la domenica al voto per Spadolini? Un po' difficile da credere. La seconda obiezione riguarda proprio il modo in cui il Pd ha declinato in questi anni il tema dell'antifascismo: ovvero come un autentico spartiacque antropologico, prima ancora che ideologico, fatto di veti, esclusioni, cordoni sanitari e immarcescibile fiducia nella propria incorrotta superiorità etica. Va da sé che, allora, sapere quanto e in che misura un proprio esponente abbia militato nei ranghi di un partito neofascista è tema di sicuro interesse innanzitutto per Nicola Zingaretti. E anche per Emmanuel Macron. L'interesse di Le Point per la vicenda Gozi non è affatto casuale. Come è noto, l' italiano è stato infatti nominato consulente agli Affari europei dal governo di Édouard Philippe. E anche la sinistra francese non è che ci vada leggera con le scomuniche contro la destra, tant' è che Le Point, che pure è di centrodestra, sottilmente ricorda che Almirante, oltre che leader missino nel dopoguerra, fu anche «condannato per collaborazione con le truppe naziste». Se in Italia il Novecento lo si può (sempre più a fatica, in verità) storicizzare, in Francia la cosa riesce decisamente più difficile. Le Point non è l' unica testata che, in Francia, si sta ponendo delle domande. Del caso, in questi giorni, se ne sono occupati anche il quotidiano L'Opinion e il sito di informazione Putsch. Ironico il quotidiano identitario Présent, che ha definito la rivelazione «una buona notizia» e che, dopo aver snocciolato il curriculum di Gozi, ha aggiunto che le sue qualifiche dimostrano «la qualità della formazione di coloro che sono passati per il movimento nazionalista». Quanto a lui, l' esponente dem risponde solo ai giornalisti. Sui social, la sua foto accanto ad Almirante viene postata spesso nei commenti sotto ai suoi status, ma l' interessato non risponde a chi gli chiede spiegazioni. Con una rara eccezione: a un utente di Twitter che gliene chiedeva conto in francese e taggando il premier francese Philippe, Gozi ha replicato, sempre in francese, con una frase sarcastica: «Aggiungo anche che ho litigato con il sacerdote della mia parrocchia quando avevo 14 anni e ho sbattuto la porta della chiesa e che a 5 anni mi sono rifiutato di rimanere nella scuola elementare dalle suore del Sacro Cuore. In questo modo anticipiamo articoli futuri. Quanto sei piccolo...». Sarà pure una «polemica ridicola», ma le eventuali reazioni nel governo francese sembrano preoccupare un bel po' l'ex camerata Gozi.

Sandro Gozi, la foto con Almirante e il passato nella destra: "Può darsi che...". Cosa nasconde. Libero Quotidiano il 24 Agosto 2019. L'esponente del PD Sandro Gozi ha fornito una seconda versione a Le Point in merito alla sua militanza nei ranghi del partito neofascista Msi. "Avevo 16 anni, seguii un amico, ci ho messo poco a capire che quella non era la mia strada", era stata la sua prima giustificazione, ma nel mentre sono comparsi alcuni documenti, pubblicati dalla testata Il Primato nazionale, che sembrerebbero smentire tale affermazione.  Prima una foto, risalente al 1987, nella quale si vede il giovane Gozi affianco a Giorgio Almirante, poi un modulo di iscrizione al Fronte della gioventù, datato 1990. L'esponente dem ha giustificato la discordanza di date affermando che l'iscrizione sarebbe stata rinnovata in automatico, a sua insaputa. "A partire dal 1987/1988 questo impegno è diminuito. Non ho alcun altro ricordo di azioni condotte negli anni successivi. È molto probabile che ci sia stato un rinnovo automatico dell' adesione per qualche anno, come si faceva sempre all'epoca", ha quindi dichiarato alla testata transalpina. Versione sicuramente molto più compatibile con i documenti acquisiti, ma che di certo smentisce la prima: ora ammette un impegno "poi diminuito nel tempo", quando in prima istanza aveva dichiarato semplicemente di aver "seguito un amico". Sicuramente capire quanto, e in che modo, un proprio esponente abbia militato in un partito neofascista è molto rilevante per il PD, in particolar modo per Nicola Zingaretti ma anche per lo stesso Emmanuel Macron. Tuttavia Gozi, oltre a rispondere alle domande dei giornalisti, del caso si stanno infatti occupando anche il quotidiano L'Opinion e il sito d'informazione Putsch, evita di trattare l'argomento sui social. Sembra dunque essere davvero preoccupato per le eventuali reazioni nel governo francese.

Esclusivo: le consulenze di Gianluca Savoini pagate dalla Regione Lombardia. Nei mesi della lunga trattativa con i russi per cercare di finanziare la Lega di Salvini, lo sherpa di Matteo ha assunto vari incarichi. Tutti ben retribuiti. Con la benedizione del Pirellone in mano al Carroccio. Giovanni Tizian il 13 settembre 2019 su L'Espresso. L’anno d’oro di Gianluca Savoini, meglio noto come Mr. Russiagate. Tra trattative con i russi e incarichi nel feudo padano. Consulenze e collaborazioni, pagate soprattutto con denaro pubblico. Più di 4 mila euro al mese di soldi pubblici che affluiscono nel conto corrente di Savoini. Il Pirellone in mano alla Lega sovranista paga e Savoini incassa. E così il fedele consigliere di Matteo Salvini che ha gestito in prima persona la trattativa a Mosca per ottenere un finanziamento da uomini vicini al Cremlino, è riuscito a ritagliarsi uno suo spazio all’interno di società partecipate dalla Regione guidata da Attilio Fontana e negli organi di vigilanza non tanto per meriti professionali, ma per fedeltà politica. L’Espresso in edicola da domenica 15 settembre e in anteprima su Espresso +  pubblica un’inchiesta  sui soldi pubblici ricevuti da Gianluca Savoini da quando la Lega è andata al governo del Paese ed è stata riconfermata alla guida della Regione Lombardia. Guadagni che dimostrano quanto sia organico al sistema di potere leghista l’ex portavoce di Salvini. Non proprio uno sconosciuto, dunque, e neppure un imbucato alle feste o ai summit bilaterali del leader ed ex ministro del Carroccio. Piuttosto un pezzo da novanta del partito.

Mr Russiagate, infatti, nell’ultimo anno a partire da giugno 2018, ha incassato massicce dosi di risorse pubbliche, sgorgate dalla fonte istituzionale lombarda. Una sorgente miracolosa per molti amici e sodali del Capitano del sovranismo italiano. Tra questi c’è sicuramente Savoini, il fondatore dell’associazione Lombardia-Russia, lo sherpa di Matteo nella Federazione sotto sanzioni e il regista della trattativa segreta del 18 ottobre all’hotel Metropol con gli uomini di Vladimir Putin, svelata per la prima volta a febbraio scorso dall’Espresso e dal “Libro Nero della Lega”. Sulla base delle notizie rivelate nell’inchiesta giornalistica la procura di Milano ha aperto un fascicolo per corruzione internazionale con Savoini principale indagato. A prescindere, però, di come sia finito il negoziato del Metropol, di certo non si può dire che il 2018 e il 2019 siano stati anni di magra per le casse di Savoini. Dalle carte consultate dall’Espresso emerge una lauta consulenza, iniziata a maggio dell'anno scorso, offerta da una controllata dalla Regione Lombardia, il cui azionista di maggioranza è appunto il Pirellone. A queste entrate si somma lo stipendio che Savoini percepisce da vicepresidente del Corecom Lombardia, l’organo regionale di vigilanza sul sistema delle telecomunicazioni, in pratica un satellite dell’Agcom nei territori. Una carica ottenuta per meriti di fedeltà politica. È stato eletto su proposta della Lega nel settembre 2018, a pochi mesi dall’inizio della legislatura giallo-verde e dall’arrivo alla presidenza della Regione di Attilio Fontana, il governatore leghista che ha scelto come capo segreteria l’ex compagna di Matteo Salvini, Giulia Martinelli. Il cerchio del potere lùmbard. Non c’è solo il denaro dei cittadini lombardi usato per pagare i servizi di Savoini. C’è anche una collaborazione con una società della galassia Ernst & Young, colosso da 250 mila dipendenti e leader nel settore dei servizi di revisione contabile. Si tratta della Global Shared Services Srl. In piena bufera scatenata dalle rivelazioni sulla trattativa del Metropol, il 25 giugno 2019, Global Service stacca un sostanzioso bonifico a Savoini. Una collaborazione che ha permesso di a Savoini di accumulare un buon tesoretto solo nell’anno della trattativa-culminata nel summit del Metropol. Metà di questi pagati dalle istituzioni in mano ai Lùmbard.

Esclusivo. 4 mila euro al mese di soldi pubblici per Mr. Russiagate. Nei mesi caldi della trattativa a Mosca per finanziare  il partito di Salvini, Gianluca Savoini colleziona consulenze pagate dalla Regione Lombardia guidata da Attilio Fontana. Giovanni Tizian il 13 settembre 2019 su L'Espresso. Denaro pubblico padano per Mr. Russiagate, al secolo Gianluca Savoini. Ha molti santi al Pirellone, il fedele consigliere di Matteo Salvini che ha gestito in prima persona la trattativa a Mosca per ottenere un finanziamento da uomini vicini al Cremlino. E così scopriamo che tra un viaggio a Mosca, un bilaterale in Russia con Matteo Salvini, la ricerca di finanziamenti nell’ex Unione Sovietica, il suo conto corrente è stato rimpinguato con denaro pubblico della Regione Lombardia e non solo. Nell’ultimo anno, infatti, a partire da giugno 2018, ha incassato massicce dosi di risorse pubbliche, sgorgate dalla fonte istituzionale lombarda governata dalla Lega di Salvini. Una sorgente miracolosa per molti amici e sodali del Capitano del sovranismo italiano. Tra questi c’è sicuramente Mr. Savoini, il fondatore dell’associazione Lombardia-Russia, lo sherpa di Matteo nella Federazione sotto sanzioni e il regista della trattativa segreta del 18 ottobre all’hotel Metropol con gli uomini di Vladimir Putin, svelata per la prima volta a febbraio scorso dall’Espresso e dal “Libro Nero della Lega”. Sulla base delle notizie rivelate nell’inchiesta giornalistica la procura di Milano ha aperto un fascicolo per corruzione internazionale con Savoini principale indagato. Matteo Salvini sostiene di non aver mai preso un rublo, e tuttavia continua a fuggire dalle sue responsabilità persino di fronte al Parlamento. Il suo uomo più fedele, Gianluca Savoini, ripete da mesi lo stesso mantra: nessun finanziamento. Ma ha dovuto ammettere la sua presenza al Metropol e confermare l’esistenza della trattativa. A prescindere, però, di come sia finito il negoziato del Metropol, di certo non si può dire che il 2018 e il 2019 siano stati anni di magra per le casse di Savoini. Ha potuto contare, per esempio, su una lauta consulenza offerta da una controllata dalla Regione Lombardia e di una collaborazione sostanziosa con una società della galassia Ernst & Young, colosso da 250 mila dipendenti e leader nel settore dei servizi di revisione contabile. A queste entrate si somma lo stipendio che Savoini percepisce da vicepresidente del Corecom Lombardia, l’organo regionale di vigilanza sul sistema delle telecomunicazioni, in pratica un satellite dell’Agcom nei territori. Una carica ottenuta per meriti di fedeltà politica. È stato eletto su proposta della Lega nel settembre 2018, a pochi mesi dall’inizio della legislatura giallo-verde e dall’arrivo alla presidenza della Regione di Attilio Fontana, il governatore leghista che ha scelto come capo segreteria l’ex compagna di Matteo Salvini, Giulia Martinelli. È il cerchio del potere lùmbard, con i suoi rituali che si tramandano di giunta in giunta, da Formigoni a Fontana passando per Roberto Maroni, con il Capitano sovranista che supervisiona. Il fattore leghista da sempre decisivo, anche quando regnava Forza Italia, nella spartizione degli incarichi e delle poltrone della sanità e della partecipate. Savoini è parte integrante del sistema di potere del Carroccio, che si rinnova ad ogni legislatura. Dopo lo scoop dell’Espresso e del “Libro Nero della Lega”, i vertici del partito hanno provato a scaricarlo ( “Savoini chi?”), tuttavia i documenti in nostro possesso dimostrano l’organicità di Savoini nei meccanismi di spartizione. Non è l’unico dell’associazione Lombardia-Russia ad aver fatto carriera: Claudio D’Amico - ex parlamentare e socio di Savoini nella Orion di Mosca - è stato ingaggiato a Palazzo Chigi al seguito dell’ex vicepremier Salvini con il ruolo di consigliere strategico per 60 mila euro annui, sempre degli italiani. Ma torniamo all’incarico ben remunerato di Savoini, che grava sui conti di Ferrovie Nord Milano.

UN TRENO PER SAVOINI. I soldi sono elargiti al fedele sherpa del leader sovranista da una delle società più prestigiose in mano al Pirellone. Ferrovie Nord Milano Spa è quotata in Borsa, e gli azionisti principali sono la Regione con il 57 per cento, Ferrovie dello Stato (14 per cento) e Anima Sgr. Le carte lette dall’Espresso confermano che Mr. Russiagate ha percepito a partire da giugno 2018 2.600 euro mensili da Fnm. Il totale indicato nei documenti è di 35 mila euro, almeno fino a luglio scorso. C’è poi un secondo stipendio pubblico che Savoini inizia a percepire sempre nei mesi caldi della lunga trattativa che lo porterà nella hall del Metropol: ogni mese riceve 1.875 euro dal consiglio regionale della Lombardia per il suo ruolo di vicepresidente del Corecom. Insomma, grazie alla casse pubbliche padane, Gianluca Savoini incassa mensilmente più di 4 mila euro al mese. Quattrini dei lombardi, e quindi degli italiani. Non male per l’ex portavoce di Salvini. All’inizio dello scandalo moscovita il partito aveva provato a smarcarsi dalla sua ombra russa senza troppa convinzione. Per capire quale sia il ruolo ben pagato di Savoini in Ferrovie Nord abbiamo girato la domanda alla società. La replica è stata molto stringata: «Per prassi aziendale Fnm non fornisce informazioni e/o commenti sui propri rapporti contrattuali. Cordiali saluti». Resta un mistero, perciò, per cosa sia pagato Mr. Russiagate dalla controllata della Regione. Ferrovie Nord Milano è totalmente a gestione leghista. I ruoli apicali sono ricoperti da uomini di partito scelti dai governatori, prima Roberto Maroni e poi il suo successore, Attilio Fontana. Il Cda è stato rinnovato tra aprile e maggio 2018, a poche settimane, quindi, dalla vittoria elettorale di Fontana e della Lega alla Regionali. Tra i consiglieri c’è Giuseppe Bonomi, manager e leghista della prima ora. Nel ruolo di presidente è stato confermato un altro padano doc: Andrea Gibelli, ex deputato, già segretario generale della giunta lombarda, vicepresidente della Regione con Formigoni governatore e assessore alle Attività produttive nella medesima legislatura. Gibelli è uno storico militante del Carroccio. Lo scorso anno è stato condannato in primo grado a dieci mesi nel processo contro l’ex presidente della Regione Roberto Maroni che, secondo i giudici di primo grado, è colpevole di aver raccomandato una sua ex collaboratrice. Gibelli all’epoca ricopriva il ruolo di segretario generale della Giunta. Si attende l’Appello. Ferrovie Nord Milano è stata sfiroata di recente anche dall’ultimo scandalo delle tangenti che ha scosso il Pirellone. L’inchiesta che ha coinvolto Forza Italia e Lega insieme a un amico ed ex socio di Armando Siri, il senatore ideologo della flat tax. Tra gli indagati pure Attilio Fontana, sospettato di aver compiuto un abuso d’ufficio affidando incarichi pubblici a Luca Marsico, avvocato ed ex socio di studio del governatore. I fari dei pm si sono accesi su due consulenze. Una in particolare risale al settembre 2018, stipulata con Ferrovie Nord Milano per una cifra di 8 mila euro. Le intercettazione hanno rivelato un ulteriore dettaglio: il fratello di Marsico è stipendiato da Trenord, controllata da Fnm Spa. Luca Marsico si è difeso sostenendo che i suoi incarichi sono regolari e lui è competente per ricoprire quei ruoli. Saranno le indagini a ricostruire la verità. Intanto con la Regione in mano alla Lega, Savoini e i sovranisti padani possono dormire sonni tranquilli. Lo stipendio è garantito.

IL TRADUTTORE AUTOMATICO. È stato un anno d’oro per Savoini. Tra stipendi e consulenze ha totalizzato poco meno di 150 mila euro. Introiti maturati tutti con la Lega al governo, dopo giugno 2018, e con il dossier russo in piena evoluzione. Abbiamo detto degli stipendi di Ferrovie Nord e del Corecom. Denaro pubblico, dunque. Ma c’è anche una società privata che ha retribuito Mr. Russiagate per i suoi servizi. Si tratta della Global Shared Services Srl. Un’azienda che è controllata dal colosso Ernst & Young, leader nella consulenza e nei servizi di revisione contabile con sedi sparse per il mondo: dagli Stati Uniti all’Europa fino alla Russia. In piena bufera scatenata dalle rivelazioni sulla trattativa del Metropol, il 25 giugno 2019, Global Service stacca un maxi bonifico a Savoini: 71 mila euro. Contattata dall’Espresso, la società satellite di Ernst & Young ha chiarito: «Global Shared Services Srl ha stipulato con il dott. Gianluca Savoini un contratto di collaborazione professionale relativo allo sviluppo commerciale di un software linguistico di traduzione automatica. Le attività previste dal contratto sono state ultimate nel corso dello scorso mese di marzo 2019». Savoini, quindi, ha messo a disposizione la sua esperienza di giornalista, militante di lungo corso della Lega e di fondatore dell’associazione Lombardia-Russia per promuovere un sistema tecnologico per la traduzione. Non c’è traccia nel suo curriculum di specializzazioni simili. Il breve ritratto della sua carriera è un foglio di una decina di righe pubblicato sul sito del Corecom: laureato in Scienze Politiche, ha iniziato a scrivere per il “Corriere mercantile”, poi ha lavorato per la Padania, nel 2006 è diventato Direttore della Struttura Stampa del Consiglio regionale della Lombardia quando al Pirellone c’era Roberto Formigoni sostenuto dal Carroccio all’epoca ultra nordista di Umberto Bossi.

L’INDAGINE. Nel frattempo prosegue l’inchiesta della procura di Milano su Savoini, indagato per corruzione internazionale dopo la pubblicazione dello scoop sulla ricerca di soldi russi per l’ultima campagna elettorale delle europee. I pm vogliono vederci chiaro nell’operazione di cui hanno discusso il 18 ottobre Savoini e i sodali russi. Si parlava di una maxi compravendita di gasolio della quale avrebbe beneficiato il partito di Matteo Salvini. Rosneft avrebbe venduto a Eni, tramite la banca londinese rappresentata durante la trattativa dall’avvocato italiano Gianluca Meranda. Questo il piano rivelato durante l’incontro riservato nella capitale russa. Oltre all’ex portavoce di Salvini, sul registro degli indagati ci sono i nomi dell’avvocato Meranda e del toscano Francesco Vannucci. Cioè gli italiani protagonisti dell’incontro politico-affaristico del 18 ottobre nell’hotel Mosca. Uno dei russi presenti al tavolo si chiama Ilia Yakunin, come avevamo già raccontato a febbraio scorso. La cinghia di trasmissione tra i leghisti e il potere putiniano. Al summit c’era anche Andrey Yuryevich Kharchenko, molto vicino al filosofo Aleksandr Dugin, l’intellettuale a capo del movimento euroasiatico, di cui Kharchenko è membro. Questi i tasselli che la procura di Milano sta cercando di ricomporre. Parallelamente i pm seguono i flussi di denaro dei personaggi coinvolti. Gli inquirenti stanno analizzando centinaia di transazioni e movimenti bancari forniti dalla Guardia di finanza e dall’Uif, l’agenzia di Bankitalia che si occupa di antiriciclaggio. Nel mirino decine di sigle di associazioni filorusse con sede in Italia con cui Savoini condivide la fede nell’ultimo zar: Vladimir Putin.

Moscopoli, il pizzino di Savoini: il 4% della tangente alla Lega. Sandro De Riccardis sul La Repubblica l'1 ottobre 2019. Sui telefonini dell'ex portavoce di Salvini e degli italiani al Metropol lo schema della spartizione dell'affare con i russi che avrebbe dovuto portare 65 milioni di dollari nelle casse di via Bellerio. La foto di un foglio di carta con i termini, scritti a mano, dell'accordo raggiunto all'Hotel Metropol, in cui si è discusso della compravendita di una partita di gasolio, con uno sconto sul prezzo della fornitura, finalizzato a portare 65 milioni di dollari nelle casse della Lega. Di quell'incontro del 18 ottobre scorso tra l'ex portavoce di Matteo Salvini e presidente dell'associazione Lombardia-Russia Gianluca Savoini, l'avvocato Gianluca Meranda, i...

Savoini, l’accordo del Metropol era nel cellulare. L’inchiesta - Il progetto di acquisto del gasolio russo e la presunta “stecca” da 65 milioni per la Lega ritrovato nei telefoni dei tre indagati. Davide Milosa su Il Fatto Quotidiano il 2 ottobre 2019. Il progetto di acquisto del gasolio russo e i 65 milioni di dollari da piazzare nelle casse della Lega di Matteo Salvini, dopo essere stato discusso all’hotel Metropol di Mosca, è diventato una bozza d’accordo nero su bianco. Il documento manoscritto, oggi a disposizione della Procura di Milano che indaga per corruzione internazionale, è emerso […]

Sullo smartphone di Savoini l’accordo del Metropol per i 65 milioni alla Lega. Enzo Boldi il 02/10/2019 su Giornalettismo. Una foto che ricalca in pieno quanto emerso dall’intercettazione pubblicata da BuzzFeed e dalle notizie rese note da L’Espresso sull’incontro all’hotel Metropol di Mosca. Quello screenshot era presente sugli smartphone dei tre italiani, tra cui Gianluca Savoini, l’ex consigliere di Matteo Salvini, e ora in mano agli inquirenti della Procura di Milano che indagano sul cosiddetto Russiagate. L’immagine non è altro che una foto di un pizzino di carta (chiamato da chi indaga «il papiello») che sintetizza quella bozza di accordo per portare nelle casse della Lega 65 milioni di dollari, equivalenti al 4% di quanto stabilito per la vendita di gas tra Russia e Italia. A riportare la notizia nel dettaglio sono stati Il Fatto Quotidiano e La Repubblica che citano fonti investigative. Sopra a quel pizzino immortalato in una foto e fatto girare nelle chat tra i tre partecipanti italiani all’incontro del Metropol, si fa chiaramente riferimento a quell’accordo che già si era palesato nell’audio pubblicato nei mesi scorsi di Buzzfeed: 4% finisce nelle casse della Lega, mentre una cifra variabile tra il 4 e il 6% ai russi che hanno agito da intermediari con il gigante dell’energia coinvolto.

Savoini e lo screenshot del “pizzino”. Un elemento ritenuto determinante perché presente sugli smartphone di Savoini (a cui è stata anche chiesta la password per accedere ai contenuti criptati delle sue chat nascoste), di Gianluca Meranda e Francesco Vannucci. I tre erano presenti all’hotel Metropol in quel 18 ottobre 2018 per parlare e trovare un accordo – secondo le accuse – con due uomini vicini alla destra russa e anche al presidente Vladimir Putin.

Le indagini tengono ancora fuori la Lega. Il contenuto di quel foglietto immortalato e condiviso sugli smartphone confermerebbe quanto già in possesso degli inquirenti. L’accordo raggiunto, come scritto in quel papiello, poi avrebbe raggiunto uno stop: secondo la Procura di Milano, infatti, il tutto venne bloccato per via dell’inchiesta pubblicata da L’Espresso che mise i bastoni tra le ruote. Ma si sta ancora indagando su tutto questo, così come sul coinvolgimento attivo della Lega.

Moscopoli, sullo smartphone di Savoini trovata una foto dell’accordo tra la Lega e i russi. Laura Melissari il 2 Ottobre 2019 su TPI. Soldi russi alla Lega, sullo smartphone di Savoini trovata una foto con i termini dell’accordo con i faccendieri di Mosca. Nuovi particolari sulla vicenda “Moscopoli” inguaiano Salvini, Savoini e la Lega. Sui telefoni di Gianluca Savoini e degli altri italiani presenti al Metropol di Mosca sono stati trovati i termini degli accordi per la spartizione dei 65 milioni di dollari che sarebbero dovuti arrivare dalla Russia alle casse della Lega. È una foto di un foglio di carta scritto a mano a complicare ancora di più la già spinosa faccenda. Su quel foglio vi era l’accordo per la compravendita di una partita di gasolio con uno sconto sul prezzo della fornitura, come scrive il quotidiano Repubblica. L’incontro al Metropol di Mosca risale al 18 ottobre dell’anno scorso. A parteciparvi erano stati l’ex portavoce di Matteo Salvini e presidente dell’associazione Lombardia-Russia Gianluca Savoini, l’avvocato Gianluca Meranda, il consulente bancario Francesco Vannucci, e tre funzionari russi. Il “pizzino” trovato sugli smartphone, con cifre e percentuali dell’accordo spiega che agli intermediari dell’affare sarebbero dovute andare delle percentuali, il 4 ai leghisti e il 6 ai russi. I pm De Pasquale, Spadaro e Ruta che indagano sulla trattativa, considerano questo foglio come una prova che l’accordo quel giorno era stato raggiunto. I tre faccendieri della Lega al centro della vicenda “Moscopoli” sulla maxitangente russa sono indagati per corruzione internazionale. Il pizzino confermerebbe quanto già rivelato nell’audio diffuso dalla testata statunitense Buzzfeed a luglio 2019 che fece venire alla luca l’intera vicenda Moscopoli. “L’idea come concepita dai nostri ragazzi politici è che, con uno sconto del 4 per cento, 250.000 più 250.000 al mese per un anno, possono sostenere una campagna”, erano i termini dell’accordo proposto da Gianluca Meranda ai russi Andrey Yuryevich Kharchenko e Ilya Andreevich Yakunin. Ai russi sarebbe andato il 6 per cento. “Farò solo uno screenshot qui e ve lo manderò in modo che siamo sincronizzati. Ok, signori, penso che le cose stiano andando nella giusta direzione”, dice ancora uno dei faccendieri della Lega. L’acquirente finale della fornitura di gasolio con lo sconto pattuito del 10 per cento sarebbe dovuto essere Eni, come scrive Repubblica.

 Russiagate, i giudici: «Savoini doveva agire  in fretta per il voto Ue». Pubblicato giovedì, 03 ottobre 2019 da Corriere.it. È un sospetto che «emerge in maniera molto evidente» quello secondo il quale il 18 ottobre del 2018, intorno a un tavolo dell’Hotel Metropol di Mosca, si sia svolta una trattativa che, attraverso la compravendita di tre milioni di tonnellate di prodotti petroliferi, avrebbe dovuto portare 65 milioni di dollari nelle esangui casse della Lega. A confermare la fondatezza delle basi dell’inchiesta della Procura di Milano per corruzione internazionale, che ruota intorno Gianluca Savoini, uomo molto vicino al capo del Carroccio Matteo Salvini, sono i giudici del Tribunale del riesame. Nelle venti pagine di motivazioni con le quali confermano il sequestro di documenti, di una chiavetta usb e di tre telefonini trovati nelle perquisizioni in casa e nell’auto del presidente dell’associazione Lombardia Russia, i giudici ripercorrono le fasi iniziali delle indagini dei pm Gaetano Ruta e Sergio Spadaro, ai quali ora si è aggiunta la collega Donata Costa, coordinati dall’aggiunto Fabio De Pasquale. E nel farlo, confermano anche la validità del punto di partenza: la registrazione audio dell’incontro finita sul sito americano BuzzFeed che documenta come quel giorno i sei partecipanti si sono visti per definire gli ultimi dettagli di un affare che alla fine, oltre al finanziamento al Carroccio, avrebbe dovuto anche portare una tangente corposa nelle tasche di funzionari pubblici russi. Nel cellulare di Savoini e in quelli degli altri due indagati, l’avvocato Gianluca Meranda e il suo consulente bancario Francesco Vannucci, è stata trovata anche una foto degli appunti dell’accordo. L’audio non ha subito manipolazioni, è integro secondo i tecnici informatici della Procura. Dalla trascrizione, per i giudici, emerge chiaramente la consistenza dei sospetti che hanno dato il via all’inchiesta. «Verosimilmente», scrivono, i tre indagati stavano «contrattando» con Andrey Yuryevich Kharchenko e Ilya Andreevich Yakunin, entrambi legati agli ambienti del premier Puti, e con un terzo russo, sulla cui identità la procura mantiene il riserbo, «l’acquisto da parte di Eni spa» (che ha sempre smentito, ndr.), dei prodotti petroliferi «prevedendo che una percentuale del prezzo pagato», quel 4%, «sarebbe stata retrocessa per finanziare la campagna elettorale del partito politico Lega». Tra il 2 e il 6% sarebbe invece dovuto andato ai funzionari russi. Ci sono la «ripartizione dei compiti tra i correi», la «cristallizzazione degli accordi criminali» e la «necessità di essere prudenti» per «non destare sospetti sull’illecito ritorno del denaro», come chiede Savoini preoccupato perché «avremo i telescopi addosso. (...) Però mi fido dell’abilità di tutti noi». Bisogna «agire rapidamente per l’avvicinarsi delle elezioni europee» e contare sui «contatti in Banca Intesa necessari per il passaggio del denaro», che sarebbero forse dovuti passare per il consigliere del cda Andrea Mascetti, al quale sembrano far riferimento. Anche lui ha sempre smentito.

Moscopoli, il Riesame su Savoini: "Da audio chiaro che parte dei soldi erano destinati alla Lega per le Europee". I giudici milanesi motivano il no alla restituzione dei documenti sequestrati al presidente dell'associazione Italia-Russia: "Emerge dagli atti una situazione rappresentativa di una condotta riconducibile alla fattispecie di reato di corruzione internazionale". La Repubblica il 03 ottobre 2019. L'audio registrato all'Hotel Metropol di Mosca finito nell'inchiesta su presunti finanziamenti illeciti destinati alla Lega non è "il frutto di un'intercettazione illegittima" e da quell'audio emergerebbe "nitidamente che parte dei soldi erano destinati alla Lega" per finanziare le Elezioni Europee. Lo scrive il Tribunale del Riesame di Milano nelle motivazioni al provvedimento con cui, nei giorni scorsi, ha respinto la richiesta di restituire a Gianluca Savoini, l'ex portavoce di Matteo Salvini, i documenti che gli erano stati sequestrati dalla Guardia di Finanza. Nella registrazione al Metropol - al centro dell'inchiesta sui presunti fondi russi alla Lega - emerge, da quanto si legge nelle motivazioni, "lo schema delle parti coinvolte nella trattativa considerata illecita, la possibilità di reiterare l'accordo nel tempo, l'importo da retrocedere dopo il pagamento della fornitura petrolifera, la necessità di agire rapidamente per l'avvicinarsi delle elezioni europee, l'utilità dell'accordo per entrambe le parti, la ripartizione dei compiti, la necessità di essere prudenti per non destare sospetti sul presunto ritorno illecito del denaro". Una intenzione che emerge "in maniera ancora più nitida dalle parti della conversazione intrattenuta in inglese". La trattativa, non andata in porto, prevedeva "l'acquisto da parte di Eni spa di ingenti quantitativi di prodotti petroliferi (250.000 tonnellate al mese per tre anni) venduti dalla società di stato russa Rosneft, prevedendo che una percentuale del 4% del prezzo pagato da Eni sarebbe stato retrocesso per finanziare la campagna elettorale per le elezioni europee del partito politico Lega, mentre una  percentuale del prezzo pagato da Eni - tra il 2% e il 6% - sarebbe stata corrisposta tramite intermediari e studi legali a pubblici ufficiali dell'azienda di Stato Rosneft". È quanto si legge nel capo di imputazione formulato dai pm di Milano nei confronti di Gianluca Savoini, dell'avvocato Gianluca Meranda e dell'ex banchiere Francesco Vannucci e che è riportato nel provvedimento con cui il Tribunale del Riesame ha respinto l'istanza della difesa dello stesso Savoini contro i sequestri. Eni ha sempre negato il benché minimo coinvolgimento nella vicenda. "Il fumus commissi delicti (gli indizi di reato, ndr) emerge in maniera piuttosto evidente anche qualora si volesse limitare la lettura della registrazione trascritta ai soli dialoghi svolti in lingua italiana tra Savoini e gli altri due indagati presenti all'incontro: Gianluca Meranda e Francesco Vannucci". Per il Riesame "emerge dagli atti una situazione  fattuale (sia pure suscettibile di ulteriori approfondimenti) congruamente rappresentativa di una condotta fondatamente sussumibile nella fattispecie di reato di corruzione internazionale". E ancora, argomentano i giudici milanesi per spiegare che quel sequestro è fondato, dalla conversazione, "si evincono lo schema delle parti illecite coinvolte nella trattativa", "la possibilità di reiterare l'accordo nel tempo", "la necessità di corrispondere delle commissioni ai 'contatti' presenti all'interno delle compagnie petrolifere e del gas", "l'entità della 'commissione' da pagare ai 'contatti' al fine di assicurarsi la retrocessione del 4% del prezzo corrisposto da Eni spa per l'acquisto del petrolio", "la circostanza che il denaro retrocesso fosse necessario per finanziare la campagna del partito politico Lega", "i contatti della Lega all'interno di Banca Intesa". Secondo l'accusa, la Lega avrebbe dovuto ricevere (non si sa se sia andata in porto la trattativa) un finanziamento illecito a margine di un affare petrolifero. "Allo stato non emergono dagli atti (ne' la difesa li ha prodotti) - si legge nel documento - elementi per ritenere che la registrazione di cui si discute sia il frutto di un'intercettazione illegittima, effettuata da un soggetto non presente al colloquio incriminato". Cosi' i giudici spiegano perche' hanno respinto l'argomento della difesa che la registrazione non potrebbe essere utilizzata perche' "frutto di una captazione illecita, in quanto non autorizzata dall'autorita' giudiziaria". Inoltre, per il Tribunale la registrazione prodotta dal giornalista Stefano Vergine, che ha consegnato l'audio alla Procura, "non è equiparabile a una denuncia anonima" in base alla giurisprudenza della Cassazione e al codice di procedura penale. La tesi del legale, respinta dai giudici, ruotava principalmente attorno al fatto che quell'atto istruttorio si fondava, come fonte di prova, su una registrazione che era inutilizzabile non solo perché in lingua inglese ma soprattutto in quanto non si sapeva da chi era stata effettuata. Per tanto la richiesta era l'annullamento del decreto di perquisizione e dei sequestri dei cellulari e di alcune carte al suo assistito. Da quanto è stato riferito, i giudici del Riesame hanno sostenuto che la fonte in realtà non era anonima ma semplicemente non è stata rivelata dal giornalista dell'Espresso che aveva consegnato il file audio ai pm e che, sentito in Procura a Milano, si era avvalso del segreto professionale e quindi del diritto di non rivelarla. Quanto al fatto che la registrazione era in lingua inglese i giudici hanno fatto notare che lo stesso Savoini, uno dei tre italiani al tavolo della presunta trattativa alla quale hanno partecipato altrettanti personaggi russi, parlava in inglese.

Sandro De Riccardis per “la Repubblica” il 3 ottobre 2019. Il 17 ottobre 2018, poche ore prima dell' incontro all' hotel Metropol di Mosca - dove Gianluca Savoini incontra i tre funzionari russi per discutere della compravendita di petrolio che avrebbe dovuto portare nelle casse della Lega 65 milioni di dollari - lui e Matteo Salvini si trovano a pochi metri di distanza. Savoini, ex portavoce proprio di Salvini e presidente dell' associazione Lombardia- Russia, è seduto in prima fila nella sala dell' hotel Lotte, dove Confindustria Russia ha organizzato un incontro con gli imprenditori. E Salvini è proprio lì, di fronte, sul palco. A confermarlo, un video di Report , che sarà nella puntata di lunedì 21 ottobre, alle 21.15, su Rai3. Un estratto del filmato è in anteprima sul sito di Repubblica. Salvini e Savoini. Il giorno prima della trattativa al Metropol. A pochi metri di distanza l' uno dall' altro. Immagini che rendono poco credibile la versione che da mesi viene data dall' ex viceministro italiano. E cioè che lui, dell' incontro della mattina dopo al Metropol, non ha mai saputo nulla. «Non è una cosa seria», ha detto di nuovo ieri Salvini, commentando la rivelazione di Repubblica sull' esistenza di un foglio - agli atti dell' indagine della procura di Milano - che proverebbe l'accordo del Metropol. Nell' inchiesta di Giorgio Mottola, anche un' intervista esclusiva all' oligarca russo Konstantin Malofeev, titolare di un fondo di investimento da un miliardo di dollari, che conferma a R eport l' esistenza di una trattativa sulla compravendita da 1,5 miliardi di dollari di gasolio, con uno sconto sul prezzo del 10 per cento: il 4 per la Lega, il 6 per i russi. Malofeev non ha mai nascosto la sua vicinanza con l' estrema destra. L' aveva confessata anche a Repubblica in un' intervista uscita il 6 settembre . Report racconta come Malofeev abbia fatto ottenere, tramite una banca russa, un prestito da 2 milioni di euro ai neofascisti di Jean Marie Le Pen. E, secondo le accuse mosse contro di lui in Francia, avrebbe aiutato il Fronte Nazionale di Marine Le Pen a incassare 11 milioni da una banca cipriota. Nonostante sia stato inserito nel 2014 nella lista nera delle persone non desiderate dell' Unione Europea, Matteo Salvini lo ha incontrato più volte. «Mi piace Matteo Salvini - dice ridendo nell' intervista - La prima volta che l' ho incontrato sono rimasto molto impressionato, ha idee molto forti. L' ultima volta è stato poco prima che diventasse vice primo ministro». Ma poi Malofeev parla della trattativa sul petrolio. «A Savoini ho chiesto: "ma cos' è questa storia del Metropol?". E lui mi ha risposto: "Niente, ho parlato con dei tizi, degli avvocati. Mi hanno detto che volevano parlare di alcune faccende che riguardavano il petrolio. Abbiamo discusso di petrolio e di come io potevo aiutarli con Eni». «Quindi le ha confermato che la trattativa c' è stata?», chiede il giornalista. «Mi ha confermato che si è incontrato con i russi e ha iniziato a parlare con loro di petrolio». L' ex titolare del Viminale minimizza ancora "Non è una cosa seria" ma i pm di Milano continuano a scavare j Il filantropo Konstantin Malofeev, 45 anni, titolare di un fondo da un miliardo di dollari Su Repubblica L' articolo di ieri su Repubblica sul pizzino ritrovato nei telefonini dei partecipanti italiani all' incontro del Metropol con l' ipotesi della spartizione.

TUTTI I RUSSIAGATE DELLA NOSTRA VITA. Filippo Ceccarelli per Doppiozero.com il 13 settembre 2019. Affari, spionaggio, risate, preoccupazioni, un mare di chiacchiere e la qualità della democrazia in Italia. "Quando il vento dell'Est, ci porterà..." cantava Gian Pieretti nell'ormai preistorico 1966. Ecco, a scandalo divampato, poi raffreddato, poi parzialmente riacceso, ma soprattutto a governo nazional populista caduto e sostituito è forse e pur sempre il momento di chiedersi che cosa esattamente ci porta l'aria che da qualche tempo, previo scoperchiamento del Russiagate, spira in Italia dopo aver gonfiato le vele del sovranismo salviniano anti europeo. E subito sia detto onestamente, anche per acchiappare quel minimo di attenzione che un testo così lungo certamente scoraggia, che gli scandali sono belli specialmente all'inizio dell'estate; perché s'infuocano lasciandosi rapidamente consumare prima delle vacanze come un foglio compromettente tenuto con due dita per non bruciacchiarsi; ma quando alla fine la fiamma si spegne, è come se quell'accenno di fumo grigiastro ti desse appuntamento per nuove scoperte e promettenti rivelazioni: in autunno o come indicavano le note politiche della Prima Repubblica "alla ripresa" – mentre in verità la sarabanda non si è mai fermata, intensificandosi anzi nel vivo dell'agosto sudaticcio, dagli stabilimenti balneari alle stanze del Quirinale. Fino al varo settembrino del nuovo esecutivo, che certamente si connota in senso super-europeista e anti-russo; con il che lo scandalo finisce per rappresentarsi come punto di svolta, e insieme presagio, sirena d'allarme, rilevatore di ulteriori sviluppi, magari anche a futura memoria.

Puzza di petrolio: da Mattei a Savoini via Eni-Petromin. Ora, non so quanto finora Moscopoli abbia scosso la coscienza civile. Temo poco, anche per malinconico sfinimento e rassegnata assuefazione. Durante la crisi di governo è risuonato qualche flebile allarme, "rischiamo un'Italia putiniana", satellite della Russia, e così via, ma più per dare addosso a Salvini che per meditato convincimento. Lo stesso ex presidente del Consiglio Conte, nel suo discorso di addio, è sembrato affrontare di nuovo la questione rivolgendosi direttamente al suo vicepremier: "La vicenda merita di essere chiarita, e sono venuto io in aula al posto tuo, senza ottenere neanche le informazioni del ministero. Ma sappi che il caso ha risvolti internazionali". A parte che Salvini lo sapeva meglio di lui, uno strano modo di riaprire la faccenda tenendola ermeticamente chiusa. E però: forse l'unica grande e residua virtù degli scandali sta nella loro potenza rivelatoria. Nel senso che indicano, a volte confessano a loro insaputa non soltanto i possibili orizzonti della vita pubblica, ma anche i desideri, le debolezze, le smanie, le frustrazioni, le tentazioni e più in generale le umane caratteristiche delle varie classi e dei vari soggetti che il caso e la necessità, per non dire le elezioni democratiche e il fiorire di clan e cricche, portano a esercitare il potere. E tornando quindi al vento dell'Est, l'unica certezza sensoriale per ora, inconfondibile al naso dei giornalisti di lungo corso, è una certa puzza di petrolio; o di gas, che non cambia un granché. Oltre a movimentare una cospicua mole di quattrini e guadagni, da Mattei in poi, passando per Cefis e per le varie fasi del primo e sovvenzionato centrosinistra, qui in Italia i traffici petroliferi hanno il modo di delineare nuovi equilibri, alleanze e complicità. Quindi anticipano e segnalano snodi politici, che al giorno d'oggi si sono fatti internazionali e anche globali. Nello specifico tran tran di governi e politicanti si tratta di accordi che vanno in porto, ma che possono anche saltare, o essere fatti saltare, pure in extremis; e in questo senso il malricordo va all'affare Eni-Petromin, che era la compagni statale petrolifera dell'Arabia saudita, a cavallo fra gli anni 70 e 80, il periodo della solidarietà nazionale; intricata vicenda grazie alla quale si comprese, con la partecipazione straordinaria dell'Eni e della loggia segreta P2, che la vita pubblica aveva trovato in Bettino Craxi un nuovo e ingombrante protagonista. Breve riepilogo. Quando tutto sembrava filare liscio, di punto in bianco il leader del Psi si mise a fare il diavolo a quattro per affossare il conveniente affarone, che com'è ovvio comportava una ancora più conveniente stecca per oliare i meccanismi dell'accordo. Bettino si era convinto che una buona parte della tangente sarebbe ritornata in Italia, un po' come nella vicenda moscovita, in quel caso consentendo ai suoi alleati della sinistra socialista (non ancora "ferroviaria") che faceva capo a Claudio Signorile e al capo del governo democristiano, il solito Andreotti, di rafforzare l'alleanza ai suoi danni e a tal fine, esclusi gli spiccioli, comprarsi il Corriere della Sera. Come ovvio nulla di tutto ciò fu mai provato, né forse ce n'era bisogno. Ma siccome la storia è fatta di minuti e leggendari particolari, non di rado tutt'altro che nobili, si tramanda che ad avvalorare i sospetti craxiani fu una lunga e snervante riunione tenutasi su altri argomenti "a studio", come diceva Andreotti intendendo il suo particolare e intimo Centro Studi Lazio; riunione nella quale lui, o forse era Rino Formica, comunque si accorse con raccapriccio che Signorile non aveva neanche bisogno di chiedere dov'era il bagno (quello stesso in cui ogni mattina il Divo veniva farsi radere dall'ex barbiere della Camera, intrattenendosi nel frattempo con l'interlocutore di turno che veniva fatto accomodare "sul trono", come Andreotti designava il bidet). Sia come sia, il contratto Eni-Petromin venne bloccato, la solidarietà nazionale finì poco dopo e Craxi ebbe prenotato un posto a Palazzo Chigi. Anche l'affare che andava imbastendosi nella ormai celebre conversazione dell'hotel Metropol di Mosca sembra definitivamente compromesso. Ma specialmente in questo caso l'origine e lo svolgimento dell'impiccio, nonché le modalità del suo affossamento paiono al momento, se non misteriose, almeno poco chiare. Ciò detto, dall'arcano e terribile Petrolio pasoliniano, con i suoi riferimenti alle stragi degli anni 70, fino alle timidezze italiane nei confronti di un paese produttore come l'Egitto sul caso del povero Regeni, Sua Maestà il Grezzo ha la tendenza a dettare legge. E tuttavia ciò che arriva dalla Russia, dai suoi oleodotti e gasdotti, ma anche dai suoi alberghi e dai suoi archivi, è sempre un po' da prendersi con pinze supplementari.

Si pensi alla cruda e cinica lettera  del 13 febbraio 1943 di Palmiro Togliatti a Vito Bianco sulla questione dei prigionieri italiani in Russia: missiva poi risultata al tempo stesso vera, falsa, resa illeggibile dalla fotocopia, male dettata e peggio interpretata al telefono, gettata quindi nell'agone, però goffamente, avendo attribuito alla penna del Migliore, gelosissimo delle proprie preferenze filosofiche e letterarie, un eccentrico riferimento al "divino Hegel". Così come sembrò nel migliore dei casi singolare alla fine dello stesso decennio l'apparizione, sempre da Mosca via Londra, del cosiddetto dossier Mitrokhin, dal nome dell'archivista del Kgb che giorno dopo giorno per anni e secondo enigmatici criteri avrebbe sottratto documenti d'ufficio conservandoli all'interno delle bottiglie del latte, a loro volta seppellite nel giardinetto di casa.

Tra parentesi quadra. In una di quelle schede, compilata nell'estate del 1978 dalla Residentura di Roma, mi ritrovai vent'anni dopo impigliato per i capelli, anzi per i riccioloni che a quel tempo portavo fluenti. Giovane giornalista, avevo scritto in quei giorni per “Panorama” un articolo nel quale davo conto dei sospetti di alcuni democristiani nei confronti degli Usa a proposito dell'assassinio di Moro. Gli spioni russi accreditarono quel mio acerbo scritto come uno dei succosi e nutrienti frutti dell'"operazione Shporà", o Sperone, prendendosene ovviamente il merito e facendomi passare come un allocco. In realtà a quel pezzo avevo lavorato sodo e del tutto a digiuno da fonti sovietiche, non essendoci del resto alcun bisogno di qualsivoglia sperone per giustificare la diffidenza – e i sensi di colpa – di parecchi dc, a partire dall'entourage moroteo, rispetto a qualche scherzetto giocatogli oltreoceano.

Parentesi tonda. Scoprii in seguito, non senza qualche postuma preoccupazione, che oltre a essere finito nelle schede del rapporto Impedian, l'altro nome delle carte Mitrokhin, quello stesso articolo che il mio direttore di allora, Lamberto Sechi, intitolò "Moro come Kennedy?" aveva destato anche lo sdegnatissimo interesse dell'ambasciata americana. Tuttora mi pare stramba l'idea di essere stato, a quell'età, così letto in sede internazionale. Ma non posso dimenticare la potente approssimazione (nella scheda si parlava di un Consiglio nazionale democristiano tenutosi il 31 giugno!) e la disinvoltura anche un po' truffaldina con cui gli spioni sovietici della capitale, sede quant'altre mai agognata, si giocavano quel lavoro per farsi belli "colli Superiori", come si dice appunto a Roma. Ma pazienza.

Se per la lettera insieme fasulla e veritiera di Togliatti l'allora presidente della Repubblica Cossiga, che a quei tempi si agitava moltissimo, propose nientemeno che una Commissione di storici cui nessuno volle dare seguito, ecco che sul dossier Mitrokhin, a partire dal 2001, per impulso del centrodestra vittorioso, fu insediata e lavorò effettivamente e a lungo, tra avvelenamenti e buffe scenette, una Commissione parlamentare d'inchiesta, presieduta da Paolo Guzzanti, organismo la cui maggioranza non difettava di attitudine dietrologico-cospirativa, bizzarrie testimoniali e qualità dei suoi esperti, uno dei quali, già guardia ecologica nel parco del Vesuvio, finì anche dentro. Lo scopo della maggioranza, a semplificarlo ma non troppo, consisteva nel dimostrare che l'intera politica italiana era stata praticamente teleguidata dal Kgb, nella recente fase del centrosinistra attraverso i servizi segreti italiani; ma siccome l'appetito vien mangiando, alcuni commissari berlusconiani e di An si misero di buzzo buono nel cercare di rimediare anche qualche pezzuola d'appoggio per sostenere che l'ex leader e premier dell'Ulivo Romano Prodi, a quel tempo presidente della Commissione europea, era stato in pratica e continuava ad essere un agente dei sovietici e di quanti ai sovietici erano succeduti al Cremlino – cosa che avrebbe comportato qualche problemuccio internazionale e supplementare. Sennonché l'impiccio degli impicci, per certi versi anche abbastanza spassoso, era che nel frattempo il presidente Berlusconi, per il quale l'arma elettorale dell'anticomunismo era tanto fervida quanto retrattile, andava stringendo rapporti sempre più stretti, sia politici che economici che personali e privati, con il sopraggiunto leader russo Wladimir Putin, che bene o male proveniva proprio dai ranghi del Kgb. Per cui il presidente Guzzanti e 40 poveri membri della Commissione Mitrokhin, più i funzionari e i consulenti e i documentalisti, mentre i giornalisti se ne stavano già da tempo sovranamente disinteressando, si trovarono appesi come il classico caciocavallo messo a stagionare nel freddo buio del cantinone, in attesa di finire nel dimenticatoio.

Vale dunque ripeterlo: tutto consiglia di maneggiare con un supplemento di accortezza ciò che proviene da laggiù. Non solo per par condicio, tale cautela è da considerarsi reciproca e vicendevole anche da parte di Mosca riguardo alle cose italiane. E in tal senso, fatta salva la differenza dei generi, vale purtroppo qui la pena di segnalare che nella breve stagione sovranista, fra i tanti anche decorosi prodotti dell'ingegno cinematografico a disposizione si è fatto in tempo a rifilare alle ferrovie russe, non si sa a quale prezzo, nientemeno che il "Barbarossa", il costoso e controverso polpettone leghista nella prima metà degli anni Duemila imposto alla Rai e incentrato sull'incerta figura di Alberto da Giussano, l'eroe del Carroccio. Le cui avventure saranno proiettate a beneficio dei passeggeri sui treni della Federazione. A suo tempo Bossi visitò il set in Romania, come Mussolini per "Scipione l'africano" a Sabaudia e Andreotti "Ben Hur" al Circo Massimo. Forse a Salvini, a quel tempo dotato di orecchino e candidato alle elezioni padane nella lista dei comunisti farà piacere sapere che migliaia di guerrieri leghisti furono interpretati da altrettante comparse rom, a 400 euro la settimana. Bossi stesso figurò nella preziosa pellicola nelle vesti di un nobile lombardo. Del "Barbarossa" il grande pubblico aveva felicemente perso la memoria quando un ciclo di intercettazioni ne tramandò il difficoltoso, ma pressante avvio produttivo: "Con questo cavolo di fiction del Barbarossa mi stanno facendo una testa tanta!" – sollecitava il povero Berlusconi raccomandando questa o quell'altra sua amichetta a un dirigente Rai. Inflitto oggi agli innocenti viaggiatori di quella sterminata nazione, dieci anni orsono il film ebbe la sua bella anteprima al Castello Sforzesco di Milano con ministri, autoblù, guerrieri a cavallo, bracieri e altri ammennicoli di residua e oramai superata piegatura celticheggiante. Per cui la storia delle sòle suona varia e anche sproporzionata, ma in un modo o nell'altro conferma che pure i russi, francamente, è bene che diffidino di quanto gli viene mollato dal Belpaese.

"Ridicola" ha voluto definire Salvini, a caldo, l'inchiesta sul Russiagate. L'aggettivo è risuonato con uno sbuffo di solenne, ma poco convinta indignazione in una conferenza stampa nella quale, accaldato e con la consueta camicia bianca aperta più del necessario, l'allora uomo forte della politica italiana non sembrava in verità tanto disposto a riderci su. Allorché le domande dei giornalisti si concentrarono sugli spostamenti, il ruolo e la presenza del suo amico e fedele Savoini in questo o quell'altro appuntamento ufficiale, a Mosca e anche a Roma, sull'aereo, alla Confindustria russa, al ministero, a Villa Madama, con gli imprenditori italiani e la nomenklatura di Putin, Salvini è sbottato: "Ma che ne so io che ci stava a fare Savoini? Chiedetelo a lui!". E qui il vero e irresistibile senso del ridicolo ha calato sul banco del Viminale il suo asso di bastoni; non solo perché, come ha notato incredula mia figlia, tra Salvini e Savoini la distanza del suono è minima e lei all'inizio credeva che fossero la stessa persona. È che nell'eterna commedia italiana, insieme con il dispositivo dello scambio di persona, la figura del finto tonto, tecnicamente raddoppiato dall'espediente dello scaricabarile, si staglia con un'inesorabile vigoria comica. Oltretutto nel caso della classe dirigente leghista tale effetto vantava già una sua consolidata notorietà, per cui nell'estate del 1994, invano confidando sulla distrazione procurata dai mondiali di calcio, un altro ministro dell'Interno, Bobo Maroni, sempre in conferenza stampa pretese di far credere ai giornalisti di aver apposto la sua firma su un provvedimento di depenalizzazione, in pratica una specie di amnistia in piena Tangentopoli, senza averne mai letto il testo. D'altra parte il maestro di tutti loro, Umbertone Bossi, ha sempre mantenuto con la verità un rapporto tutto suo; e anche senza contare l'acqua santa del Po sversata nella laguna di Venezia con bimba vestita di rosa e volo di colombi, a parte l'insurrezione armata della Bergamasca ("rimbombava nelle valli il grido...") e la proclamazione di un Parlamento e poi di un governo della Padania, in un’apposita manifestazione celebrò il trasloco della seconda rete Rai a Milano, cosa mai decisa né mai realmente effettuata; e visto che c'era, l'anno appresso, anche l'installazione di un fantomatico ministero del Nord nella villa reale di Monza, pure mostrando in pubblico le banconote per arredare gli uffici. Si aggiunga che questi ultimi non disponevano di servizi igienici e che il portiere dello stabile smarrì quanto prima le chiavi, cosicché rimasero serrati per sempre – quanto alle banconote, converrà ricordare che giusto in quel periodo era in azione l'amministratore Belsito, con i diamanti in Tanzania, la laurea albanese del Trota e la preziosa cartellina intitolata "The family" da cui anni dopo si ebbe la sorpresina che pure la celebre canotta del Senatùr era stata acquistata a spese del contribuente. E tuttavia la goffa presa di distanza di Salvini a scapito di Savoini consentì ai più zelanti fra i leghisti di accanirsi su quest'ultimo trattandolo – ah, ingrati! – alla stregua di un intruso, un imbucato, un fanfarone, un millantatore e poco mancò che gli dessero del mitomane per aver partecipato alle conversazioni del Grande Fratello dell'hotel Metropol. Già questo era abbastanza divertente, e al tempo stesso, come sempre accade in Italia, penoso. Ma l'andazzo acquistò maggior brio quando in tempo reale venne fuori che Salvini e Savoini comparivano a tutto spiano e per lo più sorridenti in un interrotto flusso di immagini autoprodotte e massivamente esposte dalle rispettive vanità social. Li si vedeva insieme in pranzi, riunioni, incontri d'alto protocollo istituzionale con russi di ogni ordine e grado, oltre che nei corridoi degli alberghi di Mosca e perfino in posa sulla Piazza Rossa. Salvini sfoggiava in quell'occasione una maglietta con Putin in uniforme militare. C'è da dire che in quell'effigie il capo post-sovietico faceva la sua bella figura militaresca, dal che si può azzardare che proprio a Putin si fosse ispirato il vicepremier nei successivi travestimenti in uniforme. Il punto delicato da dire è che gli scandali in Italia fanno sempre un po' ridere. Oddio, ogni volta che scoppiano sono brutti, d'accordo, e meglio sarebbe che non ci fossero. Ma con lo scorrere del tempo, anche velocemente, tipo due o tre giorni, sembra quasi che l'antico motto evangelico, oportet ut scandala eveniant, comporti un'appendice entro la quale, pure esaurito il valore istruttivo e pedagogico della vicenda, s'intravede a volte sullo sfondo, a volte controluce, a volte in primo piano, il nucleo incandescente dell'umorismo che in qualche modo riscatta le brutture del malaffare alle spalle di coloro che in genere e buffonescamente l'hanno procurato.

Da questo punto di vista Moscopoli è esemplare: un caso di scuola, a suo modo una lezione civile. Più che evidente è la palese inadeguatezza di Savoini e dei suoi compari infilatisi a viva forza in una faccenda petrolifera e miliardaria assai più grande – come ammesso del resto dalla signora Savoini mamma del protagonista – di loro; oltre che pericolosa. Ma proprio il complemento spionistico – l'hotel moscovita, la registrazione e le immagini dei colloqui, la diffusione del tutto su un sito americano – assicurano alla vicenda legaiola un tocco da Totò & Peppino, sia pure virato in chiave padan–sovranista. Non solo, ma l'incombente fantasma dei servizi segreti – siano essi americani, russi, cinesi, italiani o di chissà quale altra potenza – ha subito impresso un rimbalzello per cui la nebulosa affaristica è pure incespicata verso il mondo ancora più indecifrabile del traffico d'armi, in questo caso dei mercenari filo-russi e filo-ucraini che si combattono nel Donbass; sia come sia è emerso l'immancabile & improbabile attentato forse in preparazione (ai danni, pare, di Salvini). E già questo basterebbe ad accogliere il tutto con scetticismo. Ma la già intricata ed enigmatica vicenda del petrolio e del gas moscovita, con eventuale, preteso steccone pro-sovranista si è riprodotta generando in una settimanella la più scontata proliferazione di comprimari, complici, mestatori, procuratori d'affari, soci in accomandita, testimoni spontanei e tirati in ballo senza ragione, fino al titolare di un'agenzia di modelle russe e una bella ragazza, non modella ma impegnata nel putinismo militante, di cui si è letto che aveva aiutato i leghisti italiani e perciò era stata ricompensata con un panettone. Va da sè che tale ambaradam costituisce da tempo immemorabile la più ovvia e indispensabile premessa per qualsiasi naturale cortina fumogena e azzardato depistaggio. Sempre con solerzia degna di miglior causa si può aggiungere che alcuni di questi personaggi in cerca di business per conto della politica erano detti un tempo, con qualche sdegnato distacco, "faccendieri". Il termine ha un origine più che altolocata, essendo entrato in circolo nell'anno 1513 in uno scritto di Nicolò Machiavelli; però, curiosamente, ma neppure troppo, nelle cronache di Moscopoli l'antico ruolo e a suo modo professionale del "faccendiere" è stato quasi soppiantato dal "facilitatore" – il che porta a malinconiche riflessioni sul grado di decadimento occorso anche nella lingua degli scandali, ormai definitivamente omogenei all'universo delle aziende e dei manager. Quindi è partita l'anatomia patologica delle figure centrali. Per cui a carico di Savoini s'è evidenziata, insieme all'innegabile vicinanza a Salvini la fede "post-nazista" e il fatto che egli risultasse fra i proprietari dello stabilimento "Ondina" di Laigueglia, in provincia di Savona. Come ovvio, gli stereotipi sono ingiusti e parziali per tutti, compresi i fautori dell'ideologia rosso-bruna; è anche verò però che dopo il fantasmagorico exploit del Papeete, il "tipo da spiaggia" cominciava davvero a espandersi fra i ranghi dell'antropologia leghista, e non troppo a favore della sua credibilità. Allo stesso modo, quando ci si è dovuti chiedere chi fosse Claudio D'Amico, l'altro iper-salviniano dedicatosi a intrattenere i rapporti con la Russia, e come tale immaginificamente insignito del titolo di "Consigliere per le attività strategiche di rilievo internazionale" nell'organigramma di Palazzo Chigi. Beh, neanche a farlo apposta tale D'Amico si era distinto quale fautore di un'operazione-verità sugli Ufo, tanto da figurare in camicia verde in un imperdibile video girato a Pontida: "I cittadini europei – osservava – hanno diritto di sapere se gli alieni visitano il nostro pianeta".

Sia D'Amico che Savoini – sia detto qua senza alcuna malizia – sono sposati a due donne russe, rispettivamente Svetlana, già interprete di Bossi, e Irina; ma a quanto è dato sapere purtroppo per loro i due mariti leghisti non parlano la lingua. Anche senza appoggiarsi a brutali e facili sessismi, l'elemento femminile ricorre spesso nelle vicende che hanno a che fare con la Russia, ma nel traffico petrolifero assai meno del solito. Tutti rigorosamente maschi sono in effetti i protagonisti: tanto i principali o supposti beneficiari, quanto i dispensatori di prebende energetiche fra i quali si delineano alfieri di un tradizionalismo dei valori che non si esita a definire reazionario. C'era poi al Metropol un signore di nome Gianluca Meranda, avvocato d'affari e internazionalista, del quale non si è mancato di sottolineare, quasi all'istante, che fosse non tanto membro della massoneria, quanto espulso dalla medesima, per ragioni non specificate, comunque da ritenersi non esattamente a maggior gloria del Grande Architetto dell'Universo. Anche la presenza di massoni, pure nelle varie sottospecie di massoni in sonno, massoni in lite e massoni cacciati, è abbastanza ricorrente nella scandalistica domestica. Si tratta del resto di un mondo massimamente litigarello, ma ciò che forse spiega la diffusione di tanti liberi muratori nelle peggiori vicende è l'intraprendenza di chi, lungi dalle rare dispute ermetiche, aderendo alle logge cerca un punto d'appoggio da cui tentare la scalata sociale attraverso rapporti, amicizie, protezioni, contributi, prebende, inciuci, complicità e via degradando verso le inchieste giudiziarie, anche serie, specie nel mezzogiorno dove più oscura si avverte l'ombra della criminalità organizzata. Sempre sui divani dell'albergone post-sovietico sedeva infine Francesco Vannucci. Anche di lui, quasi in tempo reale, le cronache hanno diffuso il soprannome: "Il Nonno". Donde la pronta replica: "Sono profondamente dispiaciuto d'essere indicato in modo a volte ironico a volte opaco come 'Nonno Francesco'". La precisazione è giunta nei caldi giorni in cui la giostra delle rivelazioni, per lo più necessariamente imprecise, era su siti e giornali in pieno svolgimento; così, a titolo del tutto indicativo di un certo andazzo ambientale, oltre al Nonno e al Bagnino, fra i vari personaggi tirati in ballo, a volte senza ragione, ne è significativamente comparso uno allegramente presentato come "il Conte Mascetti", e cioè nello stesso modo in cui figurava Ugo Tognazzi in una delle più popolari commedie all'italiana: "Amici miei" di Mario Monicelli. E di nuovo non è per essere pedanti, ma tocca pur sempre ricordare che i soprannomi, così efficaci a insaporire la vita della provincia, da sempre ricorrono abbondantemente nelle vicende leghiste. Vedi "Nosferatu" (il professor Miglio), "il Cernia" (Formentini), "la Nera" (Rosy Mauro), "Jo Michetta" (Speroni), fino al "Trota" (Renzi Bossi). Il guaio semmai è che si sono presto dimenticate anche le formidabili peripezie e frequentazioni dell'amministratore Belsito, per sua stessa definizione "il tesoriere più pazzo del mondo", che per il suo ufficio si affidò a un paio di curiosi individui, a loro volta soprannominati in via Bellerio "l'Ammiraglio" e "lo Shampato", quest'ultimo s'immagina per la cura riposta nell'esibire fluenti chiome – ma è solo un'ipotesi. Pare invece acclarato che durante il colloquio moscovita, in un attimo di relax, qualcuno della "delegazia" italiana rivolgendosi agli interlocutori si sia concesso la libertà di scherzare: "Se avete qualche gulag, vi possiamo mandare un mucchio di gente dall'Italia". Al che un russo, anch'egli non ancora identificato gli ha retto il gioco chiedendo: "Per la riabilitazione?". E lo spiritoso sovranista: "Sì, mentale". Con lo svolgersi dell'estate, non molto tempo prima di mettere fine alla coalizione di governo, Salvini ha smesso di definire "ridicola" l'inchiesta designandola "un film di spionaggio di serie B". Ora, la commedia in Italia non teme rivali, o meglio li assorbe e li integra estendendo l'ala su qualsiasi ambito dello spettacolo, non escluso il genere della canzone e del cinema cosiddetto "musicarello". Con tale premessa, a un certo punto anche Al Bano, insieme con Toto Cotugno, è stato tirato per i capelli in mezzo al derby fra Russia e Ucraina. Nel fatidico mese di ottobre del 2018, quando si tenne la riunione del Metropol, il cantante, che con Savoini non c'entra nulla, ma in Russia gode della massima popolarità, venne ingaggiato e si esibì nelle pubbliche cerimonie moscovite per il centenario del Kgb. A dicembre, ricevuto da Salvini al Viminale, Al Bano si presentò al ministero dell'Interno con alcuni imprenditori stranieri recando in omaggio per il ministro un bottiglione del suo vino con tanto di etichetta personalizzata. La visita fece notizia perché durante l'incontro l'atmosfera si fece a tal punto spensierata che tutti i presenti si misero a cantare due popolari brani del tenore di Cellino San Marco, "Felicità" e "Nel Sole". Ora, al netto del mischione tra gorgheggi e affari di governo, se gli imprenditori interessati alla produzione vinicola di Al Bano fossero stati russi, al limite la faccenda avrebbe forse potuto perfino meritare qualche approfondimento. Ma quegli imprenditori erano cinesi; e se pure tra vino e petrolio, sul piano strategico, energetico e commerciale le distanze paiono abissali, con un minimo di sconcerto vale la pena di segnalare che qualche giorno dopo la cantata del Viminale, Salvini cominciò a fare fuoco e fiamme contro il programma di scambi dalla frusciante denominazione Via della Seta. Ma anche qui, come sempre accade rispetto alle giravolte di una classe di governo ormai stabilmente incoerente, pazienza.

Imbastiti gli aspetti che con ingenua pigrizia si continuano a definire "di colore", toccherebbe adesso affrontare, con i poveri mezzi del giornalismo osservante e orecchiante, nientemeno che la questione russa, per giunta nell'ottica dei pregressi rapporti bilaterali tra il ceto politico "all'italiana" e quello di un paese tra i più fantastici del mondo. Esistono in proposito intiere biblioteche e fonti letterarie di così vivida umanità che non basterebbe una vita a studiarle e forse nemmeno due a comprenderle. Così, chiedendo venia per l'inevitabile caduta nell'abisso dei luoghi comuni, si comincerebbe col dire che agli occhi dell'italiano medio i russi appaiono insieme pigri e vitali, eroicamente patriottici e passionali, romantici e maleducati, talvolta chiacchieroni, talaltra gelidamente silenziosi, ma soprattutto, e a loro modo, diversi come individui gli uni dagli altri, e dalle altre, con il che si è detto tutto e niente. Con minore approssimazione si può essere certi che i russi alzano il gomito come nessun altro popolo dell'orbe terraqueo, fino a contemplare nelle loro lingua decine di modi per indicare diversi tipi e durata di sbronze; ciò nondimeno accudiscono i nostri vecchi con notevole umanità, e da quando i più ricchi fra loro vengono a passare le vacanze in Italia, oppure vi stabiliscono comprando ville e casali, spendono e spandono come forsennati, il che è un'ottima cosa, lasciando a taxisti, camerieri, inservienti, facchini le meglio mance che sia dato immaginare. A tutto questo si può aggiungere che quel popolo lontano coltiva, sempre in interiore homine, un sorprendente senso del limite che trova forse origine negli immani spazi di una nazione, che è anche un impero il quale a sua volta riesce a essere al tempo stesso ghiacciato e torrido, nobile e grossolano, misericordioso e crudele; ma ecco che, per chiudere questa povera disamina, una vocina mi dice che per quanto riguarda i sentimenti, e una certa attitudine teatrale, e perciò anche una indubitabile cialtroneria, noi e i russi siamo fatti, se non gli uni per gli altri, certamente per intenderci. Risata facile e rumorosa, cuore in mano e mano sul medesimo nell'atto di promettere e rassicurare, lacrima scorrevole quando occorre, cioè spesso. Se nei commerci tale quadretto comporta la necessaria ambiguità a sfondo larvatamente predatorio – in questo senso vale la pena di rileggere sia la perorazione più "politica" rivolta da Savoini ai suoi interlocutori nelle conversazioni del Metropol, sia la gelida indifferenza degli smagatissimi interlocutori nel recepirla – al vertice della letteratura, della drammaturgia e della musica, si può azzardare che nessun altro popolo al mondo come il russo è in grado di competere con gli italiani nell'arte di trasferire nella vita quotidiana la commedia e il melodramma.

Ciò detto, gli uomini sono uomini, ma i sistemi ne condizionano senza dubbio gli sviluppi. Per cui si fa risalire a un'insospettabile Enrico Berlinguer, che dei sovietici non si fidava per nulla (mai foto con il colbacco e una volta sul posto sempre chiacchiere all'aria aperta per vanificare le microspie regolarmente poste nelle dacie in cui erano ospitate le delegazioni dei compagni italiani), insomma si deve a Berlinguer la proclamazione delle "tre leggi del socialismo reale". E quindi, prima legge: grandi erano ogni volta i progressi dell'agricoltura. Seconda: i dirigenti mentivano sempre. Quanto alla terza, il segretario del Pci, di cui pare acclarato che la nomenklatura abbia tentato di toglierselo di torno in malo modo (procurato incidente automobilistico in Bulgaria, nel 1973) assicurava che le caramelle avevano "sempre" la carta appiccicata. Occore dire che tali indefettibili norme traevano origine dalla realtà del socialismo realizzato e del sistema sovietico. Ma ormai a trent'anni dalla sua fine si può pensare che certe caratteristiche d'incerto e difettoso packaging nell'ambito della produzione dolciaria e oltre, non siano poi troppo mutate. Molti italiani hanno variamente trattato con i russi. Alcuni, come Palmiro Togliatti, riuscendo anche a salvarsi la ghirba dalle purghe, magari pure approfittando della deportazione di altri inquilini dell'hotel Lux per appropriarsi delle stoviglie e delle coperte abbandonate in quelle torve stanze. Per tanti comunisti italiani, insomma, fu una storia lunga e complicata, fatta anche di terrore, delazioni, torture, dolori. Altri italiani, che comunisti non erano e anzi si proclamavano anticomunisti, però in quei paesi vedevano felici opportunità di vario genere, spesso e volentieri si imbarcarono in spericolatissimi esperimenti politici e diplomatici, così come altri ancora hanno concluso buoni affari; in questo senso è giusto ricordare Enrico Mattei, Vittorio Valletta, lo stesso Avvocato Agnelli. I democristiani, solo alcuni però, si recavano in Russia per ragioni che erano insieme ragionevoli e inconfessabili. Al sindaco santo di Firenze, Giorgio La Pira, stava a cuore la pace, che in russo si dice "Myr"; al presidente della Repubblica Gronchi interessava fare del Quirinale il centro propulsore della politica estera e volle a tutti i costi andare a Mosca in visita di Stato portandosi dietro ogni ben di dio, compresi i tartufi; ma durante un brindisi l'interprete presidenziale toppò clamorosamente e invece di dire "Myr" disse "Syr", che significa formaggio.

Ad Amintore Fanfani Krusciov confessò, con un filo di preoccupazione, di avere anche lui i suoi "dorotei": li chiamò proprio così. Dorotei di marca bolscevica che qualche anno dopo, come già accaduto a Fanfani, puntualmente fecero fuori il leader del Pcus. Anche Andreotti, cui si deve anche un libro di memoria ad hoc, L'Urss vista da vicino (1988), coltivò con il ministro degli Esteri Gromiko e parecchi altri della nomenklatura relazioni più che amichevoli, testimoniate da lettere e testimonianze pubblicate nel suddetto volume di sapida, ma anche soporifera memorialistica. Quando il Divo parve spingersi oltre, spedendo l'ambasciatore italiano sulla Piazza Rossa in omaggio a qualche cerimonia di Stato che forse non lo richiedeva, Indro Montanelli lo criticò aspramente, pure soprannominandolo "Andreottov". Da entrambi le parti si trattava comunque di astuti e flessibili negoziatori. Per gli alleati americani e i generali della Nato, che su questo terreno scivoloso tenevano un po' a guinzaglio i governanti italiani sia pure variando la lunghezza della corda, la sensazione era che un po' ci marciassero, nel senso che se ne approfittavano. Sapendoli per loro natura accomodanti, a Washington temevano che con la scusa della pace, come pure in osservanza alla parallela Ostpolitik messa in atto negli anni 70 della Segreteria di Stato vaticana, i democristiani cogliessero l'occasione dei rapporti con i sovietici per tenersi buoni i comunisti in Italia. In questo senso l'analisi sarà pure stata rozza, ma Moro non lo era affatto, e tra gli ultimissimi suoi scritti – fu trovato in una delle borse che aveva con sé a via Fani – c'è un articolo per il Giorno che non fu mai pubblicato "per ragioni di opportunità" nel quale affrontava da par suo i temi e i tempi della guerra fredda, pure traendone alcune indicazioni di metodo per attenuarne gli effetti. Nei giorni del Russiagate, in uno slancio di orgoglio postumo democristiano, Pierferdinando Casini ha intonato il peana: “Andreotti e Fanfani andavano in Russia con Agnelli, ma per portare lavoro a Togliattigrad, non è che ci mandavano Savoini”. Più o meno con gli stessi intenti comparativi il comunista Gianni Cervetti, un'altra figura che il mondo russo conosceva assai bene per esservisi formato per conto del Pci, ha osservato che ai suoi tempi i rapporti non solo passavano per via diplomatica, tagliando fuori le mezze figure "che si fanno gli affari loro", ma nel complesso tutto era improntato a una certa "gravitas".

E qui, a parte la gravitas, il contenuto già abbastanza soggettivo di queste mie semiserie riflessioni sui fatti del Russiagate, è destinato a prendere un'impennata ancora più personale ed eccentrica per motivi famigliari, avendo io fin dalla più tenera età sentito parlare dei russi e degli altri popoli dell'Est dalla persona a cui ho voluto più bene perché mi ha trasmesso la maggiore curiosità sugli uomini e sulla vita. Parlo di mio padre che dopo una bella e ricca, per lui, esperienza nel mondo della produzione cinematografica, restato per un po' senza lavoro, nella seconda metà degli anni 60 s'impiegò nell'Ufficio relazioni pubbliche della Finsider, la finanziaria siderurgica delle Partecipazioni statali che attraverso l'Italsider produceva a Taranto degli enormi tubi di cui in pratica i sovietici erano gli esclusivi acquirenti. Tra gli incarichi di mio papà Luigi c'era dunque anche quello di tenerseli buoni spupazzandoseli in lungo e in largo allorché i loro papaveri e tecnici venivano in Italia, come pure accompagnando nell'Est le delegazioni italiane. Inoltre andava spesso in Bulgaria, a Sofia, dove una volta lo accompagnai dodicenne scoprendo che all'albergo Balkan le prostitute parlavano emiliano; e a Plovdiv, sede di una famosa fiera industriale dove la Finsider cercava di vendere altri tubi d'acciaio o ghisa, e dove lui soggiornava presso i signori Filipov, sui quali a casa nostra scherzavamo fosse ormai divenuta la sua seconda famiglia. Da questi viaggi tornava stanco di yogurt e violini e con le valigie piene di essenze di rose e pessimi distillati di prugna. Curioso e affabile, oltre che astemio, una volta fu costretto a bere e si ubriacò, ma gli prese dapprima teneramente, poi tristissima per le condizioni di vita di quella gente e pianse un'intera notte con un russo, o forse era un bulgaro, che comunque aveva scelto lui per sfogarsi. Anche così aveva comunque finito per accumulare una certa esperienza sulla vita e ancor più sulla nomenklatura d'oltrecortina, tanto più ragguardevole se si considera che il capo della siderurgia dell'Urss, poi ministro del Commercio con l'Estero dell'Urss era, come da familismo amorale d'impianto sovietico, il figlio di Leonid Breznev, Yuri. A mio padre debbo perciò fantastici racconti anche sugli intermediari e i marpioni delle trattative, sulle reciproche pigrizie riscattate da lampi di geniale adattamento democristian-sovietico, sulle povere spie che senza averne alcuna vocazione e dopo essere stati presentati agli ospiti con le funzioni più vaghe, quel regime inutilmente poliziesco metteva alle calcagna dei funzionari e dirigenti Finsider. Di fede vagamente socialista, all'aeroporto Luigi si rese conto di come talvolta i poliziotti, gli addetti alle dogane e gli inservienti russi, malpagati e ingrugnati, accogliessero malamente i festosi gruppi di comunisti che giunti dall'Italia alla ricerca del paradiso, si vedevano aprire sgarbatamente le valigie, talvolta pure destinate a perdersi o in qualche caso prese anche a calci. Dai suoi racconti veniva fuori un mondo generalmente asfittico e claustrofobico, di rara inefficienza, però rischiarato da una straordinaria umanità e simpatia, dai pensieri e dai desideri che in tanti russi impediti a viaggiare accendeva l'Italia, la sua bellezza, la sua lingua, la sua cultura, la sua musica. Mio padre era un tipo sensibile e si commuoveva anche. C'era un pezzettino di Russia, diceva, in tutti gli italiani. Per le occasioni in cui i sovietici venivano a Roma o alle acciaierie di Taranto, si era organizzato un singolare parco interpreti composto anche da discendenti di nobili scappati dalla rivoluzione bolscevica che spesso venivano bullizzati dai giornalisti al seguito del potente Yuri. Di uno di questi interpreti, principe dal cognome bizantineggiante, conservava una sdegnata lettera, una sorta di relazione-reclamo che mi lesse con voce impostata, gli occhi lucidi, ma anche un lampo di divertita meraviglia. Ne ricordo a memoria un brano: "Usciti dal ristorante, alticcio, uno dei giornalisti al seguito – protestava il povero nobile russo – mi guardò fisso uscendosene a freddo con la più volgare delle espressioni: 'Sono stato con tua madre!'". Che poteva fargli, povero papà Luigi? Era un lavoraccio anche il suo, appresso a questo caravan serraglio. Una volta s'ingegnò a far vedere ai padroni delle ferriere del Supremo Soviet i più begli aspetti di Roma, gli squarci più suggestivi e ricchi di storia, le strade più chic, i negozi più eleganti, e tutto si svolse nella totale e annoiata indifferenza di Breznev figlio. Solo durante una passeggiata l'ultimo giorno Yuri dette segni d'attenzione impuntandosi come un somaro dinanzi alla vetrina di un negozio residuale di rasoi da barba ed elettrodomestici dietro piazza di Spagna. Quanto ai primi, c'era la leggenda che in Urss se ne producessero del peso di un chilo e mezzo, quindi tutt'altro che agevoli alla rasatura. Ma in realtà il capo della siderurgia era rimasto incantato da una radio transistor a forma di pallone, a scacchi bianchi e neri. Lo volle e immediatamente gli venne comprato. Mi rendo conto che di questo passo Moscopoli si allontana, ma visto che fin qui sono arrivato, non posso fare a meno di ricordare l'atto sacrificale più crudele cui Luigi si sottopose in un ristorantino da lui scelto con cura e raggiungibile attraverso un grazioso ponticello in legno per far mangiare i russi praticamente sopra le acque del lago di Bracciano. Avvertenza: è un racconto un po' forte, lo si prenda come un estremo tributo filiale al lavoro – che non sempre evidentemente rende liberi. Nell'ispezione dell'estremo minuto, perché tutto, ma davvero tutto fosse a posto, rientrava fra le mansioni del perfetto public relations man la visita ai "servizi"; nell'espletare quest'ultimo compito, e quando già dalla finestrella si intravedeva il corteo di auto nera che aveva imboccato la stradina che conduceva al posteggio, Luigi si accorse che la tazza del cesso era praticamente intasata da un unico enorme – eh sì! – stronzo. Tirò allora la catena. Niente. La ritirò. Niente. Ricordo che nel racconto non riusciva a nascondere, oltre al panico per l'imminente arrivo della nomenkatura, l'orrore, ma anche la meraviglia per quella spaventosa creatura: "Gli mancava la parola!". E qui sospirava, per certi versi ispirato, e poi rassegnato e inorridito, preparandosi a raccontare il "lieto fine", che tuttavia non comportava esattamente un sospiro di sollievo. Perché dopo essere sgattaiolato in sala, fra i tavoli imbanditi, Luigi afferrò una forchetta d'argentone e come in un fumetto o in un cartone animato, precipitatosi a tutta velocità nel luogo di quella raccapricciante epifania, piegato concentratissimo sulla tazza infilzò con chirurgica precisione l'anonimo gigantesco stronzolone e gettò il tutto dalla finestrella nel lago di Bracciano, plòff.

E adesso ti voglio a riprendere il filo del Russiagate e della sua potestà segnaletica nel quadro dei nuovi equilibri geopolitici. Ma al di là delle narrazioni paterne, che pure per la loro stomachevole risonanza apprezzavo al massimo grado, ecco che nei primi giorni dello scandalo (che in realtà non erano i primi essendosene parlato già nell'inverno e persino in due meritevoli libri) comunque nella fase estiva, sono rimasto colpito da quanto detto da Eduard Veniaminovic Savenko, in arte Limonov, il fantasmagorico protagonista del libro di Emmanuel Carrère. Interrogato da una giornalista sullo scandalo di Salvini-Savoini, non senza aver espresso la sua riprovazione soprattutto nei confronti di chi speculava su quella vicenda, Limonov fece un'osservazione che ne risvegliò diverse altre: "La politica italiana è diventata una cosa vergognosa, simile alla politica russa". Bene. Per quanto affascinante sul piano narrativo, un appassionato avventuriero non è la miglior fonte per trarre analisi di ordine politologico; ma quella sua netta e sconsolata suggestione sulla rassomiglianza tra la vita pubblica italiana e quella russa suonava come conferma di un'intuizione che era balenata in mente ormai diversi anni orsono. Detta in modo fra il profano e il brutale, a partire dal decennio scorso, ma forse anche prima, mi era parso di comprendere che molto ci stava arrivando, in termini di forme e sostanza proprio dall'Est, come portato del vento della canzone di Gian Pieretti. Ex oriente lux, diceva spesso mio zio Nuccio, grandissimo medico omeopata. Che fosse una illuminazione rassicurante era un altro discorso. Ma le rovine lasciate sul terreno all'inizio degli anni 90 fra Tangentopoli, Mani Pulite, referendum elettorali, affermarsi della Lega e berlusconismo, in pratica gli effetti della fine della guerra fredda e del crollo della Repubblica dei partiti, insomma, tutto questo aveva qualcosa in comune con quanto accadeva in quei paesi che con minimo anticipo rispetto a noi si erano tolti di dosso il peso scomodo del comunismo per darsi, senza tante teorie, una forma di democrazia che andava assestandosi in modo un po' particolare. Ecco: per certi versi, certi sviluppi, certe apparenze, certe atmosfere, questo lento, ma anche rapido assestamento sembrava procedere come un modello che trovava un corrispettivo anche qui da noi. Come una specie di destino sincronico e parallelo. Vero è che la faccenda della democrazia in Russia si era sempre posta in Italia in modo problematico, tanto che già nel 1944 Togliatti in persona si era cautelato con il giovanissimo Andreotti, allora sottosegretario di De Gasperi, chiarendogli che la forma di governo laggiù "non era di stile inglese come da noi"; però a suo modo la democrazia "esisteva, e risultava dalla pluralità delle voci di categoria che contribuivano a formare la pubblica volontà". E tuttavia, mezzo secolo dopo, l'ideuzza che gli italiani avessero da guardare proprio ciò che succedeva da quelle parti per capire come avrebbe buttato da noi, mi pareva certo un po' bizzarra, singolare, eccentrica, come del resto tante me ne vengono in testa. Uno dei miei numerosi abbagli. Però anche mi capitava di riceverne di continuo evidenze e testimonianze, prove e riprove, varianti, indicazioni, adattamenti, per non dire lampi, ombre, risonanze, chiaroscuri e bagliori nel diuturno lavoro di spuntatura e setaccio nelle cronache politiche e non solo. Oggi, devo dire, quella specie di intuizione sull'"Italia dell'Est", come già l'aveva brevemente definita la pubblicistica craxiana all'inizio dei 90, mi pare onestamente meno campata per aria. L'ultima conferma – e anche piuttosto sinistra – a cura del leader sovranista ungherese Viktor Orban: "Nel 1989 pensavamo che l'Europa fosse il nostro avvenire. Oggi pensiamo di essere noi l'avvenire dell'Europa". Là dove mettendo l'Italia al posto dell'Europa la sequenza orbaniana potrebbe funzionare purtroppamente, per dirla con Cetto Laqualunque, anche meglio.

Non molto tempo fa, su cortese e lusinghiero invito, mi è capitato di partecipare in qualità di giornalista-relatore a un seminario di scienziati della politica. In tale consesso ho potuto constatare che i modelli di riferimento di quel gruppo di accademici e comparativisti erano ancora e strenuamente anglo-sassoni. Dal loro osservatorio e secondo i paradigmi di una moderna democrazia liberale alcuni illustri professori monitoravano le trasformazioni del Parlamento italiano. Il quale Parlamento, a mio modesto, approssimativo e come al solito troppo risoluto avviso, appariva in reatà a tal punto svuotato, privo di forza, autorevolezza e centralità da connotarsi o meglio da recuperare una qualche funzione ormai forse solo come una sorta di parco tematico della politica (tifo in aula più commemorazioni, convegni, concerti, teatro, presentazione di libri, eccetera). Debbo riconoscere che la recente crisi di governo ha fortemente ridimensionato quelle mie convinzioni. Ma senza troppa timidezza, quando venne il mio turno, feci presente che le cose qui da noi, a cominciare da Montecitorio e Palazzo Madama, avevano preso da tempo una piega che con la democrazia occidentale non è che avesse più molto a che fare; e invece parecchio ne aveva con quanto andava succedendo negli ex paesi d'oltre cortina. Mi ero preparato abbondantissimi esempi di come la politica italiana, nel vuoto di idealità e nel deserto di progetti, si fosse trasformata, grazie pure al grazioso contributo dei social, in un'attività abbastanza selvaggia di capataz e clan; un concatenarsi di eventi e formule che ricordava, specie per quanto attiene alla concezione della leadership e all'esercizio del potere, il sistema di "democratura" in voga nei paesi dell'ex blocco sovietico, in primis nella Russia di Putin. A studiare gli influssi del quale, aggiunsi, purtroppo quasi nessuno studioso si era dedicato ponendo l'Italia di oggi, quella di Salvini, dei cinque stelle e del governo di allora, al centro di una disamina che avrebbe riservato qualche sorpresa, oltre ad aprire un vasto piano di indagine. Nella mia incalzante perorazione dimostrativa mi risparmiai la significativa circostanza, invero più esistenziale che politologica – ma di questo sempre più vive ormai la politica! – secondo cui un importante, anzi il più importante uomo di Stato e di governo degli ultimi trent'anni avesse battezzato e promosso con orgoglio il giaciglio della sua residenza romana "il lettone di Putin". Non lo feci, prima che per ritegno, per esattezza di cronaca, dopo essermi a lungo dedicato al tema ed essendo arrivato alla conclusione che quel letto king size a baldacchino non era precisamente un dono del presidente russo, ma un oggetto che Berlusconi aveva fatto realizzare da un ingegnoso falegname ricalcando un lettone raffigurato, questo sì, in un quadro donatogli da Putin. E tuttavia, al netto dell'arredamento di Palazzo Grazioli, gli usi, i costumi, i codici, il linguaggio, lo stile, le mire, le credenze e le idiosincrasie dei politici italiani mi sembravano sempre più corrispondere a quelli della classe dirigente dell'Est. Questo dissi, probabilmente in modo più concitato del necessario, ottenendone in cambio, mi parve, una qualche accigliata meraviglia che nel coffe break si tradusse in una forma di cortese isolamento. Pochi giorni dopo i quotidiani proponevano in foto le grottesche prove effettuate davanti a Palazzo Chigi per far entrare nel portone di piazza Colonna la gigantesca limousine di Putin: una Aurus Senat nera, lunga quasi sette metri e larga due, 8 cilindri, 4.400 di cilindrata, a bordo della quale, dopo il trionfo plebiscitario del 2012, il neo rieletto presidente della Federazione russa aveva attraversato una Mosca deserta e blindata per riprendere possesso del Grande Palazzo del Cremlino. A scorrere le cronache dell'ultima visita a Roma si apprese che Putin si era portato appresso anche una figura che fungeva da assaggiatore anti-avvelenamento. Vero è che le precauzioni alimentari, per così dire, e le suggestioni simboliche, forse giustamente, hanno poca presa sulla scienza politica. Così come occorre ammettere che, oggi come oggi, oltre al potere di attrazione esercitato dal neo-satrapismo dell'Est, l'osservazione politologica ha anche parecchio da vedersela con le mattane dei leader delle più evolute democrazie occidentali, a cominciare da Trump e Johnson. Eppure, come si dice: a ciascuno i suoi.

Nell'ottobre del 2018, il giorno prima dei colloqui del Metropol, in una riunione tenutasi a porte aperte nella capitale della Federazione l'allora vicepremier Matteo Salvini volle presentarsi dicendo che a Mosca si sentiva "a casa sua". Non era probabilmente la prima volta che manifestava a una platea del genere questo suo giudizio insieme così personale e pubblico. Come molti esponenti della sua generazione, anche in politica estera spesso Salvini apre bocca e gli dà fiato; per cui dopo una visita compiuta insieme al senatore Razzi a Pyongyang fu prodigo di riconoscimenti addirittura verso il feroce e sanguinoso regime nord-coreano: "Ho visto un senso di comunità splendido. Tantissimi bambini che giocano in strada e non con la playstation, un grande rispetto per gli anziani, cose che ormai in Italia non ci sono più». Ma tornando alla Russia, forse Salvini non sapeva che già nove anni prima, era il 17 maggio del 2009, sempre a Mosca, l'allora presidente del Consiglio Berlusconi aveva espresso l'identico concetto con le stesse parole: "Qui in Russia mi sento a casa mia". Sennonché Cavaliere, che di solito rilancia, ampliò la sua benedizione sostenendo che Putin, insieme a Medvedev, era "un dono di Dio ai russi". È singolare, e al tempo stesso si spiega anche con i processi di rimozione della memoria pubblica quanto rapidamente sia evaporata quella delle res gestae di Silvio Berlusconi, che invece va ricordato proprio per aver pensato, detto e compiuto per la prima volta un'infinità di cose, a loro volta destinate a replicarsi. Ciò detto, appena eletto nel 2008 presidente del Consiglio, come atto inaugurale di governo nel primissimo week end utile prese baracca e Bagaglino e si trasferì a villa La Certosa per un week-end di spettacoli e spettacolini avendo come ospite di molto riguardo proprio il presidente Putin. Era l'esordio della diplomazia berlusconiana, intimista e personalizzata, battuta spiritosa e pacca sulla spalla, session al pianoforte e barzelletta osé, visita panoramica nel parco, ma a un dato momento fu pur sempre necessario organizzare una conferenza stampa a due. Una giornalista russa fece dunque una domanda che Berlusconi ritenne sgradita a Putin, per cui con l'idea forse di sdrammatizzare s'intromise facendo il gesto della mitragliatrice e puntandola verso la disgraziata cronista, che si mise a piangere. I giornalisti italiani non volevano credere ai loro occhi; ma a pensarci col senno di poi, quelle lacrime dicevano assai più, e di più sinistro, di quanto l'inopportuna spiritosaggine berlusconiana volesse rimediare e/o significare. Putin conosceva bene le meraviglie del villone sardo del Cavaliere, dove nell'estate del 2002 vennero ospitate due sue figlie.

Alla fine di agosto dell'anno seguente, sempre a Villa La Certosa, l'accoglienza fu speciale e “indimenticabile”, anche se non esattamente come l'aveva programmata il Cavaliere. Il presidente della Federazione russa arrivò in Sardegna preceduto da una mezza flotta che comprendeva l'incrociatore lanciamissili “Moskva”, il cacciatorpediniere “Smetlivy” e la nave appoggio “Bubnov”. Per l'occasione, sempre nel tipico intruglio di potere esibito e relazioni d'amicizia, furono organizzate delle manovre al largo della costa sarda nelle quali i russi mostrarono in azione, con la speranza di venderlo all'Italia, anche il nuovo aereo antincendio BE-200. L'intrattenimento della serata venne affidato a Toni Renis, che contattò Andrea Bocelli mettendo in programma arie della “Tosca”, della “Turandot” e alcune canzoni napoletane; altre le avrebbe interpretate lo stesso Berlusconi in duetto con Apicella. Per ricercare un effetto di continuità fra la tavola imbandita, le piante del parco e le essenze odorose, con la supervisione di gastronomi e decoratori, sette mastri cesellatori lavorarono giorno e notte alla realizzazione di due incredibili trionfi scolpiti di frutta e verdura. Ma l'evento più rimarchevole – e del quale si è avuto notizia diversi anni dopo – fu che durante uno spettacolo pirotecnico qualcosa andò storto e alcuni razzi puntarono direttamente sulla terrazza degli invitati. Non è difficile immaginare lo spettacolo pazzesco quando tutti, a partire dalle agguerrite guardie del corpo di Putin, pensarono che si trattasse del più temerario e clamoroso attentato mai compiuto nella storia umana. Putin comunque ebbe i pantaloni bruciacchiati, come del resto il Gran Cerimoniere Toni Renis, mentre il vestito della signora Bocelli rischiò la disintegrazione e Silvione afflitto non sapeva come scusarsi. Il presidente della Federazione la prese sportivamente, l'incidente "non ci rovinò la festa" ha poi ricordato ad Alan Friedman, cui si deve l'ameno e anche istruttivo resoconto. Appena possibile, Putin ricambiò l'ospitalità nella sua fiabesca dacia, ovviamente senza razzi. Da grande amico degli animali una volta ebbe il piacere di presentare a Berlusconi un meraviglioso cavallino nano della grandezza di un cocker spaniel che gli si mise a scorrazzare fra le gambe; in un'altra visita gli offrì una sontuosa colazione all'aperto a meno 30 gradi regalando al mondo una formidabile fotografia di loro due ridenti e imbacuccati come eschimesi. Tornati in città, all'insegna del tifo machista, Putin accompagnò il Cavaliere ad assistere ad incontri di lotta libera e hockey su ghiaccio. La sera Berlusconi fu segnalato in un locale notturno di Mosca attorniato da belle ragazze. All'entrata l'orchestrina l'aveva salutato al suono di “Tu vuo fa' l'americano” – e in fondo un po' era anche così, ma il mondo correva e ogni confine andava perdendosi in un grande disordine.

Non so dire se si trattò di una reciproca sbandata. Ma certamente i due non la nascondevano. Forse anche quel tipo di relazione era entrato a far parte della politica estera; o forse, dopo anni e anni di disgelo promesso o fasullo, Berlusconi stava riaprendo una strada verso l'Est senza troppo preoccuparsi di tirare o meno la corda. Alla luce di ciò che è poi accaduto – e ancor più di quanto potrebbe ancora avvenire – penso che al momento si sia erroneamente sottovalutato il valore politico della conferenza Nato-Russia del maggio 2002. Della quale, invece, in tanti giornalisti cogliemmo allora solo l'aspetto di costosissima baracconata, “un'atmosfera romana” era stato il comando presidenziale, quindi capannoni di finto marmo nell'agro, decine e decine di statue autentiche e in vetroresina con fasci di fiori tra le braccia e chilometri di prato a ingentilire televisivamente un patto che fin dall'inizio doveva risultare “epocale” – e magari, viene da pensare oggi, lo era sul serio. Allo stesso modo, nonostante l'enfatico e affannoso pavoneggiamento in cui Berlusconi si esibiva a ogni piè sospinto, credo possa essere rivisto anche il giudizio con il quale lì per lì fu liquidato come pura fuffa il personale intervento del Cavaliere per scongiurare nel 2008 l'invasione russa della Georgia: “Putin – non perdeva occasione di proclamare Berlusconi, anche durante le cene eleganti – mi aveva rivelato le sue intenzioni di attaccare Tbilisi: voleva letteralmente appendere per il collo Saakhasvili. Se ciò fosse accaduto, sarebbe stata la guerra tra Russia ed Occidente ed è merito mio se le cose sono andate diversamente”. Ecco, stai a vedere che fu veramente così! Il punto, o il guaio se si vuole, è che nel nuovo secolo era divenuto difficile se non impossibile distinguere tra la vita dei leader e quella delle nazioni. Per cui sulla scena un tempo compassata della politica internazionale, al posto di quelli che per anni si erano definiti rapporti bilaterali, prendeva vita e andava in scena la relazione fra un Berlusconi putinizzabile e un Putin berlusconizzante dalla quale emergeva una sempre più convergente antropologia del potere. O almeno: gesti, atteggiamenti e consonanze estetiche attiravano gli sguardi nella stessa direzione; una tale e corrisposta amicizia che, dagli e dagli, portò Time ad assimilare l'Italia del Cavaliere a uno statarello satellite della Grande Russia, pure dandogli il nome di "Berlusconistan". Nelle bancarelle del congresso di fondazione del Popolo della libertà, d'altra parte, fu messa in vendita una matrioska con le sembianze del Cavaliere che conteneva, dopo averle debitamente incorporate, le sue svariate vittime: Amato, D’Alema, Rutelli, Fassino, Veltroni. Analogo e originario oggetto esisteva ovviamente con le sembianze di Putin. Del resto era naturale e al tempo stesso sorprendente come i due leader condividessero i medesimi interessi materiali e sentimentali, residenze da favola, devoti servi beneficati, graziose signorine in gran copia, guadagni energetici incalcolabili, lo Stato vissuto da entrambi come "una specie di dopolavoro – secondo Michele Serra – nel quale miscelare allegramente gli affari pubblici e gli affari loro". Ancora più evidente era il gusto di stupirsi l'un l'altro seguendo i moduli un trasporto al tempo stesso grandioso e infantile. Per cui Putin fece guidare a Berlusconi l'idrovolante e pretese che assaggiasse, da una specialissima cantina, un archeologico sherry risalente al 1775; mentre l'ospite italiano, tornato in patria, oltre a esibire con vanitosa disinvoltura un giaccone personalizzato della marina russa, favorì di sicuro la nascita a Milano di un club di Forza Italia intitolato a Putin, pure omaggiando l'amico Vladimir – forse un riferimento al lettone – di un copripiumino che ritraeva in foto i due capi beati e sorridenti. A parte svariati soffietti sulle reti Mediaset. C'è ragione di pensare – qualcosa uscì nella prima ondata di carte Wikileaks – che nella seconda metà degli anni duemila gli alleati americani, cui pure Berlusconi dedicava sforzi di pari e ruffianesca intensità, fossero un po' preoccupati, specie per via dei gasdotti. Per cui tennero duro con le sanzioni, anche contro i timidi sforzi italiani per allentarle. Sia come sia, le faccende d'approvvigionamento non avevano bisogno di essere incardinate a colloqui con appendice audio-video nelle sale del Metropol con la partecipazione del Bagnino del Ponente e di Nonno Francesco. Negli affari di Stato e di quattrini Berlusconi sapeva il fatto suo, anche troppo. E pare di rivederlo in azione: espansivo, energetico, ospitale e così brillantemente ripetitivo nelle sue moine da far la figura della macchietta, ma senza mai rimetterci del suo. Come quando, davanti a Orban, si mise a magnificare la qualità delle donne ungheresi, pure consigliando i giornalisti italiani di farsi dare qualche numero e buon indirizzo dal primo ministro; oppure quando per lusingare i suoi interlocutori slavi fingeva pubblicamente di sentirsi in soggezione dinanzi alla loro prestanza fisica. Difficile dire se loro ci credessero; comunque accoglievano tutti di buon grado quel suo farsi piccolo e complimentoso, dal bielorusso Lukashenko al serbo Tadic, dal leader del Montenegro Djukanovic al bulgaro Bojko Borisov, che per tutto l'incontro a Sofia il Cavaliere si ostinò a chiamare famigliarmente Boris. Piegato dalla bufera degli scandali sessuali – indimenticabile il tuffo nudo del ceco Topolanek a villa La Certosa – e poi nel suo lungo declino Berlusconi ebbe in ogni caso e sempre la certezza di trovare una sponda di comprensione e gratitudine da quella parte, oltre che da Putin in persona. Secondo il presidente russo quelle accuse nascevano “dalla gelosia e dall'invidia”. Attenzioni e cortesie che poi in patria Berlusconi stiracchiava da par suo: "Pensate che Putin mi ha persino proposto di candidarmi a premier da loro! Mi ha detto che i russi sarebbero felicissimi". Poco prima del Natale 2013 sulla copertina di "Chi", house-organ dell'autocrazia di Arcore, comparve la foto del presidente russo che su di un tappeto rosso, avendo al fianco un Berlusconi allegro e convenientemente photoshoppato per non far troppo risaltare la differenza d'età, tirava una palletta a Dudù: il barboncino del Cavaliere, allevato e coccolato come i cani degli zar (si vedano, a tale proposito le impressionanti foto del primo genetliaco della bestiola, con tavola imbandita a Palazzo Grazioli, pacchi regalo e ciotola istoriata con osso...)

Nel momento in cui Berlusconi, prima delle elezioni del 2018, ebbe il sentore di un possibile sfondamento dei cinque stelle, anche in qualità d'illustre apripista e fervido pioniere di quelle specialissime relazioni post-diplomatiche, arrivò a dire che in tal caso avrebbe abbandonato l'Italia: per andarsene a vivere, specificò, "in una dacia in Russia". E certo sono cose che si dicono per dire, inutilmente e per giunta secondo un movimento circolare, giacché questa storia dell'auto-esilio si era già ampiamente cominciata a sentire proprio quando Berlusconi aveva vinto e rivinto le elezioni, ma poi come ovvio nessuno se n'è mai andato dall'Italia (e dove, poi?). Oltretutto, nell'esternare quelle sue preoccupazioni il Cavaliere si dimostrava del tutto ignaro che già nel marzo del 2017 alcuni grillini, guidati da Di Battista e Di Stefano, si erano recati a Mosca per cominciare anche loro a prendere le misure e magari portarsi avanti nelle relazioni con “Russia Unita”, il partito pigliatutto di Putin. Però forse mai Berlusconi si sarebbe aspettato che vinte quelle elezioni, ad appena un mese dalla formazione del governo grillo-leghista, nel luglio del 2018, il suo ex alleato Salvini, giunto a Mosca come vicepremier per assistere a una finale di calcio, avrebbe accompagnato quella trionfale trasferta con una affermazione che valeva un programma: "Da Putin c'è molto da imparare". Proprio su Doppiozero, un paio d'anni orsono, Giampiero Piretto ha spiegato bene le ragioni per cui Putin piace ai russi. In estrema sintesi: perché ha ridato vita all'anima di quel popolo agganciando il suo potere personale al passato prossimo; poi perché ha riscattato categorie che erano state svilite, sbeffeggiate e condannate come sovietiche; quindi perché, dopo aver in qualche modo favorito la circolazione dei consumi, rendendoli disponibili in patria come lo sono nella società occidentale, si è proposto come artefice di una restaurazione pseudo morale e pseudo religiosa. E ancora, Putin piace perché ha saputo investire sulla propria immagine di capo e perciò sul suo stesso corpo, mediaticamente utilizzato come instrumentum regni, per cui occupa l'immaginario mostrandosi a torso nudo, esibisce i muscoli, s'immerge nelle acque gelide per il rito ortodosso del battesimo di Cristo, e va a caccia, a pesca, nuota, cavalca, salta in moto, gioca a hockey su ghiaccio (lo fanno anche segnare, notò con una punta d'invidia Berlusconi) entra nelle gabbie delle belve, salva il cameraman dalla tigre siberiana. Anche grazie a questo consenso gli è consentito di affermare con la massima tranquillità e naturalezza ciò che sui giornali europei ha fatto un certo scalpore, e cioè che la democrazia liberale è obsoleta, invecchiata, superata. A metterla piatta piatta,come forse non si dovrebbe, il risultato è che pochi in Russia, in pratica solo coloro che hanno a cuore i diritti umani e la correttezza delle istituzioni, si aspettano che Putin sia indulgente, mite, trasparente, democratico. La maggioranza, per il momento, oltre il 76 per cento, lo vuole come egli è: freddo e sicuro di sé, severo fino alla spietatezza, riflessivo ma sbrigativo, e maschio. Per queste stesse caratteristiche Putin avrebbe (ha) molto da insegnare a diversi politici italiani che intrugliano, impicciano, girano a vuoto e pestano l'acqua sporca nel mortaio, frustrati dalla loro stessa inadeguatezza che li rende anche prepotenti e aggressivi.

Sebbene l'argomento sia di una portata ben più vasta e impegnativa di quanto si riesca a indagare in queste osservazioni, tutto ciò che è avvenuto in Italia dal 1989 in poi – il trauma da fine regime, la lunga transizione, la definitiva crisi di sistema, lo svuotamento e snaturamento delle istituzioni, la prova per lo più fallimentare di varie tipi di leadership, dalla monarchia aziendale berlusconiana all'oligarchia auto-cannibalica del Pd fino alla diarchia pizza & fichi di grillini e leghisti – insomma tutto questo ha reso la democrazia italiana assai più malconcia di quanto sia confortante immaginare e sperare. Tale percezione, in certi momenti, ha contribuito a far crescere l'idea che l'Italia potesse scivolare verso l'alleanza di Visegràd. Sempre mantenendo in un angolino della mente i traffici dell'hotel Metropol, non si vuole qui sostenere che il nostro paese sia condannato a farsi sovranista e a presto gemellarsi con la Russia; né che esista già una coincidenza, un'omologazione, un'osmosi con il populismo a filo spinato di certi regimi dell'Est. La partita è ancora ben aperta, ma a pensarci bene proprio la recente crisi di governo, allegramente definita dai suoi stessi sconsiderati protagonisti "la più pazza del mondo", ha in qualche modo confermato quanto la tentazione russa non le fosse estranea, sebbene nascosta dietro le naturali bizzarrie, gli immancabili accrocchi e le ripetute scemenze ridanciane. Neanche a farlo apposta, nei giorni in cui, al sommo dell'euforia balneare, Salvini reclamava i pieni poteri, a Mosca e in altre città della Russia andavano in scena rilevanti proteste di piazza, come sempre sedate da una messe di randellate e arresti di massa: anche questa, purtroppo, una possibile lezione putiniana. Ciò nonostante, o forse per questo, il caos protrattosi qui oltre misura, le obiettive condizioni di degrado istituzionale, lo sfascio dei partiti, il mercato dell'insicurezza e della paura lascia pensare che una soluzione alla Putin eserciti in certi settori dell'elettorato nostrano una sua attrattiva. O meglio, nessuno più del leader dagli occhi di ghiaccio fa riemergere, riattivandolo in forme evolute, un modello di comando che pure dalle nostre parti gode di una certa ciclica rinomanza: l'uomo solo al comando, o se si preferisce l'uomo forte in una situazione di acclarata debolezza – Dio non voglia anche nel caso di qualche attacco speculativo.

A parte qualche lavoretto sul web e sui social, in verità di ardua ricognizione e classificazione, un embrione di putinismo all'italiana qualche cosina ha cominciato a farsi vedere, nel senso autentico della parola. La notte del trionfo sovranista alle ultime elezioni europee, Salvini si offrì alle telecamere nel suo ufficio di via Bellerio mostrando un cartello: "1° partito in Italia, GRAZIE". Alle sue spalle, sulla libreria, tra i vari libri, oggetti soprammobili e meta-amuleti di vario significato, dai gagliardetti tifosi al gufetto portafortuna alle sacre icone, si poteva comunque notare un ritrattino tascabile di Putin accompagnato da un fiocco o una bandierina con i colori della Russia, e la copertina di libro, pure con Putin: sguardo sotto zero, gorgiera iper-militaresca e copricapo con fregi dorati. Si trattava dell'ammirata biografia dedicatagli dal giornalista Rai Gennaro (Genny) Sangiuliano, già in quota post missina trasmutatasi in sovranista e come tale, pur con tutti i pregressi meriti, promosso direttore del Tg2. Anche la Rai, come il petrolio, è un interessante indicatore di tendenze che a volte la attraversano, altre la trascendono, altre ancora anticipano gli sviluppi del potere, e in questo senso è significativo che a presiedere l'azienda di viale Mazzini sia stato imposto, pure con qualche difficoltà, un giornalista come Marcello Foa, le cui opinioni sono state spesso ospitate da “Russia Today”, emittente certo non ostile al regime. Secondo le migliori tradizioni, che in passato assegnavano ai prodotti informativi nomignoli per così dire di stretta appartenza – “TeleNusco” (Tg1), “TeleCraxi” (Tg2) e “TeleKabul” (Tg3) – puntualmente la nomina del salviniano Sangiuliano ha fatto sì che il suo telegiornale fosse denominato "TeleVisegrad", cosa che a tutta prima non gli è dispiaciuta, anche se poi il buonsenso deve avergli consigliato di prendere cautamente le distanze: “La democrazia russa non soddisfa i miei standard di democrazia liberale, preferirei vivere negli Stati Uniti piuttosto che a Mosca". Ciò nondimeno, è parso eccessivo che proprio l'encomiastico biografo putinista sia stato scelto non solo per il maggior telegiornale, ma anche ascoltato dalla Commissione Esteri del Senato in qualità di esperto di questioni russe – ché davvero nelle università, nella diplomazia e negli organismi internazionali ce ne sarebbero molti altri più accreditati! Più in generale, sul potere di attrazione esercitato nell'immaginario ha scritto Andrea Minuz: "La Russia di Putin attrae e affascina. Soprattutto per noi si tratta di un approdo inevitabile. Putin come rifugio utopistico nel lungo naufragio del mondo dopo la destra e la sinistra. Si accendono con la nuova grande Russia gli ardori del radicamento profondo, il sangue, il suolo, la terra, un'alternativa identitaria al patto Atlantico, al liberalismo anglosassone, alla finanza, al cosmopolitismo corrotto del capitale giudaico”. Nella Russia di Putin, continua Minuz, “c'è tutto quello che può affascinare un intellettuale italiano, un no global, un casa Pound: cultura millenaria, spiritualità, grande letteratura, balletti, mito della rivoluzione, insofferenza per la democrazia quindi inevitabilità della dittatura, un fiero sentimento antimoderno, la sconfinata vastità degli spazi e la gnocca". Quest'ultimissimo elemento, che non si ha cuore di definire qui "di genere", ma che dall'Iliade in poi risulta tutt'altro che irrilevante nelle faccende del potere, scarseggia in realtà nei colloqui sovran-petroliferi da cui si sono prese le mosse di questa interminabile e sconclusionata prolusione. Ma anche a rischio di incappare nella tagliola del politicamente scorretto, va detto con la massima sobrietà possibile che una maggiore presenza di donne avrebbe senz'altro alleggerito e magari anche ingentilito il proscenio, fin qui configuratosi come un tetro serraglio di maschi dediti ad affari e potere, torvi ministri arrembanti, loschi faccendieri, filosofi barbutissimi, e poi spionaggio, trame geopolitiche tra l'euro-asiatico e il rosso-bruno con il naturale contorno di mercenari e perfino missiloni terra-aria di sconsolata e macro-fallica suggestione.

Per il resto, sempre sul filo dell'analisi di Minuz, la Russia resta “il luogo immaginario dell'antagonismo all'élite, teatro di sfrenate fantasie autarchiche e rivisitazioni della storia". Quella recente e recentissima non gioca purtroppo a favore dell'Italia, tanto meno della sua stabilità democratica. Io non so se davvero Salvini, ebbro di mojito, selfie e Papeete, ci ha provato sul serio; se la richiesta dei pieni poteri era una una sparata, una battuta, una provocazione o uno sproposito come tanti gliene sono scappati; se nella fuga all'estero dei 45 o 46 milioni si troverà prima o poi lo zampino di qualche volpe della steppa o dei monti Urali; se si continueranno ad arrestare sospettatissimi "ingegneri" russi; se Moscopoli, infine, ci riserverà qualche altra bella sorpresa. Ma so che l'estinzione delle culture politiche italiane ha lasciato dietro di sè una schiumaccia che a ritrovarcisi dentro e anche soltanto a maneggiarla servono stivaloni e spessi guanti di gomma. La classe dirigente è quella che è, nel migliore dei casi arrivata sulle poltrone per qualche colpo d'immagine o di fortuna, altrimenti per appartenza clanica o tribale; e comunque sono rari i casi di chi non si adegui a un andazzo di superba incompetenza, spudorata guitteria e fervido trasformismo. Esaurito il retroscena e consumatosi la messinscena, l'odierna scena appare normalmente oscena, l'estetica ne rispecchia la sgangheratezza, i linguaggi buttano sul turpiloquio e gli atteggiamenti delle persone in vista non di rado esprimono una sorta di ostentazione del basso. Con i suoi braccialetti che gli proliferano ai polsi, con i suoi rosari di battaglia e il Cuore Immacolato di Maria sul display del cellulare, più che uno specchio Salvini si propone a diventare uno specchio dell'Italia. Rispetto al mitra e ai peluche, ai ciaoni, ai bacioni e agli zabaioni, dinanzi alle moto d'acqua e alle tentate censure, alle cubiste maculate con la mano sul petto mentre va l'inno di Mameli, di fronte alla ruspa punitiva e ad personam e alla ostinazione feroce per cui i bastimenti carichi di poveracci sono rimasti sotto lo schioppo del sole, un'ultimissima confessione personale: queste visioni seguitano a sorprendermi, a loro modo mi appassionano, però mi sento anche un po' in colpa a pensarla così passiva; e superata da qualche anno la sessantina, non mi ritengo più così immune da colpe nell'assistere alla rotolata giù per la china. Ma ormai è impossibile tornare indietro, riavvolgere il nastro degli eventi e del pensiero, vederla in altro modo. Recuperato un minimo di freddezza, a chi trovasse tale disamina eccessiva, eccentrica, narcisista e pessimista, con la coda fra le gambe come il mio bassotto dopo le scosse di terremoto mi limiterei a segnalare con quanta facilità negli ultimi vent'anni la democrazia, questa sconosciuta ormai, nata rappresentativa, forse per un po' anche parlamentare, negli ultimi anni si è caricata di attributi slittando e trasfigurandosi in democrazia "esecutiva", "del pubblico", "d'investitura", e via via "disintermediata", "plebiscitaria", "illiberale", "autoritaria", aiuto! Non dico niente di nuovo, ma nell'ultima e graziosa variante, il potere esecutivo ha le mani libere, considera la società come un unico blocco che la pensa allo stesso modo, le diverse opinioni non rientrano più nel novero del possibile, i media sono controllati dal governo, i giornalisti scomodi e gli studiosi rompiscatole finiscono in prigione o magari ai domiciliari, e di tanto in tanto qualche oppositore ritenuto più pericoloso del normale muore per mano di misteriosi assassini. Quando il vento dell'Est arriverà, se non è già arrivato, toccherà prendere un bel respirone. Fino a quel momento era tutto un trallallà, o così ci era sembrato. D'altra parte valgono sempre i versi di Pascarella (assai amati in famiglia): “Vedi noi? Mò noi stamo a fà bardoria:/ Nun ce se pensa e stamo all’osteria…/ Ma invece stamo ne la storia”. Ma invece stamo tutti ne la storia.

Inchiesta. Esclusivo: dietro la trattativa Lega-Russia c'è un uomo Eni. Nuove carte riservate collegano allo scandalo dell’ente petrolifero il manager che ha accreditato la banca Euro-Ib per l’affare di Mosca, trattato da Gianluca Savoini. E ora è più difficile sostenere che il finanziamento per il partito di Matteo Salvini sia solo una fantasia. Paolo Biondani l'11 ottobre 2019 su L'Espresso. Si scrive trading, si legge cresta: la tangente con la fattura. Una mazzetta calcolata in percentuale, da intascare tramite mediazioni e consulenze in apparenza regolari. È lo schema del Russiagate targato Lega: il tentato maxi-accordo petrolifero orchestrato a Mosca dal faccendiere lumbard Gianluca Savoini, nell’ottobre 2018, un anno fa, per dirottare decine di milioni di euro nelle casse del partito di Matteo Salvini. Il patto segreto tra italiani e russi era di fare la cresta, cioè dividersi una ricchissima percentuale, su una maxi-fornitura di gasolio: «il 4 per cento del prezzo pagato dall’Eni», come scrivono i giudici di Milano, doveva servire a «finanziare la campagna elettorale per le europee della Lega». Il colosso dell’energia controllato dallo Stato italiano ha smentito qualsiasi coinvolgimento, dichiarando di non aver mai finanziato partiti politici. Nuove carte riservate, scoperte dall’Espresso, dimostrano però che i mediatori italiani amici della Lega avevano davvero un rapporto diretto, documentato, con un manager importante di una società-chiave del gruppo Eni. Che è al centro di un’altra indagine giudiziaria, sempre a Milano. Un’inchiesta che scotta. Dove ricompaiono lo stesso manager, la stessa società dell’Eni e lo stesso schema del Russiagate. Ancora tangenti pagate con il sistema delle mediazioni petrolifere (in gergo, trading). Invece di comprare carburante direttamente dal venditore, lo si acquista attraverso un intermediario, che trattiene una percentuale di guadagno. Se la mediazione è reale, perché garantisce servizi di logistica e trasporti, è tutto lecito. Altrimenti è solo un trucco per arricchire la società intermediaria. E i burattinai che la controllano. Questo viaggio alla scoperta dei segreti della Lega parte da Mosca, dall’ormai famosa riunione del 18 ottobre 2018 all’hotel Metropol . Gianluca Savoini, il leghista filo-russo legatissimo a Matteo Salvini (di cui è stato per anni il portavoce), tuttora titolare - benché indagato - di cariche pubbliche nella Regione Lombardia guidata dalla Lega , parla di un colossale affare petrolifero con tre mediatori russi: «250 mila tonnellate di gasolio al mese, per tre anni», da rivendere all’Eni. Savoini non ha nessuna esperienza di lavoro nel settore dell’energia. Il suo ruolo, come dice lui stesso, è «politico»: riversare nelle casse della Lega un fiume di denaro nero, paragonabile alla storica maxi-tangente Enimont: in totale, 65 milioni di euro. All’incontro nella hall del grande albergo di Mosca assistono due giornalisti dell’Espresso, Giovanni Tizian e Stefano Vergine, che indagano da mesi sulle ruberie della Lega (i famosi 49 milioni della truffa dei rimborsi elettorali). Al tavolo ci sono anche due consulenti italiani, il più importante è l’avvocato Gianluca Meranda, che rappresenta una piccola banca d’affari inglese, la Euro-Ib (in sigla, Eib): è la società estera che dovrà acquistare il gasolio da rivendere all’Eni. Nella trattativa con i russi, i tre mediatori italiani precisano che «il compratore», cioè l’acquirente finale, è una società del gruppo Eni, impersonata da «gli amici di Londra». «Il venditore» sarà «una società statale russa»: Rosneft o Gazprom. E «in mezzo ci sono altri due soggetti», che fanno solo da mediatori: uno è «la banca che compra», cioè la stessa Euro-Ib; l’altro sarà una società-schermo indicata dai russi. In pratica, l’Eni pagherà il prezzo pieno e i mediatori si divideranno lo sconto. Come riassume il tribunale del riesame di Milano, che ha confermato il sequestro degli archivi informatici di Savoini, alla Lega andrà il 4 per cento netto, ai russi un’ulteriore «percentuale del prezzo pagato dall’Eni, tra il 2 e il 6 per cento». All’hotel Metropol però nessuno fa il nome dei misteriosi «amici di Londra» in grado di rappresentare l’Eni nell’affare. La trattativa continua per almeno quattro mesi nella più assoluta riservatezza. Da anni le compagnie petrolifere russe hanno grossi problemi per le sanzioni internazionali imposte contro il regime di Putin dopo la guerra civile in Ucraina e l’annessione della Crimea. Quindi l’affare dev’essere presentabile, non può coinvolgere società offshore o aziende oscure, altrimenti c’è il rischio di far scattare segnalazioni anti-riciclaggio e indagini in mezzo mondo. Il primo febbraio 2019 gli uffici di controllo del colosso russo Gazprom sollevano obiezioni e chiedono chiarimenti con una nota interna: scrivono che Euro-Ib non è una società petrolifera, «è solo una banca d’affari», e «non ha indicato le sue strutture logistiche», cioè le navi e i porti attrezzati per i trasporti petroliferi. Savoini, grazie ai suoi referenti russi, ottiene a tempo di record la nota negativa della Gazprom e la gira all’avvocato Meranda. Che gli risponde una settimana dopo, l’8 febbraio, ringraziandolo per avergli passato il documento interno russo. La lettera di risposta, scritta in inglese, è intestata alla Euro-Ib e firmata personalmente da Meranda. L’avvocato della banca d’affari anticipa a Savoini i documenti da far arrivare alla Gazprom per superare i dubbi e concludere l’affare. La nostra Euro-Ib/Eib, scrive Meranda, ha «una specifica licenza pubblica inglese per trattare prodotti petroliferi». E, soprattutto, «compra per rivendere all’Eni, che ha tutte le infrastrutture logistiche necessarie». A riprova, Meranda allega una lettera dove «l’Eni dichiara che Eib è una controparte di sua fiducia». Questo documento «strettamente confidenziale», scoperto da L’Espresso, è scritto su carta intestata della società Eni Trading & Shipping: è la centrale che, da Londra, gestisce tutti gli acquisti petroliferi della multinazionale italiana. La lettera s’intitola «referenza commerciale per Euro-Ib», è datata 23 maggio 2017 ed è firmata dal manager Alessandro Des Dorides, allora numero due del settore trading: «Confermiamo che Euro-Ib ha trattato con noi in numerose occasioni e ha condotto i suoi affari con noi in maniera professionale e affidabile». Per Savoini e il suo consulente bancario, è l’atto fondamentale per siglare il maxi-affare con Gazprom: i russi possono tranquillizzarsi, dietro la Euro-Ib c’è addirittura il colosso petrolifero controllato dallo Stato italiano. A rovinare la festa è L’Espresso, che pochi giorni dopo, il 24 febbraio 2019,  pubblica l’inchiesta  di Tizian e Vergine, con il contenuto delle conversazioni tra italiani e russi all’hotel Metropol, mentre va in stampa il loro “Libro nero della Lega” (editore Laterza) con i primi documenti riservati del Russiagate. La procura di Milano apre un’indagine e sente come testimone il giornalista che ha ottenuto l’audio dell’incontro di Mosca, acquisito dai pm dopo un perentorio «ordine di esibizione». Il 10 luglio 2019, la testata americana BuzzFeed pubblica lo stesso audio della riunione all’hotel Metropol, con la voce di Savoini che tratta con i russi per finanziare la Lega con i soldi del petrolio. Mentre Savoini continua a volare a Mosca (9 viaggi aerei di andata e ritorno solo tra ottobre 2018 e marzo 2019), il manager Des Dorides viene promosso e diventa il capo dei trader del gruppo Eni a Londra, ma sei mesi dopo cade in disgrazia. Oggi a Milano è indagatissimo. È stato denunciato dalla sua stessa azienda, per cui lavorava dal 2002: l’Eni ora lo accusa di frode contrattuale e in maggio lo ha licenziato in tronco. Per ragioni diverse dal Russiagate, almeno sulla carta. Un altro intrigo, che questa volta porta in Sicilia. E alle presunte tangenti targate Eni. Pietro Amara è un avvocato siciliano che per oltre un decennio è stato difensore del gruppo statale, da cui ha incassato parcelle milionarie. Nel 2018 viene arrestato per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione di magistrati, periti giudiziari e indagati: secondo l’accusa, è il capo di una cricca legale che per anni ha truccato inchieste e processi pagando tangenti milionarie a toghe eccellenti , soprattutto giudici amministrativi della Sicilia e del Consiglio di Stato a Roma. Fra le tante accuse, l’avvocato deve rispondere di un fragoroso depistaggio per favorire l’Eni. Dopo l’arresto, lo stesso Amara confessa di aver corrotto un pm di Siracusa, Giancarlo Longo, per fargli aprire un’indagine truccata su un inesistente complotto contro i vertici dell’azienda petrolifera statale. Il vero obiettivo della falsa inchiesta era fermare l’indagine della procura di Milano, per le presunte tangenti da un miliardo pagate in Nigeria, che coinvolge i top manager dell’Eni: l’amministratore delegato Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni, che nel processo ora in corso respingono tutte le accuse. In carcere, nel 2018, Amara confessa una lunga lista di reati e chiama in causa altri indagati, giurando però di essersi inventato da solo la fanta-inchiesta di Siracusa, per compiacere l’Eni, ma all’insaputa dei vertici. Sulla cricca dei processi comprati indagano tre procure, Roma, Messina e Milano, che accusano l’avvocato siciliano di coprire complici superiori. Proprio il caso Eni-Amara accende lo scontro tra l’ex pm Stefano Fava, ora indagato per lo scandalo delle correnti del Csm, e i procuratori di Roma e Milano. Dove gli inquirenti intanto scoprono un giro di denaro molto sospetto. Proprio nel 2018, mentre Amara è in cella per le tangenti giudiziarie, la controllata inglese Eni Trading & Shipping ha versato almeno 25 milioni di euro a una società petrolifera, Napag Italia, che risulta aver spostato i soldi a Dubai. Nei computer sequestrati all’avvocato, secondo gli inquirenti, c’è la prova che Amara ha gestito la Napag come se ne fosse padrone. Conclusione dei pm: Amara è un socio occulto, il contratto della Napag nasconde una tangente versata dal gruppo Eni all’avvocato che corrompeva i giudici. Per l’accusa il nuovo affare petrolifero rappresenta «il corrispettivo del silenzio di Amara»: il contratto con la Napag è il prezzo da pagare all’avvocato detenuto, per non fargli confessare «il coinvolgimento dei vertici dell’Eni» nella corruzione del pm di Siracusa arruolato per fermare Milano. Il caso emerge all’inizio del 2019, quando la Procura di Roma chiede all’Eni di consegnare quel contratto da 25 milioni. Il gruppo statale reagisce inserendo la Napag nella cosiddetta lista nera delle società con cui è vietato fare nuovi contratti. Lo scandalo si aggrava quando la Procura di Milano ordina una perquisizione a carico di Massimo Mantovani, il capo dell’ufficio legale di tutto il gruppo, che respinge ogni accusa. Il blitz nasce dai documenti: il contratto con la Napag risulta siglato dalla controllata Eni Trading & Shipping, di cui Mantovani è stato presidente dal 2016 al 15 maggio 2019, quando ha dovuto dimettersi. Ma l’affare incriminato, secondo l’accusa, l’ha gestito soprattutto Des Dorides da Londra: lo stesso manager della stessa società dell’Eni che ha sponsorizzato la Euro-Ib, la banca inglese dei soldi alla Lega e ai russi. I pm, a questo punto, cominciano a ipotizzare che nella sede di Londra operi una sorta di “ufficio affari sporchi” del colosso petrolifero italiano. Di certo la Napag ha una storia singolare. È nata nel 2012 a Reggio Calabria, con un capitale di 10 mila euro, come piccola azienda di «servizi marittimi e commercio di ortaggi e succhi di frutta nel porto di Gioia Tauro». Il suo fondatore e amministratore esecutivo è un imprenditore calabrese di 33 anni, Francesco Mazzagatti. Che ha sposato Nadia Faisal Al Matrook, figlia di un miliardario del Bahrein e tuttora consigliere d’amministrazione del colosso di famiglia Famcorp, con interessi dall’edilizia agli ospedali, gas e petrolio. In pochi anni il capitale sociale della Napag sale fino a 13 milioni di euro, mentre la ditta calabrese trasloca a Roma e diventa internazionale: la società capogruppo oggi è la Napag Trading Limited di Londra, amministrata sempre da Mazzagatti e Al Matrook, mentre nel paradiso fiscale di Dubai nasce la controllata Napag Middle East. Nel luglio scorso, dopo un lungo silenzio, la Napag «smentisce categoricamente che l’avvocato Amara abbia alcuna partecipazione diretta o indiretta nelle società del gruppo». E sui 25 milioni dell’affare petrolifero dichiara che la fornitura è saltata «per cause esterne», precisando di aver già «restituito l’intera somma all’Eni, che ne ha ricavato un margine di profitto». Mentre le indagini avanzano, il 13 giugno 2019 il Fatto Quotidiano pubblica uno scoop: c’è una nave carica di greggio bloccata da tre settimane davanti al porto di Milazzo , dove l’Eni ha una raffineria. Si chiama White Moon e non può scaricare perché trasporta petrolio diverso da quello pattuito con il gruppo italiano: doveva essere greggio iracheno, proveniente da Bassora, invece ha altre caratteristiche, che ricordano quello iraniano. Un prodotto che l’Eni non può comprare, perché l’Iran è sotto embargo americano. La stampa internazionale rilancia la notizia citando fonti che ipotizzano un contrabbando di petrolio iraniano. L’Eni si dichiara vittima dell’intrigo e spiega all’agenzia Reuters di aver acquistato quel carico dalla compagnia petrolifera nigeriana Oando, con documenti che certificavano la provenienza irachena. La Oando conferma e precisa di aver comprato quel petrolio, a sua volta, dal gruppo Napag, sede di Londra. I pm sono stupefatti: è la stessa società delle presunte tangenti Eni-Amara. A quel punto salta fuori che il greggio incriminato ha cambiato tre navi: la White Moon l’ha caricato dalla New Prosperity, che l’aveva ricevuto da una petroliera chiamata Abyss. Che tra aprile e maggio risulta aver spento per dieci giorni il trasponder, per cui nessuno poteva localizzarla: una disattivazione anomala, per le navi commerciali. Mentre la Somo, la società petrolifera statale di Baghdad, dichiara a una rivista specializzata che «nessun carico di Bassora è mai stato respinto», per cui il greggio fermo a Milazzo «non è iracheno». Come confermano le analisi dell’Eni, che però ha ormai acquistato il carico e pagato il prezzo: 41 milioni di euro. Soldi italiani che dal trasportatore Oando vengono quasi tutti riversati nelle casse della Napag di Londra. Che in un successivo comunicato difende «la regolarità della transazione con la Oando» e assicura di non aver «mai acquistato petrolio da paesi sanzionati». Esploso lo scandalo, si scopre che l’Eni, già a fine maggio, ha licenziato Des Dorides e lo ha denunciato ai pm di Milano, dichiarandosi «parte lesa». Il manager per ora tace, ma ha già nominato un avvocato per difendersi. La Guardia di Finanza e le procure interessate, intanto, continuano a indagare sui rapporti tra Eni e gruppo Napag. In queste settimane gli inquirenti avrebbero scoperto bonifici molto sospetti, per «diversi milioni di euro»: soldi versati dal gruppo Napag, secondo la ricostruzione dell’accusa, a società ricollegabili all’avvocato Amara. Se il legame fosse confermato, si chiuderebbe il cerchio dell’indagine: l’Eni di Londra paga la Napag che gira i soldi (per vie traverse) proprio ad Amara. Per ora è solo un’ipotesi investigativa, respinta da tutti gli indagati, che si fonda anche su un grave precedente: in passato l’avvocato Amara ha davvero utilizzato società di comodo, intestate a prestanome, per spostare tangenti e fondi neri. Al centro del caso c’è Riccardo Virgilio, ex presidente della quarta sezione del Consiglio di Stato, ora imputato di corruzione. Nel dicembre 2014 l’allora giudice amministrativo, che ha un conto in Svizzera non dichiarato al fisco, trasferisce 715 mila euro a una società di Malta, chiamata Investment Eleven Ltd. Sulla carta il suo titolare è un professionista italo-maltese, che nel 2017, interrogato a Roma, confessa di essersi intestato quella e altre società estere «come mero prestanome degli avvocati Amara e Calafiore», l’altro legale sotto accusa per le tangenti giudiziarie. Dall’Eni alla Napag, dal leghista Savoini all’avvocato Meranda, tutti gli interessati smentiscono di aver commesso reati e vanno considerati innocenti fino a sentenza definitiva. In attesa dei verdetti dei giudici, un fatto è certo: in questi affari la trasparenza è una favola. Prima che L’Espresso scoprisse la lettera di referenze, nessuno ha informato i magistrati dei rapporti tra la società dell’Eni, il manager dei contratti con la Napag e la banca inglese del Russiagate. E ora che il legame tra la Euro-Ib e l’Eni Trading di Londra è documentato, diventa più difficile sostenere che l’accordo segreto con i russi per finanziare la Lega fosse solo una fantasia di Savoini.

L'Eni: "Mai pagato tangenti e mai finanziato la Lega". L'Espresso 11 ottobre 2019. In merito all’articolo pubblicato sull’Espresso: “Esclusivo: dietro la trattativa Lega-Russia c’è un uomo Eni”, precisiamo quanto segue. - Eni respinge categoricamente ogni accusa di coinvolgimento della società e del proprio management in operazioni di corruzione nei confronti di rappresentanti della magistratura, e ha già reagito per vie legali con assoluta fermezza e determinazione contro tali accuse.

- Eni ribadisce di essere estranea a qualsiasi operazione di finanziamento a partiti politici. Peraltro, l’asserita operazione di fornitura, oggetto di indagine, non è mai avvenuta. Eni specifica altresì di essersi formalmente dichiarata parte offesa nell’ambito del procedimento in essere nei confronti di chiunque abbia associato Eni ad ipotesi di illecito, con particolare riferimento al finanziamento illecito dei partiti.

- La lettera citata nell’articolo, che l’Espresso associa nell’articolo a rapporti che Eni/ETS avrebbe intrattenuto con la banca Euro-IB, è invece una mera lettera di referenza generica, risalente a maggio 2017 (cioè ben un anno e mezzo prima del periodo oggetto della vostra inchiesta), riflette una dichiarazione imputabile a chi l’ha sottoscritta (Alessandro Des Dorides), non trovando alcun reale riscontro nelle attività commerciali effettive di ETS. Tale lettera non certifica pertanto in alcun modo la conclusione di operazioni commerciali con Euro-IB e nemmeno la sussistenza di interazioni ricollegabili alla vicenda oggetto dell’articolo.

- Eni non ha effettuato alcuna dazione di denaro al Sig. Piero Amara attraverso la società Napag. ETS (Eni Trading and Shipping) ha concluso con Napag un’operazione commerciale del valore di 25,8 milioni di euro. L’operazione si è conclusa con il conseguimento di un utile economico da parte di ETS. La rilevanza di tale operazione attiene alla violazione di norme e procedure interne, ma certamente non costituisce una dazione a Napag (e men che meno al Sig. Piero Amara). E’ proprio grazie all’accurato sistema di controlli di Eni che è stato possibile riscontrare che il greggio della nave White Moon era di qualità differente rispetto a quello ordinato dalla compagnia, il che ha comportato l’immediato rifiuto della fornitura. Erika Mandraffino. Ufficio stampa Eni. 

Le precisazioni dell'Eni, già anticipate nell'edizione online, vengono riportate puntualmente anche nell'articolo integrale dell'Espresso in edicola da domenica 13 ottobre. (p.b.)

Paolo Berizzi per la Repubblica il 12 ottobre 2019. Banchieri, imprenditori, manager. Politici e amministratori. E poi giornalisti, avvocati, lobbisti neonazisti. Un network sovranista al servizio della Lega di Matteo Salvini. Con base qui, nella "schermata" Lugano, il cuore politico-finanziario del Canton Ticino dove gli "agenti" di collegamento tra la Lega e gli uomini di Putin organizzano seminari, incontri, cene. Una rete che dalla Svizzera italiana porta dritto all' Hotel Metropol di Mosca: il luogo della tentata trattativa, che - secondo la Procura di Milano - , avrebbe dovuto convogliare 65 milioni di dollari nelle casse della Lega (l' ormai famosa cresta del 4%). Per capire questo intreccio ticinese, bisogna scavare nei rapporti tra persone che si conoscono da tempo. Alcune sono all' apice della carriera, altre si sono riciclate. Che cosa lega l' ex ministro e vicepremier Matteo Salvini, il presidente della Rai Marcello Foa (piazzato dal Capitano sulla poltrona più alta di viale Mazzini), il numero uno di Banca Intesa Russia Antonio Fallico (a capo dell' associazione "Conoscere Eurasia"), l' avvocato Andrea Mascetti (uomo chiave del sistema di potere della Lega, pure lui nel cda di Banca Intesa Russia), lo "sherpa" Gianluca Savoini (il play maker del Metropol; presidente di "Lombardia-Russia"), il filosofo post-nazista Aleksandr Dugin e il "signore nero" del populismo Steve Bannon? Che c' entrano questi nomi con Norman Gobbi (ministro delle Istituzioni del Canton Ticino), il miliardario Tito Tettamanti (mentore di Foa), e il meno referenziato Roger Etter, pregiudicato neonazista fotografato insieme a Salvini e al vicesindaco leghista di Luino Alessandro Casali? Partiamo dal basso. Da Etter e dalla fotografia pubblicata una settimana fa da Repubblica. La villa di Rovio dove la sera del 24 febbraio 2003 l' ex politico svizzero spara in testa all' imprenditore Ernesto Zanini, è in vendita. Nessuno la compra. Etter - dopo 11 anni di carcere - si è trasferito in un appartamento dove custodisce libri e cimeli sulla gioventù hitleriana, sua passione con la Russia di Putin. In onore della quale, a maggio, fonda "Fratria". La sede è a Lugano, negli uffici della Ticonsul SA. "Fratria" organizza eventi: quello clou è stato il 10 giugno, ospite d' onore Aleksandr Dugin. Il "Rasputin" di Putin, il teorico dell' egemonia dell' Eurasia venerato dalle formazioni di estrema destra. Fa capolino anche lui nell' affaire Metropol: il 17 ottobre, il giorno della visita del vicepremier Salvini a Mosca per l' assemblea di Confindustria Russia, e vigilia del "tavolo" tra Savoini e i russi, è ritratto fuori dall' albergo moscovita con Savoini e a Francesco Vannucci (il "terzo uomo" del Metropol, l' altro è Gianluca Meranda). I magistrati sospettano che Dugin abbia facilitato il gruppo italiano nei rapporti con Mosca («Aleksander ha detto che la cosa importante è che siamo solo noi», dice Savoini a Meranda, ndr). Sta di fatto che Etter, pregiudicato per tentato omicidio, porta Dugin a Lugano. Chi finanzia l' iniziativa all' hotel Pestalozzi? Su quali risorse può contare l' attivismo di Etter che abbraccia Salvini nella foto? Tra i filo- russi ticinesi, Etter è un peso piuma. I nomi che contano sono altri. In alto c' è Antonio Fallico, da 30 anni plenipotenziario di Banca Intesa Russia. Anche lui abita a Lugano. Come Foa, come Tettamanti, come Etter. Siciliano di Bronte, compagno di scuola di Dell' Utri che lo introdusse a Berlusconi (affare Gazprom con Putin), Fallico ha rapporti di lunga data con il Cremlino. È sempre stato lui il punto di riferimento della comunità economica italiana a Mosca. L' altro è Ernesto Ferlenghi, presidente di Confindustria Russia e vicepresidente esecutivo di Eni per Russia&Central Asia Market Developmen, il suo nome entra nel caso Metropol. In uno degli audio dell' inchiesta milanese - quello in cui Savoini dice che «bisogna agire rapidamente per l' avvicinarsi delle elezioni europee» -, il presidente di "Lombardia-Russia" fa riferimento ai «contatti in Banca Intesa necessari per il passaggio del denaro». Forse sarebbero dovuti passare per il consigliere del cda Andrea Mascetti (lui ha smentito). Mascetti, avvocato varesino (incarichi in Cariplo e Italgas), è un militante della Lega dai tempi di Bossi. Con Fallico e Foa è presenza fissa ai forum svizzero-russi animati dal network di Salvini. Ventidue novembre 2017: seminario al palazzo dei Congressi di Lugano (promosso da Conoscere Eurasia con Banca Intesa). Tra i relatori, Fallico, Mascetti e il ministro Gobbi. La regola è che dove c' è Russia c' è Fallico. È lui l' ideatore dell' XI Forum economico euroasiatico il 24 ottobre 2018 a Verona: lo inaugura Salvini. E il moderatore? Il giornalista-manager Marcello Foa. Che con Fallico ha rapporti stretti. «La Russia non fallirà», gli dice nel 2016 il boss di Banca Intesa Russia in un' intervista non proprio incalzante. Tra gli sponsor di Foa c' è Tito Tettamanti, fondatore del gruppo Fidinam, specializzato nella consulenza fiscale internazionale con la creazione di strutture offshore. L' 8 marzo 2018 la villa di Tettamanti a Castagnola accoglie un ospite di passaggio: Steve Bannon (diretto a Zurigo). Chi glielo porta? Foa, tra i pochi ammessi alla cena. «In Europa c' è l' avanguardia del populismo», spiegò l' ex stratega di Donald Trump. La tappa bannoniana a Lugano non fu casuale. Nemmeno, un anno dopo, quella di Dugin. In Ticino si vedeva spesso anche Savoini. Di lui Salvini si fidava. Ma sapeva anche che il "Nazi", rivelatosi un po' pasticcione , da solo non bastava per tenere rapporti con il cerchio economico di Putin. Al Capitano, Foa, l'aveva spiegato: il pezzo da novanta italo-russo era Fallico. L' uomo di punta dell' Eurasia e dell' asse Lugano-Mosca.

Gabriella Colarusso per la Repubblica il 12 ottobre 2019. Per convincere Gazprom, il colosso petrolifero russo, a chiudere l' affare sulla maxi-fornitura di petrolio che sarebbe dovuta servire a coprire un presunto finanziamento illecito alla Lega, c' era bisogno di un una referenza a prova di bomba. E il leghista Gianluca Savoini, ex portavoce di Matteo Salvini, riferimento per i rapporti del leader leghista con la Russia e protagonista della trattativa al Metropol di Mosca, l' aveva trovata in tempi record, grazie ai buoni uffici del suo consulente, l' avvocato Gianluca Meranda: la garanzia di affidabilità firmata da una società dell' Eni, la Eni Trading & Shipping. L' Espresso, nel numero in edicola da domani, rivela un nuovo pezzo dell' inchiesta sugli incontri riservati tra Savoini, i suoi consulenti italiani e gli emissari russi per far arrivare alla Lega alcune decine di milioni, utilizzando l' intermediazione di un maxi- contratto petrolifero con una società statale di Mosca. L' affare del Metropol era stato rivelato da Giovanni Tizian e Stefano Vergine de l' Espresso il 24 febbraio del 2019, a luglio - poco dopo la pubblicazione dell' audio dell' incontro sul sito BuzzFeed - la procura di Milano ha aperto un' inchiesta per corruzione internazionale. Il tribunale del Riesame, confermando il sequestro degli archivi informatici di Savoini a fine settembre, ha messo nero su bianco che l' accordo raggiunto a Mosca prevedeva di «finanziare la campagna elettorale della Lega per le Europee» dirottando al partito «il 4% del prezzo pagato dall' Eni» su una fornitura di gasolio: «250 mila tonnellate al mese, per tre anni». I documenti trovati dall' Espresso ora certificano che una società dell' Eni, nel 2017, ha accreditato come proprio «partner d' affari affidabile» la Euro-Ib, la piccola banca inglese rappresentata negli incontri a Mosca da Meranda. Il documento fu trasmesso da Meranda a Savoini, l' 8 febbraio 2018: gli uffici interni di controllo di Gazprom chiedevano garanzie sul compratore finale. Meranda, a nome della banca, rispose che «Euro-Ib compra per vendere all' Eni», allegando a riprova la lettera di referenze del gruppo italiano. La missiva, «strettamente confidenziale », è firmata da un manager di una sede estera, in qualità di responsabile degli acquisti petroliferi del gruppo italiano, Alessandro Des Dorides. La stessa società dell' Eni, e Des Dorides, come racconta l' Espresso, sono al centro di un' altra inchiesta a Milano su presunte tangenti milionarie a indagati italiani. Le indagini devono ancora chiarire se la banca inglese avesse già siglato precedenti mediazioni con il gruppo Eni, direttamente o indirettamente, o se invece la lettera sia stata scritta solo per spianare la strada all' accordo con Gazprom. Eni si è dichiarata estranea alla trattativa russa, assicurando di non aver mai finanziato la Lega né altri partiti politici. "La lettera citata nell' articolo è una mera lettera di referenza generica, risalente a maggio 2017", fa sapere la società, cioè "un anno e mezzo prima del periodo oggetto dell' inchiesta, e riflette una dichiarazione imputabile a chi l' ha sottoscritta (Alessandro Des Dorides), non trovando alcun reale riscontro nelle attività commerciali effettive di ETS. Non certifica in alcun modo la conclusione di operazioni commerciali con Euro-IB". Des Dorides è stato licenziato a giugno di quest' anno.

Soldi russi alla Lega, ora è Eni contro Eni. Il gruppo statale minimizza dopo il nostro articolo sul suo uomo coinvolto nella trattativa per il finanziamento russo al Carroccio. La lettera alla banca dell'affare Metropol sarebbe «scelta di un singolo manager». Che però afferma il contrario: «Decisero i capi, ci fecero incontrare a Londra i consulenti di Savoini». Paolo Biondani il 15 ottobre 2019 su L'Espresso. Lo scarica-barile di petrolio. Il nuovo articolo dell'Espresso sul Russiagate targato Lega ha provocato forti reazioni anche tra i diretti interessati. E ora ognuno difende se stesso, chiamando in causa colleghi e superiori, ma contraddice le versioni altrui. Nessuno ha potuto smentire le notizie pubblicate dal nostro settimanale. La banca d'affari inglese Euro-Ib ha davvero ottenuto da una società chiave dell'Eni, nel maggio 2017, una «lettera di referenze» che la accreditava come «partner d'affari affidabile» del gruppo statale italiano. Proprio quel documento targato Eni è stato utilizzato dall'avvocato Gianluca Meranda e dal leghista Gianluca Savoini, protagonisti dell'ormai famosa riunione con i russi nell'ottobre 2018 all'hotel Metropol, nella trattativa finale con la Gazprom per sbloccare il maxi-affare petrolifero con Mosca, con l'obiettivo di dirottare decine di milioni alla Lega. E su quella lettera di referenze, scoperta e pubblicata dall'Espresso, c'è la firma dello stesso manager della stessa società dell'Eni che è sotto inchiesta a Milano per altre presunte tangenti, create con lo stesso schema delle mediazioni petrolifere, per comprare il silenzio di un avvocato arrestato per diverse grandi corruzioni italiane. Le prime precisazioni sono arrivate dall'Eni. Il gruppo, nel testo pubblicato integralmente sul nostro sito , si dichiara estraneo a qualsiasi ipotetico reato: l'ufficio stampa difende con forza i vertici aziendali e rinconferma le posizioni espresse più volte nel corso delle indagini giudiziarie, già riferite puntualmente nell'articolo dell'Espresso. Sulla principale novità, cioè il documento utilizzato dalla banca Euro-Ib nella trattattiva con il gigante russo Gazprom, secondo l'Eni si tratta di «una mera lettera di referenza generica, risalente a maggio 2017, che riflette una dichiarazione imputabile a chi l’ha sottoscritta, Alessandro Des Dorides, non trovando alcun reale riscontro nelle attività commerciali effettive di Eni Trading & Shipping (Ets)». Quindi il documento pubblicato dall'Espresso esiste ed è autentico, ma va minimizzato: era un'iniziativa individuale di quel singolo manager. Che lo stesso gruppo Eni ha poi licenziato e denunciato, nel maggio di quest'anno, per presunte «violazioni di norme e procedure interne» riferite ad altri affari petroliferi, che non c'entrano con Russia e Lega. Il manager Des Dorides però non accetta di fare il capro espiatorio. Ha già chiesto al tribunale di annullare il licenziamento perchè ingiusto. E dopo l'articolo dell'Espresso ha affidato al suo avvocato, Oliviero Mazzi, una dettagliata lettera di precisazioni, anch'essa pubblicata per intero sul nostro sito. «Euro IB è stata accreditata in Eni Trading & Shipping (Ets)» non per iniziativa di Des Dorides, scrive il suo avvocato, ma «a seguito della presentazione fatta dal Ceo Franco Magnani», cioè dall'amministratore delegato, il numero uno della società statale. Per confermare le sue affermazioni, Des Dorides aggiunge che la piccola banca inglese fu «inserita nella vendor's list», cioè nel registro dei venditori autorizzati a trattare con l'Eni, e «si propose come possibile fornitore di diesel», per decisione di altri manager, rispettando le normali procedure e gerarchie aziendali: «Euro IB è stata ritenuta una valida controparte dalla funzione interna che valuta ogni singola società prima di qualsiasi tipo di business», scrive l'avvocato. Che precisa: «Des Dorides non era il responsabile di tale procedura di controllo (Kyc) e non ha seguito nemmeno il processo di autorizzazione della controparte. Tale funzione ricade esclusivamente nell’area di competenza del Cfo», cioè del capo di una struttura aziendale diversa dalla sua. Des Dorides ricorda anche una riunione riservata nella capitale inglese, nella sede di Eni Trading & Shipping: «Euro-Ib fu presentata dall’amministratore delegato Magnani nell’occasione dell’incontro, presso gli uffici di Londra, con Gianluca Meranda, Glauco Verdoia e Francesco Vannucchi». Meranda e Vannucchi sono i due consulenti italiani, ora indagati a Milano, che hanno accompagnato il leghista Savoini all'incontro cruciale con i russi all'hotel Metropol. Dove loro stessi parlavano proprio dell'Eni come previsto compratore finale del maxi-carico di diesel che, attraverso un giro di mediazioni truccate, avrebbe dovuto riversare nelle casse del Lega, in crisi finanziaria dopo lo scandalo dei 49 milioni confiscati, un bottino enorme: 65 milioni di euro in nero. I vertici dell'Eni e l'ex manager Des Dorides, che ha lavorato e fatto carriera nel gruppo petrolifero statale per 17 anni, concordano solo sull'epilogo finale delle trattative con la banca amica della Lega: «Non si è mai chiuso nessun affare tra Eni ed Euro-Ib». Il più ricco e promettente, in effetti, probabilmente è stato rovinato dall'Espresso: la lettera di referenze dell'Eni risulta trasmessa da Meranda a Savoini l'8 febbraio scorso, proprio per chiudere la trattativa ancora in corso con il gigante russo Gazprom. Pochi giorni dopo, però, i giornalisti d'inchiesta Giovanni Tizian e Stefano Vergine hanno pubblicato sull'Espresso, il 24 febbraio , tutto quello che avevano visto e sentito nella hall del Metropol: la trattativa segreta, appunto, per finanziare il partito di Matteo Salvini con il petrolio di Mosca.

QUI SI PARLA SEMPRE DEI RUBLI DELLA RUSSIA ALLA LEGA. MA DEI DOLLARONI DI SOROS AI RADICALI? Alessandro Gonzato per “Libero quotidiano”  il 17 ottobre 2019. Sì: nel 2017 i Radicali Italiani hanno ricevuto 298mila 550 dollari da George Soros, tramite la sua Open Society Foundations, per progetti legati all' immigrazione. Riccardo Magi, deputato di +Europa, segretario dei Radicali dal 2015 al 2018, conferma quanto riportato ieri da Libero. La somma, come abbiamo scritto, è stata elargita dal plurimiliardario «per promuovere un' ampia riforma delle leggi italiane sull' immigrazione attraverso iniziative che puntino a fornire aiuto agli immigrati e avanzare il loro benessere sociale». In sostanza il fiume di quattrini era finalizzato a promuovere la raccolta delle 90 mila firme necessarie per depositare il progetto di legge di iniziativa popolare "Ero straniero-L' umanità che fa bene". «La Bossi-Fini» dice Magi «ha prodotto mezzo miliardo di irregolari in Italia. Con la nostra legge invece, depositata alla fine della scorsa legislatura ma non ancora calendarizzata, chiediamo che ci siano canali d' ingresso regolari, vogliamo far conciliare domanda e offerta di manodopera. È urgente regolarizzare e integrare gli stranieri, non parlo di una sanatoria ovviamente. Si va dietro allo spauracchio di Soros», tiene a precisare il deputato, «e non si vedono quali sono le vere forze antidemocratiche in Italia. Salvini aveva detto che in 5 anni avrebbe rimpatriato 500 mila irregolari: in realtà in un anno ne ha rimpatriati solo 5 mila. Dunque cosa vogliamo fare? Perché non regolarizzare chi ha un datore di lavoro pronto ad assumerlo?». Non ci stupiamo affatto della posizione di Magi: le politiche dei Radicali sono note. Ci chiediamo piuttosto se sia normale che un multimiliardario straniero finanzi un movimento politico. Il deputato di +Europa non ha dubbi: «Molto meglio ricevere sostegno da Soros che essere amici di Orbán. Rivendico a pieno il finanziamento ricevuto, è un punto di vanto. Altri invece, come la Lega, sembra che abbiano beneficiato di fondi in modo clandestino da emissari russi. La nostra è stata un' operazione alla luce del sole, è tutto rendicontato». Vabbè. Magi quantomeno ci ha messo la faccia. Chissà se altri esponenti di Sinistra, alla luce del lungo elenco dei beneficiati dalla generosità sicuramente non interessata di Soros, faranno altrettanto. Il "filantropo" americano, in Italia tra il 2017 e il 2018 ha distribuito 8,5 milioni di dollari a partiti, associazioni e ong. Una montagna di denaro destinato a iniziative legate a migranti e rom. Dem e compagni, giornalisti e opinionisti radical chic, hanno sempre negato strenuamente un' attenzione particolare del plurimiliardario alle battaglie della Sinistra. Probabilmente continueranno a negare anche l' evidenza.

Non solo George Soros: dagli Agnelli fino ai Sindona, ecco chi finanzia i radicali. Libero Quotidiano il 9 Novembre 2019. Il Fatto quotidiano, in edicola il 9 novembre, fa i conti in tasca alla galassia radicale, scoprendo che tra i suoi finanziatori ci sono George Soros, la famiglia Agnelli e il figlio di Sindona. Soldi che arrivano anche soprattutto per l'alleanza con Più Europa. Da una parte, quindi il Partito Radicale di Rita Bernardini e Maurizio Turco, scrive Lorenzo Giarelli, con le sue 1.300 tessere e gli ultimi tre anni impiegati a ripagare i debiti, dall'altra un movimento (Più Europa) che alle Politiche ha contato su donazioni milionarie. Per le Politiche del 2018 sono stati circa 900, per un totale di 538.815 euro. C'è George Soros, che a gennaio 2019 ha sborsato 99.789 euro, stessa cifra girata dalla moglie Tamiko Bolton. Per le Europee 2019, poi, Più Europa ha potuto contare su altri preziosi proventi, come quelli di Lupo e Delfina Rattazzi, nipoti di Gianni Agnelli e sponsor rispettivamente per 5.000 e 4.000 euro; o Marco Sindona (1.000 euro), figlio di Michele e sostenitore dei Radicali fin dai tempi di Marco Pannella.

Russiagate, la vera storia. Inchiesta Panorama. Meranda, Vannucci ed il "pizzino". Così va riscritta la storia del Russiagate che doveva inguaiare Salvini e la Lega. Giacomo Amadori il 28 ottobre 2019 su Panorama. Prendete uno di quei racconti di Anton Pavlovic Cechov con al centro oscuri impiegati o bancari truffatori, mescolatelo con la sceneggiatura di un film di Totò (in fondo lo ha già fatto il regista e autore Steno) e otterrete l’onesto racconto del cosiddetto Russiagate. I protagonisti della nostra storia sono un avvocato cosentino, orgogliosamente massone, e un ex bancario e sindacalista di Suvereto (Livorno). Si chiamano Gianluca Meranda, 49 anni, e Francesco Vannucci, 62, e hanno in comune una situazione economica tutt’altro che florida (anche se a inizio anno, attraverso una società svizzera, Meranda ha cercato di acquistare un appartamento dietro a piazza Navona, senza riuscirci). Uno è estroverso e tecnologico, molto social, l’altro è introverso, fumantino e praticamente luddista, un uomo che agli smartphone preferisce i bloc-notes e le Bic. Nei mesi scorsi hanno cercato di chiudere accordi nel settore petrolifero in nome di una banca d’affari, la Euro Ib di Londra, con cui entrambi collaboravano, ma senza contratto. La piccola società di diritto inglese ha infatti da qualche anno l’autorizzazione della Consob britannica a negoziare l’acquisto e la vendita di prodotti petroliferi, ma non lo ha mai fatto. In realtà, nel momento clou del Russiagate, quello dell’incontro all’hotel Metropol, come sottolineato dal Financial times, Meranda sembrava voler cambiare cavallo e fece riferimento alla viennese Winter bank di Thomas «Moskovics», con cui avrebbe avuto «ottimi collegamenti». Sia come sia, per capire il Russiagate bisogna partire da questa strana coppia, e non tanto o non solo da Gianluca Savoini, ex portavoce di Matteo Salvini. I due, come vedremo, in questi anni hanno provato a fare affari con politici dell’intero arco costituzionale, anche nel settore dell’oro nero. Tutti tentativi andati male, come la trattativa del Metropol. Eppure i nostri Totò e Peppino in missione nella terra delle matrioske, secondo i segugi di altri giornali, sarebbero stati lo strumento scelto nientepopodimeno che da Vladimir Putin per inondare di rubli la Lega. Ma davvero qualcuno può credere che se il presidente russo avesse voluto far uscire dei soldi dal suo Paese avrebbe scelto questa strana compagnia di giro, che in nove mesi di trattative non ha concluso nulla? La realtà è che probabilmente ci troviamo di fronte a faccendieri di piccolo cabotaggio che, accreditandosi con la politica di ogni colore, per anni hanno provato a realizzare colpi importanti, senza mai riuscirci. L’unico risultato concreto è stato quello di mettersi nei guai. Infatti oggi Meranda, Vannucci e Savoini sono indagati a Milano per corruzione internazionale, reato per cui basta la promessa di una tangente.

GLI INCONTRI CON I RUSSI. Riavvolgiamo il nastro. A fine 2017 i nostri due eroi agganciano Savoini e iniziano ad avviare i loro discorsi «petroliferi» con lui. Alle elezioni del 4 marzo 2018 il Pd prende una batosta, mentre la Lega è uno dei due vincitori insieme al Movimento Cinque stelle. È maggio quando iniziano i primi abboccamenti con i russi per il petrolio. Il 26 i nostri eroi incontrano Andrey Yuryevich Kharchenko, esponente di seconda fila dell’International eurasian movement, il partito dell’ideologo sovranista Aleksandr Dugin. Il 2 giugno, in Italia, nasce il governo del Cambiamento. Il 5 giugno Meranda parte per Mosca con Savoini e Vannucci. Le spese di viaggio le avrebbe pagate l’avvocato. Forse anche il pernottamento in albergo, il Moscow Marriott Grand Hotel. A quanto risulta a Panorama, Savoini saldò attraverso il suo conto corrente il viaggio di ritorno del 7 giugno, inviando un bonifico all’agenzia di viaggi Mamberto srl, la stessa che fissò due voli di andata e ritorno per Mosca (4-5 e 13-16 luglio 2018). Il conto corrente si alimentava, sino a fine maggio 2018, con l’accredito di emolumenti mensili di circa 1.875 euro corrisposti dal Consiglio regionale della Lombardia. A questi si aggiungevano occasionali bonifici senza causale disposti dai genitori di Savoini. Sul conto sono confluiti anche pagamenti mensili delle Ferrovie Nord (2.600 euro) e un bonifico di 2.440 euro da parte dell’editoriale Libero srl. Il 25 giugno 2019, 71 mila euro sono stati versati dalla società di consulenza Global shared service srl. Savoini, Meranda e Vannucci, nel giugno 2018, avrebbero incontrato a Mosca Dugin e l’imprenditore Konstantin Malofeev, considerato uomo vicino a Putin, mutatis mutandis quel che Savoini è per Salvini. A fine agosto Meranda torna in Russia con Vannucci (il loro sodale leghista era già nella capitale) per rivedere Kharchenko che gli anticipa che avrebbero incontrato «il tecnico giusto» per tutta l’operazione a Roma. In Italia Meranda e Vannucci vedono il manager Ilya Andreevich Yakunin in un albergo del quartiere Prati, dove l’uomo soggiorna con la moglie. Secondo la stampa internazionale Yakunin è collegato all’avvocato Vladimir Nikolaevich Pligin, ex deputato della Duma russa, in rapporti con il ministro dell’energia Dmitry Nikolayevich Kozak. Meranda e Vannucci hanno due incontri con Dugin anche in Italia, all’Hotel de Russie e al Reale circolo canottieri Tevere Remo. Il 17 ottobre Meranda ritorna nella capitale russa. L’avvocato, alle persone a lui più vicine, racconta che avrebbe volato sullo stesso aereo di Matteo Salvini. «Ero in sesta fila, Salvini in quinta» ricorda divertito Meranda, fiero della sua capacità di mimetizzarsi. Vannucci e Savoini pare che siano atterrati in Russia 24 ore prima. Il leghista lascia traccia di sé a Mosca il 16 ottobre, quando ritira da un bancomat del Metropol 10 mila rubli, 135 euro. I tre si ritrovano il 17 pomeriggio al convegno di Confindustria Russia all’hotel Lotte, per una conferenza di Salvini.

IL PIZZINO DEL METROPOL. Il giorno dopo, il 18 ottobre 2018, Meranda, Savoini e Vannucci si danno appuntamento nella hall del Metropol, dove partecipano alla ormai celebre riunione con tre russi: due di loro sono Kharchenko e Yakunin. A loro si aggiunge un interprete. La trattativa è diversa da come è stata raccontata finora. Non si discute di 65 milioni di dollari. O meglio, l’affare ha quell’importo complessivo, ma bisogna sottrarre spese, commissioni e sconto da offrire al compratore finale, come risulta da un foglio excel di cui Panorama è entrato in possesso. La trattativa, nella migliore delle ipotesi, potrà portare a un utile di 20 milioni di dollari, così suddivisi: 8,25 milioni andranno alla Euro Ib per il suo ruolo di acquirente e venditore del prodotto e 12,375 agli altri partecipanti. Meranda, per la sua attività di avvocato esperto di diritto internazionale, punta a portare a casa una parcella tra i 500 mila e i 600 mila euro. La fetta di Vannucci e Savoini dovrebbe essere più sostanziosa: l’ipotesi era di 4 milioni a testa. Altri 4 avrebbero dovuto andare ai russi. I quali però avrebbero chiesto di aumentare la propria quota, facendo naufragare la trattativa. Dopo la riunione, durata 55 minuti, chi stava registrando di nascosto l’incontro, si alza e va in bagno. Torna fischiettando. Coloro che hanno ascoltato l’audio sospettano che a captare la conversazione sia stato il cellulare di Meranda, ma l’avvocato ha sempre negato di aver premuto il tasto record, ipotizzando che qualcuno possa avergli iniettato nel cellulare un trojan, un virus spia. Alla fine dell’incontro Meranda riassume su un taccuino, per sommi capi, i contenuti della trattativa. Al contrario di quanto sostenuto da altri giornali, quel giorno non viene redatto nessun accordo definitivo, né bozza di contratto. Anzi quelle del Metropol sono, viste le conseguenze, parole scritte sulla sabbia. Alla fine Meranda fa la foto dell’appunto e spedisce l’immagine ai suoi interlocutori. Il testo, che pubblichiamo in esclusiva, è sintetico e scritto in corsivo. Ne facciamo anche la traduzione: «A Ilia, Andrei, Gianluca, Francesco 1 Ilia confermerà i prodotti (quantitativi, prezzo/sconto) NB concordato uno sconto minimo del 4 per cento (se maggiore, tornerà all’avvocato) concordato credito aperto (per risparmiare circa l’1 per cento, ndr) con istruzione di pagamento irrevocabile alla Banca (Intesa Russia). Consegna nel porto di carico Rotterdam o Novorossijsk. NB dobbiamo muoverci velocemente per avere la prima consegna in novembre». In realtà a novembre la trattativa è ancora in alto mare. E lo resterà per sempre. Tra il 12 e il 14 dicembre Meranda torna a Mosca, dove vede Yakunin. La negoziazione non decolla. Forse perché l’avvocato nell’ultima proposta che invia alla compagnia statale Gazprom (prima avevano tentato l’affare con la Rosneft), reclama, sembra su indicazione della controparte straniera, uno sconto del 6,5 per cento, 2,5 in più di quello ipotizzato al Metropol. «È stata colpa dei russi, che hanno fatto i gargarozzoni» ha confidato Meranda. In pratica l’accordo non si sarebbe realizzato per l’ingordigia degli interlocutori moscoviti. Inoltre Meranda avrebbe raccontato questo aneddoto: «Mi è arrivata la voce che l’ad della Rosneft, Igor Sechin, abbia fatto saltare tutto con questa motivazione: “Non faccio arricchire Pligin”». Ma è credibile che un finanziamento voluto da Putin, o da chi per lui, dopo nove mesi di tira e molla, non venga erogato per un mancato accordo sulle quote destinate ai protagonisti? Ufficialmente la Gazprom ha sollevato dei dubbi sulla capacità logistica della Euro Ib di gestire un affare di questa portata. Nell’occasione Meranda tira fuori dal cilindro una lettera di credenziali dell’Eni, richiesta nel 2016 e ottenuta nel 2017, per sostenere il contrario.

LE REFERENZE DELL’ENI. La storia di questo documento partirebbe da una piazza di Roma, Sant’Apollinare, intorno a cui fioccano le leggende. Qui si trova l’omonima basilica affidata alla gestione dell’Opus dei, la prelatura fondata dallo spagnolo Josemaría Escrivá. Nella chiesa era stato sepolto uno dei capi della Banda della Magliana, Renatino De Pedis, ma nel 2012 la Procura di Roma ne ha ordinato la traslazione. Nella stessa piazza ha sede il palazzo di Sant’Apollinare, dove sorge l’Istituto superiore di Scienze religiose e la Pontificia università della Santa Croce, sempre legati all’Opus dei. Nel 2016, secondo le fonti di Panorama, Vannucci conduce Meranda in quelle stanze per trovare un buon contatto con l’Eni, la compagnia petrolifera italiana, controllata dal governo. È il 2016: a guidare il Paese è il Pd di Matteo Renzi e la Lega è solo un partito di opposizione. I nostri Totò e Peppino ottengono un appuntamento con un misterioso personaggio. Il quale convoca una donna. Nei racconti della coppia la signora ha in mano un plico di fogli con sopra un lungo elenco di persone. Mister X inizia a scorrerlo. Il suo dito si ferma su un nome. Non sappiamo quale fosse, ma di certo doveva essere un pezzo grosso della nostra azienda di Stato. Il 5 ottobre dalla Euro Ib iniziano uno scambio di mail per ottenere il sospirato accreditamento da parte dell’Eni. È una lunga due diligence con richiesta di spiegazioni e delucidazioni, che ha dato luogo a uno scambio epistolare di più di 20 mail che Panorama ha potuto visionare. «Alla stregua di Enoc, Aramco, Mercuria, altri grandi produttori e trader, ai quali abbiamo fatto domanda, il processo è durato mesi. Il nostro rapporto era con l’ufficio compliance, che ci ha reputati idonei, viste le nostre licenze, ad acquistare e vender prodotti con l’Eni» fanno sapere dalla banca. Alla fine del processo lungo sette mesi, arriva la lettera di referenze firmata da Alessandro des Dorides, vicepresidente «global products trading» della Eni trading & shipping (Ets) di Londra. Nei giorni scorsi l’avvocato di des Dorides, Oliviero Mazza, ha però precisato a nome del suo assistito: «Euro IB è stata accreditata in Ets» non per iniziativa di des Dorides, ma «a seguito della presentazione fatta dal ceo Franco Magnani», cioè dall’amministratore delegato della Ets, ritenuto un fedelissimo dell’a.d. di Eni Claudio Descalzi, nominato dal governo Renzi nell’aprile 2014. «Euro IB è stata ritenuta una valida controparte dalla funzione interna che valuta ogni singola società prima di qualsiasi tipo di business» ha aggiunto l’avvocato Mazza. Che ha inoltre precisato: «Des Dorides non era il responsabile di tale procedura di controllo (Know your client, Kyc, ndr)» che ricadeva su una struttura aziendale diversa dalla sua. A interfacciarsi direttamente con la Euro Ib fu Giulia D., Kyc/credit analyst. Mazza ha anche ricordato una riunione nella capitale inglese, nella sede di Ets: «Euro Ib fu presentata dall’amministratore delegato Magnani nell’occasione dell’incontro, presso gli uffici di Londra, con Gianluca Meranda, Glauco Verdoia e Francesco Vannucci». Verdoia, rappresentante della banca in Italia, spiega a Panorama: «Io sono andato a Londra per iniziare il processo di Kyc, ma noi della Euro Ib non abbiamo mai incontrato Magnani. Forse era un contatto diretto di Vannucci e Meranda». Il 23 maggio 2017 arriva la lettera di accreditamento: «Su espressa richiesta di Euro Ib ltd, confermiamo che Euro Ib ltd ha trattato con noi in numerose occasioni e ha condotto i suoi affari in modo professionale e affidabile». In quel momento al governo c’è ancora il Pd, ma il premier è diventato Paolo Gentiloni. Dunque non è la Lega a far ottenere le referenze e queste non sono funzionali ad affari con il partito di Salvini.

GLI AMICI POLITICI. Meranda è un personaggio che Panorama ha studiato nei particolari, mentre Vannucci è sempre risultato più criptico. Di lui si sa che dopo aver lasciato il Monte dei Paschi di Siena, dal 2006 è tornato in pista come consulente finanziario. Oggi possiamo aggiungere che ci risulta sia solito raccontare dei suoi presunti legami con «pezzi da 90» del Pd. Per esempio, nel 2015 interrompe una consulenza spiegando al capoufficio di dover «partecipare alla campagna elettorale di Enrico Rossi», quell’anno riconfermato governatore della Toscana. In giro si vanta anche di avere stretti rapporti con l’ex premier Enrico Letta. Addirittura gli sarebbe stato vicino, una ventina di anni fa, in un momento di crisi familiare. Rossi, contattato da Panorama, nega di conoscere Vannucci: «Non so chi sia». Letta non ha proprio risposto alle nostre chiamate e ai nostri messaggi. Una nostra fonte obietta che Vannucci gli presentò Rossi a un’iniziativa romana, ma forse il governatore non ha ricordo di quell’evento. Di certo l’ex bancario, nel Pd, stava dalla parte degli antirenziani e ogni volta che poteva parlava male del fu Rottamatore. Per un periodo Vannucci e Meranda frequentano assiduamente anche il parlamentare dem di origini marocchine Khalid Chaouki (autore del pamphlet anti Carroccio Leghisti brava gente, nel 2013), all’epoca membro della commissione esteri della Camera e presidente del Centro islamico culturale d’Italia, l’ente che ha in gestione la Grande moschea di Roma. Rammenta Chaouki: «Che Vannucci avesse un rapporto con Rossi, mi risulta. So anche che conosceva da tempo Letta e che ogni tanto si sentivano. In una certa fase ebbe rapporti pure con Silvia Velo, l’ex sottosegretaria all’Ambiente del Pd. Aveva anche altri contatti molto locali». 

QUELLA SVOLTA A DESTRA. Ma Vannucci come arriva da Suvereto ai parlamentari nazionali del Pd? «È quella vecchia guardia, quella minoranza popolare cattolica... lì c’è tutto il filone di... Letta, della vecchia Margherita» ricostruisce l’ex deputato. Il quale precisa: «Negli ultimi tempi mi aveva colpito la sua svolta a destra. Il motivo? Un po’ per la delusione per non essere stato valorizzato e un po’ perché la nuova destra aveva bisogno di quello che lui poteva offrire, cioè una rete territoriale. Si è avvicinato a quel mondo tramite Sergio Pirozzi». L’ex sindaco di Amatrice e attuale consigliere regionale del Lazio non smentisce il contatto: «Vannucci si presentò da me dopo che ero stato eletto. Mi disse che era un piddino “pentito”. Io stavo lavorando al fondo per i terremoti e lui mi portò un fascicolo con le misure economico-bancarie della Cassa depositi e prestiti a sostegno dei territori colpiti dal sisma in centro Italia e un’analisi sulla situazione dei fondi europei per le catastrofi naturali». Materiale «verificato e attendibile» che Pirozzi ha utilizzato per un suo progetto regionale e che Vannucci avrebbe messo a disposizione gratuitamente. L’ex sindaco ricorda che a presentarglielo fu qualcuno della sua lista a cui Vannucci aveva dato una mano in campagna elettorale. Ma poi il bancario livornese «non si è fatto più sentire». Torniamo a Chaouki. È stato avvistato nello studio di Meranda anche all’inizio di quest’anno quando scelse l’uomo del Metropol come legale in una causa di lavoro contro una collaboratrice. Secondo le fonti di Panorama Chaouki avrebbe aiutato Meranda e Vannucci nel tentativo di accreditamento di Euro Ib con l’Enoc (la compagnia petrolifera nazionale degli Emirati) e con l’Adnoc, l’Abu Dhabi national oil company. Ma Chaouki nega di aver fatto da tramite con tali aziende: «Non è così. L’unica occasione in cui ho favorito un incontro con loro è quando è venuto in Italia il ministro del petrolio del Bahrein. È successo a margine di un evento pubblico e c’era anche il presidente della banca Euro Ib. È una cosa che non ho fatto solo per loro, ma anche per l’Eni». Chaouki avrebbe coinvolto i due anche in un affare con il governo marocchino per l’illuminazione pubblica, portando in Africa una società lombarda del settore. La missione nel regno africano durò 15 giorni e si svolse nell’aprile 2016. «Sì quel viaggio l’ho fatto con Meranda, che era con me in veste di consulente legale» ammette l’ex parlamentare. Per la sua attività Vannucci, negli anni, si è fatto presentare altri politici, tra questi pure il segretario dell’Udc Lorenzo Cesa, ma anche in questo caso, pare, senza impressionare l’interlocutore («Non me lo ricordo proprio» ci ha detto Cesa). Vannucci nel suo peregrinare a caccia di «onorevoli» ha agganciato anche Souad Sbai, ex deputata del Pdl. A lei ha proposto un business per un servizio traghetti per il Marocco. Nel 2014 le ha fatto pervenire foto di betoniere in vendita, da utilizzare per la costruzione di strade. Insieme con Meranda, è entrato in contatto pure con un ex parlamentare marocchino, Ahmed Kadiri. Con lui hanno portato avanti un progetto per la costruzione di una strada in Guinea, da affidare a un’impresa italiana: investimento previsto circa 15 milioni di euro. Ma neanche questa iniziativa è andata a buon fine. La Sbai riassume così quel rapporto: «Si tratta di persone molto distanti politicamente da me. Mi hanno avvicinato per possibili business legati al mio paese d’origine. Mi hanno fatto tante proposte, ma alla fine non ho ritenuto di accoglierle». Nonostante il loro attivismo l’avvocato massone e il consulente finanziario non sono riusciti a realizzare nessuno degli affari auspicati. Come, del resto, è accaduto in Russia. A maggio Meranda ha dovuto lasciare il suo studio per uno sfratto esecutivo. A giugno la Procura di Milano ha iscritto sul registro degli indagati Meranda e Vannucci (sono assistiti dall’avvocato Ersi Bozheku dello studio Stile di Roma) per la vicenda del Metropol e gli ha sequestrato pc e cellulari. Vannucci non è molto tecnologico, ma su quello di Meranda ci sarebbe, a suo dire, «il mondo». A partire dal pizzino del 18 ottobre. Sul suo telefonino si trovano molte chat, alcune con importanti figure istituzionali d’area non leghista. Personaggi che magari ha incontrato nella sua veste di avvocato, ma che adesso potrebbero finire nel tritacarne mediatico per la semplice conoscenza dei due lobbisti più inconcludenti del West. E, sembra, pure dell’Est.

Giorgetti: Savoini? Avevo messo in guardia Matteo. Dal “Corriere della Sera” il 2 novembre 2019. Un contratto di quel genere dei russi con l' Eni? «Ha le stesse probabilità che ho io di ricevere un' offerta per allenare l' Inter». L' ex sottosegretario leghista Giancarlo Giorgetti commenta così - nel nuovo libro di Bruno Vespa P erché l' Italia diventò fascista (e perché il fascismo non può tornare ) - la vicenda russa che ha coinvolto stretti collaboratori di Matteo Salvini. «Che cosa penso dell' incontro al Metropol? - dice Giorgetti nel libro-. Savoini e D' Amico sono due sprovveduti avvicinati da mediatori d' affari che li immaginavano dotati di poteri magici. Altri pensavano che arrivassero fino a Salvini. Figurarsi. Però - si legge ancora nel volume di Vespa - ogni loro passo era monitorato [da servizi segreti], erano polli lasciati correre in libertà». E poi: «Avevo informato Salvini e lo avevo messo in guardia. Ma lui, in assoluta buona fede, riteneva che fossero simpatici romantici assolutamente innocui, senza poter fare alcun danno. Ma il danno d' immagine per Salvini è stato enorme, visto che lo avevano sempre accompagnato in Russia».

Francesca Sforza per “la Stampa” il 19 novembre 2019. Un milione di euro in neanche 24 ore, è la risposta russa all'appello lanciato dall'Ambasciata italiana a Mosca per sostenere il restauro del patrimonio culturale danneggiato dall' acqua alta a Venezia. «Non ho fatto in tempo a lanciare la campagna che già abbiamo raccolto l'adesione del maestro Valery Gergiev, il più grande direttore d'orchestra vivente russo, attualmente a capo del Teatro Mariinsky di San Pietroburgo, per un concerto straordinario dedicato all' iniziativa», ha detto il nostro ambasciatore a Mosca Pasquale Terracciano. Sull'onda del concerto, l'appello verrà esteso nei prossimi giorni a tutto il territorio della Federazione Russa, e con tutta probabilità la raccolta fondi continuerà ad aumentare. Una così grande mobilitazione si spiega senza dubbio con «il grandissimo amore che la Russia ha per l' Italia e in particolare per Venezia, che suscita emozioni particolari nell' immaginario collettivo», come ha osservato Terracciano, ma anche con gli interessi che legano Mosca alla laguna. Tra i primi a mobilitarsi ci sono stati infatti i grandi collezionisti e gli oligarchi legati al mondo dell' arte, già autori di diverse iniziative a Venezia. La Victoria Foundation, di proprietà della società di idrocarburi Novatech - uno dei più grandi gruppi russi nel settore dell' energia, guidato dall' oligarca Leonid Mikhelson - è stata protagonista alla Biennale di Venezia 2019 con un padiglione che ha suscitato grande interesse da parte della critica. Così come è ormai collaudata la collaborazione tra il Museo Pushkin di Mosca e le istituzioni museali veneziane, con scambi di mostre e collezioni. Ci sono anche Roman Abramovich e Andrey Melnichenko tra i miliardari che negli anni hanno frequentato Venezia a bordo dei loro yacht, con feste memorabili all' insegna del lusso. E se i nomi dei donatori sono coperti dal più assoluto riserbo, tutto fa pensare che siano in molti, a Mosca, a voler aiutare Venezia.

Dagospia il 18 novembre 2019. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, ma il leghista "buono" Giancarlo Giorgetti che aspira a riformare la Costituzione ed è stato il regista dell'incontro tra il leader del Carroccio Matteo Salvini e il cardinale Camillo Ruini è lo stesso Giorgetti la cui moglie Chiara Venturi ha patteggiato nel 2008 davanti al Gup del tribunale di Busto Arsizio due mesi e 10 giorni di reclusione per truffa a enti pubblici? Con simpatia. Andrea Giacobino

Da corriere.it 15 maggio 2008. Laura Ferrari Giorgetti, moglie del parlamentare leghista Giancarlo Giorgetti, ha patteggiato davanti al Gup del tribunale di Busto Arsizio, Chiara Venturi, due mesi e 10 giorni di reclusione per truffa a enti pubblici. La pena detentiva è stata convertita in pecuniaria: la signora dovrà pagare 3.240 euro di multa. A cui si aggiungono i 25 mila euro che ha già versato a titolo di risarcimento danno alla Regione Lombardia.

LA STORIA - Laura Ferrari Giorgetti era titolare di corsi di equitazione in una onlus, società che per ottenere 400 mila euro di finanziamenti dal Pirellone, aveva «gonfiato» il numero degli allievi che frequentavano i corsi di formazione. Oltre alla signora, hanno patteggiato davanti al Gup anche Giuseppe Landucci (presidente dell'ente di formazione Forma Moda che fece i corsi) 1 anno 4 mesi, e il suo braccio destro Maurizio Turoli 10 mesi. Altri due coimputati, Massimo Leo e Rita Leo, saranno giudicati in seguito, a causa di un problema di mancata notifica. L'accusa, sostenuta dal pm Giovanni Polizzi, era di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche. Secondo la procura, in due corsi per diventare istruttori di ippica per disabili, finanziati dalla Ue tramite la Regione, erano state falsificate le firme di alcuni partecipanti, per raggiungere un numero sufficiente ad ottenere i fondi.

Gianluca Paolucci per “la Stampa” il 12 novembre 2019. C' è un legame tra le due inchieste più calde sulla Lega: quella di Genova sul sospetto riciclaggio dei 49 milioni di contributi elettorali e quella siciliana su Paolo Arata che porta da un lato all' ex sottosegretario Armando Siri e dall' altro a Vito Nicastri, l'imprenditore sospettato di essere un prestanome del superlatitante Matteo Messina Denaro. Il legame si chiama Angelo Lazzari, bergamasco di 51 anni che controllava il gruppo al quale faceva capo la Sevenbit Fiduciaria. Ovvero, la fiduciaria che «custodiva» una serie di società finite nell' inchiesta sui fondi della Lega perché tutte domiciliate presso lo studio dei commercialisti Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, in via Angelo Maj a Bergamo. Sette società, sulle quali come hanno svelato una serie di inchieste de l' Espresso si sarebbe concentrata l' attenzione degli investigatori genovesi, che sospettano che possano essere state utilizzate per riciclare parte dei 49 milioni. Di Rubba e Manzoni, con il parlamentare Giulio Centemero, sono gli uomini che si occupano delle finanze della Lega di Salvini. Manzoni e Centemero sono anche indagati dalla procura di Roma per i finanziamenti del costruttore Luca Parnasi. E fin qui la storia nota. Meno noto che lo stesso Lazzari fosse consigliere e principale azionista - sia attraverso la Sevenbit Fiduciaria che attraverso un fondo lussemburghese, Iris Fund - di una società del settore delle rinnovabili, la Te Wind spa. Società che poi si è fusa con la Agatos spa, quotata sull' Aim di Piazza Affari, il listino dedicato alle piccole imprese. Secondo quanto ricostruisce una informativa della Dia di Trapani, a gennaio del 2017, «la Agatos stringe un accordo con la Solcara srl di Arata e Nicastri» per sviluppare in Sicilia una serie di progetti di impianti a biometano. A febbraio del 2018, con l' esecuzione della fusione tra Te Wind e Agatos, Lazzari- che non è stato possibile contattare per un commento - esce dal cda. Ma Iris Fund e Seven restano azionisti, rispettivamente con il 9% e l' 1%, di Agatos. Un mese dopo, in marzo, vengono costituite la Solgesta e la Agatos Etnea, con il capitale diviso a metà tra la Agatos e Paolo Arata, che secondo le indagini della Dia ha però a sua volta, come socio occulto, Vito Nicastri. Il ruolo di Arata e Nicastri è fissato negli accordi: l' ottenimento delle autorizzazioni necessarie a far partire gli impianti. I rapporti tra la Agatos e il duo Arata-Nicastri non sono però idilliaci: nascono una serie di disaccordi, anche per le spese in «consulenze» e lavori che Arata paga su indicazione di Nicastri. Prima della fine dell' anno le joint-venture vengono sciolte, Arata ricompra il 50% di Solgesta e Agatos Etnea e la Agatos esce di scena. Contattati, i vertici della Agatos - estranei alle contestazioni delle procure - si limitano a dire che Lazzari «è uscito dal cda con l' esecuzione della fusione» tra Agatos e Te Wind. Mentre sui rapporti con Arata l' unica risposta è: «No comment». Più o meno nello stesso periodo scoppia anche il caso dei fondi della Lega e del ruolo di Lazzari come «fiduciario» dei commercialisti bergamaschi. E Lazzari, che non è indagato nei due procedimenti, si trova coinvolto in un terzo caso finanziario-giudiziario che non coinvolge invece la Lega: viene indagato dalla procura di Milano per truffa, nell' ambito delle indagini sul crac di Sofia Sgr, un società di gestione del risparmio che avrebbe venduto titoli ad alto rischio a ignari risparmiatori. Due mesi dopo le notizie sull' indagine milanese, un' altra svolta. Lazzari vende tutto. La Ivad sarl, capofila lussemburghese delle sua attività, conferisce tutto ad una società inglese, la Gruppo Arc Ltd. La Gruppo Arc viene quindi comprata da Massimo Merlino. Ingegnere, con un lungo passato nella finanza, che fino a un mese prima era presidente della Banca Cis di San Marino. Poi decade perché a gennaio Banca Cis viene commissariata dalle autorità del Titano e infine messa in risoluzione per una serie di gravi irregolarità, compresi i sospetti di riciclaggio. Contatto, Merlino spiega: «Non ho mai dato peso alle vicende societarie di Lazzari e non mi sono mai preoccupato del loro passato. Così come non mi sono interessato alle sue vicende giudiziarie. La Seven è in liquidazione da quando sono arrivato e di conseguenza non ho mai avuto sotto mano la sua gestione. Non ho mai conosciuto Paolo Arata né ho mai avuto occasione di conoscerlo».

Da ilfattoquotidiano.it il 17 dicembre 2019. La procura della Cassazione ha chiesto la conferma dei decreti di sequestro a carico di Gianluca Savoini – chiavette e cellulari con il file audio del Metropol – emessi dalla procura di Milano nell’ambito dell’inchiesta sui presunti fondi russi alla Lega. Si parla dell’ormai famoso audio registrato all’hotel Metropol di Mosca il 18 ottobre 2018. Un summit tra sei uomini: tre russi e tre italiani. Uno è Gianluca Savoini, all’epoca responsabile della Lega per i rapporti con Mosca, presidente dell’associazione culturale Lombardia-Russia, gli altri due italiani sono l’avvocato Gianluca Meranda e il consulente finanziario Francesco Vannucci. Un’ora e un quarto di dialogo, con tre cittadini russi vicini all’entourage politico del presidente Vladimir Putin, in cui si discutono i termini di un accordo che dovuto portato 65 milioni di dollari alla Lega. Un maxi finanziamento ottenuto grazie a sconto praticato dai russi alla mega fornitura di greggio. Denaro che il Carroccio avrebbe dovuto utilizzare per la campagna elettorale delle elezioni europee. Sia Salvini che Savoini, però, hanno sempre smentito l’affare. Mentre la procura di Milano indaga per corruzione internazionale. Il Tribunale del riesame di Milano, lo scorso 3 ottobre, aveva stabilito che il file poteva essere utilizzato perché non è di provenienza anonima e ha una fonte, che il giornalista dell’Espresso che ha consegnato la registrazione alla Procura ha esercitato il diritto di non rivelare. Una delle prove dell’inchiesta sui presunti fondi russi alla Lega è quindi legittima. Così come, sottolineano i magistrati nelle motivazioni, dalla registrazione appare “nitido che parte dei soldi fosse destinata alla Lega“. Una conferma di quanto anticipato da Davide Milosa su Il Fatto Quotidiano: inoltre esiste un documento, a disposizione della Procura di Milano, in cui è abbozzato il progetto per l’acquisto del gasolio russo: “Lo schema delle parti coinvolte nella trattativa considerata illecita, la possibilità di reiterare l’accordo nel tempo, l’importo da retrocedere dopo il pagamento della fornitura petrolifera, la necessità di agire rapidamente per l’avvicinarsi delle elezioni europee, l’utilità dell’accordo per entrambe le parti, la ripartizione dei compiti, la necessità di essere prudenti per non destare sospetti sul presunto ritorno illecito del denaro”. Scriveva il Riesame, “prevedendo che una percentuale del prezzo pagato – nella misura indicata del 4% – sarebbe stata retrocessa per finanziare la campagna elettorale del partito politico Lega“. Circostanza che emerge “in maniera ancora più nitida dalle parti della conversazione intrattenuta in inglese“. In particolare, nelle motivazioni, si rimarca la circostanza che dalla trascrizione si evince come il “denaro ‘retrocesso’ fosse necessario per finanziare la campagna elettorale del partito politico Lega”. I sei avevano discusso la compravendita sulla base di un foglio in cui si legge il 4% che nei piani doveva finire alla Lega e un valore che oscilla tra il 4 e il 6% da destinare ai pubblici ufficiali russi e ai loro intermediari d’affari. Dell’esistenza di questo documento si ha una prima conferma riascoltando proprio l’audio registrato al Metropol. Vende una società russa (Gazprom o Rosneft), acquista il colosso italiano Eni, dopo un passaggio intermedio con una banca d’affari londinese. È qui a Londra, secondo i documenti acquisiti dalla Procura, che viene preparata una proposta di acquisto da inviare a Rosneft, messa a punto dopo l’incontro del Metropol. Sono due passaggi dell’audio che, secondo i magistrati, annunciano l’esistenza del documento. A parlare è sempre Meranda. Nel primo dice: “Solo per averlo chiaro, aspetterò che tu confermi il prodotto, le quantità e qualunque cosa tu sia in grado di fare”. Poi aggiunge: “Farò solo uno screenshot qui e te lo invierò solo per essere sulla stessa pagina. Ok signori, penso che stia andando nella giusta direzione”.

·         L’Aifagate.

Maddalena Guiotto per “la Verità” il 15 novembre 2019. La Corte dei conti sta indagando dei dirigenti dell'Agenzia italiana del farmaco (Aifa) che avrebbero causato un danno di 200 milioni di euro al Sistema sanitario a causa di «ingiustificate limitazioni imposte all' utilizzo» del farmaco meno caro per la cura di alcune patologie dell' occhio. La guardia di finanza, come si legge in una nota, ha raggiunto con «un invito a dedurre» dirigenti pro tempore dell' Aifa e «componenti pro tempore della Commissione consultiva tecnico scientifica della medesima agenzia» perché avrebbero limitato la prescrivibilità di Bevacizumab (nome commerciale Avastin), più economico, per curare alcune malattie oculari, in particolare la degenerazione maculare senile, a vantaggio del più costoso Ranibizumab (Lucentis). È l'ennesima puntata nel caso dei due farmaci sviluppati dalla stessa azienda (Genentech) al centro di una vicenda che va avanti ormai da tempo e che ha visto anche una maxisanzione dell' Antitrust italiana nel 2014 e una pronuncia della Corte di giustizia dell'Unione europea un anno fa. Secondo gli accertamenti fatti dal nucleo di polizia economico finanziaria di Roma, i farmaci Avastin (antitumorale) e Lucentis ( indicato nella degenerazione maculare legata all' età) hanno la stessa equivalenza terapeutica, in termini di efficacia e sicurezza, come dimostrato da una serie di studi comparativi (Lucentis è una parte della molecola di Avastin). Il problema è che il primo, dice la nota, non è stato inserito tra i prodotti rimborsabili dal Ssn fino al 2014 e sono state imposte una serie di «ingiustificate limitazioni» al suo utilizzo almeno fino al 2017, causando un aggravio di spesa per lo Stato. Al totale di 200 milioni, dice la Gdf, si è arrivati calcolando la differenza di prezzo tra i farmaci (circa 600 - 730 euro per singola dose), in relazione al numero di trattamenti che sono stati effettuati con il Lucentis anziché con l' Avastin. Ora i dirigenti dell' Aifa e i componenti della Commissione tecnico scientifica dell' Agenzia hanno 60 giorni per fornire la loro versione alla Corte dei Conti. Sulle responsabilità delle aziende produttrici dei due farmaci (Roche e Novartis) si è già espressa, nel 2014, l'Autorità garante per la concorrenza e il mercato comminando una sanzione di oltre 180 milioni per aver creato una sorta di cartello. «I due gruppi» scriveva l'Autority nel 2014, «si sono accordati illecitamente per ostacolare la diffusione dell' uso di un farmaco molto economico, Avastin, nella cura della più diffusa patologia della vista tra gli anziani e di altre gravi malattie oculistiche, a vantaggio di un prodotto molto più costoso, Lucentis, differenziando artificiosamente i due prodotti. Per il Ssn l'intesa ha comportato un esborso aggiuntivo stimato in oltre 45 milioni di euro nel solo 2012, con possibili maggiori costi futuri fino a oltre 600 milioni di euro l'anno». Ci sono infatti dei rapporti economici particolari tra i gruppi Roche e Novartis. La prima, che commercializza l'antitumorale Avastin, avrebbe infatti « interesse ad aumentare le vendite di Lucentis», secondo l'Autority, «perché attraverso la sua controllata Genentech - che ha sviluppato entrambi i farmaci - ottiene su di esse rilevanti royalties da Novartis. Quest' ultima, dal canto suo, oltre a guadagnare dall' incremento delle vendite di Lucentis, detiene una rilevante partecipazione in Roche, superiore al 30%». La sanzione dell' Antitrust è stata confermata a luglio da una sentenza del Consiglio di Stato, che ha respinto il ricorso delle due aziende condannandole anche al pagamento delle spese.

Le mani della Lega sul business dei farmaci. Il partito di Salvini conquista la presidenza dell'Aifa, l'agenzia statale per i medicinali. Tra sprechi miliardari, riforme insabbiate e pressioni delle multinazionali. Gloria Riva il 15 novembre 2019 su L'Espresso. Uno scontro sotterraneo di potere, all’ombra della politica, scuote i vertici dell’Aifa, la potente Agenzia italiana del farmaco, che muove ben 28 miliardi di euro l’anno e decide quali medicinali possono entrare nel mercato italiano ed essere rimborsati dalle casse pubbliche. L’ente, con le proprie decisioni, non solo è responsabile della buona salute dei cittadini, ma indirettamente svolge un importante ruolo a garanzia di ben 70 mila posti di lavoro, tanti sono gli addetti del settore. Il direttore e i comitati tecnici di Aifa hanno il delicato compito di selezionare e valorizzare i prodotti più efficaci nel debellare le malattie, senza dimenticare gli investimenti industriali ed economici che ciascuna multinazionale del farmaco ha in programma nel territorio italiano. All’attenzione per i pazienti si aggiunge dunque l’interesse a mantenere buoni rapporti con un settore industriale da 32 miliardi di giro d’affari e tre miliardi di investimenti all’anno. Quei posti di comando dell’Aifa scottano così tanto che il direttore uscente, il chirurgo milanese Luca Li Bassi, esperto di management sanitario, con una lunga e comprovata esperienza internazionale in materia di gestione e rimborsabilità dei farmaci, è rimasto in sella poco più di un anno, per poi essere travolto dal più tipico degli spoil system: al cambio del ministro della Salute, avvenuto a settembre - quando la pentastellata Giulia Grillo è stata sostituita da Roberto Speranza, ex Pd ora in Leu - è seguita la pubblicazione di un nuovo bando per l’incarico di dirigere l’Aifa. Il successore di Li Bassi, oltre a saperne di farmaci, dovrà avere eccezionali doti politiche e di mediazione, visto lo scontro di potere che sta lacerando l’Agenzia pubblica. Ma procediamo con ordine. Proprio l’ex ministra Grillo a fine 2018 aveva lanciato una sorta di rivoluzione della governance farmaceutica, con l’obiettivo di spostare l’attenzione di Aifa sul benessere del paziente, ridurre sprechi e alleviare le casse del Sistema Sanitario Nazionale dai costi inutili. Lo aveva fatto seguendo le indicazioni di un luminare di fama internazionale, Silvio Garattini, fondatore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano, parecchio critico rispetto alla sostenibilità del sistema italiano: «I medicinali servono per curare le persone e se non sono davvero utili, perdono la loro funzione. Una banalità che molti hanno dimenticato», racconta all’Espresso il professore. Dati alla mano, Garattini dice che il 60 per cento dei farmaci in commercio è perfettamente inutile «perché si tratta dell’ennesimo prodotto fotocopia che, sotto un nome diverso ma con identica molecola, va ad intasare un mercato già saturo di miliardi di scatolette che allo Stato costa 20 miliardi». E aggiunge: «I farmaci fotocopia servono a logiche altre, rispetto alla cura dei pazienti: il sistema va razionalizzato e aggiornato». E quali sarebbero le logiche altre? «Il consumismo più sfrenato. L’Aifa deve decidere se la spesa farmaceutica serve a guarire i pazienti o a garantire i posti di lavoro». Eccola, la prima vera grana di Aifa. Le multinazionali hanno già delocalizzato all’estero tutti i più importanti centri di ricerca, perché non trovavano alcuna convenienza nell’investire in un Paese a scarso ritorno economico in termini di vendite. Meglio spostare i laboratori scientifici in Inghilterra o in Germania dove il business è più profittevole. Hanno invece mantenuto qui in Italia gran parte dell’industria produttiva, garantendo migliaia di posti di lavoro, ed è con questa leva che le aziende siedono ai tavoli di Aifa e fanno valere il proprio peso sulle Regioni, che hanno in gestione gran parte della spesa sanitaria pubblica. In questo quadro i governatori, che non vogliono ritrovarsi con ulteriori crisi industriali da gestire, meno di un mese fa hanno scelto il nuovo presidente di Aifa: è il super direttore generale della sanità veneta, Domenico Mantoan, un tecnico in quota Lega. Il suo predecessore, Stefano Vella, se n’era andato in aperto contrasto con l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini. Vella, durante gli anni di lavoro all’Istituto superiore di sanità, si è occupato dell’epidemia di Aids e dal 2000, insieme a figure carismatiche come Nelson Mandela, ha aperto la strada alla produzione in Sudafrica dei medicinali generici antiretrovirali, per combattere a costi più ridotti la piaga dell’Hiv nel continente nero. Vella è noto perché vinse le battaglie legali, fatte di numerosi ricorsi, avviate da ben 39 multinazionali farmaceutiche contro la diffusione dei farmaci a basso costo. Alla posizione di Vella, indipendente e spesso battagliera, è stata oggi sostituita la linea più morbida e pro-industria di Mantoan, designato a fine ottobre. Secondo tutte le fonti contattate da L’Espresso, questa nomina rappresenta un messaggio distensivo che le Regioni, in maggioranza governate dal centro-destra, hanno mandato all’industria del farmaco. Anzi, è il secondo segnale amichevole, se si considera che alla presidenza del Cpr, il cruciale Comitato prezzi e rimborsi di Aifa, siede Giovanna Scroccaro, anch’essa esponente della sanità veneta. Personalità che di certo non sentono l’urgenza di rivoluzionare lo status quo, come invece chiedeva il professor Garattini quando a fine 2018 dichiarava: «Bisogna riscrivere il prontuario, cioè l’elenco dei farmaci in commercio, che è fermo al 2005; bisogna eliminare i prodotti obsoleti e non più competitivi». Del resto proprio Garattini era stato il promotore dell’ultima seria revisione del prontuario, che risale al 1993 e aveva quasi dimezzato la spesa statale, ridotta da novemila a cinquemila miliardi di vecchie lire. Spiega oggi il luminare a l’Espresso: «È inutile avere a disposizione 100 farmaci simili e non avere le risorse per quelli con nuovo potenziale terapeutico. Siamo più anziani, l’oncologia ha fatto passi da gigante, le malattie rare sono sempre più conosciute e le nuove emergenze sanitarie impongono scelte terapeutiche personalizzate. Per questo, bisogna tagliare i rami secchi, evitare gli sprechi e appunto rivedere il prontuario secondo logiche nuove». Facile a dirsi, difficile a farsi. Ma la spesa farmaceutica pubblica è davvero esagerata? L’osservatorio Cergas Bocconi, che monitora l’economia del sistema sanitario, dipinge una situazione al limite della sostenibilità, distante dalla capacità di spesa di Germania e Francia. Infatti se Berlino spende in farmaci 691 euro pro capite, Parigi ne sborsa 521, mentre Roma solo 366. In totale, il nostro Sistema sanitario nazionale spende poco più di 20 miliardi per i farmaci, di cui 7,9 per coprire il costo delle confezioni vendute nelle farmacie dietro prescrizione del medico di base, i restanti 12,1 per i prodotti distribuiti negli ospedali. I cittadini aggiungono di tasca propria altri 8,77 miliardi. Di questi, 1,6 miliardi è il valore del ticket, che negli ultimi 17 anni è aumentato del 16 per cento. Altri 5,66 miliardi sono spesi per medicinali non coperti dal sistema pubblico: anche in questo caso la percentuale dei non rimborsabili è passata dal 33 per cento nel 2001 al 41,2 nel 2018. I restanti tre miliardi potrebbero essere risparmiati se gli italiani andassero dal medico di base per farsi prescrivere le ricette e se scegliessero i farmaci generici. Nel primo caso c’è stata un’impennata di coloro che si pagano di tasca propria le pasticche: si è passati dal 3,1 per cento del 2001 all’attuale 14,7. Nel secondo caso l’incremento è ancora più sconvolgente: la quota di chi sceglie di pagarsi una costosa scatola di marca, anziché l’economico generico, è raddoppiata negli ultimi otto anni, e la crescita è soprattutto al Sud e nelle regioni più povere d’Italia: Basilicata, Campania, Sicilia e Calabria, come spiegano i dati di Cittadinanzattiva. Ecco perché Garattini nel piano di riforma spingeva sull’informazione ai medici, per spiegare che i generici sono efficaci e producono risparmi. Parla di necessità di razionalizzazione anche l’economista Claudio Jommi del Cergas Bocconi, capo dell’Osservatorio sulla farmaceutica italiana: «C’è una generale percezione che la spesa sia eccessiva. I dati mostrano il contrario. È importante invece meglio programmare i tetti di spesa pubblica, rimodularli, vista l’evidente incoerenza con l’andamento dei due mercati di riferimento, e rendere ancor più strutturato il legame tra valore del farmaco e negoziazione dei prezzi». L’economista tocca così il secondo nervo scoperto. Ogni anno infatti, attraverso la legge finanziaria, lo Stato stabilisce l’entità dei due fondi, distinti e non comunicanti, utilizzabili dal sistema sanitario nazionale per l’acquisto dei farmaci. Il primo è quello per la spesa convenzionata, cioè per i medicinali acquistati in farmacia: vale 9 miliardi, ma quest’anno lascerà un avanzo in cassa di circa un miliardo, un surplus destinato ad aumentare nei prossimi anni. Il secondo fondo è quello per gli acquisti diretti, cioè i farmaci distribuiti negli ospedali, che è sempre più in sofferenza, perché aumenta la richiesta soprattutto di medicinali oncologici e terapie su misura: a fronte dei 7,8 miliardi stanziati nel 2019, quest’anno il costo reale è di 10,6 miliardi e nel 2021 l’extra spesa sforerà i due miliardi. E qui viene il punto. Perché a pagare metà di questo sforamento di spesa, oggi, sono le stesse aziende private, che in pratica devono restituire quanto incassato (secondo un meccanismo chiamato in gergo pay-back). «È tutt’altro che un sistema fluido: le imprese in passato hanno dato battaglia nei tribunali e poi raggiunto accordi transattivi con ciascuna regione», spiega Jommi. Secondo l’esperto la prima cosa da fare sarebbe proprio la rimodulazione dei tetti di spesa: in sostanza basterebbe ridurre il fondo per le farmacie e aumentare quello per gli ospedali. Di fatto però le Regioni si mettono di traverso, perché ogni amministrazione locale sfrutta i pay-back sganciati dalle multinazionali per far quadrare i propri conti. Detto altrimenti, se nel 2020 il governo dovesse riequilibrare i tetti di spesa, le Regioni perderebbero gli extra pagati dalle multinazionali e dovrebbero trovare almeno due miliardi di euro per chiudere in pareggio i bilanci. Altro che cura dei pazienti: dalla nomina dei vertici di Aifa, alla questione dei tetti di spesa, sembra che la sanità, più che una questione di vita o di morte, sia diventata una faccenda di economia e politica.

Esclusivo. Auto blu e favori politici: tutti i segreti dello zar leghista della sanità. Un'indagine finora inedita svela i retroscena della carriera di Domenico Mantoan, il super direttore degli ospedali veneti ora nominato al vertice dell'Aifa. Paolo Biondani e Andrea Tornago il 15 novembre 2019 su L'Espresso. Maledetta auto blu. Più che un privilegio, sembra una disgrazia per Domenico Mantoan, potentissimo neo-presidente dell’Aifa, l’agenzia che gestisce l’intera spesa farmaceutica e controlla il mercato miliardario dei medicinali. Perché sono proprio due infortuni con l’auto di servizio a insidiare la sua irresistibile carriera di super-dirigente della sanità nel ricco Veneto e ora in tutta Italia. Una nomina, decisa dalla conferenza delle Regioni, che sancisce il passaggio alla Lega di questo cruciale centro di potere sanitario, economico e politico. Mantoan, 62 anni, vicentino di Brendola, occupa da un decennio, ininterrottamente, la poltrona di direttore generale della sanità veneta: è il capo indiscusso di un apparato regionale che muove ogni anno dieci miliardi di euro di spesa pubblica. A Venezia è considerato un tecnico molto preparato e capace, con un carattere duro: una sorta di Richelieu, riverito e temuto anche ai piani alti di Palazzo Balbi, sede della Regione. Laureato in medicina a Padova, specializzato in endocrinologia a Verona, il super-manager ha la gerarchia nel sangue: inizia la sua carriera nel 1984 come ufficiale medico dei Carabinieri di Udine e del distretto militare di Verona, dove lavora fino al 1993. Nella sanità regionale entra nel 1995, quando il Veneto, dopo Tangentopoli e la fine della Dc, diventa un feudo del centrodestra. Da allora Mantoan continua a fare carriera sotto tutte le giunte. Con il berlusconiano Galan, viene chiamato a replicare il modello sanitario lombardo dell’era Formigoni (tagli agli ospedali pubblici, soldi alle cliniche private), che riesce ad applicare senza troppi danni sociali. Il Veneto diventa la terza regione italiana per spesa sanitaria privata (41 per cento del totale, secondo la Corte dei Conti) restando in vetta alla classifica dei livelli di assistenza. Dal 2010 ad oggi Mantoan resiste a tutti i cambiamenti di pelle della Lega: mentre il partito passa da Bossi a Maroni per arrivare a Salvini, e nell’assessorato alla sanità la cerchia del veronese Tosi è sostituita dai fedelissimi del trevigiano Zaia, il super-tecnico resta al suo posto, dove è riconfermato almeno fino alla primavera prossima. Ed è proprio l’attuale governatore Luca Zaia a candidarlo con successo alla presidenza dell’Aifa. A rovinare la festa per la nomina, il 31 ottobre scorso, arriva un’interrogazione dei Cinquestelle, che chiede al neo-ministro Roberto Speranza di chiarire una bruttissima storia di malasanità e malagiustizia che coinvolge l’auto blu di Mantoan. A Padova, il 13 settembre 2016, la vettura pubblica che trasporta il direttore, guidata dal suo autista di fiducia, fa una manovra vietata e uccide un motociclista. A effettuare l’autopsia si precipita il professor Massimo Montisci, direttore dell’istituto di medicina legale di Padova, che scagiona l’autista con una tesi incredibile: il motociclista, Cesare Tiveron, sarebbe morto d’infarto un attimo prima di essere travolto dall’auto blu. I familiari della vittima insorgono, denunciano un conflitto d’interessi (l’istituto di Padova dipende dal grande capo della sanità veneta) e ottengono una nuova perizia, affidata a una squadra di luminari, che capovolge il verdetto: ora il professor Montisci è accusato di falso, l’autista di Mantoan di omicidio stradale. La stessa auto blu è finita al centro di un’altra indagine, finora tenuta segreta. Un procedimento aperto nel 2014 e chiuso pochi mesi fa, nell’aprile 2019. Mantoan non è accusato di alcun reato, ma i fatti accertati documentano rapporti, metodi di lavoro e incontri di potere finora sconosciuti: una specie di biografia non autorizzata. Tutto nasce da un fascicolo minore. La Procura di Vicenza ipotizza un «peculato d’uso»: Mantoan ha diritto di usare la vettura regionale con l’autista pubblico per gli spostamenti tra casa e ufficio, cioè tra Venezia e Vicenza, mentre è sospettato di servirsene anche per trasferte private. Quindi la Guardia di Finanza comincia a seguire la sua auto blu, segnalando una serie di anomalie. Il 26 settembre 2014, in particolare, la macchina pagata dalla Regione effettua una deviazione: esce dall’autostrada a Padova Est e si ferma in un hotel a quattro stelle dove lui rimane fino all’alba successiva. Qui il super manager pubblico incontra una imprenditrice della sanità, che ha una ditta a Padova e vende prodotti ospedalieri. Un incontro riservato tra controllore e controllata. L’indagine si chiude con un’archiviazione chiesta dal pm Giovanni Parolin: il giudice Massimo Gerace certifica che il peculato «non sussiste», perché i «singoli episodi» si riducono a «deviazioni di pochi chilometri», che «non hanno provocato danni apprezzabili alle casse pubbliche». Anzi, nella notte in hotel c’è stato «un considerevole risparmio», perché l’autista lo ha lasciato a Padova anziché portarlo a casa nel Vicentino. Un proscioglimento pieno, che però riconferma l’incontro notturno tra il dirigente pubblico e l’imprenditrice privata «per ragioni comprovatamente personali». Un altro dato certo è che, nei mesi successivi, l’amica di Mantoan fa un grande salto di carriera. Prima era solo una rappresentante di commercio, con una ditta individuale di «prodotti medicali, chirurgici e ortopedici». Dal gennaio 2017 diventa amministratrice unica di una società con 100 mila euro di capitale, che gestisce un centro radiologico in provincia di Padova, di cui è anche socia con il 20%. Il primo azionista, con il 40%, è un soggetto misterioso, che vuole restare anonimo: la sua quota è intestata a una fiduciaria del Montepaschi. Il restante 40%, invece, fa capo al gruppo Hfc, che controlla diverse società importanti, con fatturati milionari. Una di queste, F.R. Engineering, negli ultimi anni si è aggiudicata decine di grandi contratti per la sanità veneta: dal ciclotrone dell’ospedale di Castelfranco, a sofisticati macchinari come la Pet di Padova, alla rete di condizionatori dell’Istituto oncologico veneto, di cui Mantoan è stato commissario fino al 2016. Intanto l’imprenditrice padovana ha trovato altri partner d’affari importanti, come la società milanese Adexte, che si è fatta rappresentare proprio da lei, come risulta dalla sua firma in un documento del giugno 2018, in almeno una gara d’appalto da 64 mila euro: forniture per la medicina nucleare dell’ospedale di Vicenza, aggiudicate alla Adexte. Dagli atti giudiziari emerge che il fascicolo sull’auto blu era nato da un’indagine molto più ampia: pressioni politiche per nominare primari ospedalieri fedeli alla Lega. Mantoan viene intercettato, nello stesso periodo della notte in hotel, mentre incontra segretamente, in un bar vicino a un altro casello, il direttore sanitario di un ospedale di Vicenza e il responsabile di una Usl veronese, entrambi leghisti. Il primo, riassume la Finanza, «si adopera attivamente per indirizzare e determinare le nomine di due primari, a Verona e Vicenza». E incontra Mantoan perché «ne conosce il potere di interferenza nelle decisioni sulla sanità veneta». Il procedimento si chiude nel 2018 per la morte del dirigente vicentino inquisito. Mentre Mantoan non viene neppure indagato: in quell’incontro «certamente anomalo» ha subito pressioni politiche, ma non risulta che sia mai arrivato a truccare i concorsi dei primari. Il 7 novembre anche il ministro Speranza ha ratificato la sua nomina all’Aifa. Per il direttore della sanità veneta, la presidenza di un’agenzia così strategica segna anche una rivincita personale su Roma, dopo le polemiche con l’ex ministro Beatrice Lorenzin sull’obbligatorietà dei vaccini. Nel settembre 2017, infatti, era stato un decreto firmato proprio da Mantoan a sospendere per due anni l’obbligo di presentare i certificati di vaccinazione come requisito per l’ammissione nelle scuole. La Regione Veneto è arrivata a impugnare le norme statali davanti alla Corte Costituzionale, senza successo. Quindi il governatore Zaia ha dovuto sospendere il decreto Mantoan. Ora il burocrate torna a Roma, nello stesso ministero, da vincitore: come numero uno dell’Aifa, sarà lui a rappresentare lo Stato negli incontri e scontri con le potenti multinazionali dei farmaci. Non in un hotel vicino all’autostrada, si spera.