Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ANNO 2019
I PARTITI
SECONDA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
ITALIA ALLO SPECCHIO IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA ED IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
IL PARLAMENTO EUROPEO HA 40 ANNI.
L'EURO HA 20 ANNI. CERCANDO L’ITALEXIT.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA E L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA E L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA E GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA ED I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
INDICE SECONDA PARTE
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
INDICE TERZA PARTE
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
INDICE QUARTA PARTE
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
INDICE QUARTA PARTE
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
INDICE QUINTA PARTE
LA SOCIETA’
PAURE ANTICHE: CADERE IN UN POZZO E CHI CI E' GIA' CADUTO.
STORIA DEI BOTTI DI CAPODANNO.
GLI ANNIVERSARI DEL 2019.
I MORTI FAMOSI.
A CHI CREDERE? LE PARTI UTILI/INUTILI DEL CORPO UMANO.
INDICE SESTA PARTE
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
INDICE SESTA PARTE
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
INDICE SETTIMA PARTE
CHI COMANDA IL MONDO:
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
INDICE SETTIMA PARTE
CHI COMANDA IL MONDO:
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
I PARTITI
PRIMA PARTE
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
Il M5S compie 10 anni tra mutazioni, sfide e venti di scissione.
Cinque Stelle Cadenti.
Rousseau: "Il voto è manipolabile".
Il dossieraggio del M5s.
Beppe Grillo. Il moralizzatore: i condoni e la villa sulla spiaggia.
Grillo ex garante del M5S.
M5S, la carica degli onorevoli nessuno: umiliati, vessati e campioni di gaffe.
Luigi Di Maio e la menzogna del moderato.
C’era una volta…onestà, onestà.
Casalino il comunicativo.
Rimborsopoli. La Spesopoli dei 5 Stelle. Il caso Sarti.
5 Stelle ... rotte.
Il Sistema Casaleggio.
Stereotipi e complotti e bufale.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
La Lega non è più Lega.
Il compleanno della Lega.
I comunisti contro il comunista Salvini.
Qual è il segreto del successo di Salvini?
Il Salvini pluri-indagato.
L'Outing dei leghisti.
Un po’ comunisti ed un po’ fascisti ed un po’ ladroni.
Il Sirigate.
Ed i 49 milioni?
Il Russiagate.
L’Aifagate.
SECONDA PARTE
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
Il partito delle Tasse e dei LGBTI.
La Sinistra: un Toga Party.
Democrazie mafiose. «La sinistra è una cupola».
Comunismo… sopravvive soltanto in Italia.
Benito Mussolini: Italia Comunista. Ovvero: il Biennio Rosso.
Sinistra italiana, ora devi archiviare il Novecento.
Il grande bluff del populismo di sinistra.
Conflitto d'interessi e memoria corta.
"Il saluto romano non è reato".
“Bella Ciao” non è Partigiana.
Fascismo di sinistra.
Gli antifascisti radicali al tempo dell'accordo nazi-comunista del 23 agosto del 1939.
Il Fascismo in Italia era l’equivalente del Comunismo in Russia.
Le scissioni Social-fascio-comuniste. Da Mussolini a Renzi.
Il Renzismo Junior.
Il Renzismo Senior.
E dalla fattoria di Orwell sparisce Stalin.
I russi amano ancora Stalin e continuano a celebrarlo.
Lenin fu il vero padre del Gulag.
Mao è per sempre.
Matteotti riformista del futuro.
Così Gramsci ha creato l’egemonia su giornali e magistratura.
Semplice dire…L’Unità.
La Resistenza accusata di terrorismo e genocidio.
La democrazia dei comunisti.
I 70 anni autocritici del leader Massimo.
C’era una volta Enrico Berlinguer. Ora gli arroganti saccenti col ditino alzato. I vecchi errori del popolo della sinistra: avversario politico = ignorante-mafioso.
Compagni coltelli.
Quelli che…il tricolore.
Ritorno al Passato.
Onesti…a chi?
E tu quanto conosci davvero la sinistra italiana?
I Comunisti italiani!? Esterofili.
Parlando di Rossana Rossanda.
Parlando di Paola De Micheli.
Parlando di Andrea Marcucci.
Maria Elena Boschi e la confessione.
Franco Bassanini, il potente che fa sistema.
Liliana Cavani.
La donna non è più tanto comunista!
C’era una volta il pugno chiuso.
Affidati alla sinistra.
"Porti aperti".
La Sinistra e l’Islam.
Primarie Pd: storia, dati, vincitori.
Della serie. Comunisti: intolleranti, ignoranti e camurristi fascisti.
I comunisti sono ignoranti per scelta. E hanno rovinato l’Italia.
Sindacati: «Il cambiamento siamo noi».
Preti, società civile e oratori: così la sinistra vince nei comuni…
“La maggioranza silenziosa” ora è populista.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
Nella mente di un terrorista.
Milano, 25 aprile 1969: la Fiera Campionaria e la bomba.
Ecco dove nasce il nuovo terrorismo italiano.
"Io gambizzato dalle Br. Una follia equiparare le vittime ai carnefici".
Sette aprile 1979: la madre di tutte le inchieste bufala.
Omicidio Pecorelli, procura Roma avvia nuova indagine.
Lotta Continua e gli infiltrati e le bizzarre indagini sulla strage di Bologna.
Emilio Alessandrini, il giudice dalla "faccia mite".
Mario Amato. Il pm con la scarpa rotta che combatteva da solo i nemici dello Stato.
Così giustiziarono Rossa e il Pci gli dichiarò guerra.
La vendetta delle BR: Roberto Peci.
A casa di Alessio Casimirri, il latitante più ricercato d'Italia.
Lojacono: l'intervista esclusiva al latitante Br.
Ex terroristi: dove sono e cosa fanno.
"Ho sonno, datemi la coperta". Quelle richieste di Battisti dopo l'arresto.
Quegli intellettuali dalla parte dei terroristi.
"Il terrorismo prosperò grazie a chi diceva: compagni che sbagliano".
Reddito di cittadinanza di Stato agli ex brigatisti che hanno combattuto lo Stato.
Vite di "Brigatiste Rosse".
Walter Tobagi e l’ex operaia siciliana.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
«Formidabili un cacchio quegli anni».
Comunisti 1969. Lobby Continua.
I PARTITI
SECONDA PARTE
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Il partito delle Tasse e dei LGBTI.
Elezioni Regno Unito, la fine della sinistra secondo Jeremy Corbyn. I conservatori conquistano una maggioranza schiacciante, vincendo anche in regioni storicamente rosse grazie a una posizione molto chiara sulla Brexit. Il leader laburista paga i suoi tentennamenti e un programma troppo radicale. Luciana Grosso su L'Espresso il 13 dicembre 2019. Ciao Jeremy, bel tentativo. La sinistra inglese e quella di mezzo mondo salutano così Jeremy Corbyn e il suo obiettivo di governare (o almeno di prendere voti) con una politica schiettamente e sinceramente di sinistra. Ci ha provato e creduto, ma non è andata. Il leader politico che aveva pensato a un piano “for the many not for the few”, che aveva proposto un “real change” e presentato il programma elettorale più di sinistra che si vedesse da anni in Europa e, forse, che si sia mai visto nel Regno Unito, ha incassato la peggior sconfitta elettorale del Labour dal 1935. Alla fine dello spoglio, il numero di seggi persi è enorme: 60 rispetto alle elezioni di due anni fa, appena 202 in totale contro i 364 dei conservatori. Non solo: è caduto il Red Wall, una regione storicamente roccaforte rossa (simile alla nostra Emilia-Romagna, per intenderci) e persino nei seggi in cui il Labour ha vinto, lo ha fatto con un margine molto risicato. Un fiume sono stati i voti persi, non tanto a vantaggio dei conservatori e dei fratelli coltelli Lib-Dem, quanto quelli finiti nelle casse del Brexit Party. Voti che, detto per inciso, non serviranno a niente perché nel Regno Unito il sistema elettorale è completamente maggioritario e dunque, comunque, il partito di Farage non entrerà in Parlamento. Ma che sono bastati a condannare la leadership di Corbyn. A nulla sono servite al leader laburista la sua comunicazione molto efficace, la sua carica umana, il suo programma tutto basato su nazionalizzazioni, investimenti verdi, salari minimi, internet gratuito, aumento delle pensioni e degli stipendi, e tasse più alte solo per i ceti più ricchi. Anzi. Per certi aspetti il suo programma è stato controproducente, perché gli ha fatto perdere i voti delle classi borghesi e benestanti, spaventate dallo spauracchio suo ‘socialismo’ e, per contro, non gliene ha fatti guadagnare abbastanza tra le fasce più povere, convertitesi già dal tempo al populismo berciante del Brexit Party di Nigel Farage. Così, la politica sociale di Corbyn, che doveva essere il suo asso nella manica, si è rivelata parte del problema. O almeno uno dei due ingredienti della tempesta perfetta di questa giornata di pioggia e voti. L’altro è stato, come per tutto da tre anni a questa parte, Brexit. Tanto Corbyn è stato deciso, schietto e coraggioso sui temi economici e di politica sociale, tanto è stato timido, ondivago e incerto su Brexit. È comprensibile: lui, con il cuore che batteva per il Leave che si è ritrovato a render conto a un suo elettorato spaccato in due tra leaver (le classi operaie più povere) e remainers (i più ricchi e cosmopoliti londinesi). Una specie di campo minato in cui come la fai la sbagli. E per non sbagliare, Corbyn prima è stato fermo (per anni), poi ha ceduto alle pressioni della parte centrista del partito ed è arrivato a una forma timida e ibrida di compromesso: niente reverse Brexit, ma un secondo referendum su un deal che lui, da premier, avrebbe dovuto portare a termine. Una non decisione a cui è seguita una procrastinazione. Una non affermazione che, come sempre in questi casi, è stata annichilita da un messaggio semplice e muscolare: “Get Brexit Done” diceva Boris Johnson, chiaro come il sole. Sembra quasi certo che Jeremy Corbyn si dimetterà. Ma non si sa chi gli potrebbe succedere e per fare cosa. A chi toccherà la successione? Quando (e se) la faccenda Brexit sarà risolta e in Inghilterra si ricomincerà a parlare d’altro (posto che ci si ricordi ancora come si fa) il partito laburista potrà guadagnare consenso? Quanto tempo gli ci vorrà per riprendersi? E poi, una volta ripresosi, cosa farà? Resterà sulla carreggiata del socialismo in versione corbynista o farà un salto carpiato per tornare dalle parti del New Labour e della legacy di Tony Blair? Questa seconda ipotesi appare improbabile, ma la sconfitta è stata forte e le sue conseguenze avanno effetto per anni, nel Regno Unito e nel Labour.
La profezia (sbagliata) di Fassino sul voto in Regno Unito. L'esponente del Partito Democratico esaltò la decisione di Corbyn di proporre un nuovo referendum convinto che i britannici avrebbero scelto il "remain". Pina Francone, Venerdì 13/12/2019, su Il Giornale. Le previsioni, si sa, non sono il punto forte di Piero Fassino. È passata infatti alla storia la sua sparata in consiglio comunale – il 14 maggio 2015 – contro l'allora consigliera del Movimento 5 Stelle Chiara Appendino: "Un giorno lei si segga su questa sedia e vediamo se poi sarà capace di fare tutto quello che oggi ha auspicato di poter fare". Sei anni prima, peraltro, un’altra profezia cannata in toto: "Se Beppe Grillo vuole per davvero fare politica, allora, fondi un partito, si presenti alle elezioni e vediamo quanti voti prende". Il 30 giugno del 2016, al ballottaggio, bla grillina batté proprio il dem Fassino con il 54,56% dei voti (contro il 45,44%), diventando sindaca di Torino. Ora, un nuovo capitolo della "saga". Già, perché era il nove luglio di quest'estate quando dal suo profilo Twitter, l'ex primo cittadino incensò Jeremy Corbyn, leader del Partito Laburista. Sul social network, infatti, parlando di Brexit e "Remain" scrisse sicuro: "Corbyn propone un nuovo referendum e indicherà di votare perché #UK rimanga nell'#UE. Scelta saggia per evitare una separazione che danneggerebbe tutti: UK isolata e UE più debole. Scelta corrispondente ai sentimenti di tanti inglesi e auspicata dalla maggioranza degli europei". E infatti ieri i britannici e hanno votato in massa per il Partito Conservatore di Boris Johnson, che ha portato a casa un trionfo con la "t" maiuscola. Già, perché BoJo ha sbaragliato la concorrenza alle urne, conquistando la bellezza di 364 seggi, contro i 204 dei Laburisti (al minimo storico dal 1935). Quarantotto seggi per il Partito Nazionale Scozzese, undici per i Liberaldemocratici e uno appena per i Verdi. Inevitabile l'ironia sotto il post di Fassino: a decine, per non dire centinaia, gli utenti che hanno preso in giro l'ex sindaco di Torino per la sua sparata a fronte del risultato elettorale in Gran Bretagna, che di fatto è un'incoronazione per la Brexit. Questi, ad esempio, sono solo alcuni dei numerosissimi commento di sberleffo: "...Dalla maggioranza degli europei" è il tocco di classe. È che non ti capiscono, Piero", "Inarrivabile, ineluttabile, infallibile", "Fassino la prego di dire che governerete per i prossimi 20 anni!", "'I tanti inglesi' non erano poi così tanti. Quanto alla 'maggioranza degli europei', continui a dirlo. Grazie", "Un vero profeta", "Grandissimo Fassino, come sempre...spero dica qualcosa su disfatta della Lega e impossibilità di Italexit...", "Le sue previsioni si avverano sempre. Non è che mi dà sei numeri per il superenalotto?".
Dario Mazzocchi e Federico Punzi per atlanticoquotidiano.it. I numeri sono implacabili: 362 a 203 con soli 3 seggi ancora da assegnare. Per i Tories una vittoria storica: la più ampia maggioranza di seggi dal 1987 (la terza della Thatcher). Per il Labour la peggior sconfitta dal 1935. Ma il risultato di un’elezione non è mai scontato. Nelle ultime settimane i sondaggi davano i Conservatori in vantaggio in termini percentuali, ma lasciando dubbi sulla reale consistenza della maggioranza a Westminster, al punto da non poter escludere del tutto l’eventualità di un nuovo Hung Parliament. Nelle snap election del giugno 2017 l’allora premier Theresa May aveva ottenuto in termini percentuali e in voti assoluti un risultato ragguardevole, ma non bastò a causa della forte polarizzazione del voto tra i due partiti maggiori, che raccolsero oltre l’82 per cento dei voti (42 a 40). La storia si sarebbe potuta ripetere, ma negli ultimi giorni un indicatore diventato ormai infallibile ai nostri occhi rafforzava decisamente le chance di vittoria di Johnson: i giornaloni italiani infatti si sforzavano di accreditare la narrazione di un “recupero” Labour, gli elettori avevano deciso per il “voto tattico” nei collegi in bilico (tutti tranne lui!), annullando il vantaggio percentuale dei Tories (è la dura legge dell’uninominale!). Come al solito, si trattava di wishful thinking. È andata esattamente al contrario, con i Tories che hanno strappato collegi storicamente laburisti. Insieme a Corbyn escono quindi asfaltati anche i nostri media mainstream con il solito circo di inviati, esperti ed eurolirici al seguito, non solo perché alcuni schierati con il leader laburista, “male minore”, ma soprattutto perché non si sono mai voluti rassegnare al fatto che gli inglesi non hanno cambiato idea su Brexit, non si sono pentiti, né hanno ceduto alla strategia della paura, alimentata dai continui rapporti secondo cui i supermercati si sarebbero svuotati e la Regina sarebbe dovuta fuggire da Londra. Hanno voluto dipingere Johnson come un cinico opportunista, un pericoloso pagliaccio, una macchietta, le cui bugie avrebbero trascinato a fondo il Regno Unito, non riconoscendo in lui l’uomo di profonda cultura e il politico di razza. Non sarebbe mai riuscito a convincere l’Ue a riaprire l’accordo di uscita, ad eliminare il backstop, dicevano e scrivevano gli inviati che non aveva nemmeno una proposta in tasca con cui presentarsi a Bruxelles. E sappiamo com’è andata. Sghignazzavano e si davano di gomito ad ogni “umiliazione” parlamentare che subiva (quante volte l’hanno dato per finito?), senza comprendere che proprio su quelle sconfitte Johnson stava pazientemente e sapientemente costruendo il successo di oggi e cucendo addosso ai suoi avversari i panni degli sconfitti. Perché era chiaro che prima o poi al voto si sarebbe tornati. E così, ad ogni bocciatura dei Comuni e della Corte, ad ogni escamotage dei Remainer e provocazione di Bruxelles, prendeva forma la sua campagna, si rafforzava la sua immagine di leader del “Get Brexit Done” in contrapposizione alla palude di Westminster e ai Remainer che brigavano con Bruxelles per tenere il Regno Unito prigioniero dell’incertezza per chissà quanto. Ha costretto Corbyn all’angolo, portandolo prima a sposare definitivamente, voto dopo voto a Westminster, una posizione Remainer senza però né convinzione né una strategia chiara su come ribaltare il risultato del 2016, poi a mostrare di temere il ritorno alle urne che fino a poco tempo prima invocava quasi ogni giorno. Quella di Boris Johnson è una vittoria della leadership e degli ingredienti di cui una leadership politica è fatta: carisma e coraggio, chiarezza e sintonia con gli elettori, strategia e abilità nel muoversi nelle istituzioni. I suoi eccessi comunicativi non sono fine a se stessi, ma il veicolo di argomenti forti e di una strategia precisa. Fin dal giorno in cui è entrato al Numero 10 di Downing Street, una ventata di energia e concretezza ha spazzato via il grigiore e le insicurezze trasmesse dalla May. Brexit done, ma non solo. Fattore decisivo la stanchezza dell’elettorato per lo stallo su Brexit, che Johnson ha saputo interpretare al meglio: gli elettori a quanto pare avevano proprio una gran voglia di “Get Brexit Done”. L’immobilismo, l’indecisione, è quanto di più lontano dallo spirito degli inglesi. Occorreva dare una spallata ad un Parlamento bloccato sulla questione più delicata dal Dopoguerra ad oggi, un mandato forte e chiaro al primo ministro per risolvere la matassa e tornare a occuparsi delle tante faccende domestiche passate in secondo piano, ma che stanno a cuore ai britannici probabilmente più dei rapporti con l’Ue. Mentre la May aveva trasmesso la sensazione di essere la causa prima dell’impasse, con i suoi tentennamenti e i suoi passi indietro, Johnson ha saputo ribaltare questa percezione, assumendo da subito una posizione molto netta e, soprattutto, ottimistica su Brexit (uscita con o senza accordo entro il 31 ottobre) e lasciando ai suoi avversari la paternità di arrocchi, rinvii, bizantinismi e confusione. Anche Theresa May diceva di voler deliver Brexit, ma in lei era palpabile la paura, la scarsa convinzione nella scelta di lasciare l’Unione europea, la logica di riduzione del danno con la quale ha approcciato i negoziati, venendo letteralmente sbranata da Bruxelles, mentre Johnson ha incarnato la fiducia, la visione di una Brexit che oltre ai rischi presenta anche l’opportunità di “Unleash Britain’s Potential”. Chi chiedeva a gran voce un secondo referendum, invadendo le strade di Londra o dai palazzi su questo lato della Manica, è stato accontentato. Qualcuno potrebbe sbrigativamente concludere che i britannici considerano il laburismo di Corbyn più pericoloso della Brexit stessa. Oppure, più semplicemente ritengono l’esito del 2016 come assodato, piaccia o meno, e ora si aspettano dalle loro istituzioni che riprendano il controllo dopo troppo tempo. Non solo Brexit, dicevamo, perché alla base del trionfo di Johnson c’è anche un posizionamento politico ben oltre la comfort zone conservatrice sui temi economico-sociali. Un’analisi più approfondita dei voti reali consentirà di capire quanto i Tories siano riusciti a sfondare nell’elettorato laburista, ma la prima impressione è che abbiano intercettato non solo i voti di coloro che tre anni e mezzo fa si erano espressi per il Leave e che oggi si sentono traditi dall’ondivago Corbyn, che aveva annunciato che non avrebbe preso posizione, da primo ministro, in occasione di un secondo referendum sul divorzio dall’Ue. Oltre che ai temi cari agli elettori di destra come la sicurezza, l’impresa privata e le tasse, Johnson si è dedicato per tutta la campagna elettorale a temi molto cari alla sinistra tradizionale, come i servizi pubblici, le infrastrutture e i cambiamenti climatici, impegnandosi a rafforzare il sistema sanitario nazionale (NHS) e quello dell’istruzione, e mettendo al centro della sua campagna i lavoratori, dalla manifattura alla pesca. Senza mancare di rassicurare la City, promettendo un’agenda economica liberale, a partire dai prossimi rapporti commerciali con l’Europa e il resto del mondo. Con queste elezioni Johnson potrebbe quindi aver ridisegnato i confini conservatori, rendendoli quelli di un One Nation Party, fondendo componenti compassionevoli e liberali, sociali e imprenditoriali. Elementi non nuovi per chi lo conosce, sorprendenti per chi soprattutto in Italia lo ha superficialmente dipinto come un estremista di destra (e ora non gli resta che attaccarsi alla questione scozzese per provare a ridimensionare il suo successo). Ha voluto rischiare e andare all-in, portando gli avversarsi allo scoperto e chiedendo le urne anticipate: poteva andare a sbattere e invece ha letteralmente sfondato – come nell’efficace spot elettorale in cui con una ruspa abbatte il muro dell’Hung Parliament. E la nota positiva è che oltre ai tentativi di fermare la Brexit, votando in massa per i Tories gli elettori britannici hanno rigettato con forza l’islamo-marxismo e l’antisemitismo di cui era portatore il Labour di Corbyn.
Corbyn ha stravinto in Italia. Nicola Porro, Il Giornale 15 dicembre 2019. I l leader laburista Jeremy Corbyn ha perso in Gran Bretagna, ma ha stravinto in Italia. Il suo programma di estrema sinistra, fatto di tasse e nazionalizzazioni lo stiamo realizzando noi. Forse senza accorgercene, sicuramente senza averlo votato. Nelle prossime ore investiremo un miliardo di euro per salvare dal fallimento la Banca popolare di Bari. Probabilmente sarà utile per non spaventare i mercati e non distruggere la fiducia dei risparmiatori, ma dal punto di vista tecnico si tratta di una tassa che pagheranno tutti gli italiani. Quando una banca salta ci sono due strade. La prima è farla fallire e con essa compromettere la posizione anche di coloro che hanno depositi in conto corrente superiori ai centomila euro. La seconda è salvarla con i quattrini anche di coloro che un conto non ce l’hanno. Il miliardino arriverà in gran parte da una banca pubblica controllata dal Tesoro. Più o meno da quelle parti, e dunque sempre dal nostro portafoglio, giungerà un altro miliardino per tenere accesa la fabbrica di acciaio Ilva. Sempre che i magistrati, per un favoloso paradosso che ha molto a che vedere con l’eterogenesi dei fini, non si impongano e costringano a spegnere tutto. Banche e industria pesante non bastano. Dopo aver concesso 1,3 miliardi di prestito ponte all’Alitalia, arrivano altri 400 milioni. Qui il corbinismo italiano si colora con la nostra straordinaria capacità mimetica. Abbiamo chiamato prestito e per di più ponte, qualcosa che nessuno ci restituirà mai. In sostanza si tratta di risorse a fondo perduto per alimentare una società di servizi che perde 800 mila euro al giorno. Di fatto è il paradiso dello statalismo: i contribuenti pagano degli avvocati che cercano di gestire una perdita eterna. Se fosse stato per alcuni componenti dell’attuale maggioranza, sulla scorta delle incredibili deficienze private, avremmo nazionalizzato anche le autostrade. E alcuni di loro ancora ritengono che sia la strada migliore. In questo modo è del tutto evidente che un paese non cresce: anzi affonda. Ecco la soluzione: diamo un reddito di cittadinanza a chi non ce la fa. Altri sette miliardi gettati nel mare della nostra spesa pubblica, che nelle intenzioni avrebbero dovuto riqualificare la nostra forza lavoro e invece hanno solo creato assistenza. In effetti in Italia esiste un’impresa che ce la fa. Certo i suoi dipendenti non sono molto motivati e i loro stipendi sono talvolta da fame. Ma è l’unica organizzazione al mondo che nei prossimi tre anni si potrà permettere di assumere la bellezza di 450 mila nuovi dipendenti. Si tratta della pubblica amministrazione, che secondo le dichiarazioni dei nostri politici potrà assumere come se non ci fosse un domani. Toc toc: ma i miliardi per le banche, per l’Ilva, per l’Alitalia, per il reddito di cittadinanza, per pagare i prossimi trent’anni di lavoro ai nuovi dipendenti pubblici chi li pagherà se tutto ciò che era privato è diventato statale?
Maria Giovanna Maglie contro i giornaloni che non prevedono la Brexit: "Ridicoli e grotteschi". Libero Quotidiano il 14 Dicembre 2019. Una Maria Giovanna Maglie scatenata contro il silenzio dei media sul voto nel Regno Unito che ha portato al trionfo di Boris Johnson e, dunque, a una Brexit molto più vicina. La giornalista in precedenza aveva puntato il dito contro la Rai, che a un voto decisivo non ha dedicato uno straccio di speciale. Poi, nel mirino della Maglie, anche i "giornaloni". L'attacco arriva su Twitter, rispondendo al commento di un utente, Marco Tosatti, il quale faceva notare: "Brexit, c'è un problema. La Stampa, Repubblica, Corriere e le tv come fanno a non capire mai, vedi Trump e Clinton, chi vincerà? Oppure...", conclude lasciando il suo sospetto in sorpreso. A concludere la sua frase ci pensa però la Maglie: "Oppure sono fake news, bufale propalate ad arte, nella ridicola, grottesca speranza di poter influenzare la realtà e mettere le mutande al mondo. Ogni volta perdono, ogni volta ricominciano", conclude furibonda.
Alberto Simoni per “la Stampa” il 14 dicembre 2019. La muraglia rossa si è sgretolata, i bastioni laburisti nel Nord dell'Inghilterra e nelle West Midlands sono saltati come tappi a un matrimonio: Blyth Valley con le sue ciminiere, Workington, in Cumbria, trasformato dal think tank Onward nel prototipo del collegio nel mirino dei conservatori. Qui l' elettorato è bianco, maschio, e working class. E poi Bolsover e Vale of Clywd e ancora tanti altri dove Boris Johnson e la sua armata di candidati fedeli alla Brexit sono stati lesti ad acciuffare il popolo dei dimenticati, quelli che nel 2016 avevano marcato la crocetta su Leave e che tre anni e mezzo dopo si trovano impotenti e arrabbiati nelle pastoie normo-burocratico-politico-legislativo in cui è precipitato un Paese che chiedeva di mollare gli ormeggi e sbarazzarsi della Ue. Al Corner bar, nel cuore di Hanley, una delle sei località che formano Stoke-on-Trent, Carl Smith sorseggia una pinta di birra. Nel passeggino c'è la figlia, nove mesi. Fa il costruttore e chiede di brindare a Boris il condottiero. È raggiante. Racconta di aver votato per la prima volta nel 2016, ovviamente Leave, e di aver dato giovedì la sua preferenza ai conservatori. «Vengo da una famiglia laburista da generazioni, come molte qui, ma tanti hanno fatto come me». E le conseguenze le ha pagate Gareth Snell, deputato Labour, sconfitto e arrabbiato per la linea «vaga del Partito sulla Brexit». Carl è il prototipo del brexiteer del Nord del Paese: bianco, classe operaia, terrorizzato da quella che chiama «l' invasione dei migranti». Un «Workington man» duecento miglia più a Sud. Le sue parole riportano le lancette a tre anni fa, toni e slogan da referendum Brexit. Dice: «Gli immigrati vengono qui, si fanno curare dal nostro sistema sanitario, siamo la manna per loro. Non sono razzista, i miei amici sono indiani, pachistani e nordafricani». «Ora ci riprendiamo i nostri confini, le leggi nostre, non quelle di Bruxelles». Dietro il bancone del bar Emma Turner prepara i caffè: «Ho votato Leave, ma stavolta Labour. Temo per la sanità, per il futuro dei nostri figli». Ma non sembra così delusa dall' esito del voto. Emma è una mosca bianca fra queste strade nel cuore d' Inghilterra. Nei collegi Leave a maggioranza operaia i laburisti hanno perso mediamente l' 11%, in quelli con una forte presenza di classe media il 6%. I conservatori invece nei distretti Leave hanno conquistato oltre 6 punti. In un sistema maggioritario uninominale è sufficiente per spostare la bilancia. Jeanne invece ha una cinquantina d' anni, fedelissima laburista. E anche lei, tre figli, un marito piccolo imprenditore, ha scelto Boris Johnson. «Ci darà finalmente la Brexit e poi si tornerà a fare le scelte per il bene del Paese, seguendo le nostre leggi non quelle dell' Europa», spiega con una certa foga. Il premier intanto da Londra ringrazia e invoca un Paese unito, parla di una One Conservative Nation e in fondo i numeri e la distribuzione dei seggi sembrano dargli ragione. La mappa elettorale è blu, chiazze rosse nelle aree metropolitane, qualche reduce al Nord, solo un seggio sottratto ai Tory, Putney. Johnson vorrebbe trasformare i Tory in qualcosa di nuovo, che tenga insieme le esigenze della working class che l'ha sospinto a Downing Street, alle élite economiche del Sud. Difficile a prima vista associare l' aristocratico deputato gaffeur Jacob Rees-Mogg, i manager della City, e la posh Kensington con Carl, ma Johnson, che ha fatto il sindaco nella liberal Londra, sa mescolare ingredienti diversi. La Brexit da fare è per ora il collante. Poi si vedrà. «Cheers, goodbye Eu», dice Carl.
Luca Bottura per “la Repubblica” il 16 dicembre 2019. Giovanni Lindo Ferretti, ex leader dei Cccp, è diventato ratzingeriano e sostiene Fratelli d' Italia. Passi: al massimo ci ha devastato le orecchie e altre parti del corpo nei lontani Ottanta, quando era obbligatorio ascoltarne la voce sgradevole per poter rimorchiare alle Feste de l'Unità. Fausto Bertinotti, intervistato l' altro giorno da un sito Internet, ha elogiato la correttezza di Giorgia Meloni, le ha previsto un ruolo centrale nella politica italiana - Schopenhauer direbbe: e grazie al karma - e soprattutto ha colto l' occasione per rivendicare la caduta del Governo Prodi, cioè l'implosione di un progetto progressista senza il quale la Meloni sarebbe probabilmente rimasta una politica decente, com' era prima di mettersi a rincorrere toni, temi e comunicazione del Caporale. Il delitto perfetto è che oggi, persino quando spara questi fuochi d' artificio della minchiata, l' ex comunista al Veuve Cliquot è considerato tuttalpiù l' ornamento sulla tomba della Sinistra. Prodi resta il bersaglio trasversale di "moderati" e postcomunisti, colpevole di un doppio delitto che non sappiamo accettare: aver vinto due volte. Ce lo meritiamo, Bertinotti.
Giorgia Meloni scopre la vergogna in manovra: "Soldi per il centenario del Pci, come l'Unità d'Italia". Libero Quotidiano il 18 Dicembre 2019. "Sono allibita". Giorgia Meloni scopre la vergogna nascosta tra le pieghe della manovra approvata in Senato e si indigna. Come sottolinea anche il Tempo, nella classica "pioggia di soldi" distribuita un po' a caso (ma fino a un certo punto) spiccano i fondi destinati ai migranti ("900mila euro destinati all'Inmp, ossia all'Istituto nazionale per la promozione della salute dei migranti") e quelli per celebrare il centenario della fondazione del Partito comunista, che cade nel 1921. "Il governo più a sinistra della storia - accusa la leader di Fratelli d'Italia - sancisce che il centenario del Pci è anniversario di interesse nazionale alla stregua di quello della Grande Guerra o dei 150 anni dell'Unità d'Italia". Una fiera di contentini e prebende diventata ormai tradizionale, così come certi regalini, rigorosamente a sinistra e ovviamente a carico degli italiani di ogni colore politico.
L'ultima follia dei giallorossi: "Centenario del Pci anniversario nazionale". Giorgia Meloni smaschera M5S e Pd: "La nascita del Partito comunista italiano come l'Unità d'Italia, ecco le priorità di questo governo". Luca Sablone, Lunedì 16/12/2019, su Il Giornale. Non c'è nulla da fare: il governo giallorosso continua a strizzare l'occhio al Pci. Dopo la proposta di stanziare 400mila euro per la festa del centenario, Movimento 5 Stelle e Partito democratico provano nuovamente a tendere la mano ai "compagni": è stata da poco scoperta la volontà di farlo "diventare anche anniversario nazionale". A denunciare il fatto è Giorgia Meloni, che sui propri canali social ha smascherato i piani dell'esecutivo: "La nascita del Partito comunista come l'Unità d'Italia! Ecco le priorità di questo governo". Nell'immagine pubblicata inoltre si legge: "Incredibile! Per il governo M5S/Pd il centenario del Partito comunista diventa anniversario nazionale".
"Promuovere iniziative culturali". Il tutto è testimoniato dal testo della proposta: "In occasione del centenario della fondazione del partito comunista italiano, con decreto del presidente del Consiglio dei ministri, alla Struttura di ammissione per gli anniversari nazionali e gli eventi sportivi di rilevanza nazionale e internazionale" si prevede l'assegnazione per gli anni 2020 e 2021 "nei limiti delle risorse disponibili a legislazione vigente, a valere sui pertinenti capitoli di bilancio della Presidenza del Consiglio dei ministri e senza nuovi o maggiori oneri a carico dello Stato, risorse finalizzate alla promozione di iniziative culturali e celebrative connesse a tale ricorrenza". Pochi giorni fa l'emendamento aveva già scatenato diverse polemiche. "Dicono che non ci sono soldi, e allora tassano la plastica, lo zucchero, le cartine per le sigarette, tuttavia spunta un emendamento che riesce a stanziare 400mila euro per festeggiare il centenario della nascita del Partito comunista italiano. Fatelo coi vostri soldi l’anniversario, non con i soldi degli italiani", ha tuonato Matteo Salvini. Dura è stata la presa di posizione anche da parte del leghista Calderoli: "Questi vivono non nel secolo scorso ma addirittura nel millennio scorso!". E non aveva utilizzato giri di parole per rivolgersi agli avversari politici: "Sveglia, il comunismo è finito da un pezzo ed è finito perché lo ha cancellato la storia, e non tornerà mai più!". Intanto però c'è da fare i conti con una dura realtà: "Quei poveri fessi degli italiani pagano 400mila euro per festeggiare il defunto Pci...".
Il Governo Conte regala soldi per il Partito Comunista. Nella manovra economica un emendamento concede 400 mila euro per i festeggiamenti dell'anniversario di fondazione del Pci. Maurizio Belpietro il 10 dicembre 2019 su Panorama. Mentre il governo litiga sulle tasse e ogni giorno escogita nuovi marchingegni per stangare gli italiani (una volta si parla di sugar tax, un'altra di plastic tax, un'altra ancora di Imu sulle case dei separati oppure di un'imposta sulle auto aziendali), zitti zitti i compagni sono riusciti a infilare nella manovra una clausola che regala soldi al comitato per le celebrazioni del centenario del Pci. Invece di seppellire nella memoria degli italiani la nascita di un partito che perfino nel nome si richiama al comunismo, cioè a una tendenza politica che anche il Parlamento europeo ha scelto di dichiarare fuorilegge, accostandola al fascismo e alle tragedie della storia, alcuni parlamentari hanno deciso di festeggiare il genetliaco. Ovviamente non a spese loro, facendo una colletta fra compagni, ma a spese degli italiani i quali, a prescindere dal proprio credo politico, con le loro imposte saranno costretti a finanziare le iniziative del compleanno comunista. Mostre, dibattiti e opuscoli celebrativi saranno infatti pagati per un biennio dalle casse pubbliche. Sì, perché l'emendamento che favorisce le manifestazioni in ricordo del Pci è stato presentato alla Camera da un gruppetto di nostalgici e con il beneplacito dell'esecutivo verrà approvato. Duecentomila euro saranno levati ad altri capitoli di spesa sia nel 2020 che nel 2021, anno della fondazione a Livorno del partito. In totale fanno 400.000 euro, che probabilmente non basterebbero a risollevare le sorti dell'economia nazionale, ma certo aiuterebbero.
La cosa incredibile è che quando si parla di conti pubblici, nelle pieghe del bilancio non si riescono a trovare i soldi per i terremotati, per gli esodati e pure per gli sfollati per qualche calamità naturale. A chi ha avuto la casa e i negozi sommersi dall'acqua alta a Venezia sono stati offerti gli spiccioli e in soccorso delle famiglie travolte dall'ennesimo nubifragio in Liguria sono andate le briciole. Ma per il Pci i soldi si trovano, sia mai che l'anniversario passi senza i dovuti fasti.
Il Pci, la Iotti: ma quanti soldi dobbiamo spendere dimenticando le atrocità del comunismo…Francesco Storace mercoledì 11 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Un obolo annuale alla memoria del comunismo. Una volta tocca al Pci essere celebrato di tasca nostra, la volta precedente – ma si paga di qui a poco – tocca a Nilde Iotti. Nell’Italia governata dagli europeisti che poche settimane fa hanno condannato per la prima volta a Strasburgo le atrocità del comunismo, continuiamo a finanziare la memoria rossa. E oggi a Roma cominciano le “celebrazioni” della Gran Dama di Togliatti. Tra ventennale della morte e centenario della nascita, Conte uno e Conte secondo hanno messo mano al portafoglio (nostro): quest’anno e il prossimo quattrocentomila per la fondazione del Pci a Livorno, l’anno scorso per il 2019 e il 2020 duecentomila per il ricordo della signora. Seicentomila euro degli italiani.
Primo mistero, per la Iotti, non si sa chi se ne occupa. E infatti la presidente della fondazione a lei intitolata, la compagna Livia Turco, smadonna perchè il bando per spendere quei quattrini non è stato ancora pubblicato dalla presidenza del Consiglio. La fondazione Iotti ha presentato il progetto un anno fa e capofila, manco a dirlo, è l’istituto Gramsci. Ma i soldi arriveranno e chissà a chi. Alla fondazione Iotti? Bisogna chiarirlo, perché in sede parlamentare – cronaca dello scorso anno che noi non abbiamo dimenticato – furono i tecnici delle Camere a scrivere letteralmente che nella legge “non è indicato il soggetto preposto all’organizzazione delle celebrazioni“. Comunque la Turco e la signora Marisa Malagola Togliatti – figlia della coppia Togliatti-Iotti e presidente onoraria della fondazione – sono pronte con i loro progetti. Ma hanno davvero bisogno di soldi? A leggere il bilancio della fondazione – che , va riconosciuto, ci è stato mostrato con trasparenza – nel 2018 hanno speso una cifra relativa, sessantamila e rotti euro. La maggior parte dei quali – 46mila euro, dodicimila in più rispetto all’anno precedente – per volumi e soprattutto viaggi per relatori e relatrici. Che sono piuttosto numerosi. La sola Turco ha girato praticamente l’Italia e non solo nel 2018. E non essendoci più viaggi comodi per gli ex parlamentari, magari sarà stata (forse o in parte) rimborsata. Cesena, Bruxelles, Udine, Teggiano (Sa), Milano, Massa, Trapani, Viterbo, Reggio Emilia, Lecco, Arezzo, Ferrara, Nichelino (To), Avezzano, Avellino, Mestre, Balvano (Pt), Perugia, Terni e Porto Viro (Ro). E ovviamente tanti convegni a Roma. La fondazione Iotti ha un sito e una pagina Facebook con tanto di collaboratore informatico, scrivono nel bilancio. Manca qualche elemento della biografia della Iotti – ad esempio quell’iscrizione al Pnf del 5 ottobre 1942 – ma tutto sommato lo si capisce. Così come non siamo riusciti a trovare una sola parola sulle atrocità del comunismo. Quel che non si comprende è perché una fondazione che riceve diversi contributi privati debba incassarne, se avverrà realmente, anche dallo Stato. La personalità a cui è intitolata trascorse ben 50 anni da deputato, tredici dei quali addirittura da presidente. Oggi direbbero molto Casta. Nessuno si azzarda. Però rende. La fondazione spende – scrivono e non abbiamo motivo di dubitare – 65mila euro nel 2008, i ricavi ammontano a quasi 93000. Da applausi. E come hanno fatto? Raccontano di una cena all’Excelsior di Roma del 21 novembre 2018 di cui non siamo riusciti a trovare né un articolo né una sola fotografia. In quel periodo forse avrà lavorato poco anche il collaboratore informatico, perché dei 45mila euro versati per la fondazione in quella serata romana non c’è traccia né sul sito né su Facebook. Nè l’annuncio dell’evento, né il resoconto. Abbastanza curioso, vero?
Ma quanti viaggi dovete fare? E perché dobbiamo versare altri quattrini se ci sono così tanti anonimi compagni pronti a scucirne? Misteri della storia, potremmo dire. Se ci sono stati così tanti viaggi senza fondi pubblici, nel 2020 vedremo la Turco spuntare in ogni luogo. Per ricordare una vita di sacrifici in Parlamento… Stasera a Roma, la ricorderà persino la Boldrini. No, soldi pubblici non accettatene, per favore, perché sono anche nostri.
Vittorio Feltri, Occhetto e i comunisti italiani: "La balla sul muro, Mosca e Berlinguer". Libero Quotidiano il 13 Novembre 2019. Lunedì mattina ho partecipato al programma de La7 condotto dall' ottima Myrta Merlino e tra gli ospiti c' era Achille Occhetto, il quale sul finire degli anni Ottanta fu segretario, l' ultimo, del Partito comunista italiano, il più forte dell' Occidente. Nel 1989 cadde, come è noto, il muro di Berlino cosicché costui, davanti al devastante episodio, pensò giustamente di abiurare, cambiando nome al partito stesso, dato che, alla luce dell' evento tedesco, risultava superato dalla realtà. Egli non poteva fare diversamente. Tuttavia, rimane il fatto che quel muro non fu abbattuto dai marxisti bensì dagli anticomunisti che non ne potevano più del regime liberticida di stampo sovietico. I compagni nostrani non ebbero alcun merito nella abolizione del famigerato blocco, mai fecero una manifestazione contro di esso, che avevano accettato come un dogma rosso. Alla trasmissione ero presente anche io e mi sono limitato a dire che Occhetto, preso atto della demolizione del manufatto che divideva la Germania in due tronconi, non poteva che rinnegare la propria fede collettivistica fondando una nuova formazione politica, a cui però avrebbero aderito parecchi condiscepoli. Durante la discussione, il vecchio leader ha specificato che comunque Enrico Berlinguer aveva già preso le distanze da Mosca, pertanto il comunismo italiano non era più da tempo filosovietico. Balle. Berlinguer non fu mai eretico del tutto, aveva programmato l' eurocomunismo senza spiegare in che cosa potesse consistere. Inoltre non smise di ricevere finanziamenti dall' URSS, segno che una vera rottura tra i due comunismi non vi fu mai. Un ricordo. Quando Breznev morì, tutti i politici italiani di rilievo, incluso il presidente della Repubblica Sandro Pertini, parteciparono ai funerali per rendere omaggio al dittatore, capitanati dal PCI. L' episodio avrà o no un senso preciso? Torniamo al muro di Berlino. Fu frantumato dagli anticomunisti tognini dell'Est e non dai comunisti nostrani che oggi, mentendo, se ne attribuiscono il merito. La trasformazione del PCI in PDS fu una operazione realizzata a tavolino per salvare il salvabile e peraltro riuscì, benché avesse provocato una scissione: nella circostanza nacque Rifondazione comunista, a dimostrazione che non tutti i compagni condividevano l' uccisione del bolscevismo. Il ripudio del quale non è mai avvenuto completamente, tanto è vero che ancora oggi resiste nella testa di gran parte dei connazionali la mentalità legata al massimalismo leninista, il quale impone la convinzione che i padroni siano sfruttatori della manodopera e impoveriscano la classe operaia. Sciocchezze immortali. Occhetto va capito, non giustificato. Non tutti i rossi erano canaglie, e lui era una brava persona ma pur sempre comunista e quindi fuori dalla storia. Oggi le cose non sono migliorate molto, ma almeno sappiamo che la Rivoluzione russa fu uno scempio che produsse più vittime del nazismo. Vittorio Feltri
Da gaynews.it il 15 Novembre 2019. Un Auditorium Biagi stracolmo ieri a Bologna in occasione del 30° anniversario della cosiddetta svolta della Bolognina, con cui Achille Occhetto decretò la fine della storia pluridecennale del Partito Comunista Italiano. E all’incontro 1989. Cade il muro, cambia il mondo, organizzato da Fondazione Duemila e associazione Berlinguer, c’era proprio l’ultimo segretario del Pci che ha presentato il suo libro Il crollo del muro e la svolta della Bolognina. Nella platea tanti ex compagni celebri come Claudio Petruccioli, Ugo Sposetti, Fabio Mussi mentre tra i relatori l’ex premier Romano Prodi e il deputato del Pd Piero Fassino, all’epoca coordinatore della Segreteria nazionale del Pci e successivamente, fra l’altro, ministro della Giustizia. «Oggi siamo in uno scenario del tutto diverso – ha puntualizzato il parlamentare piemontese – ma che richiede alle forze progressiste e alla sinistra una capacità di innovazione forte». Fassino non è mancato di intervenire anche sul tema dei diritti civili replicando a Prodi. L’ex presidente del Consiglio, contrapponendoli ai diritti sociali, aveva infatti sostenuto che il fallimento della socialdemocrazia sarebbe da addebitarsi al fatto che molti degli ex elettori percepiscono che essa ha difeso le persone omosessuali e non gli operai. Fassino ha fatto garbatamente notare l’infondatezza di tale assunto, mettendo fra l’altro in luce come non ci sia alcuna contrapposizione tra diritti sociali e civili, perché – secondo un pensiero caro a Franco Grillini, che era seduto in prima fila – non si possono dare gli uni senza gli altri. Ma per un tweet lanciato ieri è montata oggi una polemica all’incontrario che ha attribuito a Fassino quanto detto da Prodi. Interpellato da Gaynews, l’ex guardasigilli ha preferito non commentare quanto avvenuto sui social dichiarando: «Il riconoscimento del diritto di ogni persona a vivere il proprio orientamento sessuale liberamente e senza discriminazioni è un’acquisizione di civiltà, da cui in nessun modo si deve recedere. Diritti civili e diritti sociali sono inscindibili dimensioni di una società che voglia essere libera, giusta e equa».
Dagospia il 19 novembre 2019. Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” -ESTRATTO …….Ma il vero problema è quello segnalato da Prodi: le sinistre perdono ovunque perché la gente s'è convinta che tutelino più i gay che gli operai. Molti gli han dato dell'omofobo, ma voleva dire una cosa di buonsenso: le minoranze sono le più bisognose di tutele, ma in democrazia si vince con le maggioranze, altrimenti si perde e non si tutela nessuno. Sta alla politica decidere i momenti giusti, dopo aver persuaso le une e le altre. È assurdo, come fa Di Maio, dire no allo Ius soli perché l'Italia è sott' acqua. Ma lo è pure negare che oggi le priorità sono una legge di Bilancio con meno tasse possibile (Conte e Gualtieri ci stanno lavorando), una toppa all' Ilva, all' Alitalia e al Mose, qualche vittoria alle Regionali. L' ha detto pure Bonaccini, altro uomo concreto, che con la gente deve parlarci per forza. Discettare ora di Ius soli senza poterlo fare (il Parlamento è occupato fino a Capodanno con la Finanziaria) è solo un assist al Cazzaro Verde per lanciare un referendum abrogativo, arraffare altri voti, vincere le Regionali, rovesciare il governo e andarci lui con pieni poteri. Così chi voleva aumentare i diritti ai migranti li condannerà a perderne qualcun altro. Ma chi li scrive i testi al Pd?
Renato Farina per “Libero quotidiano” il 17 novembre 2019. Invece di dire le ovvietà propagandistiche che il Partito democratico si aspettava, Romano Prodi ha spiegato il perché dei fiaschi antichi, recenti e futuri della sinistra. «Perde perché invece degli operai si occupa degli omosessuali». Avete in mente Bologna? Vicino a piazza Maggiore c' è el igànt, il Nettuno, dio del mare, la cui statua, alta tre metri e venti centimetri, impressionava con la sua enorme nudità le signore di una volta. Ecco, Prodi è emerso come Nettuno dalle acque dell' oblio, in cui vengono immersi come nella formalina i padri fondatori buoni solo per le processioni da vecchie glorie, e ha osato dire la verità chiara come il sole. Altro che sardine, il popolo delle sardine: questo partito rappresenta il popolo di ostriche e astici, i filmati trasmessi nei loro congressi non conoscono i povericristi italici, ma le povere foreste amazzoniche, le balene che mangiano la plastica, l' eroica lotta contro il diesel. Immigrati e gay, diritti individuali di tutti, battaglie anche meritorie, per i pinguini in Antartide. Prodi dicendo gay, non ce l' aveva con loro, ovvio, ma contro un totalitarismo politico che adotta come linee fondanti i temi cari alla crème che va da New York ai piani alti di Bologna, Milano, Roma, Parigi. Prodi aveva appena detto queste parole, e immediatamente i sacerdoti rossi del politicamente corretto gli hanno infilato i braghettoni, al Nettuno redivivo. Lo hanno avvolto di teli, accappatoi, e lo hanno portato via come un salame. Figurati se daranno retta al Mortadella, bravo a vincere perché democristiano, e destinato a essere buttato giù dopo un paio d' anni da compagni e magistrati tutte le volte a metà strada per lo stesso motivo. Prodi aveva espresso questi concetti tre giorni fa, alle rievocazioni per il trentennale della mutazione del nome Pci proprio nella medesima Bologna, per volontà di Achille Occhetto. Il potente apparato mediatico del Pd, come Stalin che cancellava Trotzki dalle fotografie, ha amputato le parole abrasive (omofobia? Intervento Ordine dei giornalisti?) e ha provveduto a diffondere solo frasi innocue. Infatti il titolo del Corriere della Sera, edizione di Bologna, è stato: «Prodi è sicuro: vince il centrosinistra». Urca che ghiottoneria giornalistica. Però in sala c'erano dei gay, e hanno cominciato a lamentarsi sui loro siti. Tirandogli moccoli infernali. Dagospia se n'è accorto. E la cosa è giunta così alle orecchie fini della santa Monica Cirinnà, gran visir di tutti i gay, lesbiche, bisex, trans (Lgbt), i quale e le quali meritavano senz' altro di meglio, ma i gusti sono gusti. La senatrice del Partito democratico, già firmataria e relatrice della legge sulle unioni omosessuali, appena ha saputo del colpo basso di Romano Prodi si è inalberata, in rima con i suoi capelli da Gorgone, e in un' assemblea Lgbt a Ferrara ha lanciato i prossimi obiettivi della categoria. Non solo matrimoni, ma parificazione assoluta di ogni specie di famiglia: dunque adozioni, utero in affitto, e soprattutto un altro saltello più in su. Non solo quote rosa, ma anche quote gay da inserire nelle liste dei partiti, nei consigli di amministrazione, negli incarichi di governo. Insomma: un terzo maschi che amano le donne, un terzo femmine che preferiscono gli uomini, un terzo Lgbt che amano chi gli pare. A occhio e croce direi che, almeno per quanto riguarda ministri e ministre, nonché sottosegretari e sottosegretarie, portavoce e simili, la quota gay è già fin troppo a posto. Ed anzi, se si adottasse una rigida aritmetica, si libererebbero poltrone e seggioloni. Ecco in modo più dotto quanto attribuito a Prodi: «Il fallimento della socialdemocrazia sarebbe da addebitarsi al fatto che molti degli ex elettori percepiscono che essa ha difeso le persone omosessuali e non gli operai». Insomma: la famosa percezione. Il fatto è che, come insegnano i vecchi manuali sovietici, il fiuto di classe è infallibile. Gli operai, o ex operai, il ceto medio, o ex ceto medio, ha la percezione nettissima che questa gente che è oggi al governo in un impasto giallo-rosso, non rappresenta affatto la loro voce, non dà corpo ai loro interessi e bisogni. Il vecchio Partito comunista aveva un' ideologia infame, sognava il Gulag travestendolo da Paradiso per gli operai. Svelata la bugia, non è che puoi offrire in alternativa alle masse popolari l' Eden dei busoni, parlandone con ovvia simpatia. Non puoi chieder loro di riconvertirsi al gay pride, alla tutela delle radure del Paraguay, all' accoglienza di chi è destinato a bighellonare in attesa di dar man forte a chi spaccia droga ai tuoi figli sotto casa. Come dimostrano le analisi sociologiche e quelle dei flussi elettorali, operai e pensionati non sanno che farsene di ideali fighetti, di sofisticati diritti per gente che si qualifica con sigle astruse. Ormai neppure più basta Lgbt, ma siamo a Lgbtq, Lgbtqia e Lgbtqiapk. Un riferimento politico e culturale del genere, o dei generi, mette in fuga chiunque abbia il problema di difendere i pochi risparmi e il destino dei figli. E dunque i vecchi e i nuovi plebei votano tutt' altro, magari proprio Salvini. Il Pd resta appannaggio del bacino elettorale dei borghesi dei Parioli o del centro di Milano. Salvo, naturalmente, appropriarsi del suo vecchio lessico anni '60 e '70 ogniqualvolta ci sia da gridare a un imprecisato fascismo per pura invidia del crescente successo di movimenti politici davvero popolari, altro che populisti. Prodi l' ha capito. Bravo. La sinistra, oggi, preferisce dedicarsi a battaglie a favore di cosiddette minoranze oppresse che, in realtà, hanno la simpatia di quasi tutti i mezzi di comunicazione. Il Pd si schiera dalla parte delle élite. Perderà anche in Emilia Romagna.
Boschi ora attacca il Pd: "È il partito delle tasse". I dem: "Scivolata infelice". Il partito "delle tasse e delle tessere": dalla Leopolda parte il cannoneggiamento contro il Partito democratico. Luisa De Montis, Sabato 19/10/2019, su Il Giornale. Il partito "delle tasse e delle tessere": dalla Leopolda parte il cannoneggiamento contro il Partito democratico, la casa madre che Matteo Renzi ha ripudiato e che oggi è dipinta come il partito dei vizi da Prima Repubblica. Ma dal Pd la risposta è secca, dura e materializza lo spettro del voto: se Renzi e il suo partito deve "distruggere per esistere, il viaggio del Titanic è appena cominciato". Ad aprire il fuoco, politicamente parlando, è l'ex premier dal palco, infilando in mezzo al programma dei lavori ella seconda giornata di lavori, quella dedicata alla presentazione del simbolo e all'apertura delle iscrizioni, un affondo: "Le iscrizioni a Italia Viva saranno solo online, mai più signori delle tessere, ciao ciao correnti". Il Partito democratico non è citato, naturalmente, ma è a chiaro a tutti che il messaggio è diretto ai dem e la platea si scalda, contagiata dal fervore iconoclasta del fondatore. "Italia Viva sarà il primo partito de-correntizzato", tuona Renzi con un riferimento che sembra diretto a chi, prima della scissione, parlava della necessità di un Pd "de-renzizzato". Ma l'attacco più duro arriva dalla capogruppo di Italia Viva alla Camera, Maria Elena Boschi, di casa alla Leopolda come e forse più di Matteo Renzi. "Il Partito democratico sta diventando sempre di più il partito delle tasse. Noi non lo siamo", dice. Il riferimento è al braccio di ferro avviato dai renziani su Quota 100 e, da oggi, anche su altri punti della manovra come la sugar tax sulla quale Renzi e compagni annunciano emendamenti in Parlamento. Un braccio di ferro che coinvolge direttamente il premier Giuseppe Conte, impegnato su due diversi tavoli: quello di Quota 100 contro Renzi e quello del regime forfettario sulle partite Iva, in cui Conte se la vede direttamente con Luigi Di Maio. "Maria Elena Boschi dice che il Pd è il partito delle tasse? È una caratteristica di Maria Elena Boschi e mi dispiace. Le consiglio di essere alternativa alla piazza di oggi a San Giovanni, che io rispetto e che inevitabilmente porrà dei temi. Vorrei che Maria Elena Boschi e tutti i colleghi che sono nel governo fossero alternativi a Salvini e a CasaPound: se iniziamo a darci le patenti su chi è il partito di cosa non andiamo da nessuna parte. Mi auguro che quella della Boschi sia stata solo una scivolata infelice", ha tuonato il ministro degli Affari regionali e le Autonomie Francesco Boccia a Rainews24. Il vicesegretario del Partito Democratico Andrea Orlando a “L’Intervista” di Maria Latella su Sky TG24 ha invece dichiarato: "A proposito degli attacchi di Matteo Renzi e Luigi Di Maio alla manovra questo atteggiamento rischia di non raccontare una manovra che è tutt’altro che scontata. Poteva essere una stangata per gli italiani, mentre è stato neutralizzato l’aumento dell’Iva e ci sono diverse misure di carattere sociale. Misure che vengono coperte da polemiche di cui non si comprende la ragione. Dobbiamo dire con molta franchezza ai nostri alleati che ci devono dire se è cambiato l’avviso, se in qualche modo rispetto a quaranta giorni fa si ritiene che non ci siano più le ragioni per tentare questa scommessa. Noi pensiamo che ci siano, ci fidiamo di Conte e della nostra delegazione al Governo come degli altri ministri. Se qualche elemento di fiducia è venuto meno è meglio che lo si dica”.
Leopolda, Renzi: da qui nessun ultimatum al governo. L'attacco di Bellanova: «Nel Pd c'erano le bande armate». Pubblicato domenica, 20 ottobre 2019 da Corriere.it. Nell'ultimo giorno di Leopolda — la kermesse con cui Matteo Renzi ha lanciato il progetto di Italia viva — il senatore ed ex premier tiene il suo discorso conclusivo e prova a sminare le tensioni con Palazzo Chigi: «Chi è stato qui in questi tre giorni ha visto che questo è un luogo dove sono fiorite delle idee. Dire qualcosa di positivo, proporre idee è fare politica non fare ultimatum. Se propongo di non tartassare le partite Iva non faccio un ultimatum. Noi abbiamo fatto il regime forfettario per le partite Iva, non siamo noi contromano. Non è arrivato nemmeno un ultimatum al governo da questo salone». Renzi però qualcosa da ridire ce l'ha, e insiste: « Agli amici della politica romana dico: proporre delle idee non è lanciare un ultimatum, è fare politica. Non ultimatum, ma primato della politica. Noi diciamo: ma che vi ha fatto di male il ceto medio per essere tartassato da tasse inutili?». L'insistenza è anche su Quota 100 — la misura simbolo di Matteo Salvini e uno dei provvedimenti bandiera del precedente governo che Conte ha confermato nella legge di Bilancio —: «Quota 100 è uno spot che costa 20 miliardi, uno spot di Salvini per dire che lui ha risolto il problema dei pensionati». Per Renzi è doveroso rivendicare quanto fatto per la nascita del governo Conte II: «Di fronte al tentativo di Salvini col diktat del Papeete di andare a votare alle sue condizioni, per mettere le mani sulle nomine e sulla presidenza della Repubblica, assieme alla voglia di qualcun altro di spruzzare qualcosina di novità nelle liste elettorali, con il costume di Salvini che avrebbe costituito la pagina più positiva della campagna elettorale ... Di fronte a questo diktat l'alternativa era solo fare politica — assicura il senatore —. Chi dice che bisognava andare a votare per coerenza, chiama coerenza quello che noi chiamiamo masochismo. Sì, ho cambiato idea e l'ho fatto in nome dell'Italia». All'avversario leghista, alla fine, Renzi manda a dire: «Goditi il Papeete, che a governare pensiamo noi». L'ex segretario del Pd ha parlato anche dei migranti: «L'immigrazione è un problema, chi dice il contrario mente. Il problema c'è e in prospettiva ci sarà sempre di più, Salvini non ha cambiato nulla se non l'umore degli italiani creando un clima di odio. Se vogliamo essere seri dobbiamo affrontare il problema». Prima del discorso conclusivo di Renzi, nella mattinata di interventi, non sono mancati gli attacchi al Pd. «Chi viene dalla mia storia sa che le divisioni non le ho mai fatte, ma in questo caso non si poteva fare diversamente. Perché c'erano le bande armate. Siamo stanchi di litigi inutili», ha detto dal palco la ministra delle Politiche agricole Teresa Bellanova, che è anche la capodelegazione del partito renziano al governo. Per la ministra «Italia viva non è solo la casa di quelli che ne hanno lasciato un'altra ma di chi una casa ancora non l'ha trovata. Quel progetto politico che doveva mettere insieme due forze riformiste non si è mai realizzato» e lo dimostra il fatto che «i patrimoni di quei partiti sono stati sempre tenuti separati».
Teresa Bellanova "più pericolosa dei brigatisti". Travaglio, tasse e manette: "Perché deve dimettersi subito". Libero Quotidiano il 20 Ottobre 2019. Teresa Bellanova "più pericolosa dei brigatisti". Per questo, secondo Marco Travaglio, la ministra veneziana dell'Agricoltura "deve dimettersi seduta stante". L'editoriale del direttore del Fatto quotidiano tocca nuove, forse ineguagliabili vette manettare. La colpa della Bellanova, ex Pd oggi capodelegazione di Italia Viva nel governo, è quella di aver coniato alla Leopolda uno slogan ingenuotto e arruffone fin che si vuole ("Siamo il partito del No Tasse") ma in apparenza innocuo. Non per Travaglio, che lo giudica addirittura anti-costituzionale, rispolvera la massima dell'ex ministro prodiano all'Economia Padoa Schioppa ("Le tasse sono una cosa bellissima"), ricorda alla Bellanova che è con le tasse che le paghiamo "l'auto blu e la scuola per il figlio) e ripete il refrain abusato dei condoni. Per poi finire in gloria: "I No Tasse, se stanno al governo, sono più pericolosi dei brigatisti" e la ministra renziana deve lasciare "non per come veste o quanto pesa, ma per quello che pensa e quello che dice". Reato di opinione fiscale.
Dagospia. ''PER CAPIRE GLI OPERAI CHE VOTANO LEGA, VI RACCONTO LA STORIA DI MIO PADRE''. IL POLITOLOGO MARCO REVELLI SCRIVE UN LIBRO-INTERVISTA CON LUCA TELESE, ''TURBO-POPULISMO". QUI UN ESTRATTO: ''DOPO LA GUERRA È SPARITA LA CIVILTÀ CONTADINA, CHE STA ALLA RADICE DI TUTTI NOI, E IL SUO PRIMO CARNEFICE È STATO IL BOOM, L’INDUSTRIALIZZAZIONE FORZATA E LA CIVILTÀ DEI CONSUMI. QUANDO NOI IN PIANURA FESTEGGIAVAMO IL MIRACOLO ECONOMICO QUEI PAESI FERITI DALLA GUERRA SI SPOPOLAVANO. È STATA LA TERZA APOCALISSE CULTURALE DEL XX SECOLO''
Da tpi.it il 26 novembre 2019. Oggi, giovedì 21 novembre, esce in libreria e in edicola il libro “Turbopopulismo, la rivolta dei margini e le nuove sfide democratiche”, Solferino editore: un dialogo tra Luca Telese e il politologo Marco Revelli sul populismo e le sue origini. Eccone un’anticipazione.
Marco, da anni studi il populismo, scrivi saggi su questo fenomeno, in modo totale, e quindi ossessivo. Come nasce questa passione?
«Il primo popolo che ho incontrato nella mia vita me l’ha fatto conoscere mio padre. In forma di racconto. Era un popolo piemontese contadino, un popolo in via di estinzione, pieno di dignità e di storia».
E poi?
«Il secondo era un popolo industriale e me lo sono andato a cercare io, quasi senza saperlo, quando mi sono iscritto all’università e mi sono trovato nella Torino operaia dei tardi anni Sessanta dominata dalla monocultura Fiat. Era un popolo moderno e sicuro di fare la storia, ma incredibilmente prossimo alla fine. Era anche quello un popolo in via di estinzione malgrado ciò che potevamo immaginare noi, presi dalle nostre certezze ideologiche, nel pieno degli anni caldi del secondo Novecento. Abbiamo discusso e forse addirittura ballato, negli ultimi cinque anni, intorno al fantasma del populismo. Tu con i tuoi libri, io con i miei programmi e con il mio lavoro di cronista, a volte incrociandoci lungo i percorsi del racconto, e sempre accompagnando questo viaggio con dialoghi, interviste, riflessioni, scambio di mail. Abbiamo avuto l’impressione di trovarci, in Italia, ma anche nelle nostre rispettive posizioni, nei luoghi privilegiati per capire questo fenomeno, decrittarlo, poterlo addirittura spiegare. Ma, come hai detto, non si può cominciare dal populismo, bisogna cominciare dal popolo. E, inevitabilmente, da te. Presentati, descriviti. Mi chiamo Marco Revelli. Sono nato nel 1947, il 3 dicembre, a Cuneo. Sono figlio di Nuto Revelli, che quando io ero piccolo non era lo scrittore consacrato oggi conosciuto, ma un ex partigiano che per campare faceva il camionista».
Dove vivevate?
«A Cuneo, ovviamente. Allora abitavamo in una tipica casa da dopoguerra: senza riscaldamento, senza ascensore, senza gli elettrodomestici e i comfort del tempo dei consumi. Mia madre portava su la carbonella dalla cantina con il secchio per riscaldare i locali e cucinare. Mio padre era tornato a piedi dalla Russia».
In senso metaforico?
«In senso letterale. Dalla campagna di Russia, da quella tragedia immane che ti racconterò attraverso i suoi ricordi, era uscito con due promozioni per merito di guerra. E con due medaglie d’argento appuntate sul petto. Tuttavia il trauma di quello che aveva vissuto lo aveva portato ad abbandonare la divisa. Era un figlio del suo tempo, figlio della generazione del Ventennio, programmata biologicamente e ideologicamente per andare a fare la guerra (in qualche modo per destino)».
Racconta.
«Mio padre aveva fatto l’Accademia militare a Modena, “allievo scelto”, primo del suo corso, nel gergo della truppa – come si diceva allora – in tutto e per tutto “un najone”. Ma tornato dall’esperienza drammatica dell’Armir, alla fine della guerra, qualcosa dentro di lui si era rotto, in modo irreversibile. Nel 1945 era il più giovane ufficiale superiore italiano (a 25 anni aveva il grado di maggiore), ma non ne poteva più dell’esercito».
Cosa intendi quando dici: era “programmato per fare la guerra”?
«Faceva parte a tutti gli effetti di quella “generazione del Littorio” che si era interamente formata nel Ventennio, all’ombra del regime, e che avrebbe avuto la biografia spezzata in due da quel “quinquennio di ferro” che va dal 1940 al 1945. Una generazione per la quale, cioè, la guerra era stata un destino segnato fin dall’infanzia, fin da quando si diventava “Balilla”.
Spiega cosa significava per chi oggi non lo sa.
«Le mobilitazioni, le divise e le parate, i discorsi di Mussolini, la propaganda ovunque, i “Campi Dux”, l’ottundimento e lo stordimento: direi che non avevano conosciuto altro che la retorica del fascismo e della guerra costretti com’erano a portare come fossero muli dei paraocchi grandi così…»
Era questa la sua percezione di lui?
«Ti racconto un aneddoto: quando l’Università di Torino molti anni più tardi gli conferì una laurea honoris causa in Scienze della formazione, lavorò per giorni a un discorso a cui diede un titolo secco, alla latina, quasi sentenziale: “Dell’ignoranza”. Parlava della propria ignoranza, e di quella degli altri come lui, della sua generazione».
Un giudizio di condanna senza appello.
«Sì, senza appello. Solo che non faceva questa riflessione dall’esterno, non si costituiva parte giudicante come un osservatore libero da colpe: parlava prima di tutto di se stesso, della propria, troppo a lungo condivisa, ignoranza. E della sua crisi di coscienza. Per questo non voleva che noi, i figli, rischiassimo di ripetere (e subire) la stessa esperienza dei padri».
Nuto Revelli era stato un giovane fascista, prima di diventare partigiano.
«Sì, fascista come quasi tutti i suoi coetanei. Raccontava di come era cresciuto nella zona grigia della dittatura, seguendo la corrente, senza mai avere la forza, o forse meglio la consapevolezza per distaccarsi da quei valori fasulli. La prima cosa che raccontava era il peso delle famiglie. I genitori della media borghesia italiana che avevano assecondato la fascistizzazione dei loro figli per paura di farne dei “diversi”, degli “emarginati”».
E poi c’era l’ambiente.
«Il regime aveva costruito una cultura avvolgente che aveva il suo punto di forza sociale nella difficoltà anche solo di immaginare di poterne stare “fuori”. Per quelli come lui, che, cresciuti in questo clima, non avevano conosciuto la politica, il mondo fuori non esisteva. L’unico mondo possibile era quello, che a un ragazzo offriva seduzioni potenti, a cominciare dallo sport, nel quale mio padre eccelleva (ha conservato a lungo, fino agli anni in cui io frequentavo il liceo, il record regionale di lancio del disco). Si era poi formato in grigioverde, sostituendo (o sovrapponendo) alla formazione fascista i va lori militari. E forse, per paradosso, era stato proprio questo anticorpo (inoculatogli all’Accademia) che lo aveva salvato e risvegliato. Appena giunto al battaglione si era presentato volontario per partire subito per il fronte russo, anche a costo di passare dalla divisione Cuneense, che sarebbe partita un po’ più tardi e che sarebbe rimasta quasi del tutto falcidiata, alla Tridentina di cui una parte almeno riuscì a sfuggire all’accerchiamento dei russi».
Perché?
«Perché – accipicchia – lui voleva farla davvero la guerra. Voleva dare il suo contributo. Non sopportava l’idea di lasciarla fare agli altri. “Sono partito per la Russia perché ritenevo che, venuta la guerra, un ufficiale effettivo avesse l’obbligo morale e professionale di parteciparvi”».
Obbligo morale.
«Lo scriverà nella Prefazione al suo diario di Russia pubblicato col titolo “Mai tardi”. E sottolineerà, in una conversazione qualche anno prima di morire, che lui quella guerra “voleva vincerla”. Il che ci dà l’idea di come una sorta di senso di predestinazione, e la retorica patriottarda e militarista, lo avessero reso cieco e sordo di fronte a ogni segnale premonitore».
In che senso?
«Le prime disfatte militari c’erano già state. Le prime prove della catastrofica impreparazione dell’esercito».
Come le conosceva?
«Nel suo battaglione, i veterani raccontavano a Nuto cosa era accaduto sui fronti di guerra che lui non aveva potuto conoscere: parlo di gente che aveva fatto il Fronte occidentale, l’Albania, la Grecia. Gente stanca di guerra, che aveva già preso coscienza dell’inganno. Uomini che avevano già visto tutto».
Le prime disfatte, Greci, Albani.
«Avevano scoperto la cartapesta sotto la facciata scintillante della propaganda: le armi non sparavano, le scarpe con le suole di cartone pressato erano dipinte per sembrare cuoio ma si scioglievano nel fango delle colline albanesi o sotto il caldo dei deserti.
Gli speculatori. La prima aporia inspiegabile, la prima breccia nel muro della propaganda che un soldato non poteva spiegarsi senza entrare in crisi.
«Esatto. L’altra faccia del regime. Gli industriali complici che si erano arricchiti sulle forniture belliche. Questa percezione dell’inganno dopo diventerà un motore potente della presa di coscienza, il punto di scaturigine della rivolta civile. Ma non ancora nel 1941 e nel 1942. Non per il Nuto che si prepara alla guerra».
Aveva saputo ma non era bastato a fargli cambiare posizione. Interessante.
«Due anni di formazione militare dentro un’istituzione totale come l’Accademia pesano come una palla di piombo che lo teneva legato a quella storia e a quella mentalità come una catena».
Che improvvisamente si spezza.
«Perché poco dopo tutto questo deflagra improvvisamente come un’epifania che, proprio per questo, è sorprendentemente repentina».
Quando, e perché si verifica questa rottura?
«Già durante il viaggio che lo porta al fronte si manifestano le prime crepe».
Come una anabasi, come una discesa agli inferi.
«Il Novecento danzava nella stanzetta al quarto piano di via Felice Cavallotti. Di fronte alla forza dei racconti di mio padre, ho sempre cercato un termine di paragone altrettanto vivido. È in qualche modo la storia di “Cuore di tenebra”, nella prosa potente di Joseph Conrad. Sono le immagini di Apocalypse Now nella regia visionaria di Martin Scorsese. Sono gli occhi di uno sguardo giovane che si aprono davanti all’abisso».
In Apocalypse Now, che era ispirato a “Cuore di tenebra”, c’è quel punto improvviso in cui l’impalcatura della menzogna propagandistica della guerra del Vietnam crolla. E per tuo padre questo quando era accaduto?
«Prima di tutto con la scoperta dell’Olocausto. O meglio, degli ebrei e del loro destino sotto il Terzo Reich».
Già durante il viaggio? Possibile? Non era un ricordo successivo retrodatato?
«Oh, no. Mio padre aveva intravisto i segni della deportazione in Polonia. Quando la tradotta si fermava era impossibile non vedere accanto ai binari quei corpi macilenti, vecchi, donne, bambini, coperti di stracci, con la stella gialla cucita sul petto».
E poi?
«Le SS impettite che li sorvegliavano e li trattavano come bestie da macello: gli indizi, i sintomi dell’industria dello sterminio che funzionava a pieno regime».
Questo quando, in che mese?
«Era il luglio 1942. Lui li guardava e cercava di capire. Ci raccontava che, mentre i suoi colleghi, ufficiali come lui, giocavano a scopa o a ramino per ingannare la noia del viaggio, lui passava ore a osservare quella gente con le casacche a strisce attraverso i finestrini. A interrogarsi sul significato di quello che vedeva. Sulla natura di quell’alleato a fianco del quale lo mandavano a combattere.
I nazisti.
«E dentro la sua testa, nel suo diario, inizia a prendere corpo e forza il grande rifiuto, un pensiero dominante: “Questa non è la mia guerra. Questa non è la mia guerra!”».
Sembra che queste memorie tu le abbia vissute direttamente, in prima persona. Sembra che stia raccontando di te stesso.
«Era una storia che riecheggiava di continuo, nella mia casa, come un alfabeto primario. Nei racconti diretti, nelle conversazioni di mio padre con i suoi amici e i suoi ex compagni. Con mia madre. Con i reduci. Era una musica che conoscevo a memoria, nota per nota. Sapevo tante piccole grandi cose, dettagli. Per esempio che il corpo di spedizione alpino era partito il 21 luglio 1942 dalla stazione di Rivoli. E dal treno si levavano canti. Canti tristi, di contadini costretti a diventare soldati: “Il lutto degli alpini che vanno in guerra, / la meglio gioventù va sotto terra…”».
È incredibile la velocità con cui tutto quell’entusiasmo da allievo scelto si infrange.
«Vero. Ma era come se tutto ciò con cui mio padre e i suoi compagni avevano convissuto prima, senza volerlo vedere, si innestasse nella durezza spietata del racconto che stavano vivendo. Facendo sorgere domande fino ad allora sopite».
La domanda più grande, più lacerante di Nuto: “Di chi siamo alleati? Con chi stiamo combattendo?”
«Non era una questione da poco. E questa domanda era quella che disarticolava l’apparato delle certezze più consolidate. “I nostri alleati”, il popolo fratello e ariano: i tedeschi. E ancora più di loro: i nazisti. Ovvero le SS onnipresenti e visibili ovunque con le loro divise nere e lucide, i loro simboli di morte appuntati sui colletti e sulle mostrine. Un militare abituato al comando avvertiva questo codice di violenza immediatamente, senza bisogno di parole, anche da un gesto. Anche solo vedendoli scortare un convoglio. Anche attraverso il filtro di un vetro da un vagone. E questo Nuto lo scrive, lo mette nero su bianco, già durante quel viaggio all’inferno.
Quante cose si possono osservare prima ancora di mettere piede a terra.
«A un certo punto mentre viaggiavamo tra la Polonia e l’Ucraina, ci confessò che una volta, passando tra le carcasse di convogli distrutti e case bruciate, gli venne una sorta di tentazione solo accarezzata, una specie di sogno a occhi aperti: il dubbio di disertare. Di spogliarsi della divisa. È un trauma enorme. Un sacrilegio, per un ufficiale in servizio permanente effettivo. Il mondo che si rovescia…»
Tutto vissuto da solo?
«Come dicevo, appena accarezzato nella sua mente. Per i soldati era diverso. Cantavano con rabbia la “canzone del disertore”, come una sfida alle gerarchie. Bestemmiavano la guerra. Odiavano i tedeschi. I “tugnín”, come li chiamavano in piemontese, residuo linguistico della Prima guerra mondiale. E poi li avevano già visti all’opera nelle precedenti campagne, soprattutto nei Balcani. È il segreto che era stato velato, e poi d’improvviso svelato…»
Scopre, appena arrivato in Russia, come i tedeschi trattano la popolazione civile.
«E qui di nuovo il suo racconto era fitto di immagini che arrivano come la sequenza di un film. È una carrellata di orrori in movimento. Isbe che bruciavano nella notte. Partigiani impiccati alle croci di legno dopo essere stati torturati per apprendere i segreti e i nomi dei compagni».
Arriva e dopo pochi mesi si ritrova nel tracollo del corpo di spedizione italiano. La sconfitta giunge subito dopo il battesimo del fuoco.
«Nel gennaio 1943 c’è la potentissima controffensiva russa dopo la battaglia di Stalingrado. Gli italiani vengono chiusi nella sacca. Un accerchiamento che corre per 159 chilometri di fronte. Tutta la Cuneense, tutta la Tridentina e tutta la Julia vengono prese nella tenaglia dell’Armata rossa, insieme alla divisione di fanteria Vicenza».
La fortuna di Nuto è che non viene fatto prigioniero.
«No. Lui era nel battaglione Tirano, che scampa alla catastrofe militare riuscendo a sfondare la sacca russa a Nikolaevka. Ma è una strana salvazione: sono liberi e distrutti, senza mezzi per poter essere trasportati. L’80 per cento dei loro compagni è morto o prigioniero. Qui inizia un viaggio di ritorno che è come una terrificante odissea: altre centinaia di chilometri. Da fare a piedi. Ancora nel gelo e nel nulla. Per la prima ferrovia disponibile per il rimpatrio».
Regalami un’altra immagine in questa galleria di ricordi indelebili.
«Quella del giorno in cui escono dalla sacca. E in cui lo sconcerto si trasforma in odio. Mio padre lo raccontava così: “Noi eravamo piegati, le divise a brandelli, feriti e sconvolti. Da un lato c’erano i tedeschi che ci fotografano e ridevano. Dall’altro le donne russe che ci guardavano e piangevano”».
Lo scherno degli inconsapevoli. I nazisti non avevano capito che era finita anche per loro.
«Non era folle come può sembrare adesso. Avevano davanti a loro altri tre anni di guerra.
A Stalingrado si ritirarono anche loro. Il diario della sconfitta di Friedrich von Paulus era già stato scritto. Vero, ma nessuno sapeva nulla. I tedeschi nel 1942 non avevano avuto la percezione della disfatta, erano ancora un esercito, una macchina bellica efficiente. Si ritiravano sui loro mezzi meccanici, con la linea dei rifornimenti ancora relativamente integra».
E gli italiani?
«È il ricordo dell’umiliazione che aveva segnato i superstiti. A nulla era servito combattere con valore, sacrificarsi. Loro avevano i piedi avvolti nella paglia e nelle coperte, per impedire il congelamento. Avevano dovuto buttarli via quegli scarponi. Le dita si sgretolavano, diventavano nere, andavano amputate. Mio padre aveva la pleurite. Erano affamati, coperti di cenci: una colonna di straccioni che sfilava davanti ai signori della guerra».
E perché le donne russe piangevano, invece?
«Per un senso innato di umanità di quella popolazione contadina e in particolare delle donne. Perché vedendoli pensavano ai loro figli, molti dei quali magari erano partigiani o soldati nell’Armata rossa, ma non importa. Perché in quell’inferno il bene e il male si erano riconosciuti e divisi».
E qui il ragazzo dell’Accademia cambia mestiere. L’uomo coperto di stracci è diventato scrittore per necessità e spirito etico.
«Non era la sua vocazione. Era stato il suo destino. Era l’urgenza del racconto, la rivolta morale che prevaleva su qualunque cosa.
Perché lui, come Primo Levi, non si considera va uno scrittore.
«Quando gli chiedevano: “Come si qualificherebbe lei? Antropologo, storico, scrittore, saggista?”. La sua risposta era sempre la stessa».
Quale?
«“Sono un geometra”. Ma non era un vezzo. Era la sua verità, il suo titolo di studio. Nuto Revelli ha dovuto raccontare perché è stato tirato per i capelli dalla storia».
Altra immagine.
«L’8 settembre. Aveva visto i generali piangere, e scappare, per la disperazione. Li aveva visti togliersi la divisa, strapparsi i gradi dalle spalline e fuggire in borghese dopo aver abbandonato i soldati al loro destino».
E cosa era accaduto?
«Quando i tedeschi stavano per entrare in Cuneo era corso in caserma, a implorare i suoi superiori di resistere. Di sparare contro quel nuovo nemico. Li aveva trovati senza i gradi, uno stava imbarcando su un camion i suoi vasetti di gerani, per portarseli a casa… Il suo colonnello gli urlò di “non rompere i coglioni”».
Era la Patria che si sfaldava, insieme al Re sciaboletta in fuga e al suo esercito.
«Decise, insieme ad altri come lui, che se si voleva resistere si doveva fare da sé. Da ribelli. Questa era l’ultima rottura, quella che lo riconciliava con il suo codice e lo aiutava a capire. Era la parola più potente e nitida che un soldato, che un giovane, potesse sillabare e comprendere. Era il Tradimento. Lo stesso che aveva misurato nella piana di Nikolaevka, quando nel collasso degli alti comandi e nell’abbandono da parte di Roma, era toccato agli uomini di truppa come lui, i suoi colleghi di battaglione, i suoi soldati, fare la scelta. Il punto di non ritorno. Di fronte al tradimento aveva scelto di combattere. E, tornato in Italia, era diventato partigiano».
Adesso parliamo di come tu hai vissuto tutta questa storia.
«Era una paternità pesante da portarsi dietro, la mia. Perché quel vissuto di mio padre era una cosa spessa, vogliamo dire la parola “Ingombrante”».
Ingombrante.
«Sì. E te lo posso raccontare anche solo con un aneddoto. Io facevo la terza elementare. Quando ero bambino io, in terza si passava dalla maestra al maestro. Era un percorso didattico che aveva un senso preciso. Si abbandonava il modello femminile materno per passare a quello maschile, più severo (in qualche modo alla “legge del padre”, direbbero gli psicologi).
E cosa succede con il maestro?
«Che dopo pochi giorni io ritorno a casa e chiedo a mia madre: “Papà era un ladro?”».
Fantastico. E tua madre?
«Ovviamente mi dice: “Marco, sei impazzito?”. Io le rispondo: “Ma il maestro ha detto che i partigiani rubavano le mucche ai contadini”».
E la reazione di tuo padre qual è stata?
«Subito non disse niente. Nel pomeriggio andò in libreria a comprare una copia delle “Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana”. Nel frontespizio del libro scrisse, come dedica: “Perché sappia come sapevano morire i partigiani”. Poi me lo diede e mi disse di portarlo il giorno dopo al mio maestro. Nient’altro».
E tu come vivesti questo momento?
«Dentro di me fu il primo grande conflitto della mia vita».
Davvero?
«Pensavo che avrei dovuto dare quel libro al maestro, e che questo sarebbe stato un gesto di sfida. Mi chiedevo, con una certa preoccupazione, che conseguenze avrebbe avuto. Sarei caduto in disgrazia? Ma non era solo questo».
E cos’èra?
«Soffrivo perché mi sembrava di essere davanti a un dilemma difficile: dovevo seguire mio padre, i partigiani, sposare la loro causa? Oppure dovevo credere al mio maestro, alla scuola? È stato il primo, grande “conflitto di autorità” della mia vita».
E come si risolse il conflitto?
«Grazie a dio con una caporetto del maestro. Il conflitto che immaginavo non si verificò, perché il giorno dopo il maestro si dissolse. Mi aspettavo che si sarebbe arrabbiato, e invece di fronte al libro, che prese come se fosse un tizzone arroventato, si mise a balbettare: “Ma io non volevo dire… non era questo che io…”. Subito dopo trovò il modo di fare una filippica riparatoria, dipingendo i partigiani, che il giorno prima nel suo racconto erano ladri, come degli eroi».
Che idea ti facesti?
«Che il mio maestro era un poveraccio. Da un lato i partigiani, e il rigore di mio padre, il suo gesto senza nemmeno bisogno di parole. Dall’altro la balbuzie ridicola di questo italiano piccolo piccolo: “Mio papà le manda questo”. E lui che era impallidito e si era appiattito a terra: “Forse non hai capito, erano degli eroi, per carità!”. Ma io avevo capito benissimo».
Che cosa faceva tuo padre, una volta abbandonato l’esercito?
«Faceva il camionista.
Non ci credo. Perché?
«Perché dopo la smobilitazione questo aveva trovato da fare. D’altra parte aveva concepito un vero e proprio rigetto per tutto quanto gli ricordasse la vita militare, per quella cultura della guerra che aveva segnato la sua “vita precedente”, per quella sua prima identità, di ufficiale, di militare, di soldato».
Parli addirittura di “rigetto”?
«Ho in mente una frase che dice più di ogni altra cosa. Mio padre raccontava questo disagio con una immagine quasi violenta: “Quando vedevo qualcuno in divisa mi veniva voglia di saltargli addosso per strappargliela”. C’erano stati i morti, il sangue, la catastrofe…»
Questo dopo la fine della guerra. Prima c’era stata la Resistenza.
«Esatto. La guerra di Liberazione l’aveva combattuta con passione. Nel febbraio 1944 era entrato nella Banda Italia Libera, quella di Duccio Galimberti e Livio Bianco».
Partigiani azionisti.
«Dopo un po’ da questo gruppo originario di ribelli era nata la Quarta Banda e mio padre ne era diventato il comandante».
Ne aveva composto addirittura l’inno, chiamiamolo così…
Quante volte l’ho sentito, nella mia vita! Era nato come un coro di montagna, che prendeva corpo intorno alla melodia di un vecchio canto alpino. Aveva il titolo provvisorio di Bandiera nera, ma dopo la guerra questa canzone di battaglia diventò famosa come Pietà l’è morta. “Lassù sulle montagne / bandiera nera / è mor to un partigiano / nel far la guerra. / È morto un partigiano / nel far la guerra / la meglio gioventù / che va sottoterra”. Cupa, dolente, epica. Io, che faccio parte di un’altra generazione, l’ho riscoperta nella versione lirica e bellissima dei Modena City Ramblers, nell’album Appunti partigiani. A ripensarci adesso era anche l’autobiografia di tuo padre. Il film che gli era passato sotto gli occhi dalla ritirata di Russia fino ad allora: “Laggiù sottoterra / trova un alpino / caduto nella Russia con il Cervino. / Tedeschi traditori / l’alpino è morto / ma un altro combattente / oggi è risorto”».
Sì, è vero. In quei versi era riassunta tutta la rabbia di cui abbiamo parlato. Il tradimento era diventato il punto di scaturigine di tutto.
«“Che Dio maledica / chi ci ha tradito / lasciandoci sul Don / e poi è fuggito”, perché questi versi raccontavano la presa di coscienza di cui parlavamo. Ma c’era anche il racconto di tutta la speranza che attraversava quei ventenni, e nel finale era racchiuso il senso di urgenza di quella guerra. “Combatte il partigiano / la sua battaglia / tedeschi e fascisti / fuori d’Italia! / Tedeschi e fascisti / fuori d’Italia / gridiamo a tutta forza / pietà l’è morta!”. Quest’ultima strofa, ripeteva sempre quando era in coro con altri, “va cantata con rabbia!”».
E questa guerra partigiana Nuto e i compagni della sua banda, che poi prende il nome dei fratelli Rosselli, la vincono.
«A un prezzo altissimo. Perdendo compagni carissimi. Arrivando a inseguire i tedeschi addirittura in Francia. I segni di questa battaglia mio padre se li porterà addosso per tutta la vita quando, dopo il settembre 1944, ferito al viso, sarà costretto a molte operazioni di chirurgia plastica. Ma finita la guerra Nuto mette un punto, non si dedica alla politica e inizia a fare il camionista. Incredibile. Si sposa con mia madre nel maggio 1945. È un uomo libero. Però – come si diceva allora – deve portare a casa il pane per poter vivere. Deve reinventarsi una vita e un mestiere. Questo significava che ogni giorno si alzava alle quattro del mattino e andava a portare un camion da Cuneo a Torino, e viceversa, trasportando materiali metallici. Ruderi, frammenti, rottami, pezzi di motore, putrelle, lamiere. Di tutto. Nuto per campare fa questo, sotto padrone, finché non riesce a mettersi in proprio».
Il salto come prende corpo?
«Quando mio padre riesce a mettere da parte i soldi per affittare un magazzino alla periferia di Cuneo. Arrivata al suo assetto ideale, di lì a poco, la piccola impresa conterà un magazziniere, due manovali e una segretaria. Quel magazzino oggi ci sembrerebbe una discarica di ferramenta, ma all’epoca, per i miei occhi di bambino, era il regno incantato dei giochi più belli. E poi… si compiva l’ultima magia.
Quale?
«Messi da parte i guantoni da lavoro e gli abiti sporchi di polvere e di pulviscolo rugginoso, ogni giorno, con grande e meticolosa regolarità, alla sera mio padre, come rispondendo a una chiamata, si metteva a scrivere».
All’inizio senza neanche avere un editore.
«Ma figurarsi. Scriveva mosso – diremmo oggi – da una condizione di necessità. Il primo libro lo pubblica con un piccolo editore cuneese, Panfilo, e suscita subito polemiche. Il primo libro si intitola “Mai tardi”. Che poi era il motto del suo battaglione. Il sottotitolo è “Diario di un alpino in Russia”».
Il diario esisteva veramente?
«Sì, solo gli ultimissimi giorni li aveva ricostruiti a memoria sulla base di alcuni appunti. Il titolo si spiegava con l’ultima frase del diario: “Mai tardi a farli fuori”».
Chi?
«I tedeschi, i fascisti, i gerarchi imboscati, ovviamente. Ma anche i generali ambiziosi e impreparati, tutti i responsabili di quella carneficina che, come abbiamo visto, mio padre era arrivato a odiare. Il libro appena pubblicato sollevò molte polemiche».
Com’era possibile?
«L’associazione degli ex alpini aveva una base di ex combattenti che condividevano quel racconto di verità e di denuncia, ma i suoi quadri dirigenti, nel 1945, erano costituiti soprattutto dai gradi elevati, le cosiddette “penne bianche”, tutti convinti del principio omertoso secondo cui “un buon soldato non deve raccontare quello che ha vissuto”. Ai civili, ovviamente. Tutto questo coro polemico torna, e ingigantito, quando nel 1962 esce da Einaudi “La guerra dei poveri”. L’editore più importante, il momento politico rendono ancora più dura la polemica contro il Revelli narratore. Sì, è subito polemica. Con argomentazioni che oggi sembrerebbero anche solo difficili da spiegare a una classe di ragazzi. Ma che all’epoca ci erano chiarissime. Se non altro perché molti di quelli che avevano mandato a morire i ragazzi sul Don erano ancora vivi. E soprattutto perché qui iniziò il lavoro più importante della vita di mio padre: quelle vittime erano una ferita terribile, e aperta, nella società italiana. Per le famiglie, per le madri e i padri che non avevano visto nemmeno i corpi dei loro figli».
Cosa vedevi, in questo lavoro, con i tuoi occhi di ragazzino?
«Quasi il senso di un dovere. Di un debito da onorare. E persino una sorta di lavoro di squadra. Nella nostra casetta di Cuneo la scrittura diventa una funzione quotidiana, silenziosa. Lui scrive a mano e lei, mia madre, ribatte i testi a macchina. Il che all’inizio mi confonde le idee».
In che senso?
«Pensa che a scuola andavo a raccontare: “Lo sapete che mia mamma sta scrivendo un libro sui partigiani?”».
Ah ah ah. Il successo dei libri einaudiani porta ricchezza?
«No, figuriamoci, con quei diritti d’autore non si campava. Lo stipendio lo garantisce il magazzino dei rottami. A cui le cedole aggiungono, se così si può dire, una sottile spolverata di generi voluttuari».
Però gradualmente, in questo rito civile di scrittura e memoria, alla ricerca del popolo perduto della Russia, vieni coinvolto anche tu.
«Sì, parzialmente. Molto parzialmente. Non sono più un bambino, e a metà degli anni Sessanta incomincio a seguirlo nel periodo in cui lui inizia a raccogliere prima le testimonianze de “La strada del Davai” (i reduci dalla prigionia in Russia) poi quelle de “Il mondo dei vinti” e de “L’anello forte”. Duecentosettanta interviste registrate e stenografate. Un lavoro immane. Una odissea. Nuto va a casa dei contadini costretti a diventare soldati e li fa raccontare. Infatti i punti chiave di questa mia iniziazione sono due. La prima cosa è che acquisisco la coscienza che esiste un popolo dolente, ferito, carico di dolore».
Chi sono?
«Sono gli abitanti delle valli che frequento, sono uomini che magari conosco, anche solo di vista. Sono gli ultimi eredi di una antichissima civiltà contadina piemontese, ma anche in qualche modo universale, simile sulle Alpi come sull’Appennino o in Macedonia, in Albania, in Ucraina…
E la seconda cosa che ti sorprende?
«Non so ancora come, ma mio padre questo popolo riesce a farlo parlare. E io, ascoltandolo, vedendolo al lavoro capisco cosa sono un popolo, una cultura, una identità».
Parte da qui – per così dire – la tua lunga ricerca sul populismo.
«Capisco anche – e me lo ricorderò sempre – quanto male siano capaci di fare i leader che possiamo chiamare fin da allora “populisti” a quel popolo che evocano retoricamente e che regolarmente sacrificano al proprio smisurato “Io”…Nuto aveva reso il suo lavoro sempre più enciclopedico, e si era messo a raccogliere le lettere dei caduti de “L’ultimo fronte”. Sono le parole dei morti. Anche loro, una parte di quel “popolo” tradito. Le parole dei morti che riprendono vita. Sono le carte arrivate dall’oltretomba, le scritture di chi non è tornato. Sono i militi ignoti che riacquistano identità e vita davanti ai nostri occhi. E che non parlano di Patria e di Guerra ma domandano del vitello o del raccolto, chiedono di spedirgli calze di lana e pane. Soldati rimasti contadini. Una lunghissima lista di figli, mariti, fratelli, ancora dati per “dispersi” dalla ipocrita burocrazia della guerra con le madri che all’infinito ne aspettavano il ritorno».
Una sola domanda: perché?
«Due risposte. Perché sulla guerra si mente sempre. E poi perché serviva alla propaganda anticomunista. Il mito dei prigionieri oltrecortina alimentava il rancore verso l’Unione Sovietica. E rendeva possibile occultare il grande tradimento, l’impreparazione, la profondità di quella disfatta. Un cerchio propagandistico perfetto in cui ti sollevavi da una responsabilità inventando una colpa».
E invece?
«Erano morti. Morti. Nel ghiaccio e nella neve. Sotto il fuoco dei cannoni e delle mitraglie. Di stenti o di tifo petecchiale nei campi di prigionia. Morti. E mio padre lo sapeva bene. Perché era stato con loro. L’esserci stato, aver condiviso il dolore, essere stato uno di loro era ciò che gli permetteva di connettersi a quel popolo. Era ciò che lo trasformava in un medium tra questi italiani muti e la società in cui vivevano. Mio padre entra dentro questo gigantesco bacino di dolore che c’era nelle nostre valli. Un esercito di diecimila persone – la divisione Cuneense – che si era dissolto nel nulla, e ne esce recuperando la memoria delle parole perdute. Diecimila persone voleva dire venti o trentamila famigliari prossimi. Un’intera generazione montanara e contadina azzerata. E a queste madri, a questi padri, a questi fratelli e a queste sorelle mio padre chiedeva il sacrificio più grande: di consegnargli la reliquia. Perché lui prende le lettere, i manoscritti originali e li trascrive. E li mette insieme: è un testamento corale. Un poema struggente che arrivava dall’inverno russo».
Come faceva a conquistare la loro fiducia?
«Perché lui poteva dire: “Io questa guerra l’ho fatta”. Perché parlava la lingua di questo popolo, il dialetto piemontese contadino. E perché c’era il vincolo della fiducia: non arrivava mai in una casa contadina senza un mediatore. Senza qualcuno che garantisse».
Chi erano queste famiglie?
«Era un popolo enormemente rassegnato, tradito. Uomini e donne che in guerra avevano subito le decisioni criminali dei politici e dei militari come in tempi di pace si subiscono la grandine e la valanga. Questo popolo era stato lasciato spaventosamente ai margini».
Erano elettori, però.
«Ancora nel 1946, in nome di un vincolo di lealtà antica, avevano votato per il re e per la monarchia, perché le cose non sono mai semplici e lineari. E però si portavano dentro questo lutto epocale. Un autorevole storico, Alessandro Casellato, specialista di storia orale, ha parlato, a proposito di quest’attenzione per le sofferenze degli “ultimi”, di un “populismo azionista”. Nel senso del Partito d’Azione, accostando Nuto Revelli e Emilio Lussu. È un’espressione che mi convince. Ma c’erano anche i partigiani. C’erano i comunisti. A Cuneo di comunisti ce n’erano pochi. Rare fabbriche e niente classe operaia. Per me i comunisti a Cuneo erano Gastaldi».
Gastaldi? Non conosco questo nome. Era un dirigente piemontese?
«No. Gastaldi era l’addetto dell’azienda del gas che passava a controllare i contatori nelle case. Onesto, pulito, gentile e sobrio, con la parte superiore della tuta blu quasi come una divisa. Il figlio aveva vinto la borsa di studio alla Normale di Pisa. Era uno scrupoloso lavoratore dipendente, un Operaio, faceva un lavoro che lo portava a contatto con la gente, ma allo stesso tempo aveva questa forza interiore, l’orgoglio di una formazione che lo emancipava dalla sua condizione sociale».
Che tipo era?
«Era un colto che leggeva libri e discuteva di tutto, e che aveva il figlio intelligente e fenomeno. Poi, certo, c’erano gli ex partigiani della provincia di Cuneo, quelli di Pompeo Colajanni e del Nizza Cavalleria di Pinerolo. Ma per me il popolo comunista era lui».
Tuo padre invece era azionista.
«Mio padre è stato consigliere comunale per tre mesi del Partito d’Azione, alla Liberazione, ma poi si è dimesso quasi subito. Anni dopo per un breve periodo è stato vicino al Partito socialista: nel 1956, quando Antonio Giolitti, in polemica con i fatti d’Ungheria, passò al Psi e gli chiese di dargli una mano. Ma poi non è stato mai più iscritto ad alcun partito».
E tu? Quando inizi a fare politica?
«Da ragazzo sono stato un giovane socialista. Nel 1966-1967, a vent’anni, sono un giovane lombardiano, che partecipa anche al convegno della corrente a Ostia. E poi scoppia il 1968 e tutto questo si polverizza in un nanosecondo. Ma non c’è da rimpiangere nulla. La vita di partito era miserabile, i notabili erano orribili. E c’è la lotta, ci sono le occupazioni all’università. Addirittura in anticipo rispetto al maggio francese. Infatti abbiamo occupato Palazzo Campana già alla fine di novembre 1967 e siamo stati sgomberati nel gennaio 1968, siamo stati buttati fuori dalla polizia, presi a calci e malmenati. In quei mesi è prima di tutto una battaglia anti-autoritaria che prende corpo tra novembre 1967 e marzo 1968».
Sei uno dei leader?
«Macché, ero un peone. Cercavo di imparare da chi aveva esperienza, guidavo i controcorsi, dormivo nel Palazzo occupato, partecipavo ai picchetti e ai volantinaggi».
E poi?
«Poi nel fine settimana ritornavo a Cuneo, a condividere con gli altri quel vento nuovo. Ricordo un litigio nella federazione del Psi, quando siamo andati a gridare loro: “Oggi la polizia ci ha sgomberati! Ha attentato alla libertà! E voi dove eravate? A contare le tessere!”».
E la risposta del partito?
«Nessuna. Non hanno mosso un dito. Il mondo esplodeva, il Vietnam, Berkeley, il papa… la storia cambiava e loro erano lì a fare le tessere».
E allora verso dove guardate?
«I comunisti ci fanno il filo. “Una gioventù ribelle”, dicono. Il che ovviamente è meglio di quello che avevamo sentito dal Psi».
C’è un però, lo sento.
«Ci apparivano anche loro vecchi. Il Pci voleva cambiare il governo, mentre noi, nella primavera del 1968 siamo attraversati dall’utopia, vogliamo cambiare il sistema e il mondo. E l’anno dopo, quando nasce, ti iscrivi a Lotta Continua. Sai che non c’è mai stata una tessera? Non c’era un’iscrizione, e anche questo è rivelatore. Però sì, sono lì dentro. Con rabbia. Con l’idea che “operai e studenti uniti nella lotta…”, con i volantinaggi all’alba a Mirafiori.
C’è stato il conflitto con il padre, che ha attraversato la tua generazione, a casa Revelli?
«Be’, sì e no. C’è stato scontro sulle ansie, sulla preoccupazione, sullo “stai attento”. Ma poi io gli sentivo dire – non a me, ovvio: “I giovani hanno ragione, questo Paese fa schifo”. E io lo rispettavo. Anche se il gioco dei ruoli faceva sì che non ce lo potessimo dire. Ma ogni corteo era una tragedia. Iniziano a nascere i servizi d’ordine. Molto dopo. Il 1968 non era militarizzato. Un movimento di massa libertario, spontaneo, disorganizzato, in cui c’entravano molto anche la rivoluzione sessuale, la rottura contro la polvere di una società ingessata che dopo la stagione dei consumi stava scoppiando».
Chi era il tuo maestro?
«I miei riferimenti erano Guido Viale e Luigi Bobbio. Allora avevano tre-quattro anni di più di me, ed erano come un secolo».
Inizi anche a fare dei lavoretti.
«Allora esisteva la professione di andare a vendere a rate i libri della Feltrinelli o le collane della Einaudi. E io, quei libri, li divoravo: Frantz Fanon e Rosa Luxemburg negli eleganti volumi della Nuova Universale Einaudi. E il “capitolo VI inedito” de Il Capitale, quello con il noto “Frammento sulle macchine”, opera che ancora oggi considero imprescindibile…»
Ancora attuale, intendi?
«C’era il discorso straordinario sul passaggio dal plusvalore assoluto al plusvalore relativo. Ovvero l’intuizione di come il capitalismo trasforma il modo di lavorare e insieme gli uomini che lavorano».
Prova a proiettarlo nel nostro presente.
«Pensa al salto non solo tecnologico prodotto dalla rete e dalla telematica. E alla finanziarizzazione selvaggia. C’è un nesso che per me è importante. Si passa “dalla produzione di merci a mezzo merci”, che nel celebre saggio di Piero Sraffa rappresenta il passaggio all’era moderna, al tempo della rete in cui i social diventano “produttori di merci a mezzo di utenti”. Tu sei il consumatore che compra il prodotto, ma anche la materia prima che serve per fare il prodotto. Esatto. E a quello che Luciano Gallino chiama “finanzcapitalismo”, con la “produzione di denaro per mezzo di denaro”… Il vecchio Marx si sarebbe divertito moltissimo a lavorare in questo tempo. Ma mentre i modelli del liberismo sono invecchiati alla velocità della luce nel tempo della globalizzazione, le chiavi di lettura di Marx si rivelano attualissime, perché lui questo tempo in cui gli spiriti animali convivono con l’età dei consumi, lo sfruttamento con gli smartphone, e i nuovi ricchi con i rider lo aveva intuito. Anche se noi all’epoca, a essere onesti, eravamo concentrati su altri temi».
Quali?
«L’alienazione dell’operaio della catena. La diseguaglianza. Leggevo “Operai e capitale” di Mario Tronti, e insieme Claude Lévi-Strauss di “Tristi Tropici”, e pensavo che la classe operaia avrebbe cambiato il mondo restituendo gli uomini alla loro vera natura».
E la violenza a sinistra quando arriva, e come?
«Dopo piazza Fontana. Dopo quella che noi chiamammo, e con il senno di poi e con tutto quello che abbiamo scoperto non me ne pento, “la strage di Stato”».
Ed è a quel punto che litighi con tuo padre.
«Sì. Come posso spiegarti? Io dicevo cose del tipo: “Saragat è il primo responsabile della strage”. E lui ci restava quasi male».
Non perché amasse particolarmente Saragat…
«Oggi credo perché amava la Repubblica che aveva contribuito a costruire. Perché avvertiva come un pericolo tutto quello che a destra o a sinistra portava fuori dal perimetro dell’arco costituzionale. Adesso capisco che aveva paura di una fuoriuscita dalla legalità».
E aveva ragione. È quello che poi, per una scheggia impazzita di quel movimento che poi è finito nella lotta armata, in realtà sarebbe accaduto davvero. Ma tu non ne eri consapevole, all’epoca?
«Aveva paura. Paura di quella che Adriano Sofri molti anni dopo avrebbe chiamato “la perdita dell’innocenza”».
E cosa dicevi invece a tuo padre?
«Cose anche terribili, ripensandoci oggi. Tipo: “Con tutto quello che hai fatto nella tua vita oggi non capisci niente!”. Ne restava ferito. Rispondeva alle mie mattane con lunghissimi silenzi punitivi».
Che tipo di padre era Nuto Revelli?
«Mah, direi un padre non facile da gestire. Non certo assente. Mi diceva: “Guarda di non farti prendere dalla dimensione totalizzante della politica”. “Non passare il tempo a ciclostilare invece che studiare e pensare a laurearti. Altrimenti non sarai mai libero di fare le tue scelte, sarai sempre ostaggio dei politici di professione”. E infatti riesci a fare la tesi quasi in tempo. Malgrado la febbre per la politica. Nel 1972 ottengo la mia laurea in Giurisprudenza con Norberto Bobbio e Alessandro Passerin d’Entrèves. Tesi sulle “interpretazioni del fascismo da parte degli storici e dei contemporanei”».
Quanto prendi?
«Mi danno 110 e lode con dignità di stampa.
E Bobbio com’era?
«Non voleva essere chiamato maestro ma lo era».
Quel giorno tuo padre era con te.
«Nevicava. Era l’unico presente in aula magna oltre i professori».
E che cosa disse?
«Solo cinque parole: “Bene. Adesso torniamo a Cuneo”».
Loquace.
«Telefonammo a mia madre con i gettoni. Poi io mi rimisi sulla mia 500, lui con la sua auto e andammo a casa. Ma era orgoglioso di me e io lo sapevo».
Poi hai avuto una 127.
«Sì, bianca: “Macchina modello / attento Agnelli faremo un macello”».
Oddio, e tuo padre?
«Era partito dalla Topolino… ho ancora una cicatrice qui vedi? Un ragazzino gli tagliò la strada e per evitarlo andò contro un palo. Poi il percorso canonico del boom: la 600 poi la 1100 D. E infine quella con cui tornò quella sera: l’unico lusso della sua vita. L’Alfa Romeo Giulia, che non mi aveva mai fatto guidare. Come non potevo toccare le sue stilografiche…?»
Nel 1976 Lotta Continua si scioglie al congresso di Rimini. Che ricordi hai?
«Non ci sono andato. Ho capito che era finita alle elezioni del 1976. E qui c’è un punto decisivo che ha a che fare con il nostro tema.
Il risultato elettorale?
«Quando alla lista manca il quorum mi rendo conto che avevamo parlato per otto anni di quel mitico popolo operaio e non avevamo capito che quelli che avevamo intercettato erano solo una piccola parte del vero popolo».
Hai creduto che Luigi Calabresi fosse responsabile della morte di Pino Pinelli?
«Sì certo, l’ho creduto. Continuo a pensare ancora adesso che un innocente che entra vivo in questura e ne esce cadavere pesa sulle coscienze di tutti quelli che restano vivi».
E hai gioito per la sua morte?
«No, ma non per simpatia nei suoi confronti. Ero convinto che bisognasse portare fino in fondo il processo. Lo volevo condannato».
È stato ucciso da Lotta Continua?
«Chi possa averlo fatto non lo so. La nostra galassia si stava scomponendo, un pezzo era finito nella lotta armata. È possibile che una scheggia impazzita che veniva da Lc abbia deciso di farsi giustizia da sé, ma sono convinto che non ci sia stato un ordine militare come ha raccontato Leonardo Marino».
Chi hai conosciuto che è finito a sparare?
«Tanti. Gente approdata in Prima Linea, che per me erano mostri fin da piccoli. Roberto Sandalo aveva una spiccata tendenza criminale. Ma ricordo un altro poveraccio, Marco Fagiano, che invece forse voleva solo vendicare tante ingiustizie che aveva visto o subito».
Che identità avevano?
«Alcuni, spesso provenienti dal mondo cattolico, che pensavano in buona fede di fare come Camilo Torres. E altri che anche se si dicevano comunisti rivoluzionari avevano la struttura psicologica del nazista. È impossibile generalizzare».
Che cosa li univa? O meglio, che cosa ti divide va da loro?
«Ciò che io odiavo più di ogni altra cosa: il disprezzo per la vita umana, la voglia di emergere attraverso la capacità di fare del male».
Quindi ecco l’elenco dei primi popoli della tua vita: soldati partigiani, operai, giovani ribelli, terroristi. Ritorniamo al “primo popolo”, il più antico.
«Mah, forse quello è l’unico popolo a cui questo nome si attaglia davvero. Ritorno al lavoro di mio padre sul “mondo dei vinti”. Quel suo lavoro ha permesso di prendere la parola a una civiltà che stava scomparendo nel silenzio, e che era davvero una “civiltà”».
Spieghiamolo.
«Voglio dire, un corpo coeso e compatto di credenze e di costumi, di modi di pensare e modi di vivere, di sistemi di relazioni e di sistemi di simboli, un immaginario coerente con le forme della riproduzione della propria esistenza collettiva, in cui gli individui non erano distinguibili dalle loro comunità. In vent’anni – in un amen, potremmo dire – quella storia è scomparsa, si è estinta. Come le civiltà sepolte di C. W. Ceram, come i maya o gli aztechi di fronte a Hernán Cortés, come gli etruschi inglobati dai romani. Ma ascolta bene questo. Era la civiltà contadina che stava scomparendo, quella che sta alla radice di tutti noi, e il suo primo carnefice è stato il boom, l’industrializzazione forzata e la civiltà dei consumi. Quando noi in pianura festeggiavamo il miracolo economico quei paesi feriti dalla guerra si spopolavano. È stata la terza apocalisse culturale del XX secolo».
Chi si è salvato? Come?
«Chi è sopravvissuto è finito in catena di montaggio alla Fiat, alla Michelin, alla Ferrero. In montagna sono rimasti solo gli anziani a stentare e a morire».
E la lezione qual è?
«Quella di mio padre che cercava la sua Itaca. Scappava di casa con il magnetofono a tracolla, un Grundig a batterie di cui tra l’altro era orgogliosissimo, il suo ferro del mestiere. Io – oggi me ne vergogno – lo guardavo con un sorriso un po’ di commiserazione».
Perché?
«Pensavo: ma cosa corri dietro a questi vecchi relitti del passato? Io sì che sono nel fiume della storia quando vado alle porte della Michelin, o della Fiat, dove si cambia davvero “lo stato di cose presente"».
Lui è riuscito a mettere in sicurezza quella storia: il suo immaginario, le sue tradizioni, la sua lingua. Tu inseguivi le tute blu.
«Li immaginavo come il centro di tutto, gli “eredi della filosofia classica tedesca2, la classe operaia ribelle degli anni Settanta come il punto archimedico per cambiare il mondo. Non avevo capito nulla. Un popolo senza una cultura “propria” che non fosse un’identità politica sovrapposta alla loro condizione e affidata alla macchina di partito, e – oggi purtroppo lo sappiamo – senza futuro».
Come sei disincantato.
«No. Obiettivo. I migliori di loro destinati a morire per il nerofumo della gomma, i carcinomi, i tumori del reparto verniciatura, le esalazioni dell’antirombo. Quasi tutti in procinto di finire cassintegrati, battuti, privati della loro identità nel momento in cui sono stati separati dalla loro fabbrica».
E dove sono finiti, oggi, tutti quanti?
«Li puoi andare a cercare, se ti fai un giro. Perché qui inizia il nostro racconto. Li puoi trovare a invecchiare sulle sedie di paglia nelle piazzole di barriera di Milano o alle Vallette. A bestemmiare contro chi li ha abbandonati così. Ad arrabbiarsi contro gli extracomunitari e gli zingari… E a votare Lega».
· La Sinistra: un Toga Party.
L’ex pm Paolo Mancuso è nuovo presidente del Pd napoletano: ormai è un toga party. Marco Demarco il 10 Dicembre 2019 su Il Riformista. Si dice giustizialismo e si pensa ai Cinquestelle, a Di Maio, Travaglio e Bonafede. Ma il Pd? C’è un giustizialismo che non si esaurisce nell’esibizione delle manette, ma che vede nella competenza giudiziaria l’unica, l’assoluta, la sola in grado di tenere insieme il mondo. È il giustizialismo in cui il Pd sguazza. Ecco di cosa si tratta. L’ex magistrato Paolo Mancuso, già pm anticamorra e procuratore capo a Nola, è stato appena nominato presidente del Pd napoletano. La notizia è questa, buona per chi, nel partito dei notabili, aspettava da tempo un nome capace di mettere ordine in un groviglio di interessi e meschinità, che Renzi, quando era segretario, avrebbe voluto incenerire con un lanciafiamme. Ma se questo è il fatto, il contesto è molto meno rassicurante. La scelta di Mancuso è la conferma di un forte squilibrio di sistema: la prova, a dirla tutta, di quanto si sia consolidato negli anni il sodalizio tra i magistrati “di sinistra” e il maggior partito di area. Un sodalizio che risale ai tempi della questione morale di Berlinguer, alla presunta diversità etico-politica dei “buoni” per autodefinizione, ai nomi di Luciano Violante, Anna Finocchiaro, Gerardo D’Ambrosio e Felice Casson, e che senza risalire troppo nella memoria del Pci e sorvolando sul legame tra giustizia e politica che divenne strategico nella stagione di Tangentopoli, arriva fino a oggi, quando il fenomeno, oltre che la Storia, torna a occupare la cronaca. Specialmente nel Mezzogiorno. L’ex magistrato Gennaro Marasca, già autorevole assessore nelle prime giunte postcomuniste di Napoli, è neocomponente della direzione provinciale dello stesso Pd di Mancuso. L’ex magistrato anticamorra Franco Roberti, già assessore regionale di Vincenzo De Luca, il governatore della Campania, è eurodeputato del Pd, eletto da capolista nella circoscrizione meridionale. La magistrata Caterina Chinnici, figlia di Rocco, ucciso dalla mafia, è al pari di Roberti eurodeputata Pd eletta come capolista nella circoscrizione delle isole. E poi ci sono i Michele Emiliano in Puglia, i Pietro Grasso in Sicilia e, caso a parte, Raffaele Cantone che a differenza di tutti gli altri non è mai sceso (o salito o passato) in politica, ma continua a essere in cima ai pensieri del Pd per ogni sorta di alta carica istituzionale. La lista è talmente lunga che basta e avanza. Il partito dei giudici esiste, eccome. Ma non in senso metaforico, a indicare un orientamento di fondo, una egemonia culturale, una presenza forte ma fisicamente impalpabile. Il partito dei giudici è il Pd. Neanche il tempo di andare in pensione o di dimettersi dai ruoli – e qualche volta addirittura con la toga ancora sulle spalle – ed ecco, pronto, il posto in politica. Ormai il passaggio da una funzione all’altra è quasi un avanzamento automatico di carriera. Come lasciare la Nunziatella e passare nell’esercito. Tanto che a pensar male può farsi strada il dubbio che molto di quello che si fa prima, nelle aule di giustizia, possa essere funzionale a quel che si farà dopo, nelle sedi del partito. Ma detto questo, e subito negato per i singoli casi citati, non è che a pensar correttamente il quadro invece migliori. A conti ultimati e lista alla mano, infatti, il Pd si presenta con una rappresentanza a dir poco sbilanciata, come se nella cosiddetta società civile non ci fossero anche imprenditori, disoccupati, operai, scienziati, creativi e professionisti a cui dare voce con pari ossequio e uguale amplificazione. Possibile mai che solo Giuliano da Empoli, in Gli ingegneri del caos, abbia notato che i consulenti più richiesti dai grandi leader mondiali siano oggi i fisici, abituati a destreggiarsi tra i grandi numeri e l’infinito pulviscolo di particelle accelerate? Peggio ancora, il Pd si presenta con una idea di Mezzogiorno inevitabilmente a una dimensione. Senza sfumature e distinguo. Una visione panpenalista, direbbe chi mangia pane e reati. Giustizialista, apocalittica, sospettistica e, in ultima analisi, punitiva e purgatoriale, diremmo noi. Come se il Sud fosse tutto e solo criminalità, intrigo gomorrista, trama oscura, capitalismo amorale e corruzione “seriale e diffusiva”, per definirla alla Davigo, e non avesse, invece, drammatici problemi di modernizzazione da risolvere, al di là delle competenze giudiziarie. Nessuno, poi, che alla luce di tutto questo si chieda come mai i nodi qui in Italia, e specialmente al Sud, comunque restano. E nessuno, ancora, che si interroghi sul perché la scelta di uomini come Mancuso ed Emiliano e le candidature simboliche di Roberti e Chinnici non aiutino la sinistra a uscire dal clamoroso paradosso in cui si è cacciata. La sinistra, in quanto storica paladina dell’uguaglianza, dovrebbe riflettere su come mai, in questi anni, con l’aumentare dei divari economici e delle diseguaglianze civili non ci sia stata una sua parallela crescita elettorale. Ma si ostina a non farlo, per ritrovarsi invece in affanno e sotto assedio, con i populisti e i sovranisti alle porte. Una previsione? Entri la Corte! Di questo passo, è così che si dirà un giorno, quando per fare il punto sulla crisi in atto si convocherà d’urgenza la segreteria politica del partito.
· Democrazie mafiose. «La sinistra è una cupola».
DEMOCRAZIE MAFIOSE. L'altra faccia del sistema democratico. Panfilo Gentile. Dalla prefazione di Sergio Romano "La riedizione di un libro polemico non è mai un’operazione neutrale... Se potesse vedere ciò che è accaduto in Italia dopo il 1992, Gentile constaterebbe che il quadro è cambiato. La parola partito, anzitutto, è scomparsa dalla ragione sociale di un certo numero di formazioni politiche: Forza Italia, Democratici di sinistra, Alleanza Nazionale, Margherita, Lega Nord, Rinnovamento Italiano, Italia dei Valori, Socialisti italiani, Verdi, Il Sole che ride... Ma il declino dei partiti e la perdurante debolezza degli esecutivi hanno avuto il paradossale effetto di rendere l’Italia non meno mafiosa di quanto fosse all’epoca della Prima Repubblica. Mi servo della parola, naturalmente, nel senso usato da Gentile. "Mafiosi", in questo caso, sono gli organismi e le istituzioni in cui lo spirito di parte e l’interesse corporativo prevalgono, non dico sull’"amor di patria", ma su un’attenta e prudente considerazione dell’interesse generale. Al declino dei partiti corrisponde, in Italia, il rafforzamento delle corporazioni... Abbiamo finalmente un governo di legislatura che si proclama liberale. Ma non è riuscito a smantellare i veri nemici del liberalismo: le corporazioni... Se Panfilo Gentile, evocato dalle condizioni del suo paese, riapparisse come un personaggio di Pirandello dietro la macchina per scrivere fra i cani e i gatti del suo appartamento romano, avrebbe materia per un altro dei suoi folgoranti pamphlet. A noi non resta che rileggere l’ultimo della sua vita".
UN BRANO: "... le "democrazie mafiose" sono rappresentate da quei regimi che, nel quadro delle istituzioni democratiche tradizionali (volontà popolare, governo rappresentativo, accettazione delle decisioni di maggioranza e rispetto delle minoranze), riescono ad esercitare il potere ed a conservarlo attraverso il sistematico favoritismo di partito. In altri termini le democrazie mafiose sono regimi di tessera, né più né meno dei veri e propri regimi totalitari. La differenza tra i due sistemi è che nei regimi totalitari vi è una tessera unica mentre nelle "democrazie mafiose" sono consentite più tessere; ma siccome si tratta di tessere confederate al vertice si tratta pur sempre in definitiva di un’unica e stessa tessera: quella o quelle privilegiate di coloro che stanno al potere. Infine: la tessera del potere."
Descrizione. Panfilo Gentile può essere considerato come un discepolo di Gaetano Mosca e di Vilfredo Pareto almeno nel senso che egli, secondo l’insegnamento di questi eminenti maestri, cerca di individuare la realtà che si nascondono dietro le coperture ideologiche ed istituzionali di superficie. Le moderne democrazie vorrebbero essere ideologicamente ed istituzionalmente un governo del popolo e per il popolo. Ma che cosa sono poi realmente nelle concrete formazioni storiche che le incarnano? Sono, risponde Panfilo Gentile, delle oligarchie mai selezionate dai partiti che operano necessariamente una selezione della classe dirigente, chiudendo la porta ai migliori e aprendola ai peggiori. Sono delle oligarchie che, per accedere al potere, debbono gareggiare in demagogia e per conservarvisi debbono predisporre un pesante apparato di irregimentazione e di persuasione occulta degli elettori. Sono oligarchie che instaurano un regime di tessera e di politicizzazione faziosa di tutti gli organismi pubblici, dei quali hanno la direzione. Al sostantivo: democrazie, può quindi legittimamente accoppiarsi l’aggettivo: mafiose. Panfilo Gentile espone queste sue ricerche con serenità, anche se è nel suo stile di non risparmiare i colpi in punta di penna. Sotto questo profilo gli studi dedicati in ultimo ai falsi profeti, Sartre e Marcuse, sono di un’eleganza polemica rara negli scrittori contemporanei.
Un liberale eccentrico: ricordo di Panfilo Gentile. Vittorio Palumbo su istitutodipolitica.it il 13 Gennaio 2017. Anche nel nuovo anno, il quadro politico nazionale si evolve senza una vera direzione, prigioniero com’è dei suoi riti e dei suoi bizantinismi, rendendo più che mai attuali le analisi e le considerazioni di un fine pensatore, come è stato Panfilo Gentile. “Panfilino”, il nomignolo con cui lo chiamavano i suoi amici più cari, nato a L’Aquila nel 1889, si è connotato per essere, fino al momento della sua morte avvenuta a Roma nel 1971, uno degli spiriti più liberi dell’Italia del Novecento, ricoprendo, nello scorrere della sua lunga vita, una moltitudine di ruoli e professioni in linea, d’altronde, con la sua effervescente e poliedrica personalità: professore di Filosofia del diritto all’Università di Napoli, avvocato, uomo politico, saggista, giornalista, collaboratore di “Risorgimento liberale”, “La Stampa”, “Il Mondo”, “Corriere della Sera”, direttore de “La Nazione”, autore di opere fondamentali come Democrazie Mafiose, L’idea liberale, Cinquant’anni di socialismo in Italia, Polemica contro il mio tempo, Opinioni sgradevoli. A molti, forse, questo nome dirà poco ed è un peccato, trattandosi del liberal-conservatore più fine e genuino, del cervello più lucido ed insieme dello spirito più bizzarro e ricco di talento che la cultura italiana possa mettere in campo, accanto ai grandi maestri della destra europea, come Ortega y Gasset, Aron, Popper, anche se egli, per civetteria e provocazione polemica, amava definirsi “reazionario”, affermando, in Democrazie Mafiose (Ponte alle Grazie, Milano, 2005) che “…Ci sono epoche nella storia in cui si può andare avanti soltanto tornando indietro. Ci sono epoche di decadenza, nelle quali una civiltà che si credeva acquisita si viene disfacendo sotto i nostri occhi costernati…Bisogna ricominciare da capo, tornare indietro e recuperare ciò che si è perduto. Perciò oggi il progresso può significare solo reazione. L’unico modo di essere progressisti è di essere reazionari…”. Il suo anticonformismo, il suo spirito provocatorio, la sua avversità non solo verso la corruzione del sistema politico ma anche della sociètà italiana, il suo non avere mai “peli sulla lingua”, le sue critiche ironiche e pungenti nei confronti del sistema clientelare e di coloro che con esso si alimentavano, la coerenza del suo agire rispetto alle idee che professava, lo hanno condannato ad una sorta di “damnatio memorae”, che ne ha oscurato la figura di eclettico studioso e di acuto e pungente scrittore. Quanta attualità, ognuno di noi, può trovare nelle parole proferite nel 1969 (!) da Panfilo Gentile sul “Corriere della Sera” l’11.3.1969 nel corso di un’intervista in cui gli veniva chiesto se ritenesse che la crisi dei partiti politici potesse essere corretta, modificando il sistema elettorale: “…la situazione italiana sembra minacciata da una specie d’impotenza politica della classe dirigente. Formalmente tutto è in regola ma sostanzialmente niente funziona. Il governo non governa ma è governato dai gruppi più risoluti, che lo intimidiscono e lo paralizzano…ci sono i sindacati i quali, tra uno sciopero e l’altro, impongono al governo di assumersi oneri finanziari, per i quali non esistono altre coperture che i debiti e la speranza futura di un maggiore gettito delle entrate…c’è una magistratura che non riesce a rendere giustizia per mancanza di giudici, di locali ed attrezzature…c’è una scuola che quando non è in contestazione o in sciopero, non ha insegnanti di ruolo, né edifici…c’è una burocrazia che, per vetustà di leggi, non riesce nemmeno a spendere i fondi messi a sua disposizione. Tutti si agitano, tutti chiedono e il governo cede, abdica, si umilia promettendo leggi, improvvisando riforme e, soprattutto, dilatando sempre più la spesa pubblica. Perché tutto ciò? Perché la classe politica…è governata da una coalizione apparentemente di tre partiti, effettivamente di almeno cinque fazioni, spesso in dissenso reciproco e più spesso ancora in dissenso interno…potrebbe la classe politica auto-corrergersi? Anche i miracoli si dice che avvengano. Ma, senza un atto di fede, la realtà ci fa vedere un sistema rissoso di partiti e sotto-partiti, culla di passioni ideologiche e di ambizioni personali inconciliabili…”. Panfilo Gentile non si stancò mai di chiamare, soprattutto nei suoi articoli di fondo sul “Corriere della Sera” in materia di politica internazionale ed economica, pubblicati a partire dal 1956 fino al 1970, le cose con il loro vero nome, anche quando per farlo bisognava pagare un prezzo, apparire bastian contrari, contrastare i luoghi comuni dell’egualitarismo ed il suo spirito provocatorio si spinse fino al punto di attaccare il massimo tabù dell’epoca, la democrazia, facendone notare i limiti e le pecche. A suo giudizio, infatti, il suffragio universale conduceva necessariamente alla partitocrazia, ad un regime cioè in cui le organizzazioni politiche, sotto forma di macchine ideologico-burocratiche, sequestrano il potere a beneficio dei loro dirigenti, iscritti, clienti, tirapiedi . Di qui la fondatezza e la fortuna del termine partitocrazia, appunto, che Panfilo Gentile forse non inventò, in quanto il merito viene di solito attribuito al costituzionalista Giuseppe Maranini, ma di certo impose, con veemenza, al vocabolario politico italiano (D. Fertilio, “Corriere della Sera”, 18.9.2005). In Democrazie mafiose così specificava cosa intendesse per tale definizione: “…Come io le ho individuate, le democrazie mafiose sono rappresentate da quei regimi che, nel quadro delle istituzioni democratiche tradizionali (volontà popolare, governo rappresentativo, accettazione delle decisioni della maggioranza e rispetto delle minoranze), riescono ad esercitare il potere ed a conservarlo attraverso il sistematico favoritismo di partito. In altri termini le democrazie mafiose sono regimi di tessera, né più né meno dei veri e propri regimi totalitari…si tratta, in definitiva di un’unica e stessa tessera: quella o quelle privilegiate di coloro che stanno al potere…la tessera del potere…”. Occorre precisare comunque, come ben spiegato da Sergio Romano (“Corriere della Sera”, 26.4.2014) che, in tale opera, Panfilo Gentile non usò la parola “mafioso” nel senso strettamente siciliano. Le mafie, nelle sue analisi, erano le clientele, le consorterie, le cricche, i cartelli, i clan professionali, tutte le organizzazioni che si erano progressivamente impadronite del corpo sociale italiano e non avevano altro scopo, nell’amministrazione della cosa pubblica, fuor che quello di proteggere ed ampliare il feudo dei loro interessi. Gentile fu tra i primi ad accorgersi che l’Italia, a dispetto della sua “bella” Costituzione, era diventata una partitocrazia, vale a dire un sistema il cui potere era uscito da Palazzo Chigi e da Montecitorio, per trasferirsi nelle segreterie dei partiti, sviluppando in lui una sorta d’intolleranza allergica agli ipocriti conformismi che stavano creando una nuova retorica nazionale, vacuamente progressista e non meno stucchevole di quella che aveva dominato l’Italia fascista. Di ciò egli se ne accorse sul campo dirigendo La Nazione di Firenze e assistendo dall’interno alla crisi del partito liberale, di cui era diventato consultore nazionale. Lo infastidivano, in particolare, gli articoli e le trasmissioni radiofoniche o televisive in cui si lasciava intendere che la responsabilità di ogni sventura fosse del capitalismo e dei padroni, alimentando in lui, così, quella peculiare capacità di critica che lo portò ad essere uno dei pochi commentatori politici di quell’epoca, capace di sgonfiare i palloncini dei luoghi comuni e delle formule corrette che stavano inquinando il linguaggio nazionale. L’attualità della concezione liberale di Panfilo Gentile consiste, allora, nell’aver compreso che il problema preminente, nell’ambito del sistema politico italiano afflitto da endemiche magagne etico-sociali, ora come allora, “…resta ancora quello di difendere l’individuo dal Potere, dai suoi abusi, dalla sua invadenza. Un ordinamento liberale è, prima di tutto, un ordinamento nel quale il Potere riceve delle regole e dei limiti; perché per il liberalismo è lo Stato che esiste per l’individuo e non sono gli individui che esistono per lo Stato…” (L’idea liberale, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002). L’auspicio è, dunque, che si concretizzi una riscoperta di questo geniale osservatore dei costumi politici italiani, oppositore irriducibile del “burocraticamente corretto”, troppo spesso colpevolmente trascurato dal mondo scientifico, culturale, accademico, così come anche ricordato in una delle sue Stanze da Indro Montanelli, il quale soleva dire parlando di “Panfilino” che “…il fatto che nelle librerie non si trovi più traccia di lui perché nessun editore ha più sentito il bisogno di ripubblicare dei saggi come Cinquant’anni di socialismo in Italia, Il genio della Grecia, L’idea liberale, significa che la cultura italiana non ha più nessuna idea di cosa sia la Cultura e quali siano i suoi veri valori…” (“Corriere della Sera”, 21.1.1997), per farci, ancora una volta di più, apprezzare l’universalità delle idee liberali, non esistendo paese al mondo in cui ridurre il ruolo dello Stato e far si che i politici debbano rendere conto del loro operato agli elettori, non avrebbe effetti positivi.
Il concetto ambiguo di democrazia mafiosa. Amelia Crisantino il 29 dicembre 2005 su La Repubblica. Quando nel 1969 venne pubblicata la prima edizione di "Democrazie mafiose" il termine «mafia» non era inflazionato e il suo autore Panfilo Gentile, ormai ottantenne, aveva sostenuto la prima polemica nel 1913 contro l' allora direttore dell' Avanti Benito Mussolini. Era un italiano anomalo, che proveniva dalla scuola dei grandi maestri politologi realisti dell' inizio del secolo scorso. I suoi maestri erano stati Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto. E lui, Panfilo Gentile, era stato socialista e aveva scritto sull' Unità di Gaetano Salvemini. Poi era stato tra i fondatori del "Mondo" di Pannunzio, era approdato tra i liberali, aveva firmato il "Manifesto degli intellettuali antifascisti" promosso da Benedetto Croce. Col passare degli anni il suo liberalismo era diventato sempre più amaro e conservatore, la sua vocazione a smontare i meccanismi demagogici della politica nella patria della retorica gli aveva creato l' isolamento intorno. Adesso la recente ristampa di "Democrazie mafiose" (edizioni Ponte alle Grazie) ci restituisce un libro molto «politicamente scorretto», che addirittura sembra profetico e si può benissimo adoperare come vademecum per leggere le nostre isolane vicende: non solo quelle più eclatanti legate alle imputazioni di Cuffaro, o al processo alle «talpe» e agli scenari che lascia intravedere, ma anche quelle minime e quotidiane. A esempio, per restare alla cronaca di ieri, l' incapacità del Consiglio comunale a eleggere un difensore civico. O il modo in cui si è risolta la protesta dei tassisti contro il rilascio di nuove licenze, col sindaco che diffonde un comunicato in cui - con linguaggio squisitamente premoderno - si discetta di «salvaguardare le prerogative» dei conducenti di taxi. è una questione di coerenza stilistica: nel generale cattivo funzionamento le lobby non fanno altro che assolvere la loro funzione, tutelano interessi di parte. Panfilo Gentile è fondamentalmente antidemocratico, come tutti i grandi liberali di destra. Identifica la democrazia con la demagogia, la manipolazione, la cortina di ipocrisia con cui la classe politica avvolge il Paese. Il suo bersaglio sono i partiti, composti da piccoli borghesi disoccupati e privi di una qualsiasi competenza professionale ma carrieristi, «imbevuti di clericalismo ideologico, portati all' intolleranza e allo spirito settario». Scrive che l' ideologia più dannosa è quella del progresso, l' ingenua fiducia che mette ipoteche sul futuro mentre spartisce il potere nel presente. Insomma è un vecchio conservatore, con qualche civetteria si definisce un «giacobino di estrema destra»: un osservatore scettico e disincantato, che già negli anni Sessanta denuncia il sistema delle tessere, l' inquinamento del sottogoverno e la corruzione che molti anni dopo sarebbero esplosi con Tangentopoli, il «politicantismo ecclesiastico» oggi di nuovo alla ribalta. è un critico non addomesticato dalle appartenenze, che mette in guardia contro «il pesante e costoso statalismo filantropico, utilizzato poi dai partiti a scopo clientelare e mafioso». Le critiche di Panfilo Gentile sono state respinte e in fondo ignorate sia dalla sinistra che dalla destra, i «senza chiesa» non sono stati mai ben visti in Italia. E del resto non poteva essere riconosciuto un critico tanto corrosivo, che nei suoi scritti finiva per dimostrare «come tutte le democrazie tendano ad essere mafiose». Semplicemente perché governate da élite demagogiche, che inseguono gli umori delle masse e le assecondano al solo scopo di conservare il potere. èlite che si sottopongono a fatiche sfibranti, a ritmi che richiedono una totale abnegazione. «La vita pubblica è assorbente, massacrante, promette a breve termine infarti e trombosi»: all' interno dei partiti l' impegno totale della propria esistenza è solo la prima delle condizioni necessarie per fare carriera. In una selezione all' incontrario che premia i peggiori, una volta presa la tessera quello che Gentile chiama «l' aspirante carrierista» è atteso da una serie di prove sempre più ardue, dove «si va faticosamente avanti solo a gomitate, per superare le posizioni acquisite, le invidie, le rivalità». Solo chi ha tenacia e determinazione va avanti nel gioco delle correnti di partito, riscoperte in questi giorni e presentate come l' essenza della democrazia. Tanta determinazione si esaurisce nella conquista e nella continua lotta per la conservazione del potere, il politico non ha competenze «né l' acquista strada facendo perché prepararsi significa leggere e studiare, il che non è consentito in chi è travolto in una frenetica attività ed agitazione psico-motoria». Il testo di Panfilo Gentile è di una sorprendente attualità anche quando riflette sullo zelo missionario che suggerisce di esportare la democrazia, iniziativa che «ha spesso fatto sembrare la politica statunitense inconcludente e fanciullesca». E se il rigore dell' argomentazione sfocia nel paradosso, lo stesso resta godibile: come esempio di un pensiero inattuale e sganciato dai dogmatismi, un pensiero di marca liberale mai praticato in Italia. Fosse vissuto oggi, l' intellettuale «inattuale» avrebbe avuto modo di vedere che i suoi caustici commenti, le sue intuizioni sul futuro, erano superati dalla realtà. Chissà cosa avrebbe scritto l' autore di "Democrazie mafiose" di fronte agli sviluppi di questi nostri anni. Provare a immaginarlo è come una scossa benefica, che senza filtri ci mostra i danni derivanti dall' assuefazione.
Panfilo Gentile. Gennaro Malgieri su Il Tempo il 31 Gennaio 2011. Negli ultimi sessantan'anni la partitocrazia ha assunto forme diverse, ma uguali sono state le modalità in cui si è espressa: l'occupazione del potere e della vita pubblica da parte delle forze politiche che, in tal modo, hanno travalicato i loro compiti istituzionali. Fenomeno antico denunciato nella seconda metà dell'Ottocento da Francesco De Sanctis, Ruggero Borghi, Marco Minghetti. Ma è stato nella seconda metà del secolo scorso che la partitocrazia si è sviluppata in forme abnormi tanto che un costituzionalista liberal-conservatore come Giuseppe Maranini ne denunciò la portata devastante nel sistema istituzionale e nella vita civile fin dal 1949 in un libro significativamente intitolato Il tiranno senza volto. Anche don Luigi Sturzo ne fece largo uso in polemica perfino con il suo partito, mentre vi dedicarono attenzione «scientifica» giuristi e studiosi di scienza politica come Carlo Costamagna, Giacomo Perticone, Lorenzo Caboara. Tuttavia, il polemista più acuto ed incisivo che ne ha denunciato la nefasta portata resta Panfilo Gentile, un grande conservatore (1889 - 1971) la cui attualità, a quarant'anni dalla scomparsa, risulta di una sorprendente attualità. Il giovane studioso Alberto Giordano, l'ha colta nel saggio - il solo organico finora dedicato al pensatore e giornalista abruzzese - «Contro il regime. Panfilo Gentile e l'opposizione liberale alla partitocrazia», edito da Rubbettino (pp. 284) nel quale non soltanto ripercorre le idee del singolare poligrafo, ma lo situa nell'ambito del vasto (e per tanti versi sconosciuto) dibattito del liberalismo del dopoguerra contro le degenerazioni del partitismo. Discepolo di Mosca e Pareto, appartenente a quella destra liberal-nazionale con connotazioni antifasciste cui pure erano legati conservatori del livello di Piero Operti e Mario Vinciguerra i quali, per un curioso scherzo del destino, vennero avversati soprattutto dall'antifascismo militante, Gentile attraversò tutte le stagioni politiche del Novecento. Fu All'Avanti! con Mussolini, a l'Unità con Salvemini, al Risorgimento liberale fra il 1945 ed il 1947, collaboratore de La Stampa, del Mondo, del Corriere della sera come editorialista e direttore de La Nazione. Ma fu su sullo Specchio, sul Borghese, su Libera Iniziativa e soprattutto sul Roma di Alberto Giovannini che Gentile formulò le sue critiche più spietate al totalitarismo partitocratico. Scrisse Storia della dottrina del contratto sociale, La concezione etico-giuridica del socialismo, l'Opera di Gaetano Filangieri, L'Essenziale della filosofia del diritto, Il Genio della Grecia, Storia del cristianesimo, Cinquant'anni di socialismo in Italia, e poi i tre volumi nei quali passò ad un vaglio rigorosissimo le distorsioni del sistema politico italiano: Polemica contro il mio tempo (1965), Opinioni sgradevoli (1968), Democrazie mafiose (1969), editi da Giovanni Volpe. L'«oligarchia delle mezze calzette», come scriveva Gentile, trova in questi tre saggi, più volte ristampati, la più limpida rappresentazione del suo pensiero politico, ma anche del suo disgusto nel vivere in un'Italia che sprofondava nel radicalismo politico e nel nichilismo morale. Ancora oggi, a riprova dell'acutezza e della preveggenza dell'analisi, non vi è possibilità di contestazione dell'assunto secondo il quale le nomenklature partitiche hanno proceduto «all'usurpazione degli oligarchi o meglio alla loro istintiva tendenza a frodare la democrazia e a creare dietro la facciata democratica un regime paratotalitario». Contesto, come mette il luce Giordano, nel quale cominciavano a prosperare le «democrazie mafiose» caratterizzate dalle oligarchie clientelari fondate sul «regime della tessera». Gentile nel definire le democrazie del suo tempo ne denunciava il tradimento dell'ideale democratico e l'instaurazione sostanziale di regimi caratterizzati da un lato dalla selezione d'una classe dirigente inadeguata, formata da personale politico non all'altezza, e dall'altro alla perdita del senso dello Stato. Perciò reputava più civile l'intervento diretto del popolo nella scelta della classe dirigente, anzi del «decisore» e quindi per l'introduzione nell'ordinamento della Repubblica presidenziale da opporre alla «partitopatia» e alle oligarchie partitocratiche. Per questo si considerava, come disse in un'intervista a Gianfranco De Turris nel 1969, pubblicata sul Conciliatore, «uno dei pochi reazionari che vi siano oggi», perché riteneva che «il governo dei popoli debba appartenere unicamente a chi dimostri di saper governare». Chi potrebbe contraddirlo?
Marcello Veneziani: «Vi spiego perché la sinistra è una cupola». «La sinistra è una cupola». MV, La Verità 6 settembre 2019. Titolo ed incipit dell’articolo di Marcello Veneziani sulla Verità sono da antologia. «La sinistra è un’associazione di stampo mafioso che detiene stabilmente il potere e lo esercita forzando la sovranità popolare, la realtà della vita e gli interessi della gente. Usa metodi mafiosi per eliminare con la rituale accusa di nazifascismo (o in subordine di corruzione) chiunque si opponga al suo potere. Si costituisce in cupola per decidere la spartizione del potere ed eliminare gli avversari, tutti regolarmente ricondotti a Male Assoluto da sradicare e da affidare alle patrie galere o alla gogna del pubblico disprezzo». Lo scrittore, filosofo ed editorialista va giù duro. La sua lettura di questa pagina deteriore di storia politica che stiamo vivendo si collega a un testo illuminante e dimenticato di Panfilo Gentile intitolato «Democrazie mafiose»: libro che, edito dalle Edizioni Volpe, ebbe poi una diffusione capillare dopo che Montanelli lo elogiò sul Corriere della Sera.
Veneziani: «Ecco il metodo della sinistra». Il giornalista e polemista Panfilo Gentile circa mezzo secolo fa anticipò con lucidità l’involuzione del sistema democratico e la trasformazione dei partiti in circuiti chiusi e autoreferenziali di stampo mafioso. Se avesse visto quanto sta accadendo oggi – con l’ esproprio del voto fino al disprezzo per la volontà popolare – si sarebbe ancora più convinto delle sue analisi. Per Veneziani la sinistra è ua «cupola» perché «si serve delle camorre mediatico-giudiziarie e intellettuali per imporre i suoi codici ideologici per far saltare i verdetti elettorali, per forzare il sentire comune e il senso della realtà, per cancellare e togliere di mezzo chi la pensa in modo differente. E si accorda con altri poteri tecnocratici e finanziari, per garantirsi sostegni e accessi in cambio di servitù e cedimenti: Mafia & Capitale. Metodi incruenti, ma di stampo mafioso -specifica nell’articolo – e tramite forme paradossali: perché calpesta la democrazia e si definisce democratica, viola le leggi, perfino la Costituzione – sulla tutela della famiglia, sulla difesa dei confini, sul rispetto del popolo sovrano – ma nel nome della legalità e della Costituzione».
«La violenza del lessico della sinistra». Il termine «Cupola» è forte, indubbiamente, ma Veneziani spiega che il lessico politico disinvolto e fuori misura non è un’invenzione sua, tutt’altro. E’ la sinistra che lo usa come una clava. Per cui l’unico metodo per fronteggiare « in modo adeguato la violenza ideologica e propagandistica della sinistra» è rispondere col suo stesso lessico. Del resto, basta leggere come vengono definiti i sovranisti, chi ha a cuore la difesa dei confini, della famiglia, della religione: «È trattato alla stregua di nipotino di Hitler, di nazista, di razzista. Accuse criminali, ma da parte di chi le rivolge, a vanvera, stabilendo un nesso infame e automatico tra amor patrio e xenofobia, difesa della civiltà e razzismo, amore della famiglia e omofobia», scrive Veneziani sulla Verità. E non dovremmo neanche difenderci di fronte a questi attacchi?, si chiede lo scrittore. E fa l’esempio dell’ «uso mascalzone dell’antifascismo che serve per isolare e interdire il nemico e poi nel nome della democrazia in pericolo per l’incombente minaccia della Bestia Nera, sono consentite le alleanze più ibride, senza limiti…». Sì, per tutto questo è giusto usare l’espressione «la sinistra è ua cupola», Veneziani è convinto: «è giusto alzare il tiro e accusare la sinistra tornata ancora una volta al governo senza passare dalle urne, di essere un’associazione di stampo mafioso, di pensare e agire come una cupola, di calpestare la gente e gli avversari con l’arroganza e la presunzione di essere dalla parte del Giusto da ricordare i più fanatici regimi comunisti… Dal Soviet alla Cupola». Applausi.
La sinistra è una cupola. La sinistra è un’associazione di stampo mafioso che detiene stabilmente il potere e lo esercita forzando la sovranità popolare, la realtà della vita e gli interessi della gente. Usa metodi mafiosi per eliminare con la rituale accusa di nazifascismo (o in subordine di corruzione) chiunque si opponga al suo potere. Si costituisce in cupola per decidere la spartizione del potere ed eliminare gli avversari, tutti regolarmente ricondotti a Male Assoluto da sradicare e da affidare alle patrie galere o alla gogna del pubblico disprezzo. Si serve delle camorre mediatico-giudiziarie e intellettuali per imporre i suoi codici ideologici per far saltare i verdetti elettorali, per forzare il sentire comune e il senso della realtà, per cancellare e togliere di mezzo chi la pensa in modo differente. E si accorda con altri poteri tecnocratici e finanziari, per garantirsi sostegni e accessi in cambio di servitù e cedimenti: Mafia & Capitale. Metodi incruenti, ma di stampo mafioso, e tramite forme paradossali: perché calpesta la democrazia e si definisce democratica, viola le leggi, perfino la Costituzione – sulla tutela della famiglia, sulla difesa dei confini, sul rispetto del popolo sovrano – ma nel nome della legalità e della Costituzione.
Su Panorama di questa settimana ho ricordato che giusto mezzo secolo fa un grande polemista e scrittore come Panfilo Gentile pubblicava un libro che ha descritto la parabola della democrazia italiana dalla partitocrazia alla mafia politica. S’intitolava Democrazie mafiose. Il notabilato del nostro tempo, di stampo mafioso, ha un chiaro imprinting radical-progressista, più una spruzzatina liberal, tecno-europea. Prima di lui Antonio Gramsci notava che quando una classe politica perde il consenso non è più dirigente ma dominante. E aggiungeva che era in atto “una rottura così grave tra masse popolari e ideologie dominanti”. Parlava del suo tempo, ma descriveva il nostro; gli attori di oggi sono mutati perché le ideologie dominanti oggi sono quelle eurosinistresi che hanno ripreso il potere in Italia pur essendo sconfitti dal voto, servendosi del camaleontismo dei grillini, che come alcune specie animali mutano pelle per salvarla. Spettacolare è stata la circonvenzione d’incapace intentata dai grillini per dare l’impressione di un’investitura della base al governo con la sinistra, una legittimazione di democrazia diretta, col surreale referendum della piattaforma Rousseau. A me ha ricordato un settembre di 220 anni fa, quando i giacobini nel 1799 intimarono all’arcivescovo di Napoli di fingere che San Gennaro avesse fatto il miracolo, il sangue si era sciolto, e dunque era favorevole alla Repubblica Napoletana, nata all’ombra dello Straniero, l’esercito francese repubblicano. Loro, i giacobini franco-napolitani, i nemici atei e “illuminati” della devozione superstiziosa, la usarono nel modo più cinico, più becero e blasfemo per ingannare la gente. Era la piattaforma San Gennaro…Voi direte, dai, ma associazione di stampo mafioso è un po’ eccessivo. Ma si tratta di fronteggiare in modo adeguato la violenza ideologica e propagandistica della sinistra e rispondere sul loro stesso terreno, col loro stesso lessico. Da una parte sapete che abuso disinvolto di etichette mafiose è stato fatto verso chiunque si opponga alla sinistra e ai loro compagni; ogni associazione anche semplicemente di truffatori o di arrivisti è diventata poi associazione di stampo mafioso; per chi non era proprio dentro alla cosca, s’inventò la formula curiosa di “concorso esterno” all’associazione mafiosa. Dall’altra parte pensiamo a cosa viene detto e scritto in modo martellante contro chi difende la sovranità nazionale e i suoi confini, la civiltà cristiana, la famiglia naturale: è trattato alla stregua di nipotino di Hitler, di nazista, di razzista. Accuse criminali, ma da parte di chi le rivolge, a vanvera, stabilendo un nesso infame e automatico tra amor patrio e xenofobia, difesa della civiltà e razzismo, amore della famiglia e omofobia. Ma perché chi ritiene prioritari quei principi, chi ha una visione diversa del mondo, per giunta in sintonia con la tradizione, col sentire comune e con la grande cultura che è alle nostre radici, e magari preferisce sul piano politico chi, seppure in modo grossolano, li difende o dice di farlo, dev’essere trattato in quel modo infame, silenziato e oltraggiato e non deve potersi difendere? Se dovessi compilare la lista delle infamie dovrei raccontare tanti episodi di intolleranza, di aggressione verbale, di disprezzo, di censura; ma non amo il vittimismo. C’è un uso mascalzone dell’antifascismo che serve per isolare e interdire il nemico e poi nel nome della democrazia in pericolo per l’incombente minaccia della Bestia Nera, sono consentite le alleanze più ibride, senza limiti, da Grillo a Berlusconi, i patti più loschi e persino i golpe bianchi più indecenti. Per questo è giusto alzare il tiro e accusare la sinistra tornata ancora una volta al governo senza passare dalle urne, di essere un’associazione di stampo mafioso, di pensare e agire come una cupola, di calpestare la gente e gli avversari con l’arroganza e la presunzione di essere dalla parte del Giusto da ricordare i più fanatici regimi comunisti. A proposito. Il comunismo promise libertà e uguaglianza ma una volta al potere fu il sistema totalitario più sanguinario e repressivo che la storia abbia conosciuto; ora, mutati i tempi, si vende come garante della libertà, della legge e della democrazia ma si ripresenta come associazione di potere di stampo mafioso. Dal Soviet alla Cupola. MV, La Verità 6 settembre 2019
Democrazia tradita. Democrazie mafiose. MV, Panorama n. 40 (2019). Mezzo secolo fa Panfilo Gentile pubblicò un affilato pamphlet sull’involuzione oligarchica delle democrazie e sulla trasformazione dei partiti in circuiti chiusi e autoreferenziali di stampo mafioso. Lo pubblicò nel 1969 l’editore Volpe, ma il libro uscì dalla ristretta cerchia dei lettori di destra perché Indro Montanelli lo elogiò sul Corriere della sera. Ci aveva visto giusto, Gentile, sull’involuzione mafiosa e partitocratica delle democrazie; ma non aveva ancora visto l’Italia, e l’Europa, dei nostri anni, la spaccatura verticale tra popolo e notabilato, tra sovranità nazionali e potentati interni e internazionali, l’esproprio del voto fino al disprezzo per la volontà popolare e gli interessi nazionali. È la quarta volta consecutiva che la sinistra in Italia si affaccia al governo non legittimata direttamente dalle urne. Letta, Renzi, Gentiloni, e ora si profila il quarto governo, non solo non scaturito dalle urne ma nato con lo scopo evidente di evitarle. Per adeguarsi al tono e al livello delle accuse che lancia la sinistra a chiunque governi senza il suo benestare – dittatura, ritorno al nazismo e al fascismo, leader anti-sinistra trattati tutti come delinquenti comuni – si potrebbe dire che la sinistra è un’associazione politico-culturale di stampo mafioso che elimina gli avversari con sistemi non democratici, mette a tacere i dissidenti con forme di omertà e discriminazione, s’impossessa del potere con metodi non democratici e impone un protettorato antipopolare funzionale ai codici ideologici e politici della cosca. Lasciamo il terreno melmoso delle polemiche e saliamo di un piano. Cosa sta succedendo alle democrazie europee? Le classi dirigenti si sentono assediate a nord dal modello Brexit, a sud dal modello Salvini, a est dal modello Orban e a ovest dal modello Le Pen. Sono i quattro punti cardinali del sovranismo, ma sono anche quattro forze maggioritarie nei loro paesi, tutte criminalizzate. Dietro di loro vengono esorcizzati gli spettri di Trump, di Putin, di Bolsonaro, di Modi, di Abe, e si potrebbe continuare. Forme diverse di primato nazionale e identitario rispetto al modello liberal-radical-dem della sinistra. Per trovare un modello diverso di rifermento si ricorre al modello cinese. Recensioni entusiastiche del Corriere della sera e de la Repubblica hanno accompagnato la traduzione del libro di Daniel A. Bell Il modello Cina, con un sottotitolo indicativo: “Meritocrazia politica e limiti della democrazia” (Luiss, prefazione di Sebastiano Maffettone). Il modello cinese non è una democrazia, ma è un regime liberista, oligarchico e comunista, col doppio primato del mercato e del partito. È un sistema capitalistico ma illiberale, in cui la sovranità popolare è in realtà un feticcio ereditato dai tempi di Mao, che elogiava il popolo ma poi lo rieducava con la forza, instaurando una sanguinaria dittatura. Ora quel tempo è passato, la Cina ha fatto passi da gigante, si espande nel mondo tra tecnica e finanza, dall’Africa all’Occidente; il turbo-comunismo resta catechismo di stato. Il capitalismo assume in Cina il ruolo che aveva la tecnologia per Lenin: la sua formula fu socialismo + elettrificazione, oggi la formula cinese è comunismo + mercato. Bell, canadese che guida una facoltà di scienze politiche e pubblica amministrazione in Cina, non sposa il regime cinese nei suoi tratti più repressivi, corrotti e totalitari o l’autocrazia di Xi Jinping ma lo addita come modello per la formazione di classi politiche competenti, per il controllo del consenso popolare e la nascita di una tecnocrazia vigilata sotto il profilo etico (l’ultimo travestimento dell’ideologia e del politically correct). La Cina diventa per l’Europa e in particolare per l’Italia (che coi grillini ha già sposato la via della Seta) il paese di riferimento per uscire dalla morsa Usa-Russia-India-Brasile più sovranisti nostrani e per limitare la democrazia. Un modello che ruota intorno all’Intellettuale Collettivo che è poi il Partito, la Setta, la Casta; è la Cupola a rilasciare o revocare patenti di legittimazione, a vigilare sulla democrazia e a stabilirne i filtri, i limiti e a deciderne gli assetti. Resta però irrisolto un molesto interlocutore, il popolo sovrano. Come aggirarne la volontà e come impedire – oltre che con le inchieste giudiziarie e le criminalizzazioni mediatiche – l’avvento di leader sovranisti? Il mio suggerimento non del tutto ironico è prendere esempio non dalla lontana Cina ma dalla lontana Roma del quinto secolo avanti Cristo: istituire i Tribuni della Plebe. Ovvero incanalare il consenso popolare, gli umori e legare i capi populisti verso quei ruoli d’alta magistratura. I tribuni della plebe sono difensori civici che rappresentano gli umori popolari, legittimamente nominati e ascoltati; ma poi a governare ci pensano i consoli e i patrizi (ora provvisoriamente consociati a un altro clan prodotto dalla piattaforma Rousseau). È forse la soluzione più equilibrata e meno truffaldina di limitare la democrazia: il popolo non esercita più la sovranità, ma solo il controllo tramite i tribuni. Il potere resta saldamente nelle mani del patriziato, delle oligarchie, delle cupole. Un compromesso, una divisione dei poteri, una regolamentazione “costituzionale” del potere mafioso vigente in Italia e per certi versi in Europa, dove governano leader di minoranza quasi ovunque, dalla Francia alla Germania, alla Spagna. Pensateci, è una soluzione per aggirare la democrazia e frenare i populisti. MV, Panorama n. 40 (2019)
· Comunismo… sopravvive soltanto in Italia.
Il ritorno di Mao, "Il Nuovo Mao". L'ultimo libro di Gennaro Sangiuliano è una lettura senza filtri sulla Cina di oggi alla conquista del mondo, si ma a che prezzo per noi? Oriana Allegri il 19 dicembre 2019 su Panorama. «Romperemo le ossa ai separatisti e li ridurremo in polvere». Sono le parole, durissime, di Xi Jinping durante la sua visita in Nepal a ottobre scorso. L'avvertimento del presidente cinese era rivolto non solo ai 20mila tibetani che vivono nel Paese, ma a tutti gli oppositori di Pechino, dai ragazzi dell'università di Hong Kong a Taiwan e alle minoranze musulmane in terra cinese, a cominciare dagli Uiguri. Parole che sono passate sottotraccia sui media internazionali. Ma, provate a immaginare cosa sarebbe successo se le avesse pronunciate uno qualsiasi degli altri leader mondiali, da Trump a Putin: si sarebbe scatenato l'inferno, tra vibranti proteste dell'Europa in primis, sempre pronta a parlare di diritti umani a patto che vengano calpestati in Paesi con i quali Bruxelles non fa affari, e attivismo civico nelle piazze. Invece, a pronunciarle è stato il “principe rosso” che regna a Pechino. E tutti sono rimasti in ossequioso silenzio. Xi Jinping è probabilmente l'uomo più potente del pianeta. E con lui bisogna fare i conti, analizzare le sue mire politiche e strategiche, ma – allo stesso tempo – indagare sulle pieghe finora rimaste nascoste della sua incredibile vicenda umana. Xi è presidente della Repubblica Popolare della Cina, segretario del partito comunista cinese ed è a capo della Commissione militare centrale, vero scettro del potere nella nazione più popolosa del mondo. Da dove viene, chi è e qual è il suo progetto globale ce lo racconta in modo avvincente Gennaro Sangiuliano nel suo ultimo libro “Il nuovo Mao – Xi Jinping e l'ascesa al potere nella Cina di oggi” (Mondadori). Il direttore del Tg2, che già ci aveva brillantemente raccontato Putin e Trump, questa volta si cimenta con l'impero Celeste, e lo fa con la sua penna da giornalista rigoroso, attento sia ai fatti che ai dettagli più umani. Ne viene fuori una biografia imponente, che con uno stile narrativo incredibilmente scorrevole e puntuale tratteggia per il grande pubblico non solo chi è il “principe rosso”, ma anche qual è il cambiamento epocale vissuto dalla Cina del Novecento; dalla Lunga marcia alla proclamazione della Repubblica Popolare nel 1949, dal “grande balzo in avanti” alle atroci purghe della Rivoluzione culturale, di cui è vittima lo stesso Xi Jinping, che incarna l'uomo nuovo, il nuovo Mao sopravvissuto ai campi di lavoro del regime cinese, e per questo resuscitato e rispettato al pari di un nuovo Messia. Ne “Il nuovo Mao” Gennaro Sangiuliano traccia i contorni di storie e personaggi che hanno profondamente cambiato il volto della Cina. A cominciare da Deng Xiao Ping, il condottiero che ha avviato quel poderoso cammino verso la modernizzazione culminato nel suo dire al popolo cinese che “arricchirsi è glorioso”. Una frase storica, che ha di fatto dato il via al galoppo economico del gigante cinese sul cavallo del capitalismo di Stato. Sangiuliano sa cogliere alla perfezione l'essenza stessa di quel rapido galoppo, che si incarna in Xi Jinping, il frutto di quel cambiamento e di quella lunga corsa. Classe 1953, sposato due volte, una figlia, la sua seconda moglie è Peng Liyuan, una cantante lirica molto amata e molto popolare in Cina. Cosa che ha reso la sua immagine meno polverosa rispetto ai grandi leader del passato, e molto più pop, vicina al suo popolo, creando un nuovo culto della personalità, direttamente proporzionale alla vastità dei suoi poteri. Fenomenale la sua ascesa al potere, dall'iscrizione al partito comunista cinese nel 1974, ai campi di lavoro, per poi tornare alla testa dell'impero Celeste. Dalla polvere alle stelle, la biografia di Gennaro Sangiuliano racconta in modo avvincente la storia di un uomo che è specchio della storia di un Paese che in pochi conoscono, e aiuta a comprendere le insidie che si nascondono dietro parole apparentemente suadenti come quelle sul progetto della “nuova via della seta”. La Cina ha bisogno di conquistare territori e lo fa in ogni modo, per garantire non solo la sopravvivenza ma l'arricchimento progressivo del suo popolo. Basti pensare alla sinizzazione dell'Africa, dove i cinesi hanno costruito infrastrutture in tutto il continente, e poi ospedali e scuole. In Kenya l'alta velocità recentemente inaugurata tra Nairobi e Mombasa viaggia su binari e treni cinesi ad alta tecnologia. Ma, cosa riceve in cambio la Cina da tutto questo? “Ridurremo in polvere gli oppositori”. E' bene non dimenticare queste parole di Xi Jinping quando ci si siede al tavolo con la Cina. Perché vale non solo per i tibetani o per gli Uiguri, ma per tutti quelli che ostacolano il glorioso cammino dell'impero Celeste. E' impensabile non avere rapporti economici con il gigante cinese, ma i leader mondiali dovrebbero imparare a memoria la biografia del “nuovo Mao”, per capire fino in fondo dove la Cina sta andando, e – soprattutto – a quale prezzo per tutti noi.
Quando Havel portò l'uomo e la libertà al cuore della politica. Il saggio di Stefano Bruno Galli racconta la «rivoluzione esistenziale» del leader ceco. Giordano Bruno Guerri, Giovedì 28/11/2019 su Il Giornale. Václav Havel aveva 32 anni nel 1968, quando fiorì quella «Primavera di Praga» che oggi lo sappiamo avrebbe rappresentato l'inizio del crollo dell'Unione Sovietica, avvenuto più di vent'anni dopo. La ribellione dei cecoslovacchi venne repressa con i carri armati, e il simbolo indelebile di quei giorni sarebbe stato Jan Palach, uno studente di filosofia ventenne che per protesta si dette fuoco in piazza San Venceslao. «Era semplicemente impossibile non partecipare», dirà Havel. Aveva già rappresentato qualche sua opera, ma non era conosciuto al di fuori del suo Paese, e gli fu impedito di lavorare ancora in teatro. Possiamo immaginare, nei nove anni successivi, la sua vita di oppositore a un regime a caccia di nemici. Tuttavia nel 1977 partecipò alla stesura di Charta 77, un testo di denuncia contro il mancato rispetto dei diritti umani, civili e politici. Ne sarebbe nata la cosiddetta «Rivoluzione di velluto», che non si opponeva direttamente al regime comunista, ma ne minava le radici e la sostanza. La reazione del governo cecoslovacco fu dura: i firmatari vennero bollati come «traditori e rinnegati» e «agenti dell'imperialismo», molti persero il lavoro, o la patente, o la possibilità di far proseguire gli studi ai figli. Membro di un «Comitato per la difesa dei perseguitati ingiustamente», nel 1979 Havel venne condannato a quasi cinque anni di carcere, che scontò interamente. Eroe e martire, amato per la sua grazia gentile, dopo la caduta del Muro e del comunismo, il 29 dicembre venne eletto presidente della Repubblica, e divenne immediatamente un mito di fama mondiale. Pochi mesi dopo, mai ci saremmo aspettati, al Premio Malaparte, che accettasse il nostro invito, ma presidente della giuria era Alberto Moravia, con Raffaele La Capria, Giuseppe Merlino e altri amici oggi scomparsi. E Graziella Lonardi era inarrestabile. La grande esperta e collezionista d'arte («Il più bel culo di Capri», amava definirsi, perché non si enfatizzasse troppo la sua intelligenza), aveva fondato il premio nel 1983, e lo avevamo già assegnato anticipando qualche Nobel - a Anthony Burgess, Saul Bellow, Nadine Gordimer, Manuel Puig, John Le Carré, Fazil' Abdulovi Iskander, Zhang Jie. Ci sarebbero state altre premiazioni memorabili, anche dopo la morte di Graziella, per merito di sua nipote Gabriella Buontempo, che ne ha raccolto l'eredità, però quella del 1990 fu indimenticabile. Ero stato cooptato nella giuria, pischello, per la mia biografia di Malaparte, e Graziella aveva saputo creare, attorno al premio e al fascino di Capri, un clima di mondanità colta e divertita. Fu così che una bella mattina (tardi, con comodo) mi trovai su una barchetta a motore con Havel, Moravia, La Capria, Umberto Eco e Gianni De Michelis, all'epoca ministro degli Esteri nel VI governo Andreotti. Per richiesta di Havel e allegria di tutti andavamo a trovare Rudolf Nureyev, ritirato nello scontroso arcipelago Li Galli, sulla scogliera amalfitana. Il danzatore più celebre di tutti i tempi ci accolse con una sua elegante tristezza, era già malato di Aids, e comunque la sua malattia era sentirsi vecchio, a 52 anni. Su una terrazza assolata di mare parlò della Madre Russia, che aveva abbandonato da tanto tempo, del suo rapido ritorno su invito di Gorbacev, e del male che aveva fatto il comunismo, però sembrava non gli importasse di niente. Havel lo consolava, De Michelis lo spronava a un futuro d'ottimismo. Erano tutti famosi, e fu come trovarsi in quelle foto - poi diventate storiche, per esempio quella celebre dei futuristi a Parigi - che il tempo trasforma, da semplice foto, a foto con didascalia: primo da sinistra... L'immagine diventa storica, ma prima e dopo la posa i protagonisti ciarlano del più e del meno, badando a essere brillanti, più che a fondare sistemi e movimenti. E così fu anche quella sera, quando in un night di via Tragara mi ritrovai a ballare duro con Eco, d'improvviso lieve, e De Michelis, lieve anche lui, con i suoi lunghi riccioli e le movenze di frequentatore assiduo di discoteche che pensate all'epoca scandalizzavano, ignari com'eravamo di chi sa quali ministri degli Esteri sarebbero venuti dopo. Havel accennava qualche passo, sorridendo e battendo lievemente le mani. Poco dopo si sarebbe dimesso dalla presidenza della Repubblica Cecoslovacca per non firmare gli atti che sancivano la divisione fra cechi e slovacchi, però nel 1993 sarebbe stato rieletto presidente della Repubblica Ceca, splendido rappresentante di una destra liberale. C'erano anche tante belle donne, e prima o poi forse racconterò meglio quella notte, che per ora ho ricordato soltanto per accompagnare il lettore alla recensione di un libro. Un ottimo libro, né biografia né saggio letterario e politico, piuttosto esplorazione di una mente, di una storia e di un'ipotesi politica: Václav Havel. Una rivoluzione esistenziale, di Stefano Bruno Galli (La Nave di Teseo, pagg. 117, euro 13). Havel teorizzava «Il potere dei senza potere», come si intitola il suo libro più bello, del 1979: cioè una gestione della vita pubblica non basata su una dottrina né sul potere fine a se stesso, ma come impegno civile di tutti. Insomma, preconizzò con la sua «rivoluzione esistenziale» - un populismo che ha avuto sbocchi molto meno esaltanti di quanto sperato. Galli, che è docente di Storia delle dottrine e delle istituzioni politiche e assessore alla Cultura della Regione Lombardia, sottolinea la teorizzazione di Havel, che «Non credeva alla rigenerazione dal di dentro del sistema politico consolidato», perché «l'alternativa al sistema doveva essere costruita attraverso una profonda rivoluzione culturale, educando i cittadini alla libertà»: dunque, il primato della cultura sulla politica, e basti pensare al ruolo - ben spiegato nel libro - di Milan Kundera, autoesiliato in Francia. «La vita stessa nella sua imperscrutabile, misteriosa varietà e incostanza, mai poteva costringersi nella grossolana gabbia marxista», disse Havel. Riguardo ai Paesi satelliti dell'Europa orientale, nota Galli, «è legittimo parlare di un sequestro. Città, popoli e paesi, che per una consolidata tradizione storica usi e costumi, modelli culturali e comportamentali, mentalità collettive e organizzazioni economiche e produttive appartenevano all'Occidente europeo, sono stati rapiti e sottratti allo stesso Occidente per una quarantina d'anni, sino alla caduta del Muro di Berlino». Da qui, oggi, la nostra percezione dell'Europa centrale come «altra» rispetto all'Occidente. Nel saggio denso di notazioni storiche, politiche, sociali - si scoprono perle come il primo discorso di Capodanno del presidente Havel, il 31 dicembre 1990: «Forse vi chiederete quale repubblica stia sognando. Vi risponderò: una repubblica indipendente, libera e democratica; una repubblica economicamente prospera e nello stesso tempo socialmente equa. In breve, una repubblica umana che serve l'uomo nella speranza di esserne ripagata; una repubblica di persone che abbiano una cultura adeguata, perché senza di essa non si può risolvere alcun problema, sia esso umano, economico, ecologico, sociale o politico». Anche da queste parti la stiamo sognando ancora, perché «La politica», aggiunse, «non può essere solo l'arte del possibile, ossia della speculazione, del calcolo, dell'intrigo, degli accordi segreti e dei raggiri utilitaristici. Che piuttosto sia l'arte dell'impossibile, cioè l'arte di rendere migliori se stessi e il mondo». Discorsi da intellettuale, si dirà con sufficienza, mentre oggi e qui il ruolo dell'intellettuale è stato relegato ai margini della politica, quasi associandola alle ideologie. Ma è evidente che non ne guadagna né la politica, né la qualità delle democrazie, né tantomeno i cittadini.
Antonio Socci sul comunismo: "Ecco perché sopravvive soltanto in Italia". Libero Quotidiano il 27 Ottobre 2019. Trent' anni fa, in questi giorni, crollava il comunismo dell' Est europeo. E - guardando alla storia successiva del nostro Paese - ci si chiede come sia stato possibile che, da allora, i (post) comunisti abbiano preso il potere in Italia. Infatti, in questi trent' anni, a fare il bello e il cattivo tempo e tuttora a comandare è proprio quella Sinistra politica e intellettuale sulla cui testa crollò il Muro di Berlino. Come e perché è potuto accadere? Oggi è un dato di fatto a cui siamo così assuefatti che neanche ci facciamo più domande. Ma se ci si riflette ciò che è avvenuto appare surreale. Dal "socialismo reale" al (post)socialismo surreale. Ci si sarebbe aspettati, infatti, dopo il 1989, che uscisse totalmente di scena quella Sinistra di obbedienza moscovita che aveva professato un' ideologia orribile e devastante, sostenendo dittature e tiranni stomachevoli, sistemi che avevano fatto fallimento dovunque in modo plateale. Era giusto sperare che calasse il sipario su quella Sinistra marxista che nel nostro Paese aveva fatto i suoi danni e che poi si era addirittura moltiplicata, nel '68, generando gruppuscoli ultracomunisti che hanno inflitto all' Italia anni orribili. O almeno ci si doveva aspettare che - per tornare ad avere una qualche presentabilità - quella Sinistra (non solo politica, ma anche intellettuale e mediatica) facesse un lungo esame di coscienza ideologico, un mea culpa pubblico, rinnegando radicalmente il comunismo, le sue leadership e tutta la sua storia. Autoassoluzione - Forse dovevano anche chiedere scusa agli italiani tutti e a quei lavoratori che avevano creduto all' inganno ideologico. Era doverosa insomma una lunga traversata nel deserto alla fine della quale emergesse una ben diversa Sinistra e con leadership che niente avessero a che fare col passato. Nulla di tutto questo è accaduto. Un veloce e opportunistico cambio di casacca, una rapida autoassoluzione e subito sono saliti speditamente sul carro del nuovo potere "mercatista" ed "eurista", pronti per andare a comandare - come in effetti fanno da decenni - mantenendo, del vecchio Dna comunista, l' arroganza ideologica, il senso di superiorità antropologica, l' intolleranza, la demonizzazione dell' avversario, la propensione pedagogica (danno lezioni agli altri dopo aver sbagliato tutto) e il presentarsi come salvatori della democrazia dalle minacce oscure, puntualmente impersonate dai loro avversari politici. Hanno anche aggiunto, a questi vecchi "pregi" della Ditta, quelli nuovissimi della "dittatura politically correct" e del conformismo eurista, per finire col malcelato disprezzo per l' italiano medio e per la sovranità popolare. Perché loro - ritenendosi la salvezza dell' Italia - sono persuasi di dover sempre e comunque stare al potere - facendo mille capriole tattiche - anche quando gli elettori li bocciano nelle urne o li fanno precipitare ai minimi storici. Si sentono e sono i fiduciari dei governi europei e tanto a loro basta. Com' è stato possibile? Il Pci aveva mostrato la sua profonda natura comunista facendosi trovare del tutto impreparato all' evento storico del 1989. Basti ricordare che Achille Occhetto, da Segretario del Pci, nel marzo 1989 - ovvero otto mesi prima del crollo del Muro di Berlino - apriva il Congresso del partito rispondendo duramente a Craxi che gli aveva chiesto di cancellare il nome "comunista". Occhetto, fra applausi scoscianti, tuonò: «Non si comprende perché dovremmo cambiar nome. Il nostro è stato ed è un nome glorioso che va rispettato». Otto mesi dopo, a novembre 1989, appena il Muro di Berlino viene preso a picconate, Occhetto si precipita a cambiare il "nome glorioso". Ma resta il partito di prima, lo stesso blocco di potere e lo stesso Segretario (infatti sotto il simbolo della Quercia del Pds era riprodotto quello del Pci con falce e martello). E' una delle più incredibili operazioni gattopardesche della storia politica italiana. Il partito democratico - Tanto che l' insospettabile Arturo Parisi, pur essendo stato uno degli inventori dell' Ulivo e uno dei fondatori del Pd, già Sottosegretario alla presidenza del Consiglio di Romano Prodi (colui che portò al potere i post-comunisti), questa estate, ha scritto due tweet molti significativi. Il 21 agosto, riportando la notizia del Corriere della sera sull' omaggio della Segreteria Pd a Togliatti («Orlando e Sposetti al Verano sulla tomba di Togliatti prima della direzione Pd»), Parisi commentava: «Come ogni anno la Segreteria del Pd ricorda col vicesegretario vicario la morte di Togliatti. Come meravigliarsi che invece di un partito nuovo il Partito sia vissuto nel solco di Pci/Pci-Pds/Pds/Ds/Pd?». E dopo questo tweet - che di fatto dava ragione a Berlusconi - Parisi, pochi giorni dopo, ne faceva un altro: «8 settembre 2019. Trent' anni dopo il Muro di Berlino alla Festa dell' Unità, ripeto Festa dell' Unità, Zingaretti è accolto al canto di Bandiera Rossa. Io non mi sorprendo Al cuor non si comanda È forse il Pd un partito nuovo? » Eppure questo è da anni il partito egemone in Italia.
Il culmine del potere post-comunista è stata la conquista del Quirinale, nel 2006, da parte di Giorgio Napolitano, uno che per anni aveva ricoperto incarichi di vertice nel Pci, fin dai tempi di Togliatti. Cosa sia oggi il Pd non è chiaro neanche ai suoi stessi dirigenti. Ma è chiaro che vuole restare al potere e la sua storia è quella descritta da Parisi ("nel solco di Pci/Pci-Pds/Pds/Ds/Pd"). Come conferma - del resto - la gaffe di Zingaretti sull' Urss, l' estate scorsa. Quando il comunismo è stato sconfitto dalla storia, i (post)comunisti hanno preso il potere in Italia. E lo tengono stretto malgrado gli italiani. Antonio Socci
Quel Muro tra due menzogne. La "barriera protettiva antifascista" fu eretta a Berlino contro un pericolo inesistente. E l'Europa non è nata come risposta ai nazionalismi. Marcello Veneziani l'11 novembre 2019 su Panorama. Il Muro di Berlino sorse su una menzogna e la sua caduta il 9 novembre di trent’anni fa generò un’altra menzogna. La prima, grande menzogna fu come venne presentato dal regime comunista ai tedeschi dell’Est: «barriera protettiva antifascista», come la definì il capo del regime comunista di Pankow, Walter Ulbricht. Ovvero lo scopo per cui era stato innalzato era proteggere la Germania comunista da un ipotetico, minaccioso attacco fascista. I fascismi erano ormai morti e sepolti da tanti anni, nuovi fascismi non s’intravedevano all’orizzonte e mai la Repubblica «democratica» tedesca fu minacciata alle sue frontiere da qualsivoglia pericolo, infiltrazione o invasione. L’unico vero motivo per cui sorse quel Muro e che la storia tragicamente comprovò fu di impedire la libera uscita dei tedeschi orientali dal loro Paese, dalla metà di Berlino, anche solo per riabbracciare famigliari e amici che erano al di là del muro. Centinaia di tentativi, finiti tragicamente, morti sul filo spinato, abbattuti dai Vopos a dimostrare che nessuno voleva introdursi nella Germania comunista ma tanti volevano uscirne. I flussi erano in una sola direzione. Era la prova più evidente del fallimento di un regime poliziesco e repressivo. Ma la mistificazione propagandistica continuava ad agitare il pericolo della reazione in agguato, l’imperialismo fascio-capitalista occidentale...Dopo 28 anni quel Muro si sbriciolò e tante furono le cause generali ma resta un mistero perché sia avvenuto così, senza resistenze e contrasti. Si disse che il mondo era cambiato, il comunismo aveva perso la sfida col capitalismo occidentale, il mondo si faceva globale, i media volatilizzavano le frontiere e portavano nuovi modelli di vita, il consumismo trionfava. Tre figure, in modi diversi, avevano contribuito a smantellare il Muro: il presidente americano Ronald Reagan e il suo scudo stellare, il papa polacco Karol Wojtyla e il movimento di Solidarnosc, il presidente russo Mikhail Gorbaciov con la glasnost e la perestrojka. Ma una seconda grande menzogna è poi cresciuta sulle rovine del Muro e della sua memoria e tuttora si tramanda, anzi è accresciuta da quando sono sorti i nazional-populismi e i sovranismi. Si ripete sempre nei discorsi ufficiali, nelle rievocazioni istituzionali e nelle narrazioni dominanti che l’Europa unita scaturita dopo il crollo del Muro sia nata contro i nazionalismi, in risposta a essi. Un falso storico grande come il Muro. L’Europa fu possibile, coi suoi trattati, da Maastricht a Schengen, e il suo allargamento a Est, solo perché era caduto il comunismo, la cortina di ferro; e perché non c’era più l’alibi del bipolarismo Est-Ovest che costringeva mezz’Europa ad allinearsi all’Urss e l’altra metà agli Stati Uniti. Non era stato l’ostacolo dei nazionalismi a impedire l’unificazione europea. Dopo il 1945 il nazionalismo era stato sconfitto o era ininfluente, marginale coi regimi autoritari di Spagna e Portogallo. L’unico nazionalismo vigente in Europa dopo la guerra era franco-europeista, in funzione anti-egemonia americana: fu il sogno dell’Europa delle patrie, dall’Atlantico agli Urali, del Generale Charles de Gaulle. Dunque è solo una bufala politica e storiografica che l’Europa si sia unita affrancandosi dai nazionalismi. Il paradosso aggiuntivo è che più passano gli anni e più si accentua la fiaba antinazionalista dell’Europa mentre è scomparso nelle nebbie dell’amnesia collettiva e istituzionale l’eredità pesante del comunismo e le cicatrici che lasciò in mezza Europa. Si legge la caduta del Muro come un trionfo della società globale senza confini. Si abusa anzi della retorica sui muri da abbattere per giustificare i massicci flussi migratori e il diritto soggettivo e assoluto di ciascun abitante del pianeta di cambiare paese. Si dimentica un’elementare realtà: i muri più infami non sono quelli che impediscono di entrare, senza passaporto, a chiunque decida di venire, ma quelli che impediscono di uscire, nonostante il passaporto, ai propri cittadini in regola con le leggi, con lo Stato, con il fisco. Cadendo, il Muro di Berlino lasciò aperto il mondo ma in due direzioni opposte: una verso la globalizzazione e la società senza frontiere, l’altra verso le identità locali e nazionali. Del resto il Muro crollato non rese solo più aperto il mondo, ma unificò anche una nazione lacerata, come la Germania. Finì il dramma tedesco, una nazione martoriata da due sconfitte, due totalitarismi e dall’infamia della Shoah. La Germania riunita diventò esempio per le altre aspirazioni nazionali represse, a partire dall’est uscito dal comunismo. Il mondo non si fece unipolare, soggetto al Nuovo Ordine Mondiale; ma la frontiera tra est e ovest traslò in una barriera invisibile tra Nord e Sud del pianeta, tra centro e periferie, tra Occidente e Islam. Insomma la storia non finì tra le braccia dell’Impero americano e della democrazia liberale, come pensarono in quel tempo George Bush e il suo consigliere Francis Fukuyama. Ma riprese con altri scenari e altre linee di confine, altri spartiacque. Il Muro di Berlino lasciò due eredi, non uno solo, e due diverse idee dell’Europa. Una come integrazione delle nazioni in un progetto confederale e l’altra come «dis-integrazione» delle nazioni in un progetto cosmopolitico. Nazionalismo e internazionalismo, anzi sovranismo e globalitarismo ne sono i risultati. Con quel Muro finì una storia, se ne aprì un’altra. La nostra. Il mare è aperto ma tra le sue acque è riemerso l’arcipelago delle identità.
La censura sul Muro: ora è vietato parlare di comunismo a scuola. Sbianchettato il testo di Forza Italia-Lega-Fdi La sinistra: la dizione è "socialismo reale". Sabrina Cottone, Giovedì 07/11/2019 su Il Giornale. Sono passati trent'anni dal giorno della caduta del Muro di Berlino, quel 9 novembre del 1989 che per molti è un ricordo degli occhi e del cuore, ai ragazzi è stato tramandato tra racconti familiari e The Wall dei Pink Floyd, per tutti è una data entrata nei libri di storia e nei testi che si studiano a scuola. Eppure la condanna del comunismo divide ancora, e capita, è capitato ieri che in commissione Cultura alla Camera si dibatta un'intera seduta per censurare l'espressione «dittatura comunista» di stampo sovietico, e proprio in un testo che vuole impegnare il governo a verificare che nelle scuole si celebri realmente il «Giorno della libertà» istituito nel 2015. A opporsi all'espressione «dittatura comunista» è stato Nicola Fratoianni di Sinistra italiana, l'area della maggioranza più radicale che fa riferimento a Leu, sostenuto dal sottosegretario al Miur, Giuseppe De Cristofaro, ex parlamentare di Rifondazione comunista oggi esponente di governo di Si. Non è caduta «la dittatura comunista», ma «la dittatura del socialismo reale», la tesi sostenuta dagli esponenti di Sinistra italiana. È così partita una battaglia da azzeccagarbugli che ha impedito di arrivare a una risoluzione condivisa. Si spera che oggi un ritorno alla realtà di ciò che è stato riporti il comunismo nel testo, così da arrivare a una mozione unitaria. Ma nel frattempo la commissione Cultura della Camera, a trent'anni dalla caduta del Muro, è rimasta travolta per un giorno dalle vecchie macerie, a dibattere se quel 9 novembre a Berlino fosse davvero caduta la dittatura comunista o il socialismo reale. La risoluzione contestata è stata presentata da Fratelli d'Italia, con Paola Frassinetti come prima firmataria, dalla Lega con Daniele Belotti e da Forza Italia con Valentina Aprea. «Il 9 novembre ha rappresentato per milioni di persone il giorno della ritrovata libertà dopo decenni di dittatura comunista» il passaggio che ha fatto inciampare i parlamentari della sinistra radicale. Le risoluzioni presentate per la discussione congiunta, con l'intenzione di fonderle in una sola, sono state tre: una di maggioranza, una seconda a firma di Alessandro Fusacchia di +Europa, confluita nella risoluzione della maggioranza, e la risoluzione del centrodestra, la prima a essere depositata e quindi discussa. Si lavorava agli impegni per stendere una risoluzione unitaria quando si è levata l'opposizione dell'area radicale di Leu alla «dittatura comunista». Uno stop inatteso che ha riportato indietro di decenni l'orologio della storia. «Dopo la risoluzione del Parlamento europeo, il comunismo è equiparato ad altri totalitarismi. Per questo, la censura è da ritenersi odiosa e inaccettabile. Sotto la cortina di ferro del comunismo, sono morte milioni di persone» è la protesta sulle labbra di Federico Mollicone, capogruppo di Fdi in commissione Cultura. «È vergognoso come questo governo non ammetta la parola comunismo, come se nulla fosse accaduto. Quanto avvenuto in commissione Cultura è inaccettabile» commenta il leghista Belotti, capogruppo del suo partito in Commissione. E l'azzurra Valentina Aprea parla di «revisionismo storico» e aggiunge: «È fondamentale insegnare alle giovani generazioni che con la caduta del Muro ci siamo liberati dalla dittatura comunista di stampo sovietico. Noi combattiamo tutti e tre i totalitarismi del Novecento: comunismo, fascismo e nazismo. E nei Paesi del blocco sovietico la gente è stata privata della libertà a causa del comunismo».
In Parlamento un giro di parole per salvare l'idea comunista. Sabrina Cottone, Venerdì 08/11/2019, su Il Giornale. È caduto il comunismo quando è caduto il Muro? La domanda potrebbe sembrare semplice ma in politica non lo è, come dimostra il parapiglia in commissione Cultura della Camera, dove la sinistra radicale di Leu voleva espungere le espressioni «comunismo» e «dittatura comunista» per parlare di ciò che accadeva a Berlino Est, in Unione sovietica e negli altri Paesi d'oltrecortina. Meglio un più edulcorato «dittatura del socialismo reale» per trasmettere alle giovani generazioni la memoria di ciò che è stato. Il dibattito si è acceso proprio su una risoluzione che impegna il governo a moltiplicare le iniziative di ricordo della caduta del Muro nelle scuole e nelle università. Quasi fuori tempo massimo, all'antivigilia del trentesimo anniversario del 9 novembre 1989 dichiarato con legge del 2005 Giorno della libertà, è arrivato il compromesso storico, con una risoluzione votata da maggioranza e opposizione. In un soprassalto di senso della realtà storica, il «comunismo» è tornato a esistere insieme alla «dittatura». Ma, recita il documento, la «libertà» è stata ritrovata «dopo decenni di dittatura imposta in nome del comunismo». Non una dittatura comunista ma «una dittatura imposta in nome del comunismo». Un giro di parole politicamente corrette che è piaciuto a tutti, forse anche perché ciascuno è libero di interpretarle a proprio modo. «Imposta in nome del comunismo» può significare che il comunismo in sé non fosse un'ideologia perversa, come potranno leggere e supporre senza sussulti tutti coloro che ne sono orfani e anzi continuano a credere che nel Manifesto del Partito comunista, tra le parole di Marx e Engels, nel materialismo dialettico, nella lotta di classe, fossero nascoste giustizia, uguaglianza e fraternità, e se poi mancava la libertà poco male, ma era un bellissimo progetto di vita e società incompreso, realizzato peggio, trasformatosi in orrore e violenza, in un'eterogenesi dei fini che inevitabilmente rimane incomprensibile. Ma «dittatura imposta in nome del comunismo nei paesi del cosiddetto socialismo reale» può significare anche altro, quasi l'opposto, e cioè che quel «comunismo» che sarebbe morto il 9 novembre 1989, sbriciolato insieme al Muro di Berlino, in realtà non è morto, anzi è vivo e vegeto e lotta ancora contro di noi, nei Paesi in cui oggi esiste una dittatura imposta nel suo nome. Il Partito comunista cinese, la seconda formazione politica più grande del mondo, governa la Repubblica popolare cinese. Segretario e presidente sono un'unica persona che può rimanere al potere a vita. Non è l'unico Paese in cui ciò accade. Nella circolare del Miur alle scuole si parla della caduta del Muro come «evento simbolo per la liberazione di Paesi oppressi e auspicio di democrazia per le popolazioni tuttora soggette al totalitarismo». E allora una delle domande dell'oggi, a trent'anni dalla caduta del Muro, resta una grande muraglia anche a scuola. Esiste ancora o no la «dittatura imposta nel nome del comunismo»?
La storia del Muro diventa radical chic. Roberto Vivaldelli suit.insideover.com l'8 novembre 2019. A 30 anni dalla Caduta del Muro di Berlino lo spauracchio delle forze progressiste che vogliono riscrivere la storia diventa uno solo: il “sovranismo”. L’ex premier Paolo Gentiloni e commissario Ue designato ha spiegato a Porta a Porta che “questa ventata nazionalista, soprattutto nelle campagne e nei piccoli centri, va fortissimo e mette in discussione la democrazia liberale che quella notte aveva trionfato”. Dopo 30 anni, ha sottolineato Gentiloni, “rallegra avere tutto quello che abbiamo, ma non ci dimentichiamo che quella cosa che a noi sembrava scontata, la democrazia liberale, sarà il tema degli anni 20 del nuovo secolo, la posta in gioco vera sarà se questo sistema è davvero il sistema migliore”, ha spiegato il commissario Ue designato. Che cosa abbia a che fare la “ventata nazionalista” con la Caduta del Muro, che aprì la strada alla dissoluzione del sistema di potere costruito dall’Unione sovietica, nessuno lo sa, se non il tentativo di individuare nel “sovranismo” il “male assoluto” che minaccia la democrazia liberale di cui i progressisti, eredi del Partito comunista italiano, sarebbero – a loro dire – i soli portavoce. “Il trentennale dalla caduta del Muro di Berlino è una festa. Ma a metà. Perché mentre celebriamo una data così significativa per l’Europa, assistiamo alla rinascita di tanti piccoli muri nel nostro continente e nel mondo. Alcuni ideologici. Altri, purtroppo, reali. Muri fisici che puntano a dividere. Vendendo l’illusione di una maggiore sicurezza. Quando invece l’unica cosa che accrescono è l’intolleranza”. Spiega invece la senatrice Laura Garavini, vicepresidente del gruppo Italia viva di Matteo Renzi. “In questo momento storico – aggiunge la senatrice – l’unico modo per celebrare il trentennale della caduta del Muro è alzare la voce contro l’imbarbarimento della mentalità comune. Venti di destra soffiano in Italia, nella stessa Germania ed in tutta Europa”.
La Caduta del Muro e le strumentalizzazioni. Anche i vescovi europei, riuniti in assemblea plenaria, commemorano la caduta del muro di Berlino e lanciano un monito rivolto ai cittadini contro i sovranismi. Il Comece si è espresso mediante una dichiarazione: il Muro, spiegano, “ci ha insegnato che costruire muri tra i popoli non è mai la soluzione, ed è un appello a lavorare per un’Europa migliore e più integrata”. Come riporta l’agenzia Sir, il riferimento dei vescovi ai nazionalismo è eloquente: “Le ideologie, un tempo alla base della costruzione del muro, non sono del tutto scomparse in Europa e sono ancora oggi presenti, seppur in forme diverse”, hanno scritto. Si tratta di riletture strumentali, a fini politici e ideologici di un evento storico che andrebbe analizzato in ben altri termini. Innanzitutto sottolineando che una cosa è riflettere sulla fine del socialismo reale, ben altro è disquisire sull’unificazione della Germania e le importanti conseguenze geopolitiche che quell’evento ebbe sulla storia europea e mondiale. Come nota l’ex segretario di Stato Henry Kissinger in Ordine Mondiale, “la caduta del Muro di Berlino rapidamente al collasso dell’orbita dei satelliti dell’Urss, la fascia di Stati dell’Europa orientali assoggettati al sistema di controllo sovietico”. Il collasso dell’Unione sovietica, nota Kissinger, “modificò il carattere dell’azione diplomatica. La natura dell’ordine europeo risultò trasformata in modo sostanziale nel momento in cui non esisteva più una consistente minaccia militare proveniente all’interno dell’Europa. Nell’atmosfera di esultanza che seguì, i tradizionali problemi dell’equilibrio furono liquidati come ‘vecchia’ diplomazia, da sostituire con la diffusione di ideali condivisi”.
La fine della Guerra fredda e il trionfo dell’egemonia liberale. Alla fine della Guerra fredda, gli Stati Uniti si affacciarono sul mondo con la possibilità di esercitare un potere e un’influenza senza precedenti. Con la sconfitta dell’Unione sovietica e la conclusione dell’era bipolare, infatti, gli strateghi americani hanno cominciato a sognare di modellare il globo a immagine e somiglianza dell’unica superpotenza rimasta. Una visione ottimista del futuro ben espressa da Francis Fukuyama nella riflessione formulata nel saggio The End of History?, pubblicato su The National Interest nell’estate 1989, nel quale il liberalismo, agli occhi dell’illustre politologo, appare come l’unico possibile vincitore e meta finale dell’evoluzione storica dell’uomo e della società. Si faceva inoltre sempre più largo l’idea che le nazioni potessero essere superate e il realismo politico fosse ormai un lontano ricordo. Fu un grave errore. Come ricorda il professor Marco Gervasoni, già all’epoca qualcuno, come il grande Samuel P. Huntington, mise in guardia e spiegò che il ruolo delle nazioni, tutt’altro che diminuito, era addirittura cresciuto dopo il 1989, e che si sarebbe ulteriormente intensificato. Insieme a lui John J. Mearsheimer e tutta la schiera di “realisti”.
L’unificazione incompiuta. L’ultimo aspetto da analizzare riguarda la “mancata unificazione” e il grande divario fra la Germania dell’Est e quella dell’Ovest. Come nota il Fatto Quotidiano, “da qui bisognerebbe partire, se si vuol capire come l’ Unione stia perdendo l’ Est: dai modi e dai discorsi pubblici con cui l’ Est – Germania orientale in testa – è stato annesso e privatizzato, più che integrato e rispettato”. In Germania, ricorda Il Fatto Quotidiano, l’autocritica è in pieno corso, e non mancano libri che parlano dell’Est come di un Mezzogiorno ancora più dannato del nostro. Tra i tanti, quello di Daniela Dahn, già dissidente in Ddr, che invariabilmente denuncia le modalità di un’ unificazione cui dà il nome storicamente pesante di Anschluss, annessione. I cittadini dell’est hanno la sensazione di essere cittadini di serie B. Come riporta IlSole24Ore, il reddito di un cittadino dell’Est è comunque all’85% di quello di un cittadino dell’ Ovest, con un gap di produttività del 20% a favore della parte occidentale.
Muro di Berlino, un lungo addio. Quel collasso veniva da lontano. Pubblicato giovedì, 07 novembre 2019 da Antonio Carioti, su Il Corriere della Sera. Un libro a cura di Marcello Flores, per i trent’anni dalla caduta della barriera che spaccava in due la città tedesca, rievoca i giorni che segnarono la fine del comunismo. Sotto un profilo storico di durata medio-lunga, si può perfino sostenere che il Muro cominciò a crollare prima di essere costruito. Nel senso che la stessa edificazione di una barriera che tagliava in due Berlino, per impedire il deflusso degli abitanti dalla zona orientale a quella occidentale, segnalava la debolezza della Germania comunista e del blocco sovietico, incapaci di reggersi se non a prezzo di gravi misure coercitive esercitate sulla loro popolazione. Il libro a cura di Marcello Flores, in edicola con il «Corriere» a euro 8,90 Di quella precarietà si erano avvertiti forti sintomi ben prima del 1961, anno in cui il Muro fu edificato, a cominciare dalla rivolta operaia scoppiata proprio a Berlino nel 1953 e repressa dalle truppe sovietiche. Da allora il 17 giugno, giorno in cui la sommossa aveva raggiunto il culmine, venne celebrata nella Germania Ovest come giornata dell’unità nazionale fino al 3 ottobre 1990, data della effettiva ricongiunzione tra i due Stati divisi dalla guerra fredda. Insomma, non venivano certo dal nulla, né erano soltanto frutto della pur decisiva politica di Mikhail Gorbaciov, i fatti di trent’anni fa rievocati attraverso reportage e commenti apparsi all’epoca sul «Corriere della Sera» e raccolti a cura di Marcello Flores (che firma anche un’ampia introduzione) nel libro 9 novembre 1989. La caduta del Muro di Berlino, in edicola da oggi con il quotidiano. Quegli eventi clamorosi, che colsero il mondo di sorpresa, avevano origini lontane. Mikhail Gorbaciov guidò il Pcus dal 1985 al 1991 e cercò di riformare il sistema sovieticoUno snodo fondamentale, a tal proposito, fu proprio l’insurrezione del 1953, perché veniva non a caso dopo un evento che segnava una svolta epocale: la morte di Iosif Stalin, l’uomo che aveva di fatto plasmato in profondità il sistema sovietico (ancora piuttosto precario alla morte del suo maestro e predecessore Vladimir Lenin), lo aveva dotato di un possente apparato industriale, incentrato sulla produzione bellica, e lo aveva condotto alla vittoria nella guerra spietata contro gli invasori nazisti. Il prestigio derivante all’Urss dal suo contributo essenziale alla sconfitta del Terzo Reich e la personalità di Stalin, capo indiscusso di un movimento mondiale che dominava una parte assai rilevante della superficie terrestre e del genere umano, erano i due elementi di forza del blocco sovietico. La natura dispotica di quel sistema di potere poteva comunque essere giustificata dall’ostilità del mondo capitalista circostante, soprattutto per chi era disposto a credere che i Paesi comunisti stessero marciando, pur con inevitabili difficoltà, verso il progresso civile e l’eguaglianza sociale. La morte di Stalin privò tuttavia l’impero della sua guida, la cui leadership si basava su un misto di carisma personale e terrore diffuso, esercitato sull’intera società e sulla stessa classe dirigente dell’Urss. I suoi successori, liberi finalmente dal timore di cadere in disgrazia, pensarono di poter allentare la presa. E, al XX Congresso del Partito comunista, osarono sconfessare il capo defunto. La sfida era competere con l’Occidente sul piano della convivenza pacifica, garantendo un tenore di vita migliore agli abitanti del blocco comunista. Il calcolo si rivelò ben presto errato. La rivolta di Berlino fu il primo segnale che l’impero non si poteva tenere insieme senza usare la violenza. E la conferma venne nel 1956. Se in Polonia venne raggiunto un compromesso tra le aspirazioni all’autonomia dei comunisti locali e le esigenze del Cremlino, in Ungheria fu necessario usare i carri armati per reprimere una rivoluzione impetuosa. Poi venne la costruzione del Muro, nell’agosto del 1961, per evitare che la cosiddetta Repubblica democratica tedesca venisse dissanguata dall’esodo dei suoi abitanti attirati dal miracolo economico della Germania occidentale. Ancora più grave, nel 1968, fu l’invasione della Cecoslovacchia, perché ad essere schiacciato dall’Armata rossa fu un processo riformatore, la Primavera di Praga, avviato dallo stesso Partito comunista. Di fronte alla successiva nascita di Solidarnosc, sindacato che di fatto univa tutta la nazione polacca contro un regime esausto+, non restò che il golpe militare del dicembre 1981. La realtà ormai innegabile negli anni Ottanta era che il blocco sovietico viveva una sorta di schizofrenia strutturale tra gli ideali proclamati a parole, quelli di eguaglianza e libertà del marxismo rivoluzionario, e la realtà di un sistema oppressivo e inefficiente, retto soprattutto da un apparato spionistico e militare di proporzioni gigantesche. Ciò era palese nei più importanti Paesi satelliti (Germania Est, Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria), dove il consenso dei cittadini ai rispettivi regimi era assai ristretto. Il dato che spesso viene trascurato quando si paragona il Muro di Berlino ad altre barriere (quella costruita da Israele per bloccare le infiltrazioni armate o anche quella al confine tra Messico e Usa) è che spesso nella storia gli Stati hanno costruito fortificazioni per tenere fuori stranieri ansiosi di entrare nel loro territorio (si pensi alla Muraglia cinese o al Vallo di Adriano), ma lo sbarramento eretto dalla Germania orientale serviva invece a evitare la fuga dei suoi abitanti verso l’esterno. Denunciava la bancarotta di un sistema che non attirava nessuno, ma al contrario suscitava nella popolazione un’impellente desiderio di andarsene, anche a costo di rischiare la vita sotto i colpi delle guardie confinarie. Quando Gorbaciov cercò di colmare il divario tra ideali e realtà, come avevano cercato di fare prima di lui l’ungherese Imre Nagy e il cecoslovacco Alexander Dubcek, l’intero edificio cominciò a sfaldarsi. L’economia collettivista burocratizzata non era facilmente riformabile e la concessione di maggiori libertà civili era incompatibile con l’assetto a partito unico. La successiva frana conobbe nel 1989 un’improvvisa accelerazione, tanto da produrre l’unificazione tedesca con una rapidità che — lo sottolinea Flores — preoccupò anche esperti americani come Zbigniew Brzezinski, consigliere del presidente George Bush senior. Certo, come ha dichiarato a «la Lettura» del 16 ottobre l’ultimo premier comunista della Germania orientale Hans Modrow, quello Stato venne «barattato per denaro» da Gorbaciov in cambio degli aiuti concessi dal cancelliere occidentale Helmut Kohl. Ma si può vendere solo ciò che si possiede: la Repubblica democratica tedesca era appunto una creatura di Mosca, che poteva farne ciò che voleva. D’altronde nella stessa Urss la disgregazione del sistema si dimostrò inarrestabile. Il tentativo di bloccarla compiuto dagli aspiranti golpisti dell’agosto 1991, che cercarono di deporre Gorbaciov e di fatto consegnarono a Boris Eltsin l’opportunità per smembrare l’Urss, abortì soprattutto per la scarsa convinzione dei suoi fautori. Al comunismo leninista non credevano più gli stessi membri dell’oligarchia che con quella dottrina aveva giustificato il suo potere. Esce l’8 novembre e rimane in edicola un mese con il «Corriere della Sera» il libro 9 novembre 1989. La caduta del Muro di Berlino, a cura dello storico Marcello Flores, in vendita al prezzo di 8,90 euro più il costo del quotidiano. Il volume — nel trentennale della svolta che segnò l’inizio della fine della divisione dell’Europa determinata dalla guerra fredda dopo il 1945 — raccoglie corrispondenze, editoriali e interviste che apparvero sul quotidiano di via Solferino tra il 17 gennaio 1989 e il 5 ottobre 1990.
Caduta del muro di Berlino, 30 anni dopo: 10 film da vedere. Il 9 novembre 1989 crollava l'ultima barriera della Guerra Fredda. Celebriamo il trentennale con 10 film su Germania divisa e muri da abbattere. Simona Santoni il 6 novembre 2019. 15 anni dopo la seconda Guerra mondiale, il mondo era percorso dalla Guerra Fredda. Berlino era l'emblema della divisione: da una parte la Berlino Ovest, che comprendeva i tre settori di occupazione alleati americano, britannico e francese, dove l'economia aveva ripreso a fiorire sull'onda della modernizzazione. Dall'altra Berlino Est, filorussa, con i sovietici che assistevano alla fuga di tanti tedeschi verso occidente, alla ricerca di maggiore fortuna. È così che il 13 agosto 1961 i sovietici innalzarono il Muro di Berlino, a dividere in due la città, con la giustificazione di mettere un freno a questa fuga. I berlinesi subirono impotenti la separazione. Negli anni, 136 persone morirono nel tentativo di scavalcare il Muro, uccisi dalle guardie della Repubblica Democratica Tedesca o in seguito alle ferite riportate nell'impresa. Il 9 novembre 1989 è la data che ha cambiato la Storia: furono aperti i posti di blocco e decine di migliaia di berlinesi dell'Est oltrepassarono la frontiera, accolti festososamente dai berlinesi dell'Ovest. A 30 anni da questo evento epocale, consigliamo 10 film belli da vedere, che parlano di Berlino e del Muro, ma anche e semplicemente di muri, da abbattere e superare. Il 9 novembre, non a caso, è la Giornata nazionale contro tutti i muri.
1) Good bye Lenin! (2003) di Wolfgang Becker. In questa lista non può mancare Good bye Lenin!, film cult tedesco che restituisce con leggerezza un'immagine chiara del post Guerra Fredda. Dà luce a una realtà poco nota come quella di Berlino Est e alla "Ostalgie", ovvero la nostalgia della vita nella ex DDR, per noi occidentali tanto difficile da comprendere quanto misteriosa e affascinante. Con Daniel Brühl. Protagonista la famiglia Kerner di Berlino Est: nel 1989, la mamma entra in coma e si sveglia alcuni mesi dopo, con il Muro ormai crollato e la società mutata. Per evitarle lo choc, suo figlio fa di tutto per fingere che nulla sia accaduto. Per il trentennale della caduta del Muro di Berlino Good bye Lenin! torna al cinema, distribuito da Satine Film.
2) Le vite degli altri (2006) di Florian Henckel von Donnersmarck. Made in Germania, Oscar al miglior film straniero, è una storia di spionaggio ma non di azione e inseguimenti, è costruita su pensieri nascosti e segreti desideri sul filo di una tensione silenziosa. È ambientata nella Berlino Est del 1984, controllata dalle spie della Stasi. Ulrich Mühe, che purtroppo morì poco dopo l'Academy Award, interpreta un funzionario della Stasi che spia la vita di una coppia, registra ogni suo passo, fino a diventarne complice.
3) Uno, due, tre! (1961) di Billy Wilder. Un film che si compone a cavallo della costruzione del Muro di Berlino. Austriaco di famiglia ebraica che poi espatriò negli States, Wilder abitò la città fino fino all'ascesa di Hitler. Con i consueti toni della commedia, fa una satira sulla Guerra Fredda dal ritmo incalzante. Un dirigente della Coca Cola a Berlino Ovest vorrebbe vendere la bevanda anche nei Paesi comunisti, mentre la figlia del boss della multinazionale si innamora di un giovane della Germania Orientale...La realizzazione del film fu turbata proprio dallo storico innalzamento del Muro, il 13 agosto 1961, tanto che le riprese sotto la porta di Brandeburgo, punto di congiunzione tra Est e Ovest, furono ultimate in studio, dove il monumento fu ricostruito.
4) Il ponte delle spie (2015) di Steven Spielberg. Thriller di spionaggio dall'impianto classico ambientato durante la Guerra Fredda, plumbeo e solido, Il ponte delle spie va alla riscoperta di un meraviglioso eroe normale, James Donovan, interpretato da Tom Hanks. Avvocato idealista, nel 1962 Donovan negoziò per la Cia il primo scambio di prigionieri sul ponte di Glienicke in Germania, fra Usa e Urss. Nella Berlino fredda e austera, in cui si erge il Muro e un clima di sgomento, Donovan, chiuso nel suo cappotto e nella sua solidità morale, cercherà di ottenere il massimo. Non per la Cia, ma per il suo senso di giustizia, contro i forcaioli e in nome dei diritti civili.
5) Il giardino di limoni - Lemon Tree (2008) di Eran Riklis. Non solo Muro di Berlino. Film israeliano vincitore del premio del pubblico al Festival di Berlino, tra dramma e ironia Il giardino di limoni ci porta nel conflitto irrisolto in Medio Oriente tra palestinesi e israeliani, tra barriere fisiche e pregiudizi. Occhi neri e tenaci, Hiam Abbass è una vedova palestinese che vive in un villaggio della Cisgiordania. Il suo nuovo vicino di casa è il ministro della Difesa israeliano. Quando, per ragioni di sicurezza, le viene intimato di abbattere quel giardino di limoni che rappresenta il suo unico sostentamento e le sue radici, lei non si dà per vinta e porta la causa in tribunale. Troverà la solidarietà di un'altra donna, la moglie del ministro.
6) Torna a casa, Jimi! (2019) di Marios Piperides. Nicosia è l'unica capitale al mondo ancor oggi divisa. Da una parte, a sud, l'area greca, che fa da capitale alla Repubblica di Cipro, parte dell'Unione europea; dall'altra, a nord, l'area turca, che fa da capitale alla Repubblica di Cipro del Nord, non riconosciuta a livello internazionale. A separarle una recinzione militare. Torna a casa, Jimi!, opera prima del regista cipriota, ruota attorno a questa linea di divisione, mettendo a fuoco l'assurdità di certe disposizioni, preconcetti e "muri". Secondo la legge, nessun animale, pianta o prodotto può essere trasferito dal settore turco a quello greco. Così, quando il cane Jimi attraversa la zona cuscinetto dell'Onu, il padrone, il cantante fallito Yiannis (Adam Bousdoukos), deve inventarsi di tutto per riuscire a riportarlo indietro. Ma è più facile per un cane che per un uomo varcare il confine.
7) Il figlio dell'altra (2012) di Lorraine Lévy. A volte tutto dipende soltanto da quale parte del muro si nasce. Joseph vive a Tel Aviv, ma il suo sangue è palestinese: c'è stato uno scambio di culle alla nascita. Altrimenti sarebbe cresciuto in Palestina, nei territori occupati della Cisgiordania, dove si trova Yacine. Quando si scopre l'errore, con i due ormai ragazzi, le due famiglie (tra cui Emmanuelle Devos come mamma israeliana) provano ad avvicinarsi, ma le divergenze politiche sono troppo forti. Riusciranno invece a superare differenze e diffidenze i due giovani, entrando gradualmente nelle reciproche famiglie.
8) Tutti pazzi a Tel Aviv (2018) di Sameh Zoabi. La divisione è letta sotto forma di commedia dal regista palestinese Sameh Zoabi, che affronta il conflitto, l'occupazione e l'abuso di potere con leggerezza e soffiando sulla possibilità di dialogo. Kais Nashif, premiato a Venezia 2018 come migliore ottore della sezione Orizzonti, interpreta un giovane sceneggiatore palestinese che vive a Gerusalemme e scrive per la popolare soap-opera Tel Aviv brucia, prodotta a Ramallah. Ogni giorno, per raggiugere gli studi televisivi, deve passare attraverso un posto di blocco israeliano, dove è notato da un comandante la cui moglie è accanita fan della serie...
9) La gabbia dorata (2013) di Diego Quemada-Diez. Film spagnolo d'esordio, racconta la storia di tre adolescenti dei quartieri poveri del Guatemala che cercano di raggiungere gli Stati Uniti d’America, alla ricerca di una vita migliore. Il viaggio è lungo, a bordo di treni merci o seguendo a piedi i binari delle ferrovie. Intanto, con loro, riflettiamo sui confini che dividono le nazioni e su ciò che ci divide come esseri umani. A ispirare il regista, anche le parole di un messicano di nome Juan Menéndez López, pronunciate pochi istanti prima di salire a bordo di un treno merci in corsa: "Si imparano molte cose lungo il cammino. Qui siamo tutti fratelli, abbiamo tutti le stesse esigenze. L'importante è che impariamo a condividere. Solo così potremo andare avanti, solo così potremo raggiungere la nostra destinazione, solo un popolo unito può sopravvivere. In quanto esseri umani, non siamo clandestini in nessun luogo del mondo".
10) La zona (2007) di Rodrigo Plà. Opera prima del regista uruguaiano-messicano recentemente autore del film Un mostro dalle mille teste, La zona nel 2007 vinse il Leone del futuro come miglior esordio alla Mostra del cinema di Venezia, presentato alle Giornate degli autori. All'interno di Città del Messico "la zona" è un'area privilegiata di ricchi, che si tiene separata dalla miseria del resto del mondo tramite muraglie, reticolati, videosorveglianza. Quando per un guasto tre del mondo di là, di poveri e reietti, riescono ad entrare laddove la vita scorre serena e ovattata, si scatena una terribile caccia all'uomo.
La Guerra Fredda e i segreti della Stasi: reportage di Purgatori. Pubblicato giovedì, 07 novembre 2019 su Corriere.it da Aldo Grasso. Grande spazio è stato dedicato al ruolo della Stasi, «il più grande e impenetrabile servizio di sicurezza che la storia umana abbia mai conosciuto». Il 13 agosto 1961, per tamponare l’esodo di massa verso Berlino Ovest, le unità armate della Germania dell’Est costruirono quello che a Est chiamavano «barriera di protezione antifascista» e a Ovest il «muro della vergogna», un sistema di fortificazioni che simboleggerà per ben 28 anni la Guerra Fredda, fino a diventare un rudere metaforico prima ancora che di cemento armato. Sono passati 30 anni dalla caduta del Muro di Berlino, l’evento che nel 1989 ha segnato la fine dei regimi comunisti in Europa e della divisione del mondo tra Est e Ovest. Andrea Purgatori è andato a Berlino per riproporci non solo le scene di grande e inaspettata festa di quel 9 novembre, giorno in cui la notizia invase festosamente tutti i tg del mondo e le immagini dei picconatori del muro si ersero a simbolo, ma soprattutto per ricostruire le tappe che portarono alla costruzione di quella tetra muraglia, lunga 46 chilometri (più un centinaio di filo spinato lungo i confini occidentali della Ddr) e alta dai tre ai quattro metri, e per ricordarci che nuovi muri continuano a dividere i popoli: Berlino 1989, Mexico 2019 - Breaking The Walls (Atlantide, La7, mercoledì, ore 21,15). Purgatori ha anche intervistato Lilli Gruber, allora inviata del Tg2 nei giorni della caduta del muro, lo scrittore Peter Schneider, leader del ‘68 berlinese, il dissidente Harmunt Richter, che ha vissuto una rocambolesca fuga dalla Germania Est. Grande spazio è stato dedicato al ruolo della Stasi, «il più grande e impenetrabile servizio di sicurezza che la storia umana abbia mai conosciuto», come ha affermato Gianluca Falanga, autore del libro Il ministero della Paranoia. La Stasi diventa così una macchina perfetta e spietata, un grande occhio per vedere tutto, un affinato orecchio per sentire anche i sospiri (ricorderete di certo il film Le vite degli altri). L’idealismo diventa terrore, non è la prima volta.
Il crollo del muro, quel giorno in cui la Guerra fredda fu archiviata a colpi di piccone. Alessandro De lellis l'8 Novembre 2019 su Il Dubbio. 9 novembre 1989. Bisogna rendere merito anche alle classi dirigenti della Ddr e all’Urss di Gorbaciov di aver capito che il mondo era cambiato rinunciando a intervenire militarmente. Nulla era scontato, nei giorni dell’autunno 1989. La molla che muove il meccanismo del mondo spinse gli eventi a una velocità che nessuno, popoli cancellerie servizi segreti studiosi giornalisti si era mai azzardato a ipotizzare. Il regime comunista della Germania Est, guidato dalla SED, il partito- Stato, aprì i varchi del Muro di Berlino, o meglio subì la loro apertura senza intervenire, al culmine di mesi convulsi, durante i quali aveva tentato senza successo di impedire la partenza di centinaia di migliaia di tedeschi orientali verso l’Ovest. La dirigenza della Deutsche Demokratische Republik, per quattro decenni il gendarme dei sovietici in terra tedesca, era stata spiazzata dall’avvento di Gorbaciov e della sua perestrojka. Gli ultraortodossi, con in testa il vecchio leader Erich Honecker, avevano isolato il loro Paese, 17 milioni di abitanti, chiudendo uno dopo l’altro i confini con il resto del mondo socialista. Avevano represso i manifestanti a Dresda. Quando Gorbaciov dette il benservito a Honecker, dopo una visita a Berlino in occasione dell’anniversario della DDR, il 7 ottobre, si fece avanti un nuovo leader, Egon Krenz, ex capo della gioventù comunista, che tentò di salvare un regime senza più ossigeno. Una "legge sui viaggi" avrebbe dovuto placare i tedeschi orientali, concedendo loro quella libertà di muoversi che non avevano avuto per quarant’anni. Fu un provvedimento preso in fretta e furia. Il funzionario che lo annunciò in pubblico, il portavoce Guenther Schabowski, non era ben informato di quello che stava leggendo e disse che la norma entrava in vigore da subito. I comandanti dei posti di confine non erano stati avvertiti. Alla fine vinsero le masse, la gente di Berlino Est che cominciò a premere sui varchi. Il meccanismo militare, pronto all’intervento, non scattò. Il merito va alla dirigenza della DDR e a quella di Mosca. E fu un miracolo laico, pacifista e democratico nel senso più profondo, perché a decidere fu il demos, il popolo. Il 9 novembre 1989 segna l’inizio della fine del dopoguerra e riporta al centro della scena internazionale la questione tedesca, della quale Berlino è l’emblema. Una città divisa in quattro settori, nella quale la massima autorità era rappresentata dai comandanti militari delle potenze vincitrici contro il nazismo. Dove le compagnie aeree della Repubblica Federale non potevano atterrare. Dove si continuava a morire, nel tentativo di superare i circa 160 chilometri di muraglie di cemento e fili spinati che circondavano i tre settori Ovest, una barriera fatta costruire nel 1961 dai dirigenti della DDR per impedire l’emorragia di tecnici, operai specializzati, giovani, che dal settore orientale raggiungevano i quartieri occidentali per fuggire dal regime della Stasi. Qui il mondo aveva sfiorato due guerre mondiali, nel ‘ 48, all’epoca del blocco sovietico e del ponte aereo americano, e nel ‘ 61. ‘ Die Insel’, l’isola, così nella Bundesrepublik era chiamata Berlino Ovest, una bolla di libertà, consumi, capitalismo, circondata interamente dal territorio della DDR comunista. Col passare dei decenni, l’ex capitale ( o meglio la sua parte occidentale), era diventata un avamposto davanti alla Cortina di Ferro, popolato da anziani, da giovani alternativi che occupavano palazzi fatiscenti e da immigrati turchi. Un luogo per artisti ed eccentrici, alla periferia d’Europa. Oggi si fa fatica a spiegare come si viveva nella Germania divisa in due. Ma nell’ 89, in terra tedesca, sotto la sorveglianza armata dei due blocchi Usa e Urss, convivevano le eredità delle due tragedie del Novecento, le ferite lasciate dal nazionalsocialismo e la realtà del comunismo vincitore ma ormai estenuato. Una convivenza ad alto rischio, che era diventata normalità. A Ovest, nella Bundesrepublik, era cresciuta una generazione abituata al benessere e alla protesta liberamente espressa, soprattutto contro gli Stati Uniti. La riunificazione? Era roba da conservatori, da cripto- fascisti. A sinistra, soltanto il vecchio Willy Brandt afferrò subito quanto stava accadendo e lo sintetizzò con la frase “Adesso cresca insieme ciò che reciprocamente si appartiene”. Brandt, borgomastro di Berlino all’epoca della costruzione del Muro, l’uomo del paziente riavvicinamento a Est, della Ostpolitik. La socialdemocrazia fu colta di sorpresa dall’ 89, il leader Oskar Lafontaine era apertamente contro la riunificazione, vista come atto di espansione imperialista da parte di Bonn. Il miracolo del 9 novembre, un irripetibile equilibrio tra volontà di popolo e saggezza tardiva ma provvidenziale dei responsabili che si astennero dalla violenza, fece fiorire per qualche tempo l’illusione di una DDR realmente democratica. Senza repressione del dissenso, senza Stasi, la feroce polizia politica, con la libertà di viaggiare. Sozialismus UND Freiheit, socialismo e libertà. Ma l’equivoco era tutto in quell’ “Und”. Perché la DDR, creazione della Guerra Fredda, non aveva una ragione di esistere come Stato, se la logica dei blocchi cominciava a squagliarsi. I dissidenti, i difensori dei diritti civili, intellettuali e artisti, con il coraggio dei martiri avevano sfidato il regime e messo in moto la protesta, incoraggiati e protetti da una parte della Chiesa protestante. Avevano mostrato che si poteva vincere la paura. Ma quando le masse lo capirono, agirono a modo loro: con i piedi, con il corpo. Come del resto avevano cominciato a fare dall’apertura della Cortina di ferro, in estate, quando a centinaia di migliaia erano sciamati attraverso l’Ungheria, ufficialmente Paese “fratello” e dunque visitabile per i tedeschi orientali, per fuggire in Occidente. A capire quel “votare con i piedi”, l’essere pronti ad andarsene in cerca del sogno, fu Helmut Kohl. Fischiato la sera del 10 novembre a Berlino, dove era arrivato in tutta fretta interrompendo una visita in Polonia, il cancelliere inizialmente aveva tutti contro, tranne gli Usa di George Bush senior. Il suo piano in dieci punti per la riunificazione suscitò le ire della Thatcher, i sospetti di Mitterrand, le paure dei polacchi e il rifiuto di Gorbaciov. Uno a uno, Kohl e il suo ministro degli Esteri Hans- Dietrich Genscher seppero convincere o rendere neutrali tutti. Il governo cristiano- democratico e liberale agì come una classe dirigente di rango mondiale e riuscì in un altro miracolo: una Germania unita, democratica e pacifica, nel consenso delle due grandi potenze e dei vicini. Né la sinistra occidentale, né i coraggiosi movimenti per i diritti civili dell’Est capirono questo passaggio. I tedesco- orientali a maggioranza seguirono entusiasti Kohl, decidendo di credere anche alle sue bugie, come la promessa di “paesaggi industriali fiorenti” in breve tempo. L’unione monetaria precedette l’unione politica: il I luglio ’ 90 la DDR ( che formalmente cessò di esistere tre mesi dopo, il 3 ottobre) rinunciò alla sua moneta in favore del marco della Bundesrepublik. L’enorme sforzo finanziario che la Germania unita sta tuttora affrontando per le sue regioni dell’Est non ha ancora compensato del tutto la desertificazione industriale, lo spopolamento e lo sradicamento esistenziale seguiti alla riunificazione. Ma chi criticò i tedeschi orientali per aver scelto “le banane”, cioè le sirene del benessere, non capì che il popolo voleva uscire da un Eden carcerario e retrogrado, nel quale avere un telefono era un privilegio da nomenklatura e per comprare un’auto occorrevano 17 anni. Sì, viaggiare e consumare, come gli altri tedeschi, come cittadini del mondo. Anche questa è libertà. Proprio nell’ 89-‘ 90, il biennio dei portenti, mentre il Muro si sbriciolava, cominciarono a diffondersi i primi telefoni cellulari e Internet iniziò a connettere il mondo. Forse è un caso. Forse no.
«Una mamma mi disse: solo ora rivedo mio figlio». 30 anni dopo, Barenboim ricorda la caduta del Muro di Berlino. Pubblicato venerdì, 08 novembre 2019 su Corriere.it da Paolo Valentino, corrispondente da Berlino. Il direttore e il concerto storico per i ragazzi della La sera del 9 novembre 1989 Daniel Barenboim andò a letto presto. «Ero a Berlino in quei giorni, per registrare con i Berliner Philarmoniker. Avevamo provato tutto il giorno ed ero molto stanco. Sono andato a cena con Patrice Chéreau nel mio albergo, il Kempinski a Charlottenburg. Fu lui a dirmi che stava succedendo qualcosa ai varchi del Muro, ma non ci feci molta attenzione. Così andai a dormire». Il resto è già storia. Al mattino, quando la moglie lo svegliò presto dicendogli che era caduto il Muro, la sua prima reazione fu di pensare a un scherzo. Poi gli tornò in mente Chereau, si alzò di corsa, accese il televisore e si rese conto di aver mancato l’appuntamento del secolo. «Mi precipitai alla Philharmonie e l’orchestra mi fece una proposta: “Maestro, facciamo un concerto gratuito per la popolazione di Berlino”». Barenboim accettò, ma pose la condizione che fosse riservato solo a quelli di Berlino Est. Accadde una domenica mattina, il 12 novembre: «Fu una cosa incredibile — ricorda l’artista argentino — la gente si mise in fila di notte, dovevano presentare la carta d’identità della Ddr per poter entrare. Suonammo Beethoven, il Primo concerto e la Settima Sinfonia. Alla fine feci un piccolo discorso. Quando tornai in camerino, c’era una lunga fila di persone che volevano stringermi la mano. Si era fatto tardi, alle 4 dovevamo riprendere a registrare. Avevo giusto il tempo di mangiare qualcosa. Esco e sulla porta vedo una signora, avrà avuto 60 anni. Aveva un mazzo di fiori ed era insieme a un uomo giovane. Mi ferma. Mi dà i fiori e mi dice: “Mi sono sposata a Berlino Est 30 anni fa e ho avuto un figlio. Ma quando il bambino aveva 6 anni mio marito decise di fuggire all’Ovest, portandolo con sé. Non ho mai più avuto notizie e contatti con loro. Poi ieri sera alle 9 questo giovane ha bussato a casa mia. Sono tuo figlio, mi ha detto. Non ci credevo, sono stata travolta dalla felicità e dalla commozione. Così abbiamo deciso di festeggiare venendo al suo concerto. Siamo stati in fila insieme a parlare per tutta la notte. Grazie”. Non dimenticherò mai quella donna». Stasera, alla Porta di Brandeburgo, Daniel Barenboim chiude il cerchio, dirigendo la Staatskapelle, nel frattempo diventata la sua orchestra, nella cerimonia dedicata alla notte in cui i tedeschi furono «il popolo più felice della Terra». «Faremo ancora Beethoven, la Quinta, la sinfonia del destino. Ed è un rovesciamento interessante: allora ho diretto un’orchestra dell’Ovest per un pubblico dell’Est, questa volta dirigerò un’orchestra dell’Est per un pubblico in maggioranza dell’Ovest».
Lei dopo la caduta del Muro ha scelto di vivere e lavorare a Berlino. Come successe?
«La prima volta che ho diretto la Staatskapelle è stato nel 1991. Era il mio primo contatto musicale con l’orchestra. Avevano fretta dopo il crollo del Muro. Cercavano un nuovo direttore. Abbiamo tentato di organizzare un concerto, ma i due calendari non coincidevano. Così abbiamo deciso di fare solo una prova lunga con il Preludio di Parsifal. Quando sentii le prime note ebbi uno choc. Era il suono col quale ero cresciuto a Tel Aviv con l’Orchestra Filarmonica di Israele negli Anni Cinquanta. Era stata creata nel 1936 da immigrati ebrei del centro Europa: Germania, Polonia, Ungheria e Austria. Nella Ddr, a causa della chiusura dei confini e dell’assenza dei nuovi strumenti giapponesi, quel suono si era conservato nel tempo. Fu la motivazione principale che mi spinse ad accettare l’incarico».
Come ha vissuto nella città senza Muro?
«I primi dieci anni erano interessantissimi. Passeggiavi sull’Unter den Linden e pensavi di essere a Mosca. Andavi sul Kurfürstendamm e ti credevi a Parigi. Diventai molto amico con Heiner Müller, il grande regista. Insieme a lui ho fatto il Tristano al Festival di Bayreuth. Aveva una tesi interessante, che forse oggi rivaluto: la riunificazione della Germania, diceva, è stata un grande peccato. Ci sarebbe stata la possibilità di creare qualcosa di nuovo, tra socialismo e capitalismo, un sistema sperimentale».
Perché rivaluta questa tesi?
«Guardiamo ai Länder dell’Est. Lì un tedesco su 4 vota per l’AfD, un partito non solo di estrema destra ma anche con frange neonaziste. Sono stati sotto due dittature, nessuno ha spiegato loro cos’è la democrazia, non l’hanno vissuta. E poi c’è stato un trionfalismo occidentale non giustificato, molti tedeschi dell’Est hanno percepito l’unificazione come annessione. Ma nella Ddr non era tutto da buttare: l’istruzione, la sanità, le scuole di musica, la parità tra uomo e donna erano più avanzati che nell’Ovest».
Lei è amico di Angela Merkel. Cosa apprezza di più in lei?
«La cancelliera ama e conosce la musica e il suo aspetto culturale, ma il vero esperto in famiglia è il marito, il professor Sauer. Merkel è l’unica personalità politica che conosco che non si lascia mai invitare, insiste sempre per pagare i suoi biglietti. Nel 2007, quando venne alla Scala per il Tristano, nel ricevimento durante l’intervallo disse al sovrintendente Lissner che voleva pagare. Ma lui rispose che il palco reale, dove lei sedeva, non si poteva vendere. Lei volle ugualmente pagare il prezzo di due buoni posti in platea».
Trent’anni dopo questo Paese non è riconciliato sostiene Angela Merkel. È d’accordo?
«La cancelliera ha ragione. Restano molte distanze, a Est due cittadini su tre dicono di sentirsi tedeschi di seconda classe. Quando chiede a un berlinese cos’è tipico della città, vi risponde ancora nell’Est questo, nell’Ovest quest’altro. Il lavoro è ancora lungo».
È preoccupato dall’aumento degli episodi di antisemitismo in Germania?
«Certo che lo sono. Ad Halle, dove solo per caso non c’è stato un massacro. Anch’io ricevo messaggi e lettere spaventose. Qualche giorno fa, in una mail uno mi ha definito porco ebreo, dicendo che a causa mia non viene più alla Staatsoper. Le cause sono complesse. L’Olocausto stinge nella memoria, le autorità tedesche non tengono sempre la guardia alta. Ho deciso di vivere a Berlino quasi 30 anni fa perché sentivo che i tedeschi avevano fatto i loro conti con il passato. Oggi mi accorgo che qualcosa torna. Alcuni, non solo gli estremisti dell’Afd, dicono che 75 anni di colpa collettiva sono sufficienti. Sono segnali sbagliati. L’antisemitismo è una malattia».
Berlino celebra i 30 anni della rivoluzione pacifica che fece cadere il Muro. Presenti i leader di Visegrád. Partecipano anche i Paesi protagonisti della rivolta che mise fine al "Secolo breve": il 9 novembre del 1989 l'ultimo autunno della Ddr. Su La Repubblica dalla nostra corrispondente Tonia Mastrobuoni il 9 novembre 2019. Bernauer Strasse è ancora oggi un luogo pieno di memorie del Muro. Non è un caso che sia stato scelto come teatro principale per le celebrazioni del trentennale della rivoluzione pacifica che mise fine alla Ddr, il 9 novembre del 1989. Nel 1961, quando fu costruito, la Germania Est inglobò un tratto di quella strada nella striscia della morte. Gli abitanti delle case che affacciavano sulla frontiera cominciarono a buttarsi dalle finestre per non rimanere dalla parte sbagliata del Muro. Fuga dalla DDR, chi ce l'ha fatta e chi no: ''Ma in ogni caso è valsa la pena rischiare la vita''. Già nell'anno successivo, sotto la Bernauer Strasse alcuni irriducibili eroi della libertà costruirono i primi tunnel per salvare i tedeschi dell'Est dalla prigionia cui Walter Ulbricht li aveva condannati. E fino al 1985 la Chiesa della Riconciliazione che affacciava su quella strada rimase incastrata nella striscia della morte, prima che il regime la radesse al suolo. È stata ricostruita e restituita alle funzioni religiose, anche il campanile è stato ricostruito e inaugurato di recente: una parte della cerimonia si svolgerà anche qui. Ad oggi, Bernauer Strasse è uno dei rari punti della città dove sopravvivono resti della più orribile ferita che divise la Germania. Le celebrazioni ufficiali per il trentennale della caduta del Muro cominceranno in mattinata alle 9,30 alla sede della presidenza della Repubblica, al castello di Bellevue, con un saluto del capo dello Stato, Frank-Walter Steinmeier e i quattro leader di Visegrád. Presenzieranno il presidente della Polonia, Andrzej Duda, quello della Repubblica Ceca, Miloš Zeman, l'omologa della Repubblica slovacca, Zuzana Caputová e János Áder, capo dello Stato ungherese. I quattro accompagneranno Steinmeier e la cancelliera Angela Merkel anche nelle cerimonie successive. Alle 10,30 Merkel, Steinmeier e i quattro leader di Visegrad si sposteranno nella Bernauer Strasse, per ricordare la rivoluzione pacifica tedesca, successivamente visiteranno il monumento dedicato alle rivolte che aprirono una breccia nella Cortina di ferro anche nei Paesi dell'Est, dov'è previsto un discorso di Steinmeier. La cerimonia ufficiale si concluderà alle 11,15 con una dichiarazione di Merkel alla Chiesa della Riconciliazione. Nel pomeriggio il testimone dell'anniversario passerà alla città di Berlino, che ha organizzato dalle 17,30 un concerto in un altro luogo simbolico della città divisa, alla Porta di Brandeburgo che per tre decenni rimase inaccessibile, attraversata dalla striscia della morte. Tra gli ospiti, Daniel Barenboim, direttore della Staatsoper, la leggenda techno DJ WestBam, Anna Loos, Banda Internationale, Zugezogen Maskulin, Die Zöllner, Dirk Michaelis e Trettmann. Cinque anni fa, per il venticinquesimo anniversario della caduta del Muro, l'evento principale dei festeggiamenti era stata una passeggiata di Angela Merkel, Lech Walesa e Mikhail Gorbaciov sul ponte di Bornholmer Strasse, il primo varco che si aprì poco prima di mezzanotte del 9 novembre 1989.
L’anno più lungo dell’Europa. Andrea Muratore su it.insideover.com il 7 novembre 2019. La giornata del 9 novembre segna l’anniversario della caduta del Muro di Berlino, avvenuta nel 1989, di cui ricorre quest’anno il trentennale. La caduta del Muro fu uno degli eventi cruciali del decisivo 1989 che segnò l’inizio della fine della Guerra fredda, di cui la barriera eretta dalle autorità socialiste della Germania Est era divenuta il massimo simbolo. La caduta del Muro aprì la strada alla dissoluzione del sistema di potere costruito dall’Unione sovietica di Stalin nell’Est Europa nel secondo dopoguerra. Accelerò, senza esserne né il punto di inizio né quello conclusivo, un processo già in atto, che culminò tra il 1990 e il 1991 con la riunificazione tedesca, la transizione dell’Est Europa a un sistema di democrazia pluralista e economia di mercato (accompagnato molto spesso da gravi squilibri) e, infine, con il collasso della stessa Unione sovietica. La fine di un sistema senescente come quello del comunismo a guida sovietica riguardò tutta l’Europa orientale, secondo un effetto domino che travolse regimi politici caratterizzati da alterne fortune nel secondo dopoguerra, evaporati come neve al sole mentre esplodevano le contraddizioni che ne avevano causato la sclerosi. La stagnazione economica, la persistente influenza dei debiti contratti con le istituzioni finanziarie occidentali, la ripresa di movimenti a lungo repressi e facenti riferimento a orizzonti ideali diversi da quello comunista (Solidarnosc in Polonia), il collasso degli apparati securitari su cui si reggevano le burocrazie comuniste (come in Romania) o una convergenza di questi fattori travolsero, nel decisivo 1989, l’Europa sovietica. Tramontata formalmente due anni dopo, quando l’alleanza militare e strategica del Patto di Varsavia si sciolse ufficialmente. Ma scossa alle fondamenta nell’anno della caduta del Muro, in cui l’Europa vide la rimozione della sua faglia geopolitica e materiale più vistosa. E in cui, per un contrappasso storico, iniziò il processo di marginalizzazione del Vecchio Continente, che dal bipolarismo aveva tratto un’appendice di rilevanza strategica dopo il suicidio delle guerre mondiali, negli ordini mondiali dei decenni a venire.
Tutto parte dalla Polonia. La frammentazione dell’Europa sovietica iniziò dalla Polonia. Paese più importante, assieme alla Germania Est, dell’architettura di Mosca nell’Europa orientale. Interessata, a cavallo tra il 1988 e il 1989, da un’ondata di scioperi operai contro il regime guidato dal generale Wojciech Jaruzelski, salito al potere a inizio decennio per prevenire un’invasione sovietica dopo lo scoppio della protesta del sindacato cattolico Solidarnosc. Lech Walesa, leader di Solidarnosc, forte dell’appoggio del primo pontefice polacco della storia, Giovanni Paolo II, del rafforzamento della Chiesa cattolica polacca come elemento d’influenza nella società, di finanziamenti internazionali consistenti (tra cui quelli del Psi di Bettino Craxi) e della base operaia esaltata dalla propaganda comunista riuscì gradualmente a togliere il terreno dai piedi del regime. L’ondata di scioperi condusse alla convocazione delle prime vere elezioni della Polonia post-bellica nel giugno del 1989. La strategia di Walesa arrivò a compimento mesi prima che la caduta del Muro fosse anche solo lontanamente ipotizzabile: in un sistema ancora particolarmente ingessato, con un gran numero di seggi bloccati per il partito comunista egemone, Solidarnosc ottenne il 35%, segnando che il mutato vento della storia stava soffiando in direzione opposta al governo nazionale. Con realismo, Jaruzelski accettò il risultato, assegnando a Solidarnosc la guida di una coalizione di governo non comunista guidato dall’attivista del sindacato Tadeusz Mazowiecki. L’elezione di Walesa alla presidenza, l’anno dopo, avrebbe completato la transizione.
L’Ungheria abbatte il suo muro. I movimenti che animavano la Polonia si riverberarono ben presto sulla vicina Ungheria, in cui si erano già manifestate spinte autonome. Il futuro dell’Ungheria si aprì con la valorizzazione di un passato ben impresso nella memoria dei magiari: il perdono postumo comminato dalle autorità a Imre Nagy e agli altri eroi della rivolta antisovietica del 1956. Nel mese di giugno 1989 a Budapest, nella centralissima Piazza degli Eroi, Nagy fu solennemente commemorato in un evento che portò, tra le altre cose, alla notorietà un giovane politico liberale da poco rientrato nel Paese dopo la fine di una borsa di studio finanziata da George Soros: Viktor Orban. Poco prima l’esecutivo guidato da Miklos Nemeth aveva aperto a una serie di importanti concessioni: stop al monopartitismo, libere elezioni coi partiti democratici coinvolti e, nel mese di maggio, via libera alla rimozione della barriera elettrificata da quasi 250 chilometri che demarcava il confine con l’Austria. Dopo il primo, intenso semestre la transizione che portò alla trasformazione dell’Ungheria in una repubblica democratica tra il 1990 e il 1991 fu graduale e senza particolari scossoni.
Salta il tappo della Ddr. La mossa del governo ungherese aveva coinvolto direttamente la Germania Est, guidata dall’ultimo segretario-padrone della Sed il partito socialista unificato, Erich Honeker. Nell’estate 1989 decine di migliaia di tedeschi dell’Est iniziarono a viaggiare verso l’Ungheria per approfittare dei varchi aperti all’emigrazione. La marea montante delle manifestazioni portarono il regime a considerare più che plausibile l’ipotesi di schierare l’esercito per reprimere le proteste e le richieste di maggiore apertura e trasparenza nel Paese. La crescita delle tensioni interne al Paese portò il governo della Repubblica Democratica Tedesca (Ddr) a sperare nel sostegno dell’esercito sovietico stazionante nel Paese in risposta alla sempre più dura e forte contestazione. A nulla valsero i decreti di chiusura dei confini, l’irrigidimento del Politburo della Sed, le minacce di una repressione simile a quella cinese di Piazza Tienanmen: quando nell’ottobre 1989 Mikhail Gorbacev venne in visita per celebrare il quarantesimo anniversario della Ddr, comunicò a Berlino Est che Mosca non aveva la forza politica di supportare il mantenimento dello status quo nel suo “impero” e spronò apertamente una politica di riforme. Le parole di Gorbacev furono forse l’evento più significativo del 1989. Il Segretario del Pcus demoliva così in pochi giorni l’architettura politico-militare che aveva trattenuto nell’orbita sovietica i Paesi del Patto di Varsavia. Il destino politico di Honeker era segnato: il 18 ottobre 1989 fu destituito dal Politburo e sostituito dal suo vice Egon Krenz, che guidò la politica di riforme atta a conseguire l’emigrazione a Ovest dei suoi concittadini. La Ddr riaprì i confini e quando il 9 novembre i portavoce del governo socialista annunciarono il via libera all’emigrazione diretta tra Berlino Est e Berlino Ovest, migliaia di cittadini della capitale divisa si assieparono sul Muro eretto nel 1961, iniziando a demolirlo fisicamente per raggiungere l’Occidente. Il resto è storia. Una storia che parla della riunificazione più simbolica che reale della Germania, in cui tra Est e Ovest continua a persistere un divario economico e sociale non indifferente. Caduto il Muro fisico, trent’anni dopo, la sfida dell’integrazione tra le due Germanie deve ancora essere vinta.
Cecoslovacchia e Bulgaria, transizioni rapide e morbide. Praga e Sofia furono fortemente condizionate da quanto avvenuto in Germania Est. L’effetto domino travolgente della dissoluzione dei regimi comunisti esteuropei coinvolse la Cecoslovacchia nella seconda metà del 1989. Il Forum Civico dello scrittore e dissidente Vaclav Havel intensificò la pressione per la liberazione dei prigionieri politici, la fine della repressione e della censura, e il 17 novembre 1989 una manifestazione nella capitale per la Giornata internazionale degli studenti si espanse a macchia d’olio in un vero e proprio moto di rivolta contro il regime. Rivolta oceanica, permanente e incredibilmente disciplinata: le manifestazioni di massa che coinvolsero 800.000 persone e delegittimarono il regime comunista furono definite “rivoluzione di velluto”. In meno di un mese, il comunismo cecoslovacco evaporò, in parallelo a quanto fatto dalla Sed negli stessi giorni tra fine novembre e inizio dicembre il regime rinunciò al ruolo-guida del Partito sancito dalla Costituzione e fu avviata in maniera istantanea la transizione. Havel divenne Presidente, il Forum Civico vinse il voto popolare del 1990 e, nel 1993, la repubblica si scisse, dando origine alle attuali Repubblica Ceca e Slovacchia. La Cecoslovacchia era centro industriale e produttivo di grande importanza. La Bulgaria il piantone del Patto di Varsavia, forse l’unico vero Stato fantoccio privo di reale sovranità nel blocco sovietico. La tenuta del suo regime era vincolata all’esistenza del bipolarismo e della Guerra Fredda, e quando l’evento simbolicamente più significativo, la caduta del Muro, ebbe luogo, facendo capire a Sofia l’importanza del proclama neutralista dei sovietici, il vassallo veterostalinista Todor Zhivkov fu destituito in meno di 24 ore. La rapidità d’azione del Partito Comunista Bulgaro gli consentirono di sopravvivere alla fine della Guerra Fredda. Cambiata la pelle e rinnegato il marxismo-leninismo, la formazione assunse il nome di Partito Socialista Bulgaro e convocò, vincendole, le elezioni del 1990.
Il Natale di sangue rumeno. Anomalo nel contesto del 1989 fu il caso della transizione rumena. Il Paese più autonomo da Mosca, governato da Nicolae Ceaucescu, aveva pagato il suo avventurismo diplomatico e geopolitico e il suo avvicinamento eccessivamente incauto al blocco occidentale con la trappola del debito. La Romania di Ceaucescu aveva dovuto ricorrere a misure di austerità durissimeper ripagare i debiti contratti con le istituzioni internazionali. L’austerità e il razionamento di cibo, gas e altri beni di prima necessità furono, secondo molti analisti, funzionali a contenere dal 1981 in avanti la proliferazione del dissenso al di fuori di alcuni scioperi industriali e minerari. La Romania di Ceaucescu era uno Stato di polizia vigilato strettamente dalla famigerata Securitate, talmente solerte nel compiere il suo lavoro di repressione da prevenire la nascita di ogni possibile forma di dissenso. Mentre la Romania di Ceaucescu diventava il Paese più povero del blocco sovietico e i suoi tassi di mortalità infantile toccavano livelli da Terzo Mondo, il dittatore e la moglie Elena destarono scalpore per lo stile di vita lussuoso e la progressiva estraniazione dal resto del Paese. Il più emblematico esempio della paranoica volontà di autocelebrazione di Ceaucescu è il gigantesco, grigio e freddo Palazzo del Parlamento di Bucarest, cattedrale costruita nel deserto della Romania devastata dalla povertà. Ceaucescu non capì la necessità di compromessi o cambi di direzione. Quando le proteste di piazza iniziarono a moltiplicarsi anche in Romania, la dittatura reagì con brutalità. Centinaia di morti soffocarono le proteste che si estesero dalla Transilvania alla capitale Bucarest a partire dal 17 dicembre. Troppo per molti dei soldati e degli ufficiali delle forze armate, che iniziarono ben presto a ammutinarsi e a rivolgersi ai ranghi del regime desiderosi di svicolare da un confronto che rischiava di causare una devastante guerra civile. Data la struttura del potere rumeno, l’unica alternativa realisticamente possibile a Ceaucescu era una congiura interna al regime. Una resa dei conti interna. Così fu. Il 21 dicembre Ceaucescu infiammò a Bucarest una folla di 100mila persone; poche ore dopo, il ministro della Difesa Vasile Minea fu trovato morto in circostanze sospette. Suicida dopo esser stato destituito per ammutinamento, sostenne il regime. Ucciso per aver disobbedito, sostenne il neocostituito Fronte di Salvezza Nazionale (Fsn), formato da diversi membri di secondo piano dell’apparato e guidato da Ion Iliescu. A decidere l’esito della rivolta fu il sostituto Victor Stanculescu. Terrorizzato dall’idea di dover scegliere tra due plotoni di esecuzione (quello dei rivoltosi o quello del regime), Stanculescu guidò palesemente la rivolta delle forze armate. Sfruttando la situazione di caos per usarle contro il dittatore, assediato tra il 22 e il 23 dicembre dai manifestanti assiepati attorno ai palazzi di potere di Bucarest. Il tentativo di fuga in elicottero di Nicolae e Elena Ceaucescu fallì: tra il 24 e il 25 dicembre 1989 il Fsn guidò un processo-lampo contro il dittatore e la moglie che si concluse con la loro fucilazione. Il Natale di sangue rumeno concluse una decade durissima per il Paese, nella quale tra le 600 e le 1.000 persone persero la loro vita. Il golpe interno all’apparato di potere rumeno chiuse nella maniera più atipica l’anno della caduta del Muro. Il decisivo 1989: un anno al cui termine l’Europa si scoprì meno divisa ma, al tempo stesso, meno centrale nel mondo. Finito il bipolarismo, le vecchie faglie interne al continente avrebbero continuato a palesarsi. Lungi dal far finire la storia europea, la caduta del Muro l’ha rimessa in cammino.
Gloria Remenyi per ilsole24ore.com il 6 novembre 2019. Consultando i record sportivi della ex Germania Est, il nome di Ines Geipel (allora Ines Schmidt) non compare da nessuna parte. Eppure nel 1984 fu lei, insieme alle altre staffettiste della SC Motor Jena, a fermare il cronometro a 42,20 secondi sulla 4×100, stabilendo un incredibile record del mondo di società. Oggi accanto a quel risultato si leggono soltanto tre nomi (Bärbel Wöckel, Ingrid Auerswald e Marlies Göhr) e un asterisco. Quell’asterisco è Ines Geipel. Oggi affermata scrittrice, nonché docente presso la Scuola di Arte Drammatica Ernst Busch di Berlino, Geipel è stata un’atleta di punta della DDR: «Ho iniziato a correre per sopravvivere, per dimenticare e per scappare dal dolore» racconta. Nel 1977 la giovane Ines trovò nello sport una via d’uscita dalla famiglia opprimente in cui era cresciuta, con un padre che lavorava come agente della Stasi, la polizia segreta della Germania Est. Ma la fuga fu soltanto illusoria. Già nel 1974 il regime aveva approvato il Piano di Stato 14.25, che prevedeva la somministrazione forzata di steroidi anabolizzanti, ormoni e anfetamine agli atleti al fine di gonfiarne le prestazioni, incurante dei disastrosi effetti di queste sostanze, eufemisticamente definite “mezzi di supporto”. L’obiettivo ultimo era dimostrare la superiorità del socialismo e per conseguirlo ogni mezzo era considerato lecito. Così iniziò la parabola di una piccola nazione che diventò quasi invincibile in tutte le discipline sportive. Si diceva che gli atleti della DDR fossero «diplomatici in tuta», anche se Geipel preferisce definirli «un esercito di soldati civili». Secondo le stime più recenti le vittime del doping di Stato della DDR furono 15.000, di cui circa 10.000 donne. Tra di loro anche Ines Geipel. Per questo nel 2005, dopo il processo di Berlino e il riconoscimento formale come “vittima del doping di Stato”, la ex velocista pretese che il suo nome accanto al record venisse rimpiazzato da un asterisco. «Si preferiva dopare le donne perché su di loro l’effetto virilizzante degli ormoni maschili è nettamente più forte» racconta Geipel, che oggi a Berlino dirige l’Associazione per le vittime del doping da lei stessa fondata nel 2013. Ci parla di migliaia di atlete, in gran parte minorenni, che nella DDR vennero virilizzate chimicamente e sacrificate alla nazione a loro insaputa, rese invincibili sul campo e annientate nella vita. Le atlete della DDR conquistarono circa il 40% di tutti i titoli europei e mondiali vinti dal piccolo Stato e stabilirono record destinati a durare, di cui alcuni risultano ancora oggi imbattuti, per esempio quello di Marita Koch sui 400 metri piani (47,60 secondi; 1985) e quello di Gabriele Reinsch nel lancio del disco (76,80 metri; 1988). I loro strabilianti risultati non significavano soltanto prestigio politico per il Paese, ma valevano anche come prova lampante dell’emancipazione della donna nella Germania Est. Per tutto questo le atlete hanno pagato un prezzo altissimo. Una su tutte la pesista Heidi Krieger che a fine carriera, dopo anni di depressione e crisi, fu costretta a cambiare sesso per aver assunto lo steroide anabolizzante Oral Turinabol in quantità doppie rispetto a quelle di Ben Johnson a Seul 1988. Oggi si chiama Andreas Krieger. Sebbene la DDR sia oggi storia, non lo sono le esistenze devastate di queste atlete, le #donnedisport che raccontiamo in questo post. Nel 2000 Geipel si costituì parte civile contro i responsabili del doping di Stato della DDR al processo di Berlino, a seguito del quale il medico Manfred Höppner e il ministro dello sport Manfred Ewald furono condannati in quanto ideatori del sistema. Per Geipel e altre venti donne quello fu l’inizio dello svelamento: «Solo allora iniziammo a comprendere quello che ci avevano fatto e fu uno shock. Gli anni ’80 furono il periodo più spietato per lo sport e la violenza andava ben oltre il doping» così Geipel. Lei stessa fu “eliminata strategicamente” quando il regime ritenne che costituisse un pericolo per lo Stato, ovvero quando si innamorò di un atleta messicano e tentò senza successo di fuggire a Ovest. La Stasi intervenne, Geipel fu sottoposta a una presunta appendicectomia con cui le vennero inferte gravi lesioni all’addome; sopravvisse per miracolo, dovette lasciare lo sport e rassegnarsi all’idea di non avere figli. Solo tempo dopo seppe cosa le era accaduto. Nel 1989 riuscì a fuggire dalla Germania orientale attraverso il confine tra Ungheria e Austria. Con il team dell’Associazione, Geipel fornisce oggi assistenza a circa 2.000 ex atleti colpiti: «A distanza di 40 anni le vittime escono ancora allo scoperto. Spesso i corpi dopati necessitano di molto tempo per crollare, abituati come sono alla logica della prestazione. In più il timore e la vergogna scoraggiano molte vittime dal ricercare aiuto, specialmente quando si tratta di atleti che non si sono emancipati dal contesto in cui vivevano allora, caratterizzato ancora oggi da un’omertà diffusa che riguarda la stampa locale, i medici e i cittadini stessi» spiega la direttrice. Su 2.000 ex atleti assistiti, ben 1.500 sono donne. Dalle loro testimonianze emerge un complesso quadro di violenza strutturale: «Era un sistema patriarcale: in politica dominavano gli uomini, in ambito sportivo le allenatrici erano rare e molte donne medico si ritirarono strada facendo per ragioni etiche. L’ambiente divenne sempre più maschile e quello delle atlete invincibili si consolidò come un mito perverso. Lo sport era retto da dinamiche di pressione, sadismo e abuso. Migliaia di ragazze, in molti casi bambine sotto i 10 anni, vennero ingannate e depredate del loro sesso. Le atlete si fidavano di allenatori e medici che spacciavano pillole variopinte per vitamine e integratori. Oggi vengono al consultorio e scoppiano in lacrime. Soffrono di problemi psichici come depressione, psicosi e bulimia. La loro ossatura è distrutta per il sovraccarico degli allenamenti. In molti casi hanno subito un’interruzione dello sviluppo, il che significa ovaie atrofizzate e sterilità. Se rimangono incinte, sono soggette ad aborti spontanei. Quando partoriscono c’è la possibilità che i figli siano disabili. Per via degli ormoni alcune presentano irsutismo, altre invece perdono completamente peli e capelli. C’è chi non ha sviluppato il seno. In queste condizioni la vita diventa per le vittime un inverosimile atto di forza». Finora l’Associazione diretta da Geipel è riuscita a ottenere due leggi che riconoscono un’indennità alle vittime del doping di Stato della DDR. La prima legge riguardava 200 atleti, la seconda 1.000. Il prossimo obiettivo è ottenere una pensione politica anche per i bambini colpiti nella seconda generazione, ad oggi già 300: «L’indennità significa molto perché è una forma di riconoscimento di cui le vittime hanno estremamente bisogno» commenta Geipel. All’Associazione gli ex atleti ricevono molteplice assistenza (psichiatrica, giuridica, burocratica ecc.). Presto verranno attivati dei gruppi di autoaiuto e si potrà contare su una rete di medici specializzati. Geipel è inoltre impegnata nella ricerca di un finanziamento stabile: «La politica fa soltanto lo stretto necessario. Lo sport non ne vuole sapere: molti dei tecnici attivi durante la DDR sono stati integrati nel nuovo sistema. Negli uffici pubblici c’è chi ancora disconosce il doping di Stato». Oggi Ines Geipel va a correre ogni volta che può: «Questa passione non se n’è mai andata» dice sorridendo, «ma non provo più gioia né entusiasmo per le manifestazioni sportive internazionali. Nei corpi degli atleti e nelle loro prestazioni intravedo la lunga catena di interessi che regola la chimicizzazione dello sport. Tutti ne sono responsabili, dal medico all’allenatore passando per la politica e i fan, invece è quasi sempre l’atleta il capro espiatorio, anche quando il doping è il risultato di una cospirazione. Temo che oggi in Russia molti atleti ignorino di cosa sono vittime. Per una medaglia d’oro della DDR sono stati “bruciati” 80 bambini. La lista dei morti conta circa 500 persone, più di quanti ne abbia causati il Muro di Berlino. Lo sport esisterà sempre, ma dobbiamo porre fine a questo massacro».
Silvia Ronchey per “Robinson - la Repubblica” il 6 novembre 2019. Si dice che l' impero romano sia caduto nel 476, sotto l' onda d' urto delle cosiddette invasioni barbariche. Ma se osserviamo la storia nelle sue onde lunghe anziché nelle increspature di superficie, come ci ha insegnato lo storico novecentesco Fernand Braudel, e guardiamo ai millenni piuttosto che ai secoli o tanto meno ai decenni, vediamo che in realtà l' impero romano è caduto nel 1989, insieme al Muro di Berlino. Nel quinto secolo l' impero romano non cadde, perché aveva già cambiato indirizzo. Costantinopoli, la nuova capitale che l' imperatore Costantino aveva fondato nel 330, in quell' est del mondo che ciclicamente si impone alla gravitazione della storia, non era una Seconda Roma solo di nome. Lo era e lo sarebbe stata di fatto. In quello che fu chiamato impero bizantino, ma che i suoi cittadini continuavano a chiamare "romano", si trasferirono senza soluzione di continuità non solo la tradizione statale e l' eredità giuridica dello stato romano tardoantico, ma anche la sua più importante eredità civile: la capacità di amalgamare e integrare sempre diverse etnie. Nel quinto secolo l' ondata di genti straniere o "barbariche" che travolse la pars Occidentis investì anche la pars Orientis, ma fu inglobata all' interno delle sue strutture di potere, cosicché non solo non ne provocò la fine ma mescolandosi alle sue élite e rinnovandole inaugurò a Bisanzio un meccanismo di ricambio e ibridazione sociale e etnica che resistette per undici secoli, fino al 1453, data della conquista di Costantinopoli da parte dei turchi osmani. Ma neanche a questo punto l' impero romano cadde. La sopravvivenza della cultura statale romano-bizantina fu apertamente assicurata da un lato nell' impero multietnico ottomano, suo diretto conquistatore, dove il sultano assunse il titolo di imperatore di Roma (Rûm), d' altro lato in quello russo, suo immediato continuatore, dove la Terza Roma, Mosca, nacque sotto l' egida dell' ortodossia. Nelle due propaggini nord- e sud-orientale, la vocazione imperiale di mediazione tra le etnie continuò. I sultani mutuarono con rispetto e precisione strutture amministrative, fiscali e giuridiche dell' impero bizantino, a loro volta eredi di quelle romane. Nel mondo russo Ivan IV Groznij, detto il Terribile, fece programmaticamente discendere il proprio potere da quello dei cesari, ossia da una successione ininterrotta di imperatori romani e bizantini. Alla sua visione si adegueranno i successivi czar ("cesari") della Russia zarista, ma anche gli autocrati dell' impero sovietico. Quando Sergej Ejzenstejn intraprese la sua trilogia sull' antico autocrate russo, Stalin, il moderno autocrate sovietico che in filigrana vi era raffigurato, lo convocò al Cremlino e gli contestò di « non avere studiato abbastanza Bisanzio». Solo con la caduta dell' impero ottomano all' inizio del Novecento e soprattutto con quella dell' impero sovietico alla sua fine, nel 1989, alla caduta del Muro, o meglio nel 1991, alla dissoluzione formale dell' Urss, l' eredità di Costantino rivendicata ininterrottamente da Ivan il Terribile a Stalin si è resa vacante, producendo, nell' implosione, un unico macroscopico sussulto tellurico in tutte le aree di irradiazione della civiltà multietnica romana, poi bizantina, poi ottomana e russo-zarista o russo-sovietica. Guardando la storia da questo punto di vista, è forse meno difficile comprendere il turbolento esordio del Ventunesimo secolo. Faglie di attrito antichissime, preromane e prebizantine, hanno ricominciato a entrare in moto complesso in quelle aree geografiche in cui gli imperi romani epigoni avevano tenuto a freno gli scontri fra etnie: dall' Illiria, oggi Balcani, al Chersoneso, oggi Crimea, nel caso del blocco sovietico, e per il quadrante ottomano - nel veloce dissolversi delle temporanee custodie coloniali e dei fragili mosaici di successive alleanze - dalle antiche pianure della Sogdiana e della Bactriana, che oggi chiamiamo Pakistan, Afghanistan, Iran e Iraq, fino alla Siria e al Kurdistan. Il fantasma di Bisanzio ha preso ad aleggiare vendicativo subito dopo il disgregarsi, all' inizio e alla fine del Novecento, degli ultimi due eredi di un' idea imperiale trasversale alla divisione stereotipa tra Oriente e Occidente, e tanto più a quella tra religioni. Si è allora insinuata nella nostra fantasia collettiva occidentale l' idea di uno "scontro di civiltà" tra Oriente islamico e Occidente cristiano. Un altro muro si è alzato, a dividere due entità astratte - un preteso Oriente da un preteso Occidente - che a Bisanzio avevano programmaticamente e concretamente costituito, invece, un' unica civiltà. Categorie dimenticate dal medioevo gotico - crociate, infedeli, guerra santa - hanno pervaso il linguaggio della propaganda politica postmoderna. L' evoluzione integralista ha accomunato storicamente Asia e Europa, islam e cristianesimo - ed ebraismo, fra l' altro - tra la fine del Novecento e l' inizio del nuovo millennio. E, poiché nella storia come in natura nulla si crea e nulla si distrugge, il fantasma del vecchio impero, ucciso ma non morto, ha tentato, come i vampiri, di produrne di nuovi, più assetati e meno esperti. Due autocrati si sono insediati alla guida dell' ex impero zarista e dell' ex impero ottomano, in un tripudio di mezzelune e di croci. Il nuovo zar e il nuovo sultano hanno sostituito alle ideologie laiche nuove ideologie religiose, fondandovi il loro potere. Se quello romano era uno stato laico e se Costantino, il primo imperatore bizantino, aveva reso il cristianesimo religione di stato imponendo tuttavia l' estromissione del clero dal potere temporale, dopo la caduta del Muro novecentesco i potentati ecclesiastici e in generale gli estremismi religiosi hanno ripreso forza, creando, più o meno opinatamente, altri muri. Altri "barbari" si sono materializzati agli occhi di ampie fasce di opinione occidentali nelle colonne di migranti che il terremoto dell' inizio del terzo millennio ha sbalzato sulle sponde e tra le onde del Mediterraneo. Creando così altre divisioni, moltiplicando barriere e fili spinati esterni e interiori, in una quinta infinita di muri.
Vittorio Feltri, la vecchia profezia di Andreotti per sbugiardare la Merkel: "Sulla Germania aveva ragione". Libero Quotidiano il 6 Novembre 2019. Giulio Andreotti ci aveva visto bene nel lontano 13 settembre del 1984 quando pronunciò la celebre frase: "Amo talmente tanto la Germania che ne preferivo due". A distanza di parecchi anni è Vittorio Feltri a elogiare il fu ministro degli Esteri ai tempi del governo Craxi: "Aveva ragione Andreotti" cinguetta sul suo profilo Twitter in un chiaro riferimento a quella Germania che, guidata da Angela Merkel, detta legge con due pesi e due misure ai paesi dell'Unione Europea. Tra questi c'è anche l'Italia rappresentata - riportando le parole di Feltri - da quel "Giuseppino Conte" volato più volte a Berlino "a baciare la pantofola" della Merkel, in nome di "una sudditanza di cui non si capiscono le ragioni".
Andreotti, le frasi celebri - Amo talmente tanto la Germania che ne preferivo due. Da My24 st.ilsole24ore.com. Frase attribuita ad Andreotti in occasione dell'unificazione tedesca. Frase erroneamente attribuita ad Andreotti, il vero ideatore fu Francois Mauriac: J’aime tellement l’Allemagne que je suis ravi qu’il y en ait deux.
MURO DI BERLINO. Dalle due Germanie di Andreotti alla “guerra” di Kohl. Alberto Indelicato il 10.11.2014 su Il Sussiadiario. “Il muro di Berlino? Dire che è caduto è una piccola bugia, che non è innocente perché nasconde la sconfitta del comunismo”. ALBERTO INDELICATO, ultimo ambasciatore nell’ex DDR. La caduta del Muro? “Il muro di Berlino non è mai caduto, è stato distrutto dal popolo. Dire che è caduto è una piccola bugia, che non è innocente perché nasconde la sconfitta del comunismo. E’ stato distrutto da chi voleva la libertà”. Alberto Indelicato, ultimo ambasciatore d’Italia nella Repubblica Democratica Tedesca, rievoca la fine della Germania comunista».
Lei ha scritto un libro, Memorie di uno stato fantasma. Perché chiama così la ex DDR?
«E’ una considerazione di ordine storico-politico. La Germania orientale era un paese comunista come lo erano la Cecoslovacchia, la Polonia, la Romania, l’Ungheria. Il comunismo era come una vernice che copriva tutti questi paesi, o se vogliamo un grande lenzuolo dietro il quale si nascondevano i veri paesi, la loro gente, le loro storie. Nel caso della DDR invece, sotto al lenzuolo non c’era nulla».
Uno stato artificiale, un albero senza radici.
«In Germania orientale il socialismo non era l’ideologia dello stato, ma lo stato stesso. Una volta tolto il socialismo l’Ungheria sarebbe rimasta Ungheria, non c’era dubbio, come in effetti fu dopo il crollo del comunismo. Ma dietro il comunismo della DDR non c’era dietro una Germania, non c’era niente».
Cosa voleva dire rappresentare l’Italia?
«Fino al 1972 nessuno degli stati occidentali riconosceva la Germania orientale, anche se riconosceva tutti gli altri paesi comunisti. La Germania Federale (Bundesreplublik Deutschland, BRD) aveva creato la dottrina Hallstein: chi avesse riconosciuto la DDR avrebbe automaticamente rotto i rapporti diplomatici con la BRD. Poi, con le discussioni che portarono all’atto finale di Helsinki firmato il 1° agosto 1975, cominciarono dei negoziati con tutti gli stati, compresa la DDR. Arrivati a quel punto non si poteva più rifiutare il riconoscimento, che arrivò da tutti gli stati della Nato, ma con alcune limitazioni. Poi c’era Berlino, con il suo statuto speciale… Vi arrivai il 1° dicembre 1987».
Come giudica la celebre frase di Andreotti che disse di preferire due Germanie a che ce ne fosse una sola?
«Andreotti era un gran plagiario (sorride, ndr), me ne accorsi varie volte quando era ministro degli Esteri. Quando sentiva qualcosa che gli sembrava interessante o spiritosa se la annotava in un librettino che portava sempre con sé, e al momento buono la tirava fuori. Quella frase non è di Andreotti, ma di François Mauriac, che la usò negli anni 50 scrivendo sul Figaro».
E perché Andreotti la fece propria?
«Accadde ad un festival de l’Unità, che frequentava specialmente in quel periodo in cui sperava di diventare presidente della Repubblica; ma per diventarlo c’era bisogno dei voti comunisti… e quella frase suscitò l’entusiasmo in tutti i membri del Pci. Fu grave, perché non solo legittimava la DDR, di più, riconosceva, per dir così, l'”eternità” della Repubblica democratica. Chiamarono l’ambasciatore a Bonn e lo rimbrottarono. Il fatto provocò un po’ di freddo. Poi ricordo anche un altro episodio…»
Prego.
«La senatrice Carettoni (Tullia Carettoni Romagnoli, prima socialista poi indipendente con il Pci, ndr), presidentessa dell’associazione Italia-DDR, era mia amica, veniva spesso in Germania e io ero lieto di ospitarla. Le cose ormai andavano male, mi disse di aver parlato col presidente della commissione Esteri della camera, Manfred Feist, che era il cognato di Honecker, il quale le aveva detto: “sono momenti neri per noi, per fortuna in Italia abbiamo un amico…”. Era Andreotti! Non era comunista, Andreotti, ma opportunista sì».
Cosa ricorda del periodo che precedette il 9 novembre 1989?
«Un episodio che chiamo la cena degli addii. Noi ambasciatori fummo invitati a celebrare il 40esimo anniversario della nascita della DDR. C’erano tutti i capi comunisti, da Gorbaciov a Ceausescu, a Jaruzelski, a Straub, e tanti altri. C’erano anche i rappresentanti di tutti i partiti comunisti, ma non gli italiani. Honecker aveva fatto un discorso chiuso e conservatore, era stato molto più aperto quello di Gorbaciov… ad un certo punto mi accorsi che Gorbaciov era sparito, il suo posto era vuoto. Poi sparì Jaruzelski, e via via, uno ad uno, tutti gli altri. Mi venne in mente, all’improvviso, la “Sinfonia degli addii” di Haydn, nella quale ogni musicista, finita la sua partitura, prende il suo strumento e se ne va, lfino a che rimane solo il direttore. Anche la “partitura” della DDR, dopo 40 anni, stava finendo. Ci dissero che la cerimonia era finita e ci accompagnarono verso una uscita secondaria. Quando raggiunsi il mio autista capii il perché: davanti all’ingresso principale c’era una violenta manifestazione di 10mila persone che urlavano contro Honecker e il comunismo,e chiedevano libertà. Ci furono molti feriti, centinaia di arresti».
E’ ormai riconosciuto che la riunificazione tedesca è stata il capolavoro politico di Helmut Kohl. In che senso secondo lei?
«Anch’io penso che si sia trattato di un capolavoro. Kohl non fece nulla a caso, nemmeno subì gli avvenimenti, e ogni sua decisione fu attentamente calcolata, programmata. Intanto, aveva dato un sacco di soldi all’Ungheria che si ritrovava in pessime condizioni economiche. A patto, però, che questa aprisse la frontiera. Aveva immaginato bene che cosa poteva succedere. L’Ungheria aprì la frontiera, e quando i tedeschi videro in tv cosa stava accadendo, chiesero subito il permesso di andare in Ungheria… il governo, stupidamente, non capì che cosa si preparava e concesse i passaporti. La gente si precipitò in Ungheria ma non per restarci, bensì per passare in Austria. In pochi giorni se ne andarono 300mila persone».
E verso la DDR?
«In politica interna Kohl propose alla DDR una confederazione. La DDR sognava una confederazione paritaria, con elezione di pari rappresentanti nel parlamento federale; un’utopia, dato il peso demografico della BRD, ma questa prima proposta cominciò a lavorare sotto traccia nella mente non solo del governo di Honecker, ma anche della popolazione. La quale già era abbastanza agitata per tre affari: il primo, la decisione di Berlino est di concedere i passaporti a chi voleva andarsene….»
E gli altri?
«Il secondo, l’imprudenza di Egon Krenz (il braccio destro di Honecker, ndr) che era stato in visita in Cina nei giorni di Tien an men, e aveva dichiarato che se qualcosa di simile fosse successo in Germania, avrebbero saputo dove prendere esempio… Il terzo, ci furono le elezioni amministrative e per la prima volta gli oppositori, ricorrendo allo stratagemma delle schede bianche, misero allo scoperto il fatto che le elezioni erano truccate. Tutti questi elementi avevano creato uno stato di grande agitazione. Senza dimenticare, ovviamente, l’episodio dei rifugiati nell’ambasciata tedesca occidentale di Praga. La DDR fu felice di etichettarli come traditori, i “traditori” non vedevano l’ora di imbarcarsi sui treni che li portavano all’ovest. Fu uno schiaffo per il governo perché dimostrò che si voleva essere espulsi dal proprio paese».
Come spiega il fenomeno della Ostalgie, e il fatto che oggi un partito come Die Linke (erede della SED, il partito comunista di allora) prenda il 20 per cento nei vecchi Laender?
«Ognuno dei poliziotti che stavano alla frontiera per ammazzare che cercava di scappare era pagato più un professore universitario, ed erano migliaia. Nella DDR c’era un detto, secondo il quale in un gruppo di tre persone una era certamente una spia… tutti vedevano, riferivano, archiviavano, catalogavano, a volte perfino i figli contro i padri, le mogli contro i mariti. La Stasi era una polizia segreta più numerosa e perfino più efficiente di quella sovietica. Tutto questo gigantesco apparato è rimasto disoccupato, con conseguenze di lungo periodo come quelle che lei ha citato. A mio modo di vedere la Ostalgie ha una base economica; anagrafica ed economica».
Il Muro e la riunificazione fanno ancora parte della memoria storica tedesca attuale?
«Me lo auguro. La Germania, culturalmente e spiritualmente, è stata sempre una. Kohl è stato il Bismarck del XX secolo, con una piccola differenza, che Bismarck ha fatto tre guerre per unificare politicamente la Germania, mentre Kohl la guerra l’ha fatta coi soldi. Ma neanche i soldi sarebbero bastati, se non fossero stati al servizio di un profondo desiderio di unità e libertà». (Federico Ferraù)
30 anni fa la caduta del Muro di Berlino. Il 9 novembre 1989 con la caduta del muro di Berlino e la conseguente apertura delle frontiere da parte della Germania orientale, cadeva uno dei simboli della «guerra fredda» e una linea di confine che divideva l’Europa tra le zone di influenza statunitense e quelle sotto il controllo sovietico. Il muro che circondava Berlino ovest e divideva in due la città era stato costruito nell’agosto 1961, per impedire ai cittadini che risiedevano nelle aree orientali di poter fuggire verso l’Ovest. Era lungo 155 chilometri e alto in media 3,6 metri. Dopo la fine della seconda guerra mondiale ai cittadini di Berlino era permesso di circolare liberamente in tutti i settori, ma con lo sviluppo della Guerra Fredda i movimenti vennero limitati; il confine tra Germania Est e Germania Ovest venne chiuso nel 1952 e l’attrazione dei settori occidentali di Berlino per i cittadini della Germania Est aumentò. Circa 2,5 milioni di tedeschi dell’est passarono ad ovest tra il 1949 e il 1961. Da quel momento la frontiera tra Berlino ovest e Berlino est venne fortificata e controllata militarmente mentre di fatto erano due i muri che correvano paralleli a distanza di alcune decine di metri. Non si conosce il numero esatto delle persone uccise mentre cercavano di superare il muro verso Berlino ovest. Alcune fonti ufficiali parlano di almeno 133 vittime, altre si spingono a più di duecento. Nel 1989, molti paesi che avevano fatto parte dell’area di influenza dell’unione sovietica, aprirono le loro frontiere. A novembre, dopo diverse settimane di disordini pubblici, il governo della Germania Est annunciò che le visite in Germania e Berlino Ovest sarebbero state permesse; dopo questo annuncio molti cittadini dell’Est si arrampicarono sul muro e lo superarono per raggiungere gli abitanti della Germania Ovest dall’altro lato in un’atmosfera festosa. Durante le settimane successive piccole parti del muro furono demolite e portate via dalla folla e dai cercatori di souvenir; in seguito fu usato equipaggiamento industriale per abbattere quasi tutto quello che era rimasto. Ancora oggi c’è un grande commercio di piccoli frammenti, molti dei quali falsi. La caduta del muro di Berlino aprì la strada per la riunificazione tra le due Germanie che fu formalmente conclusa il 3 ottobre 1990. Il 20 giugno 1991 Berlino tornò ad essere la capitale della Germania e sede unica del parlamento e del governo federale.
1989-Il crollo del Muro al via dopo quell’annuncio surreale. Nella sua fenomenologia, fu un plastico esempio di quelli che Stefan Zweig definì «momenti fatali». L’annuncio in apparenza burocratico di Günter Schabowski: «Non c’è più bisogno di visti per passare i posti di confine». La domanda di un giornalista italiano, Riccardo Ehrman: «Da quando è in vigore la misura?». La risposta surreale, dopo uno sguardo distratto a un foglio già gettato via: «Per quanto ne so, da subito». Il Muro di Berlino crollò così, in quella sera del 9 novembre 1989, quando i fratelli separati dell’Est attraversarono il confine della vergogna a piedi o a bordo delle loro Trabant e i tedeschi furono «il popolo più felice della Terra». Nell’autunno prossimo saranno trascorsi trent’anni dalla data che pose fine in anticipo al «secolo breve» e cambiò la storia del mondo. Con il Muro caddero le dittature del socialismo reale, si frantumò l’Unione Sovietica, finì la Guerra Fredda, cessò l’equilibrio del terrore, l’Europa allargò i suoi confini verso Est, nacque la moneta unica, mentre il dividendo della pace ci regalò il world wide web, rampa di lancio della globalizzazione. Finì una Storia. Ne cominciò un’altra per la quale non eravamo affatto preparati, privi di un paradigma per affrontarla, tranne l’illusione non priva di arroganza che il sistema liberal-democratico, rimasto senza nemico, avrebbe finito per imporsi in tutto il pianeta. Ma la fine del mondo bipolare, odioso, ma prevedibile e regolato, ha aperto la scena globale a protagonisti nuovi e antichi, segnando il ritorno prepotente della geopolitica negli affari internazionali. Sono emersi i modelli autoritari, è risorto il nazionalismo, sono tornati di moda gli uomini forti, in una frantumazione che comincia ad assomigliare al caos globale. Il Muro non ci manca. Ma non era questo il mondo che avevamo sognato. (Paolo Valentino)
1989, Good bye Lenin. Lanfranco Caminiti il 21 Agosto 2019 su Il Dubbio. Nessuno aveva previsto il crollo improvviso del comunismo ma le premesse erano lì da tempo. E l’effetto domino spazzò via tutto il sistema. Gorbaciov traghettò l’Urss nel capitalismo mentre la Cina, che ebbe Tienanmen, riuscì a salvarsi dal terremoto. La verità è che nessuno l’aveva previsto un 1989 così. D’altronde nessuno aveva previsto, per dire, neppure la crisi finanziaria del 2008. Ricordate quando la regina Elisabetta – proprio come uno chiunque di noi, esterrefatto, incredulo quanto lei – si rivolse a uno degli economisti più considerati e gli chiese: «Ma com’è che non siete riusciti a prevederla?» E il crac del 1929, qualcuno l’aveva previsto? E la Seconda guerra mondiale, qualcuno l’aveva prevista? E il 1917 bolscevico, qualcuno l’aveva previsto? La verità è che nessuno può prevedere le grandi crisi della Storia: la Storia non ha proprio nulla di deterministico. Non va per linea retta. E se per quello, neppure l’economia. Però, in verità, sulla fine dell’Unione sovietica qualcuno c’era andato vicino: Emmanuel Todd aveva venticinque anni quando pubblicò in Francia nel 1976Il crollo finale. Saggio sulla decomposizione della sfera sovietica. Era un demografo, un antropologo oltre che uno storico – e studiò l’innalzamento del tasso di morti infantili tra 1971 e 1974, l’alfabetizzazione, la contraccezione, le strutture antropologiche di base ( i modelli familiari), e riportò un dato bizzarro quanto strabiliante: un intero carico di scarpe destre che non trovava collocazione. Che paese era, che sistema era, quale disorganizzazione mostrava, quello per cui non si riusciva ( nonostante la propagandata pianificazione, la suprema razionalità del socialismo) a costruire insieme scarpe destre e sinistre? Che paese era – l’unico paese industrializzato in cui si registrava questo dato – quello in cui la mortalità infantile cresceva, per malattie varie, trascuratezze, insufficienze sanitarie? Che paese era, quale sofferenza psicologica viveva un paese in cui i tassi di suicidio aumentavano senza sosta? Due anni dopo, nel 1978 esce Esplosione di un impero? di Hélène Carrère d’Encausse, in cui si prospetta il crollo dell’Urss sotto la pressione demografica delle repubbliche asiatiche ad alti tassi di nascita, al contrario di quelle dell’Europa dell’est dove erano crollati i tassi di fertilità: la popolazione di origine musulmana sarebbe diventata la maggioranza nell’Unione Sovietica mentre la classe dominante del Partito, dell’Esercito e dell’industria era in gran parte di origine russa, e quindi di cultura europea. Questa distorsione avrebbe posto un problema di legittimità del potere politico. In realtà, l’Urss non crollò né per il tasso dei suicidi né per quello di natalità delle repubbliche asiatiche. Però, Gorbaciov forse aveva letto la d’Encausse, perché nel 1987 affermò: «Compagni, possiamo davvero dire che il nostro paese ha risolto il problema delle nazionalità». Passarono ancora due anni prima che i tartari di Crimea potessero tornare a casa dall’esilio in Asia in cui erano stati confinati, ma le richieste di autonomia da ogni angolo dell’impero si erano intanto moltiplicate. E erano diventate ingovernabili. E a quel punto arrivò l' 89.
Perché – si chiese Tony Judt, nel suo bellissimo Dopoguerra – il comunismo crollò in modo così rapido? Perché è questo che davvero sconcerta: la rapidità con cui andò a gambe all’aria. Come è stato possibile che tutto sia accaduto per un fraintendimento, per un annuncio mal formulato in televisione? Andò così: ad agosto l’Ungheria aveva rimosso i blocchi di frontiera con l’Austria e a migliaia i tedeschi dell’Est vi si erano riversati. Poi, l’Ungheria specificò che solo i cittadini ungheresi avrebbero potuto passare “di là”. Così, quelle migliaia di tedeschi dell’Est si trovarono in una terra di nessuno – e si riversarono nelle ambasciate occidentali. Allora, in accordo con la diplomazia occidentale, si decise che sarebbero potuti andare a ovest, ma solo riattraversando la Germania orientale: li caricarono sui treni e fecero il viaggio all’inverso, passando per le città da cui erano scappati. Era il treno della speranza, un treno blindato. Venne accolto con invidia, con frustrazione, con rabbia. Quelli passavano, gli altri li guardavano passare e rimanevano. Si moltiplicarono le manifestazioni di protesta. A quel punto il capo della Germania orientale, Honecker – che a gennaio aveva solennemente dichiarato che « Die Mauer wird in 50 und auch in 100 Jahren noch bestehen bleiben », il muro sarebbe durato altri cinquanta o cent’anni – si dimise. È il 18 ottobre: il capo nuovo, Egon Krenz, pensò bene di allentare la situazione e il nuovo governo decise di concedere permessi per viaggiare nella Germania dell’ovest; a certe condizioni, le Reiseregelungen, regole di viaggio. Incaricarono di comunicarlo urbi et orbi al ministro della Propaganda, Günter Schabowski, che però era in vacanza. Lo prelevarono e lo piazzarono a una conferenza- stampa internazionale, ripresa in diretta tv. Mentre Schabowski leggeva il suo comunicato, un giornalista italiano gli chiese da quando le nuove disposizioni entravano in vigore. Schabowski, che non aveva partecipato alla riunione di governo, cercò la risposta nei fogli, ma non c’era o lui, affannato, non la individuò. Allora, improvvisò: « ist das sofort, unverzüglich – subito, immediatamente». Gli sembrava ovvio. Sono le 18.53 del 9 novembre. Decine di migliaia di berlinesi dell’Est, che stavano incollati alla televisione, si precipitarono ai posti di blocco, chiedendo di entrare in Berlino Ovest. Le guardie di confine non sapevano che fare, tempestavano di telefonate i loro superiori, che a loro volta telefonavano a chi era più in alto in grado, ma era ormai chiaro che non sarebbe più stato possibile rimandare indietro tutta quella gente. Così, aprirono i cancelli. Crollava il muro di Berlino. È così che è caduto il comunismo.
Fu la televisione a far perdere il comunismo? Nel 1987, nove famiglie sovietiche su dieci avevano un televisore. Certo, i programmi non dovevano essere troppo vivaci, ma erano seguiti perché si era imparato a cogliere i segnali minimi, a decifrare, a decrittare le parole che venivano dette, come venivano pronunciate. La televisione provocò l’esplosione a Berlino, e chi non ricorda Goodbye Lenin, il film dove un figliolo amorevole per non causare uno choc fatale nella mamma fedele alla linea uscita dal coma dopo la caduta del muro organizza dei siparietti televisivi per raccontare che la realtà è la stessa di prima, per non turbarla? Ma la televisione registra e amplifica, non produce eventi. E allora? Come si riesce a spiegare quel contagio tra Romania, Bulgaria, Cecoslovacchia, Polonia, Ungheria, Germania est, Urss? Un effetto domino, per cui cadendo una tessera, cadevano le altre? In realtà, Gorbaciov aveva lasciato intendere che poteva accadere quel che doveva accadere, lui non sarebbe intervenuto, non come aveva fatto Krusciov contro l’Ungheria di Nagy nel ’ 56, non come aveva fatto Breznev contro la Cecoslovacchia di Dubcek nel ’ 68 – in Polonia nel 1981 i carri armati russi non erano andati perché ci pensò il generale Jaruzelski a fare un colpo di stato preventivo e a introdurre la legge marziale. Il 6 luglio 1989, davanti al Consiglio d’Europa, riunito a Strasburgo, Gorbaciov aveva dichiarato che l’Urss non si sarebbe opposta a processi di riforma in Europa orientale: era una «questione che interessava unicamente gli stessi popoli». Nel corso di una conferenza dei leader del blocco orientale, tenutasi a Bucarest il 7 luglio 1989, aveva affermato il diritto di ogni paese socialista a seguire la propria direzione senza subire interferenze esterne. E cinque mesi dopo, nella cabina del capitano della nave da crociera Maksim Gorkij ormeggiata al largo di Malta, aveva garantito al presidente Bush che non sarebbe stata impiegata la forza per mantenere i regimi comunisti dell’Europa orientale. Cadeva il deterrente che teneva incollati i regimi – la forza, la repressione, la paura. E infatti la cosa sorprendente è che, a parte la Romania di Ceasescu, il processo fu ovunque indolore, senza rivolte, senza violenze, senza barricate, senza insurrezioni. Un impero cadde praticamente senza colpo ferire. E quasi ovunque il “traghettamento” fu gestito da ex- comunisti: non in Cecoslovacchia – dove l’opposizione si raccolse intorno Havel, un commediografo che aveva conosciuto le prigioni socialiste – e non in Polonia, dove era stato lo stesso per quasi tutti i membri del Kor ( l’opposizione intellettuale) e di Solidarnosc ( il sindacato operaio, dieci milioni di iscritti al suo apice). Ma Polonia e Cecoslovacchia erano paesi dove una società civile, non- statalizzata, in qualche modo aveva resistito, era “tollerata” entro certi limiti, vuoi per le ragioni di un radicamento religioso, che si era rinforzato con l’elezione a papa di Karol Wojtyla, vuoi per le lunghe tradizioni culturali. E la violenza, la brutalità apparteneva al regime, a ciò che si voleva cambiare, trasformare, abbattere. E erano paesi che guardavano all’Europa, che si “sentivano” Europa. Di sicuro, il socialismo aveva un problema con l’economia. La qualità dei prodotti era scarsa, la pianificazione era un disastro e i debiti pubblici ( 30.700 milioni di dollari nel 1986, 54.000 nel 1989) aumentavano a dismisura: che il 30- 40 percento delle risorse fosse destinato alle spese militari non era certo un dato secondario. L’improvvisa accelerazione imposta da Reagan nel 1982 con la “Star Wars” era stata fatale. Soprattutto, il mondo socialista era spaventosamente indietro rispetto le nuove tecnologie – aveva perciò una struttura industriale e agricola decisamente arretrata: Cernobyl, nel 1986, mostrò in tutta evidenza la drammaticità di questa contraddizione. E poi c’era stato l’Afghanistan, una guerra maledetta, un Vietnam russo – da cui era tornata in patria una leva generazionale di soldati in cui i traumi post- bellici avevano tassi altissimi, affiancati da quelli di alcolismo. Ma tutto questo non basterebbe forse a spiegare quel crollo. Praticamente in un anno muoiono in sequenza Leonid Breznev, a 76 anni, Yuri Andropov, già malato quando eletto segretario, a 68, e Konstantin Cernenko, anche lui malandato, a 72. Nel 1985, viene promosso segretario Michail Gorbaciov: è nato nel 1931 e a 41 anni è entrato nel Comitato centrale. È giovane – proprio tutta un’altra generazione rispetto a Breznev, Andropov, Cernenko. Gorbaciov intuisce che per la riorganizzazione dello Stato, per la perestrojka dell’Urss, del comunismo, ha bisogno di trasparenza, di glasnost, deve riformare il partito. Ma come “inventare” il mercato? Come “inventare” una società civile? In una società autocratica il potere è indivisibile – e Gorbaciov cominciò a smantellare un puntello dietro l’altro, a svuotare il potere del partito da dentro. E questo è il punto: solo un comunista poteva smantellare il comunismo. Anche se Gorbaciov intendeva salvarlo, il comunismo sovietico, a prezzo di mollare tutti i paesi satelliti al loro destino.
Il ruolo di Gorbaciov fu determinante: la sua credibilità internazionale cresceva mentre proseguiva il suo “lavoro” di glasnost – i suoi viaggi in Europa e nelle capitali internazionali si intensificavano. Forse, proprio mentre aumentava la simpatia all’estero, di pari passo aumentava la “debolezza” all’interno. Gorbaciov, così, faceva un passo di lato e poi tornava verso i conservatori; poi, faceva un passo avanti, e poi tornava verso i conservatori. I riformisti più radicali, come Boris Eltsin, restavano frustrati – e a un certo punto non si fidarono più di lui né i conservatori né i riformisti. Ma questo venne dopo. Furono proprio i mutamenti indotti da Gorbaciov che spinsero i giovani cinesi a chiedere riforme più radicali, la Quinta modernizzazione, e spaventarono il vecchio gruppo dirigente. Gorbaciov arrivò in Cina alla metà di maggio, ma la protesta di Tienanmen era già iniziata il 22 aprile, giorno dei funerali del segretario Hu Yaobang, e ogni timida apertura – era stato proprio il nuovo segretario, Zhao Ziyang a mostrarsi disponibile all’ascolto – si scontrava con una determinazione assoluta del partito a reprimere ogni protesta. Deng Xiaoping, a capo della potente Commissione militare, convinse gli Otto Immortali, vecchi combattenti con un prestigio ancora fortissimo, che Tienanmen fosse solo una manovra delle potenze occidentali per distruggere la Cina. Il resto è noto. Accadde insomma in Cina proprio il contrario di quello che aveva terremotato la Russia. Il comunismo è morto ( in Europa), il comunismo è vivo ( in Cina): alla fine, fu questo il 1989. Forse l’uno era il passato, e l’altro non poteva rappresentare il futuro. Good bye Lenin
"Eravamo bestie allo zoo. La caduta del Muro ci ha liberato di colpo". Il poeta tedesco in visita a Milano racconta come trent'anni fa finì l'incubo della Ddr. Matteo Sacchi, Venerdì 25/10/2019, su Il Giornale. Durs Grünbein, nato a Dresda nel 1962, è uno dei massimi poeti di lingua tedesca: ha ricevuto il Büchner-Preis a soli 33 anni e nel 2008 ha ricevuto a Berlino l'ordine Pour le mérite per la Scienza e le Arti. Ieri era a Milano, nell'aula magna dell'Università statale, per incontrare gli studenti nel trentennale della caduta del Muro di Berlino (nell'incontro, condotto da Rosalba Maletta, ha anche ricevuto una pergamena al merito da parte dell'amministrazione cittadina). Grünbein, nato e cresciuto nella Deutsche Demokratische Republik, ha vissuto la privazione di libertà di cui il Muro era il simbolo, e ha partecipato alla lotta per abbatterlo. È quindi un testimone d'eccezione non soltanto di quegli eventi ma di come si è evoluta la Germania e l'Europa dopo il 1989. Come ha spiegato ai ragazzi, nonostante quello resti un momento trionfale, non tutto è andato come ci si sarebbe potuto aspettare: «A quel tempo, noi insorti abbiamo salutato la libertà da lontano. Noi, gli illusi del socialismo corrotto, vedevamo in essa qualcosa per cui valeva la pena morire. Oggi tutto ciò è come spazzato via; le celebrazioni per la Caduta del Muro, con la regia dello Stato sono soltanto un risveglio coi postumi della sbornia... Il credo politico nel progresso è andato in frantumi; tutte le visioni del mondo ora corrono nella direzione opposta: retrotopia, reazione, regressione su tutta la linea». Il Giornale si è fatto raccontare cosa resta e cosa no di quell'evento che ha cambiato la Storia.
Grünbein come era vivere nella Germania est, un Paese che spendeva le sue energie per creare un confine non per difendere i cittadini ma per imprigionarli?
«Era paradossale. Ci sentivamo come all'interno di uno zoo. Quando arrivavano dei visitatori dall'estero noi eravamo come le bestie nelle gabbie. Comprendevamo di essere rinchiusi proprio facendo il paragone con la libertà di viaggiare degli occidentali. La famiglia di un mio compagno delle elementari riuscì a fuggire. Lui poi mi mandava cartoline da tutte le capitali d'Europa. E questo aumentava ancora la mia sensazione di essere rinchiuso. Negli anni 80 ho richiesto un permesso per andare all'estero. Non era nemmeno una questione politica ma di claustrofobia. Quando è caduto il Muro è stata una sensazione inspiegabile, irripetibile. L'unica parola adeguata è euforia, un'euforia incontenibile».
Lei si rifiutò di prestare servizio come guardia di confine... E che questo le costò l'iscrizione all'università.
«Sì, e per quanto fossi riuscito a disertare restavo comunque un prigioniero. Continuavo a pensare Tu ci morirai prigioniero in questo Paese...».
Dov'era lei quando il muro è caduto?
«Avevo partecipato alle manifestazioni in Alexanderplatz ed ero stato anche arrestato. Le manifestazioni si erano allargate al resto del Paese, come a Lipsia, e avevamo capito che qualcosa stava cambiando in modo inarrestabile e definitivo. Però non ci aspettavamo capitasse così in fretta. Poi vidi la conferenza in televisione in cui quel corrispondente italiano chiese a Günter Schabowski da quando sarebbero stati aperti i confini. Quando rispose Immediatamente, mi precipitai in strada. Fu uno choc come se l'Impero romano invece di crollare nel corso di secoli fosse crollato nel corso di un mese».
Molti hanno da ridire su come si è svolta l'unificazione tedesca sia a Ovest che a Est. C'è un termine preciso per questo: «Ostalgie»...
«La riunificazione è stata soprattutto un fenomeno politico, il progetto della Cdu di Helmut Kohl era anche un progetto elettorale che per i partiti della Germania Ovest valeva milioni di voti e come tale è stato gestito. Per moltissime persone si è rivelato una chance, per alcuni però è stata una catastrofe. Moltissimi tedeschi dell'Est sono stati catapultati nel mercato di cui non sapevano niente. Uno Stato autoritario è anche uno Stato-mamma. Questo ha creato una delusione della libertà che è stata utilizzata soprattutto dai partiti di estrema destra. Scherzando si può dire che molti non perdonano ad Angela Merkel di essere l'unica tedesca dell'Est che ce l'ha fatta davvero. Ma onestamente per la Germania e per l'Europa l'unificazione è stata la soluzione migliore».
Lei parla spesso di retrotopia. Perché?
«La definizione è di Bauman. Secondo me la mancanza di progetti e di sogni seguita alla caduta del Muro ha innescato un meccanismo che genera utopie proiettate all'indietro. Si fa riferimento a delle Heimat, a delle patrie, che esistono solo nella nostra fantasia, non nella realtà, è una fuga verso un passato che non c'è...».
Nonostante la dittatura e l'essere cresciuto nella Dresda ancora devastata, Lei racconta l'infanzia come un periodo dorato.
«L'infanzia è l'età del potenziale infinito. Della pura gioia bisogna portarla sempre con noi. Ma senza idealizzarla, i bambini sono anche piccoli diavoli...».
30 anni senza Muro, 70 anni di NATO. Davvero l’Alleanza è nata in funzione anti-sovietica? Cristiano Puglisi il 13 novembre 2019 su Il Giornale. Pochi giorni fa, il 9 novembre, si è celebrato il trentennale della caduta del Muro di Berlino. Ma il 2019 è anche l’anno in cui cade il 70esimo anniversario dalla fondazione della NATO. Un’alleanza militare nata, secondo le letture più tradizionali, per contrastare il blocco sovietico ma che, appunto, trent’anni dopo il disfacimento di quest’ultimo, è ancora ben presente e salda in Europa. Chi qui scrive ne ha allora approfittato per scambiare due chiacchiere con Roberto Motta Sosa, saggista, studioso di storia delle relazioni internazionali, membro d el gruppo di analisti di “Geopolitica.info”, portale del Centro studi di Geopolitica e Relazioni Internazionali. Dunque davvero la NATO, come vuole una vulgata ricorrente, nacque esclusivamente in funzione antisovietica? O le sue origini risalgono a momenti e finalità sancite in precedenza? “A uno sguardo retrospettivo che voglia considerare le origini della NATO – spiega Motta Sosa - sembrano offrirsi due letture, peraltro in parte complementari. La prima, rintracciandone gli antecedenti nel Trattato di Dunkirk siglato tra Regno Unito e Francia il 4 marzo 1947, inscrive gli eventi che tennero a battesimo l’Alleanza Atlantica negli anni immediatamente seguenti la fine del Secondo conflitto mondiale. Richiamandosi al concetto di ‘sicurezza collettiva’, quel trattato era espressamente rivolto contro un ritorno della minaccia tedesca e concepito da francesi ed inglesi come potenzialmente estendibile ad altre potenze. Alcuni Stati europei centro-orientali, inclusi nell’orbita sovietica, mostrarono interesse ad aderirvi ma, come illustrato dal ministro degli Esteri britannico Ernest Bevin in un discorso ai Comuni il 22 gennaio 1948, furono dissuasi da Mosca. Si può ritenere che Stalin e Molotov avessero fiutato l’ambiguità di un trattato che, fungendo da ‘cavallo di Troia’, avrebbe potuto sottrarre i Paesi dell’Est all’influenza sovietica. Bevin aggiunse sibillino che la Gran Bretagna fosse ancora consapevole di dovere giocare un ruolo chiave nel prevenire un nuovo conflitto in Occidente sia nel caso la minaccia dovesse provenire (nuovamente) dalla Germania o da altrove (‘elsewhere’). È superfluo aggiungere che, con quella formula, Bevin si riferisse, in ultima istanza, proprio all’URSS, la quale dopo il ’45 aveva accelerato il processo di consolidamento della propria sfera d’influenza in Europa centro-orientale. Bevin espresse anche l’auspicio che i contenuti del Tratto di Dunkirk fossero estesi al Benelux. Così fu infatti, con la firma, il 17 marzo ’48, del Patto di Bruxelles. Dal canto suo, il Primo Ministro belga, Paul-Henri Spaak, il 28 settembre ’48 all’ONU tenne il “discorso della paura” con cui difese il Patto di Bruxelles e denunciò apertamente l’imperialismo sovietico, aggiungendo come l’URSS fosse l’unica potenza, tra quelle vincitrici del conflitto mondiale, che avesse accresciuto i propri confini attraverso conquiste territoriali. Era stato proprio Spaak, nel gennaio ’48, ad affermare che, considerata la situazione della Germania, il progetto di un’Unione Occidentale a scopo difensivo proposto da inglesi e francesi non avrebbe avuto senso se, "in pectore", non fosse stato concepito contro l’URSS e non avesse incluso gli Stati Uniti. Preceduti dai colloqui segreti intercorsi al Pentagono dal 22 marzo al 1aprile tra Canada, Stati Uniti e Regno Unito, nel luglio ’48 presero così avvio a Washington gli ‘Exploratory Talks on Security’ per la negoziazione del Trattato Nordatlantico, che venne infine firmato nella capitale statunitense il 4 aprile 1949. Queste circostanze diedero origine ad un famoso adagio attribuito a Lord Ismay (primo Segretario Generale della NATO) secondo cui l’Alleanza sarebbe nata per tenere "fuori i russi, dentro gli americani e sotto i tedeschi". Una seconda tesi, che qui indichiamo brevemente, chiama in causa quella "relazione speciale" esistente tra le due sponde anglosassoni dell’Atlantico che, riscontrabile a livello embrionale negli anni in cui veniva concepita ed enunciata la Dottrina Monroe, fu rinvigorita all’indomani della Prima guerra mondiale attraverso think tank creati ad hoc quali il British Institute of International Affairs (oggi Chatham House) e il Council on Foreign Relations. All’interno di questi ‘inner circles’ sarebbero state discusse le basi su cui fondare il lungo e non sempre consensuale passaggio dall’egemonia britannica a quella statunitense. Secondo questa lettura, la nascita della NATO nel ’49 avrebbe rappresentato il suggello a tale disegno, sancendo l’inizio della ‘pax americana’”. Una lettura, quest’ultima, certamente interessante. Poiché aprirebbe una nuova prospettiva sul significato dell’Alleanza Atlantica. Come sul fatto che, nonostante la celebre frase che il segretario di Stato USA, James Baker, rivolse a Gorbaciov il 9 febbraio 1990 (“La NATO non si espanderà ad est nemmeno di un centimetro“), la sua espansione da allora è proseguita quasi inarrestabile. L’ultima novità è il possibile prossimo ingresso dell’Ucraina. Si pone dunque la questione dello scopo della NATO: difensivo o aggressivo? E quanto questo strumento, che sembra sempre di più avere lo scopo di evitare la saldatura strategica tra alcuni Paesi europei e la Federazione Russa, contrasta con i reali interessi geopolitici dell’Europa? “L’Alleanza (al pari delle installazioni militari dei Paesi membri ad essa correlate) – prosegue l’analista – ha, sin dalle sue origini, finalità dichiaratamente difensive come del resto indicato nel Preambolo e negli articoli 1 e 2 del Trattato Nordatlantico. In quanto struttura di difesa e sicurezza collettiva ovvero regionale, nel trattato che la istituì non viene menzionato alcun nemico specifico. L’unica deroga, peraltro tutt’ora oggetto di dibattito circa i suoi aspetti giuridico-internazionali, fu rappresentata dall’operazione ‘Allied Force’ condotta nel 1999 contro la Repubblica Federale di Yugoslavia senza manifesta copertura dell’ONU e motivata sulla base del principio di ‘intervento umanitario’. Bisogna inoltre ricordare che nel corso degli anni Novanta la NATO procedette ad una sorta di trasformazione, adeguando il proprio concetto strategico e le sue strutture a compiti ‘full range’ concernenti anche missioni ‘non articolo-5′ di ‘peace support’ e ‘other crisis-response operations’. Vi è poi la situazione concernente quelle che l’Alleanza ritiene siano minacce attuali alla sicurezza connesse all’acuirsi della crisi ucraina (2014) con espresso riferimento alla postura della Federazione Russa, identificata come rischiosamente asservita. A tal proposito, nel suo discorso del 7 novembre scorso, il Segretario Generale della NATO, Jens Stoltenberg, parlando da Berlino, ha ribadito che l’occupazione (definita illegale) della Crimea e la violazione (imputata alla Russia) del Trattato INF rappresentino elementi di grave turbamento dell’ordine internazionale. Dal canto suo, Mosca, partner (ma) oramai quiescente della NATO, mediante la questione della cosiddetta ‘broken promise’ continua ad eccepire la violazione di garanzie (che sarebbero state) fornite alla leadership sovietica negli anni Novanta dagli Stati Uniti in merito al non allargamento ad Est dell’Alleanza Atlantica. Sarebbe tuttavia azzardato sostenere se e quanto gli obiettivi della NATO, intesa come comunità Euro-atlantica, siano ovvero appaiano in contrasto con i singoli interessi geoeconomici dei suoi membri europei, poiché se tali impedimenti fossero comprovabili risulterebbero non conformi al principio contenuto nell’articolo 2 del Trattato Nordatlantico secondo cui ciascun Stato membro deve sforzarsi di eliminare ogni ostacolo nell’ambito delle politiche economiche internazionali favorendo la cooperazione. Si può quindi forse ritenere che, almeno rispetto alle tematiche economiche, le problematiche siano riconducibili alla dimensione delle relazioni bilaterali, piuttosto che ad una contrapposizione NATO/Russia”. Recentemente il presidente francese Macron, tra i più ferventi sostenitori di una difesa europea, ha affermato (presto criticato dalla cancelliera tedesca Merkel) che la NATO sarebbe in stato di morte celebrale. La Francia vuole recuperare quel progetto di un’Europa “terza forza” tra USA e URSS (oggi il blocco eurasiatico) che già De Gaulle prospettava? E l’Europa può davvero “liberarsi” della NATO? “Macron – conclude Motta Sosa - si riferiva soprattutto al vecchio e ricorrente tema della difesa comune europea che il 25 giugno 2018, su impulso francese, ha assunto la forma della “Initiative européenne d’intervention” (IEI), a cui sino ad oggi hanno dichiarato di volere aderire, insieme alla Francia, dodici Stati europei membri (ad eccezione della Svezia, che non aderisce dell’Alleanza Atlantica, e della Norvegia, che non è membro UE) sia della NATO che dell’UE. L’Italia ha comunicato la sua adesione il 19 settembre scorso. Il Presidente francese ha posto due questioni in particolare: la necessità, dopo la fine della stagione bipolare, di un adeguamento dello ‘scopo sociale’ della NATO e l’idea che si possa costruire quella che egli ha definito l’’autonomie stratégique européene’, in antitesi alla visione di un’Europa progettata come ‘junior partner des Américains’. A ciò si possono verosimilmente accostare le mai sopite ambizioni francesi ovvero golliste, che Macron ha lasciato trasparire affermando che in caso di Brexit la Francia resterebbe l’unica potenza nucleare nell’UE. Quest’ultimo passaggio rischia tuttavia di entrare in contraddizione con quanto da lui stesso sostenuto circa il fatto che il lungo periodo di stabilità osservato in Europa dopo il ’45 sia stato il frutto di ‘une équation politique sans hégémonie qui [a permis] la paix’. Sembra inoltre di capire che per Macron, la ‘mort cérébral’ della NATO riguarderebbe soprattutto le modalità dell’intervento turco in Siria (definito “agression”) e i rischi connessi all’articolo 5 dell’Alleanza Atlantica ossia le possibili conseguenze derivanti dall’incapacità dell’Alleanza e dei suoi membri europei di evitare che gli opposti obiettivi di Ankara e Damasco entrino militarmente in contatto nel teatro siriano. Quanto alla ‘liberazione europea dalla NATO’ nessun membro europeo sino ad oggi ha manifestato l’intenzione di uscire dall’Alleanza. Unicamente la Francia, come noto, si distaccò dal solo comando militare integrato nel 1966 rientrandovi però nel 2009. Se nessun alleato europeo ha sino ad oggi palesato ovvero formalizzato una simile istanza è plausibile ipotizzare due cose: o la NATO, a tutt’oggi, continua, tutto sommato, a rispondere alle esigenze dei suoi membri, oppure non si è ancora trovata una valida alternativa ad essa. Si consideri che il Trattato Nordatlantico contiene strumenti che potrebbero fornire una soluzione a tale dilemma. L’articolo 13 prevede infatti che, trascorsi vent’anni dalla firma del trattato, un membro possa cessare di farne parte trascorso un anno dal deposito della sua notifica di denuncia presso il governo degli Stati Uniti. L’articolo 12 contempla altresì l’eventualità che, dopo dieci anni dall’entrata in vigore del trattato, in qualsiasi momento le parti contraenti, su richiesta di una di esse, possano consultarsi per sottoporlo a revisione. Dai contenuti dell’intervista rilasciata da Macron all’’Economist’ il 7 novembre scorso sembra di potere prudentemente dedurre che l’IEI possa affiancarsi, anziché sostituirsi, alla NATO quale braccio operativo dei suoi membri europei nel teatro mediterraneo-mediorientale”. Una questione che balza all’occhio, visto il protagonismo proprio di Macron ma anche della stessa Merkel pone la questione di chi, in ipotesi, potrebbe rappresentare in futuro la potenza egemone di un’Europa “post-NATO”. Ma la questione fondamentale, soprattutto, è se un’Europa simile sia possibile. “Il proficuo perseguimento – conclude Motta Sosa - di una geopolitica coerente con i propri interessi nazionali è soprattutto il frutto di un efficace mix di ‘hard’ e ‘soft power’. La questione è se ciò possa avvenire anche per un agglomerato di Stati eterogenei quale è l’UE. Durante la Guerra Fredda l’Europa, perché stremata da due guerre mondiali combattute nell’arco di trent’anni, aveva delegato giocoforza buona parte del suo ‘hard power’ alla NATO ovvero ai processi decisionali facenti capo al corpo politico e militare dell’Alleanza. Piaccia o no, di fatto, per settant’anni l’’esercito comune europeo’ è stata rappresentato dalla NATO. Nei decenni, questa circostanza ha apportato dei vantaggi: dalla fine della Seconda guerra mondiale all’insorgere delle guerre jugoslave (1991) l’Europa ha vissuto una seconda ‘belle époque’, grazie anche all’ombrello fornitole dall’Alleanza Atlantica. Considerate queste premesse, porsi la questione di una leadership europea incarnata da un singolo Stato appare anacronistica, perché riproporrebbe forse lo scenario di una corsa per l’egemonia che nei primi quattro decenni del Novecento era già stata risolta chiamando in causa e accettando un egemone extraeuropeo, gli Stati Uniti. Macron, nella sua recente intervista, ha affermato di volere la Germania ‘avec nous’. Tuttavia la cancelliera e il ministro degli Esteri tedesco hanno ritenuto di censurare il giudizio del capo dell’Eliseo sulla NATO, sostanzialmente allineandosi alla “difesa d’ufficio” pronunziata da Stoltenberg. Sino ad oggi ogni residua competizione franco-tedesca è stata risolta mediante la sintesi rappresentata dalla, effettiva, ‘due diligence’ di Parigi e Berlino sui principali temi inerenti al funzionamento della comunità europea. Va da sé che mentre la Francia può oggi rivendicare un primato militare sull’antico nemico, dal canto suo, la Germania rappresenta un importante anello di congiunzione tra l’Europa occidentale e la Russia, come, ad esempio, testimoniano le questioni energetiche connesse al gasdotto Nord Stream (sgradito agli Stati Uniti). Peraltro, la storia del Novecento ha già assistito ad una alleanza europea guidata dalla Francia: nel primo dopoguerra Parigi fu patrocinatrice del sistema della Piccola Intesa, che raggruppava Cecoslovacchia, Jugoslavia e Romania. Nel 1933 tale alleanza divenne un’organizzazione internazionale con un Consiglio permanente, un Segretario e un Consiglio economico. Nata per contenere soprattutto il revisionismo ungherese, nell’agosto del ’38 quell’alleanza finì invece per stringere patti che consentirono a Budapest di riarmarsi (Accordi di Bled) esaurendosi infine nel corso di quello stesso anno a Monaco a causa della condotta delle potenze occidentali intervenute nella gestione della crisi cecoslovacca”.
Viaggio a Berlino, quel miracoloso 1989 che cambiò il mondo. Pubblicato domenica, 10 novembre 2019 su Corriere.it da Aldo Grasso. Ezio Mauro ha raccontato su Rai3 «Cronache dal muro di Berlino»; al centro dello speciale di Renato Coen su SkyTg24, materiale d’archivio e testimonianze. Per il 30° anniversario della caduta del muro di Berlino, la programmazione tv ha visto l’alternarsi e il susseguirsi di speciali, approfondimenti, sperimentazioni nella ricostruzione di un evento epocale. Su Rai3, Ezio Mauro ha raccontato «Cronache dal muro di Berlino». Lo stile è quello consueto che ha caratterizzato altri suoi speciali (come quello sui 100 anni della Rivoluzione d’ottobre); il protagonista si muove in una Berlino contemporanea avvolta dal buio, dalla pioggia e dal silenzio, provando a ricostruire, con il rigore dell’approfondimento giornalistico, il filo di una storia complessa e densa di sfumature. Realizzato da Rai Cinema e da Stand by me, lo speciale di Rai3 privilegia un approccio didascalico; Mauro si sofferma sui numeri (i km di muro e filo spinato, i milioni di persone che passarono da Est a Ovest prima del fatidico 1961, anno di costruzione della barriera) e sui luoghi chiave della Berlino di quel periodo, cercando di restituire l’essenza di un «anno dei miracoli che cambierà il mondo». Il viaggio è un quaderno di appunti nel quale si alternano personaggi centrali e laterali, come il pastore luterano-protestante Rainer Eppelmann, l’ex presidente della Repubblica tedesca Joachim Gauck, dissidente ai tempi del regime orientale, o Brigitte Seebacher, vedova di Willy Brandt, leader Spd della RFG. Di tenore diverso, lo speciale in onda su SkyTg24 di Renato Coen. Il cuore del racconto è uno studio dove il conduttore si muove attraverso una ricostruzione del muro e della città di Berlino con la «realtà aumentata». Materiale d’archivio e testimonianze (da Lech Walesa ad Achille Occhetto) fanno il resto, insistendo su un episodio leggendario: il momento in cui, con una domanda a bruciapelo, il corrispondente dell’Ansa Riccardo Ehrman costringe il portavoce della DDR Günter Schabowski a una risposta avventata che forse accelera il corso degli eventi e l’abbattimento del muro.
Ridicolo manifesto del Pd sul Muro di Berlino: noi abbattiamo i muri. Ma non l’hanno costruito i comunisti? Vittoria Belmonte domenica 10 novembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Ridicolo manifesto del Pd sul trentennale della caduta del Muro di Berlino. L’immagine è quella storica dei giovani che prendono a picconate l’odioso confine di pietra che divideva la Germania Ovest da quella dell’Est. Simbolo di un ‘Europa divisa tra libertà e tirannia, tra democrazia e dittatura. Un Muro voluto dal regime comunista dell’Est. Ma gli attuali eredi di quell’ideologia rimossa sembrano non rendersene conto, o meglio fanno finta di non conoscere la storia del Muro. Cosa c’è scritto infatti sul manifesto del Pd? Potete costruire muri, ci troverete ad abbatterli.
Ridicolo manifesto, la presa in giro di Meloni. Ma come, sono loro quelli che abbattono i muri? Propri gli stessi che li hanno costruiti? Il riferimento del Pd è ai muri anti-immigrati che Trump vuole edificare al confine con il Messico e che Orban invoca in Ungheria. Ma anche su questo occorre fare attenzione. L’unico muro anti-immigrati che l’Italia ha conosciuto, infatti, è stato quello voluto dal sindaco Pd di Padova, Flavio Zanonato, nel 2006. Ora quel muro, che doveva isolare il ghetto dello spaccio in Via Anelli, non c’è più. Ma fu quella giunta ad edificarlo. E Zanonato ora si trova in Articolo 1. La sinistra a sinistra del Pd. Quella evocata nel manifesto è dunque solo propaganda costruita su una gigantesca rimozione. Il Muro di Berlino fu il frutto della politica del regime comunista della Germania Est. Un non detto che impedisce di fare chiarezza quando se ne celebra la caduta. Si finge, ancora, di ignorare che sola la destra nel dopoguerra in Italia parlava dell’orrore di quel Muro. Gli altri facevano finta di nulla, per non inciampare in imbarazzanti prese di distanza dal comunismo. La ragion di Stato e il clima di compromesso storico tra Dc e Pci impediva infatti di criticare apertamente l’aberrazione di quel Muro che divideva l’Europa, la Germania e Berlino. Il manifesto del Pd è finito anche sulla pagina Fb di Giorgia Meloni che commenta ironica: “Chi glielo spiega che il muro erano loro?”. Ogni spiegazione sarebbe inutile. I dem sono davvero convinti di non essere mai stati comunisti. Sono talmente presi dai luoghi comuni che diffondono da rendere impossibile ogni forma di autocritica. A questo si riferiva Guareschi quando li accusava di essere trinariciuti. Non a caso ai tempi girava questa barzelletta. Un figlio dice al padre: – papà lo sai che gli asini volano? – Non dire sciocchezze! – Ma papà, l’ha scritto la Pravda. – Beh, figliolo, diciamo che svolazzano…
Vittorio Feltri: "Quella banda di comunisti che mi ha disgustato". La vendetta contro i compagni. Libero Quotidiano il 10 Novembre 2019. La caduta del muro di Berlino, avvenuta 30 anni fa, è oggetto in questi giorni di commemorazioni retoriche e noiose. I giornalisti cerimonieri ne parlano senza requie quasi si trattasse di un avvenimento gioioso. In realtà quel crollo voluto dalla gente comune della Germania Est segnò la morte del comunismo, non dei comunisti. Che ancora oggi continuano a rompere le balle con le loro utopie, basta vedere quanto succede in Cina che è riuscita a mischiare il collettivismo più rigido con uno sfrenato capitalismo. Un ibrido vomitevole che tuttavia non accenna a trasformarsi in qualcosa di simile a un regime liberale. Il dì in cui la barriera oscena che divideva il popolo tedesco si sbriciolò io ero direttore di un settimanale importante, l'Europeo (Rizzoli). Il quale però non uscì per due mesi a causa di uno sciopero dei redattori (tutti) motivato dal fatto che non ero comunista, quindi sgradito all' assemblea dei colleghi. Peggio: avevo fama di essere addirittura anticomunista in quanto socialista. Il maledetto muro era pertanto cascato a Berlino eppure era rimasto in piedi, ben saldo, a Milano, anzi in Italia, dove i compagni, almeno nell' ambito della editoria, seguitavano a dettare legge, esercitando ostracismo nei confronti di coloro che non avevano simpatia per l' orda rossa. Giorgio Fattori, presidente della casa editrice (proprietaria altresì del Corriere della Sera) mi incitò a resistere e gli diedi retta, finché i vergini di sinistra, stanchi di non ricevere lo stipendio, mi accolsero, sia pur malvolentieri, quale direttore, cosicché cominciammo a lavorare e ad andare in stampa con un prodotto decente che ebbe in edicola un buon successo. Nel giro di un paio di anni, raddoppiammo le vendite mettendo al sicuro la vita del settimanale. Tuttavia quella banda di comunisti mi aveva talmente disgustato che non appena mi fu offerto di prendere in mano l'Indipendente, quotidiano nuovo e già moribondo, accettai di buon grado. Nel frattempo il segretario del Pci, Achille Occhetto, cambiò denominazione al partito, sconfessando la tradizione marxista, compiendo cioè una operazione ai limiti del ridicolo, come se il Papa all'Angelus avesse detto al folto pubblico di piazza San Pietro: cari fedeli devo informarvi che Dio non esiste, concludendo il suo discorso facendo alla folla il gesto dell'ombrello. Paradossale. Ciononostante l'ex Partito comunista è ancora qui con i propri rimasugli a menare il can per l'aia. E finge di festeggiare la caduta di quel muro schifoso sotto le cui macerie esso è idealmente morto. Vittorio Feltri
LA DONNA CHE VISSE L’ORRORE DUE VOLTE – LA STORIA DI CECILIA KOVACHOVA, SOPRAVVISSUTA PRIMA AD AUSCHWITZ E POI A UN GULAG RUSSO. DAGONEWS il 10 novembre 2019. La storia di una sopravvissuta ad Auschwitz e poi a un gulag russo ha ispirato un nuovo romanzo; Cecilia Kovachova fu portata nel campo di sterminio da Hitler da adolescente, e dopo fu spedita e in un campo di prigionia in Siberia dagli invasori sovietici nel 1945. Nel nuovo romanzo "Cilka's Journey", Cilka Klein è una schiava sessuale, alla quale viene data una posizione "privilegiata" da una guardia nazista, portando i russi a considerarla una collaboratrice. La confusione tra verità e finzione ha scatenato la rabbia della famiglia della sopravvissuta. Cecilia Kovachova aveva incontrato suo marito Ivan mentre erano entrambi prigionieri nel gulag russo. Nel libro, Ivan viene sostituito dal personaggio di Alexandr. Come la vera Kovachova, il personaggio è imprigionata nel gulag Vorkuta, un campo di prigionia istituito da Stalin che ospitava decine di migliaia di detenuti. Alla fine fu rilasciata negli anni '50 dal successore di Stalin, Nikita Krusciov, che cercava di smantellare l'eredità dell'ex dittatore. L'autrice australiana Heather Morris ha cercato di ricostruire la vita reale di Kovachova durante le ricerche per il suo libro Cilka's Journey, ma la sopravvissuta è morta nel 2004. «La storia di Cilka è quella di un'ingiustizia. Era solo una ragazza, un'adolescente, che ha vissuto due dei periodi più malvagi della storia ed è diventata un bottino di guerra - ha detto l'autrice - Solo la vergogna ha impedito alle donne come lei di parlare di ciò che era stato loro fatto». Il personaggio del libro, ad Auschwitz ha attirato l'attenzione di un alto ufficiale nazista. Una volta che l'Armata Rossa arrivò nel 1945 nell'invasione che schiacciò la Germania di Hitler, fu vista come una collaboratrice e portata in Siberia su un camion di bestiame. «Cilka ha solo sedici anni quando viene portata nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau nel 1942, dove il comandante la nota immediatamente per la sua bellezza. Separata forzatamente dalle altre donne prigioniere, Cilka apprende rapidamente che il potere equivale alla sopravvivenza. Quando la guerra è finita e il campo viene liberato, la libertà non viene concessa a Cilka: viene accusata di essere una collaboratrice per aver dormito con il nemico e inviata in un campo di prigionia siberiano». Tuttavia, il figliastro della Kovachova, George Kovach ha recentemente criticato il romanzo e ha detto che la madre sarebbe stata "devastata" da questa ricostruzione in cui finisce per essere rappresentata come una schiava sessuale.
Il dramma del calcio ai tempi del Muro: fughe, vendette e morti misteriose. Pubblicato sabato, 09 novembre 2019 da Corriere.it. «La fine della Ddr è la cosa peggiore che potesse capitare a un club e la miglior cosa che potesse capitare a un calciatore», disse un giorno Thomas Doll, ex centrocampista della Lazio e nazionale della Germania Est. Ai tempi del Muro, del resto, nessun giocatore tedesco orientale poteva trasferirsi in Occidente, ma come sempre è accaduto – e accade tuttora – sono stati molti gli atleti che hanno approfittato dello sport per provare a sfuggire alle difficili condizioni in cui erano costretti a vivere. Chi lo faceva era ritenuto un traditore, e le fughe erano considerate dei duri colpi da un potere politico che faceva dello sport (soprattutto quello olimpico, ma il calcio era comunque importante per il suo seguito popolare) un fondamentale strumento di propaganda. Lutz Eigendorf, considerato il Beckenbauer dell’Est, il 20 marzo 1979, dopo l’amichevole giocata a Giessen tra Dinamo Berlino (la squadra sotto diretto controllo del capo della Stasi, Erich Mielke) e Kaiserslautern, fuggì in Germania Occidentale lasciando la moglie Gabrielle e la figlia Sandy a Est, controllate dagli agenti: non le avrebbe viste mai più. Squalificato per un anno dalla Uefa, Eigendorf passò poi al Kaiserslautern e nel 1982 all’Eintracht Braunschweig. Il 21 febbraio 1983 accettò di farsi intervistare dalla tv tedesca Ard davanti al Muro, dove criticò apertamente il sistema calcio della Ddr. Alle 23.30 del 5 marzo 1983, Eigendorf, a bordo della sua Alfa Romeo Alfetta Gtv, si schiantò contro un albero in una curva della strada Braunschweig-Querum e morì 34 ore dopo. L’autopsia rivelò che aveva una percentuale minima di alcool nel sangue e la Procura della Repubblica archiviò il caso per guida in stato di ubriachezza. Secondo Heribert Schwan — autore del documentario «Tod der Verrater» (Morte del traditore) basato sui documenti segreti della Stasi emersi dopo la riunificazione tedesca — Eigendorf fu invece ucciso proprio in seguito al suo tradimento: gli agenti della Stasi gli avrebbero iniettato una miscela mortale di veleni e sonniferi per poi costringerlo, sotto minaccia di morte, a guidare verso la sua fine. Jurgen Sparwasser era il centrocampista del Magdeburgo vincitore di tre Oberliga (il campionato della Ddr) e della Coppa delle Coppe nel 1974, ma soprattutto l’autore del famoso gol che al Mondiale del 1974 diede la vittoria per 1-0 alla Ddr sulla Germania Ovest nella storica sfida del 22 giugno ad Amburgo: un eroe nazionale, ma non del tutto allineato. Laureato in ingegneria meccanica, nel 1980 ottenne il patentino da allenatore: il Magdeburgo gli offrì più volte il posto, ma Sparwasser ogni volta rifiutò per evitare l’impegno politico che ne sarebbe derivato e preferì diventare assistente ricercatore alla Scuola Superiore di Pedagogia di Magdeburgo. Quando la figlia fece richiesta di espatrio per abbandonare la Ddr, anche la carriera professionale di Sparwasser cominciò ad essere in pericolo: decise allora di fuggire nella Germania Ovest. Lo fece insieme alla moglie in occasione di una partita tra vecchie glorie con il Magdeburgo a Saarbrücken il 10 gennaio 1988. L’agenzia di stampa della Ddr, la Allgemeiner Deutscher Nachrichtendienst, scrisse: «Le forze antisportive hanno approfittato della presenza di una formazione di vecchie glorie del Magdeburgo a Saarbrücken per sottrarre Jürgen Sparwasser, il quale ha tradito la sua squadra». Pure i tifosi, ovviamente, dovevano essere controllati. Lo stadio della Dinamo a Berlino, per esempio, aveva una capienza limitata perché era molto vicino a una striscia di Muro: per evitare diserzioni, lo spicchio di tribuna più prossimo al Muro era sempre occupato da polizia e militari. C’era poi chi, pur da Est, tifava squadre dell’Ovest. Il caso più famoso è quello di Helmut Klopfeisch, nativo di Berlino Est ma da sempre tifoso dell’Hertha, squadra dell’Ovest. Prima del Muro il giovane Helmut era solito andare regolarmente allo stadio per le partite della sua squadra: in seguito, trascorse alcuni sabati di campionato a seguire le gare con altri tifosi a ridosso del Muro, ascoltando i suoni dello stadio dell’Hertha qualche centinaio di metri più in là, a Ovest. La polizia presto vietò quel rito, ma ciò non impedì a Klopfeisch di continuare a tifare non solo l’Hertha ma tutte le squadre occidentali (non solo tedesche) che giocavano contro club dell’Est. Costantemente sorvegliato dalla Stasi, nel 1989, poco prima della caduta del Muro, venne espulso a Ovest assieme alla moglie e al figlio. Il suo sogno, ma era solo un finto favore. Con la madre molto malata, Klopfeisch chiese infatti una proroga, che gli venne negata: vai ora o mai più, gli dissero. E lui scelse di andarsene. Cinque giorni dopo sua madre morì e il governo della Ddr non gli permise nemmeno di tornare per il funerale. Una vendetta perfetta. Andreas Thom era un grandissimo talento, ed era il pupillo del capo della Stasi, Erik Mielke, sotto il cui controllo dominava il calcio dell’Est la Dinamo Berlino, squadra del potere per eccellenza fondata nel 1966 che vinse (non senza collusioni con gli arbitri e accuse di doping) 10 titoli nazionali tra il 1978 e il 1988. Thom cresce nel club; giovanissimo, segna alla Roma in Coppa dei Campioni nel 1984; esplode definitivamente nel 1988 quando si laurea capocannoniere della Oberliga con 20 gol e viene proclamato giocatore dell’anno. Quando crolla il Muro, è il primo tedesco dell’Est a passare a Ovest firmando con il Bayer Leverkusen che versa 2,5 milioni di marchi alla Federcalcio orientale. Nel 1995 si trasferisce al Celtic, prima di chiudere la carriera con l’Hertha Berlino. È uno dei pochi giocatori ad aver giocato sia con la Ddr (16 gol in 51 partite) che con la Germania unificata. Thom è stato fortunato: per lui l’unificazione della Germanie è stata un affare. Per altri non è stato così, visto che di fatto il movimento calcistico orientale di alto livello è crollato assieme al Muro. Oggi solo due squadre ex Est militano in Bundesliga, l’Union Berlino, neopromossa, e il Red Bull Lipsia, che in realtà è un club totalmente nuovo nato nel 2009 per volontà della multinazionale austriaca (la «vera» squadra della città resta l’antica Lokomotive, in quinta serie). Gli effetti pesanti del processo di transizione li ha raccontati lo stesso Thom in questi giorni al Times: «Ricordo Jorg Stubner: era uno dei più grandi talenti dell’Est ma la fine del calcio di alto livello a Est è stata anche la fine della sua carriera». Povero e con problemi di salute, Stubner raccontò alla Bild nel 2004: «Se la riunificazione della Germania non ci fosse stata, oggi io avrei una famiglia, dei figli e un lavoro come allenatore». Morì invece poco dopo, a 53 anni. «Sapevamo di essere controllati. E più eri bravo e famoso, più ti stavano addosso», ricorda ancora Thom. Questo però non impediva altre fughe, come quella clamorosa di due suoi compagni il 2 novembre 1983. «Eravamo a Belgrado con la Dinamo per quello che sarebbe stato il mio debutto in Europa contro il Partizan – racconta ancora Thom al Times -. La mattina della partita andammo a fare un giro fuori dall’hotel e due miei compagni, Falko Gotz e Dirk Schlegel, si staccarono da noi mentre eravamo in un negozio di dischi e si rifugiarono all’ambasciata della Germania Ovest». Scelte forti, non condivise da tutti. Spesso, più che per ragioni ideologiche, solo per timore delle conseguenze. «Io non ho mai pensato di fuggire – conclude Thom -. A parte l’anno di sospensione della Uefa, avevo una famiglia e sapevo che scappare avrebbe creato enormi problemi ai miei genitori e a mio fratello...». A lui, in fondo, è bastato aspettare. Per molti altri invece il sole non è mai arrivato.
Orgoglio Gorbaciov, eroe tragico che oggi quasi non riconosciamo più. Pubblicato domenica, 10 novembre 2019 su Corriere.it da Paolo Valentino da Berlino e Maria Serena Natale. Il suo è un volto segnato dalle ferite della Storia. Nella notte che ricorda la più magica di tutte le notti, un volto emerge dal buio della memoria. È un volto segnato dall’età, deformato dalle malattie, velato di malinconia. Ma soprattutto è un volto solcato dalle ferite della Storia, il volto di un eroe tragico che come Icaro pensò di poter volare vicino al sole, ma finì per distruggere se stesso e l’opera che voleva salvare. Se si potesse ridurre a una sola persona, a un solo carattere il Novecento e quelle che Paul Klee chiamava le sue «Harte Wendungen», le svolte brusche, questa sarebbe molto probabilmente Michail Gorbaciov. Trent’anni dopo la caduta del Muro di Berlino, che segnò la fine anticipata del secolo breve, la figura drammatica dell’ultimo leader dell’Unione Sovietica ci ricorda il destino rovesciato di un gigante senza pace, il comunista che senza volerlo seppellì il comunismo, il patriota che con le migliori intenzioni scavò la fossa allo Stato fondato da Lenin. «Non si poteva più andare avanti allo stesso modo», dice Gorbaciov nell’intervista a Der Spiegel. Già, la perestrojka come passo obbligato, ultimo, inevitabile tentativo di riformare un sistema ormai ossificato, in bancarotta politica ed economica. Non fu buon marxista, in fondo, Michail Sergeevich: al contrario di quanto avrebbero fatto i compagni cinesi, che aprirono al capitalismo e strinsero le viti sulla democrazia, cominciò dalla sovrastruttura politica (la glasnost, le opposizioni, il diritto a manifestare) e si mosse male e poco sulla struttura economica, con mezze riforme e aperture al mercato confuse. E intanto, costretto dalla pressione del riarmo dell’America reaganiana e sperando negli aiuti dell’Occidente cui aveva promesso di togliere il nemico, cedette pezzo per pezzo i cardini della potenza sovietica, fossero gli euromissili, le armi strategiche e quelle convenzionali o le aree di influenza. Quando nel 1989 il generale Sergey Akhromeyev incontrò il nuovo capo delegazione americano Richard Burt per la prima seduta negoziale del Trattato Start, gli disse senza mezzi termini che Gorbaciov aveva tradito il comunismo e che lui, che aveva combattuto a Stalingrado, non avrebbe mai permesso che l’Unione Sovietica venisse umiliata in quella trattativa. Non andò così. Ma l’aneddoto, mai rivelato, conferma che quella di Gorbaciov era la ricetta perfetta per essere odiato in patria: i russi stavano peggio, vedevano la loro superpotenza umiliata e per la prima volta in quattro secoli potevano anche lamentarsi a voce alta. Eppure Michail Gorbaciov non si pente. E questo gli fa onore. Al settimanale tedesco dice che non si potevano negare i diritti di libertà e democrazia ai popoli vicini, i polacchi, i cechi, gli ungheresi, I tedeschi dell’Est. La frase con cui ammonì Erich Honecker, l’eterno leader della Ddr, innescando la sua fine, risuona ancora oggi: «La vita punisce chi arriva in ritardo». Su una cosa l’ex presidente sovietico ha in ogni caso ragione da vendere. Quando afferma che dopo la fine della Guerra Fredda, i nuovi leader non hanno saputo creare una nuova e moderna architettura di sicurezza in Europa, Gorbaciov dice una verità elementare. Così come quando critica l’affrettato ampliamento a Est della Nato. Ma nella visione di Michail Sergeevich c’è ancora spazio per il futuro. Tra l’Occidente e la Russia la retorica sta cambiando, dice a Der Spiegel. Forse è la speranza di avere ragione con trent’anni di ritardo, forse è l’inguaribile l’ottimismo che tutto non sia stato inutile. Comunque andrà, avremo sempre verso quest’uomo un debito di gratitudine.
Caduto il Muro, camminiamo ancora sulle macerie. Gennaro Malgieri il 10 Novembre 2019 su Il Dubbio. I fantasmi dell’89. Le cortine di ferro ora sono in Cina e Nord Corea. Quando la mattina dell’ 11 novembre, due giorni dopo la caduta del Muro, alcuni berlinesi, ancora euforici per gli avvenimenti che soltanto due giorni prima li avevano proiettati in un’altra dimensione, videro approssimarsi ad un cumulo di macerie, un signore attempato, munito di un violoncello, non credettero ai loro occhi. Sedutosi davanti a quelle rovine, prese a suonare una suite di Bach, di carattere gioioso; poi un’altra più solenne, “in memoria di coloro che hanno lasciato qui le loro vite”, disse con voce flebile, ma ferma. Così Mstislav Rostropovitch, uno dei più grandi musicisti del Novecento, celebrò la sua personale liberazione e quella del suo mondo prigioniero per lunghi anni in attuazione di una vendetta pianificata e consumata dai sovietici contro l’Europa, con la complicità vile di governi europei ossequiosi di quel malsano “ordine” che veniva dal Cremlino. Un mese dopo, Vaclav Havel, l’eroe della primavera di Praga, pronunciò davanti al Parlamento di Varsavia un discorso tra i più vibranti della storia della libertà riconquistata dicendo tra l’altro: “Al momento l’Europa è divisa. Ed è divisa anche la Germania. Sono due facce della stessa medaglia: è difficile immaginare un’Europa che non sia divisa in una Germania divisa, ma è anche difficile immaginare la Germania riunificata in un’Europa divisa. I due processi di unificazione dovranno svilupparsi parallelamente, e anche subito se possibile… I tedeschi hanno fatto molto per noi tutti: essi hanno cominciato da soli a demolire il muro che ci separa dal nostro ideale: un’Europa senza muri, senza sbarre di ferro, senza filo spinato”. Difficilmente oggi, trent’anni dopo quei fatti che cambiarono in parte il volto del mondo, riusciamo a percepire l’eco delle ispirate parole del grande drammaturgo ceco diventato leader politico. Ed anche le grida di gioia sono poco più d’un ricordo per noi occidentali un po’ distratti consapevoli tuttavia che l’Europa immaginata da Havel e quella sognata dai berlinesi “liberati” in una notte d’autunno non è ancora sostanzialmente unita. Andare oltre il comunismo non è stato facile, costruire in un sistema di libertà una patria comune è certamente ancora difficile. Perché i postumi di quelle ferite sanguinanti dalla fine della Seconda Guerra mondiale agli inizi degli anni Novanta dello scorso secolo, si avvertivano ancora. Ed i loro effetti si fanno sentire, al punto che l’Europa lungi dall’essere unita, risente di antiche divisioni con le quali l’eredità geopolitica della stagione comunista si propone alla nostra attenzione dal momento che non tutto è andato come Helmut Kolh, Margareth Thatcher, Ronald Reagan immaginavano. L’Unione europea, per quanto possa sembrare paradossale, ha introiettato antiche incomprensioni e nel suo ambito gruppi di nazioni guardano a soluzioni diverse per rinnovare la struttura politica continentale. E di quella tragedia, la schiavitù di buona parte dell’Europa sembra che nessuno voglia può sentir parlare, come non si parla più della liberazione del 1989. Lo studioso francese Stephan Courtois, ideatore e curatore del Libro nero del comunismo, così ha sintetizzato gli effetti della caduta del Muro: “Rimane un’immensa tragedia che continua a pesare sulla vita di centinaia di milioni di uomini e che caratterizza l’entrata nel terzo Millennio”. Ma essa sembra essere stata rimossa piuttosto che fornire gli stimoli per una nuova primavera europea. Nessuno di coloro che si compiacevano di aderire al sovietismo e giustificò la costruzione del Muro, ha speso una parola per dire che la cultura europea è stata per buona parte complice nell’edificazione di tutti i muri, materiali e psicologici, che sono stati edificati dal 1917 in poi. I conti, dunque, debbono ancora essere completati. E quando ci si scandalizza di fronte alle tesi dello storico tedesco Ernst Nolte sui contrapposti totalitarismi del Ventesimo secolo, nel tentativo di assolvere almeno in parte quello stalinista, si ha la sensazione che il Muro di Berlino non sia ancora stato abbattuto. Sono soprattutto gli eredi di quei partiti comunisti occidentali che profusero grandi passioni nell’esibire la loro sudditanza nei confronti non soltanto dell’Unione Sovietica, ma del comunismo in genere variamente declinato, a mostrarsi ancora reticenti nell’affrontare il tema del post- comunismo alla luce dei danni provocati dall’ideologia che ha insanguinato tante aree del Pianeta. Una riflessione sul lascito del comunismo andrebbe fatta dopo tre decenni nel corso dei quali si è creduto che tutto fosse cambiato, mentre in realtà, in alcuni Paesi è mutata soltanto la forma del potere anche se nessuno si azzarda più per decenza a citare Lenin, Stalin o i classici del comunismo a supporto di politiche che si combinano maldestramente con l’apologia di un ben singolare “mercato” come nella Cina popolare, Paese che sta facendo strame dei diritti dei popoli dal Tibet allo Xinjiang dove gli uiguri vengono sistematicamente massacrati nell’indifferenza di quello stesso mondo libero che plaudì alla caduta del Muro. Xi Jinping, il nuovo satrapo rosso, ha diramato direttive che rimandano alla “rivoluzione culturale”, eppure con lui non soltanto tutti fanno i conti, ma con il suo imperialismo, dispiegato soprattutto in Africa, si tratta alacremente mettendo tra parentesi le persecuzioni contro cristiani e musulmani e plaudendo ad una espansione economica fondata sullo schiavismo. Ed il grottesco e crudele tiranno nordocoreano Kim Jong- un, massacratore seriale, nel nome del comunismo, come suo nonno Kim Il- Sung e suo padre Kim Jong- Il, diventa addirittura interlocutore delle democrazie occidentali per miserabili moralmente affari economici. Per non dire di dittature che al marxismo- leninismo ancora si richiamano con una confusione semantica, culturale e politica ridicola se la stramba dottrina non venisse utilizzata come giustificazione di crimini che passano in secondo piano in larga parte del mondo. L’ultimo Muro che ancora deve cadere, dunque, è quello culturale e mercantile. Rimuovere serve soltanto a relegare i fantasmi dove non possono più nuocere, mentre l’eredità del secolo delle “idee assassine”, secondo la felice espressione di Robert Conquest , evapora lasciando un buco vasto nella memoria collettiva. E’ per questo che il Muro cadde nella notte del 9 novembre 1989? Due anni dopo la costruzione del Muro, il 26 giugno 1963, il presidente degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy, in visita a Berlino, tenne il discorso più duro contro il simbolo del sovietismo trionfante: “Ci sono molte persone al mondo – disse – che non comprendono, o non sanno quale sia il grande problema tra il mondo libero e il mondo comunista. Fateli venire a Barlino! Ci sono annunci che dicono che il comunismo è l’onda del futuro. Fateli venire a Berlino! Ci sono alcuni che dicono che, in Europa e da altre parti, possiamo lavorare con i comunisti. Fateli venire a Berlino! E ci sono anche quei pochi che dicono che è vero che il comunismo è un sistema maligno, ma ci permette di fare progressi economici. Fateli venire a Berlino! Tutti gli uomini liberi, ovunque essi vivano, sono cittadini di Berlino. E quindi come uomo libero sono orgoglioso di dire: “Ich bin ein Berliner!”. Oggi Berlino non accende entusiasmi, ma inquietudini. Quando la politica perde l’anima è quel che accade. Mentre nuovi muri sorgono in Europa che, piegata su se stessa, si domanda quale sarà il suo destino.
Feltri: «Nei giornali il muro rosso è ancora in piedi». E il web lo applaude. Giorgia Castelli su Il Secolo d'Italia sabato 9 novembre 2019. Trent’anni fa cadeva il muro di Berlino. Nel giorno della ricorrenza che celebra la fine del comunismo filo-sovietico Vittorio Feltri racconta un fatto personale legato al giornalismo. Il direttore di Libero su Twitter scrive che «Quando cadde il muro di Berlino ero direttore del periodico Europeo, Rizzoli». E spiega che il settimanale «non usciva perché i redattori comunisti scioperarono due mesi contro di me». Per poi concludere: «Nei giornali il muro rosso è ancora in piedi».
Feltri, pioggia di commenti sul web. Tantissimi i commenti al post. Alcuni sinistri lo insultano, ma la maggior degli utenti parte lo applaude. Scrive un utente: «Il comunismo è in piedi anche nelle televisioni, specialmente quelle che ci fanno pagare forzatamente. Rosse, propagandistiche, becere e piene di raccomandati che devono prima giurare fedeltà alla Stasi, e poi li assumono». E un’altra osserva: «Non solo nei giornali, direttore, i comunisti hanno eretto un muro contro gli italiani che la pensano diversamente da loro». E un altro ancora amaro commenta: «Pensiamo di aver abbattuto il muro di Berlino e quindi l’ideologia. Ma in realtà, vedo il “pensiero unico” sempre subdolo. Il sostantivo “condivisione” lo esprime bene: ed è vittima di ostracismo chi non si schiera». E infine: «Adesso caro @vfeltri bisogna abbattere un’altro muro in Italia… Quello rosso sinistro pdiota del Pd».
Germania: quanto è costata ai tedeschi, all’Europa e all’Italia la caduta del muro. Pubblicato domenica, 27 ottobre 2019 su Corriere.it da Milena Gabanelli e Danilo Taino. Un fiume di denaro per allineare la ex Ddr, ma dopo 30 anni le differenze restano e l’estrema destra vola. All’inizio degli anni ‘90, i Länder della Ddr erano arretrati di decenni rispetto a quelli occidentali, per standard di vita, infrastrutture, capacità produttive, libertà di ricerca, innovazione, imprese capaci di stare sui mercati. Alla promessa di Kohl di elevare gli standard di vita al livello di quelli dell’Occidente non si può dire che non seguirono i fatti: ed è proprio qui che iniziano parecchi guai. Con atto di generosità tutta politica, Kohl decise, contro il parere di quasi tutti gli economisti, di trasformare i marchi dell’Est in marchi dell’Ovest alla parità, quando i primi avevano un valore inferiore. Uno sforzo gigantesco, al quale hanno contribuito investimenti non solo tedeschi, attratti dalle opportunità create dalla riunificazione e dalla ricostruzione. Dal 1991 alla fine del ‘98 – secondo l’elaborazione su dati di fonte Bundesbank elaborati dall’economista Roberto Violi – affluirono verso la Germania investimenti esteri per 1.247 miliardi di euro. Di cui 371 miliardi provenienti dai Paesi che avrebbero poi costituito l’Unione monetaria. Per quel che riguarda l’Italia, in quegli otto anni contribuì complessivamente con 39, 6 miliardi. Va ricordato che una conseguenza della riunificazione fu la crisi del Sistema monetario europeo (Sme) del 1992, che colpì in particolare lira e sterlina. «L’alta domanda pubblica e privata di capitali – scrisse il famoso economista Hans-Werner Sinn a metà Anni Novanta – fece aumentare i tassi d’interesse tedeschi rispetto a quelli di altri Paesi, incrementò l’attrattività del marco tedesco come moneta d’investimento e creò una forte pressione affinché si apprezzasse». Lo Sme, che stabiliva parità valutarie tra i Paesi europei, non resistette, il marco tedesco si rivalutò e la crisi politica che ne seguì diede una spinta decisiva alla moneta unica, già prevista nel Trattato di Maastricht del febbraio 1992. Le cancellerie europee, infatti, timorose della forza aumentata della Germania unita, avevano dato il via libera alla riunificazione proprio in cambio della rinuncia, da parte della Germania, alla sovranità monetaria.In questo quadro i Länder orientali affrontano la corsa per colmare il divario con quelli occidentali: il deutschmark diventato fortissimo, le ristrutturazioni aziendali e i salari aumentati non rispondono alla realtà sul terreno, dove ogni cinque posti di lavoro, quattro scompaiono. L’industria manifatturiera è sostituita dai trasferimenti pubblici e dai nuovi investimenti, i quali però impiegano tempo a ricostruire un’economia. Intanto inizia l’emigrazione: un milione e novecentomila persone se ne vanno da Est a Ovest, i piccoli centri e le campagne spesso si spopolano, soprattutto le ragazze se ne vanno. Alcune città, come Lipsia e Dresda in Sassonia, partecipano alla ricostruzione con spirito imprenditoriale, e sono nate imprese ad alta tecnologia, altre zone rimangono ai margini.Certo l’economia della ex Ddr non è mai stata così robusta, ma l’allineamento segna il passo. Ad esempio, a Est non ha il quartier generale nessuna delle trenta maggiori aziende tedesche quotate al Dax30. E delle 500 imprese più grandi della Germania, solo 37 sono basate nei Länder orientali, 17 se si esclude Berlino. Insomma il cuore economico tedesco continua a battere a Ovest. I due pezzi di Germania sono più simili, ma gli indicatori economici, sociali, culturali e politici raccontano che le differenze sono rimaste, nonostante l’enorme trasferimento di risorse, e che da una quindicina d’anni il processo di convergenza si è fermato.È in questa situazione di chiaro e scuro che maturano le insofferenze e le differenze politiche, che potrebbero diventare un problema serio per l’intera Germania: a Est, i partiti di estrema destra hanno raggiunto il 25% dei consensi.
Milena Gabanelli e Danilo Taino per “Dataroom - Corriere della Sera” il 29 ottobre 2019. Quel tardo pomeriggio, mentre il Muro cadeva e Angela Merkel faceva la sauna settimanale, nessuno pensava alla produttività, alla disoccupazione, alla crescita dell’economia. Era il 9 novembre 1989, le ombre della sera erano già calate su Berlino, a Ovest e a Est, la barriera di mattoni, filo spinato e nidi di mitragliatrice che dal 13 agosto 1961 aveva spezzato la città si sgretolava. Il pensiero dei berlinesi e di tutto il mondo era per la vittoria della democrazia. Oggi sappiamo però che si apriva la lunga stagione, per la Germania socialista, della rincorsa per imitare e diventare uguale alla Germania dell’Ovest, democratica, capitalista, ricca.
Il prezzo della riunificazione si paga ancora oggi. All’inizio degli anni ‘90, i Länder della Ddr erano arretrati di decenni rispetto a quelli occidentali, per standard di vita, infrastrutture, capacità produttive, libertà di ricerca, innovazione, imprese capaci di stare sui mercati. Alla promessa di Kohl di elevare gli standard di vita al livello di quelli dell’Occidente non si può dire che non seguirono i fatti: ed è proprio qui che iniziano parecchi guai. Con atto di generosità tutta politica, Kohl decise, contro il parere di quasi tutti gli economisti, di trasformare i marchi dell’Est in marchi dell’Ovest alla parità, quando i primi avevano un valore inferiore. Nel 1991 fu introdotta la Solidaritätszuschlag – Soli –, una tassa del 5,5% sul reddito di tutti i cittadini tedeschi per finanziare la ricostruzione dell’Est. Di recente è stata ridotta (ma nel 2018 ha raccolto ancora 18,9 miliardi di euro) e nel trentennio ha finanziato uno spostamento di risorse da Ovest a Est per almeno duemila miliardi. Nel giugno 1990, fu fondata la Treuhandstalt, alla quale fu dato il compito di ristrutturare 8.500 imprese di Stato della Ddr, con oltre quattro milioni di dipendenti. Furono privatizzate le caserme, le proprietà dei partiti, le case popolari, 2,4 milioni di ettari di terreni agricoli e foreste. In parallelo, partì un grande piano di infrastrutture che ha portato i Länder orientali ad avere strade, ferrovie, ponti, parchi, a rinnovare il 65% del patrimonio abitativo e all’eliminazione del 95% delle emissioni di anidride solforosa, delle quali la Ddr era il primo emettitore europeo.
Il contributo dei capitali italiani. Uno sforzo gigantesco, al quale hanno contribuito investimenti non solo tedeschi, attratti dalle opportunità create dalla riunificazione e dalla ricostruzione. Dal 1991 alla fine del ‘98 – secondo l’elaborazione su dati di fonte Bundesbank elaborati dall’economista Roberto Violi – affluirono verso la Germania investimenti esteri per 1.247 miliardi di euro. Di cui 371 miliardi provenienti dai Paesi che avrebbero poi costituito l’Unione monetaria. Per quel che riguarda l’Italia, in quegli otto anni contribuì complessivamente con 39, 6 miliardi.
Il crollo dello Sme. Va ricordato che una conseguenza della riunificazione fu la crisi del Sistema monetario europeo (Sme) del 1992, che colpì in particolare lira e sterlina. «L’alta domanda pubblica e privata di capitali – scrisse il famoso economista Hans-Werner Sinn a metà Anni Novanta – fece aumentare i tassi d’interesse tedeschi rispetto a quelli di altri Paesi, incrementò l’attrattività del marco tedesco come moneta d’investimento e creò una forte pressione affinché si apprezzasse». Lo Sme, che stabiliva parità valutarie tra i Paesi europei, non resistette, il marco tedesco si rivalutò e la crisi politica che ne seguì diede una spinta decisiva alla moneta unica, già prevista nel Trattato di Maastricht del febbraio 1992. Le cancellerie europee, infatti, timorose della forza aumentata della Germania unita, avevano dato il via libera alla riunificazione proprio in cambio della rinuncia, da parte della Germania, alla sovranità monetaria.
Germania trent’anni dopo. In questo quadro i Länder orientali affrontano la corsa per colmare il divario con quelli occidentali: il deutschmark diventato fortissimo, le ristrutturazioni aziendali e i salari aumentati non rispondono alla realtà sul terreno, dove ogni cinque posti di lavoro, quattro scompaiono. L’industria manifatturiera è sostituita dai trasferimenti pubblici e dai nuovi investimenti, i quali però impiegano tempo a ricostruire un’economia. Intanto inizia l’emigrazione: un milione e novecentomila persone se ne vanno da Est a Ovest, i piccoli centri e le campagne spesso si spopolano, soprattutto le ragazze se ne vanno. Alcune città, come Lipsia e Dresda in Sassonia, partecipano alla ricostruzione con spirito imprenditoriale, e sono nate imprese ad alta tecnologia, altre zone rimangono ai margini.
Le grandi imprese stanno sempre a Ovest. Certo l’economia della ex Ddr non è mai stata così robusta, ma l’allineamento segna il passo. Ad esempio, a Est non ha il quartier generale nessuna delle trenta maggiori aziende tedesche quotate al Dax30. E delle 500 imprese più grandi della Germania, solo 37 sono basate nei Länder orientali, 17 se si esclude Berlino. Insomma il cuore economico tedesco continua a battere a Ovest. I due pezzi di Germania sono più simili, ma gli indicatori economici, sociali, culturali e politici raccontano che le differenze sono rimaste, nonostante l’enorme trasferimento di risorse, e che da una quindicina d’anni il processo di convergenza si è fermato.
Terreno fertile per la destra estrema. È in questa situazione di chiaro e scuro che maturano le insofferenze e le differenze politiche, che potrebbero diventare un problema serio per l’intera Germania: a Est, i partiti di estrema destra hanno raggiunto il 25% dei consensi. Per ragioni economiche e sociali, ma forse anche per qualcosa di più complesso che si accende nella mente di chi deve sempre imitare, in questo caso l’Occidente. «Gli imitatori non sono mai persone felici – ha scritto il presidente del Centro per le strategie liberali di Sofia Ivan Krastev – Non possiedono mai il loro successo, possiedono solo i loro fallimenti».
· Benito Mussolini: Italia Comunista. Ovvero: il Biennio Rosso.
Benito Mussolini: Italia Comunista. Ovvero: il Biennio Rosso. Da Fmboschetto.it. Ho sempre pensato con un certo interesse ad un Mussolini ancora socialista prima della Grande Guerra (come del resto era, e pure direttore dell'Avanti) e ancora socialista dopo di essa. Le agitazioni postbelliche di tipo rosso del 1919-1920 in Italia sono molto forti e hanno un peso specifico notevole. Tra l'altro il PSI nel novembre del 1919 era il primo partito con il 32% delle preferenze, quasi tutte le fabbriche del nord erano occupate e più di 400000 lavoratori occuparono gli stabilimenti del triangolo industriale (Milano,Torino,Genova). Mussolini, da socialista convinto si lancia con entusiasmo nella lotta di classe, che sfocia rapidamente in una guerra civile, ma andiamo con ordine:
1918: Il 4 Novembre l'Italia forza l'Austria Ungheria all'armistizio. Intanto in Russia crescono i fermenti bolscevichi, che iniziano a prendere il paese in mano con aspri combattimenti contro le forze “Bianche” e le truppe delle nazioni borghesi. L'Ala Massimalista del Partito Socialista prende la maggioranza su quella Riformista, ben salda nelle mani di Serrati, alla quale aderisce anche Mussolini, sebbene la minoranza riformista Turatiana sia ancora forte e la crescente corrente comunista guadagna sempre più consenso.
1919: Si aprono i lavori della Conferenza di Versailles: l'Italia ottiene Trento,Bolzano,Trieste e parte dell'Istria, ma non Fiume. Forte delusione nazionalista, e aumentata dal carovita e dal ritorno dei reduci dal conflitto, la situazione si fa esplosiva. I Sovietici conquistano l'Estonia in Gennaio, si ritirano da essa nel tardo gennaio e ad inizio febbraio invadono la Ucraina e la occupano, e a metà del mese dichiarano guerra alla Polonia. In Marzo Lenin e Trotskij aprono i lavori della Terza Internazionale Comunista, che chiede l'espulsione dell'ala riformista dal PSI. In questo mese l'Ungheria si costituisce come repubblica socialista; e Benito Mussolini, sempre più fervente massimalista, tendente al comunismo ormai organizza le Squadre di Autodifesa Operaia (SAO) a Milano. In Aprile la Baviera si rende indipendente dalla Germania e diviene una repubblica socialista: sullo slancio del momento è proclamata a Milano una Repubblica Socialista Milanese, il cui triumvirato è composto dallo stesso Mussolini, Serrati e Turati (un componente per ogni corrente del partito, sebbene i Comunisti ormai stiano assorbendo i Massimalisti). Gramsci fonda l'Ordine Nuovo, giornale della corrente Comunista del PSI, che esorta alla lotta. Il Governo Orlando cade in seguito alle agitazioni nelle fabbriche e nelle campagne del Nord, dove i “Rossi” sono molto forti, gli succede Nitti, che proclama lo stato d'assedio a Milano,Genova e Bologna. In Maggio la Germania schiaccia i socialisti rivoluzionari bavaresi e in luglio è restaurata la monarchia in Ungheria, con la reggenza dell'Ammiraglio Horthy. In settembre, reduci,arditi,nazionalisti e teste calde (circa 2500 volontari) attaccano Fiume sotto il comando di D'Annunzio, vengono massacrati dall'Esercito Italiano. La città verrà assegnata all'Italia insieme a Zara e a numerose isole e località dalmate nel 1920. Ad Ottobre, nella Bologna sotto stato d'assedio la corrente comunista è maggioritaria ed espelle i riformisti dal partito, assorbendo la linea Massimalista al proprio interno nasce il nuovo Partito Comunista d'Italia. Le nuove linee guida sono quelle rivoluzionarie e gli operai si armano. Si diffonde capillarmente nelle città il movimento mussoliniano, che organizza ovunque gruppi di difesa delle fabbriche sotto occupazione, con il solo compito di cacciare le forze governative.
1920: Forze Comuniste e Socialiste Rivoluzionarie arrivano ad occupare l'intera Milano, parti di Torino (con la FIAT in mano agli operai dal tardo dicembre), numerose fabbriche in tutto il Nord, la Città di Bologna e vaste porzioni di Romagna e Toscana. I Governativi e i movimenti nazionalisti che si riconoscono nella tentata Impresa di Fiume sono la reazione agli scioperi e alle occupazioni. A Milano il 2 Febbraio si costituisce il governo provvisorio della neonata Repubblica Socialista d'Italia nella quale il socialista rivoluzionario Mussolini è vice commissario generale. Il Commissario Generale è il comunista Amadeo Bordiga. In Luglio, dopo agitazioni rivoluzionarie nel Triveneto le forze nazionaliste di Francesco Giunta bruciano l'Hotel Balkan a Trieste, in tutta risposta le forze rivoluzionarie occupano numerose città venete come Verona e Monfalcone, e la stessa Trieste. La rivoluzione prosegue e si diffonde anche nel Centro Sud, i braccianti si ribellano in tutta la Puglia e la Sicilia, mentre a Canneto Sabino (RI) i Carabinieri sparano sui braccianti che chiedevano una revisione del contratto colonico lasciando undici morti sul terreno. La figura del Re è sempre più compromessa agli occhi della popolazione e il governo Liberal-Popolare minaccia d'espellere i deputati del ex-PSI dal parlamento. Alla seduta successiva tutti i deputati socialisti rivoluzionari e comunisti si dimettono dalla carica e dichiarano decaduto lo stato monarchico italiano. Molti di loro vengono catturati. A macchia d'olio, nel tardo 1920 i Rivoluzionari controllano quasi tutta l'Emilia-Romagna e le Marche odierne, la Bassa Lombardia con Milano, Torino, Genova e numerose località liguri, L'entroterra veneto tra Verona e Treviso, oltre a importanti città friulane come Monfalcone, Cividale, Pordenone e Trieste. La Toscana è quasi del tutto in mano ai rivoluzionari e aree agricole di Puglia,Lazio,Abruzzo e Sicilia sono cadute in mano ai ribelli. Gli Alleati dell'Intesa si affrettano a sostenere i nazionalisti quando si accorgono che il Re è ormai totalmente senza poteri, il governo liberal-popolare è debolissimo e l'esercito è allo sbando, con diserzioni vicine al 40% del totale. Per loro è troppo tardi, le forze nazionaliste dannunziane vengono sconfitte nella Bassa Veneta da una sommossa popolare in seguito al tentato omicidio del deputato Matteotti, riconosciuto come animatore delle lotte nel Polesine. Il consenso verso i nazionalisti è al minimo storico e la fiducia nella monarchia è quasi del tutto un ricordo, i vecchi alleati si presentano restii ad un intervento e perciò la situazione volge rapidamente a favore dei Comunisti e dei Socialisti Rivoluzionari, che si preparano a controllare tutto o quasi il Norditalia nel 1921.
1921: A Livorno si apre il primo congresso del Partito Comunista: ne emergono le importanti figure di Gramsci, Terracini e Bordiga, senza contare quella ingombrante del capo delle SAO, Benito Mussolini. Dal congresso nasce il nuovo giornale di partito, il Comunista, e la linea di condotta di avvicinamento all'URSS; iniziano le collettivizzazioni, gli espropri e il passaggio nel Centro Nord ormai sotto controllo Comunista ad un'economia socialista con elementi della NEP Leninista. Si programma inoltre l'apertura a Milano della nuova Università Proletaria per tutti coloro che saranno meritevoli d'un istruzione superiore anche se non nelle loro possibilità. Il Governo Provvisorio della Repubblica Socialista d'Italia è riconosciuto dall'URSS. Vengono organizzate regolari elezioni nei vari Gruppi Sociali (Soviet) dell'Italia Rivoluzionaria: ne emerge un monocolore comunista a parte la presenza del Socialista Rivoluzionario Mussolini che ottiene il Commissariato della Lotta, (Ministero della Difesa), mentre Gramsci lo sostituisce come Vice Commissario del Popolo, e Bordiga è confermato Commissario Generale del Popolo. La Linea guida del nuovo governo è dura: espropri agli agrari, cessione del controllo delle fabbriche ai Gruppi Sociali di Lavoro (GSL) degli Operai, passaggio della terra alle Comunità Agricole Sociali (CAS), riforma economica, concessione della giornata lavorativa di otto ore, delle malattia, della maternità e della previdenza sociale. Dal punto di vista militare, le SAO confluiscono nel ben più ampio e progettato esercito, l'Armata Rossa Italiana. La Repubblica Socialista controlla tutto il Norditalia in giugno e insedia suoi Commissari del Popolo nelle Prefetture, la Armata Rossa di Mussolini sta schiacciando i nazionalisti e i realisti che si difendono ancora in Valtellina e Carnia, mentre in Toscana,Marche ed Emilia Romagna la situazione è ormai sotto controllo degli insorti. Più a sud dei CAS sono sorti nel Basso Lazio, in Abruzzo, in Puglia e Sicilia, mentre GSL tengono sotto controllo diverse industrie nelle città di Bari,Taranto,Palermo e Napoli. I Liberal-Popolari che controllano ormai solo Roma, la Sardegna, parti dell'Umbria e della Campania, e vaste zone del meridione sono ormai debolissimi e al governo Nitti è sostituito da Facta. Vittorio Emanuele II chiede il supporto degli ex alleati della Prima Guerra Mondiale, ma questi non si vogliono impegnare in un conflitto direttamente, e rispondono picche sebbene stiano aiutando con armi,munizioni e supporto logistico i nazionalisti che si annidano nel Nordest. L'Alto Adige, appena annesso si dichiara per plebiscito austriaco e caccia gli Italiani in Trentino, l'Austria vede la regione dichiararsi indipendente anche se la Società delle Nazioni la assegnerà all'Austria nel 1925. In Novembre le prime riforme diventano operative: la creazione dei GSL non causa molti problemi a causa delle fabbriche occupate fin dal tardo 1919, per quanto riguarda la creazione dei CAS si hanno maggiori problemi perché spesso gli agrari usano delle milizie di sbandati,teste calde e nazionalisti esagitati per difendere le proprie terre e così molte volte bisogna ricorrere alle armi. La giornata lavorativa di otto ore e 15 giorni di malattia vengono riconosciuti ai lavoratori, nei GSL e nei CAS il diritto di voto diviene a suffragio universale, anche femminile. Si progetta la riorganizzazione del governo del territorio, con GSL e CAS riuniti in un'entità più grande , il Settore (Comune) a loro volta riuniti in una nuova suddivisione chiamata Zona (Circondario), che ha un Commissariato del Popolo come centro principale (Prefettura e Provincia). Forze Francesi vengono scoperte nel tentativo di invadere la Valle d'Aosta e le Valli Piemontesi, perciò scoppia la guerra tra Italia Rivoluzionaria e Francia. In quest'anno migrano dall'Italia rivoluzionaria circa duecentomila membri della Borghesia,Agrari e Nobili, ma anche semplici nazionalisti. I Rivoluzionari battono i Francesi a Susa e a Ventimiglia, cacciandoli fuori dai confini nazionali e arrivando ad occupare Mentone e Modane. La Francia riconosce la Repubblica Socialista, che ritira le forze dalla Francia, sebbene Mussolini sia fermamente contrario e chiedeva di estendere la rivoluzione proletaria anche a quei paesi italiani fuori dall'Italia stessa. I successi della riorganizzata Armata Rossa portano alla conquista di Viterbo, Perugia e Teramo, mentre nel Sud la rivolta si fa sempre più accesa.
1922: Viene fondato a Monza l'Istituto Superiore d'Industrie Artistiche, Achille Ratti viene eletto Papa, mentre il 3 Aprile Stalin diviene Segretario del PCUS. Forze Rivoluzionarie marciano su Roma, Re Vittorio Emanuele si imbarca su un piroscafo ad Ostia e si rifugia in Sardegna con il suo entourage. Le forze dell'Armata Rossa guidate da Mussolini sfilano nei Fori Imperiali, mentre nel sud la resistenza monarchica e nazionalista è piegata con la forza, con le vittorie rivoluzionarie del Novembre 1922 a Modugno e a Sibari. I pochi realisti rimasti, i nazionalisti, gli agrari e la borghesia, ma anche numerosi cristiani fuggono dall'Italia Socialista, che si estende dalle Alpi alla Calabria, mentre il Re controlla Sardegna e Sicilia. L'Italia è riconosciuta dalla Svizzera, mentre Squadre di Autonomi conquistano San Marino e ne dichiarano l'annessione all'Italia. Nel tardo 1922 Mussolini tenta il colpo di mano per diventare Dittatore del Popolo, ma né Gramsci, né Bordiga, né Matteotti gli permettono di compierlo e così Mussolini, l'idolo dell'esercito ed eroe della rivoluzione è costretto a fuggire dal proprio paese in Svizzera. (Si noti l'analogia con Trotskij, sebbene quest'ultimo non tentò mai di assumere la leadership dell'Unione Sovietica). A Dicembre i rivoluzionari hanno terminato la suddivisione del paese in zone, settori, gruppi sociali di lavoro e comunità agricole sociali, istituendo le elezioni del Commissariato Generale nel Maggio 1923. Regno Unito, Repubblica di Weimar e numerosi paesi sudamericani, oltre al Commonwealth riconoscono la Repubblica Socialista Italiana. Sul piano delle riforme viene organizzato un abbozzo di previdenza sociale sotto il Commissario alle Necessità Popolari Terracini, vengono nazionalizzati i beni stranieri sul suolo italiano, con il disappunto Inglese, viene inoltre varato il Primo piano quinquennale, con il fine di aumentare la produzione industriale e di raggiungere l'autonomia agricola. Dal punto di vista diplomatico dopo i vari riconoscimenti del nuovo stato italiano, il Commissario agli Esteri, Palmiro Togliatti, si reca a Mosca per conferire con il neo segretario del PCUS Stalin, riguardo una alleanza dei due paesi socialisti in funzione antiborghese e anticapitalistica. Alcune collettivizzazioni nel Centro Sud si rivelano più difficili del previsto e diversi scontri avvengono tra i pochi piccoli proprietari e i braccianti. In quest'anno abbandonano il paese circa trecentomila persone, mentre la guerra civile ha ucciso circa quattrocentomila persone.
1923: Riorganizzazione ulteriore all'interno dello Stato, viene fondata la città di Garibaldi (la nostra Imperia), vengono aboliti ufficialmente i partiti differenti dal PCI il 10 febbraio sono sciolti dal commissariato Bordiga, che stava in quel periodo concludendo il proprio mandato popolare: si presentano quattro “liste” alle elezioni del Maggio 1923:
- Sinistra (candidato Commissario Amadeo Bordiga), posizioni molto internazionaliste, vuole una abolizione del centralismo democratico dell'URSS adottato finora e l'adozione del sistema del centralismo organico, che consisteva nell'utilizzo delle varie cellule del partito in modo quasi biologico e simbiotico che partecipano insieme al tutto e quindi alla organizzazione e gestione dello stato.
- Centro (candidato Commissario Antonio Gramsci), posizioni più moderate riguardo l'internazionalismo, sebbene sia molto importante questa componente all'interno della corrente, moderatamente approva una bolscevizzazione ulteriore del partito e del paese. Sostiene il centralismo democratico Leninista.
- Destra (candidato Commissario Angelo Tasca), posizioni meno forti e apertura ad una possibile creazione di liste non comuniste e quindi non del PCI. Antistalinista e con posizioni vicine alla vecchia ala massimalista.
- Ex-Socialisti (candidato Commissario Giacinto Menotti Serrati), ultimi superstiti degli ex-massimalisti, fortemente antistalinisti, posizioni tiepide verso Lenin, per un ritorno alla democrazia popolare e un'attuazione meno dura della rivoluzione.
I voti delle 167 Zone esistenti si distribuirono in questo modo:
- 87 Commissari per la Sinistra (52,09%)
- 41 Commissari per il Centro (24,55%)
- 25 Commissari per la Destra (14,97%)
- 14 Commissari per gli Ex-Socialisti (8,39%)
Questo comportò la rielezione di Bordiga per la terza volta a Commissario Generale del Popolo, come Vicecommissario venne scelto Palmiro Togliatti, alle Necessità Popolari (Lavoro,Sanità,Scuola) venne posto Grieco, alla Lotta (Difesa,Ordine Pubblico) Terracini, agli Esteri Antonio Gramsci.
In Germania il nazionalsocialista Adolf Hitler prende il potere del Lander di Baviera, vincendo le elezioni con il NSDAP.
1924: Muore Lenin, gli succede Stalin. Cordoglio di tutto il PCI e del governo Socialista Italiano. Nasce il giornale dell'Unità, fondatore il Commissario agli Esteri Gramsci. Il commissario di Rovigo, componente del gruppo Ex-Socialista, Giacomo Matteotti viene ucciso da forze della sinistra del PCI, crisi politica; la Sinistra perde una ventina di commissari che si dimettono in seguito alle indagini, che li ritrovano collusi, Bordiga mantiene il governo, ma è costretto a concedere numerosi compromessi al Centro Gramsciano, che porta a termine il proprio piano di partecipazione democratica al partito e quindi al governo del paese.
Ed ecco ora la continuazione di Ainelif:
1925: Il plebiscito che anni prima aveva sancito il ritorno del Trentino Alto-Adige all'Austria è impedito da una reazione di alcuni soldati italiani posizionati in Lombardia e Veneto che occupando le strade di Trento appendono la bandiera italiana con la falce e il martello sul municipio. Il governo di Vienna invita gli Italiani a ritirarsi dalla regione altoatesina e si affida alle sanzioni della SdN, sperando che essa sappia domare lo spirito irredentista della rossa Italia; ma l'Armata Rossa Italiana il 3 gennaio ben riammodernata quasi al livello delle grandi potenze occidentali travolge le fanterie austriache sul confine ed entra prima a Trento e poi a Bolzano dove è cancellata ogni segnaletica germanica e perseguitata duramente la tedescofilia; l'Austria, uno dei paesi più sconfitti della Prima Guerra Mondiale non può che accettare e rimanere muta di fronte alla riannessione italiana del Trentino Alto-Adige, successivamente la Repubblica Socialista Italiana esce dalla Società delle Nazioni che vi era entrata pochissimi anni prima. Il Commissario Bordiga esautora il Parlamento e dichiara di volersi impossessare delle colonie d'oltremare di Libia, Eritrea, Dodecaneso e Somalia; ma difetta del problema di bolscevizzare l'intero corpo militare italiano ed eliminare il rimanente Regno Sabaudo ridotto alle sole Sicilia e Sardegna. Inizia l'instaurazione di una dittatura comunista nazionale, come la definisce Togliatti "Via Italiana al Socialismo" che è incaricato da Bordiga di sciogliere ogni partito politico che non sia di ispirazione radicale di sinistra; le SAO mussoliniane compiono stragi efferate in Emilia-Romagna nei confronti di nobili ed aristocratici che rifiutano al dover rinunciare ai propri beni e titoli, è il caso dei Visconti e Sforza che sfuggono alle persecuzioni sempre in Francia e Austria. Per quanto riguarda le elezioni, una speciale legge le abolisce sostituendole con dei plebisciti popolari; il Commissario del Popolo però è vista come una carica politica debole, quasi facilmente corruttibile e deponibile dalle forze "reazionarie" esterne occidentali così, il Ministro degli Interni, Gramsci crea il Gran Consiglio del Popolo, formato dai massimi esponenti del Partito.
1926: Alcide De Gasperi, il nuovo segretario del Partito Popolare Italiano aizza i partigiani cattolici nel loro movimento clandestino anticomunista Giustizia e Libertà, una formazione che riunisce anche i Liberali; in più lo stesso leader cattolico centrista ha preso la cittadinanza a Parigi insieme al repubblicano Randolfo Pacciardi e a monarchici come Italo Balbo e il celebre poeta Gabriele d'Annunzio.
L'Italia Socialista viene ad essere in conflitto con la Spagna di Miguel Primo De Riviera appoggiato dal Re Alfonso XIII di Borbone per l'abisso ideologico e politico; il Frent Popular spagnolo è finanziato dal regime comunista italiano al fine di sovvertire il sistema politico iberico e trovare un forte alleato. Il governo portoghese per non cadere ad una rivoluzione rossa dà la propria accondiscendenza ad Antonio De Oliviera Salazar, che a Lisbona trasforma la debole repubblica portoghese in regime fascista. Hitler costruisce un regime totalitario nazista dove promulga le prime leggi razziali a danni di ebrei, comunisti, e democratici, la Baviera diventa uno degli stati più ricchi del Mitteleuropa.
1927: Il regime dittatoriale staliniano avvicina la R.S.I. alle politiche moscovite, ma Bordiga nega un'influenza politica sovietica su quella italiana. Mussolini dopo essersi ripreparato in territorio svizzero con purghe delle SAO diventa Alto Generale dell'Armata Rossa Italiana che con il consendo del governo centrale inizia una guerra personale contro la monarchia sabauda sbarcando a Messina nel mese di maggio; i Siciliani sono in maggioranza anticomunisti ferventi e non accettano l'ascesa della R.S.I., i Savoia fommentano i banditi siculi e latifondisti sull'isola contro l'Armata Rossa Italiana che commette crimini fuori dal comune e impicca Salvatore Giuliano (nella Timeline più vecchio) a Palermo dopo aver conquistato ogni angolo della Trinacria. In pochi mesi, gli incrociatori italiani circondano la Sardegna, il Re Vittorio Emanuele III chiamato satiricamente dai rossi "Re Sciaboletta" non si arrende e difende per mare e per terra la sua residenza a Cagliari dove l'11 agosto viene fucilato per ordine del nuovo Dittatore del Popolo, Benito Mussolini che ha provveduto ad emarginare Amedeo Bordiga nel ruolo di Commissario delle Colonie d'Oltremare dopo che i Savoia sono stati dichiarati decaduti; nella notte fra il 13 e il 14 agosto, il legittimo erede al trono Umberto II con Maria Josè del Belgio fuggono a Londra con i più fedeli monarchici e l'avvocato reale Falcone Lucifero. L'esercito italiano provvede ad occupare tutte le colonie oltre il Mediterraneo, con migliaia di deportazioni di oppositori libici ed abissini al comunismo nazionalista del "Duce". Trattato di mutua non-aggressione di Addis Abeba tra Repubblica Socialista d'Italia e l'Impero Abissino in ottobre. In Albania, Zogu instaura una repubblica eleggendosi presidente a vita e poi autoproclamandosi re, inimicandosi la vicina Italia che cerca nuove zone dove esportare la rivoluzione.
1928: in marzo occupazione di Tirana da parte delle truppe italiane, alcuni navigli entrano nelle baie di Durazzo e Valona bombardando la costa per impaurire gli Albanesi che hanno provveduto ad organizzare sotto dettatura del Re Zog I una guerriglia civile sulle montagne destinata a dilungarsi oltre questo anno. Sanzioni da parte della SdN all'Italia che si riavvicina all'Unione Sovietica e alla Repubblica Popolare Tedesca; la Baviera Hitleriana e la Polonia di Pilsudki il 3 febbraio si alleano militarmente nel Patto Monaco-Varsavia con la visita del Fuhrer bavarese nella capitale polacca. Il Re Paolo II di Jugoslavia posiziona alcune sue legioni militari ai confini albanesi insieme alla Grecia che vede a rischio la propria integrità territoriale nella penisola balcanica.
1929: Venerdì Nero negli USA, si scatena la Grande Depressione con il crollo di Wall Street a New York; milioni di elettori statunitensi non fidandosi dei partiti della sinistra americana che alcune voci infangano accusandola di voler instaurare un regime comunista nel Nordamerica danno la propria fiducia ai Repubblicani di Herbert Hoover, simpatizzante dei regimi autoritari di destra europei, è sconfitto il simpatizzante stalinista Franklyn Delano Roosvelt dei Democratici. In seguito alla crisi falciatrice che devasta anche i Paesi scandinavi, in Norvegia il Re Olaf dà il proprio consenso al nazionalista Vidkun Quisling che provvede ad annunciare prima ad Alesund e poi ad Oslo la costituzione dell'Impero Norvegese, rivale delle vicine Danimarca e Svezia.
1930: In questo anno, i disastri della Grande Depressione si sentono maggiormente in tutta l'America e in Europa. In Francia le proteste operaie e contadine a Lione, Parigi e Marsiglia si dimostrano più violenti ed aggressivi; il governo italiano vedendo la situazione prende contatti con Maurice Thorèz, capo dei Comunisti Francesi per sovvertire la Terza Repubblica, il premier Andrè Tardieu estromette la sinistra radicale dall'Assemblea Nazionale di Parigi provocando una grave scissione politica oltrechè una crisi senza precedenti. Stalin vorrebbe fornire a Thorèz equipaggiamenti sovietici per scatenare una guerra civile in Francia ed eliminare la "presenza reazionaria". In Spagna, il Re Alfonso XIII vede l'incapacità politica di De Riviera e lo licenzia, i problemi principali del paese sono ancora evidenti e alle elezioni municipali i movimenti di sinistra repubblicana del Frent Popular guidati dal "Lenin spagnolo" Francisco Largo Caballero e da Juan Negrìn in aprile ottengono un grande successo elettorale. La monarchia grida ai brogli ed Alfonso XIII non abdica e dunque non prende nemmeno la strada per l'esilio, rimane sul trono e più determinato che mai si ostina a voler un democratico referendum; i comunisti più estremisti non accettano compromessi con lo stato borghese; l'8 giugno scoppia la Guerra Civile Spagnola anticipatamente alla nostra Timeline, il vicino Portogallo sotto il regime di Salazar non interviene ma è favorevole alla vittoria dei Franchisti, che si sono riuniti sotto l'emblema falangista e di destra di Francisco Franco Bahamonde, già governatore delle Canarie. Totale annientamento degli ultimi ribelli libici nel Fezzan da parte della poderosa operazione militare varata dal Generale Graziani per italianizzare la Libia, la dinastia dei Senussi ripara a Il Cairo.
1931: Manifestazioni studentesche di protesta a Washington contro il presidente Hoover che in segreto aveva visitato la Monaco di Hitler rimanendo impressionato dall'architettura nazista e dai suoi progetti politici. L'Armata Rossa Italiana occupa il Canton Ticino ricevendo minacce economiche e sanzioni dalla Svizzera e dalla SdN. Mussolini annuncia insieme a Stalin in visita a Roma di dichiarare guerra alla Falange franchista e sostenere i repubblicani, viene approvato dal Gran Consiglio del Popolo l'invio di ingenti soldati italo-sovietici in Spagna. Il 20 agosto Edouard Herriot, Premier di Francia, incapace di reggere le sorti di estremi fanatismi che si contendono il potere del paese si ritira dalla vita politica e dà il posto governativo con un plebiscito speciale in Parlamento a Henri-Philippe Pètain, già prossimo alla pensione ed eroe militare nel primo conflitto mondiale contro i Tedeschi. Col suo esercito personale dei Maquis (in questa Timeline sono la versione delle SS in francese) aveva annientato 50.000 soldati civili che si erano schierati con il Front Populaire.
1932: Iniziano le prime riprese economiche negli USA, il proibizionismo degli anni '20 si dilunga anche in questo decennio provocando l'accrescimento di opposizione e delinquenza, specialmente negli stati federali meridionali. Fallito attentato a sfondo comunista a Pètain a Lione, il Maresciallo proclama la Quarta Repubblica Francese, mettendo fuori legge il Partito Comunista e quello Socialista, Léon Blum rimane ucciso dall'assalto dei Maquis alla sede della sinistra nazionale, Thorèz invece fugge a Mosca prendendo la cittadinanza russa. Il Regno Unito condanna gli assalti petainisti aldilà della Manica e simpatizza per i democratici di sinistra affinchè rimettano in sesto la democrazia, Ramsay MacDonald, Primo Ministro britannico laburista emargina il BUF (British Union of Fascists) ed esilia in Irlanda il loro capo Oswald Mosley. In giugno, l'Impero Norvegese vara le leggi razziali sul modello bavarese, Quisling inoltre invia qualche contingente militare in aiuto ai Franchisti.
1933: Con l'annuncio di Pètain di voler difendere il suolo francese dal comunismo, all'inizio dell'anno all'Eliseo proclama il Terzo Impero di Francia sotto la sua stessa corona, Imperatore dei Francesi e Gran Maresciallo, vengono abolite le libertà fondamentali, e sostituite le normali elezioni con plebisciti come accadeva sotto Napoleone III. Repubblica Popolare Tedesca e R.S.I. intensificano i rifornimenti ai repubblicani spagnoli che entrano il 19 aprile dello stesso anno a Madrid abolendo la monarchia e cacciando dal trono Alfonso XIII; i Franchisti si accalcano ai confini francesi e portoghesi per sfuggire alle persecuzioni rosse, nasce la Seconda Repubblica o Repubblica Socialista Spagnola; iniziano durissime ripercussioni contro cattolici, anticomunisti e preti in tutto il paese che provocheranno la morte di circa 6800 religiosi e quasi un milione di civili, Francisco Franco si ritira in esilio negli USA. Mentre in Ucraina si scatena una carestia disastrosa che provocherà decine di milioni di morti, il regime staliniano saldamente al Cremlino deporta chi non va a genio al Conducator russo nei campi di internamento siberiani chiamati "gulag". Il Ministro degli Esteri britannico, Neville Chamberlain si reca a Monaco per convincere Hitler a non annettere l'intera Austria alla Baviera, cosa che avviene a marzo con l'entrata delle truppe naziste a Vienna, avviene l'Anchluss, "l'Appeasement" fallisce miseramente e il leader dei Conservatori, Winston Churchill condanna lo stesso Chamberlain come un incapace.
1934: Secondo incontro tra Mussolini e Stalin a Trieste con gli sguardi degli Esteri di Togliatti e Molotov, nasce il Cominform come alleanza tra paesi socialisti, vi entra anche la Germania; la Spagna invece si astiene. I Giapponesi impongono nello stato collaborazionista di Manciuria una monarchia sotto l'ultimo Imperatore della Cina, Pu Yi che nel 1911 a soli cinque anni aveva abdicato e lasciato il trono; l'esercito Manciù, filonipponico occupa la Mongolia in primavera venendo in conflitto con l'Unione Sovietica che posiziona ai confini asiatici alcune sue legioni militari. Chiang Kai-Shek, l'erede delle idee popolari di Sun Yat-Sen, primo presidente cinese, ritorna nella scena politica a Pechino prima rendendosi amici gli apparati governativi e i Signori della Guerra, con questi appoggi prende il potere, e crea la Repubblica Nazionale Han, usando l'esercito del Kuomintang come polizia segreta e repressiva. La Norvegia occupa Reykjavík e tutta l'Islanda, il regime di Quisling discrimina pesantemente gli Inuit, non conformi alle discendenze vichinghe e quindi "divine". Come continuarla? Per fornire suggerimenti all'autore, contattatelo a questo indirizzo.
Così propone invece Lord Wilmore: Papa Pio XI sposta la sede del Papato a Lisbona. Formazione di un governo in esilio a Parigi formato da cattolici, liberali, radicali e socialdemocratici. Nascono governi comunisti anche in Austria, Albania e Grecia. Impresa di Italo Balbo con volo di una squadriglia di aerei italiani a Mosca e poi fino a Vladivostok. Con l'aiuto sovietico riesce l'impresa di Umberto Nobile che pianta la bandiera italiana con la falce e il martello sul Polo Nord. Conquista anticipata dell'Etiopia. In Germania Hitler ascende prima al potere per impedire che a Berlino si ripeta quanto avvenuto a Roma. Adolf cerca e trova alleati in Polonia, Cecoslovacchia, Romania, Bulgaria, Jugoslavia e Repubbliche Baltiche, minacciate dall'espansionismo sovietico-italiano. Intervento dell'Italia e dell'URSS nella Guerra Civile Spagnola a fianco del Fronte Popolare, Hitler interviene a fianco dei Falangisti, tale guerra è la scintilla della Seconda Guerra Mondiale con l'attacco a tenaglia di Hitler e alleati contro Italia e URSS. Attacco preventivo anche contro la Francia, l'Inghilterra di Edoardo VIII invece si schiera con Berlino contro Roma e Mosca. Repubblica NazionalSocialista Italiana instaurata in Italia con un governo collaborazionista al suo vertice guidato dal generale Graziani, Mussolini e Togliatti formano un governo in esilio oltre gli Urali. Dopo Pearl Harbor il Giappone attacca anche l'URSS dalla Manciuria. "Empia alleanza" tra USA ed URSS contro Germania e Alleati. Il Regno Unito si sgancia e cambia fronte dopo che Edoardo VIII è stato sostituito sul trono dal fratello Alberto (Giorgio VI). Invasione dell'Europa, bombe atomiche sul Giappone e spartizione del mondo e dell'Europa tra USA e URSS come in HL, ma con Germania, Austria, Italia e Grecia nel Patto di Varsavia. Mussolini muore nel 1964 e gli succede Palmiro Togliatti fino alla sua morte nel 1974, poi Alessandro Natta. Guerra Fredda fino al 1989 con la caduta del Muro di Berlino innescata dalle proteste del Sindacato Autonomo "Solidarietà" guidato da Sergio Mattarella, futuro Presidente della Repubblica Italiana, e dal Papa Italiano Carlo Maria Martini (Giovanni XXIV). Caduta del governo Natta che fugge a Cuba, ritorno del Papato a Roma e ritorno alla democrazia pluripartitica, dominata dal Partito Popolare Italiano: Sergio Mattarella è Presidente dal 1990 al 2000, cui succede Pierferdinando Casini dal 2000 al 2010 e quindi Mario Monti dal 2010 al 2015. Matteo Renzi è il primo premier italiano di sinistra dopo la fine del Comunismo, in carica dal 2015. John John Kennedy Junior è Presidente USA e il cardinale filippino Luis Antonio Tagle è eletto Papa con il nome di Francesco Saverio I.
Vi è poi la cartina propostaci da Generalissimus: Secondo voi, quali sono i PoD necessari per arrivare a questa situazione?
Ed ora, un'altra idea di Lorenzo: POD: se la Rivoluzione di Ottobre fosse andata diversamente, e i capi bolscevichi (Lenin Stalin e Trozky in testa) fossero stati costretti all'esilio? Dove si sarebbero diretti? Potrebbero essersi diretti verso gli Stati Uniti, meta di poveri emigranti di tutto il mondo: un paese ricco e (relativamente) isolato dalle faccende europee. E se avessero ricominciato a diffondere il pensiero socialista negli strati bassi della popolazione, presso gli immigrati? È probabile che voi diciate: gli Stati Uniti erano un pessimo bersaglio: i valori fondativi e gli ideali cui si richiamavano coloro che vi emigravano erano composti dall'idea di libertà e autorealizzazione economica. E cosa c'è più lontano dal socialismo del “sogno americano”?
Ma che effetti avrebbe avuto in questo panorama la Crisi del '29?
1) Ci sarebbe stata una guerra civile come in Russia?
2) E se durante la seconda guerra mondiale non ci fosse stato uno stato potente e centralizzato come l'URSS di Stalin, forse la Russia zarista (o un debole stato liberale post-Kerensky) avrebbero perduto contro Hitler (o ne sarebbero stati attirati pacificamente nell'orbita), rendendo completo il dominio nazista sull'europa.
Mi rendo conto che, per quanto riguarda il punto 1), ANCHE se il partito comunista americano avesse subito l'iniezione di risorse dai rivoluzionari russi, DIFFICILMENTE avrebbe potuto ANCHE perfino scatenare una rivolta su larga scala (si pensi alla determinazione con cui furono eliminati Sacco e Vanzetti). L'idea che un'eventuale guerra civile potesse essere vinta dal partito comunista americano e' pura follia. Di questo me ne rendo conto. In conclusione: molto più probabilmente in questo scenario gli Stati Uniti d'America sopravvivrebbero per la loro strada, sebbene la loro ripresa sarebbe un po' indebolita dalla presenza dei socialisti. La conseguenza più importante tuttavia rimarrebbe la mancanza di un contrappeso militare a Hitler, e gli Stati Uniti si costringerebbero a finanziare ed armare un alleato (l'Inghilterra) ormai tagliato tagliato fuori e privo di un “piede a terra” in Europa continentale.
Passiamo ora alle ucronie ideate da Michal I:
1. Slesia Cecoslovacca. La Polonia non sarebbe mai potuto divenire un alleato dell'Unione Sovietica fedele ed asservito come altri. La nostra amata Cecoslovacchia, a differenza dei nostri fratelli Polacchi, lo sarebbe potuto essere - non completamente asservita, ovvio, ma in ogni caso si sarebbe trattato di un alleato ben piu' affidabile di quanto la Polonia sarebbe mai potuta essere - . Supponiamo che Stalin se ne renda conto, e decidesse di cambiare la distribuzione dei territori ex-tedeschi. Alla Polonia resta buona parte dei territori a Sud (tolta L'viv, che va all'URSS), le viene assegnata la Pomerania - come in HL - ma con l'aggiunta del Meclemburgo. La Slesia, però, viene assegnata alla Cecoslovacchia. Cosa succede al momento della separazione? La Slesia resterà con la Repubblica Ceca, farà stato a parte, o verrà inghiottita da uno dei due grandi vicini, Polonia e Germania?
2. Lusazia Cecoslovacca. Alternativa all'Ucronia precedente. E se, invece della Slesia, fosse la Lusazia ad essere data alla Cecoslovacchia (il resto dei territori resterebbe come in HL)? Cosa succede al momento della separazione? La Lusazia resterà con la Repubblica Ceca, farà stato a parte, o verrà inghiottita da uno dei due grandi vicini, Polonia e Germania?
3. Rutenia Subcarpatica Cecoslovacca. Un'altra alternativa alle due ucronie precedenti. Supponiamo che Stalin non inghiotta la Rutenia Subcarpatica, ma che la lasci alla Cecoslovacchia. Cosa succede al momento della separazione? La regione resterà con la Slovacchia, farà stato a parte, o verrà inghiottita da uno dei due grandi vicini, Polonia e Ucraina? E se divenisse parte dell'Ungheria?
4. RSFS Novorussa. Lenin, invece che incorporare la regione zarista della Novorussia nella RSS Ucraina, decide che questa debba divenire una RSFS autonoma, come la Russia, e crea dunque la Repubblica Socialista Federativa Sovietica Novorussa, le cui terre comprenderebbero le odierne Oblast' di Kherson, Kharkhov, Odessa, Donec'k, Luhan'sk, KIrovohrad, Poltava, Sumy, Chernihiv, Nikolayev, Dnepropetrovsk e Zaparozhye, la Crimea, e la Transdnistria, dichiarando la composizione di questa RSFS "inviolabile ed immutabile". Quale il destino di questa piccola, grande, Repubblica Sovietica durante e dopo l'URSS?
5. Carinzia e Stiria Boeme. Supponiamo che, dopo i moti del '48, gli Asburgo rendano la Stiria e la Carinzia terre boeme. Quale destino per una Cecoslovacchia che si ritroverà un Hitler ancora più ostile da fronteggiare.
6. Berlino Polacca. L'origine della città di Berlino è in parte sconosciuta. Molti, però, ritengono che si tratti di una città fondata inizialmente da tribù Slave insediatesi nella zona. Ora. Supponiamo si fosse trattato di tribù polacche, e che queste tribù, e successivamente la Polonia, riescano a mantenere il possesso di queste terre. Come cambia la storia della regione?
Così gli risponde Generalissimus: Riguardo la #1, in teoria dovrebbe rimanere con la Repubblica Ceca, ma potrebbe benissimo separarsi anch'essa e portarsi dietro nel processo la Slesia ceca. Oggi la Repubblica Ceca sarebbe composta solo da Boemia e Moravia. Lo stesso discorso vale per la #2 e la #3, anche se la Rutenia Subcarpatica ha più probabilità di rimanere nella Slovacchia. La #4 eviterebbe parecchi problemi odierni, probabilmente non è neanche detto che si separi dalla Russia. Per quanto riguarda la #5 è difficile che Francesco Giuseppe faccia una concessione territoriale così grande, e se anche fosse la farebbe alla corona ungherese (Stiria e Carinzia non confinano nemmeno con la Boemia, che era comunque subordinata alla corona austriaca). In tal caso, ci ritroveremmo con una Jugoslavia più grande dopo la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, e oggi a possedere Stiria e Carinzia sarebbe la Slovenia. La #6 elimina la Prussia dalla storia.
Diamo la parola al grande Bhrihskwobhloukstroy:
1) Tutto dipende dall'eventualità che la Cecoslovacchia sia una Repubblica Federale composta da Cechia e Slovacchia o da Cechia, Slovacchia e Slesia. In base alle Convenzioni del Diritto Internazionale, se si dividerà lo sarà nelle Unità Federali da cui è composta. La Slesia potrebbe subire lo stesso destino di detedeschizzazione conosciuto dai Sudeti (tuttavia con meno popolazione immigrata a disposizione rispetto alla Polonia, che doveva reinsediare gli Sfollati della Polonia Orientale). Una riunione con la Polonia alquanto improbabile, con la Germania è molto improbabile. In ogni caso, come in Slesia esistono tendenze indipendentiste rispetto alla Polonia, così avverrebbe ancor di più rispetto alla Cechia o alla Cecoslovacchia.
2) Come sopra, con ulteriore accentuazione delle tendenze indipendentiste (sorabe).
3) Come sopra; se dopo il 1945 la Cecoslovacchia fosse articolata in Cechia, Slovacchia e Rutenia, si potrebbe avere una Rutenia indipendente; nel caso che confluisse in uno Stato vicino, l'Ucraina è il più verosimile, l'Ungheria poco verosimile, la Polonia è quasi esclusa.
4) Che diventi indipendente è pressoché obbligato, visto che la Russia è stata ufficialmente la prima a farlo (con riconoscimento internazionale) e che l'Unione Sovietica è stata completamente sciolta. È molto probabile l'adesione alla Comunità degli Stati Indipendenti ed è verosimile che confluisca nell'Unione Eurasiatica nello stesso momento in cui l'Ucraina (residua) entrasse nell'Unione Europea.
5) La Divergenza è veramente ostica da accettare: non solo perché Francesco Giuseppe non lo avrebbe fatto (non lo ha fatto per la Corona Boema, figuriamoci se potesse aggiungervi Paesi Ereditarî che non erano più boemi da Ottocaro II., uno dei Nemici proverbiali di Casa d'Austria...), ma soprattutto perché non esisteva un'unità amministrativa che comprendesse Boemia, Moravia e Slesia (sarebbe stato opportuno e auspicabile, ma non è mai avvenuto...). Il Punto di Divergenza sarebbe da spingere molto più indietro, appunto nel XIII. secolo (neanche il XV. sarebbe adatto). Se tuttavia vogliamo proprio costruire un'ucronia con questo antefatto (per esempio: viene adottata una Soluzione Federale per la Questione delle Nazionalità e, nel tentativo di evitare la creazione di una Jugoslavia che sottragga territorî alla Corona Ungherese, l'ex-Regno d'Illiria – ma allora fino all'Adriatico – viene associato alla Corona Boema (restaurata come Monarchia a sé, in Unione con l'Austria e la “Polonia”), l'atteggiamento di Hitler sarebbe proprio quello che cambierebbe meno: dato che ha storicamente annesso sia l'Austria sia tutta la Cechia, come potrebbe fare di più?
6) Non erano Poljani, ma Polabi. Per confluire nel Regno di Polonia non dovrebbero essere costituite le Marche Sassoni del Sacro Romano Impero, che quindi non dovrebbe conoscere la Dinastia Sassone (Ottoniana) e perciò dovrebbe essere risparmiato dalle Incursioni dei Magiari, ma questo implicherebbe anche un accordo molto più duraturo fra i Franchi Orientali (per esempio Arnolfo di Carinzia) e la Grande Moravia, in particolare bisognerebbe evitare almeno la Missione Cirillo-Metodiana. In pratica, una Polonia estesa a tutta la Slavia Occidentale Lechitica (se non addirittura anche alla Lusazia) implicherebbe che la Grande Moravia diventasse essa stessa la Marca Orientale dell'Impero e della Baviera. Inoltre, senza Imperatori Sassoni si conserverebbe probabilmente l'unità dell'Impero, quindi anche dopo l'888 rimarrebbe un unico complesso comprendente Francia, Lombardia e Germania (con la Grande Moravia) e un ruolo assai minoritario per le lingue meridionali del gruppo slavo occidentale (ceco e slovacco) e per le lingue occidentali del gruppo meridionale (sloveno e almeno croato). Non riesco quindi a immaginarmi l'esistenza di Francia, Austria e Germania come Stati distinti; le conseguenze sulla Storia sarebbero troppo dirompenti per arrivare a risultati comparabili con la nostra Storia. Esisterebbe una grande Nazione Franca dalla Catalogna alla Sassonia originaria; ai suoi confini orientali avremmo una Grande Polonia e, più a Sud(-Est), il consueto dilemma fra una Grande Bulgaria (slava o rumena?) e un'Ungheria o Peceneghia bassodanubiana.
Il Marziano coglie la palla al balzo: Non erano Poljani. E se fossero stati Celti?
Michal I torna alla carica: Allora presumibilmente cambia tutto di nuovo, con un grande regno celta che possa fare da stato cuscinetto tra la Polonia ed i Franchi, se si cristianizza, altrimenti, se non si cristianizza, diventa una tremenda spino nel fianco di Carlo Magno, la Grande Polonia, che controllerebbe la Pomerania, e la Grande Moravia si potrebbero ritrovare unite contro i Celti e contro un Carlo Magno molto più aggressivo.
E Bhrihskwobhloukstroy precisa: La celticità di Berlino (che mi stupisce veder qui rievocata; credevo di non aver avuto ricezione quando l’ho proposta nel 1986) dipende dall'interpretazione dell'esonimo latino, Berolīnum, di attestazione medioevale. Il nome Berlin è di etimo baltoslavo o germanico (in alcuni casi è indistinguibile), ma comunque non ha la vocale /o/ fra /r/ e /l/, quindi Berolīnum, se non è un’invenzione scribale, deve riflettere un’altra origine, che in effetti potrebbe essere celtica, non tanto per indizî fonetici (‘stagno’ in celtico è *lïnnīs, con /n/ lunga, da *plendʱēs, con dileguo inequivocabilmente celtico di */p/ indoeuropeo), ma perché entrambi i lessemi
riconoscibili – *bĕrŏ- ‘corrente’ e *līnŏ- ‘liquido che scorre’ – sono attestati in celtico (il primo nei composti medioirlandesi commar ‘confluente’ e fobar ‘fonte, ruscello sotterraneo’, corrispondenti rispettivamente ai gallesi cymmer e gofer, bretone gouver; il secondo nel bretone lîn ‘pus’). A proposito di risentimenti sorabi antitedeschi prima del 2000, temo di avervi involontariamente dato un contributo nella zona di Lübbenau nel 1988, però devo dire che all’epoca mi sembrava di percepirli più come contrasto fra Repubblica Democratica Tedesca e Repubblica Federale Tedesca.
C'è poi la proposta di Michal I: Nel 1920, a Varsavia i bolscevichi dell'Armata Rossa vennero sconfitti per miracolo dai polacchi, ma se i polacchi non riusciseero nel porre fine all'avanzata e Varsavia cadesse? E dopo Varsavia tutta la Polonia? Hitler nel '39 attaccherà comunque quella nazione - a questo punto URSS - o preferirà evitare il conflitto coi sovietici?
Gli replica Bhrghowidhon: Prima dell'espansione dell'Unione Sovietica andrebbero messi in conto, nell'ordine:
- un intervento congiunto franco-britannico;
- in caso di fallimento, un rovesciamento di regime in Lituania (anticipato Colpo di Stato di Smetona contro Stulginskis), possibile nuovo Putsch in Germania, ritorno di von der Goltz nel Baltico; Danzica, neutrale e nel frattempo divenuta Città Libera, potrebbe proclamare unilateralmente la riannessione al Reich come Land federale ed essere seguita in questo dalle tre Repubbliche Baltiche. La Francia rimarrebbe verosimilmente contraria, ma la Gran Bretagna potrebbe appoggiare la nuova situazione, tantopiù che in caso di nuove Elezioni in Germania l'ondata antibolscevica potrebbe portare al Governo una Coalizione di Destra in grado di bloccare ogni iniziativa spartachista e neutralizzare ulteriori tentativi di Putsch (nonché rendere impossibile qualsiasi eventualità di avvicinamento fra Germania Socialdemocratica e Unione Sovietca).
Se anche questa soluzione si rivelasse instabile, la conseguenza più probabile sarebbe un'estensione del conflitto polacco-sovietico a mezza Europa, con tutti i disastri che ne deriverebbero, ma anche una drastica semplificazione del panorama geopolitico: o Unione delle Repubbliche Socialiste dei Consigli degli Operai e dei Contadini estesa anche alla Germania (e concreta possibilità di trasferimento della Capitale dell'Unione a Berlino) ed eventualmente altri Stati (Ungheria? Romania?) oppure fine dell'Unione Sovietica e ritorno a una sorta di Mitteleuropa del 1916-1918 in forma di Confederazione Balto-Tedesco-Polacco-Ucraina, verosimilmente a guida tedesca e probabile riproposizione di un ruolo di particolare rilevanza per l'intelligencija aškənāzītica come alternativa alle due Utopie al momento più scomode per gli interessi britannici, quella comunista e quella sionista. Fra i due scenarî - accomunati da un'accresciuta posizione di forza (sia pure in prospettive opposte) della Germania - il più realistico nella situazione della fine del 1920 sembrerebbe il secondo, dove però la grande incognita è costituita dal destino della Russia. Qualsiasi regime, anche il più antisovietico, non appena stabilizzatosi perseguirebbe pressoché inevitabilmente il tentativo di recuperare i territorî perduti e punterebbe anzitutto allo scioglimento della Confederazione Mitteleuropea, in ciò prevedibilmente con l'appoggio della Francia, con la Gran Bretagna di fronte al dilemma se difendere l'equilibrio a egemonia tedesca o rischiarne una ridefinizione che redistribuisca il potere anche alla Russia e a maggior ragione alla Francia, ma senza prevalenza di alcuna delle tre (e tuttavia senza neppure cadere in una condizione di conflitto perpetuo, che sarebbe altrettanto dannosa). D'altra parte, mettere la Russia contro la Francia nella spartizione delle spoglie dell'egemonia tedesca riavvicinerebbe la stessa Russia alla Germania, che troverebbero conveniente sia una reciproca collaborazione diretta sia il raggiungimento di un compromesso consistente nella definizione delle reciproche sfere d'interesse, a scapito degli Stati interposti: ammesso che il Baltico sia almeno per il momento parte integrante del Reich, la Russia postsovietica si potrebbe riscoprire panslavista (e mirare all'inglobamento di Polonia, Cecoslovacchia e Jugoslavia se non anche Bulgaria) nonché campione dell'Ortodossia (in vista di un ruolo dominante sulla Romania e sulla Grecia, in quest'ultimo caso con la motivazione di una riscossa antiturca, magari a tenaglia dai Balcani e dal Caucaso), mentre la Germania si potrebbe ritenere soddisfatta con un ritorno ai confini russo-tedeschi del 1914 in Polonia e un anticipato Anschluß dell'Austria, compresi i Sudeti, nonché un Protettorato sull'Ungheria. Pressoché automatica sarebbe la risposta del Regno d'Italia con l'occupazione dell'Albania, l'annessione della Dalmazia e un possibile scontro con la Grecia (anche in Anatolia), mentre la Francia potrebbe assumere la difesa della Turchia e forse perfino trasformare quest'ultima in un Mandato. A questo punto la situazione vedrebbe i due Blocchi russo e tedesco contrapposti alla Francia e all'Italia, presumibilmente sostenute dalla Gran Bretagna; ulteriori spostamenti diventerebbero assai più difficili, a meno di un ribaltamento degli schieramenti - constatata l'impossibilità di altri guadagni - verso la nota costellazione Germania + Italia contro Francia + Russia, con la Gran Bretagna ancora più incerta, ma forse a favore del primo per timore di un eccessivo ingrandimento della Russia. Nell'ipotesi che il rapporto di tre contro due favorisca un successo italo-tedesco-britannico, la mossa successiva sarebbe prevedibilmente - ottenuto il ridimensionamento della Russia - la coalizione di tutti contro la Germania (che avrebbe tratto il maggior vantaggio dalla sconfitta della Russia e della Francia) e la conseguente sconfitta di quest'ultima, con restaurazione degli Stati intermedî ponto-balto-adriatici e ritorno a una situazione simile al 1919, dopodiché sarebbe interesse della Russia e della Germania di cooperare per rimediare alle rispettive sconfitte e così via in un continuo ciclo...Aristotele citava continuamente Ulisse dall'Iliade (B 204-5 Εἷς κοίρανος ἔστω, εἷς βασιλεύς) e credo che questa sia l'unica possibile soluzione al sisifeo supplizio dell'Europa, ma è stata respinta tre volte (888, 1519, 1657) per quanto riguarda un quarto (Francia + Germania), tre (1559, 1814, 1860) per quanto riguarda un secondo quarto (Francia + Italia), tre (1576 / 1612, 1918, 1942) per quanto ne riguarda un terzo (Germania + Polonia + Russia), tre (1797, 1859 / 1866, 1945) per quanto riguarda il quarto (Germania + Italia) ed è di questi ultimissimi anni lo stupefacente ritrovato di boicottare i quattro quarti tutti insieme: tutto ciò per la discutibile convinzione che le Nazioni siano quelle volgarmente considerate tali e che non si possano decostruire e riunire.
Ed ecco ora la pensata di Mattia Tagliente: Europa 1920: scenario in cui l'Armata Rossa ha sconfitto la Polonia e ha potuto aiutare l'Ungheria di Bela Kun. Per gli alleati la situazione sembra ormai disperata, i comunisti sembrano ad un passo dal realizzare la rivoluzione globale. I sovietici paiono un'onda inarrestabile, spinti da un fervore ideologico per cui sono disposti anche a morire. Le cancellerie europee vedono in Lenin un pericoloso messia per le masse, in Trostky un novello Napoleone, il terrore aleggia nelle capitali occidentali, per di più quando è lo stesso fronte interno ad essere traballante: i rivoltosi comunisti in Francia, Gran Bretagna e Italia ormai guerreggiano apertamente con i loro stati. Oltre al conflitto contro lo straniero, le nazioni occidentali devono affrontare la tragedia della guerra civile. Ormai a Mosca si aspetta solo di stappare la vodka per l'annuncio della vittoria. Il piano sarà semplice: arrivare, e possibilmente sfondare, al Reno, ciò causerà il collasso delle potenze capitaliste. Ma i russi sopravvalutano enormemente la loro popolarità nei paesi "liberati", e nella stessa Russia sovietica il movimento bianco non è ancora del tutto sconfitto e la popolazione che aveva riposto tanta fiducia in Lenin per concludere la guerra contro la Germania, ora si vede tradita vedendo la politica militarista e guerrafondaia dei bolscevichi, mascherata con il penoso velo della "guerra di liberazione" a cui però i contadini russi non sono tanto più disposti ad abboccare...
Passiamo alla proposta di MorteBianca: Stalin vince le elezioni per la leadership del PCUS e quindi dell'URSS. Trockij, intuendo che il suo rivale è molto "Piccato", decide di andare in esilio volontario. Stalin inizia la sua purga di Trockijsti, oppositori, intellettuali, gerarchi di varia natura e la conseguente caccia alle streghe, tentanto di far assassinare il rivale. L'assassinio però non riesce per un banale errore (A causa di uno scambio di persona Trockij viene a sapere del tentato omicidio e la scampa, pubblicando il risultato e diffamando in questo modo Stalin). La Terza Internazionale subisce un duro colpo, la fedeltà a Stalin è messa a dura prova, sono molti i partiti (come quello Italiano) a ribellarsi apertamente, ciò causa ovviamente scismi ripetuti. Trockij non ferma la sua attività divulgativa, anzi la prosegue e in Messico riesce a riunire braccianti, proletari, intellettuali ed ex borghesi. La sua dialettica si riempie di rimandi ai movimenti di liberazione Sudamericana, patriottismo Messicano ed anti-americanismo. La cosa ben presto assume i connotati di una rivolta di massa, con occupazioni, autogestioni e richieste sindacali fatte a suon di scioperi. Il governo Messicano risponde a colpi di fucile. Trockij a quel punto inizia la fase rivoluzionaria vera e propria, le forze armate si radicano nel centro-sud del paese, l'esercito non riesce a sradicarle causa guerriglia (anzi, tende a fraternizzare). Moltissimi ex intellettuali sovietici e comunisti delusi da Stalin vengono in Messico per fare reportage o dare il loro sostegno. La rivolta inizia ad occupare sempre più città e Trockij si avvicina alla capitale. Il Governo Messicano chiede aiuto agli Stati Uniti, i quali si preparano alla semi-invasione. La cosa causa la mobilitazione completa del popolo messicano per motivi nazionalistici, il fronte di Trockij viene visto come unico difensore della sovranità. Stalin nel frattempo si sta mangiando il fegato (Non può ignorare la convenienza di un paese socialista sotto la pancia degli USA, ma neanche può permettere che la Rivoluzione permanente, non aiutata dall'URSS, si dimostri corretta. Per giunta guidata dal suo nemico numero uno, che ha speso anni a diffamare in ogni modo come Tzarista e contro-rivoluzionario). Alla fine Stalin decide di contribuire alla lotta. Da parte americana però. Fornisce informazioni di natura spionistica e cerca di distruggere dall'interno il fronte socialista con divisioni e tradimenti molteplici. La cosa sarà scoperta solo cinque anni dopo e segnerà la fine di Stalin politicamente, e la perdita di ogni credibilità dello Stalinismo (che si è coalizzato con i capitalisti contro una rivoluzione proletaria). Trockij alla fine prende il potere. Inizia una breve guerra civile tra Socialisti e Non, vinta per semplice superiorità numerica dai primi. Gli Stati Uniti si ritirano quando la cosa inizia a prolungarsi e costare troppo. Il Messico Popolare inizia una serie di riforme: Redistribuzione della Terra, nazionalizzazione delle industrie, formazione di un wellfare completo, riforma dell'esercito e dell'apparato burocratico. Il centralismo democratico è accentuato (in aperta polemica al modello Organicista di Stalin). Trockij supporterà sicuramente i tentativi rivoluzionari di Castro, del Nicaragua e del Venezuela. Come prosegue?
Risponde Tommaso Mazzoni: Possibile una svolta fascista negli Stati Uniti per paura dei Comunisti alle porte di casa? Chiarimento tecnico: accentuare il centralismo democratico rispetto all'Organicismo stalinista, che vuol dire nel concreto?
E Mortebianca precisa: Il Centralismo Democratico era la teoria Leninista secondo cui il Partito obbediva ad uno schema piramidale dal basso verso l'alto. Alla base c'erano i Soviet (riunioni di libera discussione per le decisioni locali e l'elezione dei rappresentanti che poi andavano al livello successuvi e così via), fino alla cima. Il presidente dell'URSS aveva lo stretto compito di obbedire al volere popolare. Questa struttura era denominata centralismo democratico e caratterizzata dalla presenza di decisioni prese democraticamente, che poi però andavano mantenute fino alla fine (per evitare che una possibile manovra venisse ridiscussa infinite volte senza mai venire attuata). Questo crea ha cosiddetta "Linea del Partito". Sotto Stalin si fece l'opposto di letteralmente ogni passaggio che ho appena descritto: la Piramide si è invertita (Dall'Alto verso il basso), la mobilità si è fermata (creando una classe di burocrati, che Trockij identificò come Borghesia Rossa), il criterio divenne di fedeltà (Stalin promuove chi gli è fedele, il quale promuove chi gli è fedele, tutto per nomine dall'alto), i Soviet non erano più libere associazioni (e in molte città divennero chiusi), il Partito configurò un'ideologia granitica non discutibile, i cambiamenti non erano presi per riunioni democratiche bensì per decisioni di chi sta al potere se nessuno sopra di lui diceva il contrario. Il leader aveva un potere garantito dall'uso della forza e della burocrazia. L'Organicismo ivi descritto è più tipico dei fascismi e dei proto-fascismi proprio per questa visione Dall'alto verso il Basso (una visione militare dell'apparato statale. Non una visione democratica).
La palla passa ora a Generalissimus, che ha tradotto per noi queste ucronie: E se la Rivoluzione russa non fosse mai scoppiata? È il 1917 nell'Impero russo, che sta affrontando una carestia, tumulti economici e sta combattendo una guerra brutale agli ordini di uno Zar incompetente. Non sono certo le condizioni migliori per la stabilità, e la stabilità non durò a lungo, perché presto ci fu la Rivoluzione russa. A dire il vero la Rivoluzione russa non fu un'unica rivolta, fu una serie di eventi che andarono dalla cacciata dello Zar all'ascesa finale dei Sovietici. La Rivoluzione definì la Russia per il resto del 20° secolo, non solo fece nascere una superpotenza totalitaria industrializzata, ma rese anche popolari gli insegnamenti di Marx e diede vita a innumerevoli paesi Socialisti in tutto il mondo. Perciò, e se la Rivoluzione russa non fosse mai avvenuta? Dato che in realtà essa è composta da due rivoluzioni distinte dovremo teorizzare se la Rivoluzione di Febbraio e la Rivoluzione d'Ottobre non avvengano mai in due TL diverse. Prima di tutto qualche lezione di storia, se volete andare direttamente allo scenario, cliccate su Putin. Cosa condusse alla Rivoluzione russa? Un sacco di cose: la relazione tra lo Zar e il popolo russo era in caduta libera da alcuni decenni prima del 1917. Quando i lavoratori scioperarono per condizioni migliori, causando la Rivoluzione russa del 1905, vennero uccisi dalle Guardie Imperiali fuori dal Palazzo d'Inverno. Questo atto fece infuriare la popolazione, causando rivolte e sconvolgimenti politici, e costrinse lo Zar Nicola II a creare un corpo legislativo, chiamato Duma, che condividesse il potere con lui. Promise delle riforme per impedire di venire esautorato, ma non le mantenne mai per davvero. Avanti veloce: arriva la Prima Guerra Mondiale e tutti in Europa saltano sul carro della guerra, la Russia decide di combattere ma la guerra è disastrosa, con milioni di morti sul fronte e un blocco Ottomano che causa una crisi economica. La gente diventa affamata e il cibo scarseggia, il risentimento contro lo Zar aumenta in tutta la Russia. Il popolo incolpa la sua leadership per le orribili perdite contro la Germania e considera la guerra un'impresa inutile. Tutto questo diede il via alla Rivoluzione di Febbraio nel 1917. Gli operai di San Pietroburgo, chiamata all'epoca Pietrogrado, iniziano a scioperare contro le condizioni di lavoro, e poi contro lo Zar in generale. Nicola inviò le truppe a sedare le rivolte, ma il suo esercito si ammutinò e si unì ai manifestanti. Al suo ritorno dal fronte orientale il treno dello Zar venne fermato e catturato da disertori russi. Nicola abdicò e senza che ci fosse qualcuno a prenderne il posto, l'era degli Zar ebbe fine. La Rivoluzione di Febbraio terminò e in gran parte fu un colpo di stato che non vide spargimenti di sangue. Un governo provvisorio sostituì il regime dello Zar, ma incontrò l'opposizione di un gruppo chiamato Soviet di Pietrogrado dei Deputati dei Soldati e degli Operai, che affermava di rappresentare gli interessi dei lavoratori e che in alcune zone ebbe degli ottimi risultati. I Soviet in realtà erano consigli eletti di operai molto simili ai sindacati statunitensi, in seguito molti Soviet e Socialisti parteciparono alle attività di governo. Nacquero i partiti Socialisti e vennero eletti i loro leader, Aleksandr Kerenskij, un giovane Socialista, scalò i ranghi fino a guidare il governo provvisorio. Anche se riformò qualche aspetto, Kerenskij voleva continuare comunque la guerra, e questo fece infuriare la popolazione stanca. In risposta alla guerra senza fine un nuovo partito divenne popolare, quello Bolscevico, guidato da Lenin. Lenin odiava la guerra e, finanziato dai Tedeschi, tornò in Russia dopo aver vissuto in esilio. Dopo la fallita offensiva di Kerenskij contro i Tedeschi i Socialisti scesero in strada a protestare. I Bolscevichi erano assolutamente contro la guerra e questo li rese molto attraenti per parecchi Russi. Il governo represse i rivoltosi e minacciò Lenin di arresto, Lenin fuggì in Finlandia e altri leader del partito vennero arrestati. Questa sconfitta non fece che aiutare i Bolscevichi, dato che la guerra andò peggio e ci fu un'esplosione nelle adesioni al partito. A Settembre i leader del partito vennero liberati dal governo, Lenin tornò e decise di far arrivare al potere il suo partito. Diede così il via alla Rivoluzione d'Ottobre, e i Bolscevichi, sotto l'influenza di Lenin ma coordinati da Lev Trockij presero il controllo del governo. Dopo aver incontrato ulteriori opposizioni i Bolscevichi impedirono ai non Bolscevichi di detenere il potere. Lenin credeva che il Comunismo potesse essere raggiunto solo da un leader forte che non avesse opposizione e vedeva le elezioni come un ostacolo al suo obiettivo di un'utopia Comunista assoluta. Molti si opposero al nuovo governo Comunista e nacque l'Armata Bianca, che iniziò a combattere contro l'Armata Rossa Socialista, dando inizio alla Guerra Civile russa, e dopo anni di combattimenti l'Armata Bianca fu distrutta dall'Armata Rossa. In pochi anni l'Impero russo cadde e venne rimpiazzato dall'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. La Russia passò da uno Zar autocratico ma incompetente ad un brutale regime totalitario. Milioni di persone morirono dal periodo che va dalla Prima Guerra Mondiale alla fine della Guerra Civile russa. Lenin morì dopo la guerra e venne succeduto da Stalin, che fece altri milioni di morti a causa delle sue politiche oppressive. Adesso è il momento di chiedersi: e se la rivoluzione semplicemente non ci fosse? Non è così semplice. Se un evento come la Rivoluzione d'Ottobre non avviene, allora l'intera storia della Russia potrebbe essere diversa. Per prima cosa, che accadrebbe se la Rivoluzione di Febbraio non ci fosse? Diciamo che in qualche modo lo Zar mantiene il potere, anche se è molto improbabile, e le rivoluzioni non partono. Lo Zar non viene detronizzato, nella nostra TL Nicola II creò la Duma, ma lo fece solo per apparenza, per calmare le masse arrabbiate che volevano delle riforme, la Duma non aveva alcun vero potere. In questa TL alternativa lo Zar non limita i poteri della Duma, e le dà una gran parte del potere legislativo, trasformando effettivamente la Russia in una monarchia costituzionale. Ma anche facendo questo è molto improbabile che lo Zar possa mantenere il potere, a causa del fattore più influente che portò alla caduta del suo regime, la Prima Guerra Mondiale. Se la Russia combatterà nella Prima Guerra Mondiale la rivoluzione sarà inevitabile. La Russia non avrebbe mai potuto vincere una guerra contro tutti gli Imperi Centrali, era troppo sottosviluppata e impreparata, il blocco Ottomano danneggiò l'economia russa e le vittorie tedesche danneggiarono la legittimità dello Zar. Quindi, perché lo Zar abbia una possibilità di rimanere al potere:
1) Avrebbe dovuto concedere qualche potere ai corpi diplomatici nel 1905.
2) La Russia sarebbe dovuta rimanere fuori dalla Prima Guerra Mondiale.
Entrambe sono molto improbabili e irrealistiche, ma per amore dello scenario diciamo che avvenga quanto appena detto: elementi democratici e niente Prima Guerra Mondiale.
Scoppia la Prima Guerra Mondiale in Europa, ma la Russia ne rimane fuori.
Senza Russia in guerra cambierebbero molte cose, anche se è difficile andare nello specifico.
Sotto gli Zar la Russia era una nazione rurale e agricola la cui maggioranza era composta da contadini non istruiti.
La monarchia faceva molto poco per aiutarli e trasformare la Russia in una nazione sviluppata.
Le politiche sovietiche furono brutali e uccisero milioni di persone, ma industrializzarono la nazione rapidamente e resero la Russia la potenza industriale che conosciamo oggi.
In questa TL alternativa la Russia rimane indietro rispetto ai paesi europei più avanzati come Inghilterra o Francia, e rimane agricola più a lungo, però milioni di persone non muoiono a causa di politiche tremende.
Forse la Duma o un altro Zar industrializzeranno la nazione, ma solo nel corso di decenni, sempre presumendo che lo Zar non venga detronizzato da un altro colpo di stato.
I movimenti nazionalisti nelle occupate Polonia, Armenia e Finlandia sarebbero un problema che in seguito i Russi dovranno affrontare.
La Russia come nazione non verrebbe vista come un rivale come nella nostra TL, in questa TL alternativa la Russia non sarebbe l'avversario che oggi consideriamo.
La Guerra Fredda praticamente distrusse molti dei legami tra la Russia e l'Occidente.
A proposito di Guerra Fredda e Comunismo, e se la Rivoluzione d'Ottobre non avvenisse? In questa TL alternativa lo Zar viene comunque cacciato e rimpiazzato dal governo provvisorio, ma Lenin e i Bolscevichi non prendono il potere e il governo provvisorio rimane in sella.
Il governo sarebbe Socialista, ma questo non significa che sarebbe come quello dei Bolscevichi, si concentrerebbe sul diffondere la ricchezza fra i contadini e sarebbe molto più democratico dei Bolscevichi.
L'unico modo in cui il governo provvisorio sarebbe potuto rimanere al governo è semplicemente uscire dalla guerra contro la Germania.
La guerra era invisa ed era una delle principali ragioni del perché i Bolscevichi divennero popolari.
Se il governo firmasse la pace da subito e si concentrasse sui problemi interni Lenin avrebbe avuto difficoltà a fare proseliti.
Non è facile dire come si comporterà questo governo provvisorio perché, beh, era provvisorio.
Non farò previsioni, ma quello che è certo è che se Lenin non arriva al potere la Russia e il 20° secolo sarebbero molto diversi.
Senza colpo di stato Comunista la Guerra Civile non ci sarebbe mai, milioni di Russi non morirebbero e la famiglia Romanov non verrebbe mai assassinata dall'Armata Rossa.
In questa TL, senza l'Unione Sovietica l'ideologia di Marx non ha influenze su scala globale.
In questa TL alternativa Mao Zedong e la sua armata Comunista non sono così potenti, e così i Nazionalisti prendono il potere dopo la caduta dell'Impero in Cina.
Ho Chi Minh potrebbe comunque essere Socialista, ma il Vietnam non verrebbe trascinato in un conflitto globale.
Entrambi erano finanziati e ispirati dall'Unione Sovietica, ma in questa TL alternativa oggi il Comunismo non verrebbe visto sotto nessuna luce in Occidente, sarebbe un'ideologia ai margini mai veramente legittimata da nessuna forza di governo.
Le idee Socialiste prenderebbero forma e si diffonderebbero nel mondo, ma non nella forma delle dittature totalitarie di Mao e Stalin.
Negli Stati Uniti, senza la paura della Guerra Fredda e del Comunismo, probabilmente verranno implementati nel paese programmi etichettati come Socialisti.
Non è semplice dire se Hitler arriverà comunque al potere, gran parte del suo programma non si basava solo sull'opposizione agli Ebrei, ma anche sull'opposizione ai Comunisti, senza Comunisti l'ascesa di Hitler potrebbe essere diversa.
La differenza principale è che la cultura russa avrebbe una possibilità di crescere ed evolversi, proprio come gli USA e le nazioni occidentali fecero nella nostra TL.
Il Comunismo eliminò molti grandi elementi della cultura russa che stanno tornando alla ribalta solo oggi, la religione venne messa fuori legge e non ci furono nuove idee da parte del popolo russo.
In questa TL alternativa la cultura della Russia cambierebbe e si svilupperebbe per tutto il 20° secolo, senza rimanere bloccata a causa dei Sovietici.
La Rivoluzione russa fu così influente che non sapremo mai davvero quanto cambierebbe il nostro mondo senza di essa, queste non sono predizioni certe al 100%, perché non sapremo mai davvero cosa sarebbe potuto succedere, ma a volte è divertente.
E se Stalin non fosse mai salito al potere?
Iosif Stalin era il tirannico dittatore dell'URSS che costruì il suo dominio sulla paura e il lavaggio del cervello ideologico, l'eredità delle sue azioni hanno gettato un'ombra sulla storia moderna. Aspettate... Che state facendo? No! Mi rimangio tutto! Stalin era una figura complessa, era un uomo basso, tedioso e malaticcio che in qualche modo riuscì a dominare il paese più grande del mondo semplicemente grazie alla pura brutalità. Nato in una povera e devota famiglia della Georgia (non quella Georgia!), non sarebbe mai dovuto arrivare al potere, ma lo fece comunque. E proprio come con altre figure del 20° secolo come Hitler, Franklin Roosevelt e Churchill, il suo essere al suo posto in quel determinato momento storico cambiò tutto, e l'unico modo per sapere davvero quanto sarebbe differente il mondo senza Stalin è eliminarlo da esso, ed è per questo che ho uno scenario: e se Stalin non arrivasse mai al potere? Beh, prima di poterne discutere, ecco un po' di contesto storico, se conoscete già tutta questa storia cliccate sullo spazio in alto a destra e saltate direttamente allo scenario. Avanti... Fatelo! Roba personale: semplificando al massimo i primi 20qualcosa anni della sua vita, il piccolo Stalin nacque in Georgia, nell'Impero Russo, e visse con i suoi genitori in una famiglia povera. Il suo vero nome era... Ehm... Sua madre voleva che diventasse un prete e ricevette una borsa di studio per frequentare il Seminario Spirituale di Tbilisi, dove iniziò a leggere le controverse opinioni di Karl Marx (e ironia della sorte divenne un ateo). A questo punto, nel 1901, Stalin iniziò a frequentare... Gente diversa, nella fattispecie un movimento rivoluzionario Bolscevico il cui scopo era abbattere la corrotta autocrazia (che volete farci, sono ragazzi). Dopo aver letto le opere di Lenin, Stalin volle salire a bordo della sua nave e si affiliò a lui. I Bolscevichi in questo periodo operavano in clandestinità, al punto che per ottenere fondi per le loro operazioni organizzavano rapine in banca, Stalin non fece altro che lavorare per la causa. Per i successivi 17 anni i Bolscevichi acquisirono lentamente sempre più importanza con l'aumento della rabbia e della sfiducia contro il regime dello Zar. Beh, siamo arrivati alla Prima Guerra Mondiale, e la Russia si prepara ad ammazzare qualche Tedesco! Ma finisce malissimo! Questa guerra brutale e inutile lascia lo Zar in una brutta posizione col suo popolo, che diventa sempre più irrequieto.
Arriva il 1917 e Lenin, che è stato in esilio per anni, torna finalmente nella madrepatria, e la rivoluzione può iniziare! EVVIVA! (Sì, lo so che ho semplificato troppo, controllate il mio video sulla Rivoluzione Russa se volete rispolverare quella storia).
La Russia esce dalla Prima Guerra Mondiale e inizia la Guerra Civile Russa.
Comunisti contro non Comunisti, il giorno contro la notte (Batman contro Superman).
Durante gli scontri Lenin creò il Politburo, del quale entrarono a far parte i leader principali della futura Unione Sovietica.
Era un piccolo gruppo, ma gli unici nomi che dovete ricordare sono Lenin, Stalin e Lev Trockij.
Trockij è quello su cui ci dobbiamo concentrare di più, perché senza Stalin è lui l'ovvio sostituto.
Perché? Perché si supponeva che così dovessero andare le cose.
Chi era Lev Trockij? Trockij crebbe ad Odessa, dove divenne sempre più scontento del regime dello Zar, delle sue politiche antisemite e del disagio della classe operaia.
In qualità di giornalista scrisse delle sue simpatie Comuniste e fu arrestato all'età di 18 anni.
Fu dalla prigione che prese il suo nome di battaglia (Trockij era il cognome della sua guardia carceraria).
Fuggì a Londra, dove incontrò Lenin, e insieme diedero vita ad un giornale Comunista.
Entrò in conflitto con Lenin quando iniziarono scontri ideologici tra i due (una cosa che succede spesso con i rivoluzionari) e nel 1905 entrò in modalità hardcore (per così dire) giurando di combattere letteralmente lo Zar dopo il suo ritorno a San Pietroburgo e unendosi al Soviet della città, un consiglio di operai.
Questa rivoluzione venne sedata. In modo molto duro.
Trockij venne arrestato di nuovo, ma riuscì a fuggire, andando ancora una volta in esilio.
Trockij credeva che il Comunismo dovesse essere universale, voleva una rivoluzione che si diffondesse in tutto il mondo, non solo in Russia.
Nel decennio successivo Trockij rimase in esilio, muovendosi di città in città, scrivendo le sue idee sul Comunismo e diventando una specie di celebrità.
Combatté contro Lenin e i suoi ideali Bolscevichi, che prevedevano un partito più centralizzato, mentre Trockij ne voleva uno più grande e meno rigido.
Quando scoppiò la rivoluzione nel 1917, Trockij colse l'opportunità per tornare in patria. Lui e Lenin tornarono in Russia per guidare la lotta. Tornando in Russia, Trockij e Lenin ricostruirono la loro relazione e divennero alleati (perché quando tutti vogliono ucciderti sei costretto a farlo). Quasi immediatamente i sostenitori dello Zar e tutti quelli che non volevano uno stato Comunista dichiararono guerra al nuovo regime Bolscevico e iniziò la guerra. Trockij era carismatico e idealista all'estremo (l'unico motivo per cui faccio notare queste cose è perché è tutto quello che Stalin NON era). Trockij, col suo zelo rivoluzionario, venne messo a capo dell'Armata Rossa. La guerra che ne risultò fu orribile, entrambe le parti commisero atrocità e molte furono ordinate dallo stesso Trockij per distruggere qualsiasi opposizione. In molte occasioni i Comunisti si ritrovarono sulla difensiva e la sconfitta era sempre una minaccia tangibile. Non pensate neanche per un secondo che Trockij fosse un angelo immacolato, anche se, ovviamente, con la nostra visione del 21° secolo chiunque potrebbe sembrare migliore di Stalin, Trockij era comunque un rivoluzionario fanatico ed estremista. Anche se Stalin fu brutale nell'assicurarsi il proprio controllo personale, Trockij avrebbe ucciso per mantenere il dominio del partito, per lui il sangue era necessario perché l'Unione Sovietica rimanesse al sicuro. Col deteriorarsi della guerra questo sangue venne versato sempre più di frequente, l'opposizione lo considerava un macellaio. Dopo 3 anni di guerra e rivoluzione l'Armata Rossa vinse finalmente contro l'Armata Bianca. Milioni di persone erano morte a causa della guerra o della fame, il paese era in rovina, ma l'Unione Sovietica, il primo paese del suo genere, era nata. La salute di Lenin era in declino, e iniziarono le discussioni su chi avrebbe dovuto succedergli. Nel mondo (e in Russia) Trockij veniva visto come una scelta ovvia, perché era il braccio destro di Lenin, il leader dell'Armata Rossa e uno dei massimi promotori della rivoluzione, ma ci fu un capovolgimento inatteso: l'affamato di potere (e in quel momento nell'ombra) Stalin complottò in modo che all'interno del partito crescesse il sostegno per lui. In pochi anni Stalin assicurò la sua presa sull'URSS, e Trockij venne cacciato dal paese. Passò il resto della sua vita in Messico, dove la sua influenza come scrittore e barlume di speranza di ciò che sarebbe potuto essere divennero una minaccia per Stalin, che ordinò il suo assassinio nel 1940.
Un anno dopo Hitler invase la Russia. Per molti Trockij viene visto come un'alternativa... Ed è per questo che venne ucciso. La sua caduta risultò nell'ascesa di un dittatore, le cui politiche uccisero milioni di suoi compatrioti e la cui presa dirottò la rivoluzione Bolscevica verso un culto della personalità non diverso da quello di Mussolini o Hitler, contro i quali, ironia della sorte, combatté. E quindi, come tradizione, e se in questa TL alternativa Trockij succedesse a Lenin? E se Stalin semplicemente non arrivasse mai al potere? Nella nostra TL Lenin scrisse che Stalin era affamato di potere e che non doveva diventare il suo successore. Trockij avrebbe dovuto usare questa iniziativa per distruggere la base di potere di Stalin, ma invece non fece nulla. In questa TL alternativa Trockij coglie l'opportunità e pubblica le opinioni di Lenin che danno ragione a lui e screditano Stalin (fermando praticamente in corsa la sua scalata al potere). Se questo non funziona, allora avviene qualche altro motivo ucronico per cui Stalin non arriva al potere (non lo so, dobbiamo parlare di molte cose), ma il punto è fuori Stalin dentro Trockij. Gli Americani amanti della libertà come me, che amano il capitalismo e le grigliate e tutto quello che comporta la libertà, molto spesso credono che il Comunismo sia un'unica ideologia, ma proprio come voi non penserete che Repubblicani e Democratici si amano l'un l'altro solo perché concordano sulla democrazia, lo stesso vale per l'Unione Sovietica. La differenza fra Trockij e Stalin non sta solo nel fatto che Stalin finì con l'uccidere milioni di persone, i due avevano una mentalità differente sul come raggiungere il Comunismo e su che parte dovesse avere nel mondo. Stalin aveva un'idea chiamata Socialismo in Un Solo Paese, che si può riassumere in "Tutti vogliono ammazzarci, allora perché cercare di espanderci?", che non era particolarmente inesatto (considerando il fatto che tutte le potenze europee e occidentali finanziarono l'Armata Bianca). Stalin credeva che siccome le rivolte Socialiste in Europa erano fallite, il modo migliore d'agire era concentrarsi non sulla rivoluzione mondiale, ma sul mantenere quello di cui si era già in possesso.
E cos'è che aveva già l'Unione Sovietica? Stalin. Perciò... Mantenetemi al potere. Trockij e i suoi seguaci, che aderivano appunto al Trotskismo, beh, erano parecchio in disaccordo con quest'idea. Sostenevano che il Comunismo come obiettivo finale non dovesse avere confini, perciò questo "approccio in un solo paese" non andava affatto bene. Erano più tradizionalisti, credevano nell'idea di Marx e Lenin che tutti gli operai del mondo si sarebbero uniti e che il Comunismo globale sarebbe stato una cosa naturale. Trockij, in quanto rivoluzionario duro e puro, pensava che l'Unione Sovietica dovesse finanziare le rivoluzioni Socialiste in tutto il mondo perché ciò accadesse. In questa TL alternativa l'Unione Sovietica non segue il percorso dello Stalinismo, ma quello del Trotskismo. Cosa cambia? Un sacco di cose (ovviamente in uno scenario non tutto può essere predetto con precisione, così come sicuramente non tutti i dettami del Trotskismo verranno applicati, forse a causa dell'opposizione o perché abbandonati dopo aver constatato che non funzionano, ma per amore dello scenario diciamo che questo avviene). Nella nostra TL lo Stalinismo portò immediatamente l'URSS in un'era di autoritarismo autocratico, dove regnavano supreme la brutalità e la paranoia. Proprio come i Nazisti espulsero e distrussero ogni opposizione, si creò immediatamente un culto della personalità intorno a Stalin. Diede il via a delle purghe immense con le quali diede la caccia ai vecchi Bolscevichi che non erano d'accordo con lui finché non si estinsero, tutti quelli che potevano essere una potenziale minaccia venivano o giustiziati o mandati nei gulag. In questa TL alternativa l'Unione Sovietica non è uno stato autoritario centralizzato, non si può paragonare ad una repubblica come gli Stati Uniti o i paesi dell'Europa occidentale, ma non è uno stato di enorme morte politica. Il termine Dittatura del Proletariato in realtà non implica la dittatura, ma sotto Trockij viene invece implementata la "Democrazia Sovietica". In questo scenario alternativo l'Unione Sovietica è composta da numerosi consigli di operai eletti democraticamente, i Soviet, che eleggono i loro rappresentanti nel più grande Consiglio dei Soviet.
È quasi come... Un'unione... Di Soviet. Questo è quello che si intendeva per "dittatura", invece di essere i nobili, i capitalisti o gli ecclesiastici a prendere le decisioni, secondo le opinioni di Trockij è la classe operaia il corpo principale al potere (non riesco proprio a dire se questo stato di cose sarebbe stato efficace o meno, ma quello era il piano originario). Non c'è un singolo individuo che controlla tutto, è il partito a farlo. "Wow", direte voi, "Non sembra... Affatto tremendo" (sì, ma tenete anche in mente che è di Trockij che stiamo parlando, colui che credeva che la rivoluzione non finisse mai). L'Unione Sovietica diventa fornitrice mondiale di ribellioni Socialiste, un buon equivalente moderno è l'Arabia Saudita (ma di lei parleremo un altro giorno). L'Unione Sovietica utilizza la sua forza per finanziare gruppi militari e partiti Comunisti e Socialisti di ogni tipo in tutto il mondo. Con Stalin al potere l'Unione Sovietica voltò le spalle a questi rivoluzionari, tranne che in Spagna. Secondo l'idea di Stalin di Socialismo in Un Solo Paese l'Unione Sovietica doveva semplicemente preservare sé stessa, o, per semplificare, Stalin voleva preservare Stalin. Con Trockij come leader l'URSS adotta un approccio più... Altruista, in mancanza di termini più adeguati. La rivoluzione costante DOVEVA essere raggiunta (se riesca in ciò o meno in questa TL alternativa lo lascio alle vostre opinioni), ma quello che realisticamente fa è: 1) rende l'URSS un'antagonista dell'Occidente ancora più grande che nella nostra TL in cui Stalin si concentrò sul suo popolo, 2) drena parecchie risorse dell'URSS e 3) fa incazzare UN SACCCO DI PERSONE. Sotto il Trotskismo l'URSS è un'antagonista molto più temuta negli anni '30. "Oh, perciò è come quando i Sovietici crearono il Blocco orientale durante la Guerra Fredda", direte voi. NO, questa è una mentalità completamente differente, tutta quella cosa del "creiamo una Cortina di Ferro dopo la Seconda Guerra Mondiale e finanziamo regimi Comunisti in Asia" non venne fatto per la "nobile" idea di "diffondere l'utopia Socialista", servì a creare una zona cuscinetto contro i nemici della Russia. Questa mentalità nacque con Stalin, ma in questa TL alternativa la politica estera Sovietica è estremamente combattiva e zelante e non dà la priorità alla sicurezza della Russia rispetto a quella degli altri paesi. Questa era una delle idee principali di Lenin, e con Trockij continuerebbe, e quale sarebbe il modo migliore per far unire gli operai di tutto il mondo se non una grande depressione? A livello internazionale, durante gli anni '30, i Sovietici danno una fortissima priorità al far scontrare le rivoluzioni Comuniste con l'Occidente capitalista, praticamente si tratta di colpire il tuo avversario mentre è ancora a terra, Trockij non avrebbe MAI voluto negoziare con i capitalisti. Ovviamente non utilizzerebbe tutte le sue risorse per finanziare la gente, ma certamente farebbe molti più danni di quanti non ne fece Stalin. Nella nostra TL Stalin era un folle paranoico, vedeva tutto e tutti come una potenziale minaccia, ma ciò di cui si fidava meno era il mondo esterno e credeva che l'URSS sarebbe stata annientata dalle potenze capitaliste se non si fosse industrializzata. Pensava che prima o poi sarebbe scoppiata una guerra mondiale e che se voleva sopravvivere, l'URSS sarebbe dovuta progredire tecnologicamente di decenni.
Il problema è che la maggior parte della Russia aveva questo aspetto:
Negli anni '30 i Piani Quinquennali reinventarono la società russa, presero una nazione che una generazione prima si trovava ancora praticamente nell'era feudale e la trasportarono nel 20° secolo scalciando e urlando. E per scalciando e urlando intendo dire che politiche senza cuore portarono alla morte per fame di milioni di persone. Perciò, cosa accade in questa TL alternativa? Hitler prende comunque il potere in Germania, i Nazisti hanno ancora l'idea del Lebensraum e non conta chi sia al comando in Russia, la Germania vuole comunque quella terra. Beh, in questa TL alternativa i Piani Quinquennali ci sono comunque, milioni di persone potrebbero morire lo stesso, perché l'industrializzazione era un'idea di Trockij, non di Stalin, Stalin semplicemente gliela rubò dopo averlo cacciato dal paese. Perciò in questo scenario potremmo vedere comunque un'Armata Rossa industrializzata, proprio come nella nostra TL. E allora quale sarebbe la differenza principale? Stalin era un idiota, talmente un idiota che pensò di potersi fidare di un regime nato dall'odio esplicito per il Comunismo.
Prima del 1941 Hitler e Stalin ebbero perfino una specie di alleanza dopo che insieme invasero, stuprarono e massacrarono i Polacchi, ma la maggior parte dei Russi dotata di buon senso capì che di Hitler non ci si poteva fidare, infatti molti riferirono che i Nazisti stavano preparando un'invasione, ma Stalin non fece niente. Trockij invece capì il pericolo che rappresentava in realtà il Nazismo: l'intensa retorica anticomunista, l'ideologia violenta, la cosa dell'"Ehi, ci PRENDEREMO LA TUA TERRA", penso che in questa TL alternativa Trockij non sarebbe rimasto immobile a permettere che i Nazisti conducessero la guerra alle proprie condizioni. In questa TL alternativa sarebbe l'URSS a invadere la Germania Nazista, NON il contrario. Trockij, anche se era un intellettuale e credeva in un modo di governare meno autoritario era comunque brutale. C'era un motivo se divenne il comandante dell'Armata Rossa e con lui in carica la Russia non sarebbe mai rimasta passiva. In questo scenario, invece dell'"attacco a sorpresa alla Russia" l'Unione Sovietica invade la Polonia e la Germania (non posso predire come andrà questa guerra, ma senza la stupidità di Stalin l'Armata Rossa sovietica è uno strumento molto più efficace e terrificante contro i Tedeschi). Ma potrebbe rivelarsi troppo efficace: l'Unione Sovietica potrebbe stabilire una serie di regimi Comunisti, proprio come nella nostra TL, solo che stavolta lo farebbe in Germania.
Adesso guardate questa cosa dalla prospettiva degli Alleati: sotto Trockij l'Unione Sovietica ha finanziato ribellioni Comuniste internazionali in paesi come Francia, Inghilterra e Stati Uniti, la cosa che per essa più si avvicinava ad un nemico. Certo, la Germania Nazista era certamente orribile, ma questa nazione Comunista, con la quale nessuno è alleato, ha invaso e diffuso la sua ideologia su tutto il continente europeo. Voi cosa fareste? Beh, nella nostra TL Churchill voleva combattere i Sovietici anche dopo la Seconda Guerra Mondiale, perciò in questa TL alternativa l'Occidente forse non sarebbe felicissimo di vedere l'Armata Rossa di Trockij scorrazzare per la Germania. In questo scenario alternativo il Fascismo, anche se malvagio, ha vissuto troppo poco per essere visto come una grande minaccia, mentre il Comunismo è un nemico vecchio decenni. Sì, potremmo vedere una Seconda Guerra Mondiale... Ma sarebbe tra Occidente e Unione Sovietica. Questa avrebbe molte ramificazioni:
1) Se i Russi invadono la Germania, costringono grandi numeri di Nazisti alla clandestinità. I timori dei Nazisti e dell'estrema destra verrebbero legittimati e senza i crimini di guerra e gli orrori dell'Olocausto il Fascismo non viene mai screditato, bensì martirizzato.
2) Inghilterra, Francia, Stati Uniti, Italia e movimenti clandestini anticomunisti in tutta Europa combattono la guerra contro i Sovietici. Non posso predire quanto sarà lunga questa guerra o quanti verranno uccisi, ma dovete tenere a mente che tutti stanno combattendo i Russi. Forse la Russia viene cacciata dall'Europa, forse l'Occidente decide di distruggere la fonte del Comunismo internazionale, ma questo significherebbe un altro conflitto terrestre contro la Russia, solo che invece dei Nazisti ci sarebbero Inglesi, Francesi, Tedeschi e Americani che combatterebbero uniti.
In questa TL alternativa il Fascismo non muore, rimane un'alternativa politica legittima e spesso popolare nella società occidentale. La Guerra Fredda non c'è, perché è già diventata calda e le relazioni politiche seguenti alla Seconda Guerra Mondiale cambiano in modi che non posso neanche predire.
Trockij non era un santo, era simile a Stalin in molti modi, ma era anche meno autoritario e più idealista, se fosse arrivato al potere sarebbe stato un eroe per diverse persone e, molto probabilmente, uno degli uomini più odiati della storia. Milioni di persone sarebbero comunque morte di fame sotto il suo regime, e altri milioni sarebbero morti in una guerra alla quale avrebbe potuto dare inizio. Quello che mostra questo scenario è che senza Stalin il 20° secolo cambia completamente. La Greatest Generation, la cultura moderna, dipenderebbe tutto da un uomo che 80 anni fa venne cacciato dal suo incarico. Questo è solo uno scenario su se Stalin non fosse mai arrivato al potere, non sapremo mai come sarebbero potute cambiare le cose, ma è divertente fare teorie.
Chiudiamo per ora con l'idea di Federico Sangalli: Nel 1917 in Russia scoppia la Guerra Civile e la Monarchia è rovesciata ma le Centurie Nere si organizzano in speciali Corpi Franchi e coagulano intorno a se i monarchici, i borghesi, i kulaki e i militari, si accordano con le forze democratiche e moderate e ottengono il supporto delle potenze straniere, sconfiggendo i bolscevichi. L'ostilitá popolare per la Monarchia é ancora grande e per tanto viene proclamata la repubblica (opzione appoggiata da borghesi e democratici) detta Repubblica di Tula, dalla città ove viene proclamata. Il socialdemocratico Julius Martov ne viene eletto primo Presidente ma deve affrontare condizioni molto dure, il paese è a pezzi, gruppi estremisti si combattono per le strade, la Russia ha debiti di guerra enormi verso i vincitori e deve accettare l'occupazione di molte zone strategiche in nome della"riconoscenza" verso le nazioni che l'hanno aiutata a vincere la guerra civile e che ora si presentano a batter cassa. In particolare gli inglesi occupano le ricche regioni del Caucaso mentre i francesi fanno la stessa cosa in Ucraina. Ad Est ilGiappone spilucchia territori dalla Siberia. Nel 1923 Martpv muore e gli ultraconservatori guidati dall'Ammiraglio Kolchak vincono le elezioni ma la crisi aumenta e peggiora notevolmente con la crisi del debito nel 1929. Dopo molti governo falliti e spesso guidati dal delfino di Kolchak, il Generale Denikin, al presidente non resta ormai che dare la carica di Primo Ministro al leader del Partito NazionalSocialista dei Lavoratori Russi (Partito Nazista), che ha vinto le ultime elezioni dopo il tristemente famoso Incendio della Duma, un georgiano di nome Josif Stalin. Poco dopo Kolchak muore permettendo a Stalin di assumere tutti i poteri e proclamarsi Lider del popolo russo. La sua politica vede mischiato nazionalismo e voglia di rivalsa a teorie razziste verso le minoranze etniche che vengono sistematicamente sterminate nei terribili Gulag. In Germania intanto gli spartachisti fucilano Guglielmo II e danno il via ad una violenta rivoluzione: né segue una sanguinosa guerra civile che vede vincitori i comunisti guidati da Karl Liebknecht, che tuttavia muore poco dopo nel 1924 senza essere riuscito ad abrogare le leggi speciali promulgate in tempo di guerra che hanno reso la Union der Sozialistischen Sowjetrepubliken (USSR) uno stato totalitario: dallo scontro tra i moderati di Rosa Luxemburg e i massimalisti di Ernst Thaelmann emerge vincitore un candidato di compromesso, lo sconosciuto ma presto tristemente famoso Adolf Hitler. Egli spazza via entrambe le opposizione tramite fucilazioni sommarie e campi di sterminio (la Luxemburg muore in un Campo di Concentramento mentre Thaelmann verrà esiliato e poi assassinato da un sicario in Messico nel 1940). Le purghe hitleriane spazzano via qualunque opposizione danno il via ad un vero e proprio culto della personalità. Ma, mentre Hitler in Germajia si dedica al fronte interno, sterminando sistematicamente gli oppositori e purgando violentemente i vertici delle forze armate grazie al suo fedele braccio destro Heirich Himmler, capo del Komitee für Staatssicherheit (KSS), in Russia Stalin, preso il controllo della società grazie alle sue SK (Shrurmovyye Komandy), guidate dal fanatico nazista Lavrenty Berija, inizia a rivendicare chiaramente territori vicini, in virtù di una sorta di spazio vitale che la Russia deve trovare in Europa Centrale per poter sopravvivere. Nel 1935 egli invade la zona demilitarizzata del Caucaso senza che le potenze europee dicano nulla. Nel 1938, grazie alla Conferenza di Smolensk, ottiene di poter fagocitare sia l'Ucraina che gli Stati Baltici. Poco dopo costringe la Finlandia a cedergli la piazzaforte di confine di Hango. La Germania comunque non sta a guardare: finite le purghe e proclamate pomposamente le nuove città di Liebknechtburg (Amburgo) e Hitlerburg (Monaco di Baviera), Hitler nel 1939 firma il Patto Ribbentrop-Molotov e ottiene così il possesso della Cecoslovacchia e successivamente combatte la Guerra d'Inverno contro la Danimarca. Tuttavia il patto conteneva anche clausole segrete di spartizione della Polonia ed è per mettere in atto queste che Stalin invade il paese nel settembre del 1939, dando inizio alla Seconda Guerra Mondiale. La Germania rimane neutrale fino all'invasione russa del 22 giugno 1941 a seguito della cosiddetta Operazione Ivan il Terribile. Alla fine della guerra e con il suicidio di Stalin, la Russia viene spartita tra i vincitori e nascono la Russia Est, capitale Irtusk, filo-occidentale, e la Russia Ovest, capitale Mosca a guida comunista. La Russia si riunificherà soltanto nel 1989 con la caduta del Muro di Mosca mentre in Germania la difficile fase democratica porterà al potere un uomo forte, l'ex falco dei servizi segreti KSS Arnold Schwarzenegger, detto il nuovo Kaiser di Germania, che ha iniziato un duro conflitto contro il governo svizzero in difesa delle regioni tedescofone della Confederazione. In Russia invece la Cancelliera Irina Khakamada, detta affettuosamente Mat dal suo popolo, é oggi ritenuta da molti come il principale baluardo dell'Unione Europea. Che ne dite?
· Sinistra italiana, ora devi archiviare il Novecento.
Sinistra italiana, ora devi archiviare il Novecento. Pubblicato martedì, 03 settembre 2019 da Walter Veltroni su Corriere.it. Leggere in questi giorni il bel libro di Paolo Franchi Il tramonto dell’avvenire. Breve ma veridica storia della sinistra italiana, edito da Marsilio, provoca una sensazione di straniamento. Per l’Enciclopedia Treccani questa parola corrisponde a «effetto di sconvolgimento della percezione abituale della realtà, al fine di rivelarne aspetti nuovi o inconsueti». Questo vale per la teoria letteraria, ma si attaglia benissimo alla condizione di chi ha vissuto, creduto, o semplicemente osservato la storia grande e tragica di quella somma di valori e di idee che siamo abituati a chiamare «sinistra». Questa definizione nasce dalla scelta dei rappresentanti più radicali del popolo di sedersi da quella parte alla convocazione degli Stati generali, nel 1789. Racconta Michel Vovelle che nel corteo pubblico dei rappresentanti degli Stati generali, dopo il clero e la nobiltà, sfilavano i rappresentanti del Terzo Stato «umilmente vestiti di nero». È perché il popolo non dovesse essere più al terzo posto della gerarchia sociale e non dovesse più vestire il nero della subordinazione che è esistita, nella storia, quella congerie di idee, programmi, valori che siamo soliti definire sinistra. Paolo Franchi, «Il tramonto dell’avvenire. Breve ma veridica storia della sinistra italiana», esce per Marsilio il 5 settembre (pp. 415, euro 19)La sinistra ha avuto un rapporto conflittuale, ecco la pianta velenosa, con la libertà degli umani. Quando la lotta per l’emancipazione degli uomini e la loro libertà sono entrate in conflitto si sono scritte pagine sanguinose della vicenda umana. I gulag, le purghe, la tragedia ungherese, l’invasione della Cecoslovacchia sono la punta dell’iceberg di modelli ideologici e politici fondati sul partito unico, la negazione del pluralismo politico e ideale, sulla obbedienza come valore, sull’autoritarismo. È la storia dei Paesi i cui sistemi furono edificati in nome di qualcosa che fu chiamato «socialismo». Ma la stessa parola fioriva sulla bocca di Willy Brandt e di Olof Palme, di Giacomo Matteotti e di Carlo e Nello Rosselli. E significava «libertà». Paolo Franchi (Roma, 1949) ha lavorato nella stampa del Pci, è stato capo della redazione di Roma ed editorialista del «Corriere», ha diretto «il Riformista» Il libro di Franchi, un bel libro, racconta la storia delle alterne vicende della sinistra italiana partendo dal 1976. Questa datazione corrisponde alla particolarità del sincero lavoro di ricostruzione al quale Franchi ha dedicato non solo la sua competenza, ma molta parte della passione civile e del coinvolgimento personale che legano la sua vicenda umana a quel grumo di idee e di persone che hanno condotto o attraversato la storia di partiti e movimenti della sinistra. In questo libro «il privato è politico», perché Franchi, con onestà intellettuale, non mette da parte le sue idee, le sue convinzioni e anche le ferite dalle quali fu segnata la sua esperienza politica nella organizzazione giovanile comunista. Il testo è, persino nella sua struttura di racconto, un convincente intreccio di dati oggettivi, opinioni personali, testimonianza «dall’interno». Questo rende ricostruzioni e giudizi certamente opinabili, ma non arbitrari. La storia del volume, per queste ragioni, non comincia dove, secondo me, inizia la fine. Dalla tragedia dell’Ungheria del 1956. E dalla scelta del Pci di Togliatti di «stare da una parte della barricata». I verbali della direzione comunista sul tema sono illuminanti. Togliatti sentenziò: «Si sta con la propria parte anche quando questa sbaglia». Di Vittorio, preoccupato anche dell’unità di socialisti e comunisti nella sua Cgil, disse, sfidando il Migliore: «Dopo alcuni giorni dall’inizio del movimento è apparso che non si tratta di un putsch, ma di larghe masse in azione. Facendo senz’altro nostra l’idea che chi ha preso le armi era controrivoluzionario commettevamo un errore e non si convinceva nessuno. Non ha convinto neanche me. Possiamo sfidare una parte della classe operaia?». Alla discussione partecipava anche il giovane segretario della Fgci, Berlinguer, che, sottraendosi all’idea del semplice complotto anticomunista, disse: «In Ungheria c’è stata un’esplosione di malcontento popolare e ciò esige di spiegarne le cause. Quel partito si è sfasciato». E poi si schierò a favore della pubblicazione della lettera dei 101 intellettuali di area comunista che criticavano radicalmente l’intervento. Togliatti replicò secco: «La lettera non si deve pubblicare, perché già data alla stampa borghese». E invece avevano ragione i 101 e torto il Pci. Se, in quel momento il Pci, che ne aveva la possibilità culturale — data dal pensiero gramsciano — e quella politica — data dall’esperienza unitaria della Resistenza, del sindacato, delle giunte rosse — avesse avuto il coraggio di rompere l’ appartenenza al campo ideologico, si sarebbero create le condizioni, con Nenni, per la nascita del grande partito del socialismo liberale che l’Italia non ha avuto. È questo il tema del libro di Franchi: come mai la sinistra italiana che, unita, non aveva una forza elettorale inferiore a quella della Dc, non ha mai scelto la via della convergenza delle proprie diversità? Quella tra socialisti e comunisti è la storia di una «conversazione continuamente interrotta». Quando il Pci parlava di compromesso storico, il Psi era sulla linea dell’alternativa; quando poi, dopo la morte di Moro, Berlinguer scelse la prospettiva di uno schieramento «altro» dal partito di maggioranza relativa, il Psi di Craxi si infilò, restandone imbrigliato, nella tela di ragno del pentapartito. E così, quel 40 per cento, che insieme viveva nelle organizzazioni di massa e nelle amministrazioni locali, non arrivò mai a spendere le sue possibilità nel confronto politico nazionale. Pesarono reciproci sospetti e legittimi desideri di autonomia. Ma forse era già tardi. Il treno era passato venti anni prima di quel 1976 da cui Franchi parte. Berlinguer non pensava «che si dovesse stare dalla propria parte anche quando si sbaglia» e interruppe i finanziamenti dal Pcus, condannò il golpe in Polonia e l’intervento in Afghanistan e si disse più sicuro sotto l’ombrello della Nato che sotto quello del Patto di Varsavia. In quegli stessi anni il Psi maturava una lettura innovativa sul piano istituzionale, la democrazia governante e, a Rimini, parlava di alleanza tra «merito e bisogno». Due innovazioni che non si incrociarono mai. Occhetto, del quale secondo me solo la storia apprezzerà il coraggio, andò oltre e, trasformandolo, mise in sicurezza un patrimonio che altrimenti si sarebbe dissipato. Ma in quegli anni, Franchi lo descrive bene, la spinta innovativa del nuovo corso socialista era intanto implosa in un apparato che la contraddiceva.
Ancora un appuntamento mancato. Socialisti e comunisti, guardando alla storia di quegli anni, hanno ragioni, il tempo aiuta a farlo, per riconoscere i propri integralismi e le proprie furbizie. Nessuno ha avuto ragione, se — diversamente da Francia, Germania e Spagna — la sinistra non ha mai governato, insieme, questo Paese. L’autore del libro ricorda, ne aveva parlato Formica con me in una recente intervista, l’impressione che fece a Craxi il modo in cui, mentre faceva a Praga una scritta su un muro in favore del socialismo — quello della libertà — fu apostrofato da qualcuno che gli fece capire che, sotto il muro del 1989, era rimasto non solo il comunismo, ma, forse, anche l’idea stessa del socialismo. Bisognava tenere i valori della sinistra, nel nuovo millennio, ma depurandoli del riferimento alla storia del Novecento. Per questo lo straniamento della lettura del libro nasce dal panorama del nostro tempo: la sinistra socialista ai minimi termini in Germania, in Francia, nel Nord Europa delle socialdemocrazie, in Grecia, nell’America Latina.. E poi Trump, Johnson, i neonazisti che riemergono… Un tema, l’ecologia, che la sinistra non riesce a declinare. La sinistra, tutta, fatica a trovare le parole giuste per un mondo che, in poco tempo, ha capovolto i paradigmi della società del Novecento. Ma starei attento a dire che non esiste più. Affermazione che spesso si accompagna, semplicisticamente e simmetricamente, all’idea che neanche la destra sia più tra noi. Il che non appare rispondente al vero. Continuo, con Franchi, a pensare che quella differenza esista. C’era al tempo di Spartaco, c’è nel tempo degli algoritmi.
· Il grande bluff del populismo di sinistra.
“IL POPOLO È UNA BRUTTA BESTIA. DOBBIAMO COMINCIARE A EDUCARE LA GENTE”. Gianni Carotenuto per Il Giornale il 12 Settembre 2019. "Il popolo senza mediazioni è una brutta bestia. Dobbiamo cominciare a educare la gente". Ospite di una delle ultime puntate di "In Onda", su La7, Achille Occhetto si è lanciato in una lunga riflessione sulla politica italiana e sul ribaltone parlamentare che ha portato alla nascita del governo giallorosso. Un'alleanza di governo, quella tra Pd e 5 Stelle, che ha riportato la Lega all'opposizione. L'uscita di Matteo Salvini dal Viminale è stata accolta da Occhetto - ultimo segretario del Pci e artefice della svolta della Bolognina che nel 1991 portò alla nascita del Pds - con grande soddisfazione. E un lunghissimo sospiro di sollievo. "Noi, in Italia, siamo arrivati a una situazione che faceva paura. Ero spaventato da qualche cosa che non riguarda solo Salvini, ma dalla sottocultura che si è sviluppata nel nostro Paese. Credo che tutto questo non sarà cancellato da un colpo di spugna", l'inizio della riflessione di Occhetto, il quale ha parlato poi di una "sottocultura legata all'odio, del disprezzo degli altri e dei diversi, alla capacità di creare passione sulla base del pericolo e quindi si crea fatalmente un pericolo che una volta è uno e una volta è un altro, e si determina nella parte più pronta ad accettare tutto questo: una situazione irrazionale", il giudizio di Occhetto, che subito dopo ha fatto un richiamo al fascismo e al fondatore del Pci, Antonio Gramsci. "Gramsci scriveva che il fascismo era riuscito a prendere la parte peggiore del popolo italiano. Gramsci non era radical-chic, parlava del popolo in modo giusto". Quindi l'affondo contro gli italiani che non si riconoscono nella sua stessa idea di società: "Il popolo senza mediazioni è una brutta bestia. Dobbiamo cominciare a educare la gente contro questa idea di popolo. Un popolo che è stato aizzato contro le istituzioni". Parole durissime che sono passate inosservate per qualche giorno, prima che Matteo Salvini le diffondesse sui social commentandole così: "Il popolo è una brutta bestia, dice l’ex segretario comunista. Cosí va bene sprangare l’ingresso di Montecitorio a sfregio di migliaia di persone che chiedevano solo la più alta espressione della democrazia: le elezioni". Il riferimento del segretario leghista è a quanto successo lunedì a margine della manifestazione contro il governo indetta da Lega e Fratelli d'Italia, quando le forze dell'ordine erano intervenute per impedire a centinaia di persone di spostarsi verso la Camera dei Deputati. "Ma ormai a Pd, sinistra e loro alleati evidentemente il popolo fa un po’ schifo", la chiosa finale del leader del Carroccio.
Occhetto: "Frainteso, Salvini dà notizie a metà". Poche ore dopo, ad Adnkronos, la replica di Occhetto: "Evidentemente Salvini ha l'abitudine di dare notizie a metà, la mia frase non intendeva dire che le classi subalterne e popolari siano una brutta bestia, ma che il popolo, inteso in senso indiscriminato e senza mediazioni, può essere una brutta bestia". Quindi l'ex segretario del Pci si giustifica: "Ho citato affermazioni di un uomo che era di sinistra e ha pagato la sua battaglia con la vita: Antonio Gramsci. Tutti i grandi leader, da Gramsci a Lenin, hanno criticato la nozione generica di popolo, alla quale sostituiscono quella di classe, di ceti medi, di contadini, di operai, che per me, a differenza di Salvini - conclude Occhetto - non sono delle brutte bestie".
L’incompetente. Scusate, ma dove lo vedete il rosso nel governo giallo-rosso? Il nuovo esecutivo e non solo: le recensioni senza inutili millanterie. Luca Bottura il 6 settembre 2019 su L'Espresso. ROSSO, colore primario. Utile in diversi contesti, tra i quali la maglia del Bologna, i semafori, le corride – nelle quali è comunque consigliabile schierarsi sempre per il toro – il rosso fa parte dei colori primari additivi. Miscelato al blu, determina il viola mentre, unendolo al giallo, crea l’arancione. Molto efficace a livello figurativo (rosso è il Natale, rosso è il calore, rosse sono le luci che inspiegabilmente pubblicizzano alcune patatine) è utilizzato nel campo sociale per definire forze afferenti alla tradizione del socialismo e/o del comunismo, movimenti del secolo passato a cui si richiamano diverse forze politiche perloppiù radicali, o almeno così vengono definite nel nostro Paese, dove è radicale anche non parcheggiare in doppia fila. Il Partito Democratico, nato nel 2007 in Italia dalla fusione tra una forza socialdemocratica – i Democratici per la Sinistra – e una moderata di ispirazione cattolica (la Margherita) sta a quella tradizione come la Coca Cola Zero al Brunello di Montalcino e definire “rossi” i suoi esponenti può essere conseguenza solo dell’assunzione di sostanze lisergiche o di un qualunque salario da parte di entità editoriali della cosiddetta Destra Cattivista. Ne consegue che definire giallorosso l’esecutivo formato da Giuseppe Conte rappresenta una corposa forzatura o, per utilizzare una modalità espressiva più vicina alle entità editoriali di cui sopra, una epocale stronzata.
GIUDIZIO: semaforo rosso.
ULTRA'. Stato mentale. Nel saggio che prima o poi mi piacerebbe dare alle stampe per Micromega, “Prolegomeni del paraculismo: il caso italiano” è previsto un capitolo piuttosto diffuso sui tifosi degli stadi, e su come la mentalità passivo/aggressiva delle curve abbia esondato in ogni anfratto pubblico e privato, cercando sempre e comunque di ammantare anche le peggiori ribalderie con una qualche motivazione razionale, oggettiva, pro domo propria. Ringrazio perciò gli ultras dell’Inter, società che probabilmente vincerà il campionato, i cui proprietari hanno appena investito nella campagna acquisti una cifra che equivale al Pil del Gambia o al denaro necessario per far avere una licenza media a Tony Nelli (a proposito: ciao Tony, ci mancherai, o quasi), i quali hanno ritenuto di scrivere una lettera aperta per “spiegare” a Romelu Lukaku, il centravanti nerazzurro di origini congolesi, che i loro “colleghi” di Cagliari, bersagliandolo con cori scimmieschi, non intendevano affatto essere razzisti. Se vi capita (si trova sul web) apprezzate con me il minuetto lessicale con cui al povero centravanti viene raccontato che da noi il razzismo non c’è, che è normale tifare contro, che – anzi – se gli fanno gu-gu è un segno di rispetto perché ne temono il talento. Tutto questo per un malinteso senso di appartenenza (erano ultrà anche quelli del Cagliari, che peraltro invece si è scusato per i propri tifosi: viva) che tratterò nel successivo saggio per Micromega: “Mentalità mafiosa e difesa oltranzista della propria appartenenza, meglio se dedita a una qualunque causa del menga”. ’sti peracottari.
GIUDIZIO: Grazie ragazzi (tata tatà ta). Grazie ragazzi (tata tatà ta)
Pd-M5S: "un governo fondato sulla convenienza, non sugli ideali". Capriole opportuniste, assenza di etica, bramosia di potere: così la sinistra cancella la sua storia. Il popolo non lo dimenticherà. Serve una nuova forza popolare e democratica. Parla l’ex sindaco di Roma. Ignazio Marino su L’Espresso l'8 Settembre 2019. Qualche sera fa un uomo d’affari e noto filantropo americano mi ha chiesto un’opinione sulla situazione politica e sociale in Italia. Ero appena uscito dalla mia Università, a Philadelphia, e mi sono lasciato coinvolgere volentieri. Conosco la profonda cultura internazionale del mio amico e ci lega una condivisa passione per l’arte e l’archeologia: mi è sembrata un’ottima occasione per esporre le mie riflessioni, quasi sempre eretiche rispetto ai dogmi della politica. Il mio pensiero si è proiettato oltre le valutazioni sul presidente del Consiglio, sul M5S, sul Pd e sulle altre formazioni politiche. Ho raccontato del Comune di Riace perché il mio interlocutore ne conosce e ne ammira i bronzi. Un ottimo spunto per raccontargli che anni fa avevo visitato l’antico borgo ripopolato da persone fuggite dai loro Paesi e che lì avevano iniziato una nuova vita grazie alle loro attività artigianali: chi soffiava il vetro, chi intrecciava tessuti, chi modellava ceramiche. Era stata riaperta anche la scuola elementare per i bambini che finalmente erano tornati a far rivivere l’antico borgo. Uno di loro mi aveva dato una lezione che non dimenticherò. Quando gli avevo chiesto come mai fosse a Riace e perché da solo, mi aveva risposto così: “Tre anni fa, quando avevo 5 anni, la mia mamma, in Afghanistan, mi consegnò a degli sconosciuti e piangendo mi disse, figlio mio oggi non puoi capirmi ma io desidero che tu vada via perché spero che tu possa crescere in un paese dove potrai studiare, dove non rischierai di essere ucciso da una mina, e dove, se ti ammalerai, potrai essere curato”. In quelle parole, pronunciate da un bimbo straniero in perfetto italiano, erano condensati tre principi fondamentali sanciti dagli articoli 11, 32 e 34 della nostra Costituzione: il ripudio della guerra, il diritto all’istruzione e l’accesso alle cure. Ma c’era anche la speranza. Quella di cui l’Italia attualmente scarseggia ma per la quale vale la pena continuare a impegnarsi. Ed è di questo che voglio scrivere oggi. La formazione di questo governo nell’estate 2019 ha un significato molto più profondo dell’unione di due forze politiche che fino a pochi giorni fa affermavano di non avere nulla in comune. Con questa decisione chi rappresenta la sinistra in Italia cancella le ideologie e i valori della propria storia. Non si dica, per favore, che anche ai tempi di statisti come Aldo Moro ed Enrico Berlinguer si trovarono percorsi comuni, perché quei percorsi erano stati costruiti con profondo e severo lavoro intellettuale e culturale, raggiungendo risultati tangibili e duraturi. Penso al drammatico 1978, l’anno dell’assassinio di Aldo Moro. Allora la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista approvarono insieme la legge 194 per cancellare il dramma degli aborti clandestini, la legge 180 per la chiusura dei manicomi e la legge 833 per attuare l’articolo 32 della Costituzione e istituire il Servizio Sanitario Nazionale. Votarono insieme tre leggi che incidono tuttora profondamente sulla società Italiana. Oggi i partiti che affermano di rappresentare la sinistra si siedono al governo con una forza politica che solo tre settimane fa ha votato il decreto sicurezza bis che prevede l’arresto per chi salva una donna incinta o un bambino in mare e li conduce in porto contro il parere del ministro dell’Interno. Preferisco essere minoranza per sempre se la maggioranza la pensa così. Eppure non rinuncio a sperare che valori come la scuola pubblica, la sanità pubblica, l’accoglienza, i diritti civili, la dignità di un lavoro, la laicità dello Stato, possano tornare a essere condivisi dalla maggioranza degli Italiani e al centro dell’azione del governo e del Parlamento. Lo sono stati quando grandi uomini e donne in quel palazzo di piazza di Montecitorio, lo stesso che ha ospitato gli incontri di questi giorni, scrissero la nostra carta costituzionale: quella che tre anni fa alcuni politici avrebbero voluto stravolgere. Ho cercato di comprendere se il mio sconcerto non fosse un mio limite. Se fossi io a non percepire quel serio lavoro di approfondimento che in pochi giorni può aver portato a condivisioni programmatiche forze politiche così differenti, come è accaduto negli anni ’70. Non sono riuscito a individuare nulla di simile e la memoria è tornata a tempi più recenti quando, nel 2009, corsi per la segreteria nazionale del Pd. Anche Beppe Grillo all’epoca voleva partecipare alle primarie del Pd ma tutta la nomenclatura del partito si schierò contro e gli annullarono la tessera che aveva sottoscritto. Io fui l’unico ad affermare che aveva il diritto di candidarsi, perché credo nelle competizioni trasparenti e nel confronto delle idee. Gli stessi che oggi auspicano di sedersi nel governo a maggioranza grillina allora non solo lo cacciarono, dopo che si era regolarmente iscritto, ma gli suggerirono di fondare un partito per vedere dove sarebbe andato. E, come sappiamo, Grillo seguì il suggerimento del Pd. Non si può vivere nel passato e il futuro si costruisce cambiando sé stessi e mutando opinione. Tuttavia, non proverei a debellare la poliomielite o il morbillo scegliendo come compagno di viaggio chi crede che i vaccini siano un pericolo per l’umanità. Posso anche accettare le critiche più violente senza risentimento, ma se dovessi costruire una squadra per affrontare una sfida importante cercherei omogeneità di valori. Cosa ben diversa dall’omogeneità di pensiero. Alcuni hanno sottolineato l’urgenza di incombenti decisioni economiche, in particolare per evitare l’aumento dell’Iva. È un tema centrale ma rappresenta un obiettivo, non un valore. Il valore è la visione economica del Paese. L’economia non può essere il fine ma lo strumento. Il fine è il benessere dei cittadini, le loro opportunità, la possibilità di avere un lavoro stabile e non rischiare di essere licenziati perché a un imprenditore conviene nonostante l’azienda sia in attivo. La storia recente ha dimostrato cosa è stato fatto e soprattutto cosa non è stato fatto dal M5S nei confronti delle aziende che hanno chiuso o che rischiano di chiudere in Italia. Inoltre, si è preferito offrire un reddito di cittadinanza (assolutamente auspicabile in alcune specifiche situazioni) piuttosto che promuovere decisioni che producano lavoro e incentivino investimenti stranieri. Penso allo stadio della Roma. Il M5S ha rinunciato a un progetto che avrebbe portato nella capitale 1,5 miliardi di euro in investimenti stranieri e circa 5mila posti di lavoro, oltre a un segno architettonico unico come le torri dell’architetto Daniel Libeskind. Gli imprenditori privati avrebbero dovuto spendere trecento milioni di euro in opere pubbliche per la ferrovia, la metropolitana, due ponti e un parco. Qual è stata la risposta alla decisione del M5S da parte del Pd, allora al governo? Il Pd ha assecondato la visione del M5S trovando accettabile che le opere pubbliche non pesassero sui privati (permettendo loro profitti maggiori). Le faremo con il denaro pubblico, con i soldi dei cittadini, promise il ministro Lotti, nonostante la legge finanziaria del 2013, firmata dal presidente del Consiglio Enrico Letta, vincolasse la costruzione di uno stadio privato a investimenti pubblici realizzati dallo stesso privato. È questa la coerenza, sono questi i valori con cui la sinistra vuole rilanciare l’economia italiana? Cosa è cambiato negli ultimi giorni per garantire che invece gli investimenti stranieri si cercheranno per creare posti di lavoro e condizioni strutturali migliori per l’Italia? Mi chiedo ancora, come si può giustificare un Pd che accetta di governare con quello stesso M5S che solo poco tempo fa strizzava l’occhio ai partiti nazionalisti dell’ultradestra europea? Certo, esiste il tema della deriva a cui potrebbe condurre l’ambizione autoritaria di Matteo Salvini. Si possono fare molti esempi ma quando il ministro dell’Interno di un Paese del G7 parla in difesa del capotreno che dall’altoparlante dei vagoni urla: “…zingari: scendete alla prossima fermata, perché avete rotto i coglioni”, si genera in molti una reazione chiara: se il ministro dell’Interno difende chi usa questo linguaggio, potrò usarlo anche io. E qui, per non drammatizzare, anche se il dramma io lo percepisco fortemente, mi affiderei alle parole di Michela Murgia nel suo “Manuale per diventare fascista” (Einaudi, 2018): “Manipolando gli strumenti democratici si può rendere fascista un intero paese senza nemmeno pronunciare mai la parola “fascismo”, che comunque un po’ di ostilità potrebbe sollevarla anche in una democrazia scolorita, ma facendo in modo che il linguaggio fascista sia accettato socialmente in tutti i discorsi…“. Ho fatto l’esempio del capotreno perché un linguaggio razzista diviene facilmente condivisibile da chi stenta ad arrivare alla fine del mese e si convince che la colpa è di chi è diverso da lui. Oggi la comunicazione ha sottratto quasi tutto lo spazio alla riflessione e i cosiddetti “leader” (in tedesco “führer” come sottolinea sempre Michela Murgia) sembrano più preparati a seguire gli umori e i sondaggi che a dare l’esempio e a rispettare quanto affermato nella Costituzione: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”. Sono consapevole che il percorso che descrivo è molto più lungo e impegnativo ma populismo e fascismo non si contrastano divenendo tutti un po’ populisti, bensì sostenendo e rafforzando una cultura diversa, solidificando e testimoniando i valori in cui il popolo di sinistra crede. Non ci sono scorciatoie efficaci. Come sempre, però, vedo il bicchiere mezzo pieno. Esiste una solida ideologia di destra, con i suoi valori, opposti ai miei e a quelli di chi vorrebbe una democrazia liberale e di sinistra. In questa opposizione scorgo la possibilità per la sinistra di ritrovare la propria identità. Questo momento storico può rappresentare una opportunità imprevista per la nascita di una forza popolare e democratica, con il ritorno alla possibilità per gli elettori di determinare una alternanza tra conservatori e progressisti, tra visioni geopolitiche profondamente differenti. Insomma, il ritorno a una democrazia fondata sul potere sovrano del popolo e del Parlamento. Gli italiani sono scoraggiati, impauriti e arrabbiati ma coltivano la passione per la res publica, anche se il comportamento degli attuali leader politici invita a coltivare il cinismo più che la speranza e a preoccuparsi del qui e ora senza riflettere sul futuro, perché guardare avanti implica sforzo intellettuale, analisi, capacità di riflessione. E anche generosità. Quanto è attuale l’aforisma di Winston Churchill: “Il politico diventa uomo di Stato quando inizia a pensare alle prossime generazioni invece che alle prossime elezioni”. Questa è un’occasione per cancellare un partito, il Pd, che purtroppo ha dimostrato di non essere in grado di tenere fede alle idee e di sostenere i valori della sinistra democratica, né di saper costruire una rappresentanza degna di tutti quei cittadini che in quelle idee e in quei valori credono fermamente. Serve ora un catalizzatore credibile che, se emergerà, solleverà il Paese con un’onda di speranza. Credo davvero che sia sempre meglio tentare di fare la cosa giusta rispetto a quella che conviene. Dal 1987 ovunque ho lavorato ho appeso questo stralcio del discorso che Theodore Roosevelt tenne nel 1910 alla Sorbona di Parigi, dal titolo emblematico: “Cittadini in una Repubblica”. Eccolo: “L’onore spetta all’uomo che realmente sta nell’arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perché non c’è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l’obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta“. In diversi momenti della storia recente d’Italia quelle anime timide, ma bramose, hanno occupato posizioni ogni volta che è stato loro possibile farlo senza confronto pubblico e consenso popolare. Non è solo mancanza di etica personale: rinunciando alla competizione, hanno trasmesso alla società valori negativi. Ma il popolo sa distinguere tra le scelte fondate sugli ideali rispetto a quelle fatte per convenienza. E non dimentica.
Il grande bluff del populismo di sinistra. Lorenzo Vita su it.insideover.com il 4 settembre 2019. C’era una volta il populismo di sinistra, quello anti-sistema. E c’era una volta la guerra alle élite. Poi qualcosa è cambiato. E quell’Europa che si era creduta trafitta da movimento di protesta sorti in tutto il continente si è risvegliata invece tirando un sospiro di sollievo. Nessun tornado. Semmai un vento che avrebbe cambiato qualcosa nella percezione popolare, che avrebbe fatto riscoprire l’interesse verso la politica, ma che poi non avrebbe rivoluzionato – per davvero – i sistemi politici europei. E chi ha criticato e condannato per anni tutti questi movimenti, accusandoli di rappresentare la “pancia” dei popoli, si è riscoperta in realtà non solo incline ad accettarli, ma anche a renderli parte del loro stesso sistema. Così, da una parte i populisti si sono fatti élite. Dall’altra parte le élite si sono avvicinate ai populisti, facendo leva sulle cose che uniscono protesta e establishment. E da post-ideologici, tutti i movimenti di protesta sono tornati in fin dei conti nella loro culla. L’esempio del Movimento Cinque Stelle è solo l’ultimo. Il voto di ieri di Rousseau ha sancito il “sì” della stragrande maggioranza degli iscritti alla piattaforma a un governo composto da pentastellati e Partito democratico. Chiusa l’esperienza del governo giallo-verde, quello considerato “populista” con disprezzo, ora si avvicina una nuova stagione: quella dei gialli e di rossi. Che uniti dovranno dimostrare che populisti e progressisti possono ricomporre la frattura ideologica dell’ultimo decennio e tornare a costruire un unico grande blocco politico. Un blocco che piace a molti e in tutto il continente. L’idea che Pd e Cinque Stelle dialoghino è quella che in Spagna caratterizza da tempo le dinamiche politiche nazionali e locali, con Podemos e Partito socialista che da anni studiano il modo per trovare un’alchimia che possa far convivere i due movimenti. Difficile, perché è chiaro che uno nasce da una protesta mentre l’altro da una tradizione. Ma è interessante notare che le esperienze di governo esistono e che quella che doveva essere la grande divisione culturale del nostro tempo si è in realtà modificata in un semplice cambio di passo. Da entrambe le parti. I populisti si scoprono più progressisti che anti-sistema. I progressisti si scoprono inclini anche ad accogliere il vento del cambiamento quando questo permette di rimanere (o tornare) saldamente sulle poltrone che contano. Una realtà che in Italia si è manifestata con il passaggio del Movimento Cinque Stelle dall’alleanza post-ideologica pura, quella con la Lega, all’asse con il Pd, che di anti-sistema non ha nulla. Ma è un cambiamento che sta lentamente coinvolgendo tutta l’Europa. Non solo nelle alleanze di governo, ma anche nelle convergenze politiche. I partiti di rottura, a sinistra, sono in fondo partiti che reclamano voce ma che non sono adatti, ancora, a soppiantare gli establishment. E per forza di cose scendono a compromessi. Perché da soli non ce la fanno o perché semplicemente non ne hanno la voglia o le capacità. La Syriza di Alexis Tsipras si è trasformata da incendiaria di Europa a pompiere della Grecia, con l’ex premier greco che prima si presentava con il suo “no” di fronte all’Europa e poi è diventato uno dei principali “risultati” delle lusinghe di Bruxelles. Jean-Claude Juncker continua a ritenerlo un esempio perfetto della vittoria dell’Unione europea sulle forze “distruttrici”. E chissà che Ursula von der Leyen non possa dire lo stesso del Movimento 5 Stelle, autore del voto a favore della presidente della Commissione Ue e garante del prossimo esecutivo italiano. E magari potrà dire lo stesso di Podemos, che in Spagna guida la rivolta ma nello stesso rappresenta una forza radicale di sinistra con cui Sanchez vuole trovare un compromesso. soprattutto per trasformare Madrid nella capitale di scorta dell’asse franco-tedesco. La ricomposizione, ovviamente, sta avvenendo anche a destra. Se i populisti di sinistra si rivelano progressisti, i sovranisti a destra sanno di poter contare sulla forza dei popolari e i popolari spostano il loro baricentro a destra per ricomporre la frattura. Da tempo in Europa si sono creati ponti fra centrodestra e destra per costruire un fronte comune. E questo vale dall’Europa orientale a quella centrale. Con un’unica grande differenza: i sovranisti rilanciano fortemente la loro appartenenza a destra; i populisti, a sinistra, hanno rinnegato per anni l’alleanza con i progressisti. Finché alla fine hanno dovuto scoprire il bluff della post-ideologia. Che è sinistra.
La frenata dei “grandi vecchi” dell’ex Pci e la naturale diffidenza per il populismo. Paolo Delgado il 4 Settembre 2019 su Il Dubbio. Come si spiega questa decisa contrarietà all’accordo anche da parte di uomini come Macaluso, che nel Pci non incarnava certo l’ala sinistra. Sono i vecchi comunisti, per età o cultura, i più ostili all’accordo Pd- M5S: come Emanuele Macaluso, che flagella un Pd "ammalato di governismo", come Biagio De Giovanni, che sferza il ‘ mostro a due teste, una di quelle cose terribili dei quadri di Bruegel’, come Fausto Bertinotti che bersaglia la "recidiva demolizione della democrazia" ma anche, se si deve dar retta alle voci che circolano ovunque nei palazzi, come ex altissime – le più alte di tutte – autorità istituzionali. Come si spiega questa decisa contrarietà all’accordo anche da parte di uomini come Macaluso, che nel Pci non incarnava certo l’ala sinistra e, se le voci su Napolitano fossero fondate, come un ex presidente che, dal Colle, ha sempre messo l’esigenza di evitare lo scioglimento anticipato delle legislature al primo posto? Le ragioni, come sempre in questi casi, sono molteplici e diverse. Vanno dal dissenso tattico a breve a elementi molto più fondamentali e costitutivi di una intera cultura politica. Ma di certo, ai primi posti, figura l’antica diffidenza della cultura del Pci per tutto quel che l’M5S incarna, senza nulla escludere. Fatta salva le retorica devoluta a puro scopo propagandistico, il partitone diffidava delle masse, del "popolo" abbandonato a se stesso. Le reazioni dei vertici comunisti dopo la rivolta di Battipaglia, che costò due vittime nell’aprile 1969, e a maggior ragione dopo quella di Reggio Calabria, prolungatasi per mesi a partire dall’estate 1970 ed egemonizzata dalla destra neofascista, non lasciano dubbi sulla sospettosità e fondamentale ostilità con la quale Botteghe oscure osservava e giudicava gli scoppi spontanei di rabbia popolare. Il partito considerava molto più un pericolo che non una risorsa la democrazia assembleare nella quale risultano egemoni le pulsioni emotive del momento e le arti del comiziante prevalgono su quelle del freddo calcolo politico. Il Pci, come oggi l’M5S, era anche un potente veicolo di ascesa sociale, non portava certo in Parlamento solo intellettuali e funzionari. Ma il percorso era graduale, la selezione rigorosa, la scuola di partito, intesa sia in senso proprio che in quello lato dell’attività quotidiana delle sezioni, mirava anche a formare gli eventuali futuri parlamentari. Il contrario esatto del modus operandi pentastellato che si è affidato spesso a poche decine di voti sulla piattaforma per decidere chi inviare a Montecitorio o palazzo Madama. Per chi viene dalla cultura del Partito comunista l’M5S non è eversivo per questa o quella specifica posizione che assume ma proprio per la sua struttura e per i suoi ‘ fondamentali’. Altrettanto importante è il diverso rapporto che il Pci e il pronipote intrattengono sia con lo stare al governo che con la collocazione opposta, all’opposizione. Per un partito che era condannato all’opposizione e aveva imparato di conseguenza a pesare e a incidere dagli spalti dell’opposizione il risultato in termini concreti, anche inteso nella sua accezione più cruda di uno spostamento dei rapporti di potere effettivi nella società, era sempre e quasi per forza prevalente. Persino quando, pur di avvicinarsi al governo, il Pci accettò di sacrificare parecchi capisaldi, negli anni della solidarietà nazionale tra il 1976 e il 1979, la presenza al governo non era comunque considerata valore in sé ma sempre inquadrata in un progetto strategico, pur se poi fallito. Certo, da questo punto di vista il contesto generazionale e storico ha una valenza decisiva. E’ ovvio che un partito escluso dal governo per definizione considerasse comunque la presenza nel governo, pur auspicata, condizione importante ma non essenziale. Ed è altrettanto normale che partiti nati per andare al governo come quelli della filiera Pds- Ds- Pd vedano le cose e la politica in tutt’altra prospettiva. E tuttavia è indubbio che quella spinta verso il governo in sé comprensibile si è trasformata in un "governismo" fine a se stesso e considerato di fatto l’unico obiettivo. Così come è certo che per il Pd l’opposizione è una terra selvaggia, inospitale e soprattutto sconosciuta, dalla quale fuggire il prima possibile e comunque nella quale non si può fare niente se non cercare di tornare al governo. Tutto ciò non significa negare che nel tentativo dei ‘ grandi vecchi’ dell’ex Pci di frenare la corsa all’accordo siano probabilmente entrate anche considerazioni più tattiche e utilitaristiche. La vulgata per cui l’accordo rischia di svuotare i forzieri elettorali dell’M5S a vantaggio di quelli del Nazareno è frutto di pigrizia mentale: essendo andata così con la Lega, la dinamica si ripeterà con il Pd. Non è così. Meno sprovveduti di quanto sembrino i 5S hanno capito subito che la strada per evitare di replicare il disastro e soprattutto per sfuggire all’accusa di intelligenza col nemico da parte dei loro stessi elettori passa per un comportamento opposto. Tanto i 5S sono stati malleabili con Salvini, altrettanto si dimostreranno inflessibili con il Pd. Dovrà essere chiaro che accettano graziosamente il loro contributo ma non li considerano affatto soci alla pari. Restano "il partito di Bibbiano". Alla fine, l’eventuale ma prevedibile fallimento del governo sarà pagato essenzialmente dal Pd, sul quale ricadrà facilmente la responsabilità di essersi adeguato ai vincoli imposti dal bilancio. La sola via d’uscita sarebbe la creazione di una stabile alleanza politica sia nelle regionali che nelle elezioni politiche che però, per i motivi già esposti, per la cultura comunista sarebbe quasi un rimedio peggiore del male. Per quella cultura il governo gialloverde è solo una partita a perdere comunque.
· Conflitto d'interessi e memoria corta.
Conflitto d'interessi e memoria corta. Francesco Maria Del Vigo, Martedì 03/09/2019, su Il Giornale. Ci sono due paroline che per anni sono state una vera e propria ossessione della sinistra italiana: conflitto d'interessi. Una clava utilizzata per un ventennio contro Silvio Berlusconi e le sue aziende. E ora che fine ha fatto? Il conflitto d'interessi è rispuntato come un fiume carsico nei 20 punti che Luigi Di Maio ha messo sul tavolo dei dem per dar vita al mostro giallorosso. Ma in realtà il Pd non ha mai mollato l'osso e anche all'inizio di questa legislatura è tornato a battere sul tema. Indovinate chi c'era questa volta nel mirino? Davide Casaleggio e la piattaforma Rousseau. Lo scorso maggio, durante una conferenza stampa, Graziano Delrio, Emanuele Fiano e Francesco Boccia presentano una proposta di legge sullo spinoso tema del conflitto d'interessi digitale. Per i grillini è chiaramente una mossa per far fuori Casaleggio, ma i deputati dem argomentano in modo diverso: «È evidente il conflitto di interessi in cui si trova Casaleggio associati che controlla Rousseau e controlla mezzo Parlamento e più di mezzo governo. Sarebbe in conflitto di interessi e sarebbe anche sanzionabile - spiegava Boccia -. La nostra norma prevede che se le piattaforme appartengono a partiti politici devono essere open source e con algoritmi trasparenti. Il non rispetto di queste norme comporta l'ineleggibilità a meno che non si lasci la guida di queste società tre anni prima di candidarsi. È un conflitto di interessi macroscopico. Noi non ce l'abbiamo con Casaleggio. Faccia business oppure diventi capo politico e adotti una piattaforma open source». Inappuntabile.
Preciso. Solo che adesso il Partito democratico ha un conflitto d'interessi proprio sul conflitto d'interessi. Perché sarà proprio Rousseau a decidere se il matrimonio giallorosso s'ha da fare e, quindi, se i dem torneranno ancora una volta al governo senza passare dalle urne. Dalle urne reali, ovviamente, perché adesso quelle virtuali, opache e taroccabilissime di Rousseau vanno benissimo. Non si sono levate grida di protesta da parte della sinistra contro questa prassi quantomeno anomala: il Presidente della Repubblica, il destino del governo e della cosa pubblica sono appesi a una votazione su una piattaforma privata, gestita unilateralmente dal padre padrone di uno dei partiti in gioco e, per giunta, già sanzionata dal Garante per la privacy. Praticamente un Far West, un sistema talmente oscuro da far passare per specchiate le famose primarie del Pd nelle quali votavano anche i morti e frotte di cinesi ingaggiati alla bisogna. E al Nazareno cosa dicono? Tutti zitti. Non si sa mai che perdano l'occasione di arraffare qualche poltrona. Le vestali della Costituzione dormono sonni profondi, non è tempo di girotondi in nome della democrazia. E anche i grillini possono stare sereni: difficilmente il Pd riaprirà il caso. Il conflitto d'interessi ora è sparito, non esiste più. Adesso anche il Pd si è inginocchiato alla democrazia (etero)diretta di Grillo e Casaleggio.
· "Il saluto romano non è reato".
"Il saluto romano non è reato", assolti due politici nell'imperiese. Esponenti di Forza Nuova avevano alzato il braccio durante una cerimonia in memoria della Repubblica di Salò. La Repubblica il 07 novembre 2019. "Il fatto non costituisce reato": è questa la formula con il quale il giudice monocratico del Tribunale di Imperia Sonia Anerdi ha assolto dall'accusa di apologia del fascismo l'ex assessore del Comune di Diano Castello (Imperia) ed esponente di Forza Nuova Manuela Leotta e il sanremese Eugenio Ortiz. I due il 26 aprile del 2015 avevano fatto il saluto romano e gridato "presente" durante una celebrazione, presso il cimitero di Sanremo in memoria dei caduti della Repubblica sociale italiana. La sentenza con la quale sono stati assolti i due imputati è stata pronunciata sulla base di precedenti verdetti della Cassazione. Il pm aveva invece chiesto una condanna a 3 mesi di reclusione e 300 euro di multa. Sul tema si registrano per altro diversi orientamenti della Cassazione. A maggio con la sentenza 21409, la Corte ha confermato la condanna per un avvocato “nostalgico” del regime che, nel corso di una seduta del Consiglio comunale di Milano, in occasione della presentazione del “Piano Rom” aveva steso il braccio accompagnando il gesto con la frase “presenti e ne siamo fieri”, ma solo pochi mesi prima la Cassazione aveva sentenziato che non è reato il saluto romano se ha intento commemorativo e non violento: in questo senso, può essere considerato una libera "manifestazione del pensiero" e non un attentato concreto alla tenuta dell'ordine democratico. La Cassazione aveva così definitivamente assolto due manifestanti di Casapound, che durante una commemorazione organizzata a Milano nel 2014 da esponenti di Fratelli d'Italia, rispondendo alla "chiamata del presente" avevano alzato il braccio destro facendo il saluto fascista. Il giudice di Imperia si è conformato a questo orientamento.
Imperia, saluto romano non è reato: assolti in 2. Una forma di saluto che fece molto discutere nel corso di un episodio del 2015, durante le celebrazioni funebri in onore ai caduti Rsi a Sanremo: il giudice assolve Manuela Leotta ed Eugenio Ortiz. Marco Della Corte, Giovedì 07/11/2019, su Il Giornale. "Il fatto non costituisce reato": con tali parole Sonia Anerdi, giudice monocratico del tribunale di Imperia, ha assolto Manuela Leotta, assessore del comune di Diana Castello (Imperia) ed esponente di Forza Nuova ed Eugenio Ortiz, residente a Sanremo, dall'accusa di apologia di fascismo. Tutto accadde il 26 aprile 2015, quando i due avevano esibito il saluto romano e gridato "presente" durante una celebrazione in memoria dei caduti della Repubblica sociale italiana svoltasi presso il cimitero di Sanremo. Come si legge dall'agenzia Ansa, la sentenza, con cui sono stati assolti i due imputati in questione, può contare su diversi precedenti da parte della Cassazione. Originariamente, il pm aveva invece chiesto una condanna di 3 mesi di reclusione ed un'ammenda di 300 euro.
Saluto romano non è reato. Il saluto romano non costituisce reato se esibito durante cerimonie come commemorazioni. Basandosi su tale status quo, il giudice Sonia Anerdi ha assolto dall'accusa di apologia di fascismo l'esponente di Forza Nuova Manuela Leotta e il sanremese Eugenio Ortiz. I due avevano salutato con la mano tesa gridando "presente" i caduti della Repubblica sociale italiana nel corso di una commemorazione svoltasi il 26 aprile 2015. La scena era stata filmata da alcuni agenti della Digos presenti tra la folla di nostalgici. Il pm aveva chiesto per i due imputati una condanna a tre mesi di reclusione ed il pagamento di 300 euro di multa. Tuttavia, il giudice Anerdi, prendendo come spunto precedenti verdetti della cassazione, ha dichiarato che quanto attuato da Ortiz e Leotta non costituisce reato. Questo, contrariamente a quanto formulato in una recente sentenza, in cui la cassazione aveva invece confermato la condanna di un avvocato di Milano che aveva fatto il saluto romano nel corso di una seduta del consiglio comunale. Un episodio analogo era avvenuto anche nel corso dei funerali di Antonio Rastrelli, ex presidente della giunta regionale Campania. In quel caso il saluto fascista era stato utilizzato per salutare il feretro del politico. Il caso in questione non era stato scevro di strascichi giudiziari.
· “Bella Ciao” non è Partigiana.
Rovinano pure la festa di Natale con la pretesa di cantare la solita Bella ciao sotto l’Albero. Francesco Storace giovedì 12 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Cercate, cercate pure, ma Bella Ciao non la trovate tra i Canti di Natale. Perché è una pagliacciata mischiare sacro e profano. Eppure succede e stanno (quasi) tutti zitti. Come se si dovesse fare politica persino sotto l’Albero. Il silenzio sarebbe continuato se non esistesse la rete, con i suoi social, le sue notizie, anche se confinata in un ambito locale. Ma le vergogne si scoperchiano perché è inaccettabile turlupinare la buona fede delle persone. La “location” per l’esibizione della canzone tanta cara alla sinistra estremista – inclusa quella che governa l’Europa – è un comune in provincia di Foggia, Torremaggiore. Il 7 dicembre il sindaco Emilio Di Pumpo, accende l’Albero con tutte le sue luci. Arrivano i cantori – si fanno chiamare Street Band Vagaband, nomen omen… – e alla fine della cerimonia si canta l’immancabile Bella Ciao di questi tempi sardinati. Antifascismo da operetta. Da piccoli noi, “quelli di prima”, amavamo Tu scendi dalle stelle oppure Jingle bells. E certo non la buttavamo in politica. Ma nell’Italia blasfema c’è spazio per rovinare persino il Natale, una storia bimillenaria, il cammino dell’umanità. Senza senso del ridicolo. L’ex sindaco Lino Monteleone ha usato parole durissime nei confronti di un’iniziativa quantomeno sfrontata: “Ciò che mi stupisce è che si usi anche la banda presente all’evento facendole intonare ‘Bella ciao’: non mi risulta che sia un canto natalizio. Del resto, sono molti ormai i segnali di rigurgito ideologico, un atteggiamento frequente e ingiustificato, anche di rimozione della verità”. E si potrebbe anche aggiungere che se nel nostro paese si arriva a intonare Bella Ciao pure in Chiesa come è accaduto in Toscana, ormai la sfrontatezza ha oltrepassato ogni limite immaginabile. Ed è un peccato anche perché, nel caso del comune pugliese, si è voluto appiccicare un bollo ideologico ad un’iniziativa che aveva visto la partecipazione attiva di realtà sociali, a partire dall’Anfass e da altri soggetti locali. E’ stata quella canzone inutile, fuori luogo, dannosa, a far esplodere la polemica. Perché almeno durante le feste, le feste sante, c’è chi vorrebbe essere lasciato in pace. Invece no. La banda musicale rivendica il gesto: “E’ stato suonato il ritornello della canzone Bella ciao, dopo la richiesta di alcuni presenti tra il pubblico. Noi riteniamo di essere strumenti attraverso il quale divulgare musica e non potremmo farlo senza l’ascolto del nostro pubblico”. Chissà se qualcun altro dal pubblico avesse chiesto loro di intonare Faccetta Nera come avrebbero reagito… Ovviamente, applausi al signor sindaco dai suoi compagni. Ecco un commento di una signora dalla pagina Facebook del Peppone di Torremaggiore: “Una come me che è cresciuta a pane e ‘Bella ciao’ non ci vede niente di male che sia stata suonata in occasione delle feste natalizie perché appartiene al colore politico della nostra amministrazione e a quanto pare so che invece è stata molto apprezzata dalla gente presente”. Che facciamo? Che cosa merita un commento del genere? Sei cresciuta a pane e “Bella ciao”, cara compagna? Evidentemente ti ha fatto male se non riesci a distinguere una canzone di parte con una festa sacra. Sono quelli che pensano di potersi permettere di tutto. Non è democrazia, è anarchia.
Ue, Gentiloni e i commissari socialisti cantano Bella Ciao in aula, ira Meloni. Pubblicato mercoledì, 04 dicembre 2019 da Alessandro Sala per corriere.it il 4 dicembre 2019. Hanno intonato «Bella Ciao», il canto partigiano per antonomasia (sulle cui origini vi sono però parecchie discordanze), all’interno dell’aula dell’Europarlamento di Strasburgo, dopo il via libera definitivo alla Commissione Ue guidata da Ursula von der Leyen. E lo hanno fatto in perfetto italiano, segno che la conoscevano bene. Sette dei 9 nuovi commissari di area socialista, tra cui il titolare degli Affari Economici Paolo Gentiloni, hanno pensato di festeggiare così l’avvio della nuova esperienza di governo, con un momento goliardico durante una foto-opportunity limitata agli esponenti del loro gruppo, dopo quella di rito con l’intera squadra. C’è grande partecipazione al coro e tra i più entusiasti si notano l’olandese Frans Timmermans, che della von der Leyen è il vicepresidente esecutivo con delega al Green Deal Europeo, ovvero le macropolitiche ambientali; la maltese Helen Dalli, commissaria all’Uguaglianza; e la portoghese Elisa Ferreira, commissaria per la Coesione e le riforme. Nessuno dei sette si sottrae al battimano ritmato che accompagna la piccola esibizione.
Meloni indignata. Ma un video registrato nell’occasione con un telefonino ha iniziato a circolare anche al di fuori delle chat del gruppo e oggi è stato diffuso su Facebook dalla presidente di Fratelli d’italia, Giorgia Meloni, sotto l’eloquente titolo di «Unione sovietica europea». « Solo io reputo scandaloso questo ridicolo teatrino da parte delle più alte istituzioni europee — si chiede l’esponente della destra italiana —? Non hanno nulla di più importante di cui occuparsi?». Anche il leader leghista Matteo Salvini è intervenuto sul coro dei commissari: «Complimenti a Pd e 5 Stelle per la scelta di Gentiloni come rappresentante dell’Italia in Europa — scrive l’ex vicepremier su Twitter —. Al prossimo giro canteranno anche Bandiera Rossa, poi Sanremo e tournée internazionale».
I precedenti. Anche se le origini partigiane di «Bella Ciao» non sono certe, e non è neppure certo che si tratti un brano italiano, nella politica italiana questo canto viene spesso evocato come canto di resistenza. Il soggetto del testo, del resto, lo è. Lo hanno rispolverato le «sardine» che nelle ultime settimane hanno riempito le piazze in nome della resistenza civile (per esempio qui durante il raduno di Genova); lo ha cantato nei giorni scori in chiesa di Vicofano, nel Pistoiese, don Massimo Biancalani, suscitando la rabbia di Salvini; lo aveva intonato addirittura Michele Santoro in diretta tv nel 2002 in polemica con l’allora premier Silvio Berlusconi. E risuona regolarmente ad ogni celebrazione del 25 aprile e nelle manifestazioni della sinistra. Nulla di strano, insomma, che dei parlamentari di sinistra la considerino un proprio simbolo. Ma il fatto che siano commissari, quindi rappresentanti istituzionali e non esponenti di parte, e che il canto sia avvenuto all’interno dell’Aula con tanto di coreografia ufficiale della Ue ha mandato su tutte le furie Giorgia Meloni.
«Noi Popolari siamo più seri». Ma non solo lei. Anche l’europarlamentare Fulvio Martusciello (Forza Italia), dal canto suo, ha scritto in una nota:«Ma pensassero a lavorare che sono pagati per questo. Bonino, Frattini o Tajani che pure sono stati commissari europei non lo avrebbero mai fatto. Non è un caso che i commissari che cantano sono tutti socialisti. Noi popolari siamo seri e una cretinaggine del genere non l’avremmo mai fatta».
I commissari europei cantano “Bella Ciao”, Meloni: “Teatrino ridicolo e scandaloso”. Alberto Consoli mercoledì 4 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. “Commissari europei intonano “Bella Ciao”. Solo io reputo scandaloso questo ridicolo teatrino da parte delle più alte istituzioni europee? Non hanno nulla di più importante di cui occuparsi?”. Ha ragione Giorgia Meloni: un teatrino deprimente che sta facendo il giro del web. “Siamo alla tragica fine dell’Europa”, commentano i più, ossia gli utenti social che stanno condividendo questa scena molto poco edificante. Sul sito di Giorgia Meloni, la prima a diffondere dal suo profilo Fb il video, non ci sono solo commenti riferibili a una condivisione politica. Moltissimi commentatori si scandalizzino per ben altro. L’Europa ha grandi problemi da dibattere: la crisi economica, il ruolo che la Ue vorrà darsi, stratta tra Usa, Cina e Russia. Aziende in crisi, L’economia che arranca. Eppure gli “autorevoli commissari”, trovano il tempo per pagliacciate del genere. Ma come – è il senso dei commenti- intendono inculcarci l’idea che senza Europa saremmo dannati, persi, senza una bussola politica. Poi perdono tempo a “cazzeggiare”? Il video è pubblicato dai social di FdI con un titolo ironico: “Unione sovietica europea”. Ironia a parte, l’indignazione resta. L’inno “Bella ciao” ormai viene usato come una clava un po’ da tutti: dalle sardine, da alcuni preti, dalle piazze di sinistra, dai preti rossi il primo giorno di scuola. Lo strimpella il ministro dell’Economia Gualtieri. Bella Ciao, a dispetto delle sue origini, è usato come slogan-contro: ogni volta che c’è da vocare le paure fasciste e sovraniste. Follia. Tristissima scena quella dei commissari Ue, che osserviamo, per fortuna per pochi minuti. Tristissima Europa.
Alessandro Giuli per “Libero quotidiano” il 18 dicembre 2019. Paolo Gentiloni non è più lo stesso. Da quando è partito per le brume centroeuropee ha perduto quell' aura da pacioso romano senza qualità rimarchevoli; si è dato al canto sguaiato a favore di telecamera, intonando "Bella ciao" assieme ai colleghi commissari di conio socialistoide; ha sviluppato un' inquietante ipertrofia tricologica che gli ha immobilizzato la capigliatura in un grigio bozzolo verticale da cicisbeo settecentesco. Ma forse ha soltanto somatizzato una scossa elettrica, o ha capito troppo tardi - prendendola male - che l'Ue l'ha subito declassato a commissario europeo all' ipocrisia e ai sogni irrealizzabili del Vecchio continente. Prendete la sua ultima uscita di rilievo, che risale a nemmeno una settimana fa: «Il patto di stabilità, che è stato pensato in un momento di crisi, ora va rivisto». In apparenza sembra intelligente, del resto era stato lo stesso Romano Prodi a definire «stupido» il patto di stabilità. Ma Gentiloni non ha compreso che quel vincolo è assurdo perché è stato immaginato per un continente tutt' altro che in crisi, ma con una crescita immaginaria del 4-5%. Ecco perché ora, in piena recessione, faremmo bene a ripensarlo. Insomma Gentiloni o mente o invecchia male. Non si spiega altrimenti la ragione per cui la sua resistibile intelligenza, che era stata sottratta all' Italia con la promessa di affidargli la delega all' Economia nell' esecutivo guidato da Ursula von der Leyen, sia stata invece posta al servizio dei cosiddetti "obiettivi di sviluppo sostenibile" (Sustainable development goals) ovvero una serie di target ricompresi nell' agenda 2030 dell' Onu. Si tratta di raggiungere ben 17 risultati che sembrano altrettanti capitoli d' un libro dei sogni per attempati prestidigitatori della politica incatenati alle treccine di Greta Thunberg. Qualche esempio? Azzerare la povertà e la fame, combattere contro il riscaldamento globale, raggiungere la stabilità locale e mondiale, ridurre le disuguaglianze, costruire società eque e resilienti, ed economie prospere. Vasto programma che sa di prepensionamento, per il nostro Gentiloni. E a conferma del sospetto genuino sta il non trascurabile dettaglio che finora il coordinamento degli obiettivi di sviluppo sostenibile era affidato a Valdis Dombrovskis. E a questo punto la situazione si chiarifica: Dombrovskis lascia ufficialmente che sia Gentiloni a baloccarsi con i periodi ipotetici dell' irrealtà, per la semplice ragione che l'ex primo ministro lettone è nel frattempo diventato un vicepresidente esecutivo con delega economica per i Servizi finanziari. In altre parole: svolgerà lui, campione internazionale del rigorismo nordeuropeo, le mansioni principali che sarebbero altrimenti state di stretta competenza gentiloniana. Si poteva però immaginare che l'ex premier italiano volesse di conseguenza ritagliarsi una libertà di tono e di giudizio nei confronti del profilo ancora enigmatico mostrato dalla nuova Commissione. Come a dire: voi, che mi avete ingaggiato all'Economia per premiare il ribaltone estivo antisovranista, adesso mi togliete le deleghe più pesanti in omaggio al vostro eterno pregiudizio antimediterraneo; sicché il minimo che io possa fare è difendere il mio interesse nazionale. Magari nulla di tutto ciò invece: le prime mosse dell' oleografico Gentiloni sono state caratterizzate dal più inveterato provincialismo germanofilo. Banco di prova esemplare la discussione intorno alla riforma del Meccanismo europeo di stabilità, rispetto alla quale Gentiloni si è ben guardato dal rilevare punti oscuri o criticità (come hanno fatto perfino alcuni noti "berlinesi" come il corrierista Federico Fubini e il professor Carlo Cottarelli), e ha preferito anzi piegarsi supinamente alla dottrina dominante: «Non c' è alcun motivo tecnico o politico per definire quell'intesa un rischio per l' Italia Non vedo ragioni che possano spingere un singolo Paese a bloccare l' intesa sul Mes». Sono parole che Gentiloni ha rilasciato al Corriere della Sera, in un dialogo tra figure dell' establishment culminato in un avvertimento che non segnala alcuna discontinuità rispetto ai moniti del passato: «Nel complesso la Commissione non ha respinto nessun bilancio, tantomeno quello italiano. Ma le sue valutazioni, che verranno sottoposte alla ratifica dell' Eurogruppo, andranno prese molto sul serio». In questo atteggiamento da europrofessore alle prese con alunni indisciplinati è racchiuso il vero mandato di Gentiloni: perpetuare il tutorato tecnocratico sull' inadempiente classe politica italiana. Il che potrebbe anche starci, se non fosse che il medesimo Gentiloni ha svolto una funzione non trascurabile nel nostro recente paesaggio governativo, e si deve anche a lui se nel 2018 la vecchia Commissione europea stava per infliggere al governo gialloverde una procedura d' infrazione per eccesso di debito. Proprio così: al netto delle imperizie, dei proclami roboanti e delle velleità spendaccione del primo governo Conte, i burocrati europei rilevarono con l' allora ministro dell' Economia Giovanni Tria che i conti lasciati in eredità dai governi Renzi e Gentiloni risultavano «non conformi con il parametro per la riduzione del debito nel 2016 e nel 2017». Più esplicitamente, la Commissione reclamava «uno sforzo strutturale di bilancio dello 0,3 per cento del pil, pari a circa 10,2 miliardi». Altro che 2,4 per cento di deficit in più, come s' illudeva di strappare l' avvocato degli italiani Sappiamo come è andata a finire. Giusto ieri la Commissione europea ha avviato un' indagine approfondita nei confronti dell' Italia a causa «del persistere di squilibri macro-economici eccessivi», scandisce il Rapporto sul Meccanismo di Allerta adottato dalla Commissione. Nel ringraziare, oggi, con calore l' ex inquilino di Palazzo Chigi per aver servito con tanta perizia l' interesse nazionale, ci pregiamo infine di ricordare come egli non sia stato certo meno accorto nella legittima cura del proprio interesse privato. Una volta ottenuta l' euronomina, in effetti, secondo i dati già segnalati da Libero, il conte Gentiloni Silveri ha dovuto rendere pubblico un personale tesoretto azionario da principino della Borsa: oltre 700mila euro distribuiti fra Amazon, Expedia, Eni, Enel, con obbligazioni BTP e investimenti in vari fondi gestione. Chapeau. Vi risparmierei la replica del censimento dei beni immobili, ma ne riparleremo il giorno in cui Gentiloni proverà a infliggerci la prossima patrimoniale sulla casa.
Marco Rizzo, Partito Comunista: “Commissari Ue cantano un’idea e sono gli stessi che la distruggono”. Rossella Grasso il 4 Dicembre 2019 su Il Riformista. In pochi minuti è diventato virale un video che vede i Commissari del gruppo dell’Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici (S&D) mentre cantano “Bella Ciao” al Parlamento europeo dopo aver ottenuto il via libera dell’assemblea. Un video vecchio di una settimana che ha indignato Marco Rizzo, segretario generale del Partito Comunista. “Adesso basta, non se ne può più – ha tuonato sulla sua pagina Facebook – Anche i commissari UE cantano ‘Bella Ciao’. Sono quelli che equiparano il comunismo al nazismo. Questa canzone è violentata ovunque. I Partigiani si rivoltano nella tomba. Vergogna! Fuori da UE, euro e Nato!” Se non stupisce che Meloni e Salvini fossero contrari a una simile esternazione dal parte del gruppo dei neocommissari socialisti, la posizione del segretario generale è particolare e gli abbiamo chiesto una spiegazione: “Vediamo i soggetti e l’oggetto – ha detto Rizzo – I soggetti sono il potere costituito dell’Unione Europea, la gabbia europea che attanaglia i popoli europei, secondo il nostro giudizio politico, sono gli uomini che consentono al fondo monetario internazionale e alla Banca Centrale europea di esercitare al meglio il loro potere. L’oggetto è una canzone che ha rappresentato le istanze di cambiamento, di battaglia, in cui sono morte decine di migliaia di persone tra cui in maggioranza comunisti. Possono rivoltarsi nella tomba i Partigiani a vedere che questi signori cantano la loro canzone? Purtroppo nel mainstream del capitalismo globalizzato "Bella ciao" la cantano tutti. E a me dà fastidio”. Per Rizzo si tratta di un vero e proprio ossimoro, l’esatto contrario del significato profondo di quella canzone. “Possiamo far cantare un’idea da quelli che quell’idea la distruggono? È la modalità con cui si crea il consenso e si crea anche il dissenso in questa società. Stessa cosa succede per chi inquina il mondo che si pone la questione dell’ambiente. È buffo ma oggi è così. Il 70% dell’inquinamento del mondo è fatto da 100 multinazionali e tra queste c’è chi impone la discussione sulla green economy. Come dire, "chiagnono e fottono"? Io sono contrario”. L’indignazione per il gesto in Parlamento europeo arriva anche da Salvini che ha twittato “Al prossimo giro canteranno anche Bandiera Rossa, poi Sanremo e tournee internazionale!” e Meloni che ha definito “scandaloso” l’accaduto. Per una volta le estremità di destra e sinistra sono tutti d’accordo? “Per definizione non sono mai d’accordo con la Meloni – ha detto – Penso di essere un po’ più titolato di Salvini e Meloni a parlare di Resistenza e partigiani anche perché gli antenati della Meloni durante la Resistenza stavano dall’altra parte“. “Bella Ciao” è una delle canzoni più cantate in tutti i contesti, anche non politici, come è accaduto per la popolare serie di Netflix ‘Casa de papel’ tanto da diventare per molti identificativa della serie tv, tralasciando il suo vero significato (e YouTube ne è testimone). La cantano anche le sardine ogni volta che scendono in piazza e per Rizzo anche questo è un abuso decontestualizzato. “Ormai tutti la cantano – ha detto il segretario comunista – Ma allo stesso modo mi sono incazzato quando ho visto il Che Guevara usato da Casapound. C’è un limite a tutto. ‘Bella Ciao’ la cantano tutti addirittura i padroni dell’Europa. È una roba folle”. Il segretario del partito comunista orgogliosamente ammette di non aver mai indossato una maglietta con il Che stampato su. Perché come ‘Bella Ciao’ “il Che è qualcosa che ti resta nel cuore – ha continuato – è l’idea del grande rivoluzionario. Questa società riesce persino a commercializzare un grande sentimento. È una società che fa schifo”. Rizzo non ci sta a credere che le sardine siano un movimento rivoluzionario. “La rivoluzione significa cambio di sistema – spiega – non mi pare che ci sia né tra le sardine, né tra il popolo viola né tra i 5stelle, né da Podemos né da Syriza una modalità di intercettare il dissenso in queste società contemporanee, nessuna di loro ha messo in discussione il sistema basato sull’economia capitalistica, nessuno parla di economia socialista, di cambio del sistema. Questa è la rotta su cui interpretare quello che accade ed è la differenza tra ribellione e rivoluzione”. Il segretario comunista guarda con sospetto a quel movimento che dice essere nato “guarda caso” a Bologna, dove tra poco ci saranno le amministrative che avranno un riflesso nazionale. Ragionando di partigiani, simboli e Resistenza non può non tornare alla mente Nilde Iotti scomparsa 20 anni fa proprio il 4 dicembre. Marco Rizzo l’ha conosciuta ed è convinto che siano politici come lei ad aver fatto la differenza. Lo afferma con amarezza perché “oggi politici come lei non ce ne sono più – ha detto – È stata una donna che ha partecipato all’emancipazione femminile in Italia, ma tutta la storia delle donne è legata all’idea del riscatto e del cambiamento della società. Qual è il primo posto al mondo in cui le donne hanno votato? L’Unione Sovietica. Dove per prime le donne hanno avuto i diritti di maternità, il primo ministro donna, tutti i mestieri ad alto livello sono stati anche per le donne dall’ingegnere all’astronauta, il diritto all’aborto e al divorzio? Sempre l’Unione Sovietica. Nilde Iotti ha portato tutto questo in Italia con un livello di dignità politica altissimo. Se pensiamo a Nilde Iotti e a cos’è oggi la politica, beh insomma…anche sul versante femminile lo scenario è disarmante”.
La storia di "Bella Ciao", l’inno che nacque dopo la Resistenza. Roberta Caiano su Il Riformista il 5 Dicembre 2019. Nell’ultimo periodo la famosa canzone “Bella Ciao” è diventata un successo mainstream cantata ovunque. Senza dubbio la sua risonanza tra un pubblico giovanile la si deve alla serie Tv spagnola La casa di Carta, che continua a cavalcare gli schermi arrivando alla sua terza stagione. Andata in onda per la prima volta su Netflix nel 2017, continua ad avere un enorme successo mondiale e con essa la canzone Bella Ciao. Ma in questi ultimi mesi la canzone è stata adottata anche come inno dalle migliaia di giovani sardine che stanno affollando le piazze di moltissime città italiane a protestare contro Matteo Salvini. E’ notizia fresca, invece, quella che riguarda i Commissari del gruppo dell’Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici, i quali dopo aver ottenuto il via libera dell’assemblea, hanno intonato Bella Ciao al Parlamento europeo. Il video è diventato così virale da scatenare polemiche e commenti di indignazione e sconcerto. Oltre a Giorgia Meloni e Salvini, che si sono subito affrettati a chiosare la notizia su twitter, si è espresso in merito anche il segretario generale del Partito Comunista, Marco Rizzo. Il politico ha dichiarato in un’intervista che “la canzone ha rappresentato le istanze di un cambiamento di battaglia in cui sono morte decine di persone, tra cui in maggioranza partigiani comunisti italiani.” La maggior parte delle volte Bella Ciao è considerata la canzone intonata dai partigiani mentre liberavano l’Italia. Tutt’oggi viene usata come inno antiautoritario non soltanto in Italia ma in tante piazze del mondo. In realtà non molti sanno che questa è una leggenda che la tradizione ha tramandato sino ai nostri giorni. Infatti Bella Ciao non esisteva durante la Resistenza e nessuno la cantava, anche se alcuni studiosi sostengono che in alcune zone di Reggio Emilia e del Modenese fosse in realtà già nota. Tra le bande partigiane il canto più diffuso era Fischia il vento, nato nel 1943 dalla cadenza sovietica . Bella Ciao nella versione che conosciamo, debutterà ufficialmente a Praga nel 1947 durante il "Festival mondiale della gioventù democratica" e di lì conoscerà una fortuna sempre maggiore, anche al di là dei confini nazionali. Infatti la sua notorietà internazionale si diffuse alla fine degli anni ’40 e agli inizi degli anni ’50 in occasione dei Festival che oltre a Praga, si tennero anche a Berlino e Vienna dove fu cantata dai delegati italiani e in seguito tradotta in varie altre lingue. Questo canto deve la sua identificazione come simbolo della Resistenza italiana al testo, in quanto connota la canzone esclusivamente come inno contro “l’invasore”.
Bella Ciao, hit non di lotta ma di resistenza. Paolo Delgado il 6 Dicembre 2019 su Il Dubbio. Le incerte radici della canzone simbolo. La incise Yves Montand, Daffini la cantò al festival dei due mondi di Pesaro: rappresentava la propaganda comunista. Poi i Dc la cantarono a Zaccagnini. Al funerale di Giorgio Bocca, grande firma ed ex partigiano, i dolenti scelsero di salutarlo intonando Bella Ciao. Decisione discutibile, avendo Bocca assicurato che i partigiani non l’avevano mai cantata. Al funerale di Giorgio Bocca, grande firma ed ex partigiano, i dolenti scelsero di salutarlo intonando Bella Ciao. Decisione discutibile, essendo Bocca uno di quelli che avevano assicurato che il canto destinato a diventare una sorta di nuova Internazionale, ritinteggiata in rosa pallido, i partigiani non l’avevano mai cantata. Aveva ragione lui o Cesare Bermani, autore del primo studio sulla canzone- simbolo La vera storia di "Bella Ciao", secondo cui invece qualcuno la cantava, comunque senza grande diffusione. E’ un fatto che i canzonieri della Resistenza usciti quando l’odore della polvere da sparo era ancora acre, nella seconda metà degli anni ‘ 40 e nei primissimi ‘ 50, proprio non la nominano e anche l’ipotesi di Bermani, secondo cui sarebbe stata l’inno della Brigata Maiella, sembra poco probabile: il figlio del fondatore della Brigata, Ettore Troilo, cita in un suo libro le canzoni delle Brigata e dell’ "inno" non c’è traccia. Fonti beninformate giurano che la canzone fu presentata alla rassegna di Praga sulle "Canzoni mondiali per la Gioventù e per la Pace", una delle tipiche iniziative Cominform dell’epoca, e che, complice l’orecchiabilità, il motivo decollò lì. Come in tutti i pezzi folk, rintracciare l’origine è un’impresa. Carlo Pestelli, autore a sua volta di Bella ciao. La canzone della libertà, parla di canzone- gomitolo, nella quale si intrecciano, anche in questo caso come spesso capita nelle canzoni folk, ‘ si intrecciano molti fili di vari colori’. Il gomitolo finale arriva al grande pubblico con l’incisione di Yves Montand, allora stella mondiale francese di origine italiana e comunista. L’anno dopo il Nuovo Canzoniere Italiano la presenta al Festival dei Due Mondi di Pesaro, intonata da Giovanna Daffini, e fioccano le polemiche sulla propaganda comunista al Festival. I commentatori vicini alla Dc si scompongono ma poco più di 10 anni dopo, quando Benigno Zaccagnini, l’ "onesto Zac", rappresentante eminente dei morotei viene eletto segretario della Dc i delegati salutano il sedicente nuovo corso proprio col già vituperato motivo.
Oggi la cantano dappertutto. A New York, a Occupy Wall Street, e a Hong Kong, In Cile come in Iraq, a Parigi come a Roma e ieri anche sotto la porta di Brandeburgo. Ci mette parecchio di suo la serie Netflix "rivoluzionaria" per eccellenza, La casa di carta. Se la cantano lì, nella fiction più antibanche che sia mai stata trasmessa. Però è difficile credere che Paolo Gentiloni e i rappresentanti del Pse avessero in mente una feroce campagna contro le banche quando, dopo il voto a favore della commissione von der Leyen, hanno dato vita al noto coretto. La fortuna del canto non-partigiano, sostiene qualcuno, si deve proprio all’assenza di tonalità forti. Niente a che vedere con roba come Fischia il vento, che la vernice rossa non gliela si scrostava di dosso nemmeno a provarci per ore. E’ una canzone che poteva andare bene per tutti, fascisti esclusi, e dunque pareva fatta apposta, in Italia, per consentire a quello che si chiamava allora ‘ arco costituzionale’ di festeggiarsi senza troppe tensioni. Ma in fondo come e perché si sia arrivati a questo esempio eminente di ‘ invenzione della tradizione’ conta poco. Meglio chiedersi cosa l’opzione canora transnazionale indica oggi. Bella Ciao, nonostante le apparenze, non è una canzone di lotta. E’ una canzone di resistenza ( con la r minuscola). La può cantare chiunque ritenga di trovarsi alle prese con un potere che opprime, con l’invadenza di una potenza estera, persino con la temuta vittoria elettorale di un partito ritenuto minaccioso. E’ una canzone gentile: la può cantare chi resiste con le bottiglie molotov ma anche chi si affida alla resistenza passiva e persino chi si limita ad assieparsi in una piazza. Se non proprio buona per tutti gli usi, quasi.
Bella Ciao? Sallusti: “Nessun partigiano l’ha mai cantata”. Vaurosenesi.it il 30 aprile 2019. “Bella ciao” canzone di tutti gli italiani? Sallusti: ‘Nessun partigiano l’ha mai cantata’. Per Alessandro Sallusti ‘non c’è traccia di Bella ciao nella Resistenza, introdotta a metà degli anni ‘50 dalla retorica comunista’. A Quarta Repubblica, il talk show condotto da Nicola Porro, in onda tutti i lunedì sera su Rete 4, si discute sul fatto che la canzone Bella Ciao rappresenti o meno tutti gli italiani con Ilaria Bonaccorsi, Vittorio Sgarbi, Alessandro Sallusti, Marco Gervasoni e Vauro. Argomento spinoso e divisivo che, infatti, fa discutere animatamente gli ospiti in studio. La tesi di Porro è che sia diventata una canzone di parte e che, quindi, non è giusto che venga fatta cantare anche a suo figlio a scuola. Di questa stessa idea, ma con sfumature diverse, sono anche il direttore de Il Giornale, Alessandro Sallusti e il critico d’arte Vittorio Sgarbi. Dalla parte opposta della barricata, è proprio il caso di dirlo, si sistema la storica e giornalista, Ilaria Bonaccorsi, mentre il vignettista Vauro Senesi sostiene, come gli altri ma da un punto di vista agli antipodi, che non sia la canzone di tutti perché appartiene solo agli italiani antifascisti.
Ma Bella ciao può essere considerata o no la canzone di tutti gli italiani. È questo il tema di discussione introdotto a Quarta Repubblica da Nicola Porro verso la fine della puntata andata in onda lunedì 29 aprile. Secondo la definizione di Wikipedia, Bella Ciao “è un canto popolare, nato prima della Liberazione, diventato poi celeberrimo dopo la Resistenza perché idealmente associato al movimento partigiano”. Dunque, secondo il conduttore, “chi la canta gli dà un contenuto politico, è diventata una canzone di una parte” che non dovrebbe essere fatta cantare nelle scuole. Una tesi contrastata con veemenza da Ilaria Bonaccorsi, secondo la quale, invece, il canto appartiene a tutti gli italiani perché “è una canzone trovatella che racconta di una reazione ad una oppressione, nel caso specifico la reazione a 20 anni di dittatura nazifascista e alla fine di una guerra tragicamente combattuta accanto ad Hitler. Non è la canzone di una parte, ma degli esseri umani”.
L’affondo di Alessandro Sallusti: ‘Comunisti parte minoritaria della Resistenza’. La pensa naturalmente in maniera opposta Alessandro Sallusti, secondo il quale “vi siete accodati alla narrazione che ci fanno da 70 anni di quelle vicende. In realtà Bella ciao non può essere la canzone di tutti, anche perché è una fake news. Nessun partigiano l’ha mai cantata – sostiene il direttore del berlusconiano Il Giornale – Non c’è traccia di Bella ciao nella Resistenza. È stata introdotta a metà degli anni ‘50 dalla retorica comunista proprio per impossessarsi definitivamente di un fenomeno, quello della Resistenza, di cui il Partito Comunista è stato una parte, tra l’altro anche minoritaria, ma ha cercato ed è riuscito, perché ancora 70 anni dopo noi immaginiamo che i partigiani erano tutti e soltanto comunisti e che cantavano Bella ciao. Non è vera né l’una né l’altra cosa”.
Vauro d’accordo con Sgarbi. A questo punto interviene Vittorio Sgarbi, convinto che Bella ciao “è una bella canzone, ma va rispettato che sia di una parte, perché altrimenti essa perde la sua forza di rottura. Non puoi immaginare La Russa, Berlusconi o Sallusti che la canta, perché è offensivo. Il partigiano monarchico Edgardo Sogno mai l’avrebbe cantata. La caratterizzazione di sinistra, per cui immagino Vauro sia contento, va lasciata a Bella ciao, non possiamo farla diventare cosa di tutti. Se Casapound la canterà sarà un delitto”. Opinione con cui concorda anche Vauro. Il vignettista prima premette che “sarà un miracolo di questa trasmissione, ma è già la terza puntata che vado d’accordo con Sgarbi”. Poi però attacca a testa bassa: “Alla domanda se Bella ciao è la canzone di tutti gli italiani, io rispondo un secco e netto no. È la canzone di tutti gli italiani che si riconoscono nella Costituzione della Repubblica italiana, antifascista e nata dalla Resistenza. L’antifascismo è un valore e anche una discriminante”.
Alessandro Sallusti fa a pezzi Vauro a Quarta Repubblica: "Parlate di partigiani e dimenticate le foibe". Libero Quotidiano 30 Aprile 2019. "Bella ciao è una fake news. Non era la canzone dei partigiani ma è stata introdotta negli anni Cinquanta dalla retorica comunista". Alessandro Sallusti, ospite di Nicola Porro a Quarta Repubblica, su Rete 4, fa a pezzi il vignettista Vauro Senesi che, invece, insiste sulla necessità di insegnare il fascismo nelle scuole anche se il conduttore sottolinea che i bambini non sanno nulla dell'argomento: "L'istruzione è il primo anticorpo contro il fascismo", tuona il vignettista. Ma il direttore de Il Giornale lo massacra: "In quella scuola si sono dimenticati di insegnare le foibe e la strage di Osoppo e tante altre cose ancora".
O anti-grillino, portami via...La cantilena di Bella Ciao sta risuonando in queste settimane nelle manifestazioni della sinistra. Ma se resistenza deve essere, oggi il nemico non può essere la destra liberale e neppure Salvini che si barcamena come può. Alessandro Sallusti, Martedì 30/04/2019, su Il Giornale. Ieri ho partecipato a un dibattito televisivo, ospite di Nicola Porro su Rete4, sul ritorno in auge di Bella Ciao, la canzone che modificata nel testo fu adottata negli anni Cinquanta dal Pci per dare una colonna sonora postuma alla retorica della Resistenza e all'antifascismo perpetuo da utilizzare contro chiunque, da Berlusconi a Salvini, si sia frapposto con successo all'avanzata del comunismo. La cantilena di Bella Ciao sta risuonando in queste settimane nelle manifestazioni della sinistra, ma anche nelle scuole e in un caso addirittura in chiesa, Eugenio Scalfari le ha dedicato un pezzo della sua omelia domenicale su La Repubblica. Un revival sinistro in ogni senso, che come tutti i revival è indice dell'incapacità di guardare al presente e al futuro, un po' come Little Tony che si è fermato a Cuore matto e Bobby Solo a Una lacrima sul viso. Sono fermi lì, quelli del Pd, alla rivoluzione sognata e per fortuna nostra fallita. Ma se proprio vogliamo dare una colonna sonora a questo tempo bisognerebbe che anche la sinistra uscisse dalla «nostalgia canaglia» (peraltro titolo di una fortunata canzone cantata da Al Bano e Romina) e scrivesse un nuovo spartito con parole e musica comprensibili non tanto ai nostri nonni, ma ai nostri figli e nipoti, cosa che però non mi pare Zingaretti e soci siano intenzionati o capaci di fare. Proporsi, tra accelerazioni e frenate (ieri quella dell'ex ministro Delrio) come possibili stampelle dei Cinque Stelle nel caso di una rottura tra Di Maio e Salvini, più che un programma politico è una mossa della disperazione nella quale era già caduto Bersani sei anni fa all'indomani della sconfitta, o «non vittoria» come la chiamò lui, alle Politiche del 2013. Se resistenza deve essere, oggi il nemico non può essere la destra liberale (quella radicale e intollerante è talmente al lumicino che bastano polizia e carabinieri) e neppure Salvini che si barcamena come può stante la situazione. L'inutile «fascismo-antifascismo» andrebbe sostituito con il più utile «grillismo-antigrillismo» perché nell'opaco movimento di Di Maio e nei suoi agganci con i servizi segreti italiani e stranieri sta il vero pericolo per la democrazia, proprio come ai tempi di Bella ciao, ballata pensata da chi ci voleva portare al fianco di Stalin.
Red Ronnie a Stasera Italia contro le Sardine e Bella Ciao: "L'invasore chi è, Matteo Salvini o l'Europa?" Libero Quotidiano l'8 Dicembre 2019. Parole che strappano un sorriso a Matteo Salvini. Parole di Red Ronnie a Stasera Italia, il programma di Rete 4, rilanciate sui social proprio dal leader della Lega, di fatto difeso a spada tratta dal cantante. Barbara Palombelli chiede a Red Ronnie: "Ma che tipo è Salvini secondo te?". Lui risponde: "È un istintivo, uno che si dice che raggiunga la pancia perché parla con la pancia. Raramente legge dei discorsi, diffido da chi lo fa". Dunque, Red Ronnie prosegue: "All'inizio del servizio avete fatto sentire la canzone C'è chi dice no di Vasco Rossi, in un servizio in cui elencavate tutti i nemici del leghista. Io ho il disco, e devo mettere un pezzo della canzone: continuano a giudicarlo per il Papeete, perché era a torso nudo, perché beveva il mojito. È un po' come quello che Vasco diceva di se stesso. Gli dicevano: guardate l'animale, è un animale? E Salvini oggi è un po' quell'animale che tutti dicono", afferma. Ma non è finita, perché poi nel mirino di Red Ronnie ci finisce Bella Ciao, tornata in auge nelle piazze delle sardine: "Visto che parliamo di canzoni, vorrei parlare di Bella Ciao. È una canzone che va bene nella Casa di Carta ormai. Ma cantare Bella Ciao, quando si dice: mi sveglio la mattina, è arrivato un invasore. Ma l'invasore chi è? Salvini o qualcuno dell'Europa che ci sta invadendo e ci sta comprando? Io sono un anarchico, però vedo che ci sono molte cose che non stanno andando in questo mondo, c'è qualcuno che non sa più che ore sono", conclude. Intervento, come detto, rilanciato sui social da Salvini col commento: "Fortissimo Red Ronnie, parole di buonsenso!".
· Fascismo di sinistra.
Fascismo di sinistra. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La sinistra autoritaria, meglio detta fascismo di sinistra o sinistra fascista, sono termini usati da alcuni sociologi per descrivere le tendenze politiche di sinistra che contraddicono gli ideali di egualitarismo e libertà sostenuti storicamente dalla sinistra per avvicinarsi a ideali più autoritari e appunto simili al fascismo. In ambito storico e politologico viene anche così definita la corrente più spiccatamente anticapitalista del fascismo che vedeva nella socializzazione dell'economia il concreto realizzarsi del socialismo.
Utilizzo e denominazioni. La locuzione «fascismo di sinistra» è stata per la prima volta utilizzata da Jürgen Habermas, un sociologo e filosofo influenzato dalla Scuola di Francoforte neo-marxista. Ha usato il termine nel 1960 per la distanza della scuola di Francoforte, dalla violenza e autoritarismo dei terroristi comunisti. Habermas, il cui lavoro sottolinea l'importanza del discorso razionale, di istituzioni democratiche e di opposizione alla violenza, ha dato contributi importanti alla teoria del conflitto che spesso è associata con la sinistra radicale.
La sinistra fascista. Durante il fascismo in Italia un gruppo di intellettuali come Berto Ricci, Mino Maccari, Marcello Gallian, Elio Vittorini, Romano Bilenchi e Vasco Pratolini venivano definiti all'interno del regime la «sinistra fascista». Già nell'immediato dopoguerra in Italia si parlò di fascismo di sinistra tra gli esponenti del neonato Movimento Sociale Italiano, un gruppo riunito intorno a Giorgio Pini ed Ernesto Massi[3] nel Raggruppamento Sociale Repubblicano. Secondo un'altra interpretazione (Pietro Neglie) la sinistra fascista è da intendersi con il sindacalismo rossoniano, il quale come frazione ideologica trascende lo stesso Rossoni e alla fine si schiera con l'Ordine del Giorno Grandi nel luglio 1943, oltre che con il progetto di Stato o comunità del lavoro,[4] la «mistica del lavoro» che campeggia anche come essenza ideale e prassi dello Stato del lavoro nella Repubblica Sociale Italiana e Genesi e struttura dell società, testo che costituisce il testamento filosofico di Giovanni Gentile come sintesi politico-ideologica della sinistra fascista di contro al meccanicismo mercificatore tecnicistico marxista e capitalista.
L'interpretazione di Irving Louis Horowitz. Il sociologo Irving Louis Horowitz nel suo libro Winners and Losers (Vincitori e vinti) del 1984, basato sul lavoro di Vladimir Lenin L'estremismo, malattia infantile del comunismo,[5] scrive che Lenin descrive i nemici della classe operaia come opportunisti e borghesi rivoluzionari, che collega all'anarchismo. Horowitz sostiene che c'era un simile sforzo politico negli Stati Uniti d'America negli anni ottanta che si caratterizza come fascismo di sinistra. Horowitz sostiene che è pericoloso assumere chiare distinzioni tra destra, centro e sinistra e che sono possibili varie combinazioni. Il carattere totalitario e antidemocratico delle Brigate Rosse italiane portò ad additarle come fasciste di sinistra nei successivi anni di piombo europei, che vedevano opposti gruppi terroristici neri e rossi, come il tedesco Rote Armee Fraktion (RAF). Horowitz sostiene che il fascismo di sinistra negli Stati Uniti come in Europa è in grado di coniugare ceppi ideologici molto diversi in una formula politica che ha il potenziale per un appello di massa. Questa sintesi politica porterebbe quindi una somiglianza ideologica tra terrorismo rosso e nero, poiché entrambi ispirati alla lotta di classe, populismo, totalitarismo e talvolta antisemitismo in chiave anticapitalista. Horowitz afferma che un principio di fascismo di sinistra negli Stati Uniti è un rifiuto dei suoi ideali prevalenti e al sistema democratico e un'asserzione del socialismo come un'astrazione idealizzata. Egli sostiene che i fascisti di sinistra esaminano in modo univoco il socialismo senza commento sulle attività in Unione Sovietica. Sostiene inoltre che la forza potenziale del fascismo di sinistra, come praticato da Lyndon LaRouche e dalla sua Commissione nazionale dei comitati dei lavoratori(NCIC), sia nella combinazione di principi motivante per lo sviluppo di un nuovo ordine sociale fascista. L'efficacia del NCIC è visto il successo nella costruzione di alleanze monotematiche con l'estrema destra antisemita Liberty Hall, con certi movimenti neri islamici e funzionari conservatori della Fratellanza Internazionale degli Autotrasportatori.
Interpretazione di Richard Wolin. Nel tardo XX e XXI secolo il termine fascismo di sinistra è stato usato per descrivere le alleanze politiche ibride insolite.[6] Lo storico Richard Wolin ha utilizzato il termine fascismo di sinistra sostenendo che alcuni intellettuali europei sono stati infatuati da teorie post-moderniste o anti-illuministe, aprendo la strada a movimenti e associazioni di dubbia razionalità che coniugano fascismo e altre dottrine di sinistra.
Una nauseante retorica: così la sinistra vede fascismo ovunque. Edoardo Santelli su Ilprimatonazionale.it il 18 Maggio 2019. La presenza al Salone del Libro di Torino della casa editrice Altaforte ha suscitato le ire dei cosiddetti antifascisti, che non hanno mancato di far sentire la loro voce: Altaforte, vicina agli ambienti di Casapound, è stata immediatamente accusata di fascismo e la sua presenza al Salone è stata subito contestata. Molti intellettuali hanno manifestato il loro disappunto e l’aria si è fatta ancora più elettrica quando il sindaco di Torino Chiara Appendino e il presidente della regione Piemonte Sergio Chiamparino hanno presentato alla Procura di Torino un esposto per apologia di fascismo. L’accusa di fascismo è stata usata non soltanto per attaccare la casa editrice ma anche il ministro dell’Interno Matteo Salvini, quando si è scoperto che il libro-intervista scritto Chiara Giannini è stato pubblicato con la casa editrice Altaforte. Arrivati a questo punto, tutta la retorica antifascista ha dato il meglio di sé (si fa per dire). Si è assistito a scene insulse: gente che cantava “Bella ciao”, intellettuali che gridavano al ritorno del fascismo, giornalisti che intervistando il Ministro lo accusavano implicitamente di avere posizioni filo-fasciste, ecc. Queste manifestazioni spingono ad una riflessione rispetto alla retorica antifascista e al meccanismo che sta alla base dell’accusa di fascismo. Bisogna porsi due domande: che cosa significa, realmente, l’accusa di fascismo? E, in secondo luogo, perché oggi tale accusa è tornata in auge, manco fossimo nell’immediato dopoguerra? Per rispondere alla prima domanda bisogna considerare il meccanismo semantico che riguarda la parola “fascismo”. Questa parola denota un preciso movimento politico italiano, nato il 23 marzo del 1919 a Milano con la fondazione dei Fasci di Combattimento e conclusosi formalmente il 25 luglio 1943 con il voto di sfiducia a Benito Mussolini da parte del Gran Consiglio del Fascismo. Data questa accezione, non è chiaro che senso abbia dichiararsi antifascista, a meno che con “antifascismo” non si intenda fare riferimento ad un giudizio storico: essere antifascista significa giudicare in modo negativo (qualsiasi cosa ciò significhi) il periodo storico del fascismo, così come essere anticarolingiano significa (o significherebbe, se tale parola fosse usata) giudicare negativamente il periodo dell’Impero di Carlo Magno. Allo stesso tempo, per contro, dichiararsi fascista non significherebbe altro che dare un giudizio positivo (qualsiasi cosa ciò significhi) del fascismo, mentre non significherebbe necessariamente auspicare un ritorno del fascismo, così come dichiararsi carolingiano significherebbe dare un giudizio positivo dell’Impero di Carlo Magno e non promuovere, invece, un ritorno di tale impero. Ci si potrebbe domandare, allora, per quale ragione se uno va in giro a dichiararsi “carolingiano” non rischia niente (o al più rischia di essere deriso), mentre se uno si dichiara pubblicamente fascista rischia l’accusa di apologia di fascismo. Non si può certo rispondere dicendo che chi si dichiara fascista favorisce, seppur indirettamente, il ritorno del Fascismo. Questa proposta è tanto assurda quanto sostenere che uno che si dichiara carolingiano favorisce il ritorno dell’Impero di Carlo Magno. Eppure, proprio tale proposta sembra essere presupposta nell’accusa di apologia di fascismo: sembra insomma che tale accusa e il corrispondente reato presuppongano la possibilità di un ritorno del Fascismo. Ma è, oggi, una possibilità effettiva? Non pare. Non a caso, la XII disposizione transitoria e finale della Costituzione e la Legge Scelba del 1952 parlano del “disciolto partito fascista”, a ricordare che si fa riferimento, anche quando si ipotizza il reato di apologia di fascismo, del Fascismo del Ventennio e dei suoi specifici principi e valori. Ora, al di là degli innumerevoli dubbi sollevati rispetto alla legittimità costituzionale della Legge Scelba (essa violerebbe i principi costituzionali di libertà associativa e di libertà di manifestazione del pensiero), bisogna ricordare che il legislatore è stato acuto nel sottolineare che si parla del disciolto partito fascista, onde evitare generalizzazioni che renderebbero sfumati i confini fra l’apologia del fascismo e la manifestazione di un pensiero di destra (nemmeno la Legge Mancino del 1992 è riuscita a eludere tale precisazione: cfr. la sentenza della Corte di Cassazione 8108/2018): fare il saluto romano, esprimere una posizione “revisionista” rispetto al Fascismo, apprezzare la figura di Benito Mussolini, ecc. non costituisce reato, a meno che tali comportamenti non siano accompagnati da un’effettiva volontà e azione preposte alla ricostituzione del partito del Ventennio. In altre parole, la libertà di pensiero e opinione è garantita. Questo spiega perché in passato partiti come il Movimento Sociale Italiano, poi tramutato in Alleanza Nazionale, che seguiva il principio enunciato da Augusto De Marsanich «non rinnegare, non restaurare» non fu perseguito legalmente e poté entrare in parlamento. Gli antifascisti che hanno sempre pronta in bocca l’accusa di fascismo dovrebbero studiare prima di parlare e avere almeno un’idea di ciò che prevede la legge. Se oggi in Italia esiste un atteggiamento censorio è il loro: escludere Altaforte dal Salone e accusare pubblicamente Salvini di fascismo rappresentano niente di meno che abusi, violenze e prepotenze nei confronti di chi manifesta liberamente e legalmente il suo pensiero. La parola “fascista” è oggi usata in un senso generale, per attaccare chiunque manifesti idee contrarie alla logica del politicamente corretto. Questo non sarebbe grave se non fosse che le accuse di apologia di fascismo campate per aria hanno un peso anche nel comportamento delle istituzioni, come dimostra l’esposto di cui si è detto all’inizio. Questo comportamento non soltanto presuppone un atteggiamento tutt’altro che tollerante nei confronti del libero pensiero (in barba ai principi di libertà di opinione e parola sanciti dalla Costituzione) ma dimostra anche quanto le generalizzazioni siano facili persino per chi rappresenta le istituzioni. Edoardo Santelli
Il fascismo? Una storia tutta di sinistra (La Voce di Romagna Rimini). Da La Voce di Romagna Rimini del 04/10/2013. Intervistare Nicholas Farrell è un'avventura. Non si fa trovare mai, ti dice che prende un caffè e non lo senti per ore. Farà parte del personaggio. Comunque: Farrell è celebre perché ha insegnato agli italiani chi era Benito Mussolini. Questa volta, poi, cavalca la mostra su Il giovane Mussolini, inaugurata domenica a Predappio fino al 31 maggio 2014 per sfornare un libro, Il compagno Mussolini, pubblicato da Rubbettino, controfirmato da un giornalista di calibro come Giancarlo Mazzuca, «che da lunedì è a Predappio, ma nel resto d'Italia a novembre: cosa ne parliamo a fare?». Ecco, Farrell vuole fare sempre il furbo. Senti, la tesi è quella che il fascismo è un affare di sinistra, una deviazione socialista. «Se guardi quello che ha scritto e detto Mussolini a Forlì, quando era direttore di Lotta di classe, ricorrono le stesse idee del fascismo: odia la democrazia, perché è il trucco della borghesia, allo stesso tempo disprezza il Parlamento. Ritiene necessaria una rivoluzione extraparlamentare. Dice che la qualità è più importante della quantità, uno dei temi fondamentali del fascismo, che esalta i produttori rispetto ai parassiti. E tutto questo Mussolini lo dice nel 1910-11, da socialista, e i socialisti, si sa, erano i primi comunisti». Ma poi c'è lo strappo della Prima guerra mondiale, Mussolini mette l'elmo da interventista, con il partito è guerra aperta. «Mussolini capisce che la difesa della patria contro il nemico è più importante dell'internazionale e della lotta di classe. E la sua posizione è la stessa del partito socialista tedesco e francese». Rompere le scatole agli storici nostrani. Farrell non dice niente di nuovo, ma documenta per bene ciò che dà fastidio agli storici del Belpaese. Intanto «l'affinità, la continuità del socialismo con il fascismo. Niente di nuovo, hai ragione: basta guardare la prossimità tra tutte le rivoluzioni di sinistra del Novecento e quella fascista. Se pensi a Cuba, che cos'è? Fascismo, socialismo nazionalista. Anche il comunismo sovietico era nazionalista». E poi, la faccenda ebraica. Farrell ricostruisce l'amore di Mussolini con Margherita Sarfatti, sorprendente dama ebrea, dall'intelligenza inusuale. Mussolini «non aveva nulla contro gli ebrei, essendo lontano anni luce da qualsiasi sentimento razzista»: questo lo scrive Vittorio Feltri nell'introduzione al libro. «Già, proprio così», mugugna Farrell, «e poi hai visto che mi descrive "brillante giornalista inglese"?». Supremo vanitoso. Torniamo al tema. Di nuovo, al di là del pescare testi di grandi inglesi in qualche modo affini al Duce (Kipling, Chesterton, H.G. Wells), tiri fuori dagli archivi dell'Università di Cambridge dei documenti in cui si capisce che i servizi segreti britannici finanziavano il Dux e il suo giornale, «non perché fascista, ma perché socialista che odiava i tedeschi». Farrell mi manda a quel paese, «questo è uno scoop, non svelarlo ancora». Fatto. «Dì piuttosto che inizio parlando di Predappio». Cioè? «Predappio è la Betlemme fascista. Comincio il libro con un dialogo con il Sindaco Frassineti, mio amico- nemico: lui urla "vogliamo essere un paese normale, persone normali". Ma normale Predappio non lo sarà mai». E bravo Nik, il Pindaro del Dux.
GIUSEPPE PARLATO, La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato, Bologna, Il Mulino Ricerca, 2000, p. 404, L. 45.000. Questo volume porta alla luce la più inquieta fra le diverse e non di rado conflittuali anime del fascismo: la cosiddetta sinistra fascista. Parlato identifica i tratti salienti del mosaico di idee, valori e umori che ne costituisce l'identità, seguendo il "fiume carsico" della sinistra fascista oltre la fine del Ventennio, fin dentro gli anni Settanta. Un forte spirito antiborghese e anticapitalistico, un'idea della politica come rivoluzione, l'obiettivo di una democrazia popolare totalitaria di radice rousseauiana caratterizzano questo fascismo che ha le sue origini nel sindacalismo rivoluzionario d'anteguerra, e il suo habitat nelle strutture sindacali e nelle organizzazioni giovanili universitarie. Con la seconda guerra mondiale i fascisti di sinistra scelsero spesso sponde opposte: alcuni rimasero fedeli al proprio essere fascisti, altri al proprio essere rivoluzionari ed entrarono nel partito comunista, dove occuparono anche posti di prestigio.
Recensione di Tania Tomassetti su cultureducazione.it. L’autore in La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato traccia una sintesi rigorosa e ben articolata della tematica del sindacalismo nella storia del fascismo italiano, analizza le differenti fasi che interessano la genesi, il decollo ed infine il tracollo di un fenomeno così importante come quello qui trattato. L’influenza politica del fenomeno del sindacalismo con tutte le sue determinazioni e le sue conseguenze è l’obiettivo che intende raggiungere Parlato nel libro. Di certo, le prime righe dell’Introduzione si rivelano chiarificatorie per cogliere la linea argomentativa scelta dall’autore nell’esposizione della sua ricerca. Egli, procede mediante un’analisi storica, o, se vogliamo ideologica che si indirizza su quattro fronti: americano, sovietico, inglese e italiano. Si tratta di una scelta metodologica, a mio avviso molto congeniale perché non si limita ad una descrizione unidirezionale ma tenta di spiegare l’evolversi del fenomeno della sinistra fascista attraverso uno studio pluridirezionale, dove entrano in gioco non solo le caratteristiche peculiari dell’oggetto da analizzare, altresì le affinità, e soprattutto le differenze con i tre colossi della storia mondiale. Parlato riprende il testo di un articolo pubblicato nella rubrica Cantiere, a firma l’Impresa (n. 23 della rivista, 17 giugno, 1944), e riedito nel 1971 da Barna Occhini, in Antologia di «Italia e Civiltà», dove si esordisce: «Roosevelt, Churchill, Stalin. Il gran discorrere di Roosevelt e Churchill e la forma e la sostanza dei loro discorsi hanno invariabilmente l’effetto di accrescere in noi, al confronto, la stima verso Stalin. Rispettiamo al confronto la serietà di Stalin, la sua semplicità di parole e di gesto, il suo andare allo scopo con energica, silenziosa durezza. […] E sappiano finalmente Roosevelt e Churchill, e tutti i loro compari, che i fascisti più consapevoli, i quali hanno sempre riconosciuto nel comunismo la sola forza viva contraria alla propria, non tanto nella Russia, quanto nella plutocratica Inghilterra e nella plutocratica America hanno individuato il vero nemico. Sempre essi hanno sentito di discordare, sì, dai comunisti su molti punti, ma anche di concordare con essi su molti altri, e precisamente e soprattutto di concordare su ciò che non vogliono. Vale a dire, noi e i comunisti concordiamo nel non volere più, né gli uni né gli altri, la vecchia società liberale, borghese capitalistica. E sappiano anche, i Roosevelt, i Churchill e i loro compari, che quando la vittoria non toccasse al Tripartito, i più dei fascisti veri che scampassero al flagello passerebbero al comunismo, con esso farebbero blocco. Sarebbe allora varcato il fosso che oggi separa le due rivoluzioni. Avverrebbe tra esse uno scambio e un’influenza reciproca, fino alla fatale, armonica fusione». «Si coglie, – spiega Parlato – in questo breve passo della rivista fiorentina, un significativo anche se estremo – concentrato di quella mentalità e di quei propositi che connotarono la “sinistra fascista”, quell’insieme, a volte discorde e contraddittorio, di sentimenti, di posizioni, di prospettive e di progetti che si fondavano sulla persuasione di vivere nel fascismo e attraverso il fascismo una sorta di palingenesi rivoluzionaria, la prima – essi sottolineavano – vera rivoluzione italiana dall’unità. Ormai la storiografia contemporanea, soprattutto dopo la lezione defeliciana, non ha particolari difficoltà a riconoscere l’esistenza, nel fascismo, di anime diverse, di componenti culturali e ideologiche che, provenendo da un humus letterario, artistico, filosofico precedente al fascismo, portarono nel movimento di Mussolini una notevole complessità di suggestioni e di tendenze». Il fascismo non è più dunque un “blocco granitico” come si è ipotizzato per anni, adesso la storiografia sul fascismo ha ripensato alla monolicità finora attribuita al Partito di Mussolini. Si è parlato di cinque anime del fascismo (Cfr. Volt, Le cinque anime del fascismo, in “Critica Fascista”, 15 febbraio 1925), di distinzione tra “fascismo-regime” e “fascismo-movimento” (Cfr.R. De Felice, Intervista sul fascismo, a cura di M. A. Ledeen, Roma-Bari, Laterza, 1975, pp. 29-30, e R. De Felice, Autobiografia del fascismo, Bergamo, Minerva Italica, 1978, pp. 159-163), e dell’influenza che hanno avuto sull’ideologia fascista l’eredità dei movimenti culturali dell’ottocento e del primo novecento, il sindacalismo rivoluzionario e il nazionalismo (Cfr. E. Gentile, Le origini dell’ideologia fascista, Roma-Bari, Laterza, 1975; F. Perfetti, Il dibattito sul fascismo, Roma, Bonacci, 1984, pp. 23-24). Le caratteristiche riferite sono solo alcuni degli esempi riportati nel libro, ma, numerosi sono i riferimenti bibliografici citati in nota per spiegare le svariate componenti della sinistra fascista. L’autore ha portato avanti la sua ricerca con molta diligenza e pazienza. Non dev’essere stato facile raccogliere, e selezionare l’enorme mole di materiale bibliografico presentato nel volume, e soprattutto, scegliere quello più fecondo per illustrare un profilo preciso e obiettivo su una particolare e complessa corrente del movimento fascista. «L’incertezza maggiore nel seguire il percorso, – spiega – tortuoso e spesso sotteraneo, della sinistra fascista dopo la stabilizzazione del 1925 deriva essenzialmente dalla difficoltà di definirla, di coglierne i confini e, contemporaneamente, le sfumature, di individuarne il rapporto col regime e col potere nel corso del ventennio. Lo scopo della presente ricerca è essenzialmente quello di delineare le caratteristiche e i progetti, le velleità e i compromessi di una delle tante tessere che compongono il mosaico fascista, non certamente quello di offrire un’interpretazione complessiva del fenomeno. Un’analisi, la presente, che parte da una precisazione di fondo, necessaria, alla luce di quanto è stato finora detto: la sinistra fascista non è un partito nel partito, non è una corrente strutturata nell’ambito del fascismo. Come già si è detto, è piuttosto un insieme, a volte contraddittorio, di sensazioni e di atteggiamenti, è la manifestazione di una volontà, spesso confusa, di rinnovamento, che partecipa, a sua volta, di diversi contributi culturali: dal sindacalismo rivoluzionario al futurismo, dal repubblicanesimo mazziniano al socialismo risorgimentale, dall’anticlericalismo radicale al populismo antiborghese, dallo squadrismo alla mistica del lavoro e della tecnica, intesa, quest’ultima, come futura classe dirigente del regime»[3]. A questo punto, è importante elencare gli argomenti sviluppati nei sette capitoli di cui l’opera si compone: 1) Il mito del Risorgimento nella sinistra fascista, 2) La cultura del sindacato: alla ricerca di una nuova élite, 3) Il nuovo fascismo. Dall’impero alla guerra rivoluzionaria, 4) Il lavoro come mito e come ideologia, 5) Il lungo progetto di Tullio Cianetti, 6) Oltre il fascismo: dal 25 luglio al 25 aprile, 7) L’ultimo atto: la sinistra nazionale. Si tratta, dunque, di uno studio che inizia negli anni Venti per concludersi negli anni Novanta. In questo arco di tempo si sono verificati dei fatti storici che hanno determinato dei cambiamenti radicali nella società italiana, e che l’autore, sebbene impegnato ad illustrarne solo uno fra i tanti, non ha tralasciato di metterli in luce, e di scoprirne i punti di raccordo, così come quelli discordanti. L’intenzione di Parlato consiste nel tentare di precisare la natura e le peculiarità del sindacalismo fascista, e, per raggiungere il suo fine utilizza piani di ricerca differenti, ma legati da un filone comune: quello ideologico. Accanto all’aspetto politico-sociale, si impone quello pedagogico, che permette di operare una sorta di continuità tra il mondo della politica e quello della cultura. Si riaccende così un dibattito sul rapporto tra la scuola e il lavoro, e tra la scuola e la società, che ha impegnato molti intellettuali italiani a partire dagli anni Trenta fino agli anni Settanta e oltre. L’esigenza di diffondere tra le masse la cultura, si presentava come una prerogativa necessaria e determinante per giungere alla realizzazione di un progetto politico, come quello auspicato dalla sinistra fascista. La trasmissione del sindacalismo non poteva prendere avvio, se non si operava prima una trasformazione della “cultura del lavoratore” attraverso l’introduzione di scuole sindacali, che avrebbero dovuto compierla. Indubbiamente, come osserva P. Neglie in Il sindacalismo fascista fra “classe” e “nazione”. Origini ideali, aspirazioni e velleità della sinistra fascista nel ventennio (in R. De Felice, Il lavoro dello storico fra ricerca e didattica, pp. 120-121): «Il sindacato fascista svolse durante il regime una funzione assai particolare, non limitata soltanto alla rappresentanza dei lavoratori o all’elaborazione, in gran parte disattesa, di nuove normative in ordine allo stato sociale. Esso, fin dalle origini e ininterrottamente fino al 1943, svolse una funzione politica di rilievo come laboratorio organizzativo della sinistra fascista»[4]. Nondimeno, non ci meraviglia il fatto che: «La maggior parte degli esponenti del fascismo “rivoluzionario” e “sociale” vide nell’organizzazione sindacale un punto di riferimento insostituibile per condurre la propria battaglia. Il sindacato, grazie alla sua struttura territoriale e di categoria, alla disponibilità finanziaria, alla presenza di uffici-studi di carattere legislativo e normativo, alla discreta rete di riviste e di organi di stampa, riuscì a rappresentare per molti intellettuali una garanzia di visibilità, un approdo sicuro anche dal punto di vista economico, un luogo protetto e sostanzialmente autonomo nel quale sviluppare teorie e proposte le quali, sebbene raramente recepite dal regime, costituirono quel bagaglio politico del quale si giovò la sinistra fascista. […] Non è un caso che personaggi di diversa caratura intellettuale e politica (da Malaparte a Panunzio, da Del Giudice a Landi, da Dinale a Chilanti, da Volpicelli a Zangara, da Olivetti a Manunta, da Spampanato a Fontanelli) siano passati, in un certo momento della loro attività politica – in genere, agli inizi – attraverso le strutture sindacali o la stampa delle organizzazioni dei lavoratori. […] In questa ottica, il rapporto fra cultura e sindacato diventa indispensabile per comprendere la natura e le dimensioni della sinistra fascista, una componente che, senza il sindacato, si sarebbe caratterizzata tutt’al più per semplici dichiarazioni d’intenti, talvolta geniali, più spesso ingenue, idealistiche e recriminatorie»[5]. La scuola assume una funzione quasi decisiva nella materializzazione della formazione del sindacato fascista. Ad essa veniva attribuito lo scopo di eliminare quel divario che da sempre si consumava tra l’istruzione scolastica destinata alla classe dirigente e quella diretta alle masse. «Un divario – scrive Parlato – che “la rivoluzione fascista” riteneva in qualche modo di dovere colmare, pena la perpetua sudditanza dei lavoratori rispetto ai datori di lavoro. Il problema di fondo delle scuole sindacali era quello della inevitabile caratteristica elitaria degli studenti. Soprattutto all’inizio, i partecipanti furono in maggioranza tecnici, amministratori, impiegati che intendevano accrescere le possibilità di inserimento nella politica o nel sindacato. La presenza dell’operaio di fabbrica costituì un fenomeno significativo dopo la metà degli anni Trenta e soltanto nelle grandi città industriali»[6]. Il tema pedagogico-culturale è preponderante, e la sua presenza può essere rintracciata in tutto il volume, e soprattutto nei capitoli: II, III e IV in cui vengono da un lato delineate le molteplici e mutevoli aspirazioni politiche e sociali della borghesia e delle masse, nonchè il nuovo ruolo del sindacato; mentre, dall’altro è esemplificata la nuova funzione dell’attività lavorativa, intesa come “storia” e come “pedagogia rivoluzionaria”. Da non dimenticare, che questi aspetti tematici elaborati da Parlato non possono essere analizzati come fatti a se stanti, ma devono continuamente fare i conti prima con il ripristino della stabilità politica del primo dopoguerra, e poi con lo scoppio della seconda guerra mondiale, che non può che influenzare il loro cammino evolutivo. Infatti, è proprio ad essa che deve essere fatta risalire la diffusione di una nuova figura dell’intellettuale, vale a dire: “l’intellettuale militante”, che finisce per trasformare l’approccio verso la storia e la cultura in generale. «Se con la Carta del 1927 – rileva l’autore – il lavoro era diventato uno dei punti di riferimento del messaggio sociale fascista e se dalla grande crisi dei primi anni Trenta, almeno propagandisticamente, in nome del lavoro si era cercato di salvaguardare gli interessi delle classi più deboli della società, è con la conclusione della guerra d’Etiopia che il lavoro diventò, nell’immaginario collettivo del fascismo rivoluzionario, il nuovo mito di riferimento, il criterio attraverso cui elaborare una nuova classe dirigente: dall’ex combattente della prima guerra mondiale si passava al lavoratore, nelle sue varie sfumature (il colonizzatore, il soldato che torna al lavoro, l’operaio, il rurale, l’ex bracciante). […] Tuttavia, non di solo mito si trattò, bensì di una evoluzione importante e, per certi versi sorprendente, dell’ideologia del fascismo. […] Mussolini consentì la più ampia discussione all’interno della cultura fascista, la quale tuttavia, incanalata negli strumenti istituzionali del regime – primo fra tutti l’Istituto nazionale di cultura fascista – finiva col condizionare solo marginalmente il regime. Nel frattempo, nel paese, l’affermarsi della società di massa determinava il progressivo perfezionamento degli strumenti propagandistici del regime per meglio “andare verso il popolo” e incrementare quel consenso che diventava sempre più essenziale per sorreggere uno stato che si definiva totalitario. Il passaggio da una società agricolo-sacrale ad una industriale e secolarizzata comportò una maggiore attenzione verso il problema sociale, sia dal punto di vista sociologico, sia da quello politico: oltre che dai ceti medi, che avevano notevolmente contribuito alla nascita del fascismo, la domanda politica veniva, ormai, anche dal proletariato e dai rurali: diventava imprescindibile per il fascismo rappresentare globalmente, “totalitariamente”, la società italiana, ivi compresi i ceti un tempo esclusi dallo stato»[7]. In aggiunta al valore assunto dalla cultura e dal lavoro, scrive: «Fu il pedagogista Luigi Volpicelli, braccio destro di Bottai all’epoca della Carta della Scuola, a contestare la scissione fra lavoro e cultura operata dalla società borghese. Ogni volta che il lavoratore si avvicinava alla cultura (anche a quella professionale), doveva necessariamente uscire dai canoni della propria attività ed entrare in un mondo a lui estraneo; ciò, per Volpicelli, dipendeva dalla radicata immagine di una cultura intesa esclusivamente come cultura umanistica, di fronte alla quale la preparazione tecnica del lavoratore veniva considerata come approssimazione velleitaria. […] La cultura è strettamente legata alla realtà, raggiunge l’unità dell’esperienza culturale, non la parcellizzazione del sapere attraverso la nozione accademica, è, in altri termini, una “unitaria concezione del reale”, nell’ambito della quale il lavoro occupa lo spazio principale, essendo sintesi di vita e civiltà. Per Volpicelli, la tecnica è il punto centrale verso cui indirizzare la sintesi di lavoro e vita; la tecnica – “genio che presiede alla civiltà moderna” – assume un carattere mistico, nel quale le vecchie caratteristiche di lavoro come pena o come fatica sono completamente assenti (Cfr. L. Volpicelli, Premessa per una cultura operaia, in “Civiltà fascista”, maggio 1942, pp. 432 e sgg.)»[8]. Negli ultimi tre capitoli il discorso è prevalentemente politico, infatti emerge un ritratto molto particolareggiato sui differenti periodi che hanno interessato la formazione del sindacalismo fascista. Se scorriamo i titoli dei paragrafi è possibile cogliere come l’autore abbia tentato, per altro riuscendoci, di delineare nei dettagli i contenuti ideologici portati avanti dalla sinistra fascista in base agli andirivieni politici del Partito. Dall’attività sindacale svolta da Cianetti, Del Giudice, Biagi, Rossoni, Razza e Scorza, si passa all’ipotesi di un “sindacalismo nazionale” durante la Repubblica di Salò, fino ad arrivare all’ultimo atto della sinistra fascista che si protrae all’incirca intorno agli anni Settanta del ’900. Parlato, ha saputo offrire al lettore l’occasione di afferrare attraverso una descrizione lineare e schematica un quadro completo delle diverse sfumatore che hanno colorato l’iterdel sindacato fascista, e soprattutto, ha fornito gli strumenti per approfondire i poliedrici fatti che lo hanno ostacolato, sostenuto, e che hanno permesso la sua ascesa e la sua fine. Tania Tomassetti su cultureducazione.it
Fascisti di sinistra da "Fascisti immaginari" - Luciano Lanna e Filippo Rossi. «La destra è censura, reazione, bigotteria. E se ho un'appartenenza culturale è più al fascismo che alla destra, che mi fa schifo [...] Il fascismo che ho conosciuto in famiglia è quello libertario, gaudente, generoso. Penso al fascismo rivoluzionario dell'inizio e della fine, quello che non conserva ma cambia, quello socialista e socialisteggiante...» Idee chiare e sentite quelle del ventottenne Nicolo Accame, giornalista del "Secolo d'Italia" intervistato, insieme a suo padre Giano, nel marzo 1996, da Stefano Di Michele: due fascisti, un padre e un figlio. Idee chiare e sentite che affondano in un diffuso e radicato retroterra esistenziale e culturale. Quello dei cosiddetti «fascisti di sinistra». Anche quando Alberto Giovannini, giornalista di lungo corso, classe 1912, è stato costretto a definirsi ha dovuto per forza di cose ricorrere a quell'apparente ossimoro: «Io sono stato fascista a modo mio. Era, il nostro, un fascismo di sinistra». E aggiungeva: «Non potevo non avere una certa fedeltà e riconoscenza verso quel regime attraverso il quale io, che ero nessuno, figlio di povera gente, di operai, cominciando col fare il fattorino, ero arrivato a dirigere un quotidiano. Il fascismo mi aveva dato la possibilità di avanzare socialmente. Non lo avevo dimenticato ...». E quando, a metà degli anni '80, durante la presentazione di una riedizione dello "Scrittore italiano" di Berto Ricci, i dirigenti missini Pinuccio Tatarella e Beppe Niccolai, furono anche loro costretti a definirsi, le due risposte risultarono antitetiche. Più che "di destra", di "centro-destra" si definì Tatarella, ricollegandosi alla tradizione politica che negli anni '50 avevo visto molte città del Mezzogiorno amministrate da coalizioni composte da MSI, destre liberali e monarchiche e DC. Sicuramente "non di destra", anzi "di sinistra", si dichiarò invece Niccolai, riagganciandosi a tutt'altra tradizione. Una tradizione che affondava le sue radici nel Mussolini giacobino, nel socialismo risorgimentale di Pisacane, nel sindacalismo rivoluzionario di Sorel e Corridoni, nelle avanguardie artistiche d'inizio Novecento, nel fascismo sansepolcrista del 1919, nell'interpretazione gentiliana del marxismo...Se infatti storicamente il fascismo nasce con Mussolini e "Il Popolo d'Italia" tra il 1914 e il 1919 da una scissione del partito socialista, il filosofo cattolico Augusto Del Noce ne ha retrodatato la genesi filosofica al 1899 con la pubblicazione del saggio di Giovanni Gentile su "La filosofia di Marx", che venne considerato da Lenin -nel "Dizionario Enciclopedico russo Granat" del 1915- uno degli studi più interessanti e profondi sull'essenza teoretica del pensatore di Treviri. Del marxismo, Gentile respingeva il materialismo ottocentesco ma ne abbracciava con entusiasmo l'ultramoderna dimensione di «filosofia della prassi», tesa non solo a interpretare il mondo ma a cambiarlo. Stando almeno all'interpretazione delnociana, quindi, il fascismo non sarebbe affatto una negazione del marxismo, ma piuttosto una sua "revisione" che reinterpreta la prassi come spiritualità. Il fascismo si prospetta, insomma, come una rivoluzione "ulteriore" rispetto a quella marx-leninista. D'altro canto, divenuto filosofo ufficiale del fascismo, Gentile ripubblicò il suo libro su Marx nel 1937, nel pieno degli "anni del consenso". E quando, il 24 giugno 1943, pronunciò in Campidoglio il Discorso agli italiani per esortarli a resistere agli anglo-americani, si rivolse espressamente agli ambienti di sinistra presentando il fascismo come «un ordine di giustizia fondato sul principio che l'unico valore è il lavoro». E precisò: «Chi parla oggi di comunismo in Italia è un corporativista impaziente». Lo stesso Lenin, del resto, rivolgendosi nel 1922 al comunista Nicola Bombacci aveva potuto dire: «In Italia c'era un solo socialista capace di fare la rivoluzione: Benito Mussolini». Nel fascismo di sinistra ci sono davvero tante cose: il percorso politico dello stesso Bombacci, il comunista finito a Salò e appeso con Mussolini a Piazzale Loreto; la covata ribelle dei giovani intellettuali aggregati attorno all'ex anarchico fiorentino Berto Ricci e alla sua rivista "L'Universale"; il "lungo viaggio" dal fascismo al comunismo di tanti intellettuali, da Davide Lajolo a Fidia Gambetti, da Felice Chilanti a Ruggero Zangrandi, da Elio Vittorini a Vasco Pratolini, da Ottone Rosai a Mino Maccari. Fermenti e contraddizioni che hanno indotto lo storico Giuseppe Parlato a dedicare un intero libro alla cosiddetta "sinistra fascista": «Quell'insieme, a volte discorde e contraddittorio, di sentimenti, di posizioni, di prospettive e di progetti che si fondavano sulla persuasione di vivere nel fascismo e attraverso il fascismo una sorta di palingenesi rivoluzionaria, la prima vera rivoluzione italiana dall'unità». E delle varie anime del fascismo, la "sinistra" fu sicuramente la più vivace. Ancorata al Risorgimento mazziniano e garibaldino, la sinistra fascista cercò di incarnare un progetto che era nato prima del fascismo e che mirava ad oltrepassare la stessa esperienza mussoliniana. E se nei primi tempi essa si tradusse essenzialmente nello squadrismo e nel sindacalismo, verso la metà degli anni '30 -aggregando soprattutto i giovani universitari, gli intellettuali e i sindacalisti - si fece portatrice di un "secondo fascismo" teso a superare la società borghese. Non è un caso che i vari Bilenchi, Pratolini e tutti i giovani intellettuali del cosiddetto "fascismo di sinistra", oltre che in Berto Ricci, trovassero un punto di riferimento nel fascista anarchico Marcello Gallian. «I libri di Gallian -scriveva Romano Bilenchi su "Il Popolo d'Italia" del 20 agosto 1935- sono documenti... E un documento su di un periodo rivoluzionario non creduto compiuto non avrà fine finché tutta la rivoluzione non sia realizzata». Quest'anima di sinistra conviverà nei vent'anni del regime con altre componenti. E nonostante il suo essere per molti versi un "progetto mancato", marcherà sempre il Ventennio, influendo decisamente sull'identità culturale sia del fascismo che del postfascismo. Confesserà Bilenchi, diventato comunista dopo la guerra: «Rimasi molto legato a queste idee diciamo così, socialiste... Del fascismo mi colpì il programma, più a sinistra, almeno a parole e almeno agli inizi, di quello degli altri... Poi ho conosciuto Berto Ricci, una persona seria, onesta e simpatica. Era un anarchico, filosovietico, ed era entrato nel partito fascista convinto di partecipare a una rivoluzione proletaria». Del resto, già nel 1920, Marinetti aveva scritto: «Sono lieto di apprendere che i futuristi russi sono tutti bolscevichi... Le città russe, per l'ultima festa di maggio, furono decorate da pittori futuristi. I treni di Lenin furono dipinti all'esterno con dinamiche forme colorate molto simili a quelle di Boccioni, di Balla e di Russolo. Questo onora Lenin e ci rallegra come una vittoria nostra». E resta agli atti che il 16 novembre 1922, proprio con un intervento alla Camera di Mussolini presidente del Consiglio, l'Italia fu il primo dei paesi occidentali a dichiararsi disponibile al riconoscimento internazionale dell'Unione Sovietica. Un'apertura che, almeno fino alla guerra di Spagna, non verrà mai meno. Nel giugno 1929, Italo Balbo, in una delle sue celebri trasvolate dall'Italia approdò a Odessa nell'URSS, e lì venne accolto con un picchetto d'onore. E il 4 dicembre 1933, Mussolini ricevette ufficialmente a Palazzo Venezia il ministro degli esteri russo Maxim Litvinov: da tre mesi i due paesi avevano sottoscritto un patto d'amicizia e l'occasione rafforzò ulteriormente le buone relazioni. Erano gli anni in cui il filosofo Ugo Spirito arrivava a teorizzare -nel convegno di Studi corporativi di Ferrara del 1932- la «corporazione proprietaria» che prevedeva di fatto l'abolizione della proprietà privata, e in cui pullulavano le pubblicazioni addirittura filosovietiche, tra le quali un libro di Renzo Bertoni, che, reduce da una permanenza nell'Unione Sovietica, pubblicava nel 1934 un libro intitolato addirittura "Il trionfo del fascismo nell'URSS", sulla cui copertina si vedeva uno Stalin con la mano aperta e in una didascalia si leggeva: «Stalin saluta romanamente la folla». Poi, la guerra di Spagna, la seconda guerra mondiale e la repubblica di Salò. E proprio quest'ultima scatena vivaci discussioni tra Mussolini e Hitler. Per il dittatore tedesco quell'esperienza doveva chiamarsi «Repubblica fascista italiana». Mussolini, invece, senza più obblighi compromissori con la monarchia e gli ambienti conservatori, avrebbe preferito «Repubblica socialista italiana», tornando in qualche modo alle suggestioni sansepolcriste. Ma di quell'aggettivo che puzzava di sovversione e di marxismo Hitler non volle sentirne parlare. E alla fine si accordarono su Repubblica Sociale Italiana. E sia pure ridotto a "sociale", la parola socialista tornava nel lessico dei fascisti. Tanto da emozionare il socialista della prima ora ed ex comunista Nicola Bombacci -colui che aveva fatto adottare il simbolo della falce e martello ai comunisti italiani- e a farlo riappacificare con Mussolini: «Duce -gli scrive l'11 ottobre 1943- sono oggi più di ieri totalmente con Voi. Il lurido tradimento re-Badoglio che ha trascinato purtroppo nella rovina e nel disonore l'Italia, Vi ha però liberato di tutti i componenti pluto-monarchici del '22. Oggi la strada è libera e a mio giudizio si può percorrere sino al traguardo socialista». In uno degli articoli scritti poco prima di essere ucciso dai partigiani, il giornalista Enzo Pezzato -redattore capo a Salò di "Repubblica fascista"- scrisse: «Il Duce ha chiamato la Repubblica "sociale" non per gioco: i nostri programmi sono decisamente rivoluzionari, le nostre idee appartengono a quelle che in regime democratico si chiamerebbero "di sinistra"». E nei giorni del crepuscolo di Salò, Mussolini confiderà al giornalista socialista Carlo Silvestri: «Il più grande dramma della mia vita si produsse quando non ebbi più la forza di fare appello alla collaborazione dei socialisti e di respingere l'assalto dei falsi corporativi. I quali agivano in verità come procuratori del capitalismo... Tutto quello che accadde poi fu la conseguenza del cadavere di Matteotti che il 10 giugno 1924 fu gettato fra me e i socialisti per impedire che avvenisse quell'incontro che avrebbe dato tutt'altro indirizzo alla politica nazionale». Sull'esperienza della RSI, Enrico Landolfi ha scritto che non fu un unicum: «Fu, viceversa, una sfaccettatissimo prisma, un fenomeno pluralistico. Tanto vero che fu in essa presente quasi tutto lo spettro dottrinario e politico». Landolfi sottolinea la presenza al suo interno di esponenti della stessa sinistra antifascista disposti a collaborare per l'attuazione del cosiddetto "Manifesto di Verona": oltre a Bombacci e a Carlo Silvestri, Edmondo Cione, Germinale Concordia, Pulvio Zocchi, Walter Mocchi e Sigfrido Barghini. Accanto a loro, c'era soprattutto a Salò una vasta «aggregazione più coerentemente e conseguentemente rivoluzionaria, socializzatrice, popolare-nazionale, libertaria. Disponibile, inoltre, quest'ultima, e anzi fautrice, del dialogo con l'antifascismo, proclive alla più ampia democratizzazione della Repubblica, decisa a resistere alle interferenze e alle rapine naziste, inequivocabilmente antiborghese e anticapitalista». E anche per questo, Landolfi ha titolato un suo libro sulla RSI: "Ciao, rossa Salò". Quella "rossa repubblica" che Bombacci salutò per l'ultima volta, prima che i partigiani lo fucilassero, con le parole: «Viva Mussolini! Viva il socialismo!». Nell'immediato dopoguerra il tema del recupero politico, o almeno elettorale, di chi era stato fascista nel Ventennio ma anche nella RSI, interesserà, più o meno scopertamente, anche il PSI e il PCI, i partiti dove troveranno accoglienza molti fascisti di sinistra. Così, nell'agosto 1947, Palmiro Togliatti, che l'anno prima in qualità di ministro di Grazia e Giustizia aveva concesso l'amnistia ai fascisti, sul quotidiano comunista "La Repubblica d'Italia" scriveva: «Non nascondiamo le nostre simpatie per quegli ex fascisti, giovani o adulti, che sotto il passato regime appartenevano a quella corrente in cui si sentiva l'ansia per la scoperta di nuovi orizzonti sociali... Noi riconosciamo agli ex fascisti di sinistra il diritto di riunirsi e di esprimersi liberamente conservando la propria autonomia». E anche il leader socialista Pietro Nenni, intervistato da "Paese Sera" il primo gennaio 1955, legittimava i fascisti di sinistra: «Da noi la destra esprime soltanto istinti antisociali, di conservazione e di reazione. Tipico il caso dei fascisti che, per inserirsi nella politica reazionaria americana, non hanno esitato a pugnalare ancora una volta il loro capo e a rinnegare l'unico elemento rispettabile della loro tradizione, vale a dire l'opposizione al dominio delle cosiddette plutocrazie». E lo stesso Nenni, se alla vigilia delle elezioni del 1953, aveva aperto le pagine de "l'Avanti!" all'ex direttore fascista de "La Stampa" di Torino, Concetto Pettinato, già nell'immediato dopoguerra aveva favorito la nascita di una rivista -"Rosso e Nero"- con la quale il fascista di sinistra Alberto Giovannini tentava di conciliare le attese fasciste della "rivoluzione incompiuta" con quelle socialiste della "rivoluzione mancata". In questo clima, un gruppo di fascisti di sinistra si raccoglierà attorno alla rivista quindicinale "Il Pensiero Nazionale" diretto dallo scrittore e giornalista già repubblichino Stanis Ruinas. Verranno definiti «fascisti-comunisti», «comun-fascisti», «camicie nere di Togliatti» e «fascisti rossi», definizione quest'ultima che dopo qualche esitazione finiranno anche per accettare. Ma il "rosso" di questi fascisti non fu necessariamente quello del PCI, ma un rosso più articolato, più complesso, più variegato. Tanto che, persino nella sua componente più incline alla linea di Botteghe Oscure, vi fu una divisione tra il gruppetto che volle entrare -ed entrò- nel PCI e gli altri che preferirono restare indipendenti. Dopo il '53, il gruppo de "Il Pensiero Nazionale" si avvicinerà ai socialisti, ai socialdemocratici e alla sinistra cattolica, finendo per gravitare nell'orbita del presidente dell'Eni Enrico Mattei e del suo nazionalismo democratico e mediterraneo. Ma non mancheranno rapporti e scambi con gli esponenti della sinistra fascista interni al MSI. Leader riconosciuto della sinistra missina delle origini fu indiscutibilmente Giorgio Pini: giornalista vicino a Mussolini prima e durante la RSI, sarà assiduo collaboratore de "Il Pensiero Nazionale" a partire dal 1954, dopo che, nell'aprile del '52, abbandona il MSI e, nel '53, si interrompe il legame da lui non gradito tra la rivista e il partito comunista. Ma in realtà tutti gli anni '50 hanno registrato contatti e confronti, anche pubblici, tra i giovani comunisti e i giovani dirigenti missini, soprattutto negli anni del dibattito sull'ingresso dell'Italia nella NATO. E nel 1958, lo stesso Palmiro Togliatti arrivò a difendere la cosiddetta «operazione Milazzo» che, in Sicilia, realizzò l'alleanza amministrativa tra il MSI e il PCI. In un intervento alla Camera, il 9 dicembre, il leader comunista disse: «Le convergenze che si sono determinate hanno dato luogo, anche qui, alle solite inette arguzie sul comunista e sul missino che si stringono la mano, si abbracciano e così via. Si tratta di un problema di fondo che deve essere riconosciuto e apprezzato in tutto il suo valore, daremo il contributo attivo a che passi in avanti vengano compiuti». D'altra parte, anche dopo la fuoriuscita di Giorgio Pini dal MSI -ancora lontano dal diventare il partito della "destra nazionale"- al suo interno rimase e fu sempre attiva una vasta e articolata presenza di "fascisti di sinistra": Ernesto Massi, Bruno Spampanato, Diano Brocchi, Giorgio Bacchi, Roberto Mieville, Domenico Leccisi, Giuseppe Landi, Ugo Clavenzani e Beppe Niccolai... E lo stesso Giorgio Almirante, prima di diventare segretario del partito e di lanciare la "grande destra", fu per molti anni un esponente di punta della sinistra interna. Ernesto Massi, grande studioso di geopolitica, professore all'Università Cattolica di Milano e vicesegretario nazionale del MSI dal 1948 al 1952, esce dal partito nel 1957 per tentare esperimenti politici autonomi. Fino al 1965 anima con Giorgio Pini un «Comitato di iniziativa per la sinistra nazionale». E solo dopo il fallimento del "Partito Nazionale del Lavoro" -che pure nel 1958 si presenta alle elezioni politiche in cinque circoscrizioni- e l'esaurirsi, nel 1963, della sua rivista "Nazione Sociale", tornerà nel 1972 a riavvicinarsi al MSI attraverso l'Istituto di studi corporativi. Nel 1963, comunque, mentre si chiudeva l'esperienza di "Nazione Sociale", nasceva a Roma "L'Orologio" diretto da Luciano Lucci Chiarissi, una rivista e un laboratorio che riproponeva la tradizione del "fascismo di sinistra" in termini nuovi e molto più attenti all'evoluzione degli scenari italiani ed internazionali. Lucci Chiarissi, nato ad Ancona nel 1924, era stato volontario a Salò, aveva militato nell'immediato dopoguerra nel movimento clandestino dei FAR (Fasci di azione rivoluzionaria), e si era sempre sentito appartenente a una "sinistra nazionale". "L'Orologio" tentava di uscire dalla strada del "rancore eterno" e del nostalgismo fine a se stesso, contestando non solo il MSI micheliniano, ma anche i gruppi extraparlamentari come "Ordine nuovo" e "Avanguardia nazionale". Spiegava Lucci Chiarissi: «Annibale non è alle porte e comunque non lo è a causa del centro-sinistra». E "L'Orologio", che aveva lanciato il tema della riappropriazione delle "chiavi di casa", sostenne De Gaulle contro il Patto Atlantico e nella guerra dei "sei giorni" si schierò dalla parte dei paesi arabi contro l'imperialismo israeliano. «"L'Orologio" -ha scritto Giuseppe Parlato- individuò nel capitalismo e nell'imperialismo americano un pericolo maggiore di quello sovietico per la cultura e la politica italiana... E a differenza di tutti gli altri fogli neofascisti, "L'Orologio" assunse immediatamente una posizione nettamente a favore dei vietnamiti e della loro lotta per l'indipendenza». Sono gli anni in cui accanto -e spesso a fianco- di tanti gruppi extraparlamentari di destra, sorgono anche gruppi extraparlamentari ispirati al "fascismo di sinistra". Così, la sezione italiana della Giovane Europa di Jean Thiriart titolava «Per un socialismo europeo» un documento fiorentino del 1968. E così, nel 1967, nasceva la "Costituente nazionale rivoluzionaria", fondata da Giacomo De Sario: classe 1927, ex segretario della federazione giovanile socialdemocratica ed ex dirigente della Giovane Italia. Con un simbolo rosso e nero, «rosso per la socialità, nero per la nazione», quel movimento -tra i cui esponenti di spicco c'erano i giovani Massimo Brutti e Massimo Magliaro, l'uno futuro dirigente del PCI e poi dei DS, l'altro diventerà capo ufficio stampa di Almirante e poi giornalista RAI- si faceva conoscere attraverso un periodico: "Forza Uomo", settimanale di lotta con redazioni a Roma, Milano, Varese e Brindisi. Il primo numero andò in edicola il 10 agosto 1969. Tra i riferimenti culturali c'erano Mazzini e Pisacane, Corridoni e Gentile, Mussolini e i futuristi. Nel solco della stessa tradizione si collocava la "Federazione Nazionale Combattenti della RSI", di cui nel '70 divenne presidente Giorgio Pini. Nel discorso di insediamento, Pini condannava l'atteggiamento dei fascisti che «sbandano verso la destra conservatrice e autoritaria, totalitaria, in ibrido connubio coi monarchici e coi più retrivi gruppi confessionali», invitando inoltre a respingere «il fanatico occidentalismo di destra pervenuto fino alla servile esaltazione di Nixon, il bombardatore del Vietnam», e condannando «ogni collusione coi regimi militari e liberticidi dei colonnelli greci, del generale Franco, sacrificatore della nobile Falange di José Antonio Primo de Rivera, del regime ottusamente conservatore, classista e colonialista di Lisbona, di quelli razzisti del Sud Africa e della Rhodesia». In quegli anni la Federazione faceva uscire a Roma una serie di pubblicazioni -il quindicinale "Fnc-RSI notizie", il mensile "Corrispondenza repubblicana", il trimestrale "Azimut" e il foglio giovanile "Controcorrente"- di cui erano animatori Romolo Giuliana e P. F. Altomonte (sigla quasi pseudonima con la quale si firmava l'artista futurista Principio Federico Altomonte). Scoppiato il '68, sia la "Fnc-RSI" sia "Forza Uomo" sia "L'Orologio" si schierano naturalmente con la contestazione. "L'Orologio", anzi, appoggiò la protesta giovanile anche sul piano organizzativo, dando vita ai "Gruppi dell'Orologio" e fornendo sostanza culturale alla trasformazione in senso "rivoluzionario" di alcuni ambienti di matrice neofascista. E dopo la fine e la diaspora di quell'esperienza, il loro animatore, Luciano Lucci Chiarissi, fonderà l'associazione politico-culturale "Italia e Civiltà" che, nei primi anni '80, si farà promotrice di una serie di incontri pubblici sul nuovo "socialismo tricolore" attivato dalla svolta craxiana. Dentro o fuori il MSI, quindi, una certa tradizione non è mai morta. E quella che potremmo chiamare l'ultima incarnazione di un "sinistra" scaturita dall'universo neofascista, si esprimerà a metà degli anni '70 con presupposti e riferimenti inediti. Questa volta si trattava di un fenomeno più generazionale ed esistenziale che ideologico in senso stretto. A prenderne atto, nel gennaio 1979, fu Giorgio Galli su "Repubblica" parlando di «fascisti in camicia rossa». Figli degli anni '70, questi nipotini inconsapevoli di Berto Ricci e Nicolino Bombacci, rivelavano un percorso parallelo a quello che, sull'altro versante, andavano conducendo i coetanei della "nuova sinistra". E Galli ne metteva in luce alcuni «elementi diversi da quelli consueti» e, in particolare, l'aspirazione a sintonizzare ed aggregare «la protesta antisistema dei giovani, dei disoccupati, del sottoproletariato». Si trattava di un vasto fermento giovanile emerso in quegli anni e che si poteva cogliere attraverso pubblicazioni come "La Voce della Fogna" e "Linea", in cui comparivano argomenti e toni inediti per la precedente pubblicistica neofascista. Si introducevano temi nuovi, come l'attenzione ai diritti civili e alle tematiche ambientaliste. "Nucleare? Dieci volte no", si leggeva sul secondo numero di "Linea". E sempre sulle pagine di quella rivista apparivano la prima vera inchiesta sui "Verdi" tedeschi, l'apertura di un dibattito sulla liberalizzazione della droga, e pagine e pagine sui nuovi bisogni e sulla condizione giovanile. Emergeva, soprattutto, il quadro di un ambiente caratterizzato da una linea libertaria, garantista, antistatalista, ambientalista, antioccidentalista e, addirittura, con venature regionaliste e antiproibizioniste. «Sfondare a sinistra», era il titolo di un articolo di Marco Tarchi che, sul terzo numero di "Linea", lanciava in grande stile un'espressione destinata ad avere successo. Già nel '76, del resto, lo stesso Tarchi era stato autore di un documento del "Fronte della gioventù" toscano in cui, esaminando le cause della sconfitta elettorale, si invitava a «sfondare a sinistra»: molti elettori -era la tesi di Tarchi- avevano votato per il PCI non perché comunisti, «ma perché spinti da un'ansia di cambiamento, e disgustati dal modo di gestire la cosa pubblica instaurato dalla DC e dai suoi alleati». Questa componente giovanile troverà la sua identità soprattutto nell'esperienza dei Campi Hobbit. E paradossalmente, tra il 1976 e il 1982, individuerà il proprio referente all'interno del MSI in quel Pino Rauti che pure, nei decenni precedenti, era stato il campione dell'ala tradizionalista e di matrice evoliana del neofascismo. Come ha scritto lo storico Pasquale Serra, «nella seconda metà degli anni '70 Rauti rovescia lo schema del suo precedente ragionamento: da un lato, infatti, egli individua come fonte privilegiata il fascismo italiano (il fascismo della sintesi) e non più il nazismo o i fascismi "minori", come era invece avvenuto nei decenni precedenti, e dall'altro riporta il fascismo alle sue origini di sinistra». E questi orientamenti, sino agli anni '80, si esprimeranno anche in alcune esperienze di amministrazione locale, dove il MSI governerà insieme al PCI e al PSI. Così nel 1987, durante una tribuna politica, Giorgio Almirante fu messo in imbarazzo da un giornalista che gli chiedeva lumi su quanto avveniva a Furci Siculo, un centro del messinese dove il missino Carmelo Briguglio era il vicesindaco di una giunta rosso-nera. La sintesi e la summa di tutta questa tradizione -da "L'Universale" al "socialismo tricolore", dall'adunata di piazza San Sepolcro ai Campi Hobbit- potrebbe essere rappresentata dalla figura politica e umana di Beppe Niccolai: fascista di sinistra da sempre, deputato missino per tre legislature, intellettuale, giornalista, uomo politico e, soprattutto, "uomo di carattere" per dirla col suo maestro Berto Ricci. Nato a Pisa il 26 novembre 1920, combattente sul fronte africano, prigioniero di guerra nel "Fascists' Criminal Camp" di Hereford nel Texas. Appena tornato in Italia, il 27 settembre 1948, scrive una lettera-documento sulla lacerazione della sua generazione al suo vecchio amico Romano Bilenchi che in quegli anni, seguendo la strategia dell'attenzione togliattiana, si occupava sul "Nuovo Corriere" del dialogo con i fascisti. E l'amicizia tra Niccolai e Bilenchi durerà per tutta la vita. Da deputato missino, Niccolai non ebbe poi remore a elogiare il Vietnam vittorioso sull'imperialismo americano. Per molti anni stretto collaboratore di Giorgio Almirante, ne divenne il principale antagonista nei primi anni '80 quando ebbe il coraggio di «farsi del male» e di avviare una coraggiosa autocritica, che pretendeva da tutto il partito una riflessione altrettanto sincera. Niccolai sollecitava una rilettura degli errori compiuti nei confronti della contestazione giovanile, verso i nuovi fermenti culturali e, soprattutto, in tema di politica estera. «Beppe -ha ricordato Altero Matteoli- "scavava" nei personaggi che incontrava nella sua quotidiana lettura. E per ognuno esaltava la parte che lo aveva particolarmente colpito. Carlo Pisacane: lo affascinava la sua vicenda, la sua morte, il suo sacrificio. Nicolino Bombacci: Beppe era convinto che il fascismo, per il rivoluzionario romagnolo, fosse una rivoluzione da compiere. Berto Ricci: il carattere, il coraggio civile. E infine Italo Balbo: la morte ha colpito Beppe mentre "scavava" nella vita, nell'azione e nel pensiero del grande ferrarese». All'inizio degli anni '80, Niccolai trasforma Berto Ricci in una vera e propria "bandiera": e lo fa nel momento stesso in cui il MSI comincia a stargli sempre più stretto e l'esigenza di un rinnovamento lo porta a cercare, nel passato, un riferimento dalla grande capacità fascinatrice. E in questo percorso non può che incontrarsi, naturalmente, con alcuni giovani della generazione dei "fascisti in camicia rossa". Nel 1984 -e quella fu l'unica opposizione alla leadership almirantiana al quattordicesimo Congresso missino svoltosi a Roma- presenterà il documento "Segnali di vita", che verrà sottoscritto entusiasticamente dalle componenti giovanili e creative del partito. Nel 1985, in occasione della crisi di Sigonella, Niccolai fece approvare dal Comitato centrale del MSI un ordine del giorno di sostegno a Craxi, in nome dello "scatto" di orgoglio nazionale. D'altra parte, come spiegò dopo la sua morte lo stesso Tatarella in una riunione del Comitato centrale missino, Niccolai voleva fare del MSI una sorta di «laburismo nazionale»: era, insomma, un autentico uomo di sinistra e, in prospettiva, sognava una convergenza strategica tra il MSI e la sinistra italiana. Una posizione minoritaria, quella di Niccolai: quasi eretica, fortemente combattuta, ma in grado di pensare una politica capace di cogliere le onde lunghe della storia italiana. Nel 1987, resta memorabile il suo discorso al Congresso di Sorrento. Con cui, in nome di Nicolino Bombacci, invitava alla ricomposizione delle "scissioni socialiste". In quegli anni con la sua rivista "L'Eco della Versilia", sarà il punto di riferimento più forte per il dissenso interno e i tentativi di dialogo con l'esterno. E quando morirà a Pisa, il 31 ottobre del 1989, lascerà il testimone al suo collaboratore viareggino Antonio Carli. "L'Eco" cambierà nome trasformandosi in "Tabula Rasa". E intorno alla rivista si raccolgono Gianni Benvenuti e Pietrangelo Buttafuoco, Umberto Croppi e Beniamino Donnici, Vito Errico e Fabio Granata, Luciano Lanna e Peppe Nanni... Sono l'ultima covata di una vecchia tradizione. Che a tratti si profila con la forza di mito. E a tratti, invece, con l'instabilità di un'illusione ottica. Ma che ha avuto il pregio di non rimanere mai ristretta all'interno di un partito, e men che meno di una corrente. Sprigionando energie e intuizioni che hanno comunque influito sui percorsi politici e culturali di tutto il postfascismo. Luciano Lanna e Filippo Rossi da "Fascisti immaginari" Vallecchi, 2003
· Gli antifascisti radicali al tempo dell'accordo nazi-comunista del 23 agosto del 1939.
VITE E AMORI DEGLI ANTIFASCISTI RADICALI. Marcello Sorgi per la Stampa il 3 settembre 2019. Oltre a cogliere di sorpresa mezzo mondo, il 23 agosto del 1939, il Patto Molotov-Ribbentrop, dal nome dei due ministri degli Esteri russo e tedesco (rimasto più famoso il primo, anche per l' intitolazione a suo nome delle bottiglie incendiarie che molta fortuna ebbero, come armi improprie, dagli Anni Trenta della Guerra di Spagna al '68), lasciò annichiliti un gruppo di esuli antifascisti italiani, increduli di fronte all' accordo tra le due grandi dittature novecentesche che il primo settembre, otto giorni dopo, doveva accendere la miccia della Seconda guerra mondiale. Erano un gruppo di irriducibili, come li definisce, fin dal titolo, il libro della storica Mirella Serri (Gli irriducibili, in uscita giovedì per Longanesi, pp. 240, 19), che fin dall' avvento del fascismo, quando ancora molti che poi si sarebbero ribellati tardivamente indugiavano, avevano colto l' aspetto autoritario e violento del regime di Mussolini e si erano impegnati a contrastarlo con tutti i mezzi, una resistenza prima della Resistenza che pose fine all' occupazione nazista e all' avventura del Duce. Nati a cavallo tra la fine dell'Ottocento e i primi anni del Novecento, educati quasi tutti in famiglie colte e borghesi, intellettuali, pensatori, filosofi, amanti della scrittura e dei giornali, i loro nomi, anche se con diversa evidenza, sono entrati nella storia, per conoscere successivamente un oblìo a cui il libro della Serri vuole rimediare: ricostruendone le vite romanzesche, lo sprezzo del pericolo, i sentimenti, l' amicizia, gli amori, le morti tragiche. Erano Giorgio Amendola (figlio del ministro liberale Giovanni, assassinato dai fascisti), leader per tutta la sua vita della «destra» comunista e maestro di Giorgio Napolitano, due volte Presidente della Repubblica. I fratelli Emilio, Enzo e Enrico Sereni, ebrei, ministro del governo De Gasperi nel dopoguerra il primo, morto a Dachau in campo di concentramento il secondo, mancato ancor giovane, forse suicida, il terzo. E poi Nadia Gallico, moglie di Velio Spano, tra le prime donne elette all' Assemblea Costituente, Ada Ascarelli, vedova di Enzo Sereni e grande organizzatrice della partenza verso Israele di oltre 25 mila ebrei a rischio di finire deportati, Giuseppe Di Vittorio, che sarà leader della Cgil, Ferruccio Besanson e Maurizio Valenzi, che diventerà sindaco di Napoli negli Anni Settanta, dopo un lungo periodo di emarginazione seguito all' esilio a Tunisi e al ritorno in patria grazie all' aiuto dei servizi segreti inglesi, Carlo e Nello Roselli, assassinati in Francia su mandato del regime fascista dopo la rocambolesca fuga del primo dal confino a Lipari. Erano militanti della sinistra clandestina, in maggior parte comunisti nel Pcd' I non ancora Pci, socialisti, repubblicani o di Giustizia e libertà. Gli anni duri dello stalinismo, con le accuse settarie di «socialfascismo» a chiunque non fosse sottomesso a Mosca, verranno a segnare dolorose divisioni tra loro, compreso il diffuso antisemitismo che finirà col separare anche Emilio Sereni dal fratello Enzo e dalla cognata Ada. Perché anche questo accadde, ci fu un tempo in cui i comunisti, per effetto della «guerra fredda» che gelò la pace in Europa, consideravano Churchill più o meno alla stregua di Hitler e diffidavano di chiunque tra i loro militanti avesse avuto a che fare con gli inglesi. Ma fermiamoci un momento a riflettere su cosa rappresentò, soprattutto per gli esuli a Parigi, ma non solo, l'avvento del patto nazi-sovietico e dell' inizio di una guerra che in quel momento sembrava orientata a concludersi con una spartizione dell' Europa tra le due dittature di Mosca e Berlino e con la cancellazione delle «vecchie» democrazie occidentali di Francia e Inghilterra. Il ritrovarsi, da un giorno all' altro, nemici nel paese che li aveva accolti, consentendogli piena libertà politica e di iniziativa nelle loro attività clandestine. La forzata obbedienza al diktat staliniano della diffidenza verso tutte le altre forme di antifascismo che non fossero quella della fede comunista. La rottura dell' unità nella lotta contro il regime fascista che per loro affondava le radici in un' educazione e una cultura comuni, maturate negli anni dell' adolescenza. La fine di tante amicizie. Su tutte, spicca la figura di Giorgio Amendola, «Giorgione», data la sua mole enorme (un gigante da 120 chili), il carattere gioviale, la passione per il buon cibo e gli abiti eleganti, le capacità di grande oratore, dirigente e organizzatore. Un uomo che anche nei momenti difficili, sapeva prendersi tempo per apprezzare, a Parigi, l' arte, la cultura, gli spettacoli, e forse lo faceva consapevole di rischiare la vita e ignorando se il giorno dopo avrebbe potuto farlo ancora. Eretico e insieme ortodosso con Mosca, implacabile nel confronto personale con chi era in disaccordo con lui (memorabili le discussioni con Di Vittorio nella redazione del giornale per gli emigrati in Francia La voce degli italiani), tenero nell' amore per la moglie Germaine, ma disponibile, per una notte, «con una cameriera che gli era entrata nel letto». Questo era Amendola. Serri ricostruisce le storie, descrive la vita quotidiana degli esuli con il passo di un romanzo e si addentra con fini indagini psicologiche nel carattere dei personaggi. Come ad esempio la coppia Enzo Sereni-Ada Ascarelli, riparati in un kibbutz ebreo in Palestina, esperienza pratica di una sorta di socialismo a lungo sognata e in realtà deludente, per l' esasperante privazione di qualsiasi bene personale e la messa in comune di tutto, perfino le scarpe! Tal che Enzo, senza che Ada riesca a trattenerlo, sentendosi soffocato dalle regole di vita della comunità e richiamato dal suo istinto rivoluzionario, decide di partire, farsi paracadutare nella campagna toscana e finisce prigioniero dei tedeschi e poi in campo di concentramento a Dachau, dove verrà torturato e condannato a morte. Come tutti gli esuli, gli irriducibili sopravvissuti, alla fine della guerra, torneranno a casa. Ma l' accoglienza, da parte del partito «nuovo» togliattiano che si è già affidato a una nuova generazione, non sarà quella che si aspettano. Un' amarezza in più, che si aggiunge alle molte della, come la chiamavano, «generazione delle vite difficili».
Dagospia il 22 ottobre 2019. Estratto dal libro di Mirella Serri, “Gli irriducibili. I giovani ribelli che sfidarono Mussolini”, edito da Longanesi, che sarà presentato lunedì 28 ottobre al Museo Ebraico di Roma (Via Catalana/Largo XVI ottobre). Amendola, dopo aver perso di vista il velenoso corteo dei reduci di guerra e di membri delle SA che sventolava bandiere rosse e nere con croci e aquile, decise che per qualche ora avrebbe messo da parte ogni preoccupazione. La sua prima meta a Berlino fu il Romanisches Cafè, dove due fanciulle dagli occhi pesantemente bistrati e in smoking di lame´ rosso lo scortarono a un tavolo. Un giovanotto, con indosso un logoro abito da sera, batteva malinconico sui tasti di un pianoforte, due poliziotti sostavano fuori dalla porta. Si temevano risse e incursioni dei nazisti. Il locale di recente era stato al centro del pubblico dibattito: era stato messo sotto accusa da Joseph Goebbels, futuro ministro della Propaganda nazista, che lo aveva definito un luogo infrequentabile e malsano, affollato da « ebrei e comunisti », dove avvenenti ragazze dalle spalle scoperte e l’intellighenzia radicale ascoltavano la musica dei « negri ». Giorgio, dopo aver consumato uno schnaps e una bistecca, trasloco` in un altro « fumoso cabaret, regno dei travestiti dal volto di gesso ». Avevano un « trucco violento », « occhi pesti e ciglia blu, guance vermiglie e bocche in tinta spalancate e sguardi ammiccanti». Era attirato dalla prospettiva di una compagnia femminile. Assomigliava a suo padre, Giovanni Amendola che quando faceva campagna nel suo collegio elettorale nel salernitano, collezionava un bel numero di cuori infranti. Stanco per il viaggio e per la giornata che gli aveva riservato molte sorprese, Giorgio si convinse però che era bene non violare alcuna norma cospirativa e ritirarsi da solo nell’hotel. E si ficcò subito sotto le coperte. Non si aspettava di sentir bussare alla porta. Si presentò «una giovanissima e bella cameriera che, senza essere stata invitata, si tolse la vestaglia ed entrò tutta nuda nel letto. Non seppi opporre un rifiuto alla focosa e intraprendente ragazza che la mattina seguente accolse con gratitudine i pochi marchi che nemmeno mi aveva chiesto ». Amendola dopo averla salutata si pentì di avere infranto le regole della clandestinità. Era più forte di lui, non riusciva a essere rispettoso della disciplina di partito. E per questo era stato pesantemente criticato e rimbrottato. Rientrando a Parigi dopo una missione in Italia, non molto tempo prima del viaggio a Berlino, aveva trovato ad attenderlo oltre all’amministratore del Partito, pure Togliatti che, indispettito, sorseggiava un caffè senza zucchero. Altrettanto amari furono i rimproveri per il fatto che sul treno Como-Zurigo « avevo preso un biglietto di seconda classe » e non « uno di terza classe ». « Il passaporto ti indica come studente », commentò acidamente il compagno Ercoli, « un universitario viaggia abitualmente in terza classe. ». Togliatti continuò anche in altre riunioni a rimbrottarlo per le abitudini spendaccione. Non era comunque l’unico attivista a trasgredire: nelle note spese dei compagni in trasferta non mancavano le parti comiche: «L’uomo non é di legno, scrisse un compagno per giustificare la visita in un bordello», racconta Giorgio, « e fu aspramente criticato per l’evidente errore cospirativo, dal momento che i casini erano molto sorvegliati ». Ripensando all’avventura della sera precedente, comunque Amendola alla fine decise di fidarsi del suo intuito. La ragazzina che si era infilata sotto le coperte non era una spia”.
Gli antifascisti di oggi, per nulla "irriducibili". Luigi Mascheroni, Mercoledì 11/09/2019 su Il Giornale. Fra i tanti libri che affollano i festival e le vetrine dei bookstore della nuova stagione autunnal-editoriale, ce n'è uno che ci sentiamo di raccomandare ai lettori, ma soprattutto ai politici e agli intellettuali, in particolare della riva sinistra. È il saggio di Mirella Serri Gli irriducibili (Longanesi), ossia la Storia, fatta di tante storie individuali, dei dissidenti che nel Ventennio sfidarono Mussolini. Un libro sul manipolo di giovani, a lungo dimenticati, che nell'invincibile Italia mussoliniana furono costretti a fuggire in Francia, in Palestina o persino in Tunisia, perché non vollero rassegnarsi al consenso totalizzante del fascismo: professorini, studenti, scrittori e giornalisti che - con forze limitate e volontà ferrea - ben prima dell'inizio della Resistenza, si scagliarono contro la dittatura come poterono: con sabotaggi, attentati, stampa clandestina... Si chiamano Giorgio Amendola, Enzo ed Emilio Sereni, Giuseppe Di Vittorio, Maurizio Valenzi, Ada Sereni... Erano comunisti, socialisti, attivisti di Giustizia e libertà, repubblicani. Tutti però allo stesso modo ribelli, senza compromessi. Ed ecco, allora, il valore del libro, oltre alla minuziosa e spesso inedita ricostruzione storica di Mirella Serri: quello di far capire - a quanti oggi abusano dell'accusa di fascismo - chi fossero i veri antifascisti. Se l'antifascismo in assenza di fascismo è solo pretestuoso, o una facile arma propagandistica (in chiave anti-salviniana ad esempio) oppure una schifosa scorciatoia per censurare opinioni diverse, un libro come Gli irriducibili serve a spiegare agli antifascisti da tastiera, quelli che comodamente seduti alle loro scrivanie lanciano odio e indignazione contro quanti non la pensano secondo il pensiero di regime (ad esempio su come gestire i flussi migratori fuori controllo), o ai predicatori da red carpet, quelli che basta un premio a favore di telecamera per scatenare una paternale contro il razzismo strisciante dell'Italia contemporanea, cosa veramente fu l'antifascismo. Un libro che dimostra come si possa parlare di antifascismo soltanto se si paga un prezzo, altrimenti è pura retorica. Quel gruppo di giovani fu antifascista perché esisteva un fascismo, e perché dicendo «NO» furono costretti a scappare dall'Italia, persero le cattedre universitarie, persero le collaborazioni coi giornali, persero il lavoro, persero gli affetti, la famiglia, spesso la salute, persero la libertà e persino la vita. È un libro da far leggere a tutti gli intellettuali e gli artisti di sinistra che usano la parola fascismo senza rispetto: gli «antifascisti» con cattedra in via Solferino, quelli che non saltano una domenica su La Lettura o su Robinson, quelli che non si perdono un'ospitata a un festival che sia uno, che pubblicano per tutti gli editori mainstream, che hanno le consulenze pagate oro al Salone del Libro di Torino ma poi gridano alla dittatura della Lega, quelli che iniziano a parlare al mattino alla rassegna stampa di RaiTre e finiscono alla sera su Otto e mezzo, ma per loro viviamo in un regime, quelli che «È tornato il fascismo!» ma loro non sono mai andati via. Restano sempre lì. È la sinistra che con la scusa dell'antifascismo non fa che perpetuare l'insano meccanismo degli attacchi personali, dello zittire l'altro non appena dissente dalla vulgata (pro migranti, o pro Europa, ad esempio), dandogli del «Fascista!». Tanto non perdono niente. Anzi aumentano inviti, prebende, collaborazioni, incarichi, consulenze. Tutto in nome, naturalmente, dell'antifascismo.
· Il Fascismo in Italia era l’equivalente del Comunismo in Russia.
Storia: senza conoscere il passato non si può capire il presente. Pubblicato mercoledì, 25 settembre 2019 da Corriere.it. Ci vuole un rispetto speciale per questa parola. Non solo per l’importanza dell’arcobaleno di significati che è capace di abbracciare, ma perché ci troviamo di fronte a un archetipo, a un modello che ha consentito all’umanità di esprimere la ricostruzione di quanto era successo e di raccontarlo per trarne profitto. Proviamo a fare la storia della parola storia. Attestata nella nostra lingua prima del 1250 (De Mauro), storia è figlia del latino historia, nipote del greco iστορία, che significa «ricerca, indagine, cognizione». Il dizionario Treccani ci invita a riflettere su una radice indoeuropea da cui il deriva il verbo greco ôida «sapere» (e ístōr significa «colui che sa») e il latino vid- da cui vidēre «vedere». Contiene al suo interno la narrazione e la visione. Chiamiamo storia infatti una «esposizione ordinata di fatti e avvenimenti umani del passato, quali risultano da un’indagine critica» (Treccani); «l’accadere di fatti e vicende umane considerati nella loro evoluzione attraverso il tempo» (De Mauro). Impossibile non cogliere l’approfondimento e la visione necessari per poter usare questa parola in modo proprio, ma soprattutto la necessità di una messa a fuoco critica che la rende molto lontana da una semplice enunciazione cronologica dei fatti, che infatti chiamiamo «cronaca». La storia è stata definita «scienza degli uomini nel tempo». Lo ha fatto Marc Bloch in un libro «Apologia della storia», uscito postumo nel 1949 ma ancora straordinariamente attuale (in Italia edito da Einaudi). «Il tempo della storia, realtà concreta e viva restituita all’irreversibilità del suo corso, è il plasma stesso in cui stanno i fenomeni, e come il luogo della loro intellegibilità». E ci ricorda Bloch: «L’incomprensione del presente nasce fatalmente dall’ignoranza del passato. Forse però non è meno vano affaticarsi a comprendere il passato, ove nulla si sappia del presente». Come stupirsi quindi se la storia è diventata materia di studio nel momento stesso in cui gli uomini hanno cominciato a studiare. Una disciplina che incontriamo fin dal primo ciclo e che ci accompagna fino a diventare un corso di laurea. Tanto che, via via che si approfondisce lo studio, si incontra una particolare «storia», dalla storia antica (greca e romana), alla storia medievale , alla storia moderna che dalla scoperta dell’America (1492, anche se c’è un ampio dibattito su queste datazioni) ci accompagna alla storia contemporanea, che dalla rivoluzione francese (fine ‘700) porta ai nostri giorni. Pochi mesi fa, intervistando per il Corriere.it uno dei più importanti storici italiani, Andrea Giardina, polemizzò contro la sottovalutazione della storia contemporanea nelle nostre scuole e lanciò una proposta dirompente: «Bisogna cominciare dalle elementari: bisogna parlare ai bambini del presente, non somministrare loro questa caricatura di miti, favole e leggende. Bisogna raccontare loro di quello che è accaduto ai genitori, ai loro nonni. Per i bambini tra i nonni e Adamo ed Eva non c’è alcuna distanza». Storia è narrazione e quindi questa parola è intimamente legata al raccontare, alla novella, alla fiaba, alla costruzione di un insieme di vicende (reali o immaginarie in questo caso non conta) che vengono scritte o trasmesse a voce perché qualcuno le legga o le ascolti. Prima di addormentarsi i bambini chiedono ai genitori di raccontare loro una storia, e se è sempre la stessa è anche meglio perché… Beh, il perché è tutta un'altra storia. È impossibile imbrigliare questa parola in un recinto. Basti pensare che può essere usata allo stesso modo come modello di verità e di menzogna. Se qualcuno vuole rafforzare l'enfasi nel riferire un episodio, non è raro sentirlo esclamare «Non sono chiacchiere, è tutto vero, è storia!». Ma allo stesso modo un ascoltatore scettico potrebbe rispondergli «Non ci credo, racconti storie!». E nessuno dei due si stupirebbe (o cambierebbe opinione). Ma anche questa contrapposizione non esaurisce l’elenco di significati che prosegue con l’allegria di un fuoco d’artificio: una relazione sentimentale («credo che quei due abbiano una storia»); un episodio particolare («è una storia di razzismo»); una novità («da dove nasce questa storia?»); una lamentela («mamma mia, quante storie fai»). Ci sarebbero poi una quantità di locuzioni cui questa parola partecipa, ma ci porterebbero lontano e dobbiamo concludere. Questa rubrica non vuole «fare storie» e quindi ubbidiremo, d'altronde è solo un gioco, mica vogliamo «passare alla storia».
Risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019 sull'importanza della memoria europea per il futuro dell'Europa (2019/2819(RSP)).
Il Parlamento europeo,
– visti i principi universali dei diritti umani e i principi fondamentali dell'Unione europea in quanto comunità basata su valori comuni,
– vista la dichiarazione rilasciata dal primo Vicepresidente Timmermans e dalla Commissaria Jourová il 22 agosto 2019, alla vigilia della Giornata europea di commemorazione delle vittime di tutti i regimi totalitari e autoritari,
– vista la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo delle Nazioni Unite adottata il 10 dicembre 1948,
– vista la sua risoluzione del 12 maggio 2005 sul sessantesimo anniversario della fine della Seconda guerra mondiale in Europa, l'8 maggio 1945,
– vista la risoluzione 1481 dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa, del 26 gennaio 2006, relativa alla necessità di una condanna internazionale dei crimini dei regimi totalitari comunisti,
– vista la decisione quadro 2008/913/GAI del Consiglio, del 28 novembre 2008, sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale,
– vista la Dichiarazione di Praga sulla coscienza europea e il comunismo, adottata il 3 giugno 2008,
– vista la sua dichiarazione sulla proclamazione del 23 agosto come Giornata europea di commemorazione delle vittime dello stalinismo e del nazismo, approvata il 23 settembre 2008,
– vista la sua risoluzione del 2 aprile 2009 su coscienza europea e totalitarismo,
– vista la relazione della Commissione del 22 dicembre 2010 sulla memoria dei crimini commessi dai regimi totalitari in Europa (COM(2010)0783),
– viste le conclusioni del Consiglio del 9-10 giugno 2011 sulla memoria dei crimini commessi dai regimi totalitari in Europa,
– vista la Dichiarazione di Varsavia del 23 agosto 2011 sulla Giornata europea di commemorazione delle vittime dei regimi totalitari,
– vista la dichiarazione congiunta del 23 agosto 2018 dei rappresentanti dei governi degli Stati membri dell'Unione europea per commemorare le vittime del comunismo,
– vista la sua storica risoluzione sulla situazione in Estonia, Lettonia e Lituania, approvata il 13 gennaio 1983 in risposta al cosiddetto "appello baltico", presentato da 45 cittadini di detti paesi,
– viste le risoluzioni e le dichiarazioni sui crimini dei regimi totalitari comunisti, adottate da vari parlamenti nazionali,
– visto l'articolo 132, paragrafi 2 e 4, del suo regolamento,
A. considerando che quest'anno si celebra l'ottantesimo anniversario dello scoppio della Seconda guerra mondiale, che ha causato sofferenze umane fino ad allora inaudite e ha portato all'occupazione di taluni paesi europei per molti decenni a venire;
B. considerando che ottanta anni fa, il 23 agosto 1939, l'Unione Sovietica comunista e la Germania nazista firmarono il trattato di non aggressione, noto come patto Molotov-Ribbentrop, e i suoi protocolli segreti, dividendo l'Europa e i territori di Stati indipendenti tra i due regimi totalitari e raggruppandoli in sfere di interesse, il che ha spianato la strada allo scoppio della Seconda guerra mondiale;
C. considerando che, come diretta conseguenza del patto Molotov-Ribbentrop, seguito dal "trattato di amicizia e di frontiera" nazi-sovietico del 28 settembre 1939, la Repubblica polacca fu invasa prima da Hitler e due settimane dopo da Stalin, eventi che privarono il paese della sua indipendenza e furono una tragedia senza precedenti per il popolo polacco; che il 30 novembre 1939 l'Unione Sovietica comunista iniziò una guerra aggressiva contro la Finlandia e nel giugno 1940 occupò e annesse parti della Romania, territori che non furono mai restituiti, e annesse le Repubbliche indipendenti di Lituania, Lettonia ed Estonia;
D. considerando che, dopo la sconfitta del regime nazista e la fine della Seconda guerra mondiale, alcuni paesi europei sono riusciti a procedere alla ricostruzione e a intraprendere un processo di riconciliazione, mentre per mezzo secolo altri paesi europei sono rimasti assoggettati a dittature, alcuni dei quali direttamente occupati dall'Unione sovietica o soggetti alla sua influenza, e hanno continuato a essere privati della libertà, della sovranità, della dignità, dei diritti umani e dello sviluppo socioeconomico;
E. considerando che, sebbene i crimini del regime nazista siano stati giudicati e puniti attraverso i processi di Norimberga, vi è ancora un'urgente necessità di sensibilizzare, effettuare valutazioni morali e condurre indagini giudiziarie in relazione ai crimini dello stalinismo e di altre dittature;
F. considerando che in alcuni Stati membri la legge vieta le ideologie comuniste e naziste;
G. considerando che, fin dall'inizio, l'integrazione europea è stata una risposta alle sofferenze inflitte da due guerre mondiali e dalla tirannia nazista, che ha portato all'Olocausto, e all'espansione dei regimi comunisti totalitari e antidemocratici nell'Europa centrale e orientale, nonché un mezzo per superare profonde divisioni e ostilità in Europa attraverso la cooperazione e l'integrazione, ponendo fine alle guerre e garantendo la democrazia sul continente; che per i paesi europei che hanno sofferto a causa dell'occupazione sovietica e delle dittature comuniste l'allargamento dell'UE, iniziato nel 2004, rappresenta un ritorno alla famiglia europea alla quale appartengono;
H. considerando che occorre mantenere vivo il ricordo del tragico passato dell'Europa, onde onorare le vittime, condannare i colpevoli e gettare le basi per una riconciliazione fondata sulla verità e la memoria;
I. considerando che la memoria delle vittime dei regimi totalitari, il riconoscimento del retaggio europeo comune dei crimini commessi dalla dittatura comunista, nazista e di altro tipo, nonché la sensibilizzazione a tale riguardo, sono di vitale importanza per l'unità dell'Europa e dei suoi cittadini e per costruire la resilienza europea alle moderne minacce esterne;
J. considerando che trent'anni fa, il 23 agosto 1989, ricorreva il cinquantesimo anniversario del patto Molotov-Ribbentrop e le vittime dei regimi totalitari sono state commemorate nella Via Baltica, una manifestazione senza precedenti cui hanno partecipato due milioni di lituani, lettoni ed estoni, che si sono presi per mano per formare una catena umana da Vilnius a Tallinn, passando attraverso Riga;
K. considerando che, nonostante il 24 dicembre 1989 il Congresso dei deputati del popolo dell'URSS abbia condannato la firma del patto Molotov-Ribbentrop, oltre ad altri accordi conclusi con la Germania nazista, nell'agosto 2019 le autorità russe hanno negato la responsabilità di tale accordo e delle sue conseguenze e promuovono attualmente l'interpretazione secondo cui la Polonia, gli Stati baltici e l'Occidente sarebbero i veri istigatori della Seconda guerra mondiale;
L. considerando che la memoria delle vittime dei regimi totalitari e autoritari, il riconoscimento del retaggio europeo comune dei crimini commessi dalla dittatura comunista, nazista e di altro tipo, nonché la sensibilizzazione a tale riguardo, sono di vitale importanza per l'unità dell'Europa e dei suoi cittadini e per costruire la resilienza europea alle moderne minacce esterne;
M. considerando che gruppi e partiti politici apertamente radicali, razzisti e xenofobi fomentano l'odio e la violenza all'interno della società, per esempio attraverso la diffusione dell'incitamento all'odio online, che spesso porta a un aumento della violenza, della xenofobia e dell'intolleranza;
1. ricorda che, come sancito dall'articolo 2 TUE, l'Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze; rammenta che questi valori sono comuni a tutti gli Stati membri;
2. sottolinea che la Seconda guerra mondiale, il conflitto più devastante della storia d'Europa, è iniziata come conseguenza immediata del famigerato trattato di non aggressione nazi-sovietico del 23 agosto 1939, noto anche come patto Molotov-Ribbentrop, e dei suoi protocolli segreti, in base ai quali due regimi totalitari, che avevano in comune l'obiettivo di conquistare il mondo, hanno diviso l'Europa in due zone d'influenza;
3. ricorda che i regimi nazisti e comunisti hanno commesso omicidi di massa, genocidi e deportazioni, causando, nel corso del XX secolo, perdite di vite umane e di libertà di una portata inaudita nella storia dell'umanità, e rammenta l'orrendo crimine dell'Olocausto perpetrato dal regime nazista; condanna con la massima fermezza gli atti di aggressione, i crimini contro l'umanità e le massicce violazioni dei diritti umani perpetrate dal regime nazista, da quello comunista e da altri regimi totalitari;
4. esprime il suo profondo rispetto per ciascuna delle vittime di questi regimi totalitari e invita tutte le istituzioni e gli attori dell'UE a fare tutto il possibile per garantire che gli orribili crimini totalitari contro l'umanità e le gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani siano ricordati e portati dinanzi ai tribunali, nonché per assicurare che tali crimini non si ripetano mai più; sottolinea l'importanza di mantenere vivo il ricordo del passato, in quanto non può esserci riconciliazione senza memoria, e ribadisce la sua posizione unanime contro ogni potere totalitario, a prescindere da qualunque ideologia;
5. invita tutti gli Stati membri dell'UE a formulare una valutazione chiara e fondata su principi riguardo ai crimini e agli atti di aggressione perpetrati dai regimi totalitari comunisti e dal regime nazista;
6. condanna tutte le manifestazioni e la diffusione di ideologie totalitarie, come il nazismo e lo stalinismo, all'interno dell'Unione;
7. condanna il revisionismo storico e la glorificazione dei collaboratori nazisti in alcuni Stati membri dell'UE; è profondamente preoccupato per la crescente accettazione di ideologie radicali e per il ritorno al fascismo, al razzismo, alla xenofobia e ad altre forme di intolleranza nell'Unione europea ed è turbato dalle notizie di collusione di leader politici, partiti politici e forze dell'ordine con movimenti radicali, razzisti e xenofobi di varia denominazione politica in alcuni Stati membri; invita gli Stati membri a condannare con la massima fermezza tali accadimenti, in quanto compromettono i valori di pace, libertà e democrazia dell'UE;
8. invita tutti gli Stati membri a celebrare il 23 agosto come la Giornata europea di commemorazione delle vittime dei regimi totalitari a livello sia nazionale che dell'UE e a sensibilizzare le generazioni più giovani su questi temi inserendo la storia e l'analisi delle conseguenze dei regimi totalitari nei programmi didattici e nei libri di testo di tutte le scuole dell'Unione; invita gli Stati membri a promuovere la documentazione del tragico passato europeo, ad esempio attraverso la traduzione dei lavori dei processi di Norimberga in tutte le lingue dell'UE;
9. invita gli Stati membri a condannare e contrastare ogni forma di negazione dell'Olocausto, compresa la banalizzazione e la minimizzazione dei crimini commessi dai nazisti e dai loro collaboratori, e a prevenire la banalizzazione nei discorsi politici e mediatici;
10. chiede l'affermazione di una cultura della memoria condivisa, che respinga i crimini dei regimi fascisti e stalinisti e di altri regimi totalitari e autoritari del passato come modalità per promuovere la resilienza alle moderne minacce alla democrazia, in particolare tra le generazioni più giovani; incoraggia gli Stati membri a promuovere l'istruzione attraverso la cultura tradizionale sulla diversità della nostra società e sulla nostra storia comune, compresa l'istruzione in merito alle atrocità della Seconda guerra mondiale, come l'Olocausto, e alla sistematica disumanizzazione delle sue vittime nell'arco di alcuni anni;
11. chiede inoltre che il 25 maggio (anniversario dell'esecuzione del comandante Witold Pilecki, eroe di Auschwitz) sia proclamato "Giornata internazionale degli eroi della lotta contro il totalitarismo", in segno di rispetto e quale tributo a tutti coloro che, combattendo la tirannia, hanno reso testimonianza del loro eroismo e di vero amore nei confronti dell'umanità, dando così alle future generazioni una chiara indicazione dell'atteggiamento giusto da assumere di fronte alla minaccia dell'asservimento totalitario;
12. invita la Commissione a fornire un sostegno effettivo ai progetti di memoria e commemorazione storica negli Stati membri e alle attività della Piattaforma della memoria e della coscienza europee, nonché a stanziare risorse finanziarie adeguate nel quadro del programma "Europa per i cittadini" per sostenere la commemorazione e il ricordo delle vittime del totalitarismo, come indicato nella posizione del Parlamento sul programma "Diritti e valori" 2021-2027;
13. dichiara che l'integrazione europea, in quanto modello di pace e di riconciliazione, è il frutto di una libera scelta dei popoli europei, che hanno deciso di impegnarsi per un futuro comune, e che l'Unione europea ha una responsabilità particolare nel promuovere e salvaguardare la democrazia e il rispetto dei diritti umani e dello Stato di diritto, sia all'interno che all'esterno del suo territorio;
14. sottolinea che, alla luce della loro adesione all'UE e alla NATO, i paesi dell'Europa centrale e orientale non solo sono tornati in seno alla famiglia europea di paesi democratici liberi, ma hanno anche dato prova di successo, con l'assistenza dell'UE, nelle riforme e nello sviluppo socioeconomico; sottolinea, tuttavia, che questa opzione dovrebbe rimanere aperta ad altri paesi europei, come previsto dall'articolo 49 TUE;
15. sostiene che la Russia rimane la più grande vittima del totalitarismo comunista e che il suo sviluppo in uno Stato democratico continuerà a essere ostacolato fintantoché il governo, l'élite politica e la propaganda politica continueranno a insabbiare i crimini del regime comunista e ad esaltare il regime totalitario sovietico; invita pertanto la società russa a confrontarsi con il suo tragico passato;
16. è profondamente preoccupato per gli sforzi dell'attuale leadership russa volti a distorcere i fatti storici e a insabbiare i crimini commessi dal regime totalitario sovietico; considera tali sforzi una componente pericolosa della guerra di informazione condotta contro l'Europa democratica allo scopo di dividere l'Europa e invita pertanto la Commissione a contrastare risolutamente tali sforzi;
17. esprime inquietudine per l'uso continuato di simboli di regimi totalitari nella sfera pubblica e a fini commerciali e ricorda che alcuni paesi europei hanno vietato l'uso di simboli sia nazisti che comunisti;
18. osserva la permanenza, negli spazi pubblici di alcuni Stati membri, di monumenti e luoghi commemorativi (parchi, piazze, strade, ecc.) che esaltano regimi totalitari, il che spiana la strada alla distorsione dei fatti storici circa le conseguenze della Seconda guerra mondiale, nonché alla propagazione di regimi politici totalitari;
19. condanna il fatto che forze politiche estremiste e xenofobe in Europa ricorrano con sempre maggior frequenza alla distorsione dei fatti storici e utilizzino simbologie e retoriche che richiamano aspetti della propaganda totalitaria, tra cui il razzismo, l'antisemitismo e l'odio nei confronti delle minoranze sessuali e di altro tipo;
20. esorta gli Stati membri ad assicurare la loro conformità alle disposizioni della decisione quadro del Consiglio, in modo da contrastare le organizzazioni che incitano all'odio e alla violenza negli spazi pubblici e online, nonché a vietare di fatto i gruppi neofascisti e neonazisti e qualsiasi altra fondazione o associazione che esalti e glorifichi il nazismo e il fascismo o qualsiasi altra forma di totalitarismo, rispettando nel contempo l'ordinamento giuridico e le giurisdizioni nazionali;
21. sottolinea che il tragico passato dell'Europa dovrebbe continuare a fungere da ispirazione morale e politica per far fronte alle sfide del mondo odierno, come la lotta per un mondo più equo e la creazione di società aperte e tolleranti e di comunità che accolgano le minoranze etniche, religiose e sessuali, facendo in modo che tutti possano riconoscersi nei valori europei;
22. incarica il suo Presidente di trasmettere la presente risoluzione al Consiglio, alla Commissione, ai governi e ai parlamenti degli Stati membri, alla Duma russa e ai parlamenti dei paesi del partenariato orientale.
"COMUNISTI COME I NAZISTI", E LA SINISTRA IN EUROPA SI SPACCA. Matteo Pucciarelli per “la Repubblica” il 23 settembre 2019. «Siamo consapevoli dei limiti del testo e delle sue inesattezze storiche, anche pesanti», ha ammesso Brando Benifei, eurodeputato del Pd ligure. «In quel documento vi sono frasi sbagliate e altre poco chiare? Sì, certo», ha aggiunto Giuliano Pisapia su Facebook. Eppure non sono bastate le "pesanti inesattezze" e le "frasi sbagliate": giovedì scorso, la maggioranza del gruppo parlamentare europeo del Pd ha comunque votato a favore della risoluzione «sull'importanza della memoria europea per il futuro dell' Europa»; testo dove, più o meno tra le righe, si equipara il nazismo al comunismo. Lo si è fatto partendo da un assunto storico discutibile, cioè che la seconda guerra mondiale fosse scoppiata per via del patto Molotov-Ribbentrop tra Urss e Germania nazista; omettendo i 22 milioni di morti dell' Unione Sovietica per sconfiggere Hitler; menzionando solo due volte la parola "fascismo" in tutto lo scritto dove, concludendo, ci si impegna a «contrastare le organizzazioni che incitano all' odio e alla violenza negli spazi pubblici e online». In realtà la risoluzione, che di fatto non ha alcuna ripercussione pratica nelle varie legislazioni nazionali, era stata annacquata. Nel senso che i proponenti, i gruppi della destra e dei popolari, avevano presentato un documento più smaccato nel mettere nazismo e comunismo sullo stesso piano. Dopo l' intervento di socialisti e verdi e relativo negoziato, ne è uscito fuori un testo più sfumato, dove si è battuto molto il ferro sui crimini dello stalinismo. Solo due dem non hanno votato a favore, cioè Massimiliano Smeriglio («le democrazie occidentali, le nostre, quelle nate nel '45, devono ringraziare per la vittoria finale gli anglo-americani, le formazioni partigiane e l' Armata Rossa. Questa è la verità storica», ha spiegato) e Pierfrancesco Majorino («in maniera superficiale, banale e dannosa si sono equiparate due culture politiche opposte»). Astensione anche per i 5 Stelle, perché «come sempre si è scatenata una strumentalizzazione di parte, con evidenti forzature storiche», ragiona Fabio Massimo Castaldo. E infine voto contrario della sinistra rosso-verde del Gue. Fatto sta che quel testo, ammorbidito, ha scatenato numerose proteste a sinistra. La presidenza dell'Anpi replica che «in un' unica riprovazione si accomunano oppressi ed oppressori, vittime e carnefici, invasori e liberatori, per di più ignorando lo spaventoso tributo di sangue pagato dai popoli dell' Unione Sovietica e persino il simbolico evento della liberazione di Auschwitz da parte dell' Armata rossa. Davanti al crescente pericolo di nazifascismi, razzismi, nazionalismi, si sceglie una strada di lacerante divisione piuttosto che di responsabile e rigorosa unità». Per Nicola Fratoianni (LeU) «la risoluzione votata dai parlamentari europei è solo un atto di ignoranza o malafede». E naturalmente protestano i partiti comunisti italiani. «Lo sdoganamento dell' anticomunismo e di una visione del '900 da Libro Nero si accompagnano in Europa alla liquidazione dell' eredità del movimento operaio e socialista e dell' antifascismo», dice Maurizio Acerbo di Rifondazione. Mentre il Pc invita i comunisti in piazza il prossimo 5 ottobre a Roma: secondo il segretario Marco Rizzo «serve un atto di orgoglio e di lotta contro questa pericolosa posizione dell' Ue». Si gode lo spettacolo, invece, la destra. «Stavolta va un plauso al Pd - chiosa Ignazio La Russa di FdI - perché finalmente mette sullo stesso piano due tragedie diverse ma simili: il nazismo e il comunismo».
Sassoli: «Nazismo e comunismo non sono la stessa cosa». Il Dubbio il 2 ottobre 2019. L’intervento di David Sassoli presidente del Parlamento Europeo: «E’ una operazione confusa e politicamente scorretta. E se riferita alla seconda guerra mondiale rischia di mettere sullo stesso piano vittime e carnefici». «Affiancare nazismo e comunismo è una operazione intellettualmente confusa e politicamente scorretta. E se riferita alla seconda guerra mondiale rischia di mettere sullo stesso piano vittime e carnefici». Parola di David Sassoli, Presidente del parlamento europeo. Intervistato dal sito web patriaindipendente, Sassoli dice la sua sulla polemica nata con l’approvazione della Risoluzione sull’importanza della memoria europea. «Ho grande rispetto per la volontà espressa dal Parlamento – spiega Sassoli – ma nessun atto in democrazia è ex cathedra. Tutto si può commentare e giudicare. Riferirsi allo scoppio della seconda guerra mondiale per ribadire un atto di fede nel sistemi democratici era sembrato ai gruppi politici un modo per ribadire la volontà dell’Unione europea di battersi contro ogni forma di totalitarismo. E, in questo momento, per rispondere all’aggressività di una destra xenofoba e neofascista che in molti Paesi ha ripreso ad alzare la testa. Un punto di vista che credo sia largamente condiviso dalle nostre opinioni pubbliche e dalle forze politiche europeiste. Il problema nasce quando si entra nello specifico di passaggi storici che non possono essere sintetizzati, a equiparazioni inappropriate, a riferimenti che andrebbero accuratamente verificati. Dai parlamenti ci si aspetta valutazioni politiche e non certo di scrivere la storia» E poi Sassoli spiega: «Il giudizio sui sistemi comunisti nei Paesi dell’Est non credo sia in discussione, così come non può esserlo il grande contributo delle formazioni partigiane comuniste e dell’Unione sovietica nella Liberazione dell’Europa dal nazifascismo. Senza il loro impegno e sacrificio non avremmo avuto la possibilità di dare vita alla più straordinaria avventura di pace e democrazia che si chiama Unione Europea» E infine: «Il percorso dei partiti comunisti non è stato lo stesso nei nostri Paesi. In Italia, il Partito comunista è stato protagonista della Resistenza, della rinascita democratica del nostro Paese e del consolidamento delle istituzioni repubblicane. È stato anche protagonista della pace religiosa in Italia, con il voto favorevole sull’art. 7 della Costituzione, mentre i socialisti votarono contro. Aldo Moro nel 1973, spiegò al presidente Usa Ford la differenza fra il comunismo italiano e quello sovietico».
Marx e Stalin, Terracini e Goebbels, Lenin e il dottor Mengele, tutti uguali? Daniela Ranieri per Il FQ il 24 Settembre 2019. Tenendo conto che l’intelligenza e la saggezza appartengono a quel tipo di grandezze che messe insieme non si sommano ma fanno media, cosa pensereste di una legge o di una risoluzione votata concordemente da Berlusconi, Pisapia, Fitto, Calenda, Tajani, Picierno, Moretti e leghisti vari? Nelle sfere eteree del Parlamento europeo, dove già sedettero personalità del calibro di Iva Zanicchi, Mario Borghezio, Barbara Matera e Matteo Salvini (quest’ultimo non troppo spesso, in verità), costoro, tra gli altri, hanno appena votato all’unisono una risoluzione con cui l’Europa esorta-obbliga gli Stati membri a condannare alla pari nazismo e comunismo (chiamato anche disinvoltamente stalinismo). LA RISOLUZIONE, passata con 535 voti a favore, 66 contrari e 52 astenuti e pretenziosamente intitolata “Importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa”, sorge dalla preoccupazione di veder risorgere copie del nazi-fascismo (già condannate con la risoluzione del 25 ottobre 2018) ma anche del comunismo (chissà dove le vedono: la cosa più comunista degli ultimi anni è stata Bandiera rossa cantata dai grigliatori di salsicce alla festa dell’Unità). Ora, le probabilità che una qualunque cosa votata insieme da Pd, Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega fosse demenziale o dannosa (vedi Tav e leggi elettorali) erano già alte. Ma come si fa a mettere sullo stesso piano quelli che deportavano, gassavano e bruciavano le persone nei forni crematori e quelli che hanno sconfitto Hitler?
Il punto 17 della risoluzione sfiora il tautologico: il Parlamento “esprime inquietudine per l’uso continuato di simboli di regimi totalitari nella sfera pubblica e a fini commerciali e ricorda che alcuni paesi europei hanno vietato l’uso di simboli sia nazisti che comunisti”. Cioè, sorvolando sul fatto che il comunismo nacque come ideologia per la liberazione delle masse oppresse e il nazismo come ideologia razzista di esaltazione della morte, per questi sempliciotti la falce e il martello sono equivalenti alla svastica, ai busti di Hitler, ai vini di Mussolini. Prova ne sarebbe il bando che vige nei Paesi anticomunisti, che però hanno tutt’altra storia rispetto all’Italia, dove i comunisti, insieme alle altre forze antifasciste, hanno scritto la Costituzione.
Bizzarro il punto 18: il Parlamento “osserva la permanenza, negli spazi pubblici di alcuni Stati membri, di monumenti e luoghi commemorativi (parchi, piazze, strade, ecc.) che esaltano regimi totalitari, il che spiana la strada alla distorsione dei fatti storici… nonché alla propagazione di regimi politici totalitari”. Quindi, questo Parlamento che osserva le piazze e i monumenti – e perciò non ha tempo di studiare – ritiene che “via Stalingrado” sia pari a “via Hermann Göring”, e che le targhe a memoria dell’Armata Rossa che il 27 gennaio 1945 liberò Auschwitz (no, non furono gli americani come nel film premio Oscar di Benigni) spianino la strada alla riapertura dei gulag.
Patetico il paragrafo J, in cui si ricorda il 50° anniversario del patto Molotov-Ribbentrop, quando “le vittime dei regimi totalitari sono state commemorate nella Via Baltica, una manifestazione senza precedenti cui hanno partecipato due milioni di lituani, lettoni ed estoni, che si sono presi per mano per formare una catena umana da Vilnius a Tallinn… ”. Facciamoci spiegare il patto Molotov-Ribbentrop da Alessandro Barbero, che conosce la Storia un po’ meglio degli eruditi parlamentari. Nel ’39 Stalin propose a Francia e Inghilterra un accordo che prevedeva l’invio di 2 milioni e mezzo di soldati russi al confine con la Germania. Le due potenze traccheggiavano, e l’accordo saltò. Del resto l’Inghilterra vedeva con simpatia Hitler: la Germania era il “baluardo dell’Europa contro il bolscevismo”. Il 23 agosto l’Unione Sovietica, sfibrata dalla guerra col Giappone in Mongolia, per difendere i suoi confini firmò il patto Molotov-Ribbentrop. NEL 2019 ci volevano Berlusconi, la Picierno e Pisapia (che in sostanza mette al bando sé stesso, essendo stato deputato di Rifondazione Comunista per due legislature), a spiegarci che in realtà erano tutti uguali: Marx e Stalin, Terracini e Goebbels, Lenin e il dottor Mengele. Ci volevano questi ottimati lib-dem in comunella coi leghisti amici di CasaPound, per minimizzare in un pastone bipartisan i crimini del nazi-fascismo con un “e allora le foibe?” di pedantesca burocrazia. Consigliamo una rilettura di Primo Levi, a Bruxelles: “Ci pareva, e così era, che il nulla pieno di morte in cui da dieci giorni ci aggiravamo come astri spenti avesse trovato un suo centro solido, un nucleo di condensazione: quattro uomini armati, ma non armati contro di noi; quattro messaggeri di pace, dai visi rozzi e puerili sotto i pesanti caschi di pelo”. Erano i russi, e non erano affatto uguali ai nazisti, checché ne dica questo Parlamento che riscrive la Storia grazie alla quale esiste.
Nazismo e comunismo. L’idea comune della dittatura, risponde Aldo Cazzullo il 4 ottobre 2019 su Il Corriere.it.
Caro Aldo, pochi giorni fa il Parlamento europeo ha equiparato, con voto quasi unanime, il nazismo al comunismo. Anch’io la penso così tant’è che anni fa, ero militare a Novara, per essermi espresso in questo modo ho rischiato di prenderle da un militante comunista. I due regimi così distanti ma al tempo stesso così vicini sono stati per il genere umano ugualmente malefici. Però, se non sbaglio, solo una testata e nessun network televisivo ne ha dato notizia e risalto. Sono passati tanti anni ma non siamo ancora in grado di considerare il passato serenamente. Carlo Girola
Caro Carlo, Penso che gli europarlamentari avrebbero argomenti di maggiore attualità di cui occuparsi. Emettere sentenze sulla storia è un compito che spetta agli studiosi e semmai alla sensibilità popolare. Ci siamo già detti nei mesi scorsi che antifascismo e anticomunismo sono come l’aria e l’acqua: indispensabili alla vita, cioè alla democrazia. Dovrebbero quindi essere un patrimonio comune. Questo non significa che fascismo, nazismo e comunismo siano la stessa cosa. È discutibile che l’uno nasca come reazione all’altro: nel 1922, placato il biennio rosso, non c’era in Italia nessun pericolo di rivoluzione bolscevica, tanto più che i comunisti italiani non erano allora molto più di una frazione scissionista del Psi; per tacere della Germania, dove i comunisti erano stati messi fuori gioco già nel 1919. Mussolini e Hitler semmai furono abili nel giocare sul «pericolo rosso» e nell’usare a proprio vantaggio la violenza massimalista già vista nelle piazze e destinata a ritorcersi contro la sinistra, come aveva intuito Filippo Turati. Fascismo, nazismo e comunismo hanno di sicuro alcune cose in comune: la costruzione di una dittatura basata sull’identificazione dello Stato con un partito e un leader, attraverso la criminalizzazione del dissenso, la polizia politica, i campi di detenzione. Ovunque i comunisti siano andati al potere, hanno istituzionalizzato l’incarcerazione se non l’eliminazione fisica degli oppositori. I loro difensori ricordano che le intenzioni erano ben diverse: il riscatto dell’umanità, la lotta all’oppressione capitalista. Ma già George Orwell aveva dimostrato per tempo che i regimi comunisti avevano costruito un’oppressione ancora più plumbea.
Giampiero Mughini per Dagospia il 24 settembre 2019. Caro Dago, ti confesso che mi sono leccato i baffi quando ho saputo che l’europarlamento ha votato una mozione in cui si equiparano comunismo e nazismo quali i due grandi crimini del Novecento. E, sia detto tra parentesi, ho apprezzato molto che l’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia quella mozione l’ha votata, da uomo d’onore qual è. Leggo oggi sul “Fatto” (al quale auguro altri mille anni di vita dopo questi primi dieci) che Daniela Ranieri - una ragazza colta - se ne rammarica di quella equiparazione. Spiega, e in questo ha perfettamente ragione, che quando Stalin firmò nell’agosto 1939 il patto di non aggressione con i nazi lo fece per motivi di realpolitik e dopo che i Paesi occidentali si erano rifiutati di firmare un analogo patto con l’Urss comunista. Tutto sacrosanto. Ma il bello viene dopo. Il Patto prevede che uno dei due compari (la Germania) aggredisca la Polonia da una parte e l’altro (l’Urss) dall’altro. Si spartiscono il bottino e tanto per non sapere né leggere né scrivere la polizia politica staliniana massacra il fior fiore della società civile polacca alle fosse di Katyn, un massacro nell’ordine di almeno 40 volte la strage delle Fosse Ardeatine. Mi immagino come fossero contenti gli ufficiali polacchi ad essere assassinati dai marxisti anziché dai nazisti. Uno di quegli ufficiali era il padre di Andrzej Wajda, il grandissimo regista polacco che da giovane era stato comunista e che apprese molto tardi come venne ucciso suo padre. La Seconda guerra mondiale era scoppiata per difendere la Polonia dall’aggressione nazi. Finì con l’Armata Rossa che si pappò metà della Germania, la Polonia, l’Ungheria, la Cecoslovacchia. Wajda è morto novantenne nel 2016. Il suo ultimo film, e meraviglioso suo testamento, “Il ritratto negato”, racconta a puntino la delizia dell’essere un artista anticonformista nella Polonia del “comunismo reale”, perché è quello che conta. Il comunismo reale non il “comunismo” di cui la Ranieri parla a cena con i suoi amici prediletti. Il comunismo reale, e ovunque si sia manifestato. Già nell’Urss leninista, dove il timone del comando passò immediatamente nelle mani della polizia politica e quando fu Lev Trockij a far fucilare i marinai di Kronstadt che volevano un po’ di democrazia in più. Nell’Urss staliniana dove i morti assassinati furono nell’ordine di alcune decine di milioni, 700mila e passa fucilati solo nel 1937. Nella Germania dell’Est, in Cecoslovacchia, ovunque. A Budapest sono stato nella tragica “Casa” dove prima si erano appostati i filonazisti e dopo i comunisti ungheresi filostaliniani. Dove i primi e i secondi erano assolutamente identici nell’arte di condannare e giustiziare gli innocenti. E non è che i boia delle Democrazie popolari fossero tutti delle canaglie fin da piccoli. Alcuni di loro da giovani erano stati ardenti e coraggiosi quanto il nostro Umberto Terracini nell’essere dei comunisti che aspiravano al benessere del proletariato. Una volta preso il potere, divenuti loro i capi, divenuti loro i padroni della polizia politica e dei “tribunali del popolo” divennero dei criminali. Ci sono cento e cento storie al riguardo. Se Daniela Ranieri vuole, gliele racconto o le indico i libri da dove le ho tratte. A proposito del 1948, dove per fortuna della civiltà italiana la Democrazia Cristiana vinse le elezioni, Riccardo Lombardi (un grande socialista riformista) usò la seguente espressione durante un nostro colloquio: “La sconfitta del 1948 ci salvò da noi stessi”. Ancora nel 1957 Palmiro Togliatti pronunciò alla Camera un discorso in cui diceva che Imre Nagy (il leader della rivolta anticomunista ungherese del 1956) se l’era bello che meritato di essere impiccato dai russi. Dove, quando, in che cosa, nei confronti di chi - e a parte la nomenklatura partitica che dall’oggi al domani si ritrovò il potere di vita e di morte sulla popolazione civile - il comunismo reale è stata una dittatura men che orrenda e dunque migliore del nazismo? Potrei continuare per pagine e pagine. Non lo faccio perché ho rispetto del tempo del lettore di Dagospia.
La mozione europea su nazismo-comunismo e la polemica connessa. Fabio Della Pergola, giovedì 26 settembre 2019 su Agoravox. La polemica in corso sulla controversa mozione del Parlamento europeo - "Importanza della memoria europea per il futuro dell'Europa" - che metterebbe sullo stesso piano "nazismo e comunismo" (qui il testo completo), pretende un'accurata analisi del testo.
Alcuni punti sono inessenziali nell'ottica della polemica citata e non sono stati presi in considerazione. I punti più significativi sono invece stati raggruppati a seconda del contenuto e così divisi per argomento (in corsivo eventuali commenti):
1 - Politica estera dell'URSS verso i paesi dell'est europeo.
2 - Considerazioni circa l'inizio della seconda guerra mondiale.
3 - Riferimenti ai termini "stalinismo, totalitarismo, regime, dittatura".
4 - Riferimenti alla legislazione vigente in specifici paesi membri.
1 - Al primo gruppo appartengono due punti; in entrambi il riferimento è all'occupazione sovietica dell'est europeo:
A - Si cita “l’occupazione di taluni paesi europei per molti decenni a venire”.
D - Si citano i paesi sottoposti all’area di influenza sovietica che furono “privati della libertà, della sovranità, della dignità, dei diritti umani e dello sviluppo socioeconomico”.
2 - Al secondo raggruppamento appartengono i seguenti punti di contenuto storico (decisamente discutibile, ma che pretendono un po' di attenzione sui termini usati):
B – Si cita il patto di non aggressione russo-tedesco (Molotov-Ribbentrop) affermando che ha “spianato la strada allo scoppio della Seconda guerra mondiale”. Il termine “spianato” non significa che quel patto fu la causa dello scoppio del conflitto, come si è letto in vari commenti critici, ma che esso facilitò, non ostacolò l'inizio della guerra, come sarebbe successo (forse) in presenza di una forte e non ambigua opposizione dell'URSS alle mire tedesche. In ogni caso i retroscena attorno all'inizio del conflitto sono notoriamente molto più articolati di quanto non si dica limitandosi al patto russo-tedesco.
C – Si ricorda che lo stesso patto ha provocato la spartizione della Polonia; poi si cita l’aggressione russa alla Finlandia e alla Romania, oltre all’annessione di Lituania, Lettonia ed Estonia.
K – Si cita l’alterazione della storiografia sovietica “secondo cui la Polonia, gli Stati baltici e l'Occidente sarebbero i veri istigatori della Seconda guerra mondiale”. Punto molto discutibile da un punto di vista storiografico: senza salvare alcunché della responsabilità naziste, è indiscutibile che l’Occidente, nella veste dei vincitori del primo conflitto mondiale, ha avuto ampie responsabilità nel provocare le cause che hanno determinato il crollo della Repubblica di Weimar, la presa del potere da parte dei nazisti e, infine, le cause che portarono alla seconda guerra mondiale. Tra Russia e Polonia un problema c'era (ma vent'anni prima) e lo stato polacco ebbe effettivamente la sua responsabilità nell’aver iniziato il conflitto del 1919-20 invadendo la Russia (ma andando più indietro nel tempo non si capisce più chi iniziò cosa...). È noto inoltre che il governo polacco, non fidandosi di Stalin cercò di opporsi a una alleanza tra i paesi occidentali e l'URSS in chiave antitedesca, ma attribuire a questa pretesa polacca il successivo patto russo-tedesco pare un po' forzato. Più chiara la piena responsabilità sovietica nella occupazione e dissoluzione dell'indipendenza delle repubbliche baltiche. Nel complesso le ricostruzioni in merito al conflitto, sia da parte della storiografia sovietica citata, sia da parte degli estensori della mozione europea soffrono di un'approssimazione grossolana. Ma la polemica - che si incentra sul fatto che la mozione stravolgerebbe la realtà storica attribuendo a Germania e URSS una uguale responsabilità nella causa del conflitto - appare forzata. Forse è l'intenzionalità latente, ma fosse questo l'intento della mozione sarebbe davvero sostenuto in modo grottesco.
M2 – si afferma che “la Seconda guerra mondiale è iniziata come conseguenza immediata del famigerato trattato di non aggressione nazi-sovietico del 23 agosto 1939”. Di nuovo, dire che la guerra è “iniziata” in conseguenza immediata del patto Molotov-Ribbentrop non significa dire che quel patto ne fu la causa e affermarne la "conseguenza immediata" è un dato di fatto: l’invasione tedesca della Polonia iniziò il 1 settembre 1939 (una settimana dopo la firma del patto) e quella russa due settimane più tardi. Ma già ad agosto Stalin aveva imposto un diktat all'Estonia imponendo la presenza dell'Armata Rossa sul suo territorio. Anche in questo caso la polemica appare pretestuosa.
3 - Il terzo raggruppamento riguarda più da vicino la polemica in atto e coinvolge la maggior parte dei punti contenuti dalla mozione. Tutti i punti qui raccolti si riferiscono a termini quali "stalinismo, dittatura, regime, totalitarismo" abbinati o meno al termine "comunismo":
E – Si evidenzia la necessità, oltre ai conti già fatti con il nazismo a Norimberga, di “condurre indagini giudiziarie in relazione ai crimini dello stalinismo e di altre dittature”.
Le altre dittature non sono specificate, ma si potrebbe pensare ai regimi fascisti di Italia, Spagna e Portogallo e al regime dei colonnelli in Grecia. Va tenuto presente che il riferimento è sempre e solo all'ambito europeo, non si citano né le dittature sudamericane né la Cambogia di Pol Pot, la Nord Corea o le guardie rosse di Mao. Allo stesso modo non si citano altri paesi africani, mediorientali o asiatici così come non si cita il Vietnam e si sorvola sulle tante operazioni di presunta peace-keeping di altri paesi.
Non si cita però nemmeno la recente questione balcanica nonostante sia avvenuta su suolo europeo.
G – Si citano “l'espansione dei regimi comunisti totalitari e antidemocratici nell'Europa centrale e orientale” e “i paesi europei che hanno sofferto a causa dell'occupazione sovietica e delle dittature comuniste”.
I – Si citano “i crimini commessi dalla dittatura comunista, nazista e di altro tipo”.
L – Si cita l’importanza della “memoria delle vittime dei regimi totalitari e autoritari, il riconoscimento del retaggio europeo comune dei crimini commessi dalla dittatura comunista, nazista e di altro tipo”.
M3 – Si citano “i crimini contro l'umanità e le massicce violazioni dei diritti umani perpetrate dal regime nazista, da quello comunista e da altri regimi totalitari”.
M4 – Si citano i “crimini totalitari” e “ogni potere totalitario, a prescindere da qualunque ideologia”.
M5 – Si sollecita dagli stati una valutazione in merito “ai crimini e agli atti di aggressione perpetrati dai regimi totalitari comunisti e dal regime nazista”.
M6 – Si “condannano tutte le manifestazioni e la diffusione di ideologie totalitarie, come il nazismo e lo stalinismo”.
M8 – Si invita a “celebrare il 23 agosto come la Giornata europea di commemorazione delle vittime dei regimi totalitari” e a studiare le “conseguenze dei regimi totalitari”.
M10 – Si citano i “crimini dei regimi fascisti e stalinisti e di altri regimi totalitari e autoritari”.
M11 – Si chiede di istituire la “Giornata internazionale degli eroi della lotta contro il totalitarismo".
M12 – Si cita “la commemorazione e il ricordo delle vittime del totalitarismo”.
M15 – Si “sostiene che la Russia rimane la più grande vittima del totalitarismo comunista e che il suo sviluppo in uno Stato democratico continuerà a essere ostacolato fintantoché il governo, l'élite politica e la propaganda politica continueranno a insabbiare i crimini del regime comunista e a esaltare il regime totalitario sovietico”.
M16 – si cita l’impegno “dell'attuale leadership russa volti a distorcere i fatti storici e a insabbiare i crimini commessi dal regime totalitario sovietico”.
M20 – si invitano gli stati membri “a vietare di fatto i gruppi neofascisti e neonazisti e qualsiasi altra fondazione o associazione che esalti e glorifichi il nazismo e il fascismo o qualsiasi altra forma di totalitarismo”.
In nessuno di questi punti è citato il comunismo come ideologia o dottrina politica a sé stante, separata dai termini "stalinismo, regime, dittatura, totalitarismo, potere".
4 - L'ultimo raggruppamento si riferisce a tre punti in cui si ricordano legislazioni specifiche di alcuni Stati membri:
F – Si citano i paesi che vietano simultaneamente "ideologia nazista e comunista".
M17 – si critica “l'uso continuato di simboli di regimi totalitari” e si ricorda che “alcuni paesi europei hanno vietato l'uso di simboli sia nazisti che comunisti”.
M18 – si “osserva la permanenza, negli spazi pubblici di alcuni Stati membri, di monumenti e luoghi commemorativi (parchi, piazze, strade, ecc.) che esaltano regimi totalitari”.
In tutta la mozione solo in due punti di quest'ultimo raggruppamento si fa menzione di una generica "ideologia comunista" e di suoi simboli. Al punto F e al punto M17 ci si limita a citare paesi membri dell'Unione Europea che hanno introdotto legislazioni restrittive sia verso il nazismo che verso il comunismo. Il riferimento ad "alcuni stati membri" fa pensare ovviamente che si tratti di paesi dell'est europeo che si riferiscono al proprio passato sotto un regime comunista autoctono o a quello dell'URSS. Questi due cenni alle legislazioni restrittive hanno fatto ipotizzare che contenga, latente, un invito a seguire quella strada, ma si tratta appunto di un'interpretazione ipotetica. L'unica affermazione che potrebbe apparire alquanto ambigua è, nel punto M17, la critica all'uso dei "simboli di regimi totalitari". Dal momento che la bandiera rossa e la simbologia della falce e martello sono comuni sia ai comunismi democratici dell'Occidente che del regime totalitario russo, si potrebbe obiettare una insinuazione critica anche verso i comunisti occidentali. Ma, ancora, si tratta di una interpretazione estensiva di una frase che, nei fatti, si riferisce comunque unicamente ai "regimi totalitari".
Inoltre solo in due punti citati in premessa (visto...) si cita genericamente “il comunismo” con riferimento alla Dichiarazione di Praga e alle “vittime del comunismo”. Anche in questo caso è difficile non attribuire il riferimento ai regimi del Patto di Varsavia.
In sintesi, a parte alcune discutibili affermazioni storiche, appare palese che l'equiparazione è, piuttosto chiaramente, tra nazionalsocialismo e comunismo sovietico, non con il marxismo o con l'ideologia comunista in sé (se non nei punti citati che risultano essere ambigui). Necessario premettere che anche tra nazismo e comunismo (anche sovietico) parecchie distinzioni andrebbero fatte sia in ambito ideologico che storico. Come scrive Michele Serra "Il comunismo fu totalitario per imporre l'uguaglianza tra tutti gli uomini e l'internazionalismo. Il nazismo fu totalitario per imporre la superiorità di una nazione e di una razza e sancire l'inferiorità delle altre. Questa gigantesca differenza basta a sconsigliare ogni equiparazione tra le due ideologie, e soprattutto tra le persone che ne presero le parti". Inoltre non vanno certo dimenticati la resistenza di Stalingrado, i venti milioni di morti russi nella guerra o la liberazione di Auschwitz (anche se un bombardamento sulla linea ferroviaria che portava ai campi di sterminio per impedire al camino di Auschvitz di funzionare non risulta che sia stato fatto né dai russi né dagli angloamericani). Cioè, in una parola, non si può dimenticare il contributo sovietico alla sconfitta del nazismo. Resta il fatto che, però, la mozione europea parla piuttosto chiaramente del comunismo che si è imposto nell'Est europeo a partire dal dopoguerra. Quindi è obbligatorio ricordarsi anche, come recita la mozione, dell'occupazione russa dei paesi dell'Est, della reazione sovietica alle insurrezioni di Berlino nel '53, di Budapest '56, di Praga '68, tutte repressioni violente che furono all'origine di molte prese di posizione critiche anche nel campo comunista occidentale contro il dogmatismo acritico degli apparati di partito fedeli a Mosca. Ed è impossibile dimenticarsi del Muro e delle tante vittime delle fughe verso l'ovest, dei gulag, della persecuzione delle minoranze etniche, della carestia procurata in Ucraina, della notte dei "poeti assassinati", della persecuzione degli artisti non appiattiti sul realismo sovietico e così via fino alla Cecenia o all'Afganistan. Cioè non possiamo dimenticarci dell'imperialismo russo. La polemica contro questa mozione, quindi, pur fra molti distinguo, finisce con il dare l'impressione di non sapere o volere rifiutare adeguatamente gli orrori dello stalinismo, rischiando di trasmettere l'idea di non sapere o volere distinguere il comunismo, che nei paesi occidentali ha dato un suo contribuito alla liberazione e alla nascita delle democrazie postbelliche, dal regime sovietico che la nascita delle democrazie l'ha impedita, pur avendo dato un contributo essenziale alla sconfitta del nazismo. Portando così acqua al mulino dei molti pensatori di destra che fanno polemicamente, per proprio tornaconto politico, un'equiparazione tra il comunismo democratico dei paesi occidentali e quello sovietico, in cui ogni libera espressione di pensiero fu passibile di processi, carcerazione, torture e gulag. Molto più opportuno sarebbe stato cogliere l'occasione per evidenziare ancor più le differenze, difendendo il comunismo "democratico" per quello di buono che ha fatto, distinguendolo nettamente dal totalitarismo sovietico di stampo stalinista. Insomma, in un momento in cui si riaffaccia (proprio dalla Russia) l'idea di sostituire la democrazia liberale con una democratura illiberale, confondersi su questo punto si direbbe l'ultima cosa da fare se si vuole salvare un'idea di sinistra possibile (e democratica).
TRASBURGO. L’Ue si accorge dei crimini comunisti. Sì alla risoluzione che accomuna e condanna stalinismo e nazismo. Polemiche dai nostalgici italiani. Ma anche il gruppo socialista ha votato a favore. Manuel Fondato su Il Tempo il 22 Settembre 2019. Non ha avuto ampio risalto mediatico ma il 19 settembre 2019 una risoluzione del Parlamento europeo ha di fatto messo sullo stesso piano il nazifascismo e il comunismo. La storia da tempo aveva emesso il suo giudizio inappellabile sui regimi totalitari che oppressero e sterminarono milioni di persone, ma, essendo stati i sovietici tra i vincitori della seconda guerra mondiale, c’è voluto più tempo a fare luce sui crimini firmati falce e martello. Strasburgo ha invece approvato con larga maggioranza una risoluzione dal titolo «Importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa». Sono stati 535 i favorevoli, 66 i contrari e 52 gli astenuti. Si sono espressi a favore in particolare il gruppo del PPE, di cui fa parte anche Forza Italia, il gruppo Identità e Democrazia a cui aderisce la Lega, il gruppo dei Conservatori e Riformisti di cui fa parte Fratelli d’Italia e anche quello dei Socialisti e Democratici di cui è membro il PD. Tutti i parlamentari italiani di tali gruppi presenti in aula ieri, risultano aver votato sì. Il testo della risoluzione, che ha già fatto storcere la bocca a molti è piuttosto lungo e articolato. Comprende anche un tuffo nel recente passato europeo, rievocando il cinico patto Molotov-Ribbentrop, i suoi protocolli segreti, l’impatto che ebbe la scellerata, seppure temporanea, alleanza tra Hitler e Stalin.
Il mostro storico del «rovescismo» unisce il Pd e Orbán. Parlamento Ue. La risoluzione che equipara nazifascismo e comunismo, approvata a larghissima maggioranza grazie anche ai voti di popolari e "socialisti", con temerario sprezzo della verità attribuisce paritariamente la responsabilità della Seconda Guerra mondiale alla Germania di Hitler e alla Russia sovietica. Angelo d'Orsi su Il Manifesto il 26 settembre 2019. La risoluzione del Parlamento europeo, fondata sulla equiparazione tra nazifascismo e comunismo, rappresenta insieme un mostro storico e una bestialità politica. Ma è anche una clamorosa conferma della superfluità “esistenziale” di questo organismo. Se davvero si vuole una Europa unita, e se la si vuole come si dovrebbe, rifare a fundamentis, il Parlamento europeo sarà semplicemente da eliminare. Un gruppo di signori, godenti di privilegi, che hanno poco o nulla da fare nella vita, sono riusciti a formulare un testo basato su un modesto imparaticcio scolastico, senza capo né coda, un documento lunghissimo, farcito di premesse, di riferimenti interni alla legislazione eurounitaria, ma ahinoi, purtroppo, anche con una serie di ragguagli che pretendono di essere storici, ma sono un esempio di revisionismo ideologico all’ennesima potenza: insomma, il mai abbastanza vituperato «rovescismo», fase suprema del revisionismo, ed è il frutto finale di un lungo lavorio culturale, che dalle accademie è trapassato nel dibattito pubblico, tra giornalismo e politica professionistica. Il rovescismo riesce a produrre esiti a cui il revisionismo tradizionale non ha avuto il coraggio di spingersi: questo documento è un esempio preclaro di questi esiti. La linea di fondo, che il rovescismo ha raggiunto, e di cui in Italia abbiamo avuto numerose manifestazioni, è il rovesciamento della verità storica, sulla base di un equivoco parallelismo, che ha illustri precedenti nella filosofia politica, tra fascismo e comunismo, tra fascismo e antifascismo, tra partigiani e repubblichini (per concentrarsi sul nostro Paese): e questo sulla base della nefasta teoria delle memorie condivise, nel documento “europeo” riproposta al singolare, come fonte della “identità” del Continente, a cui l’organo legislativo di una sua parte, sebbene numerosa, pretende di sovrapporsi. L’Unione europea, sarà opportuno ricordare, non è l’Europa, e il Parlamento della Ue non esprime sentimenti, pensieri, sensibilità e, aggiungo, volontà, di alcune centinaia di milioni di cittadini e cittadine dei 27 Stati aderenti. Ciò detto, la risoluzione, con temerario sprezzo della verità, attribuisce paritariamente la responsabilità della Seconda Guerra mondiale alla Germania nazista e alla Russia sovietica, e in particolare sarebbe la «conseguenza immediata» del Patto Ribbentrov-Molotov, e avendo sottolineato, di nuovo con un esempio di grottesca violenza alla realtà fattuale, che l’istanza unitaria nel Vecchio Continente nasce come risposta alla «tirannia nazista» e «all’espansione dei regimi totalitari e antidemocratici», si richiama alla legislazione di alcuni Paesi membri, che ha già provveduto a «vietare le ideologie comuniste e naziste», e invita gli Stati dell’Ue a prenderli ad esempio. Curiosamente il documento di questi nuovi analfabeti della storia, usa l’espressione «revisionismo storico» per riferirsi esclusivamente al nazismo, e al progetto genocidario insito in esso, e presenta la posizione a cui si ispira come corretta e indubitabile, al punto da pretendere di diventare legge. E la proposta cui giunge questo mirabile esempio di menzogna storica, e insieme di miseria politica e di bassezza morale, quale è mai? La sollecitazione agli Stati membri a provvedere a condannare i «crimini dei regimi totalitari comunisti e dal regime nazista», e di conseguenza a «formulare una valutazione chiara», che traduca praticamente questa raccomandazione. Ossia, evitare la diffusione e la presenza e la circolazione nei relativi Paesi di ideologie e simboli che richiamino nazismo e comunismo. Insomma, è una Europa polonizzata e magiarizzata e ucrainizzata: l’Europa che dimentica il ruolo fondamentale della Russia, a cui viene sì attribuito l’etichetta di Paese martire, ma non certo quello, confermato da ogni ricerca storica, di barriera al nazifascismo. E il documento, che pare ispirato direttamente da tedeschi polacchi e ungheresi, si apre a parole di dolce accoglienza nel seno della famiglia dell’Europa “democratica” dei Paesi liberatisi dal giogo sovietico. E, incredibilmente, si precisa: «adesione all’Ue e alla Nato», con una inaccettabile confusione di europeismo e atlantismo. Ebbene, questo documento è stato approvato con i voti della destra di Orbán e soci, ma anche dei popolari e dei “socialisti”, ivi compresi gli esponenti del Pd. Che con questo atto ha segnato la sua definitiva fuoruscita dal campo della sinistra internazionale, ma altresì dal campo della decenza e della dignità.
Da la Repubblica del 25 sett. 2019. L’amaca. Con buona pace di Machiavelli, di Michele Serra. Il comunismo fu totalitario per imporre l’uguaglianza tra tutti gli uomini e l’internazionalismo. Il nazismo fu totalitario per imporre la superiorità di una nazione e di una razza e sancire l’inferiorità delle altre. Questa gigantesca differenza basta a sconsigliare ogni equiparazione tra le due ideologie, e soprattutto tra le persone che ne presero le parti. Ma non basta, ahimé, a cancellare i lutti e le privazioni causate “a fin di bene” dal comunismo. Nel nome del Bene si possono infliggere torti, punizioni e mutilazioni psicologiche inaccettabili: la storia delle religioni ne è tragica testimonianza. È con gli inquisitori di tutte le Chiese, non certo con i gerarchi nazisti, che dunque può valere, con i dovuti distinguo, l’accostamento. Ovviamente la violenza perpetrata nel nome del Male, ovvero della sopraffazione, del razzismo e dell’odio (tale fu, spesso con esplicita rivendicazione, la violenza nera: e lo è ancora) è doppiamente orribile. Ma quella perpetrata nel nome del Bene è doppiamente ingiustificabile, perché ha finito per rendere insopportabile un fine nobile e magnifico (gli uomini sono tutti uguali). Lo sperpero di quel fine nobile è, a conti fatti, la colpa più imperdonabile del comunismo. I mezzi corrompono il fine, con buona pace di Machiavelli. C’è un’ulteriore differenza. La dico perché conta molto, più di qualunque delibera politica. Un essere umano che si lascia affascinare da un’utopia egualitaria è, in molti casi, una persona generosa. Un essere umano che si lascia affascinare da un progetto di sterminio, in genere è una persona ripugnante.
Ugo Intini (socialista): «Il fascismo e il comunismo sono dogmi fautori di disastri. L’antidoto è lo spirito critico». Giulia Merlo il 25 Settembre 2019 su Il Dubbio. Intervista a Ugo Intini sulla risoluzione del Parlamento Europeo che equipara il Terzo Reich al regime sovietico. Le lenti dell’ideologia sono ancora ben calate sul naso dell’Italia, parola di Ugo Intini. Lo storico esponente del Partito Socialista Italiano e teorico dell’importanza dell’identità, bolla le polemiche italiane come «ipocrisie» e promuove la risoluzione dell’Europarlamento che equipara e condanna nazifascismo e comunismo.
Serviva una risoluzione del genere?
«A mio parere sì. Il Parlamento europeo fa bene a chiarire la nostra identità e le basi culturali e storiche dell’unità europea. Un’unità che, per altro, dovrebbe essere politica e ancora non è».
In che modo equiparare nazifascismo e comunismo chiarisce la nostra identità di europei?
«La risoluzione dice che noi come europei siamo in antitesi sia con il comunismo che con il nazifascismo. Mi sembra un punto fondamentale dell’identità europea: posso capire che noi europei siamo troppo immersi in noi stessi per vederlo, ma per l’esterno è una considerazione fondamentale. Le faccio un esempio: i Canadesi sono orgogliosi di dire che sono americani europei perché, a differenza degli Stati Uniti, hanno in tasca non la pistola ma la tessera sanitaria. Una è simbolo di intolleranza e pena di morte; l’altra il simbolo dello stato sociale. Le pare poco?»
Tra le critiche, c’è il fatto che il testo sia eccessivamente semplicistico.
«Non ho letto semplificazioni, perché ogni cosa scritta è corretta. E’ chiaro che si potrebbe ulteriormente approfondire, ma in Italia una risoluzione del genere cozza con un nostro endemico conservatorismo storico».
Cosa intende?
«A Roma c’è viale Palmiro Togliatti, a Torino via Stalingrado. In Italia i due totalitarismi sono stati si condannati, ma i loro eredi – sia comunisti che fascisti – sono diventati forze di governo. Questo ci rende molto arretrati».
L’Italia, come sempre, fa eccezione?
«Diciamo che l’Italia è molto ipocrita. Tra il 1992 e il 1994, quelli che storicamente avrebbero dovuto essere condannati hanno preso il potere, mentre i partiti democratici sono stati cancellati. Comunisti e fascisti hanno cambiato nome, ma le persone sono rimaste le stesse».
Insomma è ancora politica e non già storia?
«Diciamo che sono questioni su cui si ragiona con difficoltà. Io ne so qualcosa: pensi che ancora oggi vengo chiamato Ugo Palmiro. Una presa in giro per rimproverarmi di essere stato un assalitore frontale del mito di Togliatti, sostenendo che fosse complice dei crimini di Stalin, in quanto suo consigliere».
Ma questi due totalitarismi si assomigliano davvero?
«Si somigliano molto. Nazifascismo e comunismo hanno in comune l’intolleranza per la libertà individuale e i diritti umani e non è stato infrequente il passaggio di persone da uno all’altro. Nel dopoguerra, moltissimi intellettuali fascisti sono diventati comunisti. Un caso tragico è stato quello di Nicola Bombacci, che negli anni Venti fu dirigente della sinistra socialista, poi fondò il Pci, nel ventennio divenne fascista e fu ministro della Repubblica di Salò, per finire i suoi giorni a piazzale Loreto. Si potrebbe ragionare anche sul fatto che la destra estrema oggi abbia particolare successo in Paesi ex comunisti, come Ungheria, Polonia e Germania orientale».
Il mondo ex comunista, però, si è molto indignato.
«La verità è che il totalitarismo sovietico per alcuni aspetti è stato peggio di quello nazifascista: ha fatto molti più morti, per esempio. Anzi, i comunisti hanno ucciso più comunisti di chiunque altro. Per altri aspetti, invece, è stato meglio: il marxismo è stato la base culturale della socialdemocrazia e i suoi fondamenti morali sono rispettabili. In Italia e in tutto l’Occidente i comunisti erano persone per bene che, ad eccezione di Togliatti, non conoscevano gli scempi condotti in Urss. Inoltre, il comunismo non è stato solo un fallimento, basti pensare ai casi della Cina o del Vietnam».
Quindi non condanna in toto il comunismo?
«Dico che il dubbio dovrebbe venire. La democrazia ha la coscienza a posto per condannare i due totalitarismi? Comunismo e nazifascismo sono il risultato della carneficina che fu la Prima Guerra Mondiale, provocata proprio dall’irrazionalità delle democrazie europee di quel tempo».
Il muro di Berlino è crollato trent’anni fa: eppure in Italia il tema delle ideologie novecentesche torna di continuo.
«Le ragioni sono due. La prima è che l’Italia è un paese di vecchi, dunque tende a considerare vicine anche cose ormai distantissime. E’ la vecchiaia della popolazione a facilitare questa nostra tendenza a guardare indietro e non avanti. La seconda è che siamo il Paese occidentale meno scolarizzato e con la più bassa percentuale di laureati, dunque esiste grande ignoranza. E’ amaro dirlo, ma è così. E guardi che questo non influenza solo il dibattito politico. Che motore di sviluppo può avere un paese di vecchi in cui i giovani sono poco istruiti? Ecco spiegata la nostra crisi».
A proposito di ideologie: Matteo Renzi, nel lasciare il Pd, ha detto che non si riconosce in un partito dove si canta ancora Bandiera rossa.
«Anche qui siamo nel campo delle ipocrisie. A me, che comunista non sono mai stato e anzi ho condotto dure battaglie contro l’ideologia comunista, non dà affatto noia che si canti Bandiera rossa. Anzi, mi fa piacere perché è un canto popolare di compagni generosi che credono in un ideale. Altro che Bandiera rossa, il problema del Pd è che è ancora fulgido il mito di Enrico Berlinguer».
I problema sono i miti del comunismo?
«Per fortuna quello di Togliatti è sbiadito. Quello di Berlinguer è ancora vivo, però chi lo celebra dimentica che non era un socialdemocratico ma un comunista, e questa è un’offesa alla sua memoria oltre che alla storia. Bisogna dirlo: Berlinguer era una persona per bene, ma era un comunista. Il guaio di questi miti è che esercitano attrattiva perché è ancora forte lo spirito dogmatico. Ma i dogmi portano al disastro, lo spirito critico al progresso».
Così nazismo e comunismo stuprarono valori antichi. Il primo si radicava nella difesa identitaria, il secondo nell'altruismo. I risultati? Perversi, disumani (e simili). Il Giornale Sabato 05/10/2019. La risoluzione approvata lo scorso 19 settembre ad ampia maggioranza dal Parlamento europeo di Strasburgo, Importanza della memoria europea per il futuro dell'Europa, ha scatenato un po' dovunque, ma soprattutto in Italia, la reazione indignata della cultura politica che vede nella Rivoluzione d'ottobre la continuazione e il compimento del 1789. Quest'ultimo ha proclamato i diritti dell'uomo e del cittadino «astrattamente», elargendo a tutti i Figli della Terra la «libertà negativa», ovvero la facoltà per ciascun essere umano di vivere la sua vita e di fare le sue scelte senza esserne impedito da nessuno; la rivoluzione sovietica, inaugura l'era della «libertà positiva» ovvero del diritto alle risorse concrete che consentono ai cittadini - non più sudditi - di perseguire i loro fini. La libertà positiva rinvia alla «uguaglianza tra tutti gli uomini» che, nell'immaginario collettivo, resta il contrassegno dell'ottobre rosso. Già all'indomani del 1917, all'interno della sinistra, anarchica e marxista (ma anche «liberale»), ci furono, però, correnti (minoritarie, s'intende) che resero omaggio agli impulsi generosi e agli alti ideali che animarono i nemici giurati non dello zar ma del narodnik Alexander Fedorov Kerenskij - che avrebbe voluto trasformare la Russia in una democrazia liberale - ma, nel contempo, criticarono i mezzi impiegati, che sopprimevano la libertà dei dissidenti e degli oppositori. «Il fine è buono» si diceva già un secolo fa «ma i mezzi scelti per realizzarli - il centralismo democratico del partito unico, la dittatura sul proletariato, la polizia segreta, i campi di concentramento per i nemici del popolo - non potevano essere peggiori». Rosa Luxemburg e il «rinnegato» Karl Kautsky, sono tra i critici più noti del leninismo e della sua machiavellica arte di governo. Nei confronti del bolscevismo, continua ancora ai nostri giorni ad adottarsi lo stile di pensiero che aveva già ispirato la condanna dei roghi dell'Inquisizione, delle crociate contro gli Albigesi (si ricordi l'elogio che fa Dante di Domenico di Guzman che «negli sterpi eretici percosse»), dello sterminio di ogni tipo di eterodossia: il tradimento dello spirito evangelico non ne infirma la perenne validità del messaggio. La risoluzione di Strasburgo, per i suoi critici, non solo non distingue il «messaggio» (l'internazionalismo) dai suoi indegni portatori ma fa di peggio: assimila un vino di qualità, il comunismo, degenerato in aceto - per colpa della nomenklatura leninista e stalinista - a un liquido letale - il nazismo - che all'internazionalismo proletario sostituiva l'unificazione del pianeta sotto il dominio della razza eletta imposto col genocidio di tutte le etnie inferiori. Messo in questi termini, considerare comunismo e nazismo come due species distinte di uno stesso genus, il totalitarismo, diviene semplicemente una bestemmia. Ma dobbiamo proprio rassegnarci al politicamente corretto e alla retorica dell'ANPI e compagni?
La mia tesi è che il dogmatismo ideologico renderà difficile ricacciare nell'Erebo le ombre dei due fantasmi totalitari. Non riposeranno in pace finché non si riconoscerà che entrambi si rifacevano a idealità iscritte nell'animo umano e, pertanto, inestirpabili, e che a provocarne l'imbarbarimento, fu l'assolutizzazione dei rispettivi valori, tradotta in un fanatismo violento e spietato, incapace di riconoscerne altri. Le cause storiche e politiche - le crisi istituzionali del primo dopoguerra, le sfide dell'economia, l'inadeguatezza dei partiti e delle classi dirigenti a farvi fronte - che hanno favorito l'ascesa dei due totalitarismi non si possono neppure accennare in questa sede. Ciò che si può dire con sicurezza, invece, è che anche il totalitarismo «nero» aveva un'etica: la difesa della «comunità politica» e delle sue tradizioni dalla disgregazione, la volontà di porre argini alla «perdita di identità» etico-sociale che incombeva sulla Germania sconfitta e sull'Italia solo a metà vincitrice. L'amore della propria terra che si converte in patriottismo crudele e sanguinario, in sterminio degli stranieri interni ed esterni, in dottrina della razza, equivale, per chi non abbia i paraocchi ideologici, alla passione egualitaria che si converte in eliminazione fisica dei borghesi, dei kulaki, dei bianchi. Cosa ci autorizza a pensare che, in un caso, abbiamo a che fare con il boia di Londra, nato tarato, e, nell'altro, col Dottor Jekyll orribilmente sfigurato in Mister Hyde? In realtà, una ragione poi c'è e sta nel fatto che viviamo in un'epoca in cui l'altruismo è un valore sacro e intoccabile mentre la difesa di ciò che siamo, di ciò che è nostro, del nostro habitat materiale e spirituale, diventa non sacro ma profano egoismo, prova di chiusura all'altro e di ottusità etica. In un mondo globalizzato e in un'Italia, che l'8 settembre 1943 ha assistito, alla «morte della patria», si può ben capire come l'universalismo cristiano e quello illuministico, che ne è una versione secolarizzata, abbiano ingenerato «costumi della mente e abiti del cuore» che portano a vedere come immorali quanti ieri si sono battuti pro aris et focis e suscitano oggi l'interesse, se non l'ammirazione, di figli e nipoti. È triste, tuttavia, dover salutare come un progresso morale la perdita della consapevolezza che quelli che non sono più valori per noi, un tempo lo sono stati per molti. Mettere tutti i perdenti nello stesso girone infernale, ignorando che non pochi non esitarono a dare la vita per progetti che, fortunatamente per noi, erano destinati alla sconfitta, significa smarrire il senso della storia e la pietas che ne deriva. Ai tanti fascisti e comunisti, uti singuli, che non si macchiarono di alcun crimine, si deve un profondo rispetto: sacrificarono la loro vita e la loro gioventù come ben pochi di noi sarebbero disposti oggi a fare anche per cause ben più nobili delle loro. Al contrario, il fascismo e il comunismo, in quanto perversioni totalitarie di virtù antiche vanno riguardati, assieme ai fondamentalismi religiosi che insanguinano i cinque continenti, come nemici mortali delle democrazie liberali e il fatto che lo si ricordi a Strasburgo è un raggio di sole negli anni incerti e bui che stiamo vivendo.
Ma i compagni hanno davvero letto Marx? No. Statalismo ed economia concentrazionaria sono già negli inequivocabili scritti del filosofo. Giampietro Berti, Sabato 05/10/2019, su Il Giornale. Risibili sono tutte quelle spiegazione storiografiche, politiche e filosofiche che hanno inteso dimostrare l'estraneità di Marx alla realizzazione effettiva del «socialismo reale». È stato detto infatti che l'abolizione della proprietà privata e l'abolizione del mercato non comporterebbero, di per se stesse - nella purezza originaria della dottrina -, la collettivizzazione integrale dei mezzi di produzione e di scambio; ancor più che la pianificazione statalizzante di tutta l'economia non sarebbe stata teorizzata dal pensatore di Treviri, essendo un'indebita sovrapposizione leninista e stalinista. Sono affermazioni prive di ogni riscontro, provenienti quasi sempre da una scarsa conoscenza dei «sacri testi» (e qualche volta di una loro intenzionale manipolazione o obliterazione). È necessario, perciò, farli parlare, considerando solo quanto ha detto Marx. Ecco dunque le inequivocabili parole dell'autore del Capitale: occorre «accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato» (Manifesto del partito comunista) perché «la figura del processo vitale sociale, cioè del processo materialistico di produzione, si toglie il suo mistico velo di nebbie soltanto quando sta, come prodotto di uomini liberamente uniti in società, sotto il loro controllo cosciente condotto secondo un piano» (Il Capitale, Libro I). «La società ripartisce, secondo un piano, i suoi mezzi di sussistenza e le sue forze produttive nel grado e nella misura in cui sono necessari al soddisfacimento dei suoi diversi bisogni, così che ogni sfera di produzione riceve la quota di capitale sociale necessario a soddisfare il bisogno a cui essa corrisponde» (Teorie sul plusvalore). «Economia di tempo e ripartizione pianificata del tempo di lavoro di diversi rami della produzione rimangono la prima legge economica sulla base della produzione sociale (ovvero della società socialista, ndr)» (Lineamenti fondamentali dell'economia politica). «La società ripartisce forza-lavoro e mezzi di produzione nelle diverse branche» (Il Capitale, Libro II). «È solo quando la società controlla efficacemente la produzione, regolandola in anticipo, che essa crea il legame fra la misura del tempo di lavoro sociale dedicato alla produzione di un articolo determinato e l'estensione del bisogno sociale che tale articolo deve soddisfare» (Il Capitale, Libro III). «Nella società socialista la distribuzione del tempo di lavoro, compiuta socialmente secondo un piano, regola l'esatta proporzione delle differenti funzioni lavorative con i differenti bisogni» (Il Capitale, Libro I). «Dopo che si è eliminato il modo di produzione capitalistico, la determinazione di valore continua a dominare, nel senso che la regolazione del tempo di lavoro, la distribuzione del lavoro sociale e infine la contabilità a ciò relativa, diventano più importanti che mai» (Il Capitale, Libro III). Il modo di produzione socialista deve esprimersi come «una sola forza-lavoro sociale» (Il Capitale, Libro I), per cui sarà «in grado di opporre i lavori individuali non più come parti costitutive del lavoro complessivo attraverso un processo indiretto, ma in modo diretto» (Critica del programma di Gotha). I concetti cardinali del collettivismo pianificatore - accentramento «di tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato», «regolazione del tempo di lavoro ripartizione pianificata», «distribuzione del lavoro sociale», «produzione regolata in anticipo compiuta socialmente secondo un piano una sola forza-lavoro sociale», «esatta proporzione delle differenti funzioni lavorative con i differenti bisogni», «legame fra la misura del tempo di lavoro sociale dedicato alla produzione di un articolo determinato ed estensione del bisogno sociale che tale articolo deve soddisfare», «contabilità relativa» - vale a dire i concetti che troveranno il loro logico sviluppo nel regime statocratico e concentrazionario del «socialismo reale», sono dunque le autentiche e inequivocabili indicazioni date da Marx per realizzare il passaggio dalla società capitalista alla società socialista. La catastrofe del comunismo non è dovuta all'errata attuazione empirica dei suoi princìpi, ma, al contrario, alla loro più esatta osservanza.
Nazismo e comunismo disgrazie parallele. Marcello Veneziani, La Verità 25 settembre 2019. Allora, contenti che il comunismo e il nazismo siano stati accomunati ed equiparati in una risoluzione di condanna del parlamento europeo votata a larga maggioranza, a partire dal centro-destra ma con quasi tutto il Pd? Contenti che la sinistra inossidabile, i residui comunisti, l’Anpi, abbiano reagito con rabbia al paragone “blasfemo” tra i due regimi totalitari? Sì, finalmente, dopo decenni di memoria e di condanna a senso unico, si ricordano gli orrori e le atrocità del comunismo. Per troppi anni c’è stata troppa indulgenza nei confronti del comunismo, troppe rimozioni, amnesie, omertà in suo favore. Però c’è qualcosa che non convince, che non ci piace in questa risoluzione dell’europarlamento. Ma andiamo con ordine. Dunque per cominciare, il totalitarismo comunista, da Lenin a Stalin, a Mao e agli altri comunismi, non ha nulla da invidiare in fatto di atrocità, vittime e persecuzioni al totalitarismo nazista di Hitler. Anzi, per la verità storica, il comunismo è un fenomeno molto più vasto che ha mietuto molte più vittime del nazismo e ha occupato un arco di tempo più vasto: il comunismo andò al potere molto prima del nazismo e morì molto dopo, durò tre quarti di secolo mentre il nazismo solo un dodicennio; lo patirono più paesi, più popoli, più continenti. I suoi massacri non avvennero in tempo di guerra come per il nazismo ma in tempo di pace e le sue vittime principali furono i suoi stessi popoli. Fu un totalitarismo più radicale del nazismo nel controllo capillare dei cittadini e nella repressione del dissenso; a differenza del nazismo non lasciò spazio alla religione, alla borghesia, alla proprietà privata e al capitale. A differenza del nazismo e del fascismo, non crollò perché sconfitto in guerra, ma crollò su sé stesso in tempo di pace, crollò per il proprio fallimento sociale, economico e politico. Naturalmente anche col comunismo non si deve fare di ogni erba un fascio: Peppino Di Vittorio non è Giuseppe Stalin, Antonio Gramsci non ha le gravi colpe storiche di Palmiro Togliatti, ma solo ideologiche; ci furono tanti comunisti in buona fede, animati dalla sincera, fervente speranza nella giustizia sociale e nella difesa dei più deboli, dei più poveri. Le colpe del nazismo sono diverse e non certo migliori. Trascinò il mondo nella catastrofe della Seconda guerra mondiale, di cui non fu l’unico responsabile ma certo il principale. E dentro quella catastrofe perpetrò l’orrore dei campi di sterminio degli ebrei. Il nazismo fu l’irruzione nel cuore dell’Europa, della sua civiltà e della sua cultura, di una barbarie razzista, militarista e totalitaria che per efferatezza può paragonarsi solo ai regimi comunisti. E colpa ulteriore del nazismo fu quella di avvelenare principi, esperienze e parole nobili legate al sangue, al suolo, alle radici, alle nazioni, ai popoli con il suo fanatismo, le sue atrocità e la sua volontà di predominio. Arrivò a contaminare culture, autori, correnti di pensiero, da quella conservatrice-rivoluzionaria a quella nietzscheana. Si deve distinguere tra nazismo e fascismo e anche al loro interno non si deve fare d’ogni erba un fascio ma distinguere situazioni, casi, persone. Da tempo propongo di usare un criterio etico ad personam: merita rispetto chi da fascista, da comunista, da nazionalsocialista, da anarchico, lo fu sulla propria pelle; merita disprezzo chi lo fu sulla pelle degli altri. La comparazione col comunismo è su un piano inclinato ma il nazismo fu replica al comunismo, un fenomeno di reazione preventiva ed imitazione: il nazismo sostituì l’odio di razza all’odio di classe dei comunisti, tradusse in naturalismo biologico il materialismo storico, sostituì la dittatura nel nome del popolo tedesco alla dittatura nel nome del proletariato mondiale. Insomma nazismo e comunismo sono una coppia asimmetrica, ma sono due esperienze diversamente nefaste. Perché allora non mi convince la risoluzione europea? Non mi convince che il parlamento europeo si occupi del passato solo per condannarlo, mai per difendere e valorizzare la civiltà europea, le sue tradizioni, le sue matrici. Non mi convince che la storia non sia lasciata ai giudizi storici ma sia affidata ai giudizi etici, morali e giudiziari. Non mi convince che un Parlamento debba decretare i confini della memoria storica e le sue interdizioni. Non mi convince che la demonizzazione del passato e di ogni provenienza sia usata per legittimare la bontà e la superiorità, anzi l’insuperabilità del presente. La sottomissione della politica all’economia, della storia alla tecno-finanza. Leggendo poi l’articolato della risoluzione si capisce che mira a colpire il revisionismo storico, i monumenti, Putin, il vero e presunto neofascismo...E non mi piacciono, infine, i processi di Norimberga, neanche quelli ventilati a proposito del comunismo. Norimberga fu un abominio giuridico, storico e umano, perché processava i vinti, già condannati e distrutti sul campo. Reputo aberrante che si sostituiscano alle categorie militari, pur crude, di amico e nemico, le categorie pseudoreligiose di Bene e Male, col sottinteso che il nemico sia il diavolo, la bestia, il male assoluto e perciò non vada sconfitto ma eliminato, annientato. E che l’annientamento diventi perciò impresa umanitaria e operazione di polizia criminale. Insomma, la risoluzione europea ci fa fare un gran passo avanti ma anche qualche piccolo passo indietro. Un’Europa incapace di fronteggiare lo scenario mondiale, le superpotenze, i commerci, i flussi migratori; incapace di garantire i confini e proteggere le economie nostrane, le sovranità nazionali, popolari, politiche; ma solerte a condannare i morti e disseppellire il passato. Giusto condannare il comunismo come il nazismo ma dall’Europa oggi vorremmo altro che riguarda la nostra vita presente e futura, piuttosto che la damnatio memoriae. MV, La Verità 25 settembre 2019
L’ingiusta accusa ad Antonio che «voleva uccidere Mao» con un mortaio arrugginito. Pubblicato lunedì, 23 settembre 2019 su Corriere.it da Guido Santevecchi, corrispondente da Pechino. Nel 70esimo della Rivoluzione, la storia dell’italiano. PECHINO Ci sono molte ombre, milioni di fantasmi nei settanta anni di storia della Repubblica popolare cinese che si celebrano il primo ottobre. Le immagini sgranate di uno di quegli spettri si trovano nel Museo della polizia di Pechino: si chiamava Antonio Riva, italiano nato a Shanghai ed ex capitano durante la Grande Guerra. Fu arrestato il 26 settembre del 1950, con l’accusa di aver preparato un attacco sulla Piazza Tienanmen per l’1 ottobre, prima festa della nuova Cina maoista. Abitava in Vicolo della Pioggia dolce a Pechino, un hutong accanto alla Cattedrale di San Giuseppe e a Wangfujing, la strada piena di negozi dove oggi passa ogni turista italiano, senza sapere. Secondo la polizia comunista, Antonio Riva e i suoi complici volevano uccidere Mao Zedong con un proiettile di mortaio mentre teneva il discorso celebrativo dalla tribuna che domina Tienanmen, proprio come farà Xi Jinping martedì prossimo. Ci fu una retata politica di «controrivoluzionari al soldo di potenze straniere» nel Vicolo della Pioggia dolce quel giorno tiepido di fine settembre 1950, l’ex ufficiale italiano venne trascinato via lasciando indietro soli la moglie americana e quattro figli. Lo fecero tornare a casa per un sopralluogo mesi dopo: era diventato un vecchio scheletrico, con la barba lunga e bianca. Fu giustiziato con un colpo alla nuca il 17 agosto del 1951. Riva era nato a Shanghai nel 1896, figlio di un commerciante di seta lombardo. Nel 1911 era stato mandato a studiare in Italia, poi si era arruolato e come capitano di aviazione aveva volato con Francesco Baracca, abbattendo sette aerei nemici e guadagnandosi una medaglia d’argento al valore. Fascista della prima ora, era tornato in Cina e su presentazione di Galeazzo Ciano, allora console generale a Shanghai, era diventato istruttore dei piloti cinesi. Era stato anche tra i consiglieri militari del governo nazionalista di Chiang Kai-shek, sconfitto nella guerra civile da Mao. Ma l’avventuroso italiano era rimasto a Pechino all’arrivo dei comunisti, anche se per il suo passato era tenuto sotto sorveglianza. Serviva un complotto internazionale al Partito, in quel 1950 di crisi e isolamento: fu scelto Li Andong, nome mandarino di Antonio Riva. Certo, è possibile che quello straniero alto ed elegante nel 1950 fosse entrato in contatto con agenti stranieri, con lui fu arrestato un vicino di casa giapponese, Ryuchi Yamaguchi e il rappresentante del nunzio apostolico in Cina, monsignor Tarcisio Martina (liberato anni dopo); ed era amico di un colonnello americano per esempio, ma non progettava di uccidere Mao sulla Tienanmen, non era un pazzo e sapeva benissimo di essere controllato. Decenni dopo, all’epoca della Grande apertura, un ex ufficiale di polizia cinese coinvolto del caso ammise la montatura («quel complotto ce lo siamo inventato noi, le prove erano fabbricate») parlando con Barbara Alighiero, prima corrispondente dell’Ansa e poi direttrice dell’Istituto di cultura italiano a Pechino. Barbara Alighiero ha dedicato al caso un libro molto documentato, «L’uomo che doveva uccidere Mao», ed è una storia che merita di essere ricordata, perché parla di un italiano innamorato della Cina che cadde vittima di una macchinazione politica. Sono andato al Museo della polizia di Pechino, installato nella sede di una ex banca giapponese nel vecchio Quartiere delle Legazioni a fianco di Tienanmen, e tra i memorabilia degli atti eroici e delle grandi operazioni condotte con successo nei 70 anni di Repubblica popolare ci sono le foto di Riva, allineato con gli altri prima di essere «giustiziato», del suo tesserino di ufficiale e dell’arma che avrebbe dovuto usare per l’attentato: un affusto di mortaio, solo un vecchio tubo arrugginito che lui teneva in casa e usava da portaombrelli. Nelle didascalie sulla bacheca gli hanno sbagliato il nome, è diventato «Anonia Riva», alias Li Andong. Dicono che anni fa era esposto il «vero» mortaio, prova regina dell’accusa. Ma pare che i curatori del museo si siano resi conto che era davvero un vecchio residuato bellico, inutilizzabile per bersagliare Mao o chiunque altro e così lo hanno tolto di mezzo.
PER L'ITALIA IL FASCISMO ERA L'EQUIVALENTE DEL COMUNISMO PER LA RUSSIA. Giuseppe Scaraffia per “il Venerdì - la Repubblica” il 24 giugno 2019. “Ti porterò a cena in un posto curioso, dove ognuno si serve da sé. Cucina internazionale. Forse ci troverai anche lo ci, anche se immagino che tu dei cavoli ne abbia fin sopra i capelli!», aveva annunciato Elsa Triolet a Vladimir Majakovskij nel giugno 1925. Il locale era un ristorante costoso, Voisin, al 261, rue du Faubourg Saint-Honoré, celebre per avere servito la sera di Natale 1870, durante la carestia della Comune di Parigi, un menu con il lupo, l' elefante, l' antilope e il cammello provenienti dal giardino zoologico. Era stata Elsa, 29 anni, a riconoscere Filippo Tommaso Marinetti, 49, mentre stava firmando autografi agli ammiratori, seduto vicino al pittore futurista Fillia a una delle tante manifestazioni dell' Exposition Internationale des Arts décoratifs et industriels modernes. I due poeti non si vedevano dal 1914, quando l' italiano era andato in tournée in Russia per mettere in collegamento i futuristi delle due nazioni. Ma, ipotizza Gino Agnese nel suo penetrante libro Marinetti-Majakovskij. 1925. I segreti di un incontro (Rubbettino), forse non si trattava solo di una rimpatriata tra avanguardisti ormai affermati. Forse il russo sperava di recuperare l' italiano, deluso dal fascismo quanto lui dal comunismo. Forse l' incontro era stato caldeggiato dai potenti servizi segreti sovietici. Non era stato facile trovare una data per quella cena. Il russo infatti era finalmente riuscito a ottenere un visto per l' America. I grattacieli e la modernità degli Stati Uniti lo attraevano irresistibilmente, anche se l' assenza di rapporti tra gli States e l' Urss l' avrebbe costretto a passare per il Messico. Marinetti era alto, ma sembrava piccolo vicino al gigantesco Vladimir Majakovskij. I grandi occhi chiari della minuta, graziosissima Elsa nascondevano la determinazione con cui avrebbe scalato la vita culturale francese. In quei giorni però era solo un' esule dall' Urss e soprattutto la sorella dell' amante in carica di Majakovskij, Lili Brik. Estremamente realista, Elsa aveva saputo dimenticare che Lili le aveva rubato Vladimir, con cui aveva mantenuto un' amorosa amicizia. Era lei che lo accompagnava in uno dei più lussuosi negozi di Parigi, "Old England", dove il rivoluzionario comprava valigie speciali per i suoi giri di conferenze, nonché camicie, cravatte, calzini e persino una doccia da viaggio. Majakovskij, trentadue anni, aveva l' ossessione della pulizia. Nei caffè beveva da una cannuccia per non toccare il bicchiere con le labbra, e aveva con sé un portasapone per lavarsi dopo avere stretto la mano di qualcuno. Entrambi erano calvi, l' italiano da sempre, il russo per libera scelta. Visti da lontano, in quella cornice lussuosa, potevano facilmente essere scambiati per dei normali borghesi. Marinetti non esibiva più con fierezza patriottica un calzino verde e uno rosso, preferendo ormai la sobrietà che consigliava ai futuristi: «Vestire un abito anonimo, possibilmente di sera uno smoking. Niente fiori all' occhiello, niente guanti». Majakovskij non era più il dandy in cilindro e camicia gialla di dieci anni prima. Gli scarponi chiodati da mugik, che l' avevano fatto soprannominare da Marina Cvetaeva l'«arcangelo dal passo pesante», erano stati sostituiti da morbide calzature. Un dandy francese, ex-marito di Elsa, gli aveva consigliato un sarto a cui Vladimir mandava disegni per abiti che avrebbero dovuto correggere i suoi difetti. Voisin offriva vini pregiati e non erano più i tempi in cui, a Mosca, Marinetti aveva dovuto dimostrare ai futuristi russi che anche nel bere gli avanguardisti italiani potevano primeggiare, vuotando quattro bottiglie una dopo l' altra. Sicuramente non si sarebbe abbandonato a "gioie futuriste", distruggendo i piatti come al matrimonio di Gino Severini. Ma anche i dialoghi sembravano avere smarrito la loro spontaneità. Il russo aveva con sé un questionario in francese, per fronteggiare l' eloquenza torrenziale dell' italiano. Erano nove punti destinati a mettere in luce le contraddizioni tra il passato eversivo del futurismo e il suo crescente inserimento nei meccanismi di potere del nuovo regime. Ma il tono burocratico del testo non poteva piacere a Majakovskij, anche se probabilmente ne condivideva la sostanza. Tra gli atti d' accusa della "velina" c' era una nota di speranza. «È vero che nel presentare la vostra esposizione alla "Scuola di cultura proletaria" di Milano avete dichiarato che i proletari comprendono il futurismo meglio dei borghesi d' Italia?». Per poi stringere: «Non vi pare che da questa frase si dovrebbe concludere: l' organizzazione borghese è un ostacolo allo sviluppo della civiltà?». Baffi elettrici, voce rauca, occhi mobilissimi, "Effetì", come si faceva chiamare, cercò di persuadere il riluttante Majakovskij che per l' Italia il fascismo era l' equivalente del comunismo per la Russia, senza riuscirci. Prima di separarsi, Marinetti scrisse sul taccuino di Vladimir: «Al caro Majakovskij e alla grande Russia - energica e ottimista- i miei auguri futuristi». Per poi aggiungere sulla pagina seguente: «Al grande spirito innovatore che anima la Russia: non si esaurirà! La nostra anima futurista italiana non si fermerà». Quando, anni dopo, Vittorio Strada rievocò quella cena con Lili Brik, azzardando che doveva esserci un motivo se i due futuristi avevano aderito al totalitarismo, lei si limitò a rispondergli: «Erano due rivoluzionari».
· Le scissioni Social-fascio-comuniste. Da Mussolini a Renzi.
Partito socialista italiano. Dizionario di Storia (2011) Treccani. Partito socialista italiano (PSI) Partito politico italiano, fondato nel 1892 e sciolto nel 1994. Già all’inizio degli anni Ottanta dell’Ottocento il movimento operaio italiano cominciò a dotarsi di organizzazioni politiche, dal Partito socialista rivoluzionario di Romagna di A. Costa al Partito operaio italiano di C. Lazzari. Sulla base di quest’ultima esperienza, e più ancora della Lega socialista milanese di F. Turati, a Genova, nell’agosto 1892, venne fondato il Partito dei lavoratori italiani, che l’anno successivo inglobò anche il Partito socialista rivoluzionario, assumendo prima il nome di Partito socialista dei lavoratori italiani, e poi (1895) quello di Partito socialista italiano.
Il PSI dalla fondazione alla Resistenza. Fin dalla nascita, dunque, il PSI riunì al suo interno diverse componenti politico-culturali, da quella riformista con agganci al marxismo di Turati al rivoluzionarismo di A. Costa, ai prosecutori delle tradizioni anarchiche e repubblicane, dalle quali ultime ereditò una certa venatura anticlericale; l’adesione al marxismo e l’attenzione al dibattito teorico, peraltro, furono piuttosto superficiali, nonostante il lavoro svolto in tal senso da Antonio Labriola. Il partito si sviluppò rapidamente, radicandosi in particolare nel Centro-Nord e conquistando le posizioni più forti non tanto nelle grandi città o nel proletariato industriale, quanto in provincia, nella Pianura padana e tra le masse contadine che andavano organizzandosi in leghe e cooperative. Sul piano politico generale, sotto la guida della corrente riformista di Turati (1900-12), il PSI si ritrovò spesso alleato delle altre forze della sinistra «estrema» sul piano parlamentare, ossia radicali e repubblicani, diventando anche un interlocutore del governo Giolitti (1902-04), nel quadro del tentativo dello statista liberale di integrare il movimento operaio. Contro questa tendenza si aggregarono le correnti di sinistra interne al partito, quella intransigente di Lazzari ed E. Ferri e quella sindacalista-rivoluzionaria di Arturo Labriola, le quali col Congresso di Bologna del 1904 assunsero la direzione del partito, rendendolo parte attiva nel primo sciopero generale della storia italiana (settembre 1904). Poco dopo, mentre il movimento sindacale si organizzava nella Confederazione generale del lavoro (CGDL), i riformisti riconquistavano la guida del partito, determinando la fuoriuscita dei sindacalisti rivoluzionari dal PSI (1907), mentre avanzava la corrente di I. Bonomi e L. Bissolati, mirante alla trasformazione del partito in una forza di tipo laburista. Tuttavia la guerra di Libia, dal chiaro impianto colonialista, alla quale Bonomi e Bissolati guardavano con favore, mentre la sinistra di A. Bordiga sviluppava un’intensa propaganda antimilitarista, determinò l’espulsione dal PSI dei primi (che fondarono il Partito socialista riformista italiano) e la vittoria della corrente massimalista, nella quale emergeva B. Mussolini, mentre nuovo segretario del partito divenne lo stesso Lazzari (Congresso di Reggio Emilia, 1912). Lo scoppio della Prima guerra mondiale rimescolò ancora le carte: Mussolini passò nelle file del cosiddetto «interventismo rivoluzionario», e pertanto fu dimissionato da direttore dell’Avanti! e poi espulso dal partito; Bonomi e Bissolati, ma anche personalità come C. Battisti e G. Salvemini, si schierarono con l’«interventismo democratico»; mentre il PSI prese una posizione pacifista e neutralista, attestandosi sulla linea del «non aderire né sabotare». Tale linea si rivelò tuttavia inadeguata, poiché da un lato non frenò le accuse del fronte nazionalista che vedeva i socialisti come «disertori» e «sabotatori» dello sforzo bellico, dall’altro non consentì al partito di porsi alla testa dei moti rivoluzionari che la stessa guerra favorì (insurrezione di Torino, agosto 1917). Nelle elezioni del 1919, col nuovo sistema elettorale proporzionale, il PSI balzò al 32,3%, diventando la maggiore forza ;politica italiana e superando ben presto (1920) i 200.000 iscritti. Il Congresso di Bologna (1919) vedeva intanto la vittoria dei massimalisti di G.M. Serrati e l’adesione del partito alla terza Internazionale. Tuttavia anche nel corso del «biennio rosso» e dell’occupazione delle fabbriche torinesi – in cui pure un ruolo centrale ebbero la sezione torinese del partito e il gruppo dell’Ordine nuovo, promotore del movimento dei Consigli di fabbrica – il PSI non riuscì a guidare il movimento verso uno sbocco rivoluzionario, giocando anzi, assieme alla CGDL, un ruolo frenante nello sviluppo delle lotte. Tale esperienza, assieme alla spinta dell’esempio della Rivoluzione d’ottobre in Russia e al rifiuto del gruppo dirigente del partito di espellere i riformisti come chiedeva il Comintern, determinò al Congresso di Livorno (gennaio 1921) la fuoriuscita della frazione comunista, che diede vita al Partito comunista d’Italia (Partito comunista italiano). Frattanto lo squadrismo fascista colpiva in modo sempre più diffuso sedi e uomini del partito, che pure si illuse di poter siglare un «patto di pacificazione» (agosto 1921) di cui però i fascisti non tennero alcun conto; lo stesso sciopero generale legalitario (agosto 1922) si trasformò in un boomerang, e di lì a poco la marcia su Roma portava i fascisti al potere, guidati da quello stesso Mussolini che nel PSI aveva mosso i primi passi. Nello stesso ottobre 1922 intanto l’ala riformista veniva espulsa dal partito e costituiva il Partito socialista unitario (PSU); il tentativo di avviare un processo di fusione coi comunisti, promosso da Serrati, veniva intanto contrastato dalla maggioranza del PSI, che infine espelleva la corrente terzinternazionalista, che di lì a poco confluì nel PCD’I. Il delitto Matteotti apriva intanto una grave crisi per il fascismo, ma ancora una volta le esitazioni delle forze antifasciste e dello stesso PSI, riunite nell’anti-Parlamento sull’Aventino, determinarono un’ondata di riflusso, cui seguì il consolidarsi del regime fascista. Anche il PSI venne dunque sciolto, e nonostante significativi segnali di resistenza come l’esperienza della rivista Quarto stato (fondata da P. Nenni e C. Rosselli), una buona parte dei suoi militanti e l’intero gruppo dirigente scelsero la via dell’esilio. A Parigi i socialisti diedero vita con altre forze alla Concentrazione antifascista (1927), e nel 1930 PSI e PSU, sotto la spinta di Nenni e Saragat, si unificarono, mentre un’ala guidata da Angelica Balabanoff costituiva il Partito socialista massimalista. In Italia, intanto, emergevano esperienze interessanti come quella del Centro interno socialista, promosso da R. Morandi. Un accordo col movimento di Giustizia e libertà, siglato nel 1931, delegò tuttavia a GL l’iniziativa socialista in Italia, ma l’intesa durò appena tre anni. Nel 1934 il PSI riapriva il dialogo coi comunisti, e in agosto siglava quel patto d’unità d’azione che anticipò la svolta dei fronti popolari. L’impegno comune nella guerra civile spagnola rafforzò l’istanza unitaria, sebbene il Patto Molotov-Ribbentrop (1939) riaprisse il conflitto tra le forze operaie. L’attacco nazista all’URSS riunificò infine il fronte antifascista. Nel gennaio 1943 il gruppo milanese di L. Basso dava vita al Movimento di unità proletaria (MUP), che in agosto confluì nel Partito socialista di Nenni, il quale assunse transitoriamente il nome di Partito socialista italiano di unità proletaria (PSIUP). I socialisti intanto partecipavano alla Resistenza in primo luogo attraverso le Brigate Matteotti; al tempo stesso furono tra i promotori del Comitato di liberazione nazionale, sorto all’indomani dell’8 settembre 1943. Benché meno forte del Partito comunista, il PSI riuscì comunque a porsi fin dalla sua nascita come uno dei tre partiti di massa del Paese. Nell’aprile 1944 aveva circa 30.000 iscritti, ma nell’estate del 1945, all’indomani della Liberazione, era già giunto a 500.000.
Il PSI nell’Italia repubblicana. Nel 1946 il PSIUP contava 860.000 iscritti, e alle elezioni per l’Assemblea costituente risultò il primo partito della sinistra, ottenendo il 20,7% dei voti. Tuttavia, nel gennaio 1947, al Congresso di Roma, esso subì la scissione della componente socialdemocratica di Saragat, ostile alla politica unitaria coi comunisti, la quale diede vita al Partito socialista dei lavoratori italiani, poi Partito socialista democratico italiano, mentre la parte maggioritaria dei socialisti, guidata da Nenni, ridava al partito il nome di PSI, aggregando peraltro settori e uomini significativi del Partito d’azione, ormai disciolto, da E. Lussu a F. De Martino, da R. Lombardi a V. Foa. Il PSI si presentò da subito molto meno omogeneo rispetto al PCI, sia in termini sociali (accanto ai lavoratori salariati comprendeva ampi settori di ceto medio impiegatizio), sia sul piano politico, avendo ereditato la tradizionale divisione in correnti. Nenni aveva comunque una sostanziale leadership, mantenendo una posizione centrista, unitaria verso il PCI ma non favorevole alla fusione; «fusionisti» erano invece esponenti come Morandi e Luzzatto, mentre un’altra componente di sinistra (di ascendenza libertaria e luxemburghiana) faceva capo a Basso; infine, anche dopo la scissione di Palazzo Barberini, rimaneva nel partito un’ala destra di impostazione socialdemocratica, guidata da G. Romita, parte della quale uscì dal PSI nel 1949. L’alleanza col PCI nel Fronte democratico popolare alle elezioni del 1948 aveva intanto ottenuto solo il 31% dei voti. Iniziava dunque anche per il PSI un periodo di opposizione rispetto ai governi centristi fondati sulla DC. Nello stesso 1949 Nenni tornava segretario, avendo come suo vice Morandi e giovandosi della collaborazione di quest’ultimo soprattutto nel lavoro di organizzazione del partito come forza di massa, radicata nei territori e nei luoghi di lavoro. Dopo che già il Congresso di Torino (1955) aveva posto il tema del dialogo coi cattolici, gli eventi del 1956 (20° Congresso del PCUS, intervento militare sovietico a Budapest) accelerarono il processo. L’incontro di Pralognan (agosto 1956) tra Nenni e Saragat segnò il riavvicinamento alla socialdemocrazia, mentre il PSI rompeva il patto d’unità d’azione col PCI che durava dal 1934. Il Congresso di Venezia (1957) pose quindi le basi per una collaborazione con la DC, mentre lo stesso Nenni assumeva la guida della corrente «autonomista» (1958). I fatti del luglio 1960 resero intanto evidente la necessità della «apertura a sinistra». Nel febbraio 1962 il PSI dava quindi il suo appoggio al governo Fanfani, forte di un programma che prevedeva la nazionalizzazione dell’energia elettrica e l’istituzione della scuola media unica. Iniziava così la stagione del centrosinistra, che divenne «centrosinistra organico» nel 1963 con l’entrata dei socialisti nel governo Moro, di cui lo stesso Nenni fu vicepresidente. Tale scelta costò però al PSI una nuova scissione, quella della sinistra di Basso, Foa, Vecchietti e Valori, la quale diede vita al Partito socialista italiano di unità proletaria, schierandosi all’opposizione col PCI. La stretta creditizia del 1963 e i fatti del luglio 1964 (durante i quali Nenni denunciò il «rumore di sciabole» che giungeva da settori delle forze armate), peraltro, frenarono la spinta riformatrice del centrosinistra, costringendo il PSI sulla difensiva. Anche per aumentare la sua forza contrattuale, il partito avviò dunque un processo di riunificazione col PSDI di Saragat, che sfociò nella nascita del Partito socialista unificato (PSU) nell’ott. 1966, con De Martino e Tanassi cosegretari. Le perduranti divisioni interne e la sconfitta elettorale del 1968 determinarono però la crisi di tale progetto, cosicché nell’ottobre 1968 il partito riprese il nome PSI e nel 1969 la componente socialdemocratica ne uscì per fondare il Partito socialista unitario (poi di nuovo PSDI). I grandi movimenti di massa del 1968-69 e la crescita anche elettorale del PCI aprivano intanto la crisi del centrosinistra e inducevano De Martino ad aprire ai comunisti, lanciando la prospettiva di «equilibri più avanzati». La stessa crescita del PCI e la strategia berlingueriana del compromesso storico, pur rivolta a socialisti e cattolici, aprirono però una fase di difficoltà per il PSI, all’interno del quale la tradizione autonomista riprese vigore, ravvivata dal timore di rimanere schiacciati nel dialogo tra i due maggiori partiti (DC e PCI), cosicché nel 40° Congresso (1976) De Martino risultò sconfitto di misura e, dopo le elezioni politiche del giugno 1976, gli successe B. Craxi. Quest’ultimo avviò una radicale ridefinizione dell’identità del partito, prendendo le distanze dal marxismo e avviando una sorta di competizione a sinistra col PCI, al quale pure rilanciava la proposta di «alternativa di sinistra» in contrapposizione al compromesso storico. Nel 1980 la politica di Craxi virò apertamente verso una nuova alleanza di governo che escludesse i comunisti, ossia la formula del «pentapartito», che portò lo stesso leader socialista alla presidenza del Consiglio (1983-87), carica che egli gestì con piglio decisionista e senza rinunciare a un duro scontro con la CGIL a seguito del taglio dei punti di contingenza nel 1984-85. Intanto il PSI eliminava dal proprio simbolo la falce e il martello, ossia i riferimenti simbolici tradizionali del movimento operaio (1985), giungendo poco dopo al 14,3% dei voti (1987). Le inchieste di tangentopoli, tuttavia, coinvolgendo esponenti socialisti locali e nazionali, aprirono una grave crisi nel partito; lo stesso Craxi ricevette un primo avviso di garanzia nel dicembre 1992, dimettendosi da segretario nel febbraio 1993, sostituito da G. Benvenuto e poi da O. Del Turco. Nel 1994 il PSI, colpito da una pesante crisi finanziaria effetto della crisi politica, dovette abbandonare la sede di via del Corso e sospendere le pubblicazioni dell’Avanti!. Il 47° Congresso (novembre 1994) decise infine lo scioglimento del partito. Nacquero quindi due diversi soggetti politici volti a raccogliere l’eredità del PSI, i Socialisti italiani e il Partito socialista riformista, cui si aggiunse la Federazione dei laburisti di V. Spini. Intanto, a seguito della trasformazione del sistema politico in senso bipolare, la diaspora socialista si divideva tra i due schieramenti, e diversi ex dirigenti del PSI approdavano a Forza Italia (nello schieramento di centrodestra) o al Partito democratico della sinistra. Nel 1998 gli spezzoni del vecchio partito rimasti a sinistra diedero vita allo SDI (Socialisti e democratici italiani), con segretario E. Boselli, mentre la parte schierata col centrodestra, guidata da G. De Michelis, fondava il Nuovo PSI (2001-09). Dopo l’esperienza della Rosa nel pugno, nel 2007 lo SDI di Boselli avviò un percorso di ricostituzione di un Partito socialista unitario che raccogliesse la gran parte della diaspora; il congresso costitutivo si tenne nel luglio 2008, e nel 2009 il nuovo partito, con segretario R. Nencini, ha recuperato la denominazione di PSI.
XVII Congresso del Partito Socialista Italiano. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. XVII Congresso del Partito Socialista Italiano all'interno del Teatro Carlo Goldoni. Apertura 15 gennaio 1921. Chiusura 21 gennaio 1921. Località Livorno.
Esito. Mancata espulsione della corrente riformista e scissione della corrente comunista. Nomina di Giovanni Bacci a segretario del partito e conferma di Giacinto Menotti Serrati a direttore dell'Avanti!
Ospiti notevoli. Christo Kabakčiev delegato del Partito comunista bulgaro e dell'Internazionale Comunista, Mátyás Rákosi delegato del Partito comunista ungherese e dell'Internazionale Comunista, Jules Humbert-Droz e Rosa Bloch delegati del Partito socialista svizzero, Paul Levi delegato del Partito comunista operaio di Germania.
Il XVII Congresso del Partito Socialista Italiano si tenne al Teatro Carlo Goldoni di Livorno dal 15 al 21 gennaio 1921, inserendosi nel generale contesto di scontro in atto all'interno del movimento operaio internazionale tra la corrente riformista e quella rivoluzionaria[1]. Il dibattito, che venne seguito con grande interesse sia in Italia che all'estero si incentrò sulla richiesta avanzata dall'Internazionale Comunista di espellere dai partiti ad essa aderenti, o intenzionati a farne parte, la componente riformista. Al termine di giornate caratterizzate da un clima particolarmente tumultuoso e turbolento, il congresso fece registrare la scissione della frazione comunista che, di fronte al rifiuto della maggioranza del partito di accogliere la sollecitazione del Comintern ed estromettere i riformisti dal PSI, abbandonò i lavori e diede vita al Partito Comunista d'Italia.
Nel luglio-agosto 1920, il secondo congresso dell'Internazionale Comunista aveva fissato in 21 punti rigidi e dettagliati le condizioni di ammissione dei partiti all'Internazionale stessa. In essi emergeva la necessità di allontanare dai partiti (che avrebbero dovuto tutti adottare la nuova denominazione di "comunista") gli esponenti riformisti, ritenuti controrivoluzionari. Relativamente alla situazione italiana, tale esigenza era rafforzata dalla critica secondo la quale il partito, complice quello che veniva definito il "sabotaggio" della CGL, non aveva saputo cogliere l'occasione rivoluzionaria creatasi durante il biennio rosso. Il PSI aveva di fatto lasciato tutta l'iniziativa al sindacato, che aveva portato avanti una tattica gradualistica culminata con l'accordo del 15 settembre 1920 con gli industriali: mediato dal capo del governo Giovanni Giolitti, l'accordo aveva garantito aumenti salariali ma non aveva portato a significativi avanzamenti politici, evidenziando la sostanziale incapacità del movimento socialista di fronteggiare con strumenti adeguati l'egemonia della borghesia.
Il PSI aveva aderito all'Internazionale Comunista fin dal XVI Congresso di Bologna dell'ottobre 1919, che aveva ratificato quanto deliberato già a marzo dalla Direzione e segnato uno spostamento a sinistra delle posizioni del partito, con l'affermazione della corrente massimalista su quella riformista e la centralità assunta dai temi della conquista violenta del potere e della dittatura del proletariato. Tuttavia le richieste del II Congresso del Comintern, con particolare riferimento all'accettazione di tutti i 21 punti e alla conseguente espulsione dei riformisti, non trovarono la disponibilità della maggioranza massimalista di Giacinto Menotti Serrati, che temeva che la cacciata di figure come Filippo Turati, Claudio Treves o Ludovico D'Aragona avrebbe allontanato anche il cospicuo numero di lavoratori su cui essi avevano influenza. Serrati riteneva inoltre ingiusto l'allontanamento dell'ala destra del partito, perché essa non aveva né partecipato a governi borghesi né appoggiato l'intervento nella prima guerra mondiale, come avevano invece fatto i socialisti francesi ed i socialdemocratici tedeschi. Nonostante tutto l'ala sinistra del partito — la futura frazione "comunista pura" — in settembre ottenne, al termine di tre giorni di accese discussioni, la maggioranza in Direzione intorno ad un ordine del giorno firmato da Umberto Terracini che recepiva senza riserve i 21 punti e prefigurava la rottura con i riformisti, nell'ottica di una scissione "a destra" che — aveva spiegato Terracini — «sarebbe rimasta diffusa per tutto il partito molto superficialmente» e «non avrebbe avuto larga influenza tra le masse». Il documento fu votato, oltre che dal proponente, da Egidio Gennari, Ivan Regent, Giuseppe Tuntar, Casimiro Casucci, Tito Marziali e Ambrogio Belloni, mentre cinque voti (quelli di Serrati, Adelchi Baratono, Emilio Zannerini, Giovanni Bacci e Gino Giacomini) andarono al documento da cui sarebbe originata la mozione congressuale della frazione cosiddetta "unitaria", che insisteva sull'unità del partito e rivendicava autonomia nell'applicazione delle direttive internazionali[14][15]. Alla luce di tale risultato Serrati rassegnò le dimissioni da direttore dell'Avanti!, organo ufficiale del PSI, ma la maggioranza comunista decise di mantenerlo temporaneamente al proprio posto.
L'elaborazione delle mozioni. Alla vigilia del Congresso il partito era diviso in tre frazioni principali e due gruppi minori: l'ala destra era quella di "concentrazione socialista", vicina alle posizioni del gradualismo riformista di Turati; al centro si collocava gran parte dei massimalisti (i "comunisti unitari") di Giacinto Menotti Serrati; a sinistra i comunisti "puri" di Amadeo Bordiga. In posizione intermedia tra riformisti e unitari si collocavano i cosiddetti "rivoluzionari intransigenti" di Costantino Lazzari, mentre al fianco dei comunisti si trovava il gruppo della "circolare" di Antonio Graziadei e Anselmo Marabini che, pur fedele alle direttive del Comintern, intendeva lavorare per una mediazione.
I concentrazionisti costituivano una componente numericamente esigua, tuttavia avevano il controllo del gruppo parlamentare e della CGL. La loro mozione, sottoscritta da Ludovico D'Aragona e da Gino Baldesi, essi stessi esponenti di primo piano del sindacato, fu elaborata nel corso di un convegno svoltosi dal 10 al 12 ottobre 1920 a Reggio Emilia: il documento rivendicava il buon lavoro quotidiano svolto fino ad allora dal Partito Socialista Italiano e chiedeva il mantenimento della sua denominazione; sosteneva la necessità dell'unità del partito, garantita dalla tutela della libertà di espressione a cui doveva corrispondere una rigida disciplina nell'azione deliberata dalla maggioranza; confermava l'adesione al Comintern, ma chiedeva autonomia interpretativa nell'applicazione dei 21 punti e — mettendo in discussione i cardini della mozione che aveva vinto il Congresso di Bologna — rifiutava i concetti secondo cui la conquista del potere dovesse avvenire con la violenza e che la dittatura del proletariato, intesa come «una necessità transitoria imposta da speciali situazioni e non come un obbligo programmatico», dovesse modellarsi inevitabilmente secondo quanto avveniva in Russia; sosteneva infine «tutti i possibili tentativi di approssimazione al regime socialista», pur giudicando puerile l'idea di sconvolgimenti rivoluzionari a breve scadenza nei paesi più ricchi.
La mozione massimalista unitaria, o "centrista", fu varata a Firenze e firmata da Serrati, Baratono, Bacci, Momigliano, Frola, Vella e Alessandri. In essa si sottolineava la necessità di «serbar l'unità del Partito per meglio e più presto giungere alla conquista di tutto il potere politico», da perseguire con ogni mezzo compatibile con l'«assoluta intransigenza di classe», al fine della rivoluzione comunista da preparare per «via legale ed extralegale». Anche il documento massimalista ribadiva l'adesione all'Internazionale, chiedendo tuttavia la possibilità di applicare i 21 punti secondo le condizioni dei singoli Paesi e di conservare provvisoriamente il nome "socialista", affinché non ne abusassero «fuorusciti di ieri e di domani».
L'ala sinistra si era consolidata in una struttura che poteva essere considerata di fatto «già un partito»: la frazione comunista si era costituita a Milano il 15 ottobre, pubblicando un manifesto-programma che si poneva in contrasto sia con i riformisti che con i massimalisti decisi a non separarsi dalla destra. Il documento era stato sottoscritto da Bordiga, Gramsci, Misiano e Terracini, dai massimalisti di sinistra Bombacci, Repossi e Fortichiari e dal segretario della Federazione giovanile socialista Luigi Polano. Le due principali anime della componente comunista risultavano dunque il gruppo torinese legato al periodico Ordine Nuovo e quello legato al settimanale Il Soviet di Napoli, guidato da Bordiga, che aveva nel frattempo rinunciato alla pregiudiziale astensionista, e che assunse un ruolo preminente nella frazione. La mozione che la corrente avrebbe presentato a Livorno, votata in una riunione tenuta ad Imola il 28 e 29 novembre, era la più articolata: confermando l'adesione alla Terza Internazionale, ne recepiva in pieno le direttive, a partire dalla decisione «di cambiare il nome del Partito in quello di Partito Comunista d'Italia (Sezione della III Internazionale Comunista)» e di espellere tutti gli aderenti alla frazione di Concentrazione e tutti gli iscritti che al Congresso avrebbero dato voto contrario alla completa osservanza delle 21 condizioni di ammissione al Comintern e al programma comunista del Partito. Tale programma era parte integrante del documento presentato dalla frazione e si sviluppava in dieci punti, che evidenziavano, tra l'altro, il ruolo del partito politico di classe come organo indispensabile della lotta rivoluzionaria; la finalizzazione della lotta all'abbattimento violento del potere borghese e all'instaurazione della dittatura del proletariato; l'individuazione del «sistema dei Consigli dei lavoratori (operai e contadini)» come forma di rappresentanza nello Stato proletario; l'obiettivo della «gestione collettiva della produzione e della distribuzione» e infine dell'eliminazione della «necessità dello Stato politico».
Gli unitari in maggioranza. La frazione massimalista unitaria, la cui posizione in Direzione era risultata minoritaria, ottenne un'ampia maggioranza durante lo svolgimento dei congressi provinciali: la mozione serratiana ottenne circa 100.000 voti, contro i 58.000 della mozione comunista e i 15.000 di quella concentrazionista. Per questo perse quota la prospettiva di una scissione a destra così come si era concretizzata recentemente in Francia e in Germania: alla vigilia dell'appuntamento di Livorno, viceversa, si riteneva già irrevocabilmente decisa la "scissione a sinistra". Infatti, mentre il grosso dei comunisti riteneva sempre più necessario rompere l'unità per salvare la prospettiva rivoluzionaria a breve termine, la maggioranza massimalista, su cui di fatto veniva a ricadere la scelta definitiva su quale minoranza avrebbe dovuto lasciare il partito, seguitava a mostrarsi indisponibile all'espulsione dell'ala moderata. Tale situazione alzò la tensione nei rapporti tra il PSI e l'Internazionale, e rimase senza esito uno scambio di missive del novembre-dicembre 1920 tra Giacinto Menotti Serrati e il presidente del Comintern Grigorij Zinov'ev: in esso era stato concordato un incontro a Reval (l'odierna capitale dell'Estonia, Tallinn) per chiarire la posizione degli unitari, ma la delegazione italiana aveva poi rinunciato ad un viaggio così lungo nell'imminenza del congresso. Zinov'ev, in una successiva lettera datata 20 dicembre, ribadì il sostegno del Comintern ai comunisti puri e accusò Serrati di stare scivolando verso destra. Anche Lenin, che pure ammirava il PSI per il suo stretto rapporto con le masse operaie e ne riconosceva sia il ruolo importante rivestito in occasione delle conferenze pacifiste di Zimmerwald e di Kienthal, sia il fatto che si fosse già epurato nel 1914 espellendo i massoni e nel 1915 gli interventisti come Benito Mussolini, in questa fase criticò a più riprese il leader massimalista, «nell'erronea previsione che Serrati avrebbe finito col cadere». Quest'ultimo invece, sentendo che l'Italia «evoluta» era con lui e che il consenso intorno alla sua posizione stava crescendo, ricapitolò i motivi del proprio dissenso sull'Avanti! del 16 dicembre, in un lungo articolo in cui si difese dall'accusa di opportunismo e rivendicò la necessità di conservare l'unità per preservare «il Partito, il Proletariato e la Rivoluzione da un'insana mania di distruzione e demolizione». Avrebbe più tardi scritto Jules Humbert-Droz che Serrati in questa fase era diventato il solo avversario della Terza Internazionale in Occidente, e i suoi articoli erano ripresi da tutti i nemici del comunismo e della Rivoluzione russa in Svizzera, in Francia, in Germania e altrove. Dato il suo ruolo di primo piano nel movimento socialista mondiale, sancito anche dall'aver presieduto il II Congresso del Comintern, la sua difesa dei riformisti italiani non poteva essere infatti letta solo come una questione di tattica locale, ma diventava la difesa del riformismo internazionale contro il Comintern stesso: «Serrati era involontariamente diventato una forza controrivoluzionaria internazionale».
Il dibattito congressuale. Apertura dei lavori. Alla vigilia del congresso fu distribuita la relazione della direzione riguardo al periodo intercorso dal precedente Congresso di Bologna. In essa erano evidenziati i sostanziosi incrementi numerici fatti registrare dal partito negli ultimi due anni: il PSI, che nel 1919 aveva 1 891 sezioni con 81 464 iscritti, era passato a 4 367 sezioni e 216 327 iscritti. Tale aumento si riscontrava anche in termini di mandati parlamentari (da 47 a 156) e di enti locali governati (350 comuni e 8 province al tempo del XVI Congresso, 2 500 comuni e 25 province nel gennaio 1921). Dopo le ultime riunioni delle frazioni svoltesi nella mattinata del 15 gennaio, il congresso venne aperto alle ore 14:00 dal presidente provvisorio Giovanni Bacci, che ricordò l'anniversario dell'insurrezione spartachista del 1919. Francesco Frola lesse invece il saluto del Comitato esecutivo dell'Internazionale Comunista che attaccava duramente la frazione unitaria, la cui azione veniva definita nel documento «la realizzazione delle più sfavorevoli previsioni», e quelli dell'ala sinistra del Partito Socialista Svizzero e dei partiti comunisti austriaco, olandese e spagnolo. Il messaggio di quest'ultimo fu una diretta requisitoria contro Serrati e provocò contestazioni e polemiche. Per il Partito Comunista Operaio di Germania era presente Paul Levi, che nel suo intervento di saluto auspicò la costituzione del Partito comunista anche in Italia. A nome della Federazione giovanile parlò invece Secondino Tranquilli (successivamente noto con lo pseudonimo di Ignazio Silone), che preannunciò la confluenza dei giovani nel nuovo Partito comunista. Si aprì quindi il dibattito sull'indirizzo del partito e il primo ad intervenire fu Antonio Graziadei, la cui frazione, la "circolare", era nata con l'obiettivo di cercare l'unità tra comunisti e massimalisti: ponendo la discriminante inamovibile del rispetto dei deliberati della Terza Internazionale, i componenti della circolare (di cui facevano parte, oltre a Marabini, anche Enio Gnudi e Ilio Barontini) ritenevano fosse ancora possibile portare la maggioranza sulle posizioni del Comintern, e proponevano l'assunzione della denominazione di compromesso di «partito socialista comunista italiano». Dal palco livornese Graziadei perorò la causa della "scissione a destra" e criticò duramente l'atteggiamento di indisponibilità dei massimalisti, che «intendono l'autonomia come la facoltà di poter domandare la non esecuzione delle tesi di Mosca»[44], e ribadì che, qualora il tentativo di mediazione fosse andato a vuoto, la circolare avrebbe comunque votato a favore dell'Internazionale e della frazione comunista.
Kabakčiev contro Serrati. La mattina del 16 gennaio presentò la propria relazione il delegato del Partito comunista bulgaro e dell'Internazionale Christo Kabakčiev: il testo, scritto in francese e letto in traduzione da Francesco Misiano, affrontò dapprima la situazione politica nei Balcani per poi entrare nel merito della questione italiana, sviluppando dettagliatamente il tema della pessima situazione economico-finanziaria del Paese all'indomani della prima guerra mondiale e indicando come unico percorso per uscire dalla crisi la via rivoluzionaria. Tale obiettivo era da perseguirsi estromettendo tutti coloro che lo ostacolavano, ovvero i riformisti: secondo il delegato bulgaro, tale scissione tra forze rivoluzionarie e non rivoluzionarie, già avvenuta in molti Paesi, era necessaria anche in Italia affinché l'intero continente europeo fosse pronto allo sconvolgimento finale che avrebbe portato alla pace e alla soluzione dei problemi di disoccupazione e miseria provocati dalle politiche borghesi. Il testo di Kabakčiev fu particolarmente duro nei confronti di Serrati, accusato di riformismo e opportunismo; ciò determinò forti tensioni e tumulti, tanto che lo stesso leader massimalista fu costretto a salire sul palco per riportare la calma. Nel prosieguo dell'intervento del delegato bulgaro veniva ribadito che «la CGdL e il PSI non hanno compiuto il proprio dovere», non avendo indirizzato la lotta del proletariato italiano verso lo scopo principale, la conquista del potere politico, e si puntava il dito contro l'appartenenza della Confederazione del Lavoro all'Internazionale Sindacale di Amsterdam, definita «uno dei sostegni più importanti della borghesia internazionale» e contro l'avallo di Serrati a questo stato di cose. L'ultima parte del discorso fu incentrata sull'analisi dei rischi che una rivoluzione avrebbe attirato sull'Italia in termini di blocchi economici e azioni belliche da parte dei Paesi capitalisti, che avrebbero portato al proletariato sofferenze analoghe a quelle sopportate dal proletariato russo, e che tuttavia era necessario affrontare «per spezzare le catene della schiavitù capitalista e per emanciparsi da essa definitivamente». Nella sessione pomeridiana, presieduta da Argentina Altobelli, intervenne per i massimalisti Adelchi Baratono, che perorò la causa dell'unità del partito, definì le distinzioni fra puri e unitari artificiose e non sostanziali e sottolineò come a frenare la rivoluzione fosse stata non tanto l'azione dei riformisti quanto «l'orientamento non pienamente rivoluzionario delle masse». Baratono rivendicò poi la fedeltà della sua frazione all'Internazionale, sottolineando tuttavia che «non bisogna copiare pedissequamente il figurino russo circa il modo dell'adattamento rivoluzionario». L'oratore ribadì la richiesta a Mosca di lasciar valutare al partito italiano le questioni di carattere nazionale, e di poter operare con la collaborazione dei bolscevichi, e non ricevendo da essi semplici ordini. Baratono, nel rifiutare il giudizio di collaborazionismo verso l'ala destra del partito («i nostri destri d'Italia corrispondono poi ai sinistri di altre nazioni»), non escluse tuttavia di avviare una revisione periodica delle sezioni e un continuo processo di epurazione, senza distruggere «quel meraviglioso complesso organismo che è oggi il Partito socialista italiano».
Il partito rivoluzionario. La terza giornata fu caratterizzata dai discorsi di Costantino Lazzari e di Umberto Terracini. Lazzari, della minoritaria frazione degli "intransigenti rivoluzionari", criticò gli scissionisti e rifacendosi a Marx sottolineò come fosse indispensabile l'unità del proletariato, che avrebbe dato forza alla Terza Internazionale, e come fosse forzata la distinzione fra comunismo e socialismo, che si era resa necessaria terminologicamente in Russia, dove «anche i riformisti si chiamano rivoluzionari», ma che era ingannevole in Italia: «sarebbe un far credere che il Comunismo è qualcosa di diverso dal Socialismo». Lazzari contestò anche il fatto che i russi non tenevano conto del fatto che in Italia, a differenza di molti altri Paesi, le correnti socialdemocratiche erano già state espulse da molto tempo, e ricordò a questo proposito l'epurazione di Leonida Bissolati, Ivanoe Bonomi, Angiolo Cabrini e Guido Podrecca nel 1912. Lazzari si disse quindi contrario all'espulsione dell'ala destra del partito, secondo il principio «libertà nel pensiero e disciplina nell'azione». Terracini, che rivendicò alla corrente comunista di essere l'unica che non aveva derogato alle decisioni del Congresso di Bologna, parlò della necessità di modificare un partito nato decenni prima con obiettivi diversi da quelli attuali. Analizzata la tendenza storica del movimento operaio italiano verso la presa del potere, l'esponente della corrente comunista sottolineò la necessità della messa a punto di strumenti — un partito rivoluzionario — ad essa adeguati. L'esponente della corrente comunista esortò il partito a conformarsi ai 21 punti dell'Internazionale espellendo i riformisti, per separarsi dai quali bastava tenere conto della loro convinzione che si potesse «andare al potere attraverso il regime parlamentare» e il loro mancato riconoscimento della «validità universale della rivoluzione bolscevica». Terracini disse che tale rivoluzione era da accettarsi integralmente, e ne difese i concetti di dittatura del proletariato e di socializzazione. La mattina del 18 gennaio fu la volta del concentrazionista Gino Baldesi, che giudicò vittoriosa la battaglia sindacale del 1920 e sottolineò come fosse inevitabile che gli organizzatori sindacali fossero «un po' tutti a destra», non per «mentalità socialdemocratica» ma per la necessità di occuparsi quotidianamente delle singole problematiche e delle singole vertenze del proletariato all'interno di una società borghese. Baldesi contestò la possibilità di applicare la dittatura del proletariato in un Paese avanzato come l'Italia, definendo tale ipotesi irrealizzabile, e rilanciò l'idea, plausibile se anche nell'Italia meridionale il socialismo avesse ottenuto il consenso registrato nel centro-nord, della conquista del potere tramite le elezioni. L'esponente della CGL, dopo aver sostenuto che sarebbe stato meglio dedicare il congresso alla discussione nel merito dei 21 punti anziché al tema dell'espulsione dei riformisti, proclamò che i membri della sua frazione avrebbero accettato la disciplina della maggioranza in nome dell'unità del partito. Nel pomeriggio il congresso prese posizione contro la detenzione e il rischio di estradizione di socialisti ungheresi che, in fuga dal regime di Miklós Horthy, si erano rifugiati in Italia ed erano stati qui arrestati. Subito dopo parlò Vincenzo Vacirca, degli intransigenti, secondo il quale una delle cause della reazione era nella predicazione della violenza rivoluzionaria, che non poteva vincere la violenza borghese. Anche l'oratore siciliano si soffermò sulle problematiche del Mezzogiorno, sottolineando che per trasformare il partito in una struttura realmente nazionale sarebbe stato necessario sviluppare anche in quelle aree un'organizzazione politico-sindacale fino ad allora mancante, in grado di spezzare il latifondo e arrivare a un miglioramento dei metodi di produzione e delle condizioni di lavoro. Anche Vacirca, che durante il proprio intervento ebbe un accesissimo diverbio con Nicola Bombacci (quest'ultimo giunse a estrarre una rivoltella), ribadì l'accettazione dei 21 punti, ma con la riserva di poterli discutere e di proporre modifiche.
Dittatura borghese o dittatura proletaria. Il 19 gennaio la seduta fu aperta con la commemorazione di Andrea Costa nell'anniversario della morte. Salì poi sul palco Amadeo Bordiga, che stroncò l'intera storia del socialismo prebellico accusandolo di essere diventato negli ultimi decenni una forza conservatrice che aveva sostituito la concezione marxista del conflitto violento tra le classi con una visione pacifica piccolo-borghese. Per Bordiga l'interesse della classe proletaria non poteva realizzarsi nei quadri del meccanismo politico presente, attraverso il perseguimento di conquiste graduali e risultati parziali che non si ponevano l'obiettivo del rovesciamento dello Stato borghese, secondo una strategia socialdemocratica di cui la prima guerra mondiale aveva dimostrato la fallacia. Il delegato comunista esplicitò il dilemma «dittatura borghese o dittatura proletaria», sottolineando come la socialdemocrazia, laddove era andata al potere come in Ucraina o in Georgia, aveva tradito le proprie teorie di libertà e aveva agito contro il proletariato. Bordiga ribadì poi la necessità di accettare i 21 punti e, in risposta alla posizione di chi li riteneva inapplicabili al di fuori della Russia, sottolineò come avessero valenza universale e fossero semmai meno utili proprio laddove il potere era già stato conquistato. L'oratore concluse inneggiando alla lotta senza esclusione di colpi contro gli avversari della Rivoluzione e all'instaurazione della repubblica dei soviet. Sempre nel corso della mattinata parlò Serrati, che incentrò il proprio discorso su una serie di recriminazioni contro il comportamento dell'Internazionale nei confronti del PSI, puntando il dito contro la disparità di trattamento riservata ai socialisti italiani rispetto a quanto avvenuto al congresso dei socialisti francesi (la SFIO), dove senza ultimatum erano stati tollerati «destri», «patriottardi» e «massoni». Questo tipo di valutazione si focalizzava tra l'altro sull'atteggiamento dei delegati dell'Internazionale, in particolare Kabakčiev ma anche Rákosi, che avevano sostituito all'ultimo momento Zinov'ev e Bucharin (cui le autorità italiane avevano negato il visto d'ingresso) e che apparvero più intransigenti di quanto non fossero stati lo stesso Zinov'ev al congresso del Partito Socialdemocratico Indipendente di Germania o Clara Zetkin a quello della SFIO. Nella parte finale del proprio intervento Serrati si soffermò sull'unità del Partito socialista italiano come unica speranza «per la Russia dei Soviet», alla luce del soffocamento dei movimenti comunisti in Finlandia, Estonia, Polonia, Jugoslavia, Cecoslovacchia, Bulgaria e Romania, dello scioglimento della Confédération générale du travail in Francia, del controllo della massa lavoratrice inglese da parte del laburismo conservatore.
I massimalisti applaudono Turati. L'intervento pomeridiano di Filippo Turati dimostrò il profondo dissenso ideologico che lo separava dai comunisti: da esso emergeva infatti il netto rifiuto di ogni soluzione rivoluzionaria violenta e una strenua difesa del riformismo socialista e della sua «opera quotidiana di creazione della maturità delle cose e degli uomini», che sarebbe sopravvissuta al «mito russo» dietro cui, secondo il leader socialista, si celava il nazionalismo. Turati si dichiarò, pur individuandovi alcune ambiguità, favorevole alla mozione di Reggio Emilia, attaccò il principio del ricorso alla violenza, propria delle minoranze e del capitalismo, e sottolineò come la dittatura proletaria dovesse essere di maggioranza, e cioè democratica, per non trasformarsi in mera oppressione. Formulò inoltre la "profezia" circa la futura conversione dei comunisti al metodo democratico e gradualista. Il discorso fu particolarmente applaudito anche dai massimalisti: ciò avrebbe spinto successivamente il segretario del partito Egidio Gennari a sottolineare che i riformisti, che hanno sempre rappresentato un pericolo perché non si sono mai tenuti fedeli alla disciplina, «nel partito sono molti di più che non si credeva». Il consenso riscosso da Turati fece commentare alla sua compagna Anna Kuliscioff come il leader riformista «da accusato e quasi condannato» fosse «diventato trionfatore del congresso». Analoga valutazione venne dall'ex socialista Benito Mussolini, che dalle colonne del Popolo d'Italia riferì della «faccenda di questo espellendo che finisce per trionfare». Il futuro duce ne acquisì il merito al fascismo: avendo esso «sgominato e disperso precipitosamente i violenti nelle province dove avevano organizzato il terrore rosso», aveva permesso il ritorno in auge del «socialismo tradizionale».
Verso la scissione. Nicola Bombacci parlò di una separazione dolorosa ma necessaria, alla luce del periodo rivoluzionario attraversato dal paese e del bisogno di chiarificazione — come stava avvenendo nel resto del mondo — in seno al movimento socialista e alle sue «due scuole». Intervenne poi Anselmo Marabini, della "circolare", spiegando che la propria frazione avrebbe votato «la mozione che sarà riconosciuta dai rappresentanti della terza internazionale», imputando agli unitari di dividere, in nome dell'unità, il partito sia a destra che a sinistra. Era evidente che ogni pur flebile speranza di evitare la rottura era ormai tramontata e avevano preso coscienza della situazione anche Graziadei e Paul Levi, che pure fino al giorno prima avevano tentato di mediare con Serrati per ottenere l'espulsione dei riformisti e l'unità del resto del partito, venendo tuttavia fermati dai delegati del Comintern: Rákosi in particolare avrebbe successivamente riferito di aver telegrafato a Mosca per richiedere nuove direttive in merito, ottenendo in risposta l'autorizzazione a proseguire sulla strada della scissione. Si giunse quindi alla sesta giornata del congresso, durante la quale erano in programma le operazioni di voto. Prima ci fu però spazio per altri interventi, come quello di Jules Humbert-Droz che, come aveva fatto precedentemente Rosa Bloch, parlò dell'imminente scissione dei comunisti dal Partito Socialista Svizzero e auspicò che il Partito Socialista Italiano, che era stato un esempio durante e dopo la guerra, non voltasse la spalle alla Terza Internazionale; o quello di Costantino Lazzari, che dichiarò di ritirare la propria mozione per aderire a quella unitaria. Parlò poi Kabakčiev, che fu perentorio nell'affermare che le frazioni che non avessero votato per l'espulsione dei riformisti sarebbero state a loro volta espulse dall'Internazionale. Dopo mezz'ora di polemiche e incidenti, Misiano lesse una dichiarazione congiunta di Kabakčiev e Rákosi, secondo la quale l'unica mozione accettabile era quella comunista.
Gli esiti della votazione. L'uscita dei comunisti. A seguito del ritiro dei documenti della circolare e degli intransigenti, la votazione si svolse su tre mozioni: quella unitaria o "di Firenze" (sottoscritta da Baratono e Serrati), quella comunista o "di Imola" (Bordiga-Terracini) e quella concentrazionista o "di Reggio Emilia" (Baldesi-D'Aragona). Degli esiti, che rispettarono le previsioni riflettendo i dati registrati durante i congressi provinciali, diede conto il presidente Bacci la mattina del 21 gennaio: su 172 487 suffragi validi, i delegati avevano assegnato 98 028 voti agli unitari, 58 783 ai comunisti e 14 695 ai concentrazionisti, mentre le astensioni erano state 981. L'approvazione della mozione Baratono-Serrati fu seguita dall'intervento di Polano (la Federazione giovanile «delibera di seguire le decisioni che prenderà la frazione comunista») e dall'annuncio di Bordiga secondo cui la maggioranza del congresso si era posta fuori dalla Terza Internazionale, e pertanto i delegati della mozione comunista avrebbero abbandonato la sala. Subito dopo i comunisti uscirono dal Teatro Goldoni cantando L'Internazionale e si riunirono al Teatro San Marco. Gabriele Galantara, Gli estremi si toccano, copertina de L'Asino del 30 gennaio 1921. La parte superiore della vignetta recita: «LENIN: Finalmente ho vinto! Il Partito Socialista Italiano si è scisso...»; la parte inferiore: «GIOLITTI: Il miglior successo della mia politica! Il Partito Socialista Italiano si è scisso...» Nella nuova sede, i delegati che avevano lasciato il congresso socialista tennero il I Congresso del Partito Comunista d'Italia e ratificarono la nascita del nuovo partito, nel quale pochi giorni dopo, come preannunciato, sarebbe confluita anche l'organizzazione giovanile. La decisione di assumere la nuova denominazione di Federazione Giovanile Comunista Italiana sarebbe stata sancita con il 90% dei voti favorevoli durante un congresso svolto a Firenze il 27 gennaio.
La mozione Bentivoglio. I delegati delle altre mozioni proseguirono i lavori discutendo alcuni ordini del giorno, tra i quali fu approvato all'unanimità un documento firmato da Paolo Bentivoglio in cui si ribadiva l'adesione del PSI all'Internazionale Comunista «accettandone senza riserva i principî ed il metodo», e si protestava contro la dichiarazione di esclusione emessa dal rappresentante del Comitato Esecutivo «sulla base di un dissenso di valutazione ambientale e contingente che poteva e doveva essere eliminato con opera di amichevole chiarimento e di fraterna intesa». Di fatto si sperava che al successivo congresso del Comintern la controversia sarebbe stata sanata addossando a Kabakčiev la responsabilità di aver subìto eccessivamente la pressione degli scissionisti e aver oltrepassato i limiti del proprio mandato. Seguì un intervento di Adelchi Baratono che, evidenziando le differenze tra la mozione unitaria e quella concentrazionista, sollecitò l'ala destra ad accettare, con una disciplina non passiva ma fondata sull'attiva collaborazione, il programma rivoluzionario del partito e i princìpi dell'Internazionale. Intervenne quindi Turati, che esortò allo sforzo comune perché «il Partito diventi la classe e diventi la grande unione del proletariato nazionale ed internazionale». Le sue parole non rassicurarono tutti i congressisti, e ci fu chi le giudicò «elastiche» e «tali da non dare alcun affidamento», al che Serrati rispose che si sarebbe vigilato «sui nostri compagni dell'ala destra» e che, nel caso questi avessero operato in modo dannoso per il partito, «non potrà aversi pietà per loro». Nel corso della mattina fu inoltre eletta la nuova Direzione del PSI, che risultò composta esclusivamente di unitari. Della lista elaborata dall'apposita Commissione della frazione maggioritaria facevano parte anche due deputati: Gaetano Pilati, in qualità di rappresentante della Lega proletaria dei mutilati e reduci di guerra, e Giovanni Bacci, perché presidente della Società Editrice Avanti! e residente a Roma, da dove avrebbe potuto più facilmente lavorare nella sede della direzione. La proposta trovò la contrarietà di Giuseppe Romita, che sosteneva incompatibile il ruolo di membro della Direzione con quello di detentore di una carica pubblica, di cui la Direzione stessa avrebbe dovuto essere controllore, ma ciò nonostante l'assemblea approvò con ampia maggioranza la lista. Ne facevano parte, oltre a Pilati e Bacci, anche Serrati (che fu anche confermato alla direzione dell'Avanti!), Baratono, Sebastiano Bonfiglio, Franco Clerici, Domenico Fioritto, Giuseppe Mantica, Giuseppe Parpagnoli, Giuseppe Passigli, Alojz Štolfa, Emilio Zannerini, Raffaele Montanari ed Eugenio Mortara. I lavori del congresso si chiusero alle ore 13:00, dopo che il presidente Bacci ebbe esortato i compagni a riprendere da subito il lavoro «nelle Sezioni, nel Partito, nel Paese, nell'Internazionale» e dopo che i delegati rimasti al Goldoni ebbero inneggiato al Socialismo e alla Rivoluzione russa e cantato L'Internazionale e Bandiera rossa.
Gli sviluppi successivi. L'avvento del fascismo. L'esito del congresso fu salutato con favore dalla stampa borghese, che sottolineò come dovesse essere motivo di compiacimento l'uscita dei comunisti dalle file del Partito socialista: La Stampa del 22 gennaio 1921 parlò di «vittoria di ciò che è logico, naturale e normale» e sottolineò come dal PSI fosse stata cacciata «la febbre», e ciò grazie al «metodo liberale» che, lasciando agire e non reprimendo il socialismo, aveva impedito che la «corrente estrema» e il «rivoluzionarismo anarcoide» potessero rafforzarsi fino a sconvolgere e avvelenare «la vita della nazione». Tale positiva valutazione da parte della borghesia italiana non portò tuttavia a una riduzione della violenza reazionaria, che continuò a venire incoraggiata dagli industriali e dagli agrari. Il tema della reazione fascista era stato sostanzialmente sottovalutato durante il dibattito congressuale. Pochi infatti sospettavano che il quadro politico-istituzionale si sarebbe potuto modificare in modo significativo, sebbene il fenomeno della violenza squadrista avesse assunto rilevanza fin dall'autunno del 1920 (la strage di Palazzo d'Accursio era avvenuta il 21 novembre), tanto che proprio nei giorni dell'assemblea livornese Mussolini poteva ricordare le «sacrosante legnate fasciste» di cui era «carico il groppone» dei socialisti e «le revolverate e le fiammate» che avevano permesso di smaltire «la tremenda ubriacatura russa del bolscevismo italiano»; nella stessa Livorno la presenza fascista, pur tenuta a freno dall'intervento del Governo, era tangibile al punto che Francesco Misiano, minacciato di morte, dovette andare e tornare dalle riunioni congressuali con una guardia del corpo. All'indomani della scissione il dilagare del sovversivismo di destra costrinse il proletariato a porsi di fronte non l'ipotesi della conquista del potere e dell'assalto allo Stato borghese, ma la disperata difesa dagli attacchi alle Camere del lavoro, alle cooperative, alle leghe contadine, ai giornali operai, ai singoli militanti. Ciò avrebbe spinto nel 1923 Antonio Gramsci a una riflessione critica che non interessò l'opportunità o meno della scissione quanto il "modo" della scissione, ovvero il fatto che la frazione comunista, nella fase precongressuale, non fosse riuscita a condurre verso l'Internazionale la maggioranza del proletariato, spianando la strada all'avvento del fascismo. Le successive elezioni del 15 maggio 1921 videro i fascisti inquadrati con tutti i partiti borghesi (tranne quello popolare) nei Blocchi Nazionali, una formazione fortemente conservatrice e antisocialista. I mussoliniani ottennero 35 seggi, mentre il neonato PCd'I ne ottenne 15 (quasi trecentomila voti) e il PSI 122 (oltre un milione e mezzo di suffragi). Il proseguire delle violenze spinse il Partito socialista e la CGL a sottoscrivere in agosto un patto di pacificazione con i fascisti, da intendersi come tregua umanitaria che non intaccava l'intransigenza politica, e che sarebbe stato rotto a fine settembre con l'assassinio del sindacalista Giuseppe Di Vagno da parte di un gruppo squadrista. Prevalse quindi la linea del fascismo più estremista, con lo stesso Mussolini che aveva compreso l'opportunità di ritornare alla violenza in un contesto particolarmente favorevole, in cui il nuovo Governo Bonomi non contrastava il terrorismo squadrista e anzi ne era sostanzialmente complice. Lo scatenarsi della reazione in Italia, insieme al fallimento del tentativo rivoluzionario in Germania noto come "azione di marzo", alle difficoltà di politica interna che si trovava a fronteggiare la Russia e all'arresto dell'avanzata dell'Armata Rossa nella guerra sovietico-polacca, era già dalla primavera del 1921 una delle principali cause del delinearsi di una rettifica in senso meno radicale della posizione del Comintern, che prendeva atto della fine di un periodo che aveva acceso grandi entusiasmi rivoluzionari. Le condizioni mondiali della lotta di classe avevano subito un arretramento generale, e lo stesso Zinov'ev sottolineava il rallentamento del «tempo della rivoluzione proletaria internazionale».
Il rapporto con Mosca. La fase di riflusso, approfonditamente esaminata da Lenin, Trockij e Radek, portò — durante il III Congresso del Comintern dell'estate 1921 — all'elaborazione della tattica del "fronte unico", centrata sulla opportunità di concentrare le forze ricorrendo, senza rinunciare alla critica di principio, anche a temporanee alleanze con le forze riformiste. Tale posizione fu contrastata da una forte minoranza di sinistra guidata da Bucharin e lo stesso Umberto Terracini contestò la necessità di attendere la conquista della maggioranza del proletariato prima di avviare la lotta per il potere, venendo per questo rimproverato aspramente da Lenin. Ebbe così inizio una fase di profondo dissenso tra il Comintern e il Partito Comunista d'Italia, che conquistò «una fama internazionale di estremismo che ne minò fin dall'inizio la politica» e che, pur accettando per disciplina le direttive moscovite, non si adoperò mai per un'effettiva e rigorosa applicazione del fronte unico in Italia. La nuova impostazione internazionale non impedì al congresso del Comintern di giudicare positivamente la scissione e riconfermare il PCd'I come unica sezione italiana, rigettando il ricorso avanzato dal Partito Socialista Italiano tramite la mozione Bentivoglio. Il PSI, e in particolare il comportamento di Serrati, furono duramente criticati nella relazione di Zinov'ev e in numerosi interventi, tra cui quello di Lenin, che stigmatizzò la scelta di «camminare con 14 000 riformisti, contro 58 000 comunisti». Tuttavia, nell'ottica di tentare il recupero di una parte dei massimalisti unitari, i delegati del PSI presenti a Mosca (Costantino Lazzari, Fabrizio Maffi ed Ezio Riboldi) furono sollecitati a perorare ulteriormente la causa dell'espulsione dell'ala destra. Rientrati in Italia, i tre costituirono per il XVIII Congresso del Partito socialista, in programma a Milano nell'ottobre 1921, una frazione detta "terzinternazionalista". La loro mozione ottenne però consensi molto limitati, mentre prevalse largamente la linea dei massimalisti serratiani: essa respingeva ogni ipotesi di epurazione, pur ribadendo la volontà del partito di far parte dell'Internazionale e l'indisponibilità dei parlamentari socialisti a collaborare a un governo che tutelasse le libertà civili e politiche dei lavoratori, come richiesto invece dalla mozione concentrazionista sostenuta da Turati. La questione dell'espulsione dei riformisti si sarebbe infine risolta con il successivo XIX Congresso a Roma dell'ottobre 1922, dopo che Turati aveva partecipato alle consultazioni in occasione della crisi del Governo Facta: i massimalisti, guidata da Serrati e Maffi, decretarono l'epurazione dei gradualisti, i quali, insieme a una frazione dissidente che si staccò dalla maggioranza e di cui faceva parte anche Baratono, diedero vita al Partito Socialista Unitario. L'esito del XIX Congresso fu salutato sull'Avanti! del 4 ottobre 1922 da un editoriale dall'eloquente titolo Liberazione, che sottolineava come fino ad allora la vita del partito fosse stata «paralizzata, annichilita, dall'urto» fra una tendenza che rappresentava «la degenerazione democratica e parlamentare del socialismo» e una che incarnava, invece, «la continuità storica del socialismo rivoluzionario».
Cinema e televisione. Al XVII Congresso del PSI è dedicato un documentario d'epoca della durata di 34 minuti oggi conservato presso la Cineteca di Bologna sotto il titolo di Uomini e voci del congresso di Livorno. Il congresso è brevemente illustrato anche nella prima puntata (L'educazione politica) dello sceneggiato Rai del 1981 Vita di Antonio Gramsci di Raffaele Maiello, ed è stato il tema di una puntata del 2014 della trasmissione di Rai 3 Il tempo e la storia con ospite in studio lo storico Giovanni Sabbatucci.
Partito Nazionale Fascista. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Partito Nazionale Fascista.
Leader Benito Mussolini.
Segretario: Michele Bianchi, Francesco Giunta, Roberto Forges Davanzati, Cesare Rossi, Giovanni Marinelli, Alessandro Melchiori, Roberto Farinacci, Augusto Turati, Giovanni Giuriati, Achille Starace, Ettore Muti, Adelchi Serena, Aldo Vidussoni, Carlo Scorza.
Sede Via Paolo da Cannobio, 37 - Milano, poi Via della Lungara, 230 - Palazzo della Farnesina - Roma.
Abbreviazione PNF.
Fondazione 9 novembre 1921
Dissoluzione 2 agosto 1943
Confluito in Partito Fascista Repubblicano
Ideologia: Fascismo, Totalitarismo, Nazionalismo italiano, Imperialismo, Militarismo, Corporativismo, Anticomunismo, Anticapitalismo, Antisemitismo (dal 1938), Autarchia (dal 1936)
Collocazione: Estrema destra
Coalizione: Blocchi Nazionali (1920-1924), Lista Nazionale (1924-1925)
Affiliazione internazionale: Comitati d'Azione per l'Universalità di Roma (1933-1939)
Seggi massimi Camera dei deputati: 400 / 400
Testata: Il Popolo d'Italia
Organizzazione giovanile: Fasci giovanili di combattimento (1930-1937), Gioventù italiana del littorio
Iscritti: 6 000 000 (1939)
Colori: Nero.
Il Partito Nazionale Fascista (PNF) è stato un partito politico italiano espressione del movimento fascista. Nato nel 1921 dalla trasformazione in partito del movimento Fasci Italiani di Combattimento, guidò la cosiddetta marcia su Roma che portò, nell'autunno del 1922, Benito Mussolini a divenire presidente del Consiglio dei ministri. Nel 1923 si fuse con l'Associazione Nazionalista Italiana e, tra la metà e la fine degli anni venti, diventò, prima de facto poi de iure, il partito unico del Regno d'Italia fino alla caduta del regime fascista, il 25 luglio del 1943. L'organo ufficiale del partito era Il Popolo d'Italia, quotidiano fondato da Mussolini nel 1914. L'inno era Giovinezza, nella versione di Salvator Gotta del 1925, qualificato come Inno trionfale del Partito Nazionale Fascista. La legge 20 giugno 1952, n. 645 (cosiddetta legge Scelba) in attuazione della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione italiana vieta la ricostituzione del partito.
Storia. Fondazione. Il PNF fu fondato a Roma il 9 novembre 1921 per iniziativa di Benito Mussolini come evoluzione in partito del movimento dei Fasci Italiani di Combattimento - fondati, sempre da Mussolini, a Milano, in piazza San Sepolcro, il 23 marzo 1919. Come movimento giovanile si dotò nel 1921 dell'Avanguardia Giovanile Fascista. Rispetto ai Fasci, il PNF abbandonò, via via che si consolidava al potere, gli ideali socialisteggianti e repubblicani per virare decisamente verso la destra dello scacchiere politico italiano.
La conquista del potere. Dopo la marcia su Roma del 28 ottobre 1922, Mussolini, che era stato eletto parlamentare l'anno precedente insieme ad altri esponenti fascisti, fu incaricato dal re Vittorio Emanuele III di formare un nuovo governo sostenuto da una maggioranza composta anche dal Partito Popolare Italiano e da altri gruppi di estrazione liberale. Il 15 dicembre 1922 fu costituito il Gran Consiglio del Fascismo, organo supremo del Partito Nazionale Fascista, che tenne la sua prima seduta il 12 gennaio 1923.
Il regime. Alle elezioni politiche dell'aprile 1924, grazie alle violenze squadriste e all'impiego di "liste civetta", volte a drenare ulteriori voti, il PNF ottenne una netta maggioranza: tali risultati furono però duramente contestati dalle opposizioni, che denunciarono numerose irregolarità. In tale quadro, il deputato Giacomo Matteotti, dopo aver denunciato brogli in parlamento, venne ucciso da estremisti fascisti. La vicenda ebbe seguito il 3 gennaio 1925, quando Mussolini, con un discorso alla Camera dei deputati, dichiarò provocatoriamente di assumersi la responsabilità storica di quanto accaduto, promettendo di chiarire la situazione nei giorni immediatamente seguenti. In sede giudiziaria, sia all'epoca dei fatti, sia nel secondo dopoguerra, non fu mai provato alcun coinvolgimento diretto del Duce o di altri gerarchi nell'organizzazione del delitto: tesi sostenuta anche da alcuni storici, come Indro Montanelli, per i quali le responsabilità di Mussolini furono solo di natura morale. La crisi seguita all'omicidio di Matteotti, che era parsa, in un primo tempo, far vacillare la presa di Mussolini e del fascismo, fu invece abilmente sfruttata dal duce per avviare la dittatura. Il PNF fu l'unico partito ammesso in Italia dal 1926 al 1943, dopo l'emanazione delle cosiddette leggi fascistissime e dotandosi di un proprio statuto. Il Gran Consiglio del Fascismo divenne organo costituzionale del Regno: "organo supremo, che coordina e integra tutte le attività del regime sorto dalla rivoluzione dell'ottobre 1922". Il Gran Consiglio deliberava sulla lista dei deputati da sottoporre al corpo elettorale (poi sostituiti dai consiglieri nazionali della Camera dei Fasci e delle Corporazioni); sugli statuti, gli ordinamenti e le direttive politiche del Partito Nazionale Fascista; sulla nomina e la revoca del Segretario, dei Vicesegretari, del Segretario amministrativo e dei membri del Direttorio nazionale del Partito Nazionale Fascista. Le iscrizioni al Partito aumentarono a dismisura quando, il 29 marzo 1928, si decise che gli iscritti al PNF avrebbero avuto la precedenza nelle liste di collocamento (più antica era l'affiliazione, più si "scalavano" le graduatorie). Quasi due anni esatti dopo, il 28 marzo 1930, si decretò che per poter svolgere gli incarichi scolastici di alto livello (presidi e rettori) bisognava essere tesserati almeno da cinque anni. Il 3 marzo del 1931 le iscrizioni furono sospese per circa un anno; questo dato fa intuire che molte furono le adesioni al Partito Fascista dettate esclusivamente da interesse: contro di esse si mosse il segretario Giovanni Giuriati, attivista anti-corruzione che, forse proprio per questa spinta "moralizzatrice", venne destituito dal Duce dopo pochi mesi. Un ruolo educativo fu proprio dall'Istituto Fascista di Cultura, attualmente Università Popolare degli studi di Milano, che fu convertita da Università Popolare di Milano a Scuola Fascista, che durante tutto il periodo diede formazione e cultura fascista. Nel 1930 furono creati i Fasci giovanili di combattimento. Gli anni Trenta furono caratterizzati dalla segreteria di Achille Starace, "fedelissimo" di Mussolini e uno dei pochi gerarchi fascisti provenienti dal sud Italia, che lanciò una campagna di fascistizzazione del paese fatta di cerimonie oceaniche e creazione di organizzazioni volte a inquadrare il paese e il cittadino in ogni sua manifestazione (sia pubblica sia privata). Al fine di irregimentare anche i movimenti giovanili Starace portò sotto il controllo diretto del PNF sia l'Opera Nazionale Balilla (ONB) sia i Fasci Giovanili che furono sciolti e fatti confluire nella nuova Gioventù Italiana del Littorio (GIL). Il 27 maggio 1933 l'iscrizione al PNF è dichiarata requisito fondamentale per il concorso a pubblici uffici; il 9 marzo 1937 diventa obbligatoria se si vuole accedere a un qualunque incarico pubblico e dal 3 giugno 1938 non si può lavorare se non si ha la tanto conclamata tessera: è chiaro quindi che gli iscritti si contino a milioni ma che tra questi i "tiepidi" e i "freddi" verso il regime siano moltissimi. Nel 1939 Ettore Muti avvicenda Starace alla guida del partito e tale fatto testimonia l'aumento dell'influenza di Galeazzo Ciano. A partire dal 1937 il segretario nazionale del PNF assurse a rango di ministro di Stato. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale Mussolini tenta di militarizzare il partito ordinando il giorno di Capodanno del 1941 la mobilitazione generale di tutti i quadri del PNF. Nel periodo in cui le operazioni belliche volgono verso il peggio, in molti perdono la fiducia verso il regime fascista: anche nell'organo politico principale monta una critica, seppur latente e oscura, a cui il Duce tenta di dare una spallata nominando il ventisettenne Aldo Vidussoni segretario del PNF (26 dicembre 1941). La mossa, dettata dal fatto che i giovani sono rimasti i più accesi sostenitori del governo, si rivela catastrofica e il 19 aprile 1943 il giovane friulano viene sostituito da Carlo Scorza.
Scioglimento. Il 27 luglio 1943, in seguito alla votazione dell'ordine del giorno Grandi (25 luglio), Mussolini venne arrestato dai Reali Carabinieri, decretando di fatto la fine del regime fascista. Lo scioglimento del PNF da parte del nuovo governo di Pietro Badoglio avvenne il 2 agosto 1943 con il regio decreto n.704, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del Regno il 5 agosto successivo. Liberato dai tedeschi il 10 settembre, Mussolini costituì il 13 settembre il nuovo Partito Fascista Repubblicano (PFR) e costituì la Repubblica Sociale Italiana (RSI), nella parte d'Italia occupata dai tedeschi. Segretario del PFR fu nominato il 15 settembre Alessandro Pavolini. A Milano era già stato ricostituito il 13 settembre da Aldo Resega, che ne fu anche il primo commissario federale. Il PFR cessò la sua esistenza con la morte di Mussolini e con la fine della RSI, il 28 aprile del 1945.
Adunate o Congressi Nazionali.
I Congresso Nazionale - Firenze, 9-10 ottobre 1919 (come FIC)
II Congresso Nazionale - Milano, 24-25 maggio 1920 (come FIC)
III Congresso Nazionale - Roma, 7-10 novembre 1921 (come FIC)
IV Congresso Nazionale - Roma, 21-22 giugno 1925.
La numerazione dei congressi del PNF proseguì quella dei FIC. Tuttavia nei documenti ufficiali del PNF il congresso del 1925 viene indicato come quinto[25], ma non dagli storici né dallo stesso Mussolini. La confusione nasce dal considerare come congresso il convegno fascista all'hotel Vesuvio di Napoli del 24-25 ottobre 1922, che ufficialmente era un Consiglio Nazionale. Nel 1926 con una modifica allo Statuto del PNF furono aboliti i congressi nazionali.
Il Partito Nazionale Fascista aprì anche sedi all'estero, sia per coinvolgere gli Italiani emigrati sia per motivi di politica e di propaganda. La prima sede ad essere aperta fu quella di Londra, nel 1921; nel 1937, però, a seguito della proclamazione dell'Impero, fu inaugurata la nuova e più prestigiosa sede londinese nel palazzo che oggi ospita una biblioteca pubblica (Charing Cross Library) ed è sito al n. 4 di Charing Cross Road, vicino a Trafalgar Square.
Istituzioni culturali. Istituto di Cultura Fascista. L'Istituto Nazionale di Cultura Fascista (INCF) fu fondato nel 1925; fu alle dirette dipendenze del Segretario del Partito e fu sottoposto all'alta vigilanza di Mussolini. L'INCF fu eretto ente morale il 6 agosto 1926, con sede a Roma, e aveva lo scopo di promuovere e coordinare gli studi sul fascismo, di tutelare e diffondere, in Italia e all'estero, gli ideali, la dottrina del fascismo e la cultura italica attraverso corsi e lezioni, pubblicazioni, libri, e di promuovere la propaganda in tal senso. Sempre nel 1926 fu fondata la Reale Accademia d'Italia con il compito di "promuovere e coordinare il movimento intellettuale italiano nel campo delle scienze, delle lettere e delle arti".
Littoriali. I Littoriali erano manifestazioni culturali, artistiche, sportive e del lavoro svoltesi in Italia tra il 1932 e il 1940. Erano organizzati dalla Segreteria nazionale del Partito Nazionale Fascista, di concerto con la Scuola di Mistica Fascista.
Scuola di mistica fascista. Nel 1930 fu fondata a Milano la Scuola di mistica fascista Sandro Italico Mussolini, da Niccolò Giani, con il sostegno di Arnaldo Mussolini. Si poneva l'obiettivo di forgiare la futura classe dirigente del PNF e realizzare un completamento educativo per gli studenti iscritti ai Gruppi Universitari Fascisti.
Risultati elettorali. Elezioni del 1924. Nelle elezioni del 1924 si formò la Lista Nazionale inserendo anche esponenti del Partito Liberale Italiano e della destra moderata. Inoltre fu presentata una "lista civetta", Partito Nazionale Fascista bis che raccolse 347.552 voti (4,9 %) e 19 seggi alla Camera dei deputati.
Elezioni del 1929. Nelle elezioni politiche del 24 marzo 1929. La votazione si svolse in forma plebiscitaria. Gli elettori potevano votare SÌ o NO per approvare la lista dei deputati designati dal Gran Consiglio del Fascismo. I SI ottennero il 98,3%. I NO l'1,56%.
Elezioni del 1934. Anche per la XXIX legislatura la votazione si svolse in forma plebiscitaria. Gli elettori potevano votare SÌ o NO per approvare la lista dei deputati designati dal Gran Consiglio del Fascismo. I SI furono il 99,84%, i NO lo 0,15%.
La Camera dei Fasci. Nel gennaio 1939 la Camera fu soppressa e l'organo legislativo divenne la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, dove i membri (consiglieri nazionali) non erano eletti, ma nominati o membri di diritto. Fu sciolta il 2 agosto 1943.
Scioglimento. Dopo la caduta del governo Mussolini il 25 luglio 1943, il nuovo governo Badoglio I deliberò lo scioglimento del PNF e delle organizzazioni collaterali il 2 agosto, quando venne emanato il R.D.L. n. 704/1943 che, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 180 del 5 agosto, entrò in vigore il 6. Dalle ceneri del Partito Nazionale Fascista nell'Italia occupata dalla Germania dopo l'8 settembre 1943, nacque il Partito Fascista Repubblicano, annunciato con il discorso di Mussolini a Radio Monaco del 18 settembre. Il partito si costituì al Congresso di Verona del 14 novembre 1943 dove venne approvato il cosiddetto Manifesto di Verona.
Il PNF e la Costituzione della Repubblica italiana. La Costituzione della Repubblica Italiana, alla XII disposizione transitoria e finale, stabilisce: «È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista. In deroga all'articolo 48, sono stabilite con legge, per non oltre un quinquennio dall'entrata in vigore della Costituzione, limitazioni temporanee al diritto di voto e alla eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista.» Nell'immediato dopoguerra, dopo l'amnistia emanata dal ministro della giustizia Palmiro Togliatti, il 26 dicembre 1946 venne fondato il Movimento Sociale Italiano (MSI) in cui confluirono numerose personalità e reduci della ex Repubblica Sociale Italiana ed ex esponenti del regime fascista.
Partito Comunista Italiano. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Partito Comunista Italiano.
Presidente
Luigi Longo (1972–1980)
Alessandro Natta (1989–1990)
Aldo Tortorella (1990–1991)
Segretario:
Palmiro Togliatti (1943–1964)
Luigi Longo (1964–1972)
Enrico Berlinguer (1972–1984)
Alessandro Natta (1984–1988)
Achille Occhetto (1988–1991)
Sede: Via delle Botteghe Oscure, 4, Roma
Abbreviazione: PCI
Fondazione: 21 gennaio 1921 (come PCd'I)
15 maggio 1943 (ricostituzione come PCI)
Dissoluzione 3 febbraio 1991
Confluito in Partito Democratico della Sinistra (maggioranza), Partito della Rifondazione Comunista (minoranza)
Ideologia:
Comunismo
Antifascismo
Dal 1943 Marxismo-leninismo
Dal 1972 Eurocomunismo
Correnti interne degli anni 1970–anni 1990: Berlingueriani, Cossuttiani, Ingraiani-il manifesto, Migliorismo
Collocazione Dal 1943 Estrema sinistra. Dal 1972 Sinistra
Coalizione: Comitato di Liberazione Nazionale (1943–1947). Fronte Democratico Popolare (1948–1956). Solidarietà Nazionale (1977–1980)
Seggi massimi Camera 228 / 630 (massimo raggiunto nel 1976)
Seggi massimi Senato 116 / 315 (massimo raggiunto nel 1976)
Seggi massimi Europarlamento 27 / 81 (massimo raggiunto nel 1984)
Testata: l'Unità
Organizzazione giovanile: Federazione Giovanile Comunista Italiana (1943–1990)
Iscritti: 1 264 790 (1990)
Colori: Rosso
Il Partito Comunista Italiano (PCI) è stato un partito politico italiano di sinistra, nonché il più grande partito comunista dell'Europa occidentale. Venne fondato il 21 gennaio 1921 a Livorno come Partito Comunista d'Italia (PCd'I) – sezione italiana della Internazionale Comunista (denominazione modificata in Partito Comunista Italiano nel 1943) a seguito del biennio rosso e della rivoluzione d'ottobre per la separazione dell'ala di sinistra del Partito Socialista Italiano guidata da Amadeo Bordiga e Antonio Gramsci al XVII Congresso del Partito Socialista Italiano. Dopo che il PCd'I ebbe una storia complessa e travagliata all'interno dell'Internazionale Comunista negli anni venti e trenta il PCI assunse durante la seconda guerra mondiale un ruolo di primo piano a livello nazionale, promuovendo e organizzando con l'apporto determinante dei suoi militanti la Resistenza contro la potenza occupante tedesca e il fascismo repubblicano. Il capo del partito, Palmiro Togliatti, attuò una politica di collaborazione con le forze democratiche cattoliche, liberali e socialiste ed ebbe un'importante influenza nella creazione delle istituzioni della neonata Repubblica Italiana. Passato all'opposizione nel 1947 dopo la decisione di Alcide De Gasperi di estromettere le sinistre dal governo per collocare l'Italia nel blocco internazionale filo-statunitense, il PCI rimase fedele alle direttive politiche generali dell'Unione Sovietica fino agli anni settanta e ottanta pur sviluppando nel tempo una politica sempre più autonoma e di piena accettazione della democrazia già a partire dalla fine della segreteria Togliatti e soprattutto sotto la guida di Enrico Berlinguer, che promosse il compromesso storico con la Democrazia Cristiana e la collaborazione tra i partiti comunisti occidentali con il cosiddetto eurocomunismo. Nel 1976 il PCI toccò il suo massimo storico di consenso mentre nel 1984 sull'onda emotiva della morte improvvisa del segretario Berlinguer fu per breve tempo e seppur per pochissimi punti percentuali, il primo partito italiano (questo evento venne definito «effetto Berlinguer»). Dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989 e il crollo dei Paesi comunisti nel 1991 si sciolse su iniziativa del segretario Achille Occhetto dando vita a una nuova formazione politica di stampo socialdemocratico con il Partito Democratico della Sinistra mentre una parte minoritaria contraria alla svolta guidata da Armando Cossutta fondò Rifondazione Comunista.
Il Partito Comunista d'Italia (PCd'I) inizialmente si poneva come obiettivo l'abbattimento dello Stato borghese e l'instaurazione di una dittatura del proletariato attraverso i consigli degli operai e dei contadini sull'esempio dei bolscevichi russi di Vladimir Lenin. I rapporti con Mosca, la controversa e variegata dialettica rispetto alle politiche dell'Unione Sovietica di cui il PCI aveva fatto un mito, così come i discussi tentativi di distaccarsene, costituirono un elemento centrale della storia del partito, che però avrebbe trovato la sua fonte di maggiore forza e legittimazione nel radicamento costruito nella società italiana e in particolare tra i lavoratori già negli anni dell'attività clandestina sotto il regime fascista, ma soprattutto nel secondo dopoguerra, allorché il PCI si trasformò nel «partito nuovo» voluto da Palmiro Togliatti, un «partito di massa» con una forte presenza territoriale, volto a cercare di proporre soluzioni ai problemi delle masse lavoratrici e del Paese nel suo insieme. Il partito fu guidato nei suoi primi anni di vita da una maggioritaria corrente di sinistra raccolta attorno ad Amedeo Bordiga, ma il III Congresso svoltosi clandestinamente a Lione nel gennaio del 1926 segnò un deciso cambiamento di politica. Suggellato con l'approvazione delle Tesi di Gramsci della bolscevizzazione e a favore della messa in minoranza della sinistra di Bordiga, la quale fu accusata di settarismo e venne prima emarginata e poi con l'arresto di Bordiga da parte dei fascisti si riunì in Francia editando la rivista Prometeo e nel dopoguerra nel Partito Comunista Internazionalista. Tale risultato venne poi variamente criticato per supposte ingerenze estere nelle vicende nazionali, specchio della situazione sovietica. Tra gli elementi principali di scontro vi erano i rapporti con l'Unione Sovietica, che le componenti di ispirazione sinistra comunista nelle vesti della Sinistra Comunista Italiana di Bordiga criticavano duramente; e la componente in seguito dominante che si riferiva a Gramsci, decisa a tenere ben saldo il legame con l'Internazionale Comunista. Nel 1930 Bordiga fu definitivamente espulso dal partito con l'accusa di trotskismo. Stessa sorte era già parallelamente toccata ad elementi alla destra del gruppo dirigente, quest'ultimo diviso dal 1926 tra chi come il segretario Gramsci era stato condannato a misure di carcerazione fascista; e chi come Palmiro Togliatti era riuscito ad espatriare continuando l'azione di direzione del partito dall'estero o operando nella clandestinità. Una volta caduto il regime fascista nel 1943 ricominciò a operare legalmente partecipando immediatamente alla costituzione di formazioni partigiane e dal 1944 al 1947 agli esecutivi antifascisti successivi al governo Badoglio I, dove il nuovo capo politico Palmiro Togliatti fu anche per un breve periodo vicepresidente del Consiglio dei ministri. Nell'antifascismo il PCI è la forza più popolare e infatti la maggior parte degli aderenti alla Resistenza italiana era membro del partito comunista. Le Brigate Garibaldi, promosse dai comunisti, rappresentarono infatti circa il 60% delle forze partigiane. Nel corso del conflitto diverse componenti identificarono la lotta antifascista con la lotta di classe, mirando ad attuare una rivoluzione sul modello di quella sovietica. In realtà la maggioranza dei partigiani comunisti, sulla base delle indicazioni provenienti dai loro vertici e in particolare da Luigi Longo (allora a capo del partito nell'Italia occupata e al tempo stesso delle Brigate Garibaldi), intesero correttamente la lotta partigiana come una lotta volta in primo luogo alla liberazione del Paese dal nazifascismo, da condursi quindi nel modo più unitario possibile, accantonando le differenze di impostazioni e di obiettivi rispetto alle altre forze che partecipavano alla Resistenza: una linea che culminò nella costituzione del Comando generale unificato del Corpo volontari della libertà (CVL), contribuendo in modo decisivo all'esito vittorioso della lotta di liberazione. Nel 1947 nel nuovo clima internazionale di guerra fredda il PCI è allontanato dal governo e sarebbe rimasto all'opposizione per tutto il resto dei suoi giorni, non entrando mai in nessun governo repubblicano. Durante il XX Congresso del Partito Comunista dell'Unione Sovietica Nikita Sergeevič Chruščëv diede avvio con la denuncia dei crimini del regime staliniano alla cosiddetta destalinizzazione, la quale ebbe non poche ripercussioni anche sulla sinistra italiana. La linea del PCI diede seguito alla svolta che si tradusse nella volontà di tracciare una propria «via italiana al socialismo» che consisteva nell'accentuare il vecchio obiettivo del raggiungimento di una «democrazia progressiva» applicando integralmente la Costituzione italiana. L'amicizia e la lealtà che legavano il PCI all'Unione Sovietica, nonostante a partire dal 1968 una graduale progressiva critica all'operato del PCUS, fecero sì che l'atteggiamento nei rapporti internazionali non si tradusse mai in una rottura dei rapporti col partito sovietico. Questo portò a crisi e frammentazioni con militanti, intellettuali (molto noto il caso di Italo Calvino), dirigenti (come Antonio Giolitti, che nel 2006 ricevette le scuse e l'attestazione della ragione da Giorgio Napolitano, capo dello Stato e allora nella dirigenza allineata a Mosca) e componenti di sinistra e libertarie che fuoriuscivano o mettevano in discussione (Manifesto dei 101) la linea politica prima e dopo la rivoluzione ungherese del 1956 e poi con la Primavera di Praga gli interventi militari sovietici sulle nazioni dissidenti non sufficientemente o per nulla stigmatizzate dall'allora gruppo dirigente. Molti comunisti, riunti intorno alla rivista il manifesto, tra cui Rossana Rossanda, furono espulsi dal partito come già accaduto in altre circostanze. In quegli anni molte sigle di ispirazione comunista si sarebbero formate alla sinistra del PCI, contestando l'adesione al realismo sovietico. Il PCI è stato per molti anni dall'osservazione dei dati elettorali il partito comunista più grande dell'Europa occidentale. Mentre infatti negli altri Paesi democratici l'alternativa ai partiti o alle coalizioni democristiane o conservatrici era da sempre rappresentata da forze socialiste (con i partiti comunisti relegati a terza o quarta forza), in Italia rappresentò il secondo partito politico in assoluto dopo la Democrazia Cristiana (DC), con un Partito Socialista Italiano (PSI) via via sempre più piccolo e relegato dal 1953 in poi al rango di terza forza del Paese. Nel 1976 il PCI raggiunse l'apice del suo consenso elettorale col 34,4% dei voti dopo che l'anno prima aveva conquistato le principali città italiane mentre alle elezioni europee del 1984 avvenne il breve sorpasso sulla DC (33,33% dei consensi contro il 32,97%). Con milioni di iscritti nella sua storia, raggiungendo i 2 252 446 nel 1947, il PCI fu il più grande partito per numero di membri in tutta la storia della politica dell'Europa occidentale. Il partito si sciolse il 3 febbraio 1991 durante il XX Congresso Nazionale, quando la maggioranza dei delegati approvarono la svolta della Bolognina del segretario Achille Occhetto (succeduto tre anni prima ad Alessandro Natta) e che contestualmente si costituì il Partito Democratico della Sinistra (PDS), aderente all'Internazionale Socialista. Un'area consistente della minoranza di sinistra preferì rilanciare ideali e programmi comunisti e fondò il Movimento per la Rifondazione Comunista, che poi costituì con la confluenza di Democrazia Proletaria e di altri gruppi il Partito della Rifondazione Comunista (PRC). L'organizzazione giovanile del PCI fu la Federazione Giovanile Comunista Italiana (FGCI).
Storia. La costituzione del PCd'I e l'antifascismo. La scissione dei comunisti dal PSI avvenne sui famosi 21 punti di Mosca che delimitavano in modo netto la differenza delle posizioni politiche dei rivoluzionari da quelle dei riformisti e che costituivano le condizioni per l'ingresso nell'Internazionale Comunista, che aveva come obiettivo principe l'estensione della rivoluzione proletaria su scala mondiale. Il Congresso del PSI aveva appena rifiutato con solo un quarto di voti contrari, come previsto nelle 21 condizioni per l'adesione all'Internazionale Comunista, di espellere i membri della corrente riformista del partito. La minoranza, che rappresentava 58.783 iscritti su 216.337 e che abbandonò il teatro Goldoni riunendosi al teatro San Marco, era costituita dal gruppo astensionista che faceva capo ad Amadeo Bordiga, che guidò per primo il nuovo partito, dal gruppo dell'Ordine Nuovo di Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Umberto Terracini e Angelo Tasca, da parte della corrente massimalista di Anselmo Marabini, Antonio Graziadei e Nicola Bombacci e dalla stragrande maggioranza della Federazione Giovanile Socialista (FGS). Il programma politico approvato dal nuovo partito si presentava particolarmente duro: «Il proletariato non può infrangere né modificare il sistema dei rapporti capitalistici di produzione da cui deriva il suo sfruttamento, senza l’abbattimento violento del potere borghese. [...] Dopo l’abbattimento del potere borghese, il proletariato non può organizzarsi in classe dominante che con la distruzione dell’apparato sociale borghese e con la instaurazione della propria dittatura [...] con la organizzazione armata del proletariato per respingere gli attacchi interni ed esterni». Il nuovo partito era un partito rigorosamente rivoluzionario e la sua linea politica era fondata sull'esclusione di qualsiasi tipo di accordo con i socialisti. Anche a causa della scissione dell'ala riformista del PSI, avvenuta nel 1922, questo provocò i primi attriti con l'Internazionale Comunista che pose con forza il tema della riunificazione con il PSI di Giacinto Menotti Serrati. Nel 1924 Gramsci con l'appoggio dell'Internazionale Comunista divenne segretario nazionale e il passaggio della segreteria da Bordiga a Gramsci fu sancito definitivamente nel 1926 con l'approvazione durante il III Congresso a Lione delle tesi politiche di Gramsci con oltre il 90% dei voti. Il PCd'I venne soppresso dal regime fascista il 5 novembre 1926, ma continuò la sua esistenza clandestina, i cui militanti in parte rimasero in Italia, dove fu l'unico partito antifascista a essere presente seppure a livello embrionale, in parte emigrarono all'estero, soprattutto in Francia e in Unione Sovietica. Con l'arresto di Gramsci la guida di fatto passò a Togliatti, che rafforzò ulteriormente i rapporti con l'Unione Sovietica. Questi rapporti si deteriorarono bruscamente nel 1929 a causa della presa di posizione di Tasca, che aveva sostituito Togliatti a Mosca, in favore del capo politico della destra sovietica Nikolaj Ivanovič Bucharin, che si contrapponeva in quel periodo a Iosif Stalin. Dopo che tutta la linea del PCd'I da Lione in poi fu messa in discussione Togliatti espulse Tasca e allineò di nuovo il partito sulle posizioni di Stalin, che erano ritornate a essere piuttosto settarie. Infatti il PCd'I fu costretto ad associare al PSI e al giovane movimento di Giustizia e Libertà (GL) la teoria del socialfascismo che poneva le sue basi sull'equiparazione tra fascismo e socialdemocrazia, intesi entrambi come metodi utilizzati dalla borghesia per conservare il potere. Nel 1926 molti comunisti italiani fuggirono dal Paese e circa seicento trovarono rifugio in Unione Sovietica. La loro situazione fu difficile da subito e molti cercarono di rientrare in Italia. Su segnalazione dei dirigenti italiani alle autorità sovietiche circa duecento militanti vennero indicati come indisciplinati o bordighisti-trotskisti, vennero inviati nei Gulag o direttamente fucilati, una tragedia di grandi proporzioni sulla quale per molto tempo si è saputo molto poco. Con la crescita del pericolo nazista l'Internazionale Comunista cambiò strategia e tra il 1934 e il 1935 lanciò la linea di riunire in un fronte popolare tutte le forze che si opponevano all'avanzata dei fascismi. Il PCd'I, che aveva faticato molto per accettare la svolta del 1929, ebbe una sofferenza ancora maggiore per uscire dal settarismo a cui quella svolta sembrava averlo destinato in quanto nell'Italia fascista i militanti si erano trovati da soli a fronteggiare la dittatura. Tuttavia un po' per volta il lavoro di Togliatti e di Ruggero Grieco, che divenne la seconda personalità del partito dal 1934 al 1938 quando il segretario Togliatti si trovava nell'Unione Sovietica, diede i suoi frutti e nell'agosto del 1934 fu sottoscritto il patto d'unità d'azione tra socialisti e comunisti che nonostante i distinguo segnò la riapertura del dialogo tra i due partiti operai. La linea politica del PCd'I andò di nuovo in crisi con il patto Molotov-Ribbentrop del 1939 in quanto fu impossibile conciliare l'unità antifascista con l'approvazione del patto fra sovietici e nazisti e fu costretto ad appiattirsi sulle posizioni dell'Internazionale che in quel periodo teorizzava per i comunisti l'equidistanza tra i diversi imperialismi. La situazione si aggravò ulteriormente quando con l'invasione tedesca il PCd'I si ritrovò in clandestinità anche a Parigi. Togliatti fu arrestato, ma non essendo stato riconosciuto se la cavò con pochi mesi di carcere e dopo aver riorganizzato un embrione di centro estero del partito andò a Mosca dove l'Internazionale, avendo sciolto definitivamente l'ufficio politico e il comitato centrale, gli affidò la direzione solitaria del PCd'I. La situazione all'interno del PCd'I si tranquillizzò grazie alla dichiarazione di guerra di Benito Mussolini a Francia e Inghilterra del 1940 che fece sì che si ricreassero le condizioni per una nuova unità antifascista, suggellata nel 1941 a Tolosa da un accordo con PSI e GL. In Italia dal 1941 e anche grazie all'importante lavoro di Umberto Massola cominciò a riorganizzare la rete clandestina e a fare sentire la propria voce anche attraverso la diffusione di un bollettino, il Quaderno del lavoratore, per mezzo del quale venivano diffuse le posizioni ufficiali del PCd'I, dettate direttamente da Togliatti attraverso Radio Mosca. Nello stesso tempo ripresero forza numerosi piccoli gruppi che spesso con linea politica autonoma continuavano dall'interno del Paese la loro lotta al fascismo.
La Resistenza, la guerra partigiana e la Liberazione. Il 15 maggio 1943 in seguito allo scioglimento dell'Internazionale Comunista assunse la denominazione di PCI. Quando il 25 luglio del 1943 Mussolini fu costretto a dimettersi, l'iniziativa del partito aumentò sensibilmente sia per i maggiori margini di manovra sia per la conseguente uscita dal carcere e il ritorno dall'esilio di numerosi dirigenti comunisti. Il 30 agosto 1943 dieci membri del partito costituirono a Roma una direzione centrale in Italia senza direttive ufficiali da parte di Togliatti. I dieci erano Mauro Scoccimarro, in questa fase il dirigente più autorevole e prestigioso della direzione, Umberto Massola, entrato clandestinamente in Italia fin dal 1941, Antonio Roasio, Agostino Novella, Celeste Negarville, Giorgio Amendola, Luigi Longo, Giovanni Roveda, Pietro Secchia e Girolamo Li Causi. Il peso del PCI in Italia era divenuto molto importante e furono soprattutto le decisioni politiche prese dai dirigenti del partito a Roma che ebbero decisiva influenza sulla crescita della Resistenza. Pietro Secchia, ex operaio biellese, imprigionato e deportato dal regime fascista dal 1931, liberato da Ventotene il 19 agosto 1943, venne incaricato durante una riunione tenuta a Roma il 10 settembre 1943 di recarsi a Milano per organizzare la guerra partigiana. Secchia raggiunse Milano in treno il 14 settembre dopo essere passato per Firenze e Bologna e aver diffuso le direttive del partito tra i militanti provenienti dall'antifascismo attivo. Tra il 20 e il 22 settembre anche Luigi Longo, già dirigente delle Brigate internazionali in Spagna, partì per il nord per affiancare Secchia nella organizzazione e direzione del movimento di resistenza. Fin dal novembre 1943 i comunisti poterono quindi costituire a Milano la prima struttura organizzativa unificata: il comando generale delle Brigate Garibaldi con Luigi Longo come responsabile militare e Pietro Secchia come commissario politico. I componenti iniziali del comando oltre a Longo e Secchia furono Antonio Roasio, Francesco Scotti, Umberto Massola, Antonio Cicalini e Antonio Carini. I militanti comunisti costituirono il nerbo dei gruppi clandestini della Resistenza italiana, organizzati nelle Brigate Garibaldi (se ne contarono fino a 575 gruppi) sulle montagne e nei GAP e nelle SAP nelle città. Oltre alla lotta armata il PCI continuò il suo lavoro politico continuando nell'organizzazione degli operai e promuovendo scioperi e agitazioni soprattutto nei primi mesi del 1944. La dichiarazione di guerra del governo Badoglio ai danni della Germania pose il PCI dinnanzi a un bivio: continuare nella linea richiesta dalla base di contrapposizione frontale a Badoglio e alla monarchia o l'assunzione di responsabilità di governo. Nel marzo del 1944 Togliatti dopo aver avuto un incontro con Stalin tornò in Italia e praticò quella che rimase famosa come la svolta di Salerno con la quale anteponendo la lotta antifascista alla deposizione della monarchia il PCI sancì il proprio ingresso nel Governo. L'ingresso del PCI nei governi formati da Pietro Badoglio e dal socialista riformista Ivanoe Bonomi andava letto nell'intenzione di Togliatti come il tentativo di accreditarsi come forza responsabile e fondatrice della democrazia italiana. La decisione politica di Togliatti di abbandonare almeno per il momento la volontà di rimanere estranei a un arco costituzionale democratico, specialmente se monarchico, ebbe delle conseguenze pesanti anche all'interno del PCI e più in generale in senso alla sinistra italiana. Nel dopoguerra infatti nel dibattito storico inerente ai rapporti (o addirittura all'eventuale fusione, di cui si ebbe molto a parlare) tra i due massimi partiti di sinistra, vale a dire il PCI e il PSI, non pochi furono gli esponenti sociali che si opposero fermamente a ogni alleanza, fusione e comunanza con i comunisti del partito togliattiano, reo di aver tradito sia pur con il benestare di Stalin la linea internazionalista che con gradazioni alterne a seconda del periodo storico impediva ogni sorta di alleanza con le forze democratiche e liberali degli stati borghesi, non di rado definite insieme ai socialdemocratici come forze «socialfasciste». La scelta di Togliatti da un punto di vista meno ideologico e più pratico è invece considerata come di alto profilo politico. Il segretario, così come i dirigenti sovietici, sapeva infatti che per quanto risultasse sulla carta come la realtà politica clandestina meglio organizzata nel Paese, se non si fosse schierato con le forze liberatrici, allineate in un supporto anglo-americano, il PCI non avrebbe potuto avere un ruolo determinante nella costruzione del nuovo Paese. Per quanto i sovietici stessero all'epoca avanzando nella pianura polacca e fossero in procinto di entrare in Germania, dando una svolta decisiva al fronte orientale, non si poteva ragionevolmente credere che essi sarebbero giunti in Italia prima che le forze alleate l'avessero già liberata. Non allinearsi e non scendere a patti con queste ultime, aspettando l'arrivo dei sovietici, avrebbe comportato l'alienarsi del PCI nella lotta per la liberazione d'Italia e non sol. Infatti nel momento in cui la monarchia, le forze democratiche e persino gli anglo-americani in un'ottica pre-guerra fredda avessero iniziato a percepire una certa ostilità da parte dei comunisti italiani, questi si sarebbero certamente ritrovati isolati e senza messi per salvaguardarsi, perdendo la partita. In seno alla svolta di Salerno era necessario dare un volto nuovo al partito e per ottenere questo era necessario che il PCI ricostruito su basi diverse e diventasse un partito nuovo, ovvero un moderno partito di massa con profonde radici nei luoghi di lavoro e aderente alla società. Il partito cominciò pertanto una crescita costante data sia dal punto di vista dell'organizzazione, che si sviluppò ormai capillarmente in tutte le città italiane, sia in termini di numero di iscritti, passati dai 500.000 del 1944 al 1.700.000 del 1945, che lo portarono a diventare il più importante e grande partito comunista europeo a ovest della cortina di ferro. Nel corso della guerra ebbero luogo alcune delle pagine più controverse della storia del PCI come l'eccidio di Porzûs ai danni di formazioni resistenziali bianche, commesso da un gruppo di partigiani, in massima parte gappisti (i GAP erano formati dal comando generale delle Brigate Garibaldi). Le formazioni partigiane comuniste furono inoltre coinvolte nelle vendette post-belliche contro fascisti (o presunti tali) in varie zone del nord Italia, quali il cosiddetto triangolo della morte.
L'Italia repubblicana e i rapporti con l'Unione Sovietica. A seguito della Liberazione Palmiro Togliatti diede vita a una politica che tenne insieme l'esigenza di consolidamento della democrazia italiana e il sentimento rivoluzionario e il mito dell'Unione Sovietica della base del partito, concretizzato nell'adesione fino al suo scioglimento al Cominform, l'organizzazione dei partiti comunisti filosovietici. Nel maggio 1947 Alcide De Gasperi formò un governo senza il PCI e il PSI, ma nonostante ciò il contributo costruttivo dei comunisti nell'Assemblea Costituente non mutò. Cosicché la Costituzione italiana entrò in vigore il 1º gennaio 1948 dopo essere stata approvata da tutti i maggiori partiti, compresi i comunisti.
L'apparato paramilitare del PCI. Secondo alcune fonti e atti ufficiali il partito avrebbe mantenuto un'organizzazione paramilitare segreta denominata giornalisticamente da alcune testate, Gladio Rossa (locuzione in contrapposizione alla coeva e acclarata Organizzazione Gladio nata in chiave anticomunista). Lo storico Gianni Donno sostiene che «fino alle elezioni del 18 aprile 1948 un'insurrezione comunista in Italia era possibilità reale, e sarebbe stata sorretta da un apparato militare, incardinato nella struttura organizzativa del PCI». Quest'organizzazione avrebbe seguito la storia del partito estrinsecandosi in due fasi distinte: dal 1948 al 1954 in cui vennero poste le basi dell'organizzazione raccogliendo materiali bellici e creando una rete di contatti e logistica in preparazione di una possibile insurrezione armata alla seconda fase dal 1955 al suo scioglimento nel 1974, nella quale l'organizzazione avrebbe dovuto costituire un sostegno attivo a un'eventuale invasione dell'Italia da parte del Patto di Varsavia. Insieme a quest'organizzazione il partito ne mantenne un'altra, destinata alla protezione e alla fuga dei dirigenti nel caso che il partito stesso fosse stato dichiarato illegale in Italia. In un rapporto del SIFAR l'apparato paramilitare del PCI viene descritto come diviso in due gruppi: uno operativo in tempo di pace con il compito di «sostenere le agitazioni e mantenere l'economia nazionale sotto pressione, affinché la gente appoggi un cambiamento politico attraverso le riforme sociali di cui il PCI si fa promotore» e l'altro pronto a intervenire in caso di guerra con opere di sabotaggio. Il Servizio Ordine Informazioni era la struttura informativa che si affiancava alla struttura paramilitare e svolgeva attività spionistica nei settori militare, industriale e politico. Questa struttura operava in stretto collegamento col KGB e con il GRU (il servizio informazioni militare sovietico) e aveva tra i suoi compiti anche la disinformazione, quindi la costruzione di informazioni false o dossier atti a creare scandali nei momenti opportuni. Riguardo alla Gladio Rossa anche il giornalista Giovanni Fasanella dichiara: «Del resto, sul versante opposto, un doppio livello si era formato sin dal dopoguerra anche all'ombra del PCI, con la cosiddetta Gladio rossa, una struttura paramilitare clandestina composta da ex partigiani, spesso non del tutto controllata dallo stesso gruppo dirigente del partito e ancora legata al mito della rivoluzione proletaria.» In merito il senatore Giovanni Pellegrino nelle vesti di presidente della commissione parlamentare sulle stragi dichiarò proprio a Fasanella che «[nel dopoguerra] [...] mentre gli ex partigiani bianchi tendevano progressivamente a istituzionalizzarsi finendo per confluire nelle strutture di Stay-behind, gli ex partigiani rossi tendevano a riorganizzarsi in una struttura interna del PCI, la cosiddetta Gladio rossa, in cui continuava ad agire una sorta di inerzia rivoluzionaria». Anche per Pellegrino la struttura si evolse col tempo in chiave di protezione nei confronti dei dirigenti in caso di golpe o che il PCI fosse dichiarato fuori legge. A credito dei dirigenti del PCI dell'epoca Pellegrino ascrive anche il merito «di essere riusciti in qualche modo a imbrigliare all'interno di organizzazioni forze altrimenti centrifughe».
Situazioni pre-insurrezionali e attentato a Togliatti. Nel novembre del 1947 dopo la notizia che il prefetto di Milano Ettore Troilo, esponente della Resistenza, era stato destituito dal ministro degli interni Mario Scelba, Giancarlo Pajetta, capo del partito in Lombardia, prese l'iniziativa di mobilitare le formazioni armate di ex partigiani che bloccarono corso Monforte dove aveva sede la prefettura e si vissero momenti di grande tensione. Pajetta entrò in prefettura, il sindaco socialista Antonio Greppi e altri sindaci si dimisero per protesta contro la rimozione di Troilo e venne organizzato un comitato di agitazione. Ben presto il governo riprese in mano la situazione e senza azioni violente e dopo trattative condotte da Marrazza i militanti comunisti evacuarono la prefettura e accettarono la nomina di un nuovo prefetto di Milano. Togliatti ebbe parole di sarcastica critica per l'avventatezza di Pajetta e colse l'occasione per bloccare l'estremismo di una parte del partito. Il 14 luglio 1948 Togliatti fu gravemente ferito alla nuca e alla schiena all'uscita dalla Camera dei deputati a Roma da Antonio Pallante, un estremista anticomunista. Le condizioni di Togliatti apparvero subito molto gravi e nonostante i suoi inviti a mantenere la calma si diffuse subito grande agitazione tra i militanti comunisti. Il capo del partito venne sottoposto a un difficile intervento chirurgico che si concluse con successo nel pomeriggio, ma nel frattempo in molte regioni d'Italia si era instaurata una situazione pre-insurrezionale. Senza attendere le indicazioni del partito i militanti comunisti e la base operaia diedero inizio a un impressionante sciopero generale con occupazione della fabbriche e ricomparvero formazioni di ex partigiani armati nel Biellese, in Valsesia e a Casale Monferrato. I militanti comunisti assaltarono la FIAT e alcuni dirigenti, tra cui lo stesso Vittorio Valletta, vennero presi in ostaggio e comparvero le armi all'interno della fabbrica. Ufficialmente il partito non aveva ancora dato alcuna direttiva insurrezionale, ma corsero voci che Cino Moscatelli e Pietro Secchia fossero favorevoli a un'azione rivoluzionaria. A Torino e Milano, in parte presidiate dai militanti comunisti, si svolsero grandi manifestazioni di piazza in cui si parlò di armi pronte. Scontri armati nel capoluogo lombardo tra comunisti e polizia terminarono con numerosi feriti e l'occupazione di altre fabbriche. A Genova il movimento insurrezionale fu ancora più esteso: si verificarono scontri tra militanti e forze dell'ordine con feriti, alcuni carabinieri e poliziotti furono presi prigionieri. Nella notte si eressero le barricate e il prefetto decretò lo stato d'assedio. Gli episodi più gravi accaddero sul monte Amiata, dove i minatori si asserragliarono sulla vetta; e ad Abbadia San Salvatore, dove militanti comunisti, presero la centrale telefonica, assaltarono la sede della DC e respinsero il primo attacco della polizia uccidendo due agenti. A Siena, Piombino, Taranto, Ferrara, Modena, Cagliari e La Spezia seguirono altri scontri mentre a Venezia vennero occupate le fabbriche, la RAI e i ponti sulla laguna. Invece a Livorno ci furono combattimenti durante i quali un poliziotto fu ucciso e altri quattro feriti e a Bologna gli ex partigiani bloccarono la via Emilia. Roma fu invasa dagli operai e dai militanti della periferia, che davanti a Montecitorio lanciarono sassi contro gli agenti di guardia durante un grande comizio a piazza Esedra con la presenza di Luigi Longo e Edoardo D'Onofrio. I manifestanti espressero propositi rivoluzionari nonostante la prudenza ufficiale dei dirigenti. Tra i dirigenti del partito l'attentato a Togliatti provocò grande emozione. Dopo le prime notizie confuse arrivarono le informazioni sullo sciopero e sulle azioni pre-insurrezionali spontanee dei militanti. I capi comunisti nelle loro memorie hanno riferito di una scelta unitaria di controllare il movimento ed evitare di uscire «in modo irreparabile dalla legalità». All'epoca si diffuse la voce che Secchia e Longo avessero avuto contatti segreti con i sovietici durante i quali questi ultimi avrebbero escluso la possibilità di fornire aiuto in caso d'insurrezione. In realtà in un primo tempo i dirigenti comunisti preferirono attendere gli eventi senza sostenere esplicitamente l'insurrezione, ma polemizzando aspramente contro il governo e il ministro Scelba, tuttavia la stampa comunista non diramò alcuna parola d'ordine rivoluzionaria. Un'analisi realistica della situazione rendeva del resto impossibile un'alternativa rivoluzionaria: l'Unione Sovietica era contraria ad avventure insurrezionali e le forze dell'ordine col sostegno eventualmente dell'esercito disponevano di una schiacciante superiorità militare, prevedendo anche un intervento diretto statunitense. Inoltre i comunisti erano forti solo in alcune aree del Paese e soprattutto nelle fabbriche e nelle grandi città del nord, ma le campagne e il sud non avevano affatto partecipato al moto insurrezionale. La mattina del 16 luglio i dirigenti comunisti presero la decisione di bloccare l'evoluzione rivoluzionaria e arrestare lo sciopero. Il ministro Scelba mostrò grande decisione e le forze dell'ordine intervennero a Livorno, Bologna, Napoli e Castellammare dove ci furono scontri a fuoco e morti tra i manifestanti. Le occupazioni delle fabbriche furono progressivamente interrotte e Vittorio Valletta fu liberato. Il 17 luglio il comitato centrale del partito approvò ufficialmente la cessazione dello sciopero. Nelle loro memorie i capi comunisti in maggioranza hanno escluso che l'insurrezione potesse avere successo e solo Giancarlo Pajetta ha affermato che al nord l'insurrezione sarebbe stata possibile, Pietro Secchia ha scritto che solo a Torino, Genova e Venezia i militanti comunisti avevano il pieno controllo della situazione mentre Giorgio Amendola ritiene che l'insurrezione non avrebbe avuto alcuna possibilità di vittoria neppure al nord. Due giorni prima il Senato aveva respinto una mozione di sfiducia presentata da Umberto Terracini al governo De Gasperi con l'accusa di essere moralmente e politicamente responsabile dell'attentato a Togliatti. Gli anni successivi furono caratterizzati da una forte opposizione (che non mancò di veri e propri ostruzionismi) alle politiche del governo De Gasperi, in particolare sull'adesione dell'Italia al Patto Atlantico e sulla legge elettorale cosiddetta truffa. I parlamentari comunisti si impegnarono anche a presentare proposte di legge in favore dei lavoratori, come quella per la tutela delle lavoratrici madri che ebbe come prima firmataria la deputata Teresa Noce.
La politica di Togliatti. Il PCI si consolidò dopo la scissione socialista del 1947 come la seconda forza della democrazia italiana dopo la DC. Da allora e per circa 30 anni pur rimanendo sempre all'opposizione il PCI conseguì una crescita elettorale costante che si interruppe solo verso la fine degli anni settanta al termine della stagione della solidarietà nazionale. Negli anni successivi pur continuando ad appoggiare l'Unione Sovietica anche nella drammatica crisi d'Ungheria durante la rivoluzione ungherese del 1956 il PCI di Togliatti diede inizio a una nuova politica di partito nazionale imboccando la «via italiana al socialismo» dopo che personaggi significativi, in maggioranza intellettuali, avevano abbandonato il partito protestando contro l'adesione del PCI alla repressione sovietica o avevano espresso dissenso nel cosiddetto Manifesto dei 101. Tale nuova politica non gli impedì di esprimersi in una importante conferenza internazionale dei partiti comunisti a favore della fucilazione di Imre Nagy, il capo comunista ungherese considerato democratico. Tra coloro che in quella situazione manifestarono una posizione di dissenso pur senza abbandonare il partito va ricordato il capo della CGIL Giuseppe Di Vittorio mentre vari intellettuali tra cui lo storico Renzo De Felice ne uscirono per protesta e in aperto dissenso. Soltanto una ventina tra i firmatari del Manifesto dei 101 avrebbero ritenuto posteriori la loro adesione mentre altri come Lucio Colletti ne usciranno comunque in seguito. Il manifesto, che doveva inizialmente essere solo una forma di dissenso interno secondo parte dei suoi partecipanti ed essere pubblicato su l'Unità, venne invece integralmente diffuso dall'ANSA quasi immediatamente e provocò fortissimi dissensi tra la base che si arroccò attorno al suo gruppo dirigente e una gran parte degli intellettuali che finirono per uscire dal partito. La principale conseguenza politica degli avvenimenti del 1956 fu il definitivo tramonto del patto d'unità d'azione tra il PCI e il PSI. Il PSI di Pietro Nenni, che negli anni precedenti aveva pur accettato forme di subordinazione all'Unione Sovietica di Stalin, ripensò, prendendone completamente le distanze, la sua posizione riguardo a quello che i comunisti consideravano il più importante Stato socialista, ma che per i socialisti autonomisti non aveva mai rappresentato una società socialista. Nel cambiamento della linea del PSI ebbe un grande peso la riemersione delle tendenze autonomiste interne, sempre presenti anche nel periodo frontista, che guardavano con sospetto ai comunisti e ai regimi dittatoriali formatisi nell'Europa orientale. Ciò consentì la nascita del centro-sinistra basato sull'alleanza tra PSI e DC. Nel 1960 il PCI partecipò attivamente all'organizzazione delle proteste contro il congresso di Genova del Movimento Sociale Italiano - Destra Nazionale (MSI), giudicato come una provocazione per il fatto di svolgersi in una città medaglia d'oro della guerra di Liberazione. Le proteste si indirizzano contro il governo Tambroni, appoggiato esternamente dallo stesso MSI. Tale appoggio provocò anche una frattura interna alla DC e il governo di converso accusò il PCI dell'esistenza di un attivo coinvolgimento sovietico nell'organizzazione degli scioperi, ma tale ipotesi venne ritenuta non attendibile dalla stessa CIA in un documento dell'8 luglio 1960.[47] Gli eventi legati alle proteste allontanarono ulteriormente Nenni che scrisse nel suo diario il 3 luglio 1960 che i fatti di Genova vennero usati dai comunisti «in termini di frontismo, di ginnastica rivoluzionaria, di vittoria di piazza, tutto il bagaglio estremista che pagammo caro nel 1919».
L'elezione di Longo. Con la fine del centrismo e con l'inizio dei governi di centro-sinistra il PCI di Togliatti non mutò la sua posizione di opposizione al governo, ma mori a Jalta il 21 agosto del 1964. I suoi funerali, che videro la partecipazione di oltre un milione di persone, costituirono il più imponente momento di partecipazione popolare che la giovane Repubblica italiana aveva conosciuto fino a quel momento. L'ultimo documento di Togliatti, che ne costituiva il testamento politico e che fu ricordato come il memoriale di Jalta, ribadiva l'originalità e la diversità di vie che avrebbero consentito la costruzione di società socialiste, unità nella diversità del movimento comunista internazionale. Il PCI lasciato da Togliatti era un partito che pur continuando a rimanere ancorato al centralismo democratico cominciava a sentire l'esigenza di rendere visibili quelle che al suo interno erano le diverse sensibilità e opzioni politiche. Il primo Congresso dopo la morte di Togliatti, l'XI svoltosi nel gennaio del 1966, fu il teatro del primo scontro svoltosi alla luce del sole dalla nascita del partito nuovo. Le due linee politiche che si fronteggiarono furono quella di destra di Giorgio Amendola e quella di sinistra di Pietro Ingrao. Sebbene la posizione della sinistra di Ingrao si rivelò in minoranza, in particolare sul tema della pubblicità del dissenso (che si riteneva avrebbe aperto le porte alla divisione del partito in correnti organizzate), molte delle sue istanze (messa all'ordine del giorno del tema del modello di sviluppo, necessità di una programmazione economica globale che si contrapponesse alla inefficace programmazione del governo e attenzione al dissenso cattolico e ai movimenti giovanili) furono accolte nelle tesi congressuali. Il lavoro di sintesi, rivolto al rinnovamento nella continuità, tra le diverse anime del partito suggellò la guida politica di Luigi Longo, eletto segretario generale dopo la morte di Togliatti e degno continuatore delle sue politiche. Nel ruolo di successore di Togliatti i due candidati più forti erano proprio Amendola e Ingrao, ma Longo per le garanzie di unità e continuità che dava la sua figura, che aveva ricoperto con Togliatti la carica di vicesegretario e aveva sempre con lealtà ed efficacia coadiuvato il segretario, costituiva la soluzione migliore per la segreteria del partito. Longo continuò nella definizione di una politica nazionale del PCI e infatti a differenza del 1956 nel 1968 il partito si schierò contro l'invasione sovietica della Cecoslovacchia.
La segreteria di Berlinguer. Nel 1972 divenne segretario Enrico Berlinguer, che sulla suggestione della crisi cilena propose un compromesso storico tra comunisti e cattolici democratici che avrebbe dovuto spostare a sinistra l'asse governativo, trovando qualche sponda nella corrente democristiana guidata da Aldo Moro. Fu il periodo in cui Augusto Del Noce preconizzò che il PCI si sarebbe trasformato in un «partito radicale di massa». In questi anni il comunismo «si è rovesciato nel suo contrario: voleva affossare la borghesia e ne è divenuto una delle componenti più salde ed essenziali».
La fine della spinta propulsiva della rivoluzione d'ottobre. I rapporti con l'Unione Sovietica si allentarono ulteriormente quando a opera dello stesso Berlinguer iniziò la linea eurocomunista basata su un'alleanza tra i principali partiti comunisti dell'Europa occidentale (il PCI, Partito Comunista Francese guidato da Georges Marchais e il Partito Comunista di Spagna guidato da Santiago Carrillo) che cercò una qualche indipendenza dai sovietici. Questi ultimi in realtà mal digerirono la corrente di pensiero berlingueriana, che seguendo la tradizione della via italiana al socialismo già consolidata anni prima da Togliatti affermava la costruzione di un comunismo non pienamente allineato con quello sovietico, gettando le basi anche in senno alla nascitura Comunità europea di un comunismo proprio dei Paesi occidentali e non aderenti al Patto di Varsavia. La linea sovietica infatti era volta all'affermazione di una sola linea di principio, ovvero il comunismo russo come unico e solo punto di riferimento. Il che nelle varie fasi storiche della guerra fredda si tradusse in un continuo e costante contrasto con tutti quei Paesi, europei e non, che non ne adottavano pienamente la linea (Cina, Albania, Jugoslavia e infine anche Italia). Nel momento in cui Berlinguer ebbe a promuovere una linea di pensiero dottrinale distante da quella di Mosca, le conseguenze non si fecero attendere: oltre a richiami e moniti ci fu una sostanziosa riduzione dei finanziamenti sovietici alle casse del PCI. L'eurocomunismo attivo però durò poco a causa del riallineamento del Partito Comunista Francese alla tradizionale dipendenza dalla linea di quello sovietico, il calo del peso elettorale dei comunisti spagnoli e l'acuirsi delle differenze interne nello stesso PCI. Nonostante le critiche rivolte al partito sovietico Berlinguer continuava a elogiarne il regime, sostenendo nel 1975 che lì esisteva «un clima morale superiore, mentre le società capitalistiche sono sempre più colpite da un decadimento di idealità e di valori etici e da processi sempre più ampi di corruzione e di disgregazione», contrapponendo il «forte sviluppo produttivo» dell'Unione Sovietica alla «crisi del sistema imperialistico e capitalistico mondiale».[50] Ancora nel 1977 Berlinguer parlava di «grandi conquiste» realizzate dai Paesi comunisti, ammettendo però l'esistenza di «lati negativi» che «consistono essenzialmente nei loro tratti autoritari o negli ordinamenti limitativi di certe libertà». Aggiungeva infine che «quei paesi rappresentano una grande realtà sociale, una grande realtà nella vita del mondo di oggi». Nel novembre di quell'anno Berlinguer pronunciò a Mosca, dove si era recato per le celebrazioni comuniste dei sessant'anni dalla rivoluzione d'ottobre dei bolscevichi, un discorso che spinse alcuni come Ugo La Malfa e Eugenio Scalfari a ritenere ormai prossima la rottura del PCI con l'Unione Sovietica. Altri però, in particolare gli intellettuali della rivista socialista Mondoperaio, non vedevano nessuna rottura, se non una generica presa di distanza dallo stalinismo che non conduceva però a un effettivo ripudio dell'ideologia marxista-leninista, né all'ammissione di come la repressione del dissenso in Unione Sovietica fosse una diretta conseguenza di quell'ideologia. In occasione della Biennale di Venezia tra la fine del 1977 e il 1978 quando il suo Presidente, l'allora socialista Carlo Ripa di Meana, intese dar voce al dissenso degli intellettuali perseguitati dall'Unione Sovietica reagì duramente all'iniziativa parlando di provocazione e sollecitando il governo italiano a ritardare il finanziamento della Biennale. Diversi artisti e intellettuali vicini al PCI come Vittorio Gregotti e Luca Ronconi si dimisero in segno di protesta dal comitato della rassegna. Il tema dei rapporti del PCI con l'Unione Sovietica fu al centro di aspri dibattiti e scontri politici tra la fine degli anni settanta e l'inizio degli ottanta tra Berlinguer e l'emergente socialista Bettino Craxi, che rimproverava ai comunisti italiani di mantenere intatti i legami col regime sovietico e di non sposare fino in fondo i valori della socialdemocrazia europea. L'ambiguità dei rapporti del PCI con l'Unione Sovietica si protrasse per tutti gli anni ottanta. Se nel 1981 in seguito al golpe polacco di Jaruzelski che si ribellò a Mosca Berlinguer giunse a dichiarare conclusa la spinta propulsiva della rivoluzione d'ottobre[55] e producendo la reazione contraria di Armando Cossutta, che condannò il gesto come uno strappo, il PCI si oppose duramente all'installazione di una base euromissilistica in Italia come risposta ai missili di nuova generazione puntati dall'Unione Sovietica contro l'Italia e l'Europa occidentale. Ancora nel 1984 in risposta al documento dell'allora cardinale Ratzinger che condannava le teologie della liberazione sia per l'ideologia materialista di stampo marxista a esse sottesa, ritenuta inconciliabile col cristianesimo, sia per il loro carattere totalizzante derivante da quella stessa ideologia, il mensile Rinascita, da sempre strumento di elaborazione e diffusione della politica culturale del PCI, attaccò duramente le posizioni espresse da Ratzinger sostenendo che i suoi giudizi sul socialismo in generale e sulle sue applicazioni concrete in Unione Sovietica sarebbero stati «schematici», «grossolani» e privi di «considerazione storica». Solidarizzò invece con Ratzinger un ex membro del PCI, Lucio Colletti, fuoriuscito dal partito in seguito a una profonda revisione delle proprie convinzioni ideologiche: «Il giudizio del PCI sull'Unione Sovietica è il frutto, tuttora, di un avvilente compromesso intellettuale e morale. Decine di milioni di vittime sotto Stalin; il totalitarismo; il Gulag; un sistema che tuttora procede utilizzando il lavoro forzato dei lager; la mortificazione politica dei cittadini; la giustizia asservita al partito unico: tutti questi non sono ancora argomenti sufficienti perché il PCI possa trovarsi d'accordo con l'elementare verità espressa nel documento di Ratzinger: cioè, che in quei paesi, "milioni di nostri contemporanei aspirano legittimamente a ritrovare le libertà fondamentali di cui sono privati da parte dei regimi totalitari"; che questa è una vergogna del nostro tempo; "che si mantengono intere nazioni in condizioni di schiavitù indegne dell'uomo"; e che a questa vergogna si è giunti, "con la pretesa di portare loro la libertà"». Il KGB sovietico fu spesso tramite di trasferimenti illegali di valuta e finanziamento illecito al PCI durante gli anni sessanta e settanta come sostenuto a seguito della diffusione di vari rapporti detti Impedian, contenuti nel dossier Mitrokhin. Secondo il rapporto n. 100 del dossier solo nel 1971 un agente italiano al servizio del KGB, Anelito Barontini (nome in codice Klaudio) consegnò cifre in contanti per complessivi due milioni seicentomila dollari. Nel rapporto n. 122 del 6 ottobre 1995 segue un elenco dettagliato delle cifre dal 1970 al 1977 con elencati i nomi dei vari dirigenti coinvolti, tra cui Armando Cossutta. I rapporti tra PCI e KGB non si limitarono al solo inoltro dei finanziamenti, ma anche nell'utilizzo delle competenze del servizio segreto sovietico per rilevare eventuali apparati di ascolto posti nella sede del comitato centrale italiano (rapporto n. 131) e nell'addestramento alla cifratura e alle comunicazioni radio di personale del partito, come ad esempio dell'agente Andrea, noto come Kekkini (traslitterazione del nome Cecchini), membro del comitato centrale del PCI, inviato con passaporto straniero falso a nome di Ettore Morandi via Australia a Mosca dal giugno all'agosto 1972, anche per prendere accordi sull'instaurazione di una rete di comunicazione bidirezionale, fabbricazione di documenti falsi e altre attività illegali (rapporto n. 197).
La solidarietà nazionale. Nella seconda metà degli anni settanta si acuirono le tensioni sociali e politiche. La crisi economica-energetica, la disoccupazione, gli scioperi e il terrorismo conversero verso quello che molti hanno definito l'annus horribilis delle rivolte, ossia il 1977: echi sessantottini vibravano di nuovo fra gli studenti, riverberi della lotta di classe animavano il confronto, cioè il conflitto, fra i sindacati e le imprese e molti da molte classi sociali si rivoltavano in armi contro avversari politici e istituzioni. Nel 1976 nel contesto storico che vide alcuni cattolici come Raniero La Valle, Piero Pratesi e Mario Gozzini presentati ed eletti come indipendenti nelle file del PCI[58] e che avrebbe portato il partito a una fugace esperienza di responsabilità di governo avvenne un importante scambio di idee attraverso lettere aperte pubblicate su periodici tra Enrico Berlinguer e monsignor Luigi Bettazzi, nel quale Berlinguer in risposta alle preoccupazioni di Bettazzi precisò che nel PCI «esiste e opera la volontà non solo di costruire e di far vivere qui in Italia un partito laico e democratico, come tale non teista, non ateista e non antiteista; ma di volere, anche per diretta conseguenza, uno Stato laico e democratico, anch'esso dunque non teista, non ateista e non antiteista». Le preoccupazioni dei vescovi, anche di quelli più disposti a un'apertura, tuttavia non si sciolsero anche perché lo stesso Berlinguer omise di citare l'articolo 5 dello statuto che obbligava gli iscritti a sostenere e difendere il marxismo-leninismo e che fu cambiato solo nel 1979 in occasione del XV Congresso. Anche il PCI contestò sempre più fortemente la pregiudiziale che impediva al suo partito di accostarsi alla gestione del Paese. L'iniziativa fu lasciata a Giorgio Amendola, rappresentante prestigioso (anche per tradizione familiare) dell'ala moderata del partito e uomo capace di dialogare con i non comunisti, che proclamò che l'ora era suonata per «far parte a pieno titolo del governo». Nel febbraio del 1977 fu Ugo La Malfa a dichiarare per primo pubblicamente la necessità di un governo di emergenza comprendente i comunisti, ma la proposta fallì per il dissenso democristiano e socialdemocratico. Il 1978 fu per il PCI l'anno del destino e iniziò presto con un incontro subito dopo Capodanno fra Berlinguer e Bettino Craxi, al termine del quale fu prodotta una nota indicativa di ufficiale «identità di vedute», espressione tradotta dagli analisti come una sorta di «via libera» (o di non nocet) del PSI alle manovre del segretario Berlinguer e delle quali, già cominciate da molti mesi, si poteva ora parlare anche pubblicamente. Dopo una paziente opera di ricerca di possibili strategie di accesso pur parziale al governo Berlinguer pareva aver individuato in Aldo Moro l'interlocutore più adatto alla costruzione di un progetto concreto. Moro era il presidente della DC e condivideva con il segretario Berlinguer alcune caratteristiche personali che sembravano predisporre al dialogo: erano entrambi sottili intellettuali, lungimiranti politici e abili nonché pazienti strateghi. Fu Moro a parlare per primo di possibili «convergenze parallele», sebbene non propriamente in relazione ai desiderata del segretario Berlinguer, ma fu lo stesso Moro a mobilitare l'apparato democristiano per verificare la possibilità di convertire a utile accordo la sterile distanza che sino ad allora aveva diviso DC e PCI. Dai clandestini iniziali contatti, sinché possibile per interposta persona, si passò in seguito a una minima frequentazione diretta nella quale andava assumendo forma e contenuti il progetto del compromesso storico. Moro individuava nell'alleanza col PCI lo strumento che avrebbe consentito di superare il momento di grave crisi istituzionale e di credibilità dell'apparato governativo (screditato anche dalle campagne comuniste sulla questione morale), coinvolgendo l'opposizione nel governo e assicurandovi il minimo necessario per raggiungere una sicura maggioranza parlamentare. Nella DC Berlinguer vedeva invece primariamente (ma non solo semplicemente) quel possibile cavallo di Troia grazie al quale avrebbe potuto portare finalmente il suo partito al governo, tanto che è stato sostenuto che entrambi potevano aver condiviso il timore che la crisi in cui versava il Paese potesse dare adito a soluzioni di tipo cileno, come già anni prima paventato dallo stesso Berlinguer. Il compromesso storico in quest'ottica poteva porre il Paese al riparo da eventuali azioni dell'uno e dell'altro fronte. Berlinguer fu intanto ammesso come primo comunista italiano a lavori para-governativi come le riunioni dei segretari dei partiti della maggioranza in qualità di esterno interessato. Mentre Moro veniva definitivamente prosciolto dagli addebiti giudiziari in relazione allo scandalo Lockheed, che lo aveva infastidito sin da quando aveva cominciato a guardare a una possibile intesa coi comunisti, si preparava nel marzo del 1978 una riedizione del governo Andreotti, cui il PCI avrebbe dovuto smettere di fornire appoggio esterno (nel precedente governo, detto delle «non sfiducia», dal 1976 aveva garantito l'astensione per la prima volta rinunciando al voto d'opposizione), offrendo il voto favorevole a un monocolore DC in attesa di una fase successiva nella quale ammetterlo definitivamente e a pieno titolo nella compagine governativa. Questo governo nasceva con alcuni membri assolutamente sgraditi al PCI, come Antonio Bisaglia, Gaetano Stammati e Carlo Donat-Cattin, la cui inclusione nella compagine ministeriale era stata operata da Giulio Andreotti nonostante le richieste di esclusione da parte del PCI. Secondo una versione accreditata molti anni dopo insieme con Alessandro Natta, capogruppo alla Camera, Berlinguer dovette sveltamente decidere se proporre alla direzione del partito già convocata per il pomeriggio dello stesso giorno di ritirare l'appoggio al governo, ma la stessa mattina del 16 marzo, giorno previsto per la presentazione parlamentare del governo tanto faticosamente messo insieme, Moro fu rapito (e sarebbe poi stato ucciso) dalle Brigate Rosse. Berlinguer intuì la ripercussione negativa dell'evento verso la politica della solidarietà nazionale e scelse di dare al governo la fiducia nel più breve tempo possibile. La fiducia fu dunque votata dal PCI insieme a DC, PSI, PSDI e PRI, ma non senza che Berlinguer precisasse che l'espediente di Andreotti, che suonava di repentina modifica unilaterale di accordi lungamente elaborati, costituisse «invece un Governo che, per il modo in cui è stato composto, ha suscitato e suscita, com'è noto (ma io non voglio insistere in questo particolare momento su questo punto), una nostra severa critica e seri interrogativi e riserve».
Il ritorno all'opposizione. Se Moro non fosse stato rapito, il PCI probabilmente avrebbe dato battaglia ad Andreotti. Durante il sequestro Moro il PCI fu tra i più decisi sostenitori del cosiddetto «fronte della fermezza», del tutto contrario a qualsiasi tipo di trattativa con i terroristi, i quali avevano chiesto la liberazione di alcuni detenuti in cambio di quella di Moro. In questa occasione si acuì la contrapposizione a sinistra tra il PCI e il PSI guidato da Bettino Craxi, che tentò di sostenere politicamente gli sforzi di coloro che tentavano di salvare la vita di Moro (la sua famiglia, alcuni esponenti della DC non direttamente impegnati nel governo e il papa Paolo VI) sia per un intento umanitario e di ripulsa verso una concezione eccessivamente statalista dell'azione politica, tipica del cosiddetto umanesimo socialista, sia per marcare la distanza dei socialisti dai due maggiori partiti e dalla dottrina del compromesso storico che rischiava di confinare definitivamente il PSI in un ruolo marginale nel panorama politico italiano. Dopo il tragico epilogo della vicenda di Moro l'unico effetto di rilievo sulla DC parvero le dimissioni di Francesco Cossiga, che era ministro dell'interno. Il PCI restava fuori della compagine di governo, Berlinguer non partecipava più alle riunioni insieme ai segretari dell'arco costituzionale (anche se a livello parlamentare i contatti continuavano a essere tenuti dal capogruppo Ugo Pecchioli) e il governo Andreotti restava dov'era, sempre con Bisaglia e Stammati nella compagine di governo. Un mese dopo la morte di Moro nel giugno del 1978 esplose con inaudita virulenza il caso del presidente della Repubblica Giovanni Leone, che grazie a una campagna cui il PCI aveva già dato un contributo fondamentale (e che a questo punto omise di ritirare) fu costretto alle dimissioni. Oltre al rancore verso Andreotti, cui si doveva un governo diverso da quello concordato (e che tradizionalmente avrebbe dovuto presentare dimissioni in caso di elezione di un nuovo capo dello Stato), si è supposto che la campagna scandalistica sia stata ulteriormente indurita da Berlinguer per poter far salire al Quirinale qualcuno meno avvinto dalla pregiudiziale anticomunista di quanto non fossero stati i presidenti precedenti. L'elezione di Sandro Pertini, oltre che gradita al PCI, piaceva a molti settori della politica. Da parte dei socialisti, nel cui partito militava, vi era ovviamente la soddisfazione per la nomina di una figura amica che avrebbe potuto accrescere la capacità di influenza del partito di Craxi. Da parte democristiana (dalla quale si era barattata la candidatura con la persistenza al governo) Pertini era ritenuto poco pericoloso, almeno fintantoché fossero proseguiti i buoni rapporti con la DC. Anche i Repubblicani guardavano a possibili riprese di prestigio (e di influenza politica) con un nuovo scenario che premiava con la carica uno degli storici partiti laici italiani. L'entusiasmo di Berlinguer fu però di breve durata poiché non solo Andreotti non si dimise, ma dopo la caduta determinata dall'opposizione comunista all'ingresso nel primo sistema monetario europeo successe a sé stesso con il governo Andreotti V sul principio dell'anno successivo per governare le inevitabili elezioni anticipate. Il PCI fu quindi escluso dalle relazioni fra i partiti della maggioranza e si apprestò a tornare al suo ruolo di opposizione. Il PCI si ritrovò di nuovo all'opposizione e nel decennio successivo fu completamente isolato in quanto il PSI di Craxi dopo avere a lungo oscillato, governando a livello locale sia con la DC sia con il PCI, formulò stabilmente a livello nazionale un'alleanza di governo con la DC e con gli altri partiti laici, PSDI, PLI e PRI, denominata pentapartito, facendo pesare sempre di più nelle richieste di posti di potere il suo ruolo di partito di confine. Per uscire dall'isolamento Berlinguer provò a ricostruire delle alleanze nella base del Paese, cercando convergenze con le nuove forze sociali che chiedevano il rinnovamento della società italiana e riprendendo i rapporti con quello che era il tradizionale riferimento sociale del PCI, ossia la classe operaia. In quest'ottica vanno lette le battaglie contro l'installazione degli euromissili, per la pace e soprattutto nella vertenza degli operai della FIAT del 1980. Il PCI in quella lotta arrivò anche a scavalcare il ruolo della CGIL e la sconfitta finale e quella riportata anni dopo nel referendum sulla scala mobile segnarono in maniera indelebile il partito.
La segreteria di Natta. In particolare il referendum del 1985, che era stato fortemente voluto da Berlinguer, per abrogare il cosiddetto decreto di San Valentino del 14 febbraio 1984 del governo Craxi, con il quale era stato recepito in una norma legislativa valida erga omnes l'accordo delle associazioni imprenditoriali con i soli sindacati CISL e UIL, con l'opposizione della CGIL, che tagliava 4 punti percentuali dell'indennità di contingenza, segnò il punto massimo dello scontro tra Berlinguer e Craxi. L'opposizione comunista al primo governo a guida socialista della storia della Repubblica toccò punte di parossismo e Craxi venne indicato come un nemico della classe operaia, tanto che molti iscritti e sindacalisti socialisti della CGIL furono indotti dal clima di ostracismo determinatosi nei loro confronti ad aderire alla UIL guidata da Giorgio Benvenuto che divenne di fatto il sindacato socialista, pur se molti rimasero nella CGIL grazie anche all'impegno del suo segretario generale Luciano Lama, che non aveva condiviso fino in fondo la scelta di Berlinguer di raccogliere le firme per l'indizione del referendum poi perso. L'11 giugno 1984 il segretario Berlinguer morì a Padova a causa di un ictus che l'aveva colpito il 7 giugno sul palco mentre stava pronunciando un discorso trasmesso in diretta televisiva in vista delle elezioni europee del successivo 17 giugno. La morte di Berlinguer destò un'enorme impressione in tutto il Paese anche per la casuale presenza a Padova del presidente della Repubblica Pertini che accorse al capezzale di Berlinguer e decise di riportarne la salma a Roma con l'aereo presidenziale. I funerali videro una grande partecipazione di popolo non solo delle migliaia di militanti del PCI provenienti da tutta Italia, ma di molti cittadini romani e l'omaggio alla salma di delegazioni di tutti i partiti italiani (compresa quella del MSI) e dei partiti socialisti e comunisti di tutto il mondo. Alle elezioni europee il PCI raggiunse il suo massimo risultato (33,3% dei voti), sorpassando sia pur di poco e per la prima e unica volta la DC (33,0% dei voti), per cui i commentatori parlarono di un «effetto Berlinguer». Nell'aprile del 1986 fu tenuto anticipatamente a causa della disfatta dell'anno precedente nelle elezioni regionali il XVII Congresso. Come risposta alla crisi il gruppo dirigente del partito tentò grazie alla decisiva spinta dell'area migliorista di Giorgio Napolitano un riposizionamento internazionale del PCI, proponendo il totale distacco dal movimento comunista per entrare a far parte a tutti gli effetti del Partito Socialista Europeo. A questa linea si oppose duramente un piccolo gruppo organizzato da Cossutta, che in minoranza all'interno del partito aveva dato vita a una vera e propria corrente stabile sin da quando in occasione del golpe polacco di Wojciech Jaruzelski il segretario Berlinguer aveva proclamato esaurita la «spinta propulsiva della rivoluzione d'Ottobre». Nel maggio 1988 Natta è colto da un leggero infarto.[62] Non è grave, ma gli vien fatto capire dagli alti dirigenti che non è più gradito come segretario. Natta si dimette e al suo posto viene messo il vice Achille Occhetto. Natta viene dimesso dal PCI mentre è ancora convalescente in ospedale nonostante gli fosse stato garantito da Pajetta che avrebbero spostato la direzione del partito a ottobre. Natta apprende infatti la notizia delle sue dimissioni dalla radio mentre è ancora in ospedale, come avrebbe poi dichiarato la moglie Adele Morelli un mese dopo la scomparsa del marito.
La segreteria di Occhetto. Nel marzo 1989 Occhetto lancia il «nuovo PCI» come uscì dai lavori del XVIII Congresso, il primo a tesi contrapposte nella storia del partito (sebbene non fu garantita una piena ed effettiva parità di condizioni al documento della minoranza). Il 19 luglio 1989 viene costituito un governo ombra ispirato al modello inglese dello «shadow cabinet» per meglio esplicitare l'alternativa di governo che il PCI intendeva rappresentare.
Referendum ambientalisti. Nel 1989 il PCI promosse con altre forze politiche e gruppi ambientalisti tre referendum per abrogare la legge sulla caccia, eliminare il diritto dei cacciatori di accedere al fondo altrui anche senza il consenso del proprietario e per limitare l'uso dei pesticidi nell'agricoltura. Tutti e i tre referendum, che si svolsero l'anno successivo, videro la vittoria dei sì, ma il quorum non fu raggiunto e dunque le norme sottoposte ad abrogazione rimasero in vigore.
La caduta del muro di Berlino e lo scioglimento del PCI. Il 12 novembre 1989, tre giorni dopo la caduta del muro di Berlino, Achille Occhetto annunciò «grandi cambiamenti» a Bologna in una riunione di ex partigiani e militanti comunisti della sezione Bolognina. Fu questa la cosiddetta «svolta della Bolognina» nella quale Occhetto propose prendendo da solo la decisione di aprire un nuovo corso politico che preludeva al superamento del PCI e alla nascita di un nuovo partito della sinistra italiana. Nel partito si accese una discussione e il dissenso per la prima volta fu notevole e coinvolse ampi settori della base. Dirigenti nazionali di primaria importanza quali Pietro Ingrao, Alessandro Natta e Aldo Tortorella, oltre che Armando Cossutta, si opposero in maniera convinta alla svolta. Per decidere sulla proposta di Occhetto fu indetto un Congresso straordinario del partito, il XIX, che si tenne a Bologna nel marzo del 1990. Tre furono le mozioni che si contrapposero:
La prima mozione, intitolata Dare vita alla fase costituente di una nuova formazione politica, era quella di Occhetto, che proponeva la costruzione di una nuova formazione politica democratica, riformatrice e aperta a componenti laiche e cattoliche, che superasse il centralismo democratico. Il 67% dei consensi ottenuti dalla mozione permise la rielezione di Occhetto alla carica di segretario generale e la conferma della sua linea politica.
La seconda mozione, intitolata Per un vero rinnovamento del PCI e della sinistra, fu sottoscritta da Ingrao e tra gli altri da Angius, Castellina, Chiarante e Tortorella. Secondo i sostenitori di questa mozione il PCI doveva sì rinnovarsi nella politica e nella organizzazione, ma senza smarrire se stesso. Questa mozione uscì sconfitta ottenendo il 30% dei consensi.
La terza mozione, intitolata Per una democrazia socialista in Europa, fu presentata dal gruppo di Cossutta. Costruita su un impianto profondamente ortodosso ottenne solo il 3% dei consensi.
Il XX Congresso tenutosi a Rimini nel febbraio del 1991 fu l'ultimo del PCI. Le mozioni che si contrapposero a questo Congresso furono sempre tre, anche se con schieramenti leggermente diversi:
La mozione di Occhetto, D'Alema e molti altri dirigenti, intitolata Per il Partito Democratico della Sinistra, che ottenne il 67,46% dei voti eleggendo 848 delegati.
Una mozione intermedia, intitolata Per un moderno partito antagonista e riformatore, capeggiata da Bassolino, che ottenne il 5,76% dei voti eleggendo 72 delegati.
La mozione contraria alla nascita del nuovo partito, intitolata Rifondazione comunista, nata dall'accorpamento delle mozioni di Ingrao e Cossutta, ottenne il 26,77% dei voti eleggendo 339 delegati, cioè meno rispetto alla somma dei voti delle due mozioni presentate al precedente Congresso.
Partito Democratico della Sinistra e Rifondazione Comunista. Il 3 febbraio 1991 il PCI deliberò il proprio scioglimento promuovendo contestualmente la costituzione del Partito Democratico della Sinistra (PDS) con 807 voti favorevoli, 75 contrari e 49 astenuti. Il cambiamento del nome intendeva sottolineare la differenziazione politica con il partito originario accentuando l'aspetto democratico. Una novantina di delegati della mozione Rifondazione comunista non aderì alla nuova formazione e diede vita al Movimento per la Rifondazione Comunista, che poi inglobò Democrazia Proletaria (DP) e altre formazioni comuniste minori assumendo la denominazione di Partito della Rifondazione Comunista (PRC).
Correnti. Fin dall'inizio il PCI non ha mai avuto componenti interne organizzate e riconosciute, peraltro vietate dallo statuto (cosiddetto «divieto di frazionismo», che proibiva l'organizzazione di minoranze interne), ma piuttosto delle tendenze più o meno individuabili (inizialmente quelle di Amendola e di Ingrao). Le correnti si sono però via via caratterizzate fino a divenire più individuabili negli anni ottanta.
Miglioristi. I miglioristi rappresentavano la destra del partito. Eredi delle posizioni di Giorgio Amendola (sostanzialmente orientato verso una forma di socialismo democratico e riformista), i miglioristi erano radicati nel suo apparato e nella gestione delle cooperative rosse. Propensi a un miglioramento riformista del capitalismo, non condividevano la politica sovietica (anche se a più riprese vi si conformarono), contrastarono l'estrema sinistra del 1968 e del 1977, ma anche le correnti del PCI più movimentiste o moraliste. Sostenevano il dialogo e l'azione comune con partiti come il PSDI e il PSI, quest'ultimo specialmente durante la segreteria di Craxi, di cui erano interlocutori privilegiati. Furono con qualche eccezione grandi sostenitori della svolta di Occhetto nel 1989 (firmando la mozione 1). Il capo politico tradizionale della corrente era Giorgio Napolitano (divenuto presidente della Repubblica nel 2006) e vi appartenevano anche Paolo Bufalini, Gerardo Chiaromonte, Napoleone Colajanni, Guido Fanti, Nilde Iotti, Luciano Lama, Emanuele Macaluso, Antonello Trombadori e altri ancora. L'area ex-diessina del Partito Democratico (PD) raggruppa la maggior parte dei seguaci dei miglioristi.
Berlingueriani. I berlingueriani costituivano il centro del partito, erede delle posizioni di Luigi Longo. Quest'area, formata da ex amendoliani ed ex ingraiani, divenne più inquadrabile durante la segreteria di Berlinguer (che la guidava). Anch'essa diffidente nei confronti della nuova sinistra (seppur meno dei miglioristi), era favorevole al distacco dalla sfera d'influenza dell'Unione Sovietica per conseguire una via italiana al socialismo, alternativa a stalinismo e socialdemocrazia. Negli anni ottanta i berlingueriani dopo il fallimento del compromesso storico con la DC tentarono un'alternativa democratica da perseguire moralizzando il sistema partitico («questione morale»), sviluppando al contempo una forte avversione al PSI di Craxi. Il centro del PCI si divise poi nell'ultimo Congresso del 1989 tra favorevoli e contrari alla svolta di Occhetto (mozioni 1 e 2), anche se poi in stragrande maggioranza confluì nel PDS. Berlingueriani erano oltre a Natta e Occhetto (proveniente dalla sinistra) anche Gavino Angius, Tom Benetollo, Giovanni Berlinguer, Giuseppe Chiarante, Pio La Torre, Adalberto Minucci, Fabio Mussi, Diego Novelli, Giancarlo Pajetta, Ugo Pecchioli, Alfredo Reichlin, Franco Rodano, Tonino Tatò, Aldo Tortorella, Renato Zangheri e altri ancora. Provenienti dalla Federazione Giovanile Comunista Italiana (FGCI) erano Massimo D'Alema, Piero Fassino, Pietro Folena, Renzo Imbeni e Walter Veltroni. Oggi date le divisioni all'ultimo Congresso l'ex corrente berlingueriana è divisa tra PD (mozione 1), PRC e Sinistra Ecologia Libertà (SEL) (mozione 2, l'ex Fronte del No). Minucci e Nicola Tranfaglia hanno aderito al Partito dei Comunisti Italiani (PdCI), Folena è stato eletto in Parlamento da Rifondazione in quota Sinistra Europea mentre Angius ha lasciato la Sinistra Democratica per il Partito Socialista Italiano. Angius e Folena hanno aderito successivamente al PD.[63] Alcuni sono usciti dalla politica attiva (prima Natta, poi Tortorella e Chiarante che hanno costituito l'Associazione per il Rinnovamento della Sinistra).
Ingraiani. Guidati da Pietro Ingrao, tenace avversario di Giorgio Amendola nel partito, gli ingraiani erano per definizione gli esponenti della sinistra movimentista del PCI, molto ben radicati nella FGCI e anche nella CGIL. Questa corrente era contraria a manovre politiche considerate di destra e sosteneva posizioni che erano definite (non sempre in modo coerente) marxiste-leniniste.[senza fonte] Era poco incline ad alleanze con la DC (per questo motivo molti furono gli ex ingraiani passati con Berlinguer). Molto meno diffidente di berlingueriani e miglioristi nei confronti dei movimenti del dopo Sessantotto, riuscì ad attrarre svariati giovani proprio tra questi ultimi, spesso contrapponendoli a quelli più ortodossi che militavano in DP o in altre formazioni di estrema sinistra. Nel 1969 la corrente perse la componente critica legata alla rivista il manifesto, espulsa anche con l'appoggio di Ingrao dal partito e poi rientratavi nel 1984. I valori principali degli ingraiani erano quelli dell'ambientalismo, del femminismo e del pacifismo. Si opposero in larga parte alla svolta della Bolognina costituendo il nucleo principale del Fronte del No, cioè la mozione di minoranza più consistente (la 2). Ingraiani erano Alberto Asor Rosa, Antonio Baldassarre, Antonio Bassolino, Fausto Bertinotti, Bianca Bracci Torsi, Lucio Colletti, Aniello Coppola, Sandro Curzi, Lucio Libertini, Bruno Ferrero, Sergio Garavini, Ersilia Salvato, Rino Serri e altri ancora. Dalla FGCI provenivano Ferdinando Adornato, Massimo Brutti, Franco Giordano e Nichi Vendola. Di origine ingraiana erano oltre agli ex manifesto-PdUP, anche berlingueriani come Angius, D'Alema, Fassino, Occhetto, Reichlin e altri. Oggi gli ex ingraiani sono divisi tra sinistra PD, PRC e SEL.
Cossuttiani. I cossuttiani erano forse l'unica vera e propria corrente del PCI, presente perlopiù nell'apparato partitico, comprensiva però di alcuni ex operaisti. L'area guidata da Cossutta non voleva rompere il legame internazionalista con l'Unione Sovietica, causa di uno strappo lacerante che avrebbe investito anche i connotati politico-ideali in favore di una pericolosa «mutazione genetica» del partito. Erano inoltre assertori di un legame da conservare e sviluppare con tutti gli altri Paesi socialisti (come quello cubano). Nel partito giunsero a criticare con asprezza l'azione politica intrapresa da Berlinguer durante la sua segreteria, combattendo al contempo sia contro l'allontanamento progressivo dall'Unione Sovietica che i tentativi di compromesso con la DC. Nel Congresso della svolta riuscirono a conquistare solo il 3% dei voti con una mozione (la 3), sebbene più piccola, maggiormente organizzata e meno eterogenea della seconda. Cossuttiani erano tra gli altri Guido Cappelloni, Gian Mario Cazzaniga, Giulietto Chiesa, Aurelio Crippa, Oliviero Diliberto, Claudio Grassi, Marco Rizzo, Fausto Sorini e Graziella Mascia. Oggi i cossuttiani, che vengono connotati come ex cossuttiani per la divergente strada politica intrapresa dallo stesso Cossutta (tranne Chiesa che ha seguito un diverso percorso politico-culturale) sono presenti in larga parte nel PdCI (che Cossutta ha presieduto fino alle dimissioni avvenute nel 2006), ma anche in consistenti componenti interne del PRC (Essere Comunisti di Claudio Grassi e Alberto Burgio, L'Ernesto di Fosco Giannini e Andrea Catone).
Il manifesto. Il manifesto era la componente di origine ingraiana nata attorno alla rivista omonima ed espulsa dal PCI nel 1969. Esponenti più significati e fondatori poi del quotidiano avente il medesimo nome furono Aldo Natoli, Rossana Rossanda, Luigi Pintor, Lucio Magri, Luciana Castellina, Eliseo Milani, Valentino Parlato e Lidia Menapace. La sua dura critica alla politica dell'Unione Sovietica (culminata con la condanna nel 1969 all'invasione sovietica della Cecoslovacchia) le costò la radiazione del PCI. Costituitasi come soggetto politico autonomo della nuova sinistra, nel 1974 si unificò con il Partito di Unità Proletaria (costituito da socialisti provenienti da PSIUP e aclisti del MPL) per fondare il Partito di Unità Proletaria per il Comunismo con Magri segretario. L'unione durò poco e nel 1977 l'area PSIUP-MPL uscì per confluire in DP mentre gli ex manifesto inglobarono la minoranza di Avanguardia Operaia (per poco tempo) e infine il Movimento Lavoratori per il Socialismo (MLS), mantenendo il nome di Partito di Unità Proletaria per il Comunismo. Nel 1983 il partito presentò propri candidati nelle liste comuniste e nel 1984 confluì definitivamente nel PCI con gli ex militanti del MLS. Quando si tenne il Congresso alla Bolognina la maggior parte dei militanti dell'ex PdUP per il Comunismo aderì al Fronte del No. Magri e altri rimasero nel PDS per breve tempo, dopodiché aderirono a Rifondazione nel 1991. Nel 1995 lasciarono però il PRC con Garavini dando vita al Movimento dei Comunisti Unitari, che tranne Magri e Castellina confluì nei DS nel 1998. Oggi dirigenti ed esponenti del PdUP-MLS si ritrovano con ruoli diversi in tutti i partiti della sinistra. Vincenzo Vita, Famiano Crucianelli e Davide Ferrari sono nel PD, Luciano Pettinari in SD, mentre Franco Grillini ha aderito alla rifondazione del PSI e in seguito all'Italia dei Valori. Del MLS Luca Cafiero ha lasciato la politica attiva, Alfonso Gianni era in SEL (l'ha abbandonata nel 2013) e Ramon Mantovani in Rifondazione. I fondatori veri e propri del manifesto sono oggi fuori dalle organizzazioni di partito.
La storica scissione del 1921: nasce il Partito Comunista. Dai socialisti di Turati al Pd di Renzi, quando la sinistra entra in fibrillazione. Fabio Demi su altoadige.it il 25 febbraio 2017. Il tono è freddissimo, sprezzante. Più che un addio, è un ripudio. Le parole di Amadeo Bordiga sono perentorie: «I delegati che hanno votato la mozione della frazione comunista abbandonino la sala; sono convocati alle 11 al Teatro San Marco per deliberare la costituzione del Partito comunista, sezione italiana della Terza Internazionale». I comunisti si avviano verso la nuova assise di fondazione cantando l’Internazionale, scortati da guardie regie e carabinieri ma anche da gruppi di operai scesi dalle gallerie del Goldoni dove avevano seguito i lavori del congresso della scissione. Ora che nella sinistra italiana, in casa del Pd ma non solo, soffiano nuovamente forti i venti della divisione, rievochiamo i giorni della madre di tutte le scissioni, quella di Livorno del 21 gennaio 1921, quando i comunisti lasciarono il Partito socialista. Lo facciamo usando i resoconti del quotidiano livornese “Il Tirreno”, che allora si chiamava “Il Telegrafo” e che ovviamente dedicò ampio spazio al grande evento: aveva proprio sotto casa un appuntamento politico che, tutti ne erano consapevoli, avrebbe avuto enormi ripercussioni nel futuro.
14 GENNAIO 1921. “Alla vigilia del congresso socialista”, titola “Il Telegrafo” in seconda pagina. E chiarisce subito le cose: «I nostri lettori conoscono la posizione ben netta da noi assunta in ogni circostanza di fronte ai socialisti. Sanno come tale posizione sia sempre stata di aperta battaglia soprattutto verso quelle tendenze che mirerebbero, in nome di un’utopia irraggiungibile, a gettare il paese nel baratro di una catastrofe paurosa». Nonostante questo non verrà meno «la tradizionale ospitalità della nostra Livorno, la quale ha sempre dato prova della più alta educazione civile». Il giornale dà conto dei preparativi al “Goldoni”, dell’arrivo dei congressisti e dei numerosi giornalisti, delle imponenti misure prese per garantire la sicurezza ed evitare scontri sanguinosi con i fascisti, e del manifesto di benvenuto fatto affiggere dal Comune («...Un legittimo sentimento d’orgoglio in quanto Livorno è stata scelta, oltre che come importante baluardo conquistato al Socialismo, per la fama che gode di essere ospital sede in cui generosa e cordiale è l’accoglienza».
15 GENNAIO. Prima pagina e titolone: «Il Congresso socialista di Livorno. L’inizio dei lavori rinviato al pomeriggio». Il nostro cronista si lancia nelle previsioni, che sono giuste. Leggiamo: «Si dà per certa la scissione. Ed infatti se la sincerità e la logica avessero di regola un’influenza decisiva sulle manifestazioni della vita politica italiana, congressi socialisti compresi, nemmeno per un attimo potremmo dubitare della fatalità di un distacco dei comunisti di Bombacci dai comunisti di Serrati. Queste son le due tendenze - comunismo puro e comunismo... impuro - che indubbiamente saranno più impegnate nel dibattito. Le divide una barriera difficilmente superabile. Adesione piena ed incondizionata ai 21 punti di Mosca, obbedienza cieca ai comandamenti di Lenin, da una parte; accettazione di queste due cose con riserva, cioè con una prudente considerazione delle particolari difficoltà dell’Italia, dall’altra». Segue un’intervista a Nicola Bombacci, individuato come leader della frazione comunista (in realtà la figura più rappresentativa era Bordiga). Il titolo è eloquente: “Non più ministri ma commissari dei Soviety”. In un sottotitolo si ribadisce, dando prova di avere informazioni molto dettagliate: «Scissione sicura... I comunisti dovranno rapidamente costituire il loro partito. Appena avvenuto il voto i comunisti si riuniranno per deliberare se dovranno scindersi o no. La loro riunione avverrebbe al teatro San Marco, già pronto. La loro deliberazione, sotto forma di mozione, sarebbe recapitata agli altri, ancora adunati, ed ognuno dei due partiti, proseguirebbe per proprio conto». Le cose in effetti, qualche giorno dopo, andarono così.
17 GENNAIO. Il teatro Goldoni è una polveriera. “Il Telegrafo” titola a tutta pagina: “Le tumultuose sedute al Congresso socialista di Livorno. Verso la scissione del partito...». La descrizione della prima riunione di sabato 15 prende una pagina intera. Il segretario Menotti Serrati è subito sotto accusa. Per i comunisti, «Serrati si burla di coloro che ammettono di trovarsi in un periodo rivoluzionario. La situazione è in realtà già matura e chi nega il carattere rivoluzionario delle lotte combattute dopo la guerra, come fa Serrati, si è definitivamente collocato sul terreno dei riformisti». Il giornale parla di vivaci incidenti, scambi di invettive, grida continue “Viva la Repubblica dei Soviety!». Nella situazione esplosiva e drammatica c’è anche spazio per l’ironia. Il cronista (che si firma “Gich.”) ci fa sapere che «si è persino ricorsi allo spiritismo per avere qualche indiscrezione sul Congresso. Ho assistito a una seduta: in una stanzetta quattro o cinque credenti attorno a un tavolino, a tre gambe, al buio o quasi. Grande concentramento, grande consumo di sigarette in attesa che lo spirito si riveli. Ma il tavolino è pigro... Finalmente ecco che si muove: ta..ta..ta... Chi sei? M..a..r..x... Benone! Giungi proprio a proposito! Sei qui per il Congresso? Segno affermativo. - Illustre maestro! Potresti dirci qualche cosa sul Congresso, la vostra impressione, quali risultati potrà avere. L’attenzione diviene più intensa, il tavolino resta immobile. Si replica la domanda, nulla! Finalmente ecco si muove. Puoi rispondere? Sì o no? Con molta incertezza, con molta lentezza il tavolino batte queste lettere: F..u..m..o... (alfabeto Morse?, ndr) E non fu possibile ricavarci altro». Che voleva dire Carlo Marx?
18 GENNAIO. L’urto delle due tendenze nei discorsi di Costantino Lazzari e di Umberto Terracini. “Il Telegrafo” titola sugli interventi del vecchio socialista, Lazzari, e del giovane comunista, Terracini, rappresentante del gruppo di Ordine Nuovo (lo stesso di Gramsci e Togliatti). Lazzari difende con passione il valore dell’unità: «Un giovane compagno nostro si è presentato a questa tribuna per offendere la nostra unità. Per quel giovane la nostra unità è un semplice fantoccio. Dobbiamo anche noi considerarla un fantoccio, o compagni, noi che per l’unità abbiamo combattuto per anni e combattiamo oggi con uguale fede?». Terracini la vede molto diversamente: «La scissione del partito socialista che chiediamo in questo momento è un fatto rivoluzionario. Noi comunisti affermiamo che la presa di possesso del potere in Italia per parte del proletariato, non può avvenire che con la costituzione dei consigli degli operai e dei contadini». 19 GENNAIO. Giornata di tumulti. Mentre parla Vincenzo Vacirca, vicino alle posizioni di Lazzari, racconta il cronista, «Bombacci da un palco del proscenio sventola la bella barba e l’abbondante chioma terribilmente arrabbiato; ma un coro di urli, di canti, di fischi e ...altri rumori impediscono che si possa afferrare qualsiasi interruzione. Si dice che Bombacci abbia tirato fuori la rivoltella». In pratica sarebbe successo che Vacirca avrebbe apostrofato Bombacci con un insultante “Rivoluzionari da temperino”, esibendo giust’appunto un temperino. E Bombacci non avrebbe esitato a metter mano al revolver. Le sedute erano ai limiti dell’ingestibilità. 20 GENNAIO. Parla Amadeo Bordiga, capo della frazione comunista. “Il Telegrafo” titola: «La concezione catastrofica di Bordiga». Il resoconto dell’ intervento è nella parte nobile della prima pagina (tipo editoriale) mentre il discorso di Filippo Turati, figura centrale del socialismo italiano, è a fondo pagina. «Alla concezione riformista - scrive il giornale - secondo la quale il mondo capitalista lentamente e pacificamente avrebbe portato a una società socialista, Bordiga contrappone la concezione marxista, catastrofica, affermante la necessità dell’urto violento per spezzare la compagine borghese e dar vita al nuovo organismo proletario, qual è sorto in Russia e quale dovrò sorgere anche in Italia». La distanza con quello che dice Turati è abissale: «Le classi che oggi tengono il potere hanno più paura dei mezzi legali che della violenza... Il bolscevismo russo non è che un nazionalismo russo in una forma orientale, ed esso si aggrappa a noi per prolungare la sua vita, e noi non possiamo seguirlo... Temete oggi di ricostruire per la borghesia? Sperate che dalla miseria crescente nasca la rivendicazione sociale? No! Non nascono che le guardie regie e il fascismo». 21-22 GENNAIO. I giorni delle votazioni e della divisione. Tutto come previsto. Non ci sono sorprese o ripensamenti. “Il Telegrafo” fornisce le cifre finali: vincono gli unitari di Serrati, che ottengono quasi il doppio dei voti dei comunisti. Bordiga contesta i risultati e poi si arriva alla conclusione che tutti aspettavano. «Ed abbiamo l’ esodo dei comunisti - scrive il giornale - al quale si vuol dare un certo effetto scenico. I comunisti abbandonano la sala in massa cantando l’ Internazionale. Scoppiano vivissimi applausi. Gli unitari protestano con qualche fischio». 21 gennaio 1921: la scissione è cosa fatta.
Il fascismo fu la risposta alle minacce dei "rossi". Nel 1919-20 la sinistra evocò lo spettro della rivoluzione, ma provocò la nascita dello squadrismo. Come racconta Pansa in "Eia Eia Alalà". Giampaolo Pansa, Sabato 16/04/2016, su Il Giornale. Tutti i nodi vennero sciolti con il colpo di spada dell'offensiva squadrista. È il calendario a ricordarci la velocità di quell'azione. Un blitz che ebbe inizio, si sviluppò e vinse in meno di due anni: dalla fine del 1920 all'ottobre del 1922. I rossi cianciavano di rivoluzione, i neri costruirono con i fatti la reazione a tante chiacchiere. Aveva ragione il mio edicolante: la colpa di aver messo in sella il fascismo, e di aver mandato al governo Mussolini, era soltanto dei socialisti. Chi comprese subito quanto era avvenuto fu uno scrittore anarchico, il bolognese Luigi Fabbri, autore di un libro stampato nel 1922 dall'editore Cappelli e intitolato: La controrivoluzione preventiva. La sua tesi era semplice. La rivoluzione tanto predicata dai socialisti non era arrivata e in un certo senso non era mai stata voluta per davvero. Ma le sinistre l'avevano fatta pesare come una minaccia per tutto il 1919 e il 1920. Questo fu sufficiente a provocare la controrivoluzione moderata, di cui il fascismo era il protagonista più impietoso e risolutore. Una bufera che si giovò soprattutto di due armi: la violenza illegale dello squadrismo e la repressione legale del governo liberale, attuata dalla polizia, dai carabinieri e dalla guardia regia, quasi sempre rivolte contro le sinistre. Il risultato fu simile ai giochi di guerra delle Play Station odierne. Le sinistre avevano gridato per due anni di voler fare come in Russia, ma senza saper passare dai proclami alla rivoluzione vera. E i fascisti andarono all'assalto per impedire a chiunque di trasformare in fatti le teorie del bolscevismo nostrano. Gli incauti parolai rossi si erano comportati come l'apprendista stregone: avevano creato il mostro che li avrebbe divorati. Infine le sinistre erano pronte a farsi sconfiggere. Dentro un corpo in apparenza molto solido celavano il virus della discordia e della divisione. Stavano insieme in un solo partito e in poco più di un anno si ritrovarono frantumate in tre segmenti. Nel gennaio 1921, a Livorno, la corrente guidata da Antonio Gramsci e Amadeo Bordiga lasciò il Psi e fondò il Partito comunista d'Italia. Allora accadde un fatto assurdo, che anticipava tutte le pazzie destinate nel futuro a corrodere la sinistra italiana. Mentre il nuovo partito iniziava subito l'attacco ai vecchi compagni, i socialisti rimasti nel Psi rinnovavano all'unanimità la fedeltà a Mosca che aveva voluto la scissione. Anni dopo, un Gramsci costretto all'autocritica avrebbe affermato che la scissione era stata «il più grande regalo fatto alla reazione». Ma in quel 1921, già carico di pericoli per la sinistra, pochi lo compresero. Fra questi c'era Nenni, che scrisse: «A Livorno è cominciata la tragedia del proletariato italiano». E un altro politico vicino al Psi sfornò un'immagine sempre attuale: «La scissione è il cacio sulla minestra della borghesia». Ma al socialismo italiano una sola frantumazione non bastava. Se ne costruirono una seconda all'inizio dell'ottobre 1922, ventiquattro giorni prima della marcia su Roma. Al diciannovesimo congresso del Psi, la corrente massimalista, sfruttando una lieve maggioranza di delegati, espulse i riformisti di Filippo Turati, Claudio Treves e Giacomo Matteotti. I compagni messi fuori dalla vecchia casa formarono un nuovo movimento politico: il Partito socialista unitario. Affidato alla guida di Matteotti, nominato segretario. Gramsci schernì subito il deputato di Fratta Polesine dicendo che era «un pellegrino del nulla». Mentre la sinistra si svenava in una guerra senza quartiere contro se stessa, lo squadrismo fascista cresceva a vista d'occhio e partoriva figure sempre nuove. Molti protagonisti della controrivoluzione in camicia nera il lettore li troverà effigiati in Eia eia alalà. Alcuni di loro emergevano da un'Italia sotterranea e sconosciuta, da mondi estranei alla politica, con un passato torbido, non privo di nefandezze. È il caso di una coppia di amanti, poi divenuti marito e moglie: i conti Carminati Brambilla che hanno un posto di rilievo in questo libro.
Mentre scrivevo questo libro mi sono rivolto una domanda. Nell'Italia degli anni Duemila è possibile vedere emergere un regime autoritario non molto diverso dal regime fascista, anche se di colore differente, bianco invece che nero, oppure rosso o rosa? Non è un interrogativo privo di senso. La storia europea del Novecento ci ha insegnato che le dittature nascono in paesi che hanno tre caratteristiche. Sono deboli perché stremati da una guerra o da una crisi economica feroce. Hanno istituzioni democratiche screditate e che non funzionano più, in mano a partiti inefficienti e corrotti. Risultano dilaniati da contrasti sociali molto forti, tra una minoranza di presunti ricchi e una maggioranza di cittadini sempre più poveri. L'Italia del 2014 è così? Esiste un'affinità tra il paese di oggi e quello del 1919-1922? Qualche volta temo di sì.
Liberali, comunisti, cattolici... I partiti e la storia della democrazia in Italia dal 1919 al 2008, di Stefano De Luca su de Gliscritti il 24/09 /2009. Riprendiamo dalla rivista “Ventunesimo secolo”, 8 (2009), pp. 9-30, la sintesi storica proposta dall’articolo Il ‘secolo breve’ della democrazia italiana (1919-2008), di Stefano De Luca. Le chiavi di lettura offerte dall’autore per comprendere l’evoluzione della democrazia dei partiti in Italia meritano attenzione per la chiarezza con la quale pongono in risalto gli snodi attraversati dalla cultura politica nel nostro paese; le riproponiamo per stimolare il dibattito che possono suscitare. Nell’articolo in questione, la sintesi storica si apre poi all’analisi delle elezioni del 2008, auspicando che esse abbiano dato il via ad un bipolarismo reale e non più solo formale, anche se i recenti sviluppi del paese sembrano rimettere in discussione questo approdo. Questa lettura degli eventi attuali che viene proposta nell’articolo del prof. De Luca è stata omessa dalla nostra selezione. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Stefano De Luca è docente di Storia delle dottrine politiche presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli e presso l’Università La Sapienza di Roma. Ha recentemente curato la prima edizione italiana dei Principi di politica di Benjamin Constant (1806), per i tipi della Rubettino. Su questo sito, vedi Le ideologie totalitarie del novecento e la rivoluzione francese. Appunti da un dialogo con il prof. De Luca. Per approfondimenti, cfr. la sezione Storia e filosofia. Il Centro culturale Gli scritti (23/9/2009) [...]
1. La genesi (1919-21) della democrazia in Italia: guerra e rivoluzione. Il 21 gennaio 1919, in una riunione socialista Turati «stava spiegando: “Dobbiamo preparare le coscienze all’avvento della società socialista, ma, al tempo stesso, bisogna operare per la graduale trasformazione della società”, allorché una voce lo interruppe, dicendo: “È troppo lungo!”. E Turati di rimando: “Se conoscete una via più breve, indicatemela”. Allora molte voci risposero: “La Russia, la Russia, viva Lenin!”» (F. Chabod, L’Italia contemporanea, Einaudi, 2002², p. 37). «Io ho l’impressione che il regime attuale in Italia abbia aperto la successione. (…) Aperta la successione del regime, noi non dobbiamo essere degli imbelli. Dobbiamo correre. Se il regime sarà superato, saremo noi che dovremo occupare il suo posto. Perciò creiamo i Fasci» (B. Mussolini, Discorso per la fondazione dei Fasci di Combattimento, in “Popolo d’Italia”, 24 marzo 1919). Non verrà sottolineato mai abbastanza il fatto che la democrazia di massa, in Italia, nasce all’insegna di un binomio fatale: guerra e rivoluzione. La Grande Guerra è la prima esperienza ‘nazionale’ degli italiani e vede il protagonismo di ceti sociali rimasti sino ad allora ai margini della vita politica (contadini, piccola borghesia, operai); la Rivoluzione bolscevica, dal canto suo, dimostra che la società comunista non è un approdo così lontano da apparire irraggiungibile, ma qualcosa che si può realizzare qui e ora. Nasce su questo sfondo quella «miscela esplosiva di aspirazioni di riscatto sociale» e di «diffusi miti rivoluzionari» che caratterizza l’Italia del 1919: i contadini vogliono la terra, una richiesta di cui si è discusso sui giornali durante il conflitto e che è stata blandita, dopo Caporetto, persino dalla propaganda ufficiale; gli operai, inebriati dal successo della rivoluzione leninista, vogliono la repubblica socialista e i soviet; la piccola borghesia, che subisce le conseguenze economicamente più pesanti della guerra ed è esacerbata dalla sindrome della vittoria mutilata, vuole uno status sociale adeguato e una nazione forte, rigenerata moralmente, rispettata all’estero e all’interno. Su tutto domina un clima di impazienza (specie tra i giovani) e di radicalizzazione emotiva e ideologica. Le due nuove religioni politiche che si dividono le piazze – questo nuovo luogo della politica, dove ci si mobilita, dove si tengono i comizi e dove sempre più spesso ci si scontra fisicamente – sono il socialismo e il nazionalismo: a dividere i loro seguaci, sin dalla guerra di Libia, è la nazione. Il conflitto tra nazione e internazionalismo (tra nazione e antinazione) è la prima forma di polarizzazione ideologica che si manifesta nell’Italia del Novecento, portando con sé la demonizzazione dell’avversario e la disposizione all’uso della violenza. Alla mobilitazione rumorosa di socialisti e nazionalisti si affianca quella silenziosa dei cattolici, che sin dagli ultimi anni dell’Ottocento, quando è ancora in vigore il non expedit, operano nella dimensione sociale e culturale, dando vita ad una serie di iniziative (settimane sociali, cooperative e leghe, banche popolari) che rafforzano il loro rapporto con il mondo rurale e con i ceti medi. E se nel 1913, grazie al Patto Gentiloni, entrano in parlamento una trentina di deputati cattolici, dopo la guerra i tempi sono ormai maturi perché i cattolici, nonostante le diffidenze della Chiesa verso la democrazia, operino senza la ‘tutela’ della classe dirigente liberale: nasce così nel 1919 il Partito popolare, guidato da don Sturzo. Alla mobilitazione di ispirazione nazionalista, cattolica e socialista (cioè di quelle che diverranno le culture politiche di massa dell’Italia del Novecento) si contrappone l’inerzia dei liberali, che governano il paese dall’unità ma non riescono a comprendere quanto esso sia profondamente mutato. I liberali accetteranno nel 1918 – quando dispongono ancora di un’ampia maggioranza parlamentare – di varare la legge elettorale proporzionale e lo scrutinio per liste di partito, ma non si doteranno di un partito organizzato, cioè dell’unico strumento adeguato per fronteggiarne gli esiti di una simile riforma. In questo quadro, le elezioni del 1919 produrranno «il più grande terremoto elettorale della storia nazionale»: il Partito socialista, pur essendosi opposto ad una guerra vittoriosa, passa dal 17,7 al 32,3% dei consensi, triplicando i suoi deputati (da 52 a 156); il Partito popolare, che ha solo pochi mesi di vita, ottiene il 20,5% dei voti e 100 deputati; i vari gruppi liberali, riuniti come sempre intorno a singole personalità (Nitti, Giolitti, Orlando, Salandra), scendono dal 67,6% al 38,9%, passando da 383 a 216 deputati. La classe dirigente che ha governato il Paese per sessant’anni non ha più una maggioranza, a meno di non allearsi con i socialisti o con i popolari. A questo straordinario successo politico dei primi due partiti di massa della democrazia italiana va aggiunto che ciascuno di essi dispone di un sindacato amico: i socialisti controllano la Confederazione generale del lavoro (Cgdl, sorta nel 1906), che ha due milioni di aderenti; i popolari possono contare sulla Confederazione italiana lavoratori (Cil, nata nel 1918), che ha quasi un milione e duecentomila iscritti (di cui un milione sono coltivatori). Se a questo si aggiunge l’insediamento nelle amministrazioni locali (i socialisti controllano il 24% dei comuni, i popolari il 13%) si ha un’idea di come il 1919 abbia letteralmente travolto i vecchi assetti politici. Ma la poderosa armata socialista realizza una sorta di autoconventio ad excludendum: confermando, nel congresso del 1919, la linea rivoluzionaria adottata sin dal 1918 (che eliminava qualsiasi obiettivo intermedio e puntava all’istituzione della Repubblica socialista, alla dittatura del proletariato e alla socializzazione dei mezzi di produzione e scambio), il Partito socialista non solo esclude «ogni ipotesi di collaborazione con governi o maggioranze borghesi», ma preconizza «la conquista violenta del potere» e addita «nelle istituzioni liberali una fortezza nemica da conquistare e da distruggere. Un episodio riassume il senso e le conseguenze di questa scelta anti-sistema (che, non va dimenticato, era stata premiata dagli elettori): alla seduta inaugurale della Camera i deputati socialisti, obbedendo ad una delibera del partito, abbandonano l’aula prima del discorso della Corona. All’uscita vengono aggrediti da un gruppo di nazionalisti: seguono tre giorni di scioperi di protesta con violenti scontri di piazza in tutto il Paese. La scelta rivoluzionaria dei socialisti – e soprattutto lo svilupparsi di quell’ondata di conflittualità operaia e contadina che va sotto il nome di biennio rosso, con le occupazioni di fabbriche e di terre – innesca la grande paura dei ceti borghesi, che non si sentono sufficientemente garantiti dall’attendismo con il quale la vecchia classe dirigente liberale affronta la crisi: su questo senso di insicurezza e di abbandono da parte dello Stato fanno leva i Fasci di combattimento, che vengono da un risultato elettorale assai deludente (alle elezioni del 1919 hanno preso solo poche migliaia di voti, senza ottenere alcun seggio). L’azione violenta dei fascisti in difesa della proprietà e dei valori della nazione inizia a guadagnare consensi: tra il 1920 e il 1921 i fasci si decuplicano (da 100 a 1000), mentre lo squadrismo si allarga a macchia d’olio dalla pianura padana alla Puglia. Si afferma così, nel giro di pochi mesi, «un soggetto politico dalle caratteristiche del tutto inedite: un movimento che da un lato si ergeva a difensore dei valori borghesi, della tradizione nazionale, di un ideale dello Stato forte e autorevole; dall’altro assumeva una connotazione tipicamente sovversiva» e rivoluzionaria. Tra il 1919 e il 1922 si consuma la prima fase di guerra civile ideologica del Novecento italiano: è il conflitto tra due radicalismi, uno di sinistra e uno di destra, uno alimentato dal mito della rivoluzione sociale e l’altro da quello della rivoluzione nazionale, mentre le due forze che rifuggono dall’uso della violenza e sono aliene dal radicalismo (liberali e popolari) non riescono a dare vita ad una stabile ed efficace collaborazione di governo. Il Partito popolare di Sturzo è indubbiamente una grande novità: secondo Chabod la sua nascita rappresenta «l’avvenimento più notevole della storia italiana del XX secolo, specie in rapporto al secolo precedente». Esso segna infatti il definitivo ingresso dei cattolici nella vita dello Stato italiano, fatto di per sé di importanza straordinaria; ma segna anche, nella linea democratico-cristiana di Sturzo, l’incontro dei cattolici con il mondo moderno. I cattolici, per il prete siciliano, non dovevano più appartarsi in forme proprie, ma aderire alla vita moderna per assimilarla e trasformarla: il moderno, più che sfiducia e ripulsa, doveva destare «il bisogno della critica, del contatto, della riforma». Ai cattolici italiani – profondamente radicati nelle masse, a partire da quelle rurali, e sensibili ai loro bisogni sociali e politici – spettava un compito proprio, distinto da quello dei liberali (che per Sturzo erano conservatori, mentre i cattolici dovevano essere democratici) e da quello dei socialisti (portatori di un sovversivismo distruttivo delle strutture sociali e della fede religiosa): per questo i cattolici avevano dovuto organizzarsi in un loro partito, che doveva essere libero di muoversi ora a destra ora a sinistra, al fine di realizzare il suo programma. Programma nel quale, insieme alle tradizionali richieste del mondo cattolico (libertà d’insegnamento, difesa della famiglia, riconoscimento giuridico delle organizzazioni sindacali), erano presenti contenuti schiettamente democratici (voto alle donne, Senato elettivo, riforma fiscale in senso progressivo, sviluppo delle autonomie locali, politica estera ispirata al wilsonismo). Ma la novità del Partito popolare viene sottovalutata dalle altre forze politiche e in particolare dai liberali, nei quali prevalgono vecchi pregiudizi e più recenti incomprensioni. Ad esempio, Giolitti – protagonista per eccellenza della democrazia parlamentare di ascendenza ottocentesca – non sopportava l’idea di dover trattare con un leader (Sturzo) che non sedeva in parlamento e che quindi ai suoi occhi era soltanto un privato cittadino, oltretutto appartenente al clero. Quanto a Salandra, riconoscendo nel 1924 al fascismo il merito inestimabile di aver debellato i «fatali avversari» dei liberali, individuava quegli avversari non solo nei socialisti, ma anche nei popolari. Queste incomprensioni di fondo – unite al risorgere di antichi risentimenti, ai personalismi dei vecchi leaders e al fatto che i popolari volevano nel governo una parità che i liberali non erano disposti ad accordare – avrebbero avuto «non piccola parte nel bloccare la funzionalità delle istituzioni liberal-parlamentari e nel determinare la crisi dell’intero sistema». Va peraltro sottolineato come i popolari fossero gli unici, nel periodo 1919-21, ad avere un seguito di massa e, al tempo stesso, se non una compiuta cultura politico-istituzionale della democrazia (su questo terreno molte erano ancora le carenze, tra i conservatori, i clerico-moderati e i giacobini bianchi alla Miglioli), certamente una cultura antropologica i cui valori (rifiuto della violenza, attitudine al dialogo e alla mediazione) erano compatibili con le regole della democrazia. I social-comunisti avevano (e i fascisti avrebbero avuto) un seguito di massa, ma certamente la loro cultura era incompatibile con la democrazia liberale; quanto al mondo liberal-democratico, aveva la cultura politica appropriata, ma era sprovvisto di seguito popolare. Nel 1921 interviene infine un ulteriore avvenimento, a complicare il già complesso quadro politico. Il Partito socialista subisce – nonostante le sue posizioni rivoluzionarie – la scissione della sua ala sinistra, che fonda il Partito comunista d’Italia (PCd’I). La spinta decisiva era venuta dal II congresso dell’Internazionale comunista, che aveva imposto ai partiti aderenti condizioni vincolanti, tra le quali il cambiamento del nome (da socialista o socialdemocratico a comunista, come aveva fatto lo stesso Lenin nel 1918) e l’espulsione degli elementi riformisti e centristi. Inaspettatamente la dirigenza massimalista del Partito socialista resiste, forse per orgoglio (ritenendo di non avere nulla da imparare in tema di intransigenza rivoluzionaria), forse perché consapevole del peso che la componente riformista ha nell’elettorato e negli organismi sindacali. La sinistra si trova così spaccata in due partiti: il Psi, all’interno del quale convivono due anime (quella massimalista, largamente maggioritaria, e quella riformista), e il Pcd’I. A questa scissione – la ‘madre’ di tutte le scissioni che la sinistra italiana avrebbe sperimentato nella sua storia – seguiranno due espulsioni, entrambe dal Psi: nel 1922 vengono espulsi i riformisti, che fondano il Partito socialista unitario (Psu), e nel 1923 i terzinternazionalisti, che confluiranno nel PCd’I. Tornando alla scissione del 1921, questa scompagina i piani di Giolitti, che pensava di servirsi dei socialisti riformisti per formare una nuova maggioranza parlamentare, liberandosi dal condizionamento dei popolari e recuperando il ruolo di perno centrale del sistema politico. L’impossibilità di realizzare questo disegno induce il vecchio statista alla scelta delle elezioni anticipate, alle quali i liberali si presentano, nel Nord, in blocchi nazionali che includono nazionalisti e fascisti, allo scopo di compattarsi, rivitalizzarsi e infliggere un colpo a socialisti e popolari. Le elezioni del 1921, che si svolgono in un clima di violenza, segnano un’ulteriore frammentazione del sistema politico, con l’ingresso alla Camera di due nuovi partiti, quello comunista (che ottiene 15 seggi) e quella fascista (che elegge, all’interno dei blocchi nazionali, una trentina di deputati). Nel complesso si confermano gli equilibri del 1919: i socialisti ottengono 122 seggi, che sommati a quelli comunisti danno alla sinistra rivoluzionaria e classista una ventina di seggi in meno rispetto al 1919; i popolari hanno un lieve incremento, passando da 100 a 108 deputati; i gruppi liberal-nazionali raggiungono a stento la maggioranza e soltanto grazie alla presenza dei deputati fascisti. Questi ultimi, sotto la guida di Mussolini, fanno subito capire che intendono muoversi liberamente: fallito il disegno di Giolitti e archiviati velocemente i deboli tentativi di Bonomi e Facta, inizierà l’avventura di Mussolini alla guida del governo, che nel giro di due anni condurrà alla nascita di un sistema dittatoriale a partito unico. Cosa emerge alla luce di questa breve – e per forza di cose sommaria – ricostruzione del periodo 1919-1922? In primo luogo, che il sistema politico cambia natura e struttura: da una democrazia parlamentare di ascendenza ottocentesca si passa ad una democrazia dei partiti tipicamente novecentesca. Nel 1914 la politica la faceva ancora il Parlamento, per impulso di personalità di spicco che riunivano intorno a sé composite maggioranze ministeriali, formate da gruppi tra i quali le differenze di programma erano poco marcate. Partiti organizzati, se si eccettuano il Partito socialista e il piccolo Partito repubblicano, non ce n’erano e la libertà d’azione dei parlamentari era ampia: la nazione, politicamente, esisteva soltanto nel Parlamento. Nel 1919 tutto è cambiato: la politica si fa nella società, nelle piazze, attraverso partiti organizzati che hanno una precisa fisionomia ideologico-programmatica e che incanalano le esigenze e le aspirazioni di milioni di persone. La nazione, politicamente, esiste fuori del Parlamento e quest’ultimo dev’essere soltanto una proiezione fedele di tale fisionomia: i deputati votano seguendo le delibere delle direzioni dei rispettivi partiti. Assistiamo, quindi, alla nascita della democrazia dei partiti e, al suo interno, al successo dei ‘partiti di massa’ (che, come abbiamo visto, sono fiancheggiati da ‘sindacati amici’): il Partito socialista, espressione della subcultura operaia, e il Partito popolare, espressione della subcultura cattolica. A partire dal 1921 si rafforzerà il Partito nazionale fascista, che diverrà espressione (pur nel peculiare contesto di un sistema dittatoriale) della piccola e media borghesia. In secondo luogo, il sistema politico manifesta la tendenza alla frammentazione partitica e alla polarizzazione ideologica. Per quanto riguarda la frammentazione – cioè la tendenza alla divisione e quindi alla moltiplicazione dei partiti – la vicenda della sinistra è emblematica: nel giro di un anno quest’area politica si spezza in tre partiti (il Psi, il PCd’I e il Psu), tra i quali quello di ispirazione riformista è largamente minoritario. Inoltre i due grandi partiti della sinistra assumono una precisa configurazione: il Psi è caratterizzato dal massimalismo verbale e dalla rissosità interna, mentre il Pcd’I è caratterizzato dalla ferrea disciplina interna (lo statuto del partito stabilisce che la disciplina è il «supremo dovere di ogni membro di ogni organizzazione del partito») e dal legame con l’Unione Sovietica (la sua fonte di legittimazione sta «nell’autorità della Terza Internazionale e comunque del Partito bolscevico russo»). Quanto al Partito popolare, fin dalle sue origini esso è contrassegnato dalla eterogeneità dei suoi componenti: reduci della prima democrazia cristiana, esponenti del clerico-moderatismo, seguaci di Sturzo, nonché un mondo sociale composito tenuto insieme dal richiamo all’ispirazione cristiana. In un solo partito – ha scritto Carlo Morandi – «non s’erano mai veduti così opposti temperamenti, così diverse concezioni della lotta politica» (9), anche se la disciplina cattolica e l’accorta guida di Sturzo riescono a preservarne l’unità. Vi è infine il vario mondo liberale e democratico di ascendenza risorgimentale, la cui incapacità a costituirsi in partito (il Partito Liberale, com’è noto, fu costituito soltanto nel 1922, a venti giorni dalla marcia su Roma) costituisce paradossalmente un’altra conferma della tendenza alla frammentazione: qui non si divide qualcosa che era stato unito, ma non riesce a unirsi qualcosa che era diviso in partenza (anche se si trattava di divisioni ideologicamente deboli). Venendo alla polarizzazione ideologica, essa trova espressione, a sinistra, nella deriva massimalistica del Psi e nella nascita del PCd’I e, a destra, nella nascita e nello sviluppo del fascismo. Quando entrano in scena le culture politiche di massa di sinistra e di destra, queste conducono subito alla lacerazione, si annunciano come gli attori di un conflitto incomponibile, che ha per luogo la piazza (e non il parlamento), per oggetto la trasformazione rivoluzionaria della società (e non il suo governo), per metodo lo scontro violento (e non il conflitto istituzionalizzato). Si annuncia così la lunga guerra civile che attraverserà l’Italia del Novecento, con fasi calde e fasi fredde, fasi di partecipazione allargata e fasi di partecipazione ristretta. In presenza di questo radicale conflitto si radicherà l’abitudine alla demonizzazione dell’avversario e la tendenza (a volte necessaria) a posizionarsi contro qualcuno piuttosto che a favore di qualcosa: nasce così la ‘sindrome dell’anti’, che avrà una lunga serie di incarnazioni. In terzo luogo, si manifesta la tendenza all’instabilità governativa: tra il 1919 e il 1921 si succedono cinque governi, tra il 1921 e il 1922 tre. Tale instabilità nasce dalle caratteristiche sopra richiamate: la frammentazione partitica rende più difficile la formazione e la tenuta di una maggioranza, mentre la polarizzazione ideologica (cioè la presenza di partiti anti-sistema) rende più ristretta l’area dei partiti candidabili al governo.
2. La rinascita (1945-1948) della democrazia in Italia: fratture e persistenze. La rinascita del sistema democratico, così come la sua genesi, avviene sotto il segno della guerra; una guerra resa ancora più drammatica dalle divisioni interne. A partire dal 1943 il nostro Paese è diviso in due Stati, due governi e due regimi d’occupazione, i quali non definiscono solo due diverse giurisdizioni, ma contribuiscono «a ridisegnare le linee di frattura in cui si ricolloca l’universo politico degli italiani. L’Italia, forse come nessun altro paese d’Europa, diventa la rappresentazione simbolica delle due opzioni di civiltà che si sono date battaglia sul teatro del secondo conflitto mondiale». Se la nascita della democrazia di massa, nel 1919, era stata seguita da una sorta di guerra civile tra fascisti e social-comunisti, la sua rinascita, nel 1945, è preceduta da una vera e propria guerra civile tra fascisti e antifascisti. Anche questa è una circostanza che non verrà sottolineata mai abbastanza. Ad essa vanno aggiunti tre elementi che ci riconducono al primo dopoguerra: l’incidenza del mito sovietico (dovuta, in questo caso, al ruolo militare dell’Urss), la debolezza delle istituzioni e la «grande forza espansiva dei partiti» (che si mobilitano o si ricostituiscono nel 1942-43) e del sindacato (che rinasce in forma unitaria, come Cgil, nel 1944). Nuovo e importante, rispetto al 1919, è invece il ruolo della Chiesa, che negli anni terribili della guerra e dello sfaldarsi delle istituzioni ha rappresentato per molti italiani (di ogni tendenza, politica e apolitica) l’unica rete di protezione e di aiuto: «il sacerdote, la parrocchia, le varie sedi in cui si esercita la carità cristiana diventano gli uomini ed i luoghi, le realtà ed i simboli di un’umanità che cerca riparo ed una trincea di resistenza da cui ripartire per costruire una convivenza civile finalmente emendata dalle atrocità procurate dalla politica». Questo ruolo di «collante socioculturale» della Chiesa avrà certamente un peso nell’orientare le scelte di molti italiani, quando – finita la guerra – si tornerà a votare e quindi nella costruzione del nuovo Stato. Sin dal 1943-44 il quadro delle forze politiche riassume la fisionomia del 1919-21, con i socialisti (le cui diverse componenti sono ora riunificate nel Partito socialista di unità proletaria, Psiup), i comunisti (nel Pci), i cattolici (riuniti nella Democrazia cristiana, erede del Partito popolare), i liberali (nel Pli) e i repubblicani (nel Pri). Le novità sono soltanto due: il Partito d’Azione, che nasce dal movimento antifascista Giustizia e libertà, ispirato ad un radicalismo democratico impregnato di spiriti giacobini; e l’Uomo Qualunque, movimento che dà voce, nel Meridione, al sentimento antipolitico dei ceti medi, raccogliendo un variegato mondo di destra (il cui unico collante è l’anti-antifascismo, ennesima variante di quella sindrome conflittuale che porta gli italiani a definirsi e contrario). Gli attori sono quindi gli stessi del primo dopoguerra (quelli nuovi, sia detto per inciso, avranno vita breve); e ancora più forte è la tendenza verso quella democrazia dei partiti che allora prese forma. Su questo terreno agisce anche l’eredità del fascismo: è stato infatti il fascismo, come ha osservato Lanaro, «a inaugurare in Italia la politica di massa, a declinarne alcune regole fisse e a esplorarne le principali possibilità»; e il Pnf rappresenta il modello organizzativo nel cui alveo i grandi partiti popolari, «non potendo né volendo ritornare ai rituali della politica di élite, sono costretti a muoversi». È chiaro, quindi, che la successione al regime – per usare le parole del Mussolini del ‘19 – è cosa che nel ‘45 riguarda i partiti di massa e soltanto loro. I più veloci a muoversi, in questo senso, sono i comunisti: il partito comunista, dirà Togliatti nel 1944, da «piccola ristretta associazione di propagandisti di idee generali del comunismo e del marxismo» deve trasformarsi in «un grande partito, un partito di massa». Ciò significa che «bisogna creare i sindacati, le cooperative, le mutue (…). Bisogna organizzare i giovani, bisogna fare un lavoro tra le donne»; bisogna «che tutto il popolo senta realmente, non soltanto che il partito esiste, ma senta che il partito si occupa dei suoi interessi e di tutte le cose che interessano il popolo in generale». Il Partito socialista rimarrà sempre indietro, sotto questo profilo; la Dc potrà invece contare sull’immenso patrimonio di risorse umane e organizzative del mondo cattolico. Cattolici e comunisti, però, seguono una diversa strategia rispetto al primo dopoguerra: De Gasperi vuole che nella Dc si realizzi l’unità politica di tutti i cattolici e per fare questo ha bisogno dell’esplicito riconoscimento da parte della Chiesa (riconoscimento che arriverà nel 1944); Togliatti, dal canto suo, innesta sul tronco rivoluzionario e filosovietico del partito una dose massiccia di realismo politico, che nasce dal freddo riconoscimento del nuovo quadro internazionale e dalla lezione gramsciana della guerra di posizione (ed è questo realismo, insieme al radicamento capillare e alla disciplina interna, che distinguerà i comunisti dai socialisti). Il 1946, dal punto di vista elettorale, è l’anno della rinascita del sistema democratico. Il voto per la Costituente conferma la nascita di un sistema politico imperniato sui partiti di massa: la Dc (35,1%), il Psi (20,7%) e il Pci (18,9%) raccolgono insieme il 75% dei consensi; il Pli il 6,8%, il Pri (grazie al traino referendario) il 4,4%, l’Uq il 5,3%, i monarchici il 2,8%, gli azionisti l’1,8%. La Dc diventa il primo partito italiano, sostituendo i liberali nel ruolo di perno del sistema politico; i socialisti, per l’ultima volta nella storia repubblicana, superano i comunisti, in virtù probabilmente del retaggio storico del partito. Sommati insieme i due partiti della sinistra classista raggiungono quasi il 40% dei consensi, una percentuale molto alta ma insufficiente a governare il Paese e che sicuramente beneficia, al Nord, del prevalere della linea di frattura fascismo/antifascismo. In una fase di passaggio così delicata e drammatica (trattato di pace, ricostruzione economica e morale, questione istituzionale, riscrittura della costituzione, problema del Concordato), il Paese non può che essere governato in modo unitario: dividersi ora potrebbe essere fatale per un organismo già profondamente ferito e debilitato. Prosegue così l’esperienza, avviata nel 1945, dei governi di unità nazionale, sostenuti dalle grandi forze popolari (cattolici, comunisti e socialisti). Ma è chiaro che si tratta di una coabitazione forzata, un compromesso dettato dall’emergenza, giacché le differenze ideologico-politiche e programmatiche tra i cattolici da un lato e i social-comunisti dall’altro sono profonde. Anche se rimandato ad un futuro piuttosto vago e lontano, i comunisti mirano al superamento della democrazia borghese e alla nascita del socialismo. La democrazia progressiva di Togliatti altro non è che la progressiva fuoriuscita dal modello della democrazia occidentale; i cattolici, invece, sotto la guida di De Gasperi, hanno compreso che la democrazia liberale, pur con tutti i suoi limiti e i correttivi di cui abbisogna, è l’unica democrazia possibile. Il superamento delle principali emergenze, l’incalzare dei problemi economici (sui quali l’accordo con le sinistre è molto più difficile) e il mutare del quadro internazionale – con l’emergere della ‘guerra fredda’ – porterà alla rottura con le sinistre e alla nascita del centrismo, ossia dell’alleanza tra Dc e partiti laici (liberali, repubblicani e socialdemocratici, che nel 1947 si sono staccati dal Partito socialista). Nel giro di due anni sotto la linea di frattura fascismo/antifascismo riemerge il cleavage originario della democrazia italiana, comunismo/anticomunismo, acuito dalla divisione bipolare a livello internazionale. La Dc, rompendo con i social-comunisti e resistendo alle sirene di un accordo con l’estrema destra (qualunquisti e monarchici, ai quali si aggiungono, dalla fine del ’46, i missini), si colloca al centro del sistema politico e si configura come il garante della sua tenuta. È in questo ruolo che affronta le elezioni del 1948, in una campagna elettorale che vede socialisti e comunisti riuniti nel Fronte popolare. Sarà la campagna elettorale più divisiva della storia repubblicana. La sfida che viene dai due grandi partiti della sinistra, concordi nel considerare l’Urss la patria del socialismo, è temibile; dal canto suo, il mondo cattolico mobilita tutte le sue energie (Azione cattolica, Acli, Confederazione dei coltivatori diretti, Comitati civici). Non è uno scontro elettorale normale: non si sceglie tra politiche e programmi diversi, ma tra sistemi ispirati a principi di legittimazione alternativi. Il linguaggio (verbale e iconografico) è estremo: la controparte non è un avversario, ma un nemico, una minaccia dalla quale occorre salvarsi. Con il 1948 inizia la lunga contrapposizione ideologica della prima Repubblica, anche se è bene ricordare che al di sotto dei toni propagandistici e delle affermazioni ideologiche si sarebbe stabilita una convivenza sostanzialmente rispettosa degli istituti democratici. Il risultato delle elezioni non lascia adito a dubbi: la Dc raccoglie il 48,5% dei voti; il Fronte popolare il 31%, cioè quasi il 9% in meno rispetto a quanto Pci e Psi hanno preso separatamente nel 1946 (e qui opera sicuramente la scissione dell’ala riformista del Psi: il Psdi prende infatti il 7,1%); i liberali, insieme ai qualunquisti, il 3,8; i repubblicani il 2,5%, i monarchici il 2,8% e il Movimento sociale, che per la prima volta si presenta al voto, il 2%. La Dc non raggiungerà più, in futuro, la soglia del 50% dei voti, ma si attesterà stabilmente intorno al 40% dei consensi per tre decenni; nello stesso periodo il Pci (che già alle elezioni del 1953 è di gran lunga il primo partito della sinistra) accrescerà ininterrottamente i suoi consensi, sino a raggiungere nel 1976 il 35% circa dei voti. Quanto al Psi, oscillerà tra il 12-14% negli anni Cinquanta e Sessanta, per poi scendere intorno al 10% negli anni Settanta. Gli altri rimarranno attori ‘minori’ del sistema: i liberali oscilleranno tra il 3 e il 5% (toccando un picco del 7% nel 1963, quando vedranno premiata la loro opposizione al centro-sinistra), i repubblicani oscilleranno tra l’1,5 e il 3% e i socialdemocratici si attesteranno sul 5%.; il Movimento sociale si attesterà intorno al 5-6% (con un picco quasi del 9% nel 1972, dovuto alle paure innescate nei ceti moderati dal secondo biennio rosso, il 1968/69), mentre i monarchici, a partire dagli anni Sessanta, andranno verso la scomparsa. A partire dal ’68 comparirà sulla scena politica la piccola ma vivace galassia della ‘nuova Sinistra’, espressione dei movimenti sociali e radicata soprattutto tra i giovani e gli intellettuali: questa troverà la sua proiezione parlamentare in alcuni partiti (Partito democratico di unità proletaria, Pdup; Democrazia proletaria, Dp) che criticheranno il Pci da sinistra, trovandolo troppo moderato, ma non ne scalfiranno mai l’egemonia (collocandosi intorno al 2% dei consensi). In un quadro siffatto – caratterizzato, a sinistra, dalla presenza del più grande partito comunista dell’Occidente e, a destra, da un partito che si richiama al fascismo – l’Italia non può che essere governata dal centro: un centro imperniato sulla Dc, che dapprima include i partiti laici (centrismo) e quindi si allarga, negli anni Sessanta, ai socialisti (centro-sinistra), escludendo i liberali. Nonostante gli straordinari mutamenti economici, sociali e di costume che l’Italia sperimenta in questo trentennio, il sistema politico manterrà sostanzialmente la configurazione assunta nel 1948 e i caratteri congeniti risalenti al 1919: frammentazione partitica, polarizzazione ideologica, instabilità governativa. La frammentazione è attestata non solo dall’elevato numero di partiti (8-10), ma dal ripetersi di fenomeni di scissione, dal fallimento dei tentativi di unione e dalla nascita di nuovi partiti. Lo scissionismo prospera, come sempre, tra i socialisti: l’eccessiva vicinanza dei Psi al Pci ha portato, nel 1947, alla scissione dell’ala riformista, con la nascita del Psdi, mentre l’avvicinamento all’area di governo ha portato, nel 1964, alla scissione dell’ala classista e internazionalista, con la rinascita del Psiup (ed è da una componente del Psiup, scioltosi nel 1972, che nascerà il Pdup). La sinistra continua quindi ad essere stabilmente divisa in tre partiti principali (comunisti, socialisti, socialdemocratici), ai quali si affianca, dalla metà degli anni Sessanta, un quarto partito, intermedio tra il Psi e il Pci, come il Psiup, o alla sinistra del Pci e vicino ai movimenti, come il Pdup o Dp. Anche i liberali subiscono, a metà degli anni Cinquanta, la scissione dell’ala sinistra, che darà vita al Partito radicale, la cui azione sul terreno politico si farà incisiva a partire dagli anni Settanta. Quanto ai tentativi di unione (e quindi di riduzione della frammentazione), sono tre, di cui due fallimentari: a destra, quello tra liberali e qualunquisti alle elezioni del 1948 (che totalizzano l’8.3% dei voti in meno rispetto a quelli presi separatamente nel 1946) e quello tra missini e monarchici nel 1972 (che registrano invece un incremento del 2,9%, subito perso però alle elezioni successive); e, a sinistra, quello tra Psi e Psdi, che nel 1966 danno vita al Partito socialista unitario (Psu), il quale alle elezioni del 1968 prenderà il 5,4% dei voti in meno rispetto alla somma dei voti raccolti da Psi e Psdi nel 1963. Va infine ricordato che la maggior parte dei partiti sono fortemente divisi al loro interno. Su tutti, il perno del sistema, quella Dc che, dopo la morte di De Gasperi, assume la configurazione di un arcipelago di correnti, tenute insieme dalla necessità di arginare il Pci e sempre più della gestione del potere: al suo interno convivono correnti di sinistra, di destra e di centro, sempre in lotta tra loro per il controllo del partito e sempre pronte a scaricare le tensioni sul governo. Quanto alla polarizzazione ideologica, essa permane perché il Pci conserva e accentua (a partire dagli anni Settanta) la natura bifronte impressagli da Togliatti, dichiarando per un verso la sua apertura ai principi della democrazia pluralistica e iniziando a criticare il modello sovietico, ma pretendendo per l’altro di portare con sé tutto il proprio bagaglio ideologico e simbolico, sino all’ossimorica pretesa di essere partito di lotta e di governo, il che scontenterà sia quelli che credono ancora nell’alternativa di sistema (la sinistra del partito e gran parte della base), sia quelli che puntano alla socialdemocratizzazione del partito (la destra migliorista). A destra, nel frattempo, si è consolidato il Msi, che anche se non è stato un ‘polo escluso’ in senso politico-parlamentare (i suoi voti furono, in alcune circostanze, ‘accolti’ dalla Dc ), certamente lo fu in senso ideologico, per via del suo richiamo al fascismo. In un simile quadro non poteva che prodursi una cronica instabilità governativa: in 28 anni (dal 1948 al 1976) si succedono 32 governi. Questo assetto fondato sulla contrapposizione Dc-Pci entra in crisi con le elezioni del 1976, quando il Pci raggiunge quasi il 35% dei suffragi, rendendo impossibile la formazione di una maggioranza che lo escluda. Un insieme di circostanze emergenziali (la profonda crisi economica e un diffuso clima di violenza tra estremisti di destra e di sinistra, che culmina nel fenomeno del terrorismo) e di convinzioni strategiche (il compromesso storico di Berlinguer e la terza fase di Moro, che trovano un punto d’incontro nel ritenere necessaria una convergenza tra le grandi forze popolari, sul modello di quella avvenuta tra il 1945 e il 1947) porta alla stagione dei governi di solidarietà nazionale, con l’ingresso nella maggioranza (ma non nel governo) dei comunisti. Ma è proprio a partire dal 1976 – ossia dall’anno in cui Dc e Pci raccolgono insieme il 73% dei consensi – che inizia il declino dei due grandi partiti popolari. La deludente esperienza dei governi di solidarietà nazionale accentua quella sfiducia nella classe politica e nei partiti tradizionali che si è fatta strada sin dalla fine degli anni Sessanta: emblematico, in questo senso, l’esito del referendum del 1978, proposto dai radicali, per abrogare il finanziamento pubblico dei partiti, referendum nel quale il ‘fronte del no’ prevalse con il 56% dei voti, quando i partiti che avevano dato indicazione di votare no rappresentavano oltre il 90% degli elettori (a favore del sì erano solo radicali, liberali e demoproletari). Gli anni Ottanta rappresenteranno il lento declino della Dc (che scenderà al 32-34%) e soprattutto del Pci, che scenderà sotto il 30%, senza riuscire ad imboccare definitivamente, nonostante l’impegno della componente migliorista, la strada della trasformazione in un partito del socialismo europeo. Nella permanente impossibilità di una vera alternativa di governo, inizia la fase dell’alternanza, ossia della coabitazione competitiva all’interno del governo tra democristiani e socialisti (nel quadro di maggioranze pentapartitiche). Il Psi, infatti, sotto la guida di Craxi, è approdato – per la prima volta nella sua storia – ad una chiara identità riformista, che lo mette in rotta di collisione col Pci e lo porta a incalzare la Dc sul terreno della modernizzazione economica e istituzionale del Paese. Il progetto socialista – rompere lo storico duopolio Dc-Pci e, in prospettiva, ribaltare i rapporti di forza a sinistra con i comunisti – non riuscirà tuttavia a produrre significativi mutamenti del sistema politico (dopo il governo Craxi, nel 1987, il Psi raggiungerà il 14% dei voti; ma in quelle stesse elezioni il Pci, pur perdendo il 3% dei consensi, si attesterà quasi al 27%). La durezza delle fedeltà ideologiche e/o identitarie, nonostante la crescente sfiducia verso i partiti, rimane altissima. Soltanto uno shock potrebbe rompere questa crosta: e lo shock arriva con il crollo inaspettato dei regimi comunisti, nel 1989. La crisi del sistema politico italiano, che sarebbe esplosa nel 1992, inizia allora: venuto meno l’orizzonte internazionale del comunismo, il Pci è destinato ad un declino inesorabile o ad una profonda trasformazione. Questo significa però anche il venir meno della necessità dell’unità politica dei cattolici, il cui senso profondo stava nell’esigenza di rispondere ad una sfida di sistema.
3. Crisi e trasformazione (1992-94): verso il bipolarismo formale. Sebbene il Pci abbia subito un’innegabile evoluzione democratica, non è certo un caso che la vera rottura del cordone ombelicale dell’ideologia – rappresentata dal cambio del nome – avvenga soltanto dopo il crollo del Muro di Berlino. Nato come proiezione italiana del 1917, il Pci poteva morire soltanto dopo il 1989. Il trauma, per i militanti, sarà comunque grande e darà luogo, ancora una volta, ad una scissione: quando il Pci, nel 1991, si scioglie, per dare vita al Partito democratico della sinistra (Pds), una parte dei suoi aderenti fonda il Partito della Rifondazione comunista (Prc). Con la scomparsa del Pci il composito blocco elettorale che sosteneva la Dc inizia, nella parte più avanzata del Paese, a sgretolarsi: e, dando corpo all’insofferenza verso i partiti tradizionali, si dirige verso un soggetto completamente nuovo del panorama politico, la Lega, un partito territoriale caratterizzato da una forte carica anti-centralistica. La cera dell’elettorato, per dirla con Sartori, inizia a perdere la sua vischiosità. Nelle elezioni del 1992 la Dc scende per la prima volta sotto il 30%, mentre il Pds, con il suo 16%, prende poco più della metà dei voti del vecchio Pci. Gli altri partiti si attestano sulle percentuali delle precedenti elezioni. Il vero vincitore di queste elezioni è la Lega, che a livello nazionale prende quasi il 9% e in regioni come Lombardia e Veneto si attesta tra il 20-30%. Il sentimento di insofferenza verso la classe politica tradizionale è sempre più forte ed è in questo clima che le inchieste giudiziarie della procura di Milano – inchieste che portano alla luce il carattere pervasivo della corruzione politica, ma che riveleranno ben presto un orientamento ‘selettivo’ e tratti fortemente anti-garantisti – innescano un vero e proprio terremoto: sotto i colpi della magistratura crollano i partiti che hanno governato il Paese dal 1948 in avanti. Inizia un processo di trasformazione al quale darà un contributo decisivo il cambiamento del sistema elettorale (dal proporzionale al maggioritario corretto), ottenuto per via referendaria nel 1993. Nel 1994 il sistema dei partiti ha ormai assunto una fisionomia irriconoscibile: i grandi partiti popolari del 1948 non esistono più. Del Pci (trasformatosi in Pds) abbiamo già detto; quanto alla Dc, dal suo scioglimento nascono il Partito popolare, il Centro cristiano-democratico (Ccd) e i Cattolici democratici uniti (Cdu); già da due anni, inoltre, esistono i Popolari per la Riforma di Segni. I socialisti, così come i partiti laici, si riducono in piccole formazioni, avviandosi a divenire irrilevanti. Le novità più importanti si collocano nell’area di centro-destra. Nel 1994 il Movimento sociale avvia la sua trasformazione in una destra «democratica, oltre i totalitarismi e oltre le ideologie» (18): nasce così Alleanza nazionale (An), che era stata ‘legittimata’ dal voto popolare per il suo leader nelle elezioni per il sindaco di Roma del 1993 (nelle quali Fini, pur perdendo il confronto con Rutelli, raccoglierà il voto in libera uscita dalla Dc). Infine, sempre nel 1994, nasce Forza Italia, un inedito movimento guidato da un outsider della politica come Silvio Berlusconi, che si candida ad ereditare l’area dell’elettorato che votava per il pentapartito – riempiendo la voragine apertasi al centro del sistema politico tra il ’92 e il ’94 – e ad interpretare senza pregiudizi (e quindi senza preclusioni a destra) la logica bipolare insita nel nuovo sistema elettorale. Quando tornano alle urne, nel 1994, gli elettori si trovano di fronte un panorama politico imperniato su tre formazioni principali: il Polo delle libertà e del buon governo, che unisce Forza Italia, Lega, An e Ccd; i Progressisti, che uniscono al loro interno il Pds, il Prc, i Verdi e altri piccoli gruppi; e il Patto per l’Italia, che unisce i popolari e i seguaci di Segni, che non si riconoscono nell’incipiente bipolarismo. Il grimaldello della legge elettorale funziona: le forze centriste ottengono il 16%, ma un numero molto esiguo di seggi. I Progressisti totalizzano il 34% dei voti – è impressionante, sia detto per inciso, la stabilità del 30-35% della sinistra nelle sue varie incarnazioni, dal Partito socialista del 1919, al Fronte democratico del 1948, al Pci degli anni Settanta, sino ai Progressisti del 1994 – mentre il Polo delle libertà e del buon governo vince inaspettatamente le elezioni, superando il 40% dei consensi. Il sistema politico uscito dalle elezioni del 1994 è profondamente diverso da quello del 1948, negli attori, nella logica (maggioritaria) e nei comportamenti (che vedono l’accentuarsi della personalizzazione e del momento della leadership). Governata dal centro per mezzo secolo, per via della polarizzazione ideologica (a sinistra i comunisti, a destra i neofascisti), l’Italia si avvia verso un sistema bipolare assimilabile a quello delle democrazie maggioritarie evolute. Non a caso, si inizia a parlare, sebbene l’assetto costituzionale sia rimasto invariato, di seconda Repubblica. Dopo una prima legislatura breve, dovuta al ‘ribaltone’ della Lega, si succedono due legislature regolari, nelle quali il centro-sinistra (nel quale confluiscono i popolari) e il centro-destra (nel quale, nel 2001, ritorna la Lega) si alternano al governo. Ma il bipolarismo nato nel 1994 e consolidatosi dopo il 1996 è un bipolarismo formale, giacché i suoi contenuti rimangono gli stessi del cinquantennio precedente. Anzitutto, la frammentazione: sotto il velo delle coalizioni, il numero dei partiti rimane elevato, anzi tende ad aumentare. Nel polo di centro-sinstra, l’area di sinistra è rappresentata da quattro formazioni: oltre al Pds (che diventerà Ds), al Prc e ai Verdi, nel 1998 si forma, per scissione dal Prc, il Partito dei comunisti italiani (Pcdi). Sebbene il secolo breve sia ormai finito, la sinistra italiana rimane frammentata e perdura al suo interno una tenace fedeltà, anche se ormai minoritaria, all’idea di un’alternativa di sistema (i cui contorni, sempre più indistinti, sfumano in un vago altermondialismo o ingrigiscono in una sorta di reducismo comunista). L’area centrista si raccoglie invece in un nuovo partito (la Margherita, 2000), nel quale i popolari si uniscono con varie formazioni minori del mondo post-democristiano (i Democratici di Parisi, l’Udeur di Mastella) e laico (la Lista Dini): ma sarà un’unione attraversata da continue tensioni, anche di carattere personale. Il centro-destra appare più compatto, ma ha il problema della Lega, che oscilla tra tentazioni secessionistiche e richiesta del federalismo; inoltre a destra di An si sono formati alcuni piccoli partiti (Movimento Sociale-Fiamma tricolore, Azione sociale) che cercano di catturare l’elettorato della destra nostalgica e radicale, ostile alla svolta di Fiuggi. Se durante la prima Repubblica i partiti erano 8-10, durante la seconda Repubblica salgono a 10-15 e il loro peso elettorale si assottiglia: Fi non raggiunge le percentuali della Dc, così come i Ds non raggiungono quelle del Pci. Le due coalizioni, infine, sono tenute insieme non da un idem sentire, ma da un idem adversare. Esse trovano il loro collante, soprattutto a sinistra, nell’esigenza di battere l’avversario, nel quale vedono ancora un nemico, un pericolo per la democrazia. In questo riemergere della sindrome anti (da un lato, l’antiberlusconismo, prosecuzione dell’anticraxismo e ultima incarnazione dell’antifascismo retorico; dall’altro, l’anticomunismo) riemerge la polarizzazione, che da ideologica si fa post-ideologica, quasi antropologica. È come una tossina, il residuo di una lunghissima malattia che l’organismo del Paese non riesce ad espellere. Del resto, il mutamento della legge elettorale può cambiare i comportamenti degli attori politici, ma non può trasformare le culture politiche, il cui mutamento richiede i tempi lunghi dei processi storici. Le culture politiche toccano le convinzioni profonde, le passioni, le abitudini, le vicende personali, gli schemi mentali delle persone: sono parte costitutiva della loro identità. L’Italia è stata troppo a lungo ‘abitata’ dall’idea comunista perché la contrapposizione ideologica che ha suscitato possa sparire velocemente: e tutto questo perché il comunismo non è stato, come si è sostenuto, un Dio minore, ma un Dio grande e terribile, intorno al quale si è sviluppata la più grande religione politica del XX secolo. Assistiamo così ad una sopravvivenza politicamente anacronistica, ma storicamente (e psicologicamente) comprensibile, della contrapposizione ideologica: i figli sono catturati nel gioco dei padri (anche perché i padri non hanno mai avuto il coraggio di strappare veramente la tela del passato). Su tutto impera la demonizzazione dell’avversario: sebbene tutti possano concorrere al governo, manca ancora la legittimazione reciproca, che è il prerequisito di un sistema democratico maturo. Quanto all’instabilità governativa, essa è certamente diminuita, ma fino ad un certo punto, giacché nelle coalizioni, una volta battuto il nemico comune, riemergono le antiche appartenenze e si riapre la conflittualità interna. La seconda Repubblica ha avuto quattro legislature: la prima e l’ultima si sono concluse anticipatamente, a causa dei contrasti interni alla maggioranza, mentre le altre due sono durante regolarmente 5 anni: ma in quella governata dal centro-sinistra (1996-2001) sono avvenuti ben tre cambi di presidenza del consiglio, mentre in quella governata dal centro-destra (2001-2006) la conflittualità interna alla maggioranza è stata all’ordine del giorno, indebolendo non poco l’azione del governo. Per queste ragioni la seconda Repubblica, nata dal biennio 1992-94, non ha rappresentato un vero punto di svolta, ma una stagione di transizione, in cui vecchio e nuovo si sono mescolati tra loro e le storiche caratteristiche del sistema italiano sono riemerse in forme diverse.
[...] N.B. L’articolo nella sua versione originale prosegue con una quarta parte intitolata: Nascita del bipolarismo sostanziale (2008)
Matteo Renzi lascia il Pd: dalla Bolognina a Leu, trent'anni di scissioni nel centrosinistra. Nel 1989 lo strappo di Occhetto: andò via Cossutta che fondò Rifondazione Comunista. Prima della scelta di Renzi, l'addio di Bersani e Speranza. La Repubblica il 17 settembre 2019.
La svolta di Achille Occhetto alla Bolognina. Trent’anni fa, quando Occhetto annuncia il cambio del nome del Pci (alla Bolognina, il 12 novembre 1989) si capisce subito che la celebre compattezza comunista è finita insieme al vecchio partito. La prima scissione è quella nostalgica di Cossutta che fonda il partito della rifondazione comunista, proprio mentre, nel 1991, nasce il Pds, partito democratico della sinistra. Da allora tante rotture si sono consumate, anche dopo la nascita del Pd, che avrebbe dovuto, per sua natura riunire del due anime del riformismo, quella socialista e quella cattolica. Due anni dopo la fondazione infatti, nel 2009, è proprio Francesco Rutelli a lasciare. Nasce “Alleanza per l’Italia” dove arriva anche Bruno Tabacci. Per qualche anno il Pd resta più o meno unito, fino al 2015 quando Giuseppe Civati, che aveva partecipato alle primarie del 2013 proprio contro Matteo Renzi, se ne va e fa nascere “Possibile”. Qualche mese dopo tocca a Fassina con “Futuro a Sinistra”. Nel 2017, dopo la sconfitta al referendum, arriva la scissione che segna di più il rapporto tra Renzi e l’ala sinistra: abbandonano quelli della ditta da Bersani a D’Alema. “Peggio della scissione c’è solo il ricatto”, dice all’epoca Renzi. Cita “i diktat della minoranza” e aggiunge che “fuori di qui ci stanno prendendo per matti”. Ma la rottura si consuma lo stesso. Nasce Articolo 1 guidato da Roberto Speranza (oggi ministro della Sanità) che poi confluirà in “Liberi e Uguali” di Grasso che alle elezioni del 2018 raccoglie il 3,4% dei voti. E quando, alla fine di agosto, il Pd decide di fare l’alleanza con i 5S per il Conte bis, Carlo Calenda lascia per dare vita a “Siamo Europei”. Infine la scelta di Matteo Renzi.
(ANSA il 17 settembre 2019) Discussione infuocata nella chat dei deputati Pd sulla scissione di Renzi. Sarebbe intervenuto, a quanto si apprende, anche Dario Franceschini con queste parole: "Nel 1921-22 il fascismo cresceva sempre più, utilizzando rabbia e paure. Popolari, socialisti, liberali avevano la maggioranza in Parlamento e fecero nascere i governi Bonomi, poi Facta 1 poi Facta 2. La litigiosità e le divisioni dentro i partiti li resero deboli sino a far trionfare Mussolini nell'ottobre 1922. La storia dovrebbe insegnarci a non ripetere gli errori".
Dall'intervista di Annalisa Cuzzocrea per ''la Repubblica'' il 17 settembre 2019.
Nemici mai, giura Matteo Renzi. Ma l'ex premier ed ex segretario lascia il Pd. Non ascolta gli appelli di Zingaretti, non crede a un'unità che considera di facciata. (…)
Ha davvero deciso lo strappo?
"I gruppi autonomi nasceranno già questa settimana. E saranno un bene per tutti: Zingaretti non avrà più l'alibi di dire che non controlla i gruppi pd perché saranno "derenzizzati". E per il governo probabilmente si allargherà la base del consenso parlamentare, l'ho detto anche a Conte. Dunque l'operazione è un bene per tutti, come osservato da Goffredo Bettini. Ma questa è solo la punta dell'iceberg. Il ragionamento è più ampio e sarà nel Paese, non solo nei palazzi".
(…) Aver mandato a casa Salvini resterà nel mio curriculum come una delle cose di cui vado più fiero".
Anche se per farlo il Pd non è passato dal voto?
"Si chiama democrazia parlamentare! Il leader della Lega usava il Viminale per educare all'odio. Quando, in evidente stato di sovraeccitazione, chiede pieni poteri, può accadere qualsiasi cosa: l'uscita dall'euro, la nomina dei suoi amici che chiedono tangenti ai russi alla guida di Eni. La recessione che avrebbe seguito la campagna di promesse e fake news non avrebbe solo fatto aumentare Iva e spread: avrebbe messo in ginocchio le imprese".
Adesso però lei spacca il Pd indebolendo proprio il fronte anti-Salvini. Che senso ha?
"È il contrario. Abbiamo fatto un capolavoro tattico mettendo in minoranza Salvini con gli strumenti della democrazia parlamentare. Ma il populismo cattivo che esprime non è battuto e va sconfitto nella società. E credo che le liturgie di un Pd organizzato scientificamente in correnti e impegnato in una faticosa e autoreferenziale ricerca dell'unità come bene supremo non funzionino più".
L'unità è una richiesta che viene soprattutto dalla base. Zingaretti ha fatto di tutto per mantenerla. Cos'è che gli rimprovera?
"Non ho un problema personale con Zingaretti, né lui ha un problema con me. Abbiamo sempre discusso e abbiamo sempre mantenuto toni di civiltà personali. Qui c'è un fatto politico. Il Pd nasce come grande intuizione di un partito all'americana capace di riconoscersi in un leader carismatico e fondato sulle primarie. Chi ha tentato di interpretare questo ruolo è stato sconfitto dal fuoco amico. Oggi il Pd è un insieme di correnti. E temo che non sarà in grado da solo di rispondere alle aggressioni di Salvini e alla difficile convivenza con i 5 Stelle".
Rischia di passare alla storia come colui che ha ucciso il partito che aveva l'ambizione di unire la tradizione socialdemocratica e quella cattolica, i Ds e la Margherita. Lo sa?
"Ma dai! Sono cinque anni che mi dite che rovino il Pd. Basta con questa tiritera sul passato. C'è un futuro ricco di difficoltà, ma bellissimo, là fuori. Lo andiamo a prendere? Lo costruiamo? O ci limitiamo ad aspettarlo rinchiusi nelle nostre correntine? Diciamo la verità: c'è una corrente culturale nella sinistra italiana per la quale io sono l'intruso".
Perché ha spostato a destra il Partito democratico?
"Ho portato il Pd al massimo mai raggiunto: 41%. Ho garantito anni di governo che hanno portato le unioni civili, il dopo di noi, le leggi sul sociale e sulla cooperazione internazionale. Abbiamo fatto un incredibile piano per le aziende. Finalmente si è iniziato una lotta all'evasione fiscale seria. Il Pil era negativo e lo abbiamo portato in terreno positivo. Chi guadagna poco ha almeno gli 80 euro, su cui tutti fanno ironie ma che nessuno tocca. Quando sono arrivato c'erano 20 milioni di euro sulla povertà, quando sono andato via 2,7 miliardi, e altri 2 sulle periferie. C'è più sinistra in questo elenco che in anni di rivendicazioni e convegni della ditta".(…)
Sembra una vendetta.
"Ho votato la fiducia persino al governo coi grillini, figuriamoci se mi preoccupano i risentimenti o le vendette. Mi hanno sempre trattato come un estraneo, come un abusivo, anche quando ho vinto le primarie. Ancora oggi c'è una corrente culturale che paragona i due Matteo mettendoli sullo stesso piano. È il riflesso condizionato di quella sinistra che si autoproclama tale e che non accetta di essere guidata da uno che non provenga dalla Ditta. Del resto il contrappasso è semplice: io esco, nei prossimi mesi rientrano D'Alema, Bersani e Speranza. Va via un ex premier, ne torna un altro. Tutto si tiene". (…) Non sono interessato a mettere il naso nelle nomine, ma voglio dire la mia sulla strategia. Perché continuiamo a tenere divise Leonardo- Finmeccanica e Fincantieri? Che senso ha? Non rischiamo di farci mangiare da partner europei che investono più di noi sullo spazio e sulla difesa?". Letta a Radio Capital ha detto: "Non posso credere che Renzi vada via perché non c'è un sottosegretario di Pontassieve". "Per rispetto della sua intelligenza non commento una simile idiozia". (…) non sarà un partito tradizionale, sarà una casa. E sarà femminista con molte donne di livello alla guida. Teresa Bellanova sarà la capo delegazione nel governo. (…)
Appoggerà le intese Pd-M5S alle regionali?
"A me l'alleanza strategica con Di Maio non convince. Non ho fatto tutto questo lavoro per morire socio di Rousseau. (…) La nostra Casa non si candiderà né alle regionali né alle comunali almeno per un anno. Chi vorrà impegnarsi lo farà con liste civiche o da indipendente. La prima elezione cui ci presenteremo saranno le politiche, sperando che siano nel 2023. E poi le Europee del 2024. Abbiamo tempo e fiato".
Puntando a quale obiettivo? Non teme che le sue idee, andando altrove, rischino di sparire?
"Il mio amico Franceschini me lo ha scritto ieri sera via sms. Uscirai dal Pd e non ti considererà più nessuno. Può darsi. Mi piace da impazzire quando mi dicono che sono morto. L'ultimo che lo ha pensato si sta ancora leccando le ferite. Faceva il ministro dell'Interno. Adesso lui è tornato al Papeete e il Viminale è un posto più civile".(…)
Da ''Radio Cusano Campus'' il 17 settembre 2019. Giuseppe Civati, fondatore di Possibile, è intervenuto ai microfoni della trasmissione "L'Italia s'è desta" condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell'Università Niccolò Cusano. Sulla scissione di Renzi dal PD. "Il Pd col proporzionale non c'è più. Se non c'è più un sistema elettorale che polarizzi su grandi partiti, è normale che ognuno si metta in proprio. Tra l'altro molto simili tra loro, quello di Renzi, quello di Calenda. Sicuramente Calenda non sta passando una bella giornata dopo questa decisione di Renzi. La decisione di Renzi è tutt'altro che banale, l'intervista di oggi è tanta roba. Nell'intervista Renzi ha rilanciato i suoi temi, una posizione centrista classica, con venature liberali. E' anche una tradizione nobile che andrebbe ripresa. Bisognerà capire se questo governo vorrà rilanciare anche gli investimenti pubblici e capire cosa diranno Renzi e il M5S. La cosa che manca in quell'intervista di Renzi è il clima. Renzi rappresenterà un centro liberale, non so se con Calenda o contro, poi ci sarà una forza più socialista come il PD e infine c'è lo spazio in cui mi trovo io che in questi anni è stato mortificato dal dibattito interno alle correnti del PD". Sul governo giallorosso. "La verità è che quando faranno la legge elettorale proporzionale si tornerà a votare. se questo governo sarà capace di spostare la scelta del tema rispetto a quelli di Salvini, guadagnerà sicuramente uno spazio che adesso non c'è. Prima si giocava con le regole di Salvini, uno che stava sulla poltrona quando io ancora andavo al liceo, quindi questa idea che lui sia un eversivo è molto curioso. Però cambiare stadio, cambiare campo, cambiare regole del gioco era la cosa giusta da fare, lo dico ben sapendo che questo governo ha in sè molte contraddizioni quindi la strada non sarà facile". Su Franceschini. "E' eterno. E' un ministro serial. Gioca sia col modulo di Allegri, che con quello di Sarri, ma soprattutto con quello di Conte".
Mario Adinolfi, Pres. del Popolo della famiglia, è intervenuto ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”, condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano. Sulla scissione di Renzi dal PD. "E' l'ennesimo capolavoro tattico di Renzi. Sul piano della tattica la mossa è intelligente per i suoi interessi, per gli interessi del Paese non si fa niente. E' incredibile che non ci sia una motivazione politica vera alla base della sua decisione. Sono solo ragioni personali. E' una cosa imbarazzante. Due pagine di intervista, con tutte le domande giuste, ma senza una risposta di natura politica, solo risposte di natura personale. Renzi resta quello dello stai sereno e ti fotto il posto, del lascio la politica e poi non la lascio. Lo conosco molto bene. Detto ciò, con questa mossa Renzi si prende in mano la golden share del governo, sarà lui a decidere fin quando vivrà e quando morirà questo governo. Renzi dice che non si candiderà fino al 2023 perchè sa che il suo spazio è nel palazzo, non nelle urne. Chiamerà le elezioni solo quando gli farà comodo. Tutto il percorso dei gemelli siamesi Matteo, Renzi e Salvini, è intriso solo della smania di potere incondizionato, loro idee per il Paese non ne hanno. Si può uscire dal tifo per uno dei due Mattei? Ci stanno costringendo a scegliere tra il tifo per i due Mattei. Spero che invece si possa tornare a parlare di politica".
Le scissioni della sinistra al microscopio: chi è uscito e quanti voti ha preso. Luca Tremolada su Infodata - Il sole 24 ore il 17 settembre 2019. Matteo Renzi, come anticipato dal Sole 24 Ore del 14 settembre, ha deciso. «Se lo avessi fatto tra sei mesi tutti lo avrebbero letto come una minaccia al prosieguo della legislatura – spiega l’ex premier ed ex segretario del Pd -. Fatto ora che il governo sta partendo serve a fare chiarezza, in tutta sicurezza». Non è ancora una scissione ma poco ci manca. Qualche settimana fa c’era stato l’addio del ministro Calendo. quella di Calenda è la sesta scissione in dodici anni. Il Pd, partito nato nel 2007 con l’obiettivo di unire l’anima post-comunista e quella cattolica della sinistra italiana, in dodici anni di storia è stato attraversato già da molte scissioni. Un segnale piccolo dettato dalla delusione per l’alleanza con i cinque stelle. Oggi è la volta dell’ex premier con motivazioni differenti. Qui l’articolo sul sole.com. Del resto a sinistra sono abituati. L’ultima a divisione a sinistra avviene nel 2018. L’annuncio è di Roberto Speranza oggi ministro della Sanità del governo giallorosso. Il partito si chiamava Articolo 1-Mdp. Nacque il 25 febbraio 2017, i leader erano erano Roberto Speranza, Arturo Scotto, Enrico Rossi e Pier Luigi Bersani. A questi si unirono anche Massimo D’Alema e Guglielmo Epifani. Entrarono anche esponenti di Sel: in tutto sono 42 deputati e 16 senatori La denominazione proposta per la lista elettorale è “Liberi e Uguali“. Alle elezioni politiche del 4 marzo 2018 la lista ottiene il 3,4% dei voti, eleggendo 14 deputati e 4 senatori, la maggior parte dei quali sono esponenti di Articolo Uno. Il 6 e 7 aprile 2019 si svolge a Bologna il I Congresso nazionale. I delegati congressuali eleggono Roberto Speranza segretario del partito; il partito viene inoltre ribattezzato Articolo Uno. Il Congresso sancisce l’uscita del partito dal progetto di Liberi e Uguali. Per usare una iperbole, in termini dimensionali ci muoviamo nell’ambito della fisica delle particelle ma se alziamo lo sguardo la storia delle scissioni della sinistra parte dal 1921 ed è straordinariamente ricca di aneddoti, forme e traiettorie. La situazione si è aggravata in particolar modo dagli anni Novanta, con la fine della grande stagione del Partito Comunista Italiano. Un partito nato anch’esso da una scissione storica, quella del 1921. Qui l’Info Data di Filippo Mastroianni che prova a riassumere 94 anni di scissioni. Siamo alla meccanica quantistica della sinistra.
Numeri della prima grande scissione. L’ala di sinistra del Partito Socialista Italiano, guidata da Amadeo Bordiga e Antonio Gramsci, decise di separarsi dal resto del partito durante il XVII Congresso socialista. La frazione comunista, di fronte al rifiuto della maggioranza del partito di accogliere la sollecitazione del Comintern ed estromettere i riformisti dal PSI, abbandonò i lavori dando vita al Partito Comunista d’Italia. Soffermandoci sui numeri di questa importante scissione, furono 58.783 gli iscritti che lasciarono il Partito Socialista Italiano. Il nuovo partito affrontò la prova delle urne, per la prima volta, alle politiche del 1921, ottenendo 304.719 voti, equivalenti a un 4,6% e a 15 seggi alla Camera. Il Partito Socialista raggiunse, con 1.569.559 voti, il 24,7%, guadagnandosi 123 seggi. Gli anni successivi vedranno però una situazione ribaltata. Il Partito Comunista Italiano diventerà il partito egemone della sinistra, in controcorrente rispetto al resto d’Europa, segnata da una prevalenza dei partiti socialdemocratici.
La frammentazione degli ultimi 30 anni. Gli ultimi 30 anni hanno fatto registrare un numero molto elevato di nuovi partiti e modificazioni del panorama politico della sinistra, soprattutto se messi in rapporto ai decenni precedenti. Come mostrato in grafica, dal 1921 fino allo scioglimento del Partito Comunista Italiano la vivace dinamica dell’area progressista è rimasta moderatamente limitata. Sono ben 18 i soggetti politici segnati in grafica nel post PCI, contro i 2 dei 70 anni precedenti, caratterizzati dalla dialettica socialisti-comunisti. La frammentazione ha colpito particolarmente la sinistra più estrema, che ha visto nascere e morire diverse realtà nel giro di pochi anni. Il centrosinistra ha invece seguito il percorso inverso, con la nascita del Partito Democratico dalla confluenza di Democratici di Sinistra e La Margherita. Due partiti già in coalizione sotto la bandiera comune dell’Ulivo alla politiche 1996 e 2001 (con candidati premier Romano Prodi e Francesco Rutelli) e dell’Unione nel 1996 (Romano Prodi candidato premier). Almeno fino al 2009, quando il PD registra la prima scissione. Francesco Rutelli lascia il partito e, nel novembre 2009, fonda Alleanza per l’Italia. Nel 2015 si registra invece la fuoriuscita del gruppo guidato da Filippo Civati e la nascita di Possibile. Nasce anche Sinistra Italiana, dalla fusione di Sinistra Ecologia Libertà e Futuro a Sinistra, fuoriuscito dal Partito Democratico e guidato da Stefano Fassina.
I partiti dai numeri migliori. Quali sono stati i partiti più importanti della sinistra italiana? Soprattutto, quali hanno pesato di più a livello elettorale? Il Partito Democratico è la realtà politica che ha raggiunto il maggior numero di parlamentari nelle due camere. Nato fin da subito come partito a vocazione maggioritaria, anche a costo di discostarsi dalle posizioni più classiche della sinistra guardando all’elettorato moderato, il PD ha raccolto un massimo di 303 deputati alla Camera e 113 senatori. Subito dopo il Partito Comunista Italiano, con i 228 deputati e 116 senatori ottenuti alle politiche del 1976, quando il partito guidato da Enrico Berlinguer raggiunse il suo massimo storico, il 34,37% dei voti. Il PDS fece registrare 172 deputati e 102 senatori nel 1996. Un risultato solo avvicinato dalla successiva esperienza politica dei Democratici di Sinistra, che alle elezioni 2001 guadagnarono 137 deputati e 64 senatori. Il massimo storico del Partito Socialista Italiano alla camera è da ricercarsi nel periodo pre-scissione, alle politiche del 1919, con 156 seggi conquistati. I 49 seggi al Senato del 1992 rimangono invece il miglior risultato ottenuto a Palazzo Madama. Per quanto riguarda l’estrema sinistra post PCI, Rifondazione Comunista raggiunse 41 deputati e 27 senatori alle elezioni 2006, dove raccolse il 5,8% alla Camera e il 7,4% al Senato.
Le scissioni della sinistra: da Renzi al Pci. Storia di quello che era il più grande partito comunista d'Europa ora ridotto in mille pezzi da scissioni e divisioni. Barbara Massaro il 20 settembre 2019 su Panorama. C'era una volta la sinistra in Italia. Una sola sinistra: prima della scissione di Renzi, del bicameralismo di D'Alema, di Prodi, Fassino e Veltroni c'era LA sinistra. Quando nel 1921 Antonio Gramsci fondò il Partito Comunista Italiano (il Pci, il più grande partito comunista dell'Europa occidentale) non poteva immaginare quello che, in meno di un secolo, i suoi "discepoli" sarebbero stati in grado di combinare alla sua creatura tra scissioni e divisioni di idee, personaggi, temi e dinamiche in una caleidoscopica quantità di sfumature che a guardarle tutte insieme di rosso non hanno più nulla.
2019 - La scissione di Matteo Renzi e la nascita di Italia Viva. E sicuramente Antonio Gramsci non avrebbe mai immaginato che un giorno i figli dei figli dei suoi figli avrebbero abbandonato il gruppo politico d'appartenenza... Via Whatsapp. Cosa direbbe un Berlinguer a Matteo Renzi, artefice della prima scissione social della storia della politica italiana? "Me ne vado senza rancore - ha twittato nella notte tra lunedì 16 settembre e martedì 17 - il Pd è stata la mia casa per tanti anni, Zingaretti è un amico, me ne vado in allegria". E così uno dietro l'altro i suoi fedelissimi hanno - letteralmente - "abbandonato il gruppo" come si esce con un clic dalla chat della scuola del figlio e da quella della grigliata di Pasquetta. Ma il fantasma dell'orgoglio politico della neo-sinistra all'acqua di rose mette agli atti della storia la social scissione dell'ex segretario Piddino. Renzi, dunque, se ne è andato determinando la riscrittura della geografia politica della sinistra da nord a sud sia in Parlamento che all'interno delle amministrazioni locali. Sono giorni di fibrillazione e di tensione tra chi vuole restare attaccato alla propria poltrona e chi sposa la causa del Matteo ribelle. Dall'interno dei Palazzi si tenta di fermare la diaspora, mentre i fuoriusciti portano acqua al nuovo multino tutto da inventare. La nuova creatura politica che ammicca alla sinistra, ma che brama identità propria si chiamerà Italia Viva e cercherà di unire "le anime riformiste della sinistra". Renzi scommette su di una nuova Leopolda che sia "un'esplosione di proposte" e garantisce appoggio esterno al governo Conte bis. Al momento sono solo una trentina i parlamentari che lo stanno seguendo nella sua nuova avventura, ma l'ex segretario del PD pare deciso ad andare avanti sulla via scissionista della sinistra masochista che ha caratterizzato la storia politica dell'Italia del dopoguerra. Riavvolgendo il nastro a ritroso bisogna tornare alla nascita dei DS, esito del fallimento dell'esperienza dell'Ulivo, per trovare un precedente storico analogo.
1998 - Nascono i Democratici di sinistra. Proprio dall'esperienza dell'Ulivo e nella consapevolezza che tutte le anime della sinistra avrebbero avuto bisogno di convergere in un unico contenitore per avere più forza politica era infatti nata l'idea di fondare i Democratici di Sinistra. Si trattava del progetto di creare un unico partito di sinistra sul modello dei gradi partiti laburisti europei. Massimo D'Alema (nel frattempo succeduto a Prodi a Palazzo Chigi a causa della crisi di governo dovuto alla fine del sostegno esterno del PRC alla maggioranza) venne eletto presidente e primo segretario fu Walter Veltroni. A lui, nel 2001, succedette Piero Fassino rimasto in carica fino allo scioglimento dei DS nel 2007. L'ideologia era quella socialdemocratica e riformista, il sogno era quello di creare un unico soggetto politico capace di racchiudere le sinistre italiane. Più che un sogno, un'utopia.
1996 - L'Ulivo e i Comunisti italiani. Tornando ancora indietro col calendario si balza al 1996 quando dopo due anni di berlusconismo la sinistra ha avuto di nuovo occasione d'imporsi come maggioranza politica del paese. Lo ha fatto attraverso l'Ulivo ovvero il raggruppamento di forze riformiste moderatamente di sinistra e liberali teorizzato da Romano Prodi. E' stata la prima volta che ex DC ed ex Comunisti hanno corso insieme. Il centrosinistra nel 1996 ha conquistato la maggioranza e Romano Prodi è stato nominato Premier. Rifondazione Comunista, però, decise di fornire solo appoggio esterno alla maggioranza determinando un insanabile strappo tra ex comunisti e riformisti moderati. Cossutta e i suoi non hanno potuto accettare la svolta centrista di PRC e se ne sono andati dando vita all'esperienza dei Comunisti Italiani il cui primo segretario è stato lo stesso Cossutta seguito da Oliviero Diliberto nel 2000. I temi erano quelli della bandiera rossa, dell'internazionale socialista, della lotta di classe e della rivoluzione operaia. Intorno ai Comunisti italiani si sono uniti i delusi dal moderatismo di Bertinotti.
1994 - "I progressisti". Già in precedenza le anime moderate e post comuniste della sinistra avevano avuto modo di scontrarsi. Era il 1994. Anno di elezioni politiche importanti. Il primo appuntamento elettorale dopo lo scioglimento del PCI. In campo le due forze maggiori della sinistra erano il PDS e il PRC che, insieme a Verdi, socialisti e partiti minori decisero di unire le forze e di presentarsi come I Progressisti nel tentativo di battere la neonata coalizione di centro destra guidata da Silvio Berlusconi. Non ce l'hanno fatta, ma il progetto de I Progressisti sarà alla base di quello che poi sarà l'esperimento politico de L'Ulivo. A causa della sconfitta politica entrambe le segreterie (PDS e PRC) subirono uno scossone e Massimo D'Alema succedette ad Achille Occhetto, mentre un riottoso Cossutta lasciò la poltrona a Fausto Bertinotti.
1991 - Lo spartiacque. Proprio Cossutta era stato già in precedenza fautore di un'altra e più importante scissione, quella post comunista. Era il 1991. Mentre infatti Occhetto e i moderati della nuova sinistra erano in cerca d'identità fondando il Partito Democratico della Sinistra (PDS) i nostalgici della falce e martello avevano seguito Armando Cossutta fondatore del Partito della Rifondazione Comunista in cui erano confluite tutte le correnti e le posizioni più a sinistra della sinistra come Democrazia Proletaria e Partito Comunista d'Italia. L'idea era proprio quella di opporsi allo scioglimento del PCI e quindi a tutte le posizioni moderate e centriste che avrebbe potuto assumere la sinistra.
Il Partito Comunista Italiano. E per ritrovare la sinistra davvero unita bisogna tornare al Partito Comunista italiano: uno e indivisibile. Il PCd'I, il braccio politico della resistenza antifascista; il cuore rosso della nascita della Repubblica, il luogo in cui Palmiro Togliatti ha avuto modo di realizzare quella collaborazione con i moderati (anche cattolici) in nome della Repubblica. Anche quando De Gasperi ha deciso di estromettere le sinistre dal Governo il PCI è stato capace di fare opposizione, anzi è stato in grado di fare quel capolavoro politico del compromesso storico con la DC. Certo, allora il segretario era Enrico Berlinguer, mica Matteo Renzi. Berlinguer, però, è morto prima di vedere la caduta del Muro di Berlino e la fine dei grandi comunismi europei e su quella sedia, mentre il concetto stesso di comunismo si sgretolava davanti all'evidenza della storia, sedeva Achille Occhetto che non ha potuto che prenderne atto e, nel 1991, ha sciolto il PCI. E da lì sono iniziati quei guai della sinistra sempre più a brandelli e frammentata in una costellazione di "compagni parliamone" con talmente tanti argomenti che dicono tutto e il contrario di tutto da aver completamente snaturato il concetto stesso di sinistra storica.
Dal Pci a oggi. Le scissioni della sinistra. Storia di quello che era il più grande partito comunista d'Europa ora ridotto in mille pezzi da scissioni e divisioni. Barbara Massaro il 22 novembre 2018 su Panorama. C'era una volta la sinistra in Italia. Una sola sinistra. Quando nel 1921 Antonio Gramsci fondò il Partito Comunista Italiano (il Pci, il più grande partito comunista dell'Europa occidentale) non poteva immaginare quello che, in meno di un secolo, i suoi discepoli sarebbero stati in grado di combinare alla sua creatura tra scissioni e divisioni di idee, personaggi, temi e dinamiche in una caleidoscopica quantità di sfumature che a guardarle tutte insieme di rosso non hanno più nulla.
Il Partito Comunista Italiano. Era uno si diceva. Il PCd'I, il braccio politico della resistenza antifascista; il cuore rosso della nascita della Repubblica, il luogo in cui Palmiro Togliatti ha avuto modo di realizzare quella collaborazione con i moderati (anche cattolici) in nome della Repubblica. Anche quando De Gasperi ha deciso di estromettere le sinistre dal Governo il PCI è stato capace di fare opposizione, anzi è stato in grado di fare quel capolavoro politico del compromesso storico con la DC. Certo, allora il segretario era Enrico Berlinguer, mica Matteo Renzi. Berlinguer, però, è morto prima di vedere la caduta del Muro di Berlino e la fine dei grandi comunismi europei e su quella sedia, mentre il concetto stesso di comunismo si sgretolava davanti all'evidenza della storia, sedeva Achille Occhetto che non ha potuto che prenderne atto e, nel 1991, ha sciolto il PCI. E qui sono iniziati i guai della sinistra.
1991 - Lo spartiacque. Mentre infatti Occhetto e i moderati della nuova sinistra erano in cerca d'identità fondando il Partito Democratico della Sinistra (PDS) i nostalgici della falce e martello hanno seguito Armando Cossutta che ha fondato il Partito della Rifondazione Comunista in cui sono confluite tutte le correnti e le posizioni più a sinistra della sinistra come Democrazia Proletaria e Partito Comunista d'Italia. L'idea era proprio quella di opporsi allo scioglimento del PCI e quindi a tutte le posizioni moderate e centriste che avrebbe potuto assumere la sinistra.
1994 - "I progressisti". Anno di elezioni politiche importanti il 1994. Il primo appuntamento elettorale dopo lo scioglimento del PCI. In campo le due forze maggiori della sinistra sono il PDS e il PRC che, insieme a Verdi, socialisti e partiti minori decidono di unire le forze e di presentarsi come I Progressisti nel tentativo di battere la neonata coalizione di centro destra guidata da Silvio Berlusconi. Non ce la fanno, ma il progetto de I Progressisti sarà alla base di quello che poi sarà l'esperimento politico de L'Ulivo. A causa della sconfitta politica entrambe le segreterie (PDS e PRC) cambiano e Massimo D'Alema succede ad Achille Occhetto, mentre un riottoso Cossutta lascia la poltrona a Fausto Bertinotti.
1996 - L'Ulivo e i Comunisti italiani. Dopo due anni la sinistra ha di nuovo occasione d'imporsi come maggioranza politica del paese e lo fa attraverso l'Ulivo ovvero il raggruppamento di forze riformiste moderatamente di sinistra e liberali teorizzato da Romano Prodi. E' la prima volta che ex DC ed ex Comunisti corrono insieme. Il centrosinistra ha la maggioranza e Romano Prodi viene nominato Premier. Rifondazione Comunista decide di dare appoggio esterno alla maggioranza. E' lo strappo. Cossutta e i suoi non possono accettare la svolta centrista di PRC e se ne vanno dando vita all'esperienza dei Comunisti Italiani il cui primo segretario è lo stesso Cossutta seguito da Oliviero Diliberto nel 2000. I temi sono quelli della bandiera rossa, dell'internazionale socialista, della lotta di classe e della rivoluzione operaia. Intorno ai Comunisti italiani convergono i delusi dal moderatismo di Bertinotti.
1998 - Nascono i Democratici di sinistra. Dall'esperienza dell'Ulivo e nella consapevolezza che tutte le anime della sinistra avrebber bisogno di convergere in un unico contenitore per avere più forza politica nasce l'illuminazione dei Democratici di Sinistra. Si tratta del progetto di creare un unico partito di sinistra sul modello dei gradi partiti laburisti europei. Massimo D'Alema (nel frattempo succeduto a Prodi a Palazzo Chigi a causa della crisi di governo dovuto alla fine del sostegno esterno del PRC alla maggioranza) viene eletto presidente e primo segretario è Walter Veltroni. A lui, nel 2001, succederà Piero Fassino che resterà in carica fino allo scioglimento dei DS nel 2007. L'ideologia è quella socialdemocratica e riformista, il sogno è quello di creare un unico soggetto politico capace di racchiudere le sinistre italiane. Più che un sogno, un'utopia.
2001 - Il Correntone. Che i DS, da soli, non fossero in grado di mettere d'accordo tutti lo si è visto subito. La crisi del governo D'Alema con le successive dimissioni di Veltroni da segretario e l'elezione di Piero Fassino in vista delle imminenti politiche davano la cifra della necessità di ritrovare quell'unità appena acquisita e subito perduta. Ecco che ancora l'Ulivo diventa la casa madre di una sinistra, che però, esce sconfitta dal confronto col centro destra. E così, invece che trovare unità i moderati di sinistra acquistano frammentazione unendosi ai girotondini e ai movimentisti che proprio in quegli anni si affacciavano sulla scena politica nostrana. Persino gli stessi DS devono fare i conti con un Correntone interno centrale e frange dissidenti di aspiranti disertori.
2003-2004: L'Ulivo per le europee. In vista delle Europee del 2004 a rompere gli indugi è Romano Prodi che propone a tutti i partiti della coalizione di presentarsi sotto un unico simbolo, quello, appunto, dell'Ulivo. Oltre ai DS accettano la Margherita, SDI e i Repubblicani mentre ne restano fuori i Verdi, i Comunisti Italiani, l'Udeur e Rifondazione Comunista. Nasce così Uniti nell'Ulivo che un buon risultato alle europee del 2004.
2005-2006 Il Governo Prodi-bis. Visto il successo delle europee Prodi propone di creare una federazione di partiti dell'Ulivo. Nasce così l'esperienza dell'Unione, che si può considerare l'embrione del PD. Perché dopo le politiche del 2006, vinte a risicata maggioranza dal centro sinistra, i DS e gli altri si accorgono di essere più forti in gruppo unico che presentandosi per singoli partiti. E così inizia a sembrare a portata di mano l'idea che l'Italia, come le più grandi democrazie, possa offrire ai suoi elettori solo due grandi liste, quella dei laburisti e quella dei conservatori.
2007 - Nasce il PD. Con questa grande ambizione politica Fassino apre a Firenze il IV Congresso dei DS. La sua mozione è quella di superare i DS per costruire un unico grande partito di sinistra in grado di semplificare lo scenario politico italiano. Mentre Fassino parla ai suoi a Firenze Francesco Rutelli fa lo stesso con la dirigenze e la base della Margherita (nata nel 2002 come forza centrista e riformista cattolica) nel tentativo di dar vita al soggetto politico che si chiamerà Partito Democratico. Più semplice il compito di Rutelli che ha velocemente convinto i suoi del senso stesso del progetto del PD. Fassino, invece, tra correnti, correntoni e correntelle ha dovuto combattere non poco per far passare la sua mozione e poter brindare alla nascita del PD il 14 ottobre 2007. Primo segretario eletto è Walter Veltroni. Da subito il PD ha avuto il ruolo importante di sostenere il secondo Governo Prodi che, ad appena un anno dal suo insediamento, già faticava a reggere. Approfittando della momentanea debolezza del centro-destra l'esecutivo guidato da Prodi e sostenuto dal neonato PD ha retto fino a gennaio 2008 crollando poi sotto i mancati accordi circa la riforma elettorale.
2008 - La frammentazione degli ex comunisti. E' tempo di nuove elezioni politiche e, per la prima volta nella storia, il PD sceglie di stringere intese programmatiche e non ideologiche tagliando, di fatto, i ponti con i partiti più a sinistra che, a partire dal 2008, si frammentano in una costellazione di partituccoli che dovrebbero rappresentare la sinistra alternativa. Nascono così le esperienze di La sinistra arcobaleno, la federazione della sinistra, L'altra Europa con Tsipras e Sinistra anticapitalista. Si tratta di soggetti politici che, lungi dall'avere rappresentanza parlamentare, finiscono solo per sottrarre voti alla sinistra. Nel frattempo il PD si allea con l'Italia dei Valori e perde le elezioni. Sconfitta ribadita anche alle successive regionali dopo le quali si apre l'Assemblea Nazionale. A un anno dalla nascita del PD è già crisi. La corrente Parisi chiede di cambiare tutto: dalla classe dirigente al programma politico, mentre la maggioranza del partito sceglie di aspettare le Europee per vedere cosa succede. E' un bagno di sangue. In un anno il PD ha perso 7 punti. Veltroni si dimette. Bersani pensa di candidarsi, ma poi ci ripensa, restano in corsa l'ex Margherita Dario Franceschini e Arturo Parisi. Vince Franceschini: il Pd è sempre più centrista. Gli ex Ds sono in subbuglio.
2009 - L'anno di Bersani. Tra frondisti, pentiti e moderati in qualche modo arrivano le elezioni primarie e Pier Luigi Bersani viene eletto segretario. Questa volta a lasciare il partito sono gli ex Margherita, Rutelli in primis che fonda Cambiamento e Buongiorno.
2013 - Da Bersani a Renzi. Per un paio d'anni Bersani regge la segreteria del partito tra alleanze con l'Udc e sostegno esterno al Governo Monti, poi nel 2013 i ranghi vengono di nuovo stretti perchè è tempo di elezioni politiche. Bersani stesso viene scelto come candidato premier del centro sinistra e le elezioni, seppur per pochi voti, le vince pure. Sale al colle, forma il Governo, ma dopo pochi mesi rimette il mandato perché il PD non è stato in grado, finito il settennato al quirinale di Giorgio Napolitano, di imporre in nome di Romano Prodi o in alternativa quello di Franco Marino. E' l'aprile del 2013 e si apre l'ennesima frattura nella sinistra italiana. Bersani si dimette, arriva Epifani ma solo in attesa delle primarie di dicembre dove trionfa il "rottamatore": Matteo Renzi, sindaco di Firenze. L'homo novus viene eletto segretario e per un attimo sembra che l'odore di chiuso della sinistra prenda una boccata d'ossigeno.
Renzi ha la meglio su Gianni Cuperlo, Gianni Pittella, ma soprattutto su Giuseppe Civati che da lì a due anni (2015) sarebbe uscito dal PD fondando a sua volta un nuovo soggetto politico, Possibile, che andrà a far parte della galassia della sinistra nata sulle ceneri dei Comunisti del tempo che fu.
2014 - Da Letta a Renzi. Nel frattempo a Palazzo Chigi si è sistemato Gianni Letta che riceve il celebre "Stai tranquillo" da Renzi a mo' di benedizione per un ricco futuro politico. Dura poco, perché il 13 febbraio dello stesso anno proprio Renzi propone una mozione di sfiducia a Letta e una settimana dopo accetta lui stesso l'incarico di formare un nuovo governo. Nella primavera dello stesso anno regionali e europee confermano l'entusiasmo degli elettori per Renzi che prende in mano il timone dell'esecutivo e conduce per un po' la barca della cosa pubblica.
2016 - Il referendum costituzionale. Fa riforme Renzi, firma decreti e emette circolari a ritmo vorticoso; ci crede davvero nell'idea di poter cambiare il mondo e di renderlo un posto migliore e per questo mette mani anche alla nostra Costituzione; la riforma, cerca di superare il bicameralismo perfetto, prova a dar forma una sorta di presidenzialismo alla francese, ma fallisce. Il referendum confermativo del dicembre 2016 rimette il buon Matteo che voleva un mondo migliore con i piedi per terra e, di fronte al no della gente, Renzi gira i tacchi e torna a casa dimettendosi anche dalla segreteria del partito.
2017 - 2018- Liberi e Uguali. Nonostante la debacle politica, l'assemblea nazionale del Pd conferma Renzi alla segreteria in vista delle politiche del marzo 2018. La minoranza interna al partito però non ci sta e Bersani con Rossi e Speranza lascia il PD e fonda Articolo 1 - Movimento Democratico e Progressista. In vista delle elezioni politiche quelli di Art. 1 si alleano con Sinistra Italiana e Possibile (quello di Civati) creando la coalizione Liberi e Uguali per Pietro Grasso Premier. Nello stesso tempo la sempre più striminzita falange a sinistra della sinistra si organizza con l'esperimento politico di Potere al popolo che nasce dai centri sociali e ha come punti di riferimento Ferrero, la Carofalo e Acerbo. Alle politiche le due coalizioni della sinistra alternativa alla sinistra non superano la soglia del 5%, ma vanno a succhiare voti a un PD che a marzo le prende di santa ragione con Renzi che, ancora una volta, dà le dimissioni e sparisce (per il momento) dalla scena pubblica. La sedia che scotta della segreteria piddina è affidata ora pro tempore a Maurizio Martina in attesa del congresso fissato per il marzo 2019.
Franceschini, scivolone sul fascismo. E arrivano le bacchettate dello storico. Il Secolo d'Italia martedì 17 settembre 2019. E meno male che fa pure il ministro dei Beni culturali. Dario Franceschini si merita una bella insufficienza in storia, e in particolare per quanto riguarda la storia del fascismo. Ecco cosa ha scritto Franceschini su Twitter, in riferimento alla scissione di Matteo Renzi: «Nel 21-22 il fascismo cresceva sempre più. Popolari socialisti liberali avevano la maggioranza in Parlamento, fecero nascere i governi Bonomi, Facta1, Facta2. La litigiosità e le divisioni li resero deboli sino a farli cadere facendo trionfare Mussolini. La storia dovrebbe insegnare». Sul blog di Nicola Porro è arrivata, repentina, la bacchettata di Marco Gervasoni, docente di Storia contemporanea: “Un’interpretazione dell’avvento del fascismo discutibile e datata: non fosse altro che quei liberali, che secondo il ministro avrebbero dovuto combattere il fascismo, erano infatti stati eletti, poco tempo prima, alla Camera, in un «listone» in cui c’erano anche i… fascisti, Mussolini in primis”. Poi Gervasoni rincara la dose: “La fake news, l’errore da matita rossa riguarda i socialisti che, scrive il nostro ministro della… Cultura, avrebbero sostenuto i governi Bonomi e Facta. Ma come, i socialisti ultra-massimalisti di Giacinto Menotti Serrati, che volevano fare la rivoluzione bolscevica, solo un po’ più lentamente dei compagni separati comunisti Bordiga, Gramsci e Togliatti? Talmente massimalisti che nell’ottobre 1922 buttarono fuori dal Psi la guardia gloriosa dei riformisti, Turati Treves e Matteotti? Questi socialisti, di fatto bolscevichi, alleati di popolari e liberali? No, infatti furono strenuamente all’opposizione di Bonomi e Facta”. “Franceschini – conclude Gervasoni – deve essersi confuso con il piccolo Partito socialista riformista di Ivanoe Bonomi, nato nel 1911, che di socialista aveva però solo il nome, visto che era un agglomerato di notabili e massoni, molti dei quali favorevoli al fascismo in cui sarebbero entrati da lì a breve”.
La fake history di Franceschini. Marco Gervasonicirca il 17 settembre 2019 su Nicolaporro.it. Il Pd dovrebbe andare cauto nel sostenere una legge contro le fake news, visto che non passa giorno che un suo esponente di vaglia non ne produca. E la falsa notizia è un doppio peccato, se a diffonderla è un ministro dei Beni culturali su un tema appunto culturale, come il passato, più o meno recente. Un tweet di stamane di Dario Franceschini recitava infatti stentoreo «Nel 21-22 il fascismo cresceva sempre più. Popolari socialisti liberali avevano la maggioranza in Parlamento, fecero nascere i governi Bonomi, Facta1, Facta2. La litigiosità e le divisioni li resero deboli sino a farli cadere facendo trionfare Mussolini. La storia dovrebbe insegnare». Certo, prima di tutto la storia dovrebbe insegnare a non falsificare il dato storico. Lasciamo perdere l’interpretazione dell’avvento del fascismo, che risale a antiche letture giovanili di qualcuno come Franceschini, che pur l’argomento dovrebbe conoscerlo, visto che si laureò in Giurisprudenza con una tesi sulla storia del Partito popolare ferrarese negli anni Venti del secolo scorso. Un’interpretazione dell’avvento del fascismo discutibile e datata: non fosse altro che quei liberali, che secondo il ministro avrebbero dovuto combattere il fascismo, erano infatti stati eletti, poco tempo prima, alla Camera, in un «listone» in cui c’erano anche i… fascisti, Mussolini in primis. E lasciamo perdere che anche nel Pp vi era una tendenza piuttosto favorevole a costituzionalizzare il fascismo, in cambio ovviamente dell’inserimento come leggi dello stato di alcune richieste cattoliche. Questa è interpretazione, anche se comunque fallace. E twitter non è luogo di ermeneutica storiografica. No, la fake news, l’errore da matita rossa, che ancora ai tempi di Franceschini avrebbe causato la bocciatura in un esame di Storia contemporanea, riguarda i socialisti che, scrive il nostro ministro della… Cultura, avrebbero sostenuto i governi Bonomi e Facta. Ma come, i socialisti ultra-massimalisti di Giacinto Menotti Serrati, che volevano fare la rivoluzione bolscevica, solo un po’ più lentamente dei compagni separati comunisti Bordiga, Gramsci e Togliatti? Talmente massimalisti che nell’ottobre 1922 buttarono fuori dal Psi la guardia gloriosa dei riformisti, Turati Treves e Matteotti? Questi socialisti, di fatto bolscevichi, alleati di popolari e liberali? No, infatti furono strenuamente all’opposizione di Bonomi e Facta. Fantastoria. Franceschini deve essersi confuso con il piccolo Partito socialista riformista di Ivanoe Bonomi, nato nel 1911, che di socialista aveva però solo il nome, visto che era un agglomerato di notabili e massoni, molti dei quali favorevoli al fascismo in cui sarebbero entrati da lì a breve. Quello dell’analogia, si sa, è un demone. Pensare che le situazioni storiche si ripresentino nella stessa forma e che, appunto, la storia insegni, è tipico di chi non la conosce se non per sentito dire. Se poi quello preso dal demone è un politico, che vuole forzare il passato per giustificare le meschinerie del presente (invitare Renzi-Matteotti a non scindersi perché altrimenti arriva il Salvini-Mussolini) il risultato è ancora più sconfortante. Ma con un governo il cui ministro dell’Istruzione si dice felice che gli studenti marinino la scuola per Greta, nulla di più facile che il tweet franceschiniano di fake history l’anno prossimo diventi il tema di storia della maturità. Marco Gervasoni, 17 settembre 2019
· Il Renzismo Junior.
I mille voltafaccia di Matteo Renzi. Da #enricostaisereno a #senzadime, passando dalla promessa di lasciare la politica in caso di sconfitta al referendum costituzionale, le giravolte di Matteo Renzi ormai non si contano più. Francesco Curridori, Venerdì 16/08/2019, su Il Giornale. "Non sono pentito, le condizioni allora erano completamente diverse”. Matteo Renzidisconosce sé stesso e, al contrario di un anno fa, propone un governo con i Cinquestelle.
Il voltafaccia di Renzi sul governo M5S-PD. Un cambio di linea repentino e fatto senza alcun pudore. Non è certamente la prima volta che il senatore di Rignano sull’Arno ribalta completamente le sue posizioni ma le motivazioni sono alquanto bizzarre. “In quella fase l’accordo tra Pd e M5S avrebbe dato l’idea di un’intesa per le poltrone”, spiega affermando che ora siamo di fronte a “tutta un’altra storia rispetto a 18 mesi fa" perché Matteo Salvini ha aperto la crisi poco prima di Ferragosto. Sinceramente nutriamo qualche dubbio sul fatto che la nascita di un eventuale esecutivo Pd-M5S non dipenda dall’esigenza di salvaguardare le proprie poltrone ma, pur prendendo per buono le parole di Renzi, quale articolo costituzionale vieta di far cadere un governo in piena estate? Renzi ha agito per senso di responsabilità o forse per la necessità di sbarrare la strada a una vittoria di Matteo Salvini alle elezioni?
Il fallimento della "politica del pop-corn". Non sarebbe stato più responsabile avviare un governo Pd-M5S il giorno dopo le elezioni del marzo 2018, dal momento che l’esito delle urne decretava, sì, una debaclè del Partito democratico ma grillini e democratici rappresentavano le prime due forze in Parlamento? Il successo di Salvini fu evidente ma, stando alle percentuali, si posizionò terzo (M5S 32,5%, Pd 18% e la Lega 17%). In un qualunque altro Paese europeo, di norma, in situazioni di stallo, si forma un governo di grande coalizione tra i primi due partiti. In Italia nella primavera del 2018 avvenne diversamente perché Renzi preferì adottare la politica del “pop-corn”: mettiamoli alla prova, vediamo che sanno fare e aspettiamo che falliscano. Risultato? La Lega al 34% e il M5S al 17%. Un ribaltamento che, inevitabilmente, non poteva che portare alla fine del governo Conte. Ma, prima di proseguire, è bene ricordare quali furono le dichiarazioni pubbliche di Renzi in quei giorni concitati e nei mesi successivi. "Quando vedo certe capriole, sono orgoglioso di aver contribuito – insieme a tanti altri militanti – a evitare l’accordo tra il Pd e i Cinque Stelle. Lo ripeto: sono orgoglioso. Perché non è stata una ripicca, ma solo una constatazione: rispetto ai dirigenti Cinque Stelle noi abbiamo una diversa concezione dell’Europa, del lavoro, del futuro, dei diritti, della lotta politica contro gli avversari”, dichiarò l’ex premier il 4 maggio di un anno fa. E ancora: “Se hanno i numeri per governare, governino. Ma massimo rispetto anche per chi non vuole finire la propria esperienza come partner di minoranza della Casaleggio e Associati srl”. Parole che, probabilmente, erano rivolte a esponenti del Pd, come Dario Franceschini, che in quei mesi si era speso molto affinché i dem stringessero un patto con i pentastellati. “Il 5 marzo mi chiamò Franceschini, voleva un accordo Pd-M5S e Di Maio premier”, rivelò da Bruno Vespa l’ex segretario Pd. “Non mettevano veti, anzi si auguravano che portassi la mia esperienza in Italia o all’estero. Manco morto, risposi, io non ci sono, noi non ci siamo”, ribadì Renzi che, in quel periodo, aveva lanciato l’hashtag #senzadime.
Da #enricostaidereno alla promessa di lasciare la politica. Ma l’hasthag divenuto un vero cult è senza dubbio #enricostaisereno pronunciato il 17 gennaio 2014 nel corso del programma Le invasioni barbariche condotto da Daria Bignardi. “Mi piacerebbe arrivare a Palazzo Chigi passando dalle elezioni, non con inciuci di Palazzo”, disse l’allora segretario del Pd aggiungendo: “Diamo un hastag #enricostaisereno, nessuno ti vuol prendere il posto”. Morale della favola? Il 22 febbraio 2014 Renzi si insedia a Palazzo Chigi, ovviamente senza passare attraverso un voto popolare. Poi, da presidente del Consiglio, le bugie, o meglio le promesse mancate, aumentano. L’impegno di visitare una scuola ogni settimana viene disatteso dopo che alcuni bambini cantano per lui una canzoncina dando vita allo scoppio di inevitabili e fragorose polemiche. Il 13 marzo 2014, ospite di Porta a Porta, annuncia che avrebbe pagato i debiti della pubblica amministrazione entro il 21 settembre successivo. “Se lo facciamo, lei poi va in pellegrinaggio a piedi da Firenze a Monte Senario”, aveva scommesso con Bruno Vespa. Il 23 maggio 2014, sempre a Porta a Porta, promette: “Entro l’anno noi andiamo a eliminare tutte le accise ridicole sulla benzina”. Nulla di tutto ciò è mai accaduto. Infine la madre di tutte le promesse mai mantenuta: il ritiro dalla vita pubblica in caso di sconfitta al referendum costituzionale. "Ho personalmente affermato davanti alla stampa e lo ribadisco qui davanti alle senatrici e ai senatori che nel caso in cui perdessi il referendum, considererei conclusa la mia esperienza politica”, dichiarò il 20 gennaio 2016 intervenendo a Palazzo Madama. Anche in questo caso sappiamo tutti com’è andata a finire… Visti i precedenti non escludiamo altri voltafaccia, compresa la possibilità di fondare un nuovo partito sebbene, dopo la vittoria di Nicola Zingaretti alle primarie, Renzi avesse promesso che non avrebbe fatto da contraltare al nuovo segretario del Pd e tantomeno una scissione.
Matteo Renzi a Porta a porta rivela a Bruno Vespa il nome del suo partito: "Si chiamerà Italia Viva". Libero Quotidiano il 17 Settembre 2019. "Io voglio molto bene al popolo del Pd. Per sette anni ho cercato disperatamente, giorno dopo giorno, di dedicare loro la mia esperienza politica, dopo di che, le polemiche, le divisioni e i litigi erano la quotidianità". Matteo Renzi, ospite di Bruno Vespa a Porta a Porta su Raiuno, dice che "il partito novecentesco non funziona più. C'è bisogno di una cosa nuova, allegra e divertente". E la "sua" cosa, "il nome della nostra nuova sfida sarà Italia Viva". "Se partiamo dalla parola scissione diamo l'idea di una operazione di palazzo. C'è anche quella, è stata una operazione di palazzo mandare a casa Matteo Salvini". Il leader della Lega, continua Renzi, "sembrava dover cambiare il mondo, non ce l'ha fatta. Il punto vero è che noi abbiamo utilizzato il 41% delle Europee del 2014 per togliere l'Imu, Salvini, invece, che ha fatto? Ha scelto deliberatamente, alla fine della sessione estiva del Parlamento, di aprire una crisi non da un luogo di sofferenza dell’Italia, ma dal Papeete, tra cubiste e Mojito", ha aggiunto. "Ha detto alzate le terga e venite a Roma a votare. Noi abbiamo alzato le terga, e l'abbiamo mandato a casa".
Renzi: con me 40 parlamentari. Pubblicato martedì, 17 settembre 2019 da Corriere.it. E ora volano parole poco commendevoli nei gruppi parlamentari del Partito democratico nei quali lo scissionista Matteo Renzi ha lasciato consistenti truppe che a lui sempre sono state fedeli. Al Senato — che riunisce il gruppo Pd oggi alle 12 — oltre al presidente renziano Andrea Marcucci, rimangono nella casa madre dem altri fan della prima ora dell’ex sindaco di Firenze che ieri ha dato corso all’annunciata separazione dal Nazareno: da Dario Parrini a Salvatore Margiotta, fino al tesoriere Stefano Collina. Tutti «ex fedelissimi» che ora sostengono di essere in dissenso con il progetto politico loro leader di riferimento . Poi ci sono gli indecisi: «Penso che andrò anch’io», ha confidato il sardo Giuseppe Cucca mentre l’«insospettabile renziana» Laura Garavini, eletta all’estero e già collocatasi con gli scissionisti, ieri è stata inchiodata su un divanetto del Senato dal tesoriere del Pd, Luigi Zanda, che ha voluto ascoltare fino in fondo le ragioni del suo passo inaspettato. Al Senato è piombata pure la ministra Teresa Bellanova che si è intrattenuta a lungo tra i capannelli dei colleghi ormai, come lei, fuori dal Pd: «Non è una scissione ma una sincera presa d’atto di una difficoltà di coesistenza». Per ora su 51 senatori dem, 9 sono quelli che hanno seguito Renzi ma presto potrebbero aggiungersi a Cucca anche Eugenio Comincini, Nadia Ginetti e Leonardo Grimani. Alla Camera gli scissionisti guidati da Maria Elena Boschi sono una ventina su 111 deputati mentre rimangono nel Pd Luca Lotti e Lorenzo Guerini. Per i gruppi dem, la scissione vale un milione di euro all’anno in meno alla Camera e 600 mila euro in meno al Senato. C’è poi il rischio licenziamenti per molti dipendenti del Pd in attesa che i renziani formino un nuovo gruppo alla Camera e confluiscano nel Misto al Senato...Matteo Renzi, a «Porta a Porta», ha respinto l’accusa di aver dislocato scientemente le sue truppe per avvelenare i pozzi del Pd: «I parlamentari li ho lasciati tutti a Zingaretti. Basta con questa storia che se faccio una cosa io c’è sempre un retropensiero...». Renzi, che ha parlato di «sacrifico personale», ha confermato il suo appoggio al governo («Conte non mi sembra in ansia»): «Per me questa legislatura dura fino al 2023 perché deve eleggere il nuovo presidente della Repubblica». E l’alleato di governo Luigi Di Maio ha preso queste parole per buone: «Nessuna sorpresa, di certo per noi non rappresenta un problema». Beppe Grillo, invece, è critico: «Non è il momento per il narcisismo». Il Quirinale, che ritiene di non dover interferire nelle dinamiche parlamentari, confida che l’appoggio al governo Conte resti invariato. Nel Pd, invece c’è preoccupazione: «Potrebbe essere un problema, hanno deciso di uscire dal partito senza alcun motivo», ha detto Dario Franceschini. E Paolo Gentiloni ha aggiunto: «In tempi così difficili. il Pd teniamocelo stretto». Infine Giuliano Pisapia si è rivolto a Renzi: «Da scout a scout non condivido, ma buon cammino...».
Partito di Renzi, ecco la lista dei 41 deputati e senatori che passano a Italia Viva Conzatti: lascio Forza Italia. Pubblicato mercoledì, 18 settembre 2019 da Claudio Bozza e Alessandro Trocino su Corriere.it. Ecco i 41 nomi di deputati e senatori che entrano a far parte del nuovo partito di Matteo Renzi, Italia Viva (38 dal Pd, una da Forza Italia, uno dal Partito Socialista e uno da Civica Popolare, la lista dell’ex ministro alla Sanità Beatrice Lorenzin). Entro la Leopolda, in programma il prossimo 19 ottobre, l’ex premier conta di arrivare a un gruppo parlamentare di 50 eletti. Forse già domani l’ingresso di altri tre onorevoli.
SENATORI: Davide Faraone, Giuseppe Cucca, Matteo Renzi, Laura Garavini, Eugenio Comincini, Leonardo Grimani, Mauro Marini, Daniela Sbrollini, Ernesto Magorno, Francesco Bonifazi, Teresa Bellanova, Donatella Conzatti (da Forza Italia), Valeria Sudano, Nadia Ginetti, Riccardo Nencini (dal Partito Socialista Italiano)
DEPUTATI: Lucia Annibali, Michele Anzaldi, Maria Elena Boschi, Nicola Carè, Matteo Colaninno, Camillo D’Alessandro, Vito De Filippo, Mauro Del Barba, Marco Di Maio, Cosimo Ferri, Silvia Fregolent, Maria Chiara Gadda, Roberto Giachetti, Gianfranco Librandi, Luigi Marattin, Gennaro Migliore, Mattia Mor, Sara Moretto, Luciano Nobili, Lisa Noja, Raffaella Paita, Fabio Portas, Ettore Rosato, Ivan Scalfarotto, Gabriele Toccafondi (da Civica Popolare, la lista elettorale dell’ex ministro della Sanità Beatrice Lorenzin), Massimo Ungaro.
Da Libero Quotidiano il 19 settembre 2019. Che botta per Matteo Renzi, il quale incassa un primo, sostanziale, gran rifiuto. Si parla di Beatrice Lorenzin, ministro della Sanità ai tempi del governo del rottamatore, quando faceva parte di Ncd. Già, perché la Lorenzin ha deciso di entrare nel Pd, snobbando così la nuova creatura politica di Renzi, Italia Viva. Interpellata sulle ragioni della scelta, ha spiegato di farlo perché "rafforzare i dem allargando il campo dei moderati è l'unico modo possibile per fermare Matteo Salvini". Inoltre, non nega di avere avuto "contatti diretti" con Renzi, ma "alla fine, dopo aver riflettuto a lungo, ho fatto la scelta a mio parere più giusta rispetto al percorso che ho fatto in questi anni". Se si considera che Renzi ha spiegato di aver dato vita a questa esperienza politica proprio per fermare il leader della Lega, il fatto che la Lorenzin insista sul fatto che il Pd sia l'unica via per raggiungere questo obiettivo, per l'ex premier, è un clamoroso colpo basso. Il nuovo ingresso è stato salutato con soddisfazione da Nicola Zingaretti: "Sono molto contento dell'iscrizione al Pd di Beatrice Lorenzin che proviene e rappresenta culture politiche moderate e riformiste. Benvenuta e grazie. Una scelta che fa del Pd un partito sempre più forte, plurale, aperto e incisivo", ha concluso il segretario.
Beatrice Lorenzin, da Forza Italia al Pd, in 8 partiti diversi. Una campionessa di trasformismo, una storia fatta di maglie, poltrone e posizioni politiche diverse. Alla faccia della coerenza. Panorama il 20 settembre 2019. Beatrice Lorenzin ha annunciato oggi il suo ingresso nel Pd: "Solo gli sciocchi nella vita restano sempre nello stesso posto" disse quando le si faceva notare l'ennesimo cambio di partito. In effetti dal 1996, anno in cui è cominciata la sua carriera politica con i Giovani di Forza Italia la Lorenzin ha cambiato 6 partiti, ma non solo. E' passata da Berlusconiana convinta a donna di sinistra. Alla faccia della coerenza. In sintesi ecco le tappe, anzi le maglie, della sua carriera:
1996 - Forza Italia, Movimento Giovani Lazio
1997 - consigliera comunale Roma, XIII municipio, Forza Italia
2008 - Popolo della Libertà - eletta Onorevole
2013 - Nuovo Centrodestra, con Alfano
2014 - candidata Europee Nuovo Centrodestra - Unione di Centro
2017 - Alternativa Popolare
2017 - Civica Popolare, in appoggio al Pd Renzi
2019 - Partito Democratico
Alessandro Giuli per “Libero quotidiano” il 20 settembre 2019. Una statista come Beatrice Lorenzin non la si può contare come gli altri: lei si pesa. Tutto sta a trovarla, mobile com'è nel continuo tentativo di trovare il posto propizio dal quale salvare l'Italia e corrispondere ai bisogni della "gggente", come dice Bea con l'inflessione di Acilia risciacquata a Roma nord grazie all'aiuto del logopedista politico berlusconiano Paolo Bonaiuti. Perché Beatrice, che adesso migra nell'internazionale socialdemocratica di rito zingarettiano (ed è pur sempre un affare stracittadino perimetrato dal Raccordo anulare), modestamente berlusconiana lo nacque davvero e da ragazzina studiò perfino il liberalismo alla Fondazione Einaudi, ma soltanto per toccare più alti traguardi e fastigi di governo. Circola adesso un delizioso video nel quale Lorenzin dice al Tg1 che «il Pd è l' unico partito in grado di arginare e contrastare la deriva plebiscitaria e illiberale della Lega di Matteo Salvini». Morale: «Ora dobbiamo lavorare tutti uniti per dare riposte ai bisogni degli italiani senza slogan ma con fatti concreti». Tutti chi? L'onorevole Claudio Borghi, che è un leghista mite e di mondo, le ha obiettato con garbo affilato: «Scusa Beatrice, che è la deriva plebiscitaria? Intendi l'orribile pratica di fare quello che la grande maggioranza dei cittadini si aspetta che tu, loro rappresentante, faccia? Intendi dunque abbracciare la comoda "deriva elitaria" dove si fa quello che dice Soros? Auguri!». Ed ecco toccato il punto essenziale: Beatrice alle masse plebee conosciute quando lavorava al "Giornale di Ostia" ha preferito subito l'agio minoritario delle élite. Coordinatrice dei giovani forzisti, poi deputata dal 2008, nel 2013 diventa ministro della Salute nella grande coalizione che sorregge il governo del francofono Enrico Letta. Crollato il patto del Nazareno, resterà al proprio posto nei governi di Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, limitandosi a scambiare la casacca azzurra con quella del Nuovo centrodestra di Angelino Alfano. Di lì in poi, atomo fra gli atomi, Lorenzin assisterà senza patemi d'animo allo scioglimento del gruppuscolo alfaniano, confluirà in Alternativa popolare e prenderà a orbitare intorno all' astro cadente del renzismo. Tempestiva, Beatrice, sebbene fino a un certo punto. Di certo non scema. L'ingresso nel mondo di Renzi le era valso un seggio centrista anche in questa legislatura, grazie ai voti del Pd ma sotto l' egida di una lista civica messa su insieme con Pier Ferdinando Casini. Adesso la consacrazione dell'approdo fra i democratici avviene proprio nel momento in cui il suo salvatore gigliato s'è fatto un partitino su misura. Come altre e più blasonate quinte colonne di Rignano, anche lei assicura che non sarà ingrata nei confronti del fiorentino resuscitato, e tuttavia nel dubbio preferisce «un partito plurale organizzato sul territorio». Che tradotto significa: i pochi voti disponibili per una eventuale ricandidatura ora ce li ha Zingaretti, poi si vedrà. Mai dire mai e meglio ancora tenersi sul vago fintantoché le elezioni saranno un miraggio "plebiscitario". In questa temperie c'è di meglio da fare: la resistenza nel Palazzo del potere contro il nemico principale e comune chiamato Matteo Salvini. Per perdere la Bastiglia c'è sempre tempo, intanto a Versailles c'è almeno un ultimo giro di danza da completare. E se un invito a corte non si nega a nessuno, non sarà mai un problema per gentildonne come Beatrice Lorenzin: foss'anche il pieghevole invisibile dell' imbucata dall' amico giusto. Liberale con Berlusconi, berlusconiana con Alfano, alfaniana con Casini, casiniana con Renzi e ora renziana con Zingaretti, domani chissà. Le referenze non mancano, l'importante è tenersi a debita distanza dalle plebi. Da Acilia al Nazareno, sola andata.
Renzi a Prodi: ''Italia Viva uno yogurt? Il Mortadella è l'ultimo che può parlare di cibo e politica''. Repubblica tv il 26 settembre 2019. Matteo Renzi, ospite in studio a L'Aria che Tira su La7, riceve da Myrta Merlino un vasetto di yogurt, ricordandogli le parole di Romano Prodi che ha di recente paragonato il nuovo partito di Renzi "Italia Viva" a uno yogurt, sia per il nome che per la durata. Renzi in studio ha risposto: ''Prodi è l'ultimo a poter parlare di cibo e politica, visto che lo chiamano il Mortadella.'' Infine, quando la Merlino ha chiesto di indicare con un pennarello la data di scadenza del vasetto, Renzi ha scritto "2023: la fine della legislatura".
La "rottamata" Bindi torna nel parlamentino Pd. Nella direzione "derenzizzata» ricompare l'ex presidente: «Mai fidata di Matteo». Laura Cesaretti, Martedì 24/09/2019, su Il Giornale. Per un Renzi che se ne va, c'è una Bindi che ritorna. La prima riunione post-scissione della Direzione Pd vede presenti molti neo-ministri, dopo l'accordo con i Cinque Stelle per il governo Conte Due: da Roberto Gualtieri, titolare dell'Economia, a Lorenzo Guerini, alla Difesa. E vede anche la rentrée di Rosy Bindi, che si riaffaccia nel parlamentino dem per la prima volta da quando il leader era Matteo Renzi, che aveva osato includerla tra i personaggi da «rottamare» e nel 2018 le avrebbe negato la ottava ricandidatura al Parlamento. La ex presidente del Pd e della Commissione Antimafia (memorabili le sue paragrilline operazioni «liste pulite», contro De Luca e altri dem a lei invisi) torna dunque a farsi vedere, ora che il Pd è stato «derenzizzato», e spiega: «La scissione mi ha sorpreso? Ovviamente no: non mi sono mai fidata di lui». Nel dibattito interno, nonostante il segretario Nicola Zingaretti tenti di lanciare il cuore oltre l'ostacolo e di annunciare grandi svolte (in novembre si riunirà a Bologna la conferenza programmatica dem, chiamata a scrivere un ambizioso «manifesto per l'Italia degli Anni 20»), è lo strappo renziano a tenere banco. E il più duro contro la decisione dell'ex premier è un (ex) renziano di ferro come Guerini: «Questa scissione credo sia un errore imperdonabile. L'ho detto fin dall'inizio. Sbagliata perché non ne capisco le ragioni politiche, sbagliata perché indebolisce il nostro campo, sbagliata perché va contro la natura e l'identità stessa del Pd». Zingaretti plaude: errore imperdonabile? «La penso come Guerini, ma lo lascio dire a lui altrimenti domani è il titolo dei giornali». Di certo, spiega, «non c'è stato un istante nel quale ho vissuto l'ipotesi di scissione come un elemento positivo o peggio una liberazione. Ma l'esatto opposto». È invece il suo vice Andrea Orlando ad acuire la polemica, prendendosela con chi, pur renziano, è rimasto nel Pd: «Dovrebbero lasciare gli incarichi nel partito», dice, rischiando di far saltare il clima «unitario» voluto dal segretario, che è pronto a far entrare le minoranze ex renziane negli organismi direttivi, proprio per ricucire gli strappi. L'anomala alleanza con i grillini, invece, sembra ormai un dato acquisito, che non suscita più polemiche nè dubbi. E da estendere a ogni ambito politico, come dimostrano l'Umbria e lo strano caso del Campidoglio dove (sotto la discreta regia di Franceschini, la cui moglie siede in Consiglio comunale) la Raggi ha aperto alla «cooperazione» con i Dem anche a Roma. Il segretario Zingaretti spiega: «Si devono verificare tutte le possibilità di allargare il nostro campo, a partire dai territori».
Estratto dell’articolo di Liana Milella per “la Repubblica” il 24 settembre 2019. «Vado con il Pd perché vuole aprire un dialogo con tutti quei mondi che, ieri e oggi, non si sentono più rappresentati e recuperare la fiducia dei giovani che non vanno più a votare». L'ex presidente della Camera Laura Boldrini, eletta nelle liste di Leu, anticipa a Repubblica il suo passo e ne spiega le ragioni.
Ha davvero deciso di lasciare Leu ed entrare nel Pd?
«[…] con la destra peggiore di sempre non è più tempo di piccoli partiti e di fare troppi distinguo. A forza di farlo rischiamo solo di estinguerci […]».
Quando lo ha deciso?
«Da tempo, perché già alle Europee avevo votato Pd. […] Ho atteso che fossero scelti ministri e sottosegretari perché non volevo assolutamente che il mio passaggio potesse far pensare a qualcuno che miravo a qualche incarico».
[…] Renzi esce, lei entra. Il Pd diventa più di sinistra?
«La mia decisione non è legata affatto all' uscita di Renzi e del suo gruppo. Ho maturato da tempo il mio passo. […]».
La sua decisione anticipa quella eventuale di Bersani e dei suoi.
«La mia posizione è diversa dalla loro perché io non sono mai stata nel Pd, quindi io non rientro nel Pd, ma da indipendente faccio una scelta individuale […]».
Governo Pd-M5S, condivide l'intesa?
«È dovuta alla necessità di uscire da una bolla di propaganda in cui Salvini aveva precipitato il Paese. Il programma ha molti punti importanti e condivisibili […]».
Riesce a dimenticare quel post di Grillo con la famosa domanda "cosa succederebbe se ti trovassi in macchina con la Boldrini?”
«[…] Non riesco a dimenticarlo. Perché quell' attacco inaugurò una strategia violenta e spregiudicata che ha danneggiato me e anche la mia famiglia. […] ».[…]
La grillina Vono lascia: "Seguo Renzi e passo a Italia Viva". La senatrice annuncia l'addio al Movimento 5 Stelle: "Sono stata eletta per servire il Paese e non un movimento o un partito né per rafforzarne le fila". Luca Sablone, Mercoledì 25/09/2019, su Il Giornale. La voce che circolava con insistenza a Palazzo Madama è stata ufficialmente confermata: Gelsomina Silvia Vono fa il salto della quaglia e approda a Italia Viva. L'ex grillina ha annunciato di aver scelto di sposare la causa di Renzi poiché, nonostante gli errori commessi in passato, ha avuto l'umiltà di "farsi da parte", dimostrando così "coraggio, lungimiranza e determinazione". La Vono ha detto che tale gesto è stato dettato da "senso del dovere, onestà intellettuale, rispetto per i cittadini e responsabilità". Da parte sua ci sarà un impegno costante "nella convinzione che sono stata eletta per servire il Paese e non un movimento o un partito né per rafforzarne le fila". La sua indicazione nel collegio uninominale di Catanzaro - Vibo Valentia aveva provocato un malcontento da parte di diversi esponenti 5S rimasti fuori dalle liste, poiché la donna ha un passato con Italia dei Valori oltre all'esperienza da assessore nel comune di Soverato con il sindaco del Partito democratico Ernesto Alecci. La diretta interessata, contattata dall'AdnKronos, inizialmente non aveva né confermato né smentito. Una certezza era stata invece fornita da Italia Viva: a breve ci sarebbe stato il benvenuto a una senatrice grillina nel nuovo partito fondato da Matteo Renzi. Era stata chiesta la massima riservatezza: bocche cucite sul profilo in questione, che dunque sarebbe dovuto rimanere top secret. Per il Movimento sono ore caldissime: nonostante le varie smentite del caso, persiste un clima di incertezza alimentato da un gruppo di "ribelli" che non ha digerito l'accordo forzato con i dem: la fronda anti Di Maio lotta contro l'eccessiva centralità dell'attuale capo politico. E dunque ora l'uscita della Vono è l'ennesimo colpo basso per i grillini, alle prese con un momento particolarmente caldo e frenetico.
Da Radio Cusano Campus il 30 settembre 2019. Silvia Vono, Sen. Italia Viva, è intervenuta ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”, condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano. Vono è passata dal M5S a Italia Viva. “E’ possibile che altri del M5S mi seguano. Se usciranno dalla logica in cui sono irretiti e capiranno cos’è la libertà e la democrazia… Penso che molti ci stiano riflettendo. E’ necessario avere dei leader al comando, ma che ti permettano di mettere in campo le proprie idee. Ci siamo resi conto fin da subito dei problemi del M5S. Una volta dentro ho avuto qualche perplessità. Si cerca di cambiare il sistema dall’interno, però quando è un antisistema con derive antidemocratiche è difficile se c’è una regia che ha già deciso tutto. Quando ho scelto il M5S, avevo constatato gli errori e gli azzardi politici che aveva fatto Renzi, però non parto dall’idea che tutto sia casta e che tutto sia negativo. Mi pare che poi Renzi abbia dimostrato di essere uno dei pochi uomini politici lungimiranti e intelligenti che poi è riuscito a riemergere e a rimettersi in gioco con una forza politica nuova, coinvolgendo i giovani. Multa dal M5S? Il mio studio legale non ha ancora ricevuto nulla, aspettiamo. Sono stata insultata sui social, ma questo rientra nel sistema, nel metodo di denigrare le persone. Credo che gli insulti personali qualifichino i grandi rappresentanti del M5S che hanno preferito farlo da dietro una tastiera. Se ho parlato con Renzi? Sì, ho avuto un colloquio personale con lui e una riunione con il nuovo gruppo parlamentare che è stata per me una rinascita perché c’è stata libertà di esprimere le proprie idee e anche di ridere e scherzare. Renzi mi ha accolto benissimo, non mi ha fatto nessuna battuta sulla mia provenienza politica”.
Silvia Vono, l'ex grillina: "O vai dallo psicologo o ti iscrivi al M5s. Matteo Salvini su di loro ha ragione". Libero Quotidiano il 27 Settembre 2019. Da sostanziale sconosciuta a donna di copertina. Si parla di Gelsomina Silvia Vono, ormai ex M5s. Uno dei molti grillini in fuga, ma la prima ad essere passata con Matteo Renzi ed Italia Viva, massimo tradimento per Luigi Di Maio e compagnia cantante. Calabrese di Soverato, 50 anni, la Vono si è insomma resa protagonista del più improbabile dei salti. E, ovviamente, è balzata agli onori delle cronache. Oggi, venerdì 27 settembre, si confida in un'intervista al Giornale, in cui esordisce rivelando come nel M5s "in tanti mi hanno mostrato la loro stima" dopo l'addio. Dunque la bordata a Di Maio, il quale ha detto di voler chiedere 100mila euro di risarcimento a chi lascia i pentastellati: "Credo sia una clausola vessatoria", taglia corto (e in una seconda intervista al Corriere della Sera parla esplicitamente di "ricatto"). E la Vono, sul M5s, picchia durissimo. Quando le chiedono perché abbia mollato il partito, spiega: "Non è mai esistita una vera organizzazione di gruppo, si continuava ad andare avanti facendo ragionamenti da partito di opposizione, loro non hanno mai avuto un'idea di governo". Ancor più clamoroso, quando la senatrice afferma che "su questo sicuramente ha ragione": e ad aver ragione è Matteo Salvini quando dice che il M5s è "il partito del no". Ma il passaggio più corrosivo è quello in cui viene interpellata su quel che accade durante le sempre più movimentate riunioni tra i parlamentari e il capo politico, Di Maio: "Non bisogna fare riunioni solo per ascoltare le lamentele e poi andarsene via, come se nulla fosse - premette -. Per scherzare dico che se uno deve parlare dei suoi parlamentari può andare dallo psicologo oppure iscriversi al M5s", sottolinea.
Leggi anche: Paragone, le indiscrezioni: verso il ritorno alla Lega? Infine, Silvia Vono spiega di essere andata con Renzi perché "ha dimostrato visione, lungimiranza, coraggio". E ancora: "Insieme a Italia Viva sosterrò il governo guidato da Conte, che ritengo un uomo preparato e libero". E quando le chiedono conto del grande malumore su cui si vocifera tra gli eletti pentastellati, conferma: "C'è moltissimo malessere". Insomma, come si dice da più parti, i grillini in fuga già nei prossimi giorni potrebbero crescere. E parecchio.
"Basta coi Cinque stelle sono il partito del No. Di Maio è un falso big". La senatrice Silvia Vono approdata a Italia viva: "Chi ha problemi va dallo psicologo o s'iscrive a M5s". Domenico Di Sanzo, Venerdì 27/09/2019, su Il Giornale. Calabrese di Soverato, provincia di Catanzaro, 50 anni. Gelsomina Silvia Vono è l'ex grillina che forse ha fatto il salto più impensabile di tutti, in questa era politica di rimescolamenti improvvisi, dove tutto è possibile. L'avvocato «da sempre impegnata in politica sul territorio» dice di essere «entrata in un Movimento che non era il mio». E ora è approdata alla corte dell'«odiato» Matteo Renzi, iscrivendosi al neonato gruppo di Italia viva.
Senatrice, innanzitutto come sta?
«Sto bene, sono serena, per dirla alla Renzi».
Ha sentito i suoi colleghi del M5s?
«Sì, ho sentito molti di loro. In tanti mi hanno mostrato la loro stima. Di Maio mi ha mandato un messaggio per consigliarmi di smentire la notizia del mio passaggio di gruppo nel caso fosse stata falsa. Per quanto riguarda i 100mila euro di risarcimento per chi lascia, credo sia una clausola vessatoria».
Perché ha deciso di abbandonare i Cinque Stelle?
«Non è mai esistita una vera organizzazione di gruppo, si continuava ad andare avanti facendo ragionamenti da partito di opposizione, loro non hanno mai avuto un'idea di governo».
Che difficoltà ha incontrato in questo anno?
«Beh, io dovevo fare tutto da sola. Sul territorio mi sono trovata ad affrontare tanti problemi in totale solitudine, senza il supporto del gruppo. Nel M5s c'è sempre questa pretesa di essere antropologicamente superiori che impedisce di raggiungere obiettivi concreti».
Allora ha ragione Salvini a dire che il Movimento è il partito del No?
«Su questo sicuramente ha ragione, ma sa cosa le dico?».
Cosa?
«L'antisistema è un altro sistema che fa più danni del cosiddetto sistema».
Come erano i rapporti tra il gruppo parlamentare e i big, a partire da Di Maio?
«Se ci fossero stati dei big avrebbero pensato a dare una vera organizzazione al M5s, evidentemente sono dei falsi big».
Che succede nelle riunioni tra i parlamentari e il capo politico?
«Non bisogna fare riunioni solo per ascoltare le lamentele e poi andarsene via, come se nulla fosse. Per scherzare dico che se uno deve parlare dei suoi problemi può andare dallo psicologo oppure iscriversi al M5s». Ride.
Ma se lei ha questo approccio così pragmatico come ci è finita nei Cinque Stelle?
«Per un anno ho avuto la tessera dell'Italia dei Valori, poi sono stata eletta nel mio comune con una lista civica. Facevo parte di un comitato per risolvere il problema di una strada che collega Soverato a Serra San Bruno, cioè la parte jonica a quella tirrenica della Calabria e molte volte sono venuti da noi parlamentari M5s come Dalila Nesci e Paolo Parentela».
E poi?
«Il 24 gennaio 2018 mi chiama Dalila Nesci e mi propone la candidatura all'uninominale perché nella mia zona non riuscivano a chiudere le liste. Io ho dato la mia disponibilità e il 29, giorno della chiusura delle liste, ho saputo di essere stata candidata con un messaggino della Nesci».
Si parla di grande malumore tra gli eletti all'uninominale.
«C'è moltissimo malessere».
Nelle assemblee i parlamentari hanno attaccato più volte lo strapotere dello staff Comunicazione, può confermare queste critiche?
«A un certo punto è il politico che deve dare la linea e al massimo la comunicazione dà una mano a fare uscire le cose, non il contrario».
Perché è andata con Renzi?
«Renzi ha dimostrato visione, lungimiranza e coraggio».
Però continuerà comunque a sostenere il governo insieme ai Cinque Stelle, come si concilia con ciò che ha detto fino ad ora?
«Insieme a Italia viva sosterrò il governo guidato da Conte, che ritengo un uomo preparato e libero».
Al.T. per il “Corriere della sera” il 27 settembre 2019.
Senatrice, l'hanno cercata o li ha cercati lei?
«Ma no, è stata una cosa casuale. Un incontro in buvette con Matteo Renzi, qualche giorno fa».
Le ha chiesto se voleva entrare nel nuovo gruppo?
«Non glielo so dire chi ha chiesto cosa, è stata una cosa molto naturale. Ammiro molto Renzi, è intelligente e lungimirante».
La «cosa molto naturale», per la senatrice Silvia Vono, calabrese, eletta nell' uninominale, è lasciare M5S ed entrare nel gruppo di Italia viva. «Naturale» mettersi con il nemico più acerrimo dei 5 Stelle?
«In politica non ci sono nemici. Bisogna confrontarsi con tutti».
Lei non si sottrae certo al confronto: è stata con Italia dei valori, poi assessore con un sindaco Pd, ora renziana. E qualcuno, qualche mese fa, vociferava di un suo ingresso nella Lega.
«Io mi confronto con tutti. L'unica tessera l'ho avuta con Idv, volevo condividere idee sul territorio. Mai pensato di andare con la Lega: ma ci governavamo insieme».
L'accuseranno di tradimento.
«Per fortuna non c' è ancora il vincolo di mandato».
Di Maio le chiederà una multa da 100 mila euro.
«Li chieda, ma io non cedo a ricatti. Rispondo allo Stato non al Movimento».
È uscita perché non l'hanno fatta sottosegretaria?
«No, mi avevano proposto anche come capogruppo in Affari costituzionali».
Ha versato i contributi e fatto le restituzioni?
«No, non verso da ottobre».
Perché?
«L'ho detto agli altri: le restituzioni sono una cosa, le donazioni volontarie su un conto privato sono un altro».
Cosa l'aveva attratta dei 5 Stelle?
«Pensavo ci fosse una grande libertà di pensiero. E mi piaceva che fosse un movimento post ideologico, con un metodo democratico».
Si sbagliava?
«Mi sono resa conto che è solo comunicazione senza contenuti. E ho capito che la democrazia non può essere fatta solo di slogan. Nel Movimento non si dà valore alle persone».
Scusi, ma non le sapeva già queste cose prima di entrare?
«No, non le sapevo. Da fuori è tutta un' altra cosa. E poi c' è stata una deriva antidemocratica negli ultimi tempi. Io volevo lavorare sul territorio, ma non è stato possibile».
Di Maio sta lavorando a una riorganizzazione.
«Ma non si fa così, una riorganizzazione, come si danno i compitini a scuola».
Lei è vicina a Fico?
«Nemmeno lo conosco».
Pensa che usciranno altri?
«Non credo».
Il governo con la Lega è stato un errore?
«No, abbiamo fatto cose utili. Poi ci sono stati sbagli da entrambe le parti».
Intervista a Boschi: «Non saremo un partitino. Arriverà un’altra decina di eletti». Pubblicato venerdì, 20 settembre 2019 da Corriere.it.
Onorevole Boschi, con la scissione non rischiate di indebolire il governo e di ridare forza a Salvini?
«Grazie a Italia viva il governo avrà più parlamentari, non meno. Quanto a Salvini, noi siamo quelli che lo hanno messo nell’angolo, non che lo hanno resuscitato. Abbiamo accettato persino di votare coi 5 Stelle pur di non dargli i “pieni poteri”. Erano altri quelli che volevano andare a votare a tutti i costi, non noi».
C’era bisogno di un ennesimo partitino?
«Da qui alle elezioni del 2023 c’è tanto tempo. E se senza logo, senza una sola iniziativa, senza niente siamo stimati al 5% credo che la cosa debba far riflettere. Penso che Italia viva non sarà un partitino. Ma che ve ne fosse bisogno non c’è dubbio: c’è una prateria intera per chi non vuole seguire gli estremismi di Salvini, fondare la società solo sull’assistenzialismo o diventare socio della Casaleggio».
Cosa non condividete del programma di governo?
«Il programma di governo per noi è vincolante. Conte si è impegnato in Parlamento, noi siamo impegnati con Conte. Il punto che per noi ha maggiore rilevanza è il Family act al quale sta lavorando la ministra Bonetti: asili nido, assegno per le famiglie, misure per le donne».
Se Pd e M5S si alleano in Umbria, ci sarete anche voi?
«Non ci candideremo in nessuna delle prossime elezioni regionali. Ovviamente vediamo di buon occhio le candidature civiche, sia in Regione che nelle amministrazioni comunali».
L’addio è stato sofferto?
«Certo. Lasciare tanti amici con cui si sono fatte riforme epocali fa male. Ma sono convinta di ciò che abbiamo fatto. E soprattutto di ciò che faremo. Rimettere al centro le donne, parlare ai piccoli imprenditori come agli artigiani, disegnare uno sviluppo sostenibile. Inutile insistere per recuperare un rapporto irrimediabilmente compromesso: lasciamoci senza rancore. Noi andiamo, se tornano D’Alema e Speranza buon per loro».
Non avete ancora chiesto di fare i nuovi gruppi.
«Lo abbiamo già fatto. Martedì saranno comunicati in Aula. Saremo 27 alla Camera e 15 al Senato. C’è ancora qualche incerto, non più di una decina di colleghi, che ci raggiungerà entro il mese di ottobre, alla Leopolda».
Volete modifiche alla riforma Bonafede?
«Rispetteremo le decisioni della coalizione. Non dipingeteci come gli sfasciacarrozze perché non lo siamo. Il testo che uscirà dal confronto della maggioranza sarà votato anche dai nostri».
Le piace il proporzionale?
«Io preferisco il maggioritario con ballottaggio altrimenti non avrei lavorato all’Italicum. Ma anche in questo caso rispetteremo gli accordi programmatici. Non troverà argomenti di scontro e in questi mesi noi saremo vigilanti in Parlamento ma soprattutto impegnati nella società, nelle piazze, nelle fabbriche».
Mara Carfagna vi ha detto di no, Beatrice Lorenzin entra nel Pd: a chi sperate di allargare Italia viva?
«A migliaia di persone che si sentono orfane di una guida politica. Se lei vedesse come squillano i telefoni, quante email e sms arrivano, quanta gente si offre per dare una mano resterebbe stupita. Mara resta in Forza Italia, Beatrice entra nel Pd: in bocca al lupo a entrambe. Noi seguiamo un’altra strada».
Con i renziani del Pd è un addio o un arrivederci?
«Non è un addio, perché siamo amici. E i rapporti umani valgono più dei rapporti politici. Ma abbiamo idee diverse: non è una finta. Finché Renzi si è rifiutato di giocare il ruolo di capocorrente chiunque poteva intestarsi le sue idee. Adesso c’è Italia viva e per chi crede in Renzi è tutto più semplice».
Avete votato contro l’arresto di Diego Sozzani?
«No. Noi ci siamo comportati in modo coerente. E del resto i numeri lo confermano: troppo alto il divario per intestarlo ai nostri».
È lei la capogruppo di Italia viva alla Camera?
«No. Con Gigi Marattin, che è un amico fraterno oltre che un bravissimo collega, daremo una mano nelle prime ore come faranno Faraone e Garavini al Senato. La leadership politica è affidata per adesso a Bellanova e Rosato. E la scrittura del manifesto a Noja e Migliore. Se c’è una cosa che mi piace di questa nuova nostra casa e che per ogni incarico c’è la diarchia: uomo-donna. Siamo il partito più femminista e io ne sono fiera».
(AGI il 20 settembre 2019) - "Ciò che scrive Dagospia (e altri organi di stampa) sui miei versamenti al Pd è falso. Sono assolutamente in regola coi pagamenti sia a Bolzano che a Roma. Darò mandato ai legali di agire civilmente contro chi mi diffama". Lo afferma, in una nota, la deputata Maria Elena Boschi.
La senatrice di Forza Italia Conzatti passa con Renzi a Italia Viva: «Molti altri colleghi a disagio». Pubblicato mercoledì, 18 settembre 2019 da Corriere.it. «Ho deciso di accettare l’invito che mi ha rivolto Matteo Renzi di partecipare sin dal principio, senza attese e tatticismi, alla fondazione di Italia Viva. Una casa dei riformisti e dei liberaldemocratici, libera dalle contraddizioni interne mai risolte nel Pd e fieramente incompatibile con forze sovraniste che è ormai velleitario pensare di poter arginare con logiche diverse dalla contrapposizione politica». A parlare così è stata la senatrice Donatella Conzatti, di Forza Italia: «In assenza di novità politiche di rilievo, sarei rimasta nel gruppo parlamentare FI, dove ho trovato e conosciuto molte persone di grande spessore umano, politico e culturale, molte delle quali vivono con disagio non dissimile dal mio la crescente consapevolezza di non poter più arginare, ma ormai soltanto subire le posizioni di matrice sovranista e antieuropeista». Ieri Conzatti era attesa alla cena organizzata da Mara Carfagna con i parlamentari azzurri «anti-sovranisti» alla quale poi non ha partecipato. «La Conzatti purtroppo ha un curriculum che ne evidenzia tutta la sua immoralità politica, saltellando da un partito all’altro incurante delle promesse fatte agli elettori che le hanno dato il mandato parlamentare grazie ad una precisa coalizione politica, il cui programma le era noto prima della candidatura. La senatrice di suo non ha infatti un voto anche se millanta che i voti della lista civica di Monti in Trentino nel 2013 fossero suoi e non di Dellai. Le idee poi della senatrice oltre ad essere poche e circoscritte al suo ego, sono confuse. Parla di popolarismo aderendo al partito di Renzi, cioè di colui che da presidente del Consiglio e del Pd fece aderire il partito al PSE? Per Forza Italia, nonostante qualche voce fuori dal coro che ha dimostrato di non conoscere il territorio e la persona e non aver rispetto per la lealtà di partito, è una libertà da una lenta agonia che allontanava gli elettori inferociti dal saccheggio politico subito, a Renzi mi sento di dire una sola cosa. Auguri, se pensa di recuperare consenso con questa gente, ha già perso la scommessa. Forza Italia del Trentino Alto Adige, alla luce degli avvenimenti è più unita che mai e pronta a rilanciare l’azione sul territorio nella chiarezza, nell’amicizia, nella lealtà», conclude. Matteo Renzi, dal Pd, porta intanto in Italia viva 12 senatori dem. Lasciano infatti il Pd, oltre all’attuale ministro per le politiche agricole Teresa Bellanova, i senatori: Francesco Bonifazi, Eugenio Comincini, Leonardo Grimani, Giuseppe Cucca, Davide Faraone, Nadia Ginetti, Ernesto Magorno, Laura Garavini, Valeria Sudano, Mauro Maria Marino e Daniela Sbrollini.
Donatella Conzatti insulta Salvini? Il consigliere del Trentino la smaschera: "In Parlamento grazie a..." Libero Quotidiano il 20 Settembre 2019. "L'ex ministro dell'Interno, quello che in costume da bagno, tra un mojito e un'estrema unzione, chiedeva pieni poteri, è l'incarnazione del pericolo contro cui i nostri padri costituenti hanno previsto che ogni membro del Parlamento eserciti le proprie funzioni senza vincolo di mandato". Donatella Conzatti - senatrice di Italia Viva che ha lasciato Forza Italia per unirsi a Matteo Renzi - se la prende con Matteo Salvini. "Ci fa paura il segretario politico della Lega, che continua a seminare odio e rancore tra i cittadini, in modo irresponsabile, nel disperato tentativo di recuperare il consenso che ha iniziato inesorabilmente a perdere. Ci consola il fatto che, ora che ha perso il distintivo, gli sono rimaste solo le chiacchiere. Molto presto gli italiani si stancheranno di ascoltare anche quelle". Peccato però che la dissidente - ricorda il Consigliere provinciale della Lega in Trentino, Devid Moranduzzo - la Conzatti è stata eletta in Parlamento con 36 mila voti, 24 dei quali provenienti dalla Lega.
Un elettore scrive alla sen. Conzatti (passata da Fi a Italia Viva). Il pensiero di un elettore di centrodestra che si ritrova la persona votata dall'altra parte dello schieramento. Panorama Il 23 settembre 2019. La vicenda della senatrice Conzatti, eletta nel collegio di Rovereto al Senato nella parte maggioritaria per Forza Italia e che ha annunciato . il suo passaggio a Italia Viva, la formazione politica di Matteo Renzi ha fatto molto discutere. Certo, il vincolo di mandato (che non esiste) e la Democrazia Parlamentare (che esiste, eccome...) rendono il passaggio della senatrice da una parte all'altra del panorama politico del tutto legittimo. Da un punto di vista burocratico. Ma che ne è del rispetto del voto dei suoi elettori (di centrodestra?). Che ne è del rispetto della loro idea politica di cui la Conzatti è rappresentante? Dubbi non solo nostri ma anched egli stessi elettori (36.232) uno dei quali ci ha scritto:
Cara Senatrice Conzatti, nessuno, in assenza di vincolo di mandato, discute il fatto che una volta eletto un parlamentare sia rappresentante di tutto il popolo italiano e quindi possa – se lo ritiene – cambiare schieramento. Tuttavia, oltre a quello che è un piano di mera legittimità esiste pure, anche se alcuni sembrano averlo scordato, un ambito di rispetto nei confronti degli elettori, come me che le ho dato il mio voto, che ritengo non possa in alcun modo essere messo fra parentesi. Per questo non si può che considerare il suo passaggio da Forza Italia al gruppo di Italia Viva di Matteo Renzi una pagina politica decisamente poco felice; tanto più che non si tratta solo di un cambio di partito, ma addirittura di schieramento. Motivo per cui viene da chiedersi che ne sia del suo rispetto verso di me, la mia opinione politica decisamente di centrodestra e delle 36.232 persone che alle ultime politiche l’hanno votata. L’impressione è che lei di me e di tutti costoro si sia allegramente dimenticata. Del resto, questo netto cambio di casacca sorprende fino ad un certo punto dato che parliamo di una figura a caso bensì di una persona – mi corregga se sbaglio - proveniente dall’Upt, poi finita in Scelta civica, il disciolto movimento fondato da Mario Monti, successivamente confluita in Alternativa popolare, quindi in Forza Italia ed oggi con Italia Viva. Una vera e propria “migrante” della bandiera insomma – con una spiccata predilezione, curiosamente, per il «carro del vincitore»- dinnanzi al cui esempio viene da auspicare una rinnovata scoperta dei valori della fedeltà e della coerenza. Perché tutti possono sbagliare a valutare un'adesione partitica una volta, in qualche caso anche due, ma quando qualcuno sente puntualmente la necessità di cambiare aria, cara senatrice, forse farebbe meglio a interrogarsi sul significato stesso della propria presenza in politica”. William Angeli
La Democrazia (Parlamentare) per gli elettori di Donatella Conzatti. La senatrice di Forza Italia eletta nel maggioritario uninominale passa da Renzi. Cosa ne è del voto di chi l'ha eletta? Andrea Soglio il 18 settembre 2019 su Panorama. Democrazia Parlamentare. Ecco le due parole più usate in questo mese di Crisi di Governo. E' quella coperta elegante che di fatto legittima ogni gioco di palazzo. Ma, di cosa si tratta? La spiegazione è molto semplice. I cittadini eleggono "democraticamente" i loro rappresentati che entrano in Senato ed alla Camera. Da quei portoni però comincia un'altra democrazia: quella appunto parlamentare dove, cioè, ogni singolo eletto è libero di fare e disfare, cambiare maggioranza, alleanze, gruppo, partito. Il tutto in nome della libertà e della salvaguardia della Costituzione e chissenefrega dei miei elettori e del loro pensiero. Tutto legittimo, legale, soprattutto, "costituzionale"...Ma dal punto di vista morale le cose sono un pochino più sporche, per non dire schifose. Basti pensare alle 36.232 persone che alle ultime elezioni politiche hanno votato per il centrodestra nel collegio uninominale maggioritario di Rovereto, Trentino Alto Adige. Un collegio dato per perso dal centrodestra ma che il boom della Lega ha trasformato in un seggio conquistato. Nel dettaglio: elettori della Lega (23.950), Forza Italia (8.331), Fratelli d'Italia (3.355) e Udc (596). Il nome nel maggioritario era imposto dai partiti che scelsero Donatella Conzatti, candidata unica del centrodestra. Voti quindi della lista e non preferenze della candidata, sia chiaro. Voti di persone che condividevano le idee di Salvini, di Berlusconi e di Giorgia Meloni. E che non avevano altro rappresentante da scegliere. Bene. Oggi la senatrice Conzatti ha comunicato che passerà nel neonato gruppo di Matteo Renzi. Scelta, ripetiamo, possibile e legittima grazie alla Democrazia Parlamentare e alla Costituzione che non prevede il vincolo di mandato. (questo il messaggio di abbandono dalla chat dei senatori di FI). Ma chi glielo spiega ai quei 36.232 elettori? Chi gli dice che il loro voto non conta nulla? Che addirittura si troveranno la loro rappresentante di centrodestra schierata a fianco di Renzi, in appoggio al Conte-bis? Dov'è la democrazia (senza parlamentare) per queste persone? Quale altra arma hanno per poter dire la loro se il voto può essere modificato, tradito ed interpretato a piacimento? Certo, una parte della colpa ce l'ha anche chi ha scelto quella donna (in primis la leader di Forza Italia in Trentino, Biancofiore), il cui passato turbolento (non ha mai fatto la tessera di Forza Italia e da sempre nel suo partito ci sono malumori sulla sua attività politica con precedenti in altri movimenti e liste civiche...) era evidente anche prima del 4 marzo 2018 ma, detto questo, la storia dimostra come il sistema non funzioni. Alla fine sono solo giochi della politica, di quella politica "sporca": inciuci, alleanze, cambi di casacca ed opinione. Cose nascoste come lo polvere sotto il tappeto di due belle parole: Democrazia Parlamentare. Ps. nel suo annuncio del cambio di casacca la Conzatti parla di Italia Viva come realtà "fieramente incompatibile con forze sovraniste". Le stesse forze "sovraniste" in cui credono i 36.232 elettori che l'hanno portata al Senato e per cui non ha dedicato nemmeno una parola...
Da Libero Quotidiano il 19 settembre 2019. Sull'addio di Donatella Conzatti a Forza Italia, la senatrice passata con Matteo Renzi e il suo nuovo Italia Viva, ora si esprime anche Silvio Berlusconi. Il quale, di fatto, rinnega l'ormai ex azzurra. Intercettato a margine delle votazioni al Parlamento europeo di Strasburgo, il Cavaliere attacca: "Ho anche constatato direttamente, parlando con i nomi usciti sulla stampa - premette escludendo altre fuoriuscite dal partito -. Avevamo già la sicurezza di questa senatrice che uscisse, perché non è mai stata di Forza Italia. È stata messa in un collegio uninominale, quindi la avevamo votata anche noi, lei poi alla fine aveva scelto di stare con la Lega invece che con Forza Italia. Non aveva mai partecipato a nessuna delle nostre riunioni: quindi era abbastanza scontato e atteso da parte nostra che lei si spostasse in un'altra parte politica", ha concluso Berlusconi.
Alessandro Giuli per “Libero quotidiano” il 7 ottobre 2019. Per passare dai saluti romani all'inchino alla Leopolda occorre un salto carpiato con triplo avvitamento ideologico ma pare che a Renata Polverini l' impresa possa riuscire. Dopo essersi autosospesa dal gruppo di Forza Italia alla Camera dei deputati, l' ex segretaria dell' Ugl (il sindacato post fascista disceso dalla vecchia cara e nera Cisnal) dovrebbe ufficializzare a breve il suo ingresso in Italia Viva. Casa Renzi, insomma: un domicilio piccolo ma ben più promettente del tempestato partito berlusconiano. All' origine della lancinante decisione ci sarebbero questioni di coscienza: Renata non sopportava più la sbandata filosalviniana (ma dove?) dei suoi colleghi, i quali oltretutto hanno mortificato la sua sincera adesione al progetto d' integrazione dei migranti chiamato ius culturae. Sicché lei ha deciso di prendersi una pausa per «una serena riflessione sulla possibilità di continuare le battaglie che hanno sempre caratterizzato la mia attività politica e professionale in un partito che sembra aver smarrito lo spirito liberale e riformista delle origini». Il paradiso del trasformismo è lastricato dalle lapidi dei liberali inconsolabili, ma in Polverini s' indovina qualcosa di più: come una sopraggiunta mutazione genetica, quasi il tentativo di maracarfagnizzarsi un poco per somigliare per quanto possibile allo scintillante idealtipo di riserva repubblicana rappresentato dall' originale Mara, alla cui nota cena dei dissidenti Renata ha presenziato con convinzione stentorea. Talmente convinta da aver già scavalcato tutti a sinistra, lei che viene dalla destra bling bling costituzionalizzata da Silvio Berlusconi e che grazie quell'aborto di successo chiamato Popolo della libertà ha governato con i voti del centrodestra la Regione Lazio dal 2010 al 2013 (festeggiò urlando sulle note di Lucio Battisti: «Come può uno scojo arginare er mareee») salvo poi cederla anzitempo nelle mani di Nicola Zingaretti, travolta com'era (la Regione) dagli scandali di Batman Fiorito e dalle inchieste della Corte dei Conti sugli sperperi di denaro pubblico. E già prima d'allora nell' ex camerata Polverini s'intuiva la presenza di un animo al passo coi tempi: azzimata, atticciata e mondanissima; lanciata dai sorrisi di Giovanni Floris sugli schermi televisivi di "Ballarò" - in definitiva dietro un uomo o una donna di successo, a destra, c'è quasi sempre una trasmissione di sinistra come rampa di lancio - la nostra Renata ha subìto finanche i corteggiamenti di Walter Veltroni. Ma era opportuno, se non proprio naturale, che risciacquasse prima i panni di famiglia nell' azzurro mare del berlusconismo. E così è stato, finché possibile e conveniente. Di lei si ricordano istantanee eloquenti in cui sorride orgogliosa sugli spalti della Curva nord laziale, dietro una sciarpa degli Irriducibili. I cronisti rammentano pure, con un certo gusto, la volta che l'allora neogovernatrice del Lazio fu contestata al grido di «fascista torna a CasaPound!» e costretta ad abbandonare il palco di Porta San Paolo in occasione delle celebrazioni per il 25 aprile (nella circostanza il povero Zingaretti, presidente della Provincia, fu centrato a un occhio da un limone). Ma non si può dire che a Polverini faccia difetto il coraggio: come sindacalista ha affrontato i suoi avversai a cielo aperto, fra scioperi e comizi appassionati. Come parlamentare ha continuato a svolgere il proprio onesto lavoro in aula e in tivù per arginare ogni torsione liberista ai danni delle classi meno abbienti. Un esempio fra i tanti: quando ha definito il Jobs act «un incubo da cancellare» e si è gettata anima e corpo in difesa dell' articolo 18, con parole indimenticabili scolpite a lettere di fuoco nella sua biografia politica: «Io sarò coerente con la mia storia. Ho proclamato ben sei scioperi contro Berlusconi e alcuni di questi erano proprio a difesa dell' articolo 18. Allora ero convinta, come lo sono oggi, che sia l' architrave del diritto del lavoro». E via così, culminando in un assalto accorato contro le immaginifiche utopie regressive del bullo di Rignano: «Sembra ascoltare soltanto il suo specchio ripetergli quanto sia il più bravo in un reame in rovina è giunta l' ora di dire basta all'annuncite cronica di Renzi». È lo stesso Renzi verso il quale veleggia adesso Renata, abbronzata e contrita? È lui. Ma a questo punto non chiedete a noi se la destra italiana sia diventata una sinistra in ritardo o se non sia la sinistra a fare la destra in anticipo. Citofonate alla Polverini.
Aldo Grasso per il Corriere della Sera il 14 ottobre 2019. Renata Polverini potrebbe essere il «nuovo acquisto» di Matteo Renzi. Dopo essersi autosospesa dal gruppo parlamentare di Forza Italia, l' ex presidente di Regione Lazio ha partecipato alla convention «Festival delle città», presente il leader di Italia viva. È vero che solo gli stolti e i morti non cambiano mai opinione, ma qui ci troviamo di fronte a una metamorfosi ardita.
La sua storia è singolare. Segretario dell' Ugl (il sindacato post fascista della «destra sociale»), la Polverini ha raggiunto una certa notorietà grazie alle reiterate partecipazioni a «Ballarò» e, da personaggio, è persino diventata governatore del Lazio. Insomma, una carriera come quelle che si intravedono solo nei reality o nei meetup grillini (che poi sono la stessa cosa). La signora (sempre viva l'aurea definizione di Edmondo Berselli: «unisce fighettismo di borgata e coattismo di città») non sopporta più che Forza Italia si sia piegata al sovranismo e al trucismo di Salvini. Ammira Renzi perché «bravo, scaltro ed efficace». E poi «in Italia viva ci sono valori che in Forza Italia non ci sono più». Per esistere e per l' ingresso in Italia viva, le saranno ora richieste altre partecipazioni televisive. Tuttavia è bene ricordare che, per quanto ci danniamo nei trasformismi, polvere siamo e in polvere ritorneremo: Polverini es et in Polverini reverteris .
Fabio Amendolara per ''la Verità'' il 18 settembre 2019. Questa volta nessuna smentita: «Sto con Matteo Renzi». Il Rottamatore del Pd che si è trasformato in scissionista l' ha scelta come capodelegazione del suo nuovo partito nel governo giallorosso. E lei, Teresa Bellanova, ministro dell' Agricoltura, lo ha confermato sui social. Smentì seccamente, invece, di essere capodelegazione per babbo Renzi e Carlo Russo. Correva l' anno 2017 ed erano appena saltate fuori le intercettazioni dell' inchiesta Consip. Tra gli interessi del Giglio magico ce n' era uno in Puglia. E precisamente a Castro, la perla del Salento. Russo cercò di tirare in quel progetto Alfredo Romeo, l' imprenditore napoletano che per Consip fu arrestato. Era un' opportunità da sfruttare, «potendo attingere», annotarono i carabinieri del Noe, «anche a finanziamenti pubblici attraverso Invitalia». Invitalia è una società pubblica, partecipata al cento per cento dal ministero dell' Economia. E all' epoca Bellanova era viceministro allo Sviluppo economico. C' erano degli immobili da acquistare per renderli delle strutture ricettive. E a Castro Russo aveva un' abitazione: «Allora», disse a telefono, «è venuto a trovarmi in Salento Tiziano...la famiglia (...) e insomma abbiamo preso una casa sul mare che poi è venuta Teresa Bellanova, insomma stanno venendo... è venuto Emiliano più volte insomma... ci stiamo divertendo». Sia Emiliano che Bellanova smentirono di essere stati a casa di Russo. Il governatore pugliese definì «una cazzata» la sua visita a casa dell' amico dei Renzi. La ex viceministro ora ministro e capodelegazione di Matteo fece sapere, invece, «di non aver visto né Russo né Tiziano Renzi e tanto meno di essere stata in una casa del Salento insieme a loro». I grillini, ex avversari e ora alleati, storsero il naso. E aspettarono Bellanova al varco. Poco dopo la accusarono di aver fatto lavorare in nero l' ex addetto stampa a Lecce. Una coincidenza nell' accusa (dalla quale poi Bellanova è stata assolta) che, ironia della sorte, l' accomunò di nuovo a babbo Renzi. Il babbo, d' altra parte, di grane, anche mediatiche, con il diritto del lavoro per i dipendenti in nero ne ha avute più d' una. Ma gli scaglioni giudiziari da superare sono diversi per la famiglia Renzi e per il Giglio magico (l' agenda giudiziaria potrebbe anche aver determinato l' uscita dal Pd per condizionare con più forza il governo): a Cuneo oggi si svolgerà una delle udienze del processo in cui è imputata la mamma del Rottamatore, Laura Bovoli. L' accusa: concorso in bancarotta. Per il 7 ottobre è attesa, invece, la sentenza del processo per false fatturazioni a Firenze. Gli imputati sono mamma Laura e babbo Tiziano. Nel febbraio scorso i genitori del Rottamatore erano finiti addirittura ai domiciliari su richiesta del procuratore Luca Turco per il pericolo di reiterazione dei reati di concorso in bancarotta e false fatturazioni. E per questo filone, che ricostruisce le responsabilità per il crac di tre coop (Delivery Italia service, Europe service e Marmodiv) delle quali babbo e mamma Renzi sono considerati gli amministratori di fatto, c' è una richiesta di proroga. E ancora: a luglio il gip di Roma Giuseppe Sturzo ha respinto la richiesta di archiviazione per il filone principale di Consip, quello sul traffico di influenze illecite. L' udienza preliminare per babbo Renzi è fissata per il 14 ottobre. Ovviamente nel Giglio magico c' è apprensione (oltre che per l' atteso avviso di chiusura indagini per Francesco Bonifazi, indagato per finanziamento illecito e false fatture) anche per il filone sulle fughe di notizie di Consip: il 2 ottobre (ma la decisione potrebbe slittare) il gup Clementina Forleo potrebbe pronunciarsi sulle posizioni dei sette indagati (tra i quali Luca Lotti e il generale Emanuele Saltalamacchia). E, infine, c' è il procedimento aperto nel 2016 a Firenze nei confronti del cognato di Matteo, Andrea Conticini, e dei due fratelli, per appropriazione indebita e riciclaggio nella celebre inchiesta sui fondi dell' Unicef e di altre organizzazioni umanitarie. Per i Conticini è stata fissata l' udienza preliminare per il 22 novembre.
Fabio Amendolara per “la Verità” il 19 settembre 2019. Alla prima udienza Laura Bovoli, mamma dell' ex premier e ora scissionista del Pd Matteo Renzi, ha preferito non partecipare. D' altra parte in quella fissata per ieri dai giudici del Tribunale di Cuneo, dopo il rinvio del 19 giugno, erano previste solo questioni tecnico giuridiche. «Un' udienza filtro», l'hanno definita gli avvocati. Il processo per i rapporti che la società della famiglia Renzi Eventi 6 di Rignano sull' Arno intratteneva con un' impresa cuneese di volantinaggio, la Direkta di Mirko Provenzano, fallita nel 2014, infatti, entrerà nel vivo il 15 gennaio. Mamma Lalla, difesa dall' avvocato Federico Bagattini, è a giudizio per bancarotta fraudolenta ed emissione di fatture per operazioni inesistenti. Secondo la Procura di Cuneo, mamma Lalla e gli altri imputati (l' imprenditore Paolo Buono e il commercialista Franco Peretta) avrebbero commesso irregolarità su fatture e note di credito con le quali, in modo apparente, sarebbero riusciti a far quadrare i conti e il bilancio. L' inchiesta, nata da alcuni accertamenti dell' Inps, che è stata indicata nel procedimento come parte offesa, è stata condotta dalla Guardia di finanza di Cuneo. Agli atti ci sono le note di credito del valore di decine di migliaia di euro emesse dalla società cuneese che, prima di fallire, avrebbe operato come subappaltante della Eventi6, restituendo una percentuale al committente. Il processo dovrà stabilire se, come sostiene l' accusa, si trattò di una bancarotta o se, cosa che invece sostengono le difese, fu un normale fallimento. La vicenda è scaturita da una diatriba tra Provenzano e un suo fornitore, tal Giorgio Fossati (che si è costituito parte civile), con le cui coop avrebbe avuto un debito milionario. Provenzano, per non saldare il dovuto, avrebbe denunciato disservizi che non ci sarebbero mai stati, presentando come prove alcune lettere di contestazioni sulla qualità del servizio firmate da Bovoli e Buono che i magistrati hanno ritenuto concertate a tavolino, anche grazie al rinvenimento di alcune mail. Dopo uno scambio di messaggi la Eventi 6 avrebbe cambiato la causale di cinque note di credito che ufficialmente erano state emesse nel corso del 2012 «per il pagamento di interessi passivi sulla dilazione degli anticipi fatture emesse da Eventi 6 nei confronti dei committenti, per spese legali o per errate fatturazioni, chiamato dalle parti cosiddetto "rischio d' impresa"». Nel 2013 i pagamenti vennero riqualificati, grazie a documentazione d' accompagnamento ritenuta fasulla, come saldo per i presunti disservizi: 300.000 euro per Buono, 78.680 per la Bovoli. Insomma, la bancarotta viene contestata perché la mamma dell' ex premier si sarebbe prestata a truccare delle carte, modificando retroattivamente le causali di accrediti ricevuti nel 2012 dalla Direkta, per consentire a Provenzano di contestare il credito fatto valere da un suo fornitore. Presunti magheggi finanziari che verranno affrontati durante l' esame e il controesame dei testimoni indicati dall' accusa e dalla difesa.
L'INCOERENZA DI GIACHETTI FA SPAVENTO, PERFINO IN QUESTI GIORNI IN CUI VALE TUTTO - IERI: ''LASCIO LA DIREZIONE PD PERCHÉ NON POSSO ACCETTARE L'ACCORDO COI 5 STELLE''. OGGI VA NEL NUOVO PARTITO DI RENZI, CIOE' COLUI CHE FECE QUELL'ACCORDO A DISPETTO DI ZINGARETTI CHE VOLEVA IL VOTO - GIACHETTI FACEVA SCIOPERI DELLA FAME PER LE ELEZIONI ANTICIPATE E PER IL MATTARELLUM. ORA SI UNISCE A CHI TEME LE URNE E SOGNA IL PROPORZIONALE PURO.
(ANSA il 16 Settembre 2019) Roberto Giachetti annuncia le proprie dimissioni dalla Direzione del Pd, dichiarandosi poco convinto dell'alleanza con M5s, in contrasto della quale aveva presentato la propria candidatura al Congresso del Pd vinto da Nicola Zingaretti. L'annuncio in un video su Fb. "Capisco perfettamente le ragioni per cui abbiamo deciso di fare questo accordo - afferma Giachetti - e in cuor mio io, davvero, mi auguro che possa funzionare. Non posso, però, rinnegare le mie convinzioni sul Movimento Cinque Stelle e su tutto quello che è successo in questi anni perché sono cose che a me pesano". "Io sono stato il frontman della campagna che negava qualsiasi possibilità di fare un accordo con loro - ricorda l'esponente del Pd - Mi sono candidato alla segreteria del partito contro quest'ipotesi. Vista questa situazione è inevitabile che ne debba trarre le conseguenze. Per come intendo la politica, ci sono delle regole non scritte per cui quando si commettono errori di valutazione del genere non può rimanere tutto uguale. Per questa ragione ho deciso di dimettermi dalla Direzione nazionale del Partito democratico. Non potrei continuare a stare in una cabina di regia politica che deve sostenere questo progetto, non essendone convinto fino in fondo. Dentro di me non possono nascondere i dubbi che ho. Per questo non posso più continuare a svolgere il mio incarico di dirigente politico all'interno di quell'organismo di direzione politica così importante". "Mi sono reso conto - prosegue il video - che dentro il partito c'era una così larga adesione alla proposta di fare un accordo di governo col M5S dal ritenere, per la prima volta, che le mie convinzioni personali venissero in secondo piano. Anzi proprio perché ho visto una così larga partecipazione a questa ipotesi politica mi sono impegnato - silenziandomi - nel cercare di evitare che i miei interventi avrebbero potuto mettere in crisi questo percorso. Io non ho voluto mettere in difficoltà questo progetto. Anzi ho provato ad agevolarlo votando a favore nella Direzione nazionale quando s'è deciso di dare mandato al segretario di percorrere questa strada, così come ho votato la fiducia a questo Governo. È stata la mia forma di rispetto profondo per una comunità politica che si accingeva ad una scelta molto difficile". "Non sto sconfessando - spiega - tutta l'iniziativa politica che abbiamo portato avanti con Sempre Avanti in questi anni. Anzi voglio rilanciare quell'impegno e sarò in prima linea, senza incarichi. Ringrazio tutta quella comunità e faccio i miei auguri ad Anna Ascani, Elena Bonetti e Ivan Scalfarotto per i loro incarichi di Governo. Sono certo che faranno bene e che sapranno distinguersi per le loro capacità", conclude Giachetti.
(ANSA il 16 Settembre 2019) - "Io penso che per guidare un percorso come quello che ci attende serva il contributo di chi ne diffida e persino di chi è stato contrario. Per questo spero che Giachetti ci ripensi e rimanga in direzione". Così il vicesegretario del Pd Andrea Orlando in un tweet.
GIACHETTI OGGI: LA SCISSIONE SE LA SONO CERCATA. Da ''Circo Massimo - Radio Capital'' il 16 Settembre 2019. Renzi ha ufficialmente lasciato il Pd. Lo ha annunciato con un'intervista a Repubblica, assicurando però la tenuta del governo Conte. Con l'ex premier una decina di senatori e venti deputati, fra cui Roberto Giachetti, che a Circo Massimo, su Radio Capital, attacca: "La scissione non nasce oggi. E molti di quelli che oggi piangono hanno lavorato strenuamente perché accadesse. La strutturale modifica dello statuto che si sta operando, figlia del risultato congressuale, è la trasformazione e lo snaturamento del Pd. Quando si immagina di non fare più le primarie, quando si pensa che non c'è più la coincidenza fra segretario e candidato premier, significa che si cambia radicalmente il Pd. E quando dal punto di vista politico nella nuova segreteria si fa la scelta di mettere a responsabile del lavoro chi rinnega le riforme di Renzi e alle riforme chi ha fatto i comitati per il no, è chiaro che sono tutti segnali che ti spingono a dire che non ce n'è più", dice l'ex radicale, "io faccio parte della minoranza, e non bisogna paragonare quello che ha fatto la minoranza in questi mesi a quello che ha fatto la minoranza a Renzi. Io ho fatto una campagna elettorale per le Europee a liste con persone che ci hanno preso a sassate per mesi. Come la capogruppo di Leu, Cecilia Guerra, che era stata rimessa nelle liste dopo tutto quello che era successo. E nonostante ciò io ho fatto campagna elettorale ventre a terra. Da minoranza non mi sono messo a fare le barricate. L'importante per me è essere leali con la comunità. Finché ci sono le condizioni per stare dentro, ci si sta e si rispetta quella comunità; quando non ci sono le condizioni, non si rimane dentro a sfasciare tutto, è molto meglio che le strade si dividano". "Non è da oggi che Matteo Renzi e alcuni di noi vengono considerati un corpo estraneo all'interno del Pd", insiste Giachetti, "c'è stata una piccola pausa quando siamo stati in segreteria, ma sono in questo partito da dieci anni e già prima non mi consideravano omogeneo dal punto di vista culturale". Secondo il deputato dem "il centrosinistra ha un problema, e si è accentuato adesso che la guida del Pd è stata presa da chi ha vinto legittimamente le primarie: noi non parliamo a un mondo che bisogna ricoinvolgere se vogliamo tornare al governo e avere la maggioranza in questo Paese. È un mondo che non è voluto andare con Salvini e che non vuole venire neanche con noi. Noi abbiamo un partito bloccato al 20% nonostante quello che è stato fatto. Siamo riusciti a parlare con quel mondo in due occasioni, alle Europee del 2014 e al referendum del 2016. Se non riusciamo a parlarci più da tempo e le nostre percentuali sono quelle, non è un problema da poco per il centrosinistra. Serve qualcuno che ci parli". Giachetti apre le porte del nuovo partito "a tutti, anche ai fuori usciti di Forza Italia. E anche della Lega. se arrivassero. Se scelgono di stare su una linea politica di un certo tipo, va benissimo che ci stiano tutti". E al governo Conte assicura "sostegno leale, non cambia niente".
Claudio Bozza per il Corriere della Sera il 18 settembre 2019. «Credo che Matteo Renzi faccia un errore a lasciare il Pd, che è ancora l' unico partito aperto e contendibile. Io resto in questo, perché sono convinto che ci sia ancora una spazio liberaldemocratico». Letta così, suonerebbe come una delle tante dichiarazioni di parlamentari contrari all' addio dell' ex premier. Ma la cosa politicamente sorprendente, nel mezzo della bufera della scissione, è che a pronunciare queste parole è Andrea Marcucci, capogruppo dem al Senato, ma soprattutto iper renziano da sempre. Il senatore della Garfagnana, dove si trova anche il quartier generale della sua Kedrion (colosso degli emoderivati che fattura quasi 700 milioni l' anno), è stato un importante sostenitore (anche a livello economico) di Renzi fin dall' inizio della sua scalata. Ma soprattutto, appena lo scorso mese di agosto, aveva messo a disposizione un' ala del proprio resort (Il Ciocco) per ospitare i cento giovani che si erano iscritti a «Meritare l' Italia», la scuola di formazione politica guidata dall' ex premier. Soltanto che nel momento clou, il senatore Marcucci, un primo mandato da deputato nel 1992 con il Pli di Renato Altissimo per poi passare alla Margherita, non se l' è sentita di seguire il fu rottamatore nella nuova casa di Italia viva. «Matteo è un amico e resta un protagonista di una straordinaria stagione di governo, il cui patrimonio resta interamente a disposizione del centrosinistra, anche per il futuro - riflette Marcucci, che formalmente fa parte di Base riformista, corrente guidata da Luca Lotti e dal ministro Lorenzo Guerini -. Io nel Pd mi sento ancora a casa mia, se si dovesse trasformare in un soggetto politico più vicino ai Ds, mi sentirei un estraneo». E poi: «Il mio rapporto personale con Renzi non è in discussione: penso che si sia fatto trascinare dall' istinto in questa decisione, ci ho parlato fino all' ultimo e gli ho detto subito che non ero d' accordo sulla svolta che stava maturando». Adesso per il senatore, però, non sarà una passeggiata rimanere in sella come capogruppo, e oggi incontrerà tutto il gruppo dei senatori dem. È una questione di numeri, che, almeno per il momento, sembrano pendere ancora dalla sua parte. A Palazzo Madama, perso Matteo Richetti passato a Siamo europei, i senatori del Pd sono 50: sottraendone 12-13 che andranno in Italia viva, Marcucci potrebbe contare sull' appoggio di 20-21 colleghi, una manciata in più rispetto a quelli che stanno con il segretario Zingaretti. Proprio analizzando questi numeri, e specie perché Marcucci sottolinea che non sarà mai nemico di Renzi, sorge spontaneo l' interrogativo che possa trattarsi di un' operazione di facciata per rimanere al timone a Palazzo Madama. Ma dall' entourage di Marcucci assicurano: «È una frattura politica vera, niente giochetti: il senatore crede davvero che Renzi abbia fatto una mossa azzardata, difficile da spiegare alla gente». Tant' è che mentre l' ex leader dem ufficializza il nome del nuovo partito davanti alle telecamere di Porta a Porta , il capogruppo spiega: «Io resto a fare il mio lavoro nel Partito democratico - riflette Marcucci -. Ma mai diventerò un denigratore di Matteo». E sulla possibilità che il baricentro dem si sposti più a sinistra, con il possibile rientro di D' Alema e Bersani: «Un ritorno alla Quercia? Non credo che succederà - conclude Marcucci -, resto tra i democratici anche perché ciò non accada».
Cesare Zapperi per il “Corriere della sera” il 18 settembre 2019. È una separazione politica, certo. Ma quando condividi anni di impegno e di scelte c' è un coinvolgimento personale che nel momento dell' addio aggiunge sale alla ferita. Perché Matteo Renzi per alcuni non era solo il leader di riferimento ma anche un amico. «È un passaggio molto doloroso politicamente e umanamente» ammette Matteo Biffoni, sindaco di Prato, seguace della prima ora dell' ex segretario dem. «Mi sono riavvicinato alla politica nel 2013 grazie a Matteo - spiega il primo cittadino di Bergamo Giorgio Gori - E certamente sono diventato sindaco nel 2014 sull' onda del suo successo. Ho condiviso tante battaglie, compresa quella persa del referendum, ma ora le nostre strade si separano perché non sono portato ad aderire a progetti che si basano su una persona». Forse proprio perché nell' esperienza politica di Renzi i sindaci hanno sempre avuto un peso particolare, è da questi, specie da quelli a lui più vicini, che vengono le parole più severe rispetto ad una scelta che non si riesce a condividere. «Non si sbatte la porta di casa propria e si va via per sempre - osserva il sindaco di Rimini Andrea Gnassi - soprattutto quando è in atto una discussione ed è viva una sfida come quella di governo. Non ci sono se né ma». «È un errore enorme - rincara la dose Matteo Ricci, dal 2014 alla guida di Pesaro e vicepresidente dell' Anci - Non credo nei partiti personali e le divisioni portano sempre male». Con una stoccata velenosa: «I sindaci popolari aggregano, non dividono». Se in Parlamento Renzi ha trovato un seguito, seppur numericamente poco superiore al minimo indispensabile per costituire i gruppi alla Camera e al Senato, nei municipi il reclutamento dell' ex premier al momento fa molta più fatica. Nei Comuni medio-grandi nessuno risponde alle sirene renziane. Non il sindaco di Bari (e presidente dell' Anci), Antonio Decaro, che pure parla di «scelta che arricchisce il centrosinistra». E nemmeno chi, come Dario Nardella, ha ricevuto in eredità la fascia di primo cittadino di Firenze: «Capisco le ragioni di Matteo, rispetto la sua decisione, ma io continuerò a lavorare e a fare le mie battaglie nel Pd». Per spiegare la sua contrarietà, c' è chi mette sul tavolo una citazione: «Non vedo le ragioni delle scissioni e nemmeno l' utilità - dice Simone Giglioli, sindaco di San Miniato - Rimango ancorato al concetto togliattiano "extra ecclesia nulla salus", fuori dalla Chiesa nessuna salvezza, poi mi sento ancorato al riformismo e per me c' è tutta l' esigenza di avere il Pd come partito del riformismo». Insomma, per quanto in fase di ristrutturazione dopo le scosse telluriche subite negli ultimi anni (anche, o soprattutto, durante la gestione renziana), la vecchia casa rimane ancora la più «sicura» per affrontare le sfide del futuro. «Ad una condizione - mette in guardia Gori - che il Pd tenga alta la bandiera riformista. Tanto più riusciremo a proseguire su questa strada, non arretrando sui tanti fronti aperti in questi anni (dalle riforme del lavoro all' immigrazione), tantomeno avrà spazio l' altro progetto». Concetto fatto proprio da Gnassi nell' auspicare per il suo partito «uno spazio democratico allargato, in grado per la sua anima inclusiva di contrapporsi nella maniera più estesa al pericolo del sovranismo becero, del partito azienda, del partito di un capo». «Il Pd - riassume il sindaco di Modena Gian Carlo Muzzarelli - è l' unica vera alternativa alla destra di Salvini». Allora, il progetto renziano è destinato al fallimento? Se i sondaggisti non si sbilanciano, Biffoni lancia un avvertimento: «Attenti a non sottovalutare Matteo. Lo conosco bene, so di quanta forza, di quante energie sia capace. Alla Leopolda di metà ottobre sicuramente aggiungerà altra benzina, siamo solo ai primi passi. Ha agito d' impulso perché si sentiva politicamente ingabbiato e allora ha buttato il pallone nell' altro campo. Aspettiamoci altri passi».
Zingaretti: "La scissione di Renzi? Informato con un whatsapp". Nicola Zingaretti improvvisamente placa gli animi: "Faremo di tutto per lasciare alle spalle la stagione del litigio permanente, degli scontri e della demagogia". Luca Sablone, Sabato 21/09/2019, su Il Giornale. Nicola Zingaretti annuncia e sottoscrive il "patto della pace" tra Movimento 5 Stelle e Pd. Il segretario dem ha placato gli animi in occasione della nascita del nuovo governo giallorosso, cancellando tutto d'un tratto tutte le diatribe tra le parti: "Sui rapporti politici tra chi fa il governo è cambiato tutto. È finita la stagione degli sgambetti e dei veti, dell'uno contro l'altro. Alla base c'è un programma condiviso, un presidente del Consiglio che noi sosteniamo". Il governatore della Regione Lazio, intervenuto a L'Intervista di Maria Latella su SkyTg24, ha ribadito l'impegno a fare di tutto "per lasciare alle spalle la stagione del litigio permanente, degli scontri e della demagogia". Il segretario dem ha poi confermato la volontà di costruire un asse con i pentastellati in Umbria e "caso per caso" nel resto delle elezioni amministrative in Italia "per il bene dell'Italia". Alla luce del via libera da parte della base pentastellata all'inciucio alle elezioni Regionali, Zingaretti ha commentato positivamente "che si sta provando a verificare le condizioni per governare e dare risposte insieme ai cittadini". Il segretario del Partito democratico è convinto che "gli italiani giudicheranno in modo positivo questo sforzo". Critiche contro il pugno duro di Matteo Salvini sull'immigrazione incontrollata: "La demagogia di Salvini sui porti chiusi non aveva risolto niente. Noi vogliamo la sicurezza dei porti e delle frontiere ma quella demagogia dei porti chiusi il problema non l'ha risolto". E sull'aumento delle tasse la colpa è stata attribuita "al governo in cui c'era Salvini". Dell'addio di Matteo Renzi al Pd "sono stato informato con un messaggio su WhatsApp. Se fossi stato avvisato prima lo avrei detto pubblicamente subito". E su Italia Viva rincara la dose, sposando la definizione dello yogurt di Romano Prodi: "Diffido dei partiti personali. Non hanno mai funzionato in Italia. Io non sarò l'ultimo segretario del Pd".
LA SCISSIONE NEL PD. La scissione nel Pd, nasce “Italia Viva”. Zingaretti: E’ un errore. Giulia Merlo il 18 Settembre 2019 su Il Dubbio.
L’ex premier lancia “Italia viva”. La perplessità di palazzo Chigi. L’ex premier annuncia il suo nuovo movimento da Bruno Vespa. Nei prossimi giorni si formeranno I gruppi in parlamento. «il tema è non fare una cosa politichese, antipatica e noiosa». La scissione ormai è ufficiale. Dopo mesi di fughe in avanti, mezze dichiarazioni e smentite, Matteo Renzi ha deciso di rendere ufficiale l’addio al Pd: «Dopo sette anni di fuoco amico penso si debba prendere atto che i nostri valori, le nostre idee, i nostri sogni non possono essere tutti i giorni oggetto di litigi interni». Immediata la replica di Zingaretti che ha parlato di «errore», e di Franceschini che ha definito la scissione un problema. Preoccupazione anche da palazzo Chigi. Tanto tuonò, che piovve. Ieri è stato il giorno della scissione: Matteo Renzi da una parte, il Pd dall’altra. Separazione consensuale per l’uno, strappo ingiustificato per gli altri. La nuova creatura si chiamerà “Italia viva”, come annunciato ieri a Porta a Porta, in cui ha definito l’obiettivo: «Il tema è non fare una cosa politichese e antipatica, noiosa. Vogliamo parlare a quella gente che ha voglia di tornare a credere nella politica». Per ora la prima dimensione sarà quella parlamentare. A Repubblica, Renzi ha spiegato come «I gruppi autonomi nasceranno già questa settimana» e ha lanciato la prima frecciata al segretario del suo ex partito: «E saranno un bene per tutti: Zingaretti non avrà più l’ alibi di dire che non controlla i gruppi Pd, perchè saranno “derenzizzati”. E per il governo probabilmente si allargherà la base del consenso parlamentare, l’ ho detto anche a Conte». Proprio questo ultimo passaggio è rilevante in ottica esterna: Renzi ha chiamato il presidente del consiglio per informarlo della decisione e per rinnovargli il sostegno, ma da Palazzo Chigi è filtrato «perplessità», per «una iniziativa che introduce negli equilibri parlamentari elementi di novità, non anticipati al momento della formazione del governo». Nessun incontro Renzi - Conte a breve, dunque, ma il premier preferisce prendere tempo e attendere che si formino i nuovi gruppi parlamentari. Proprio sulla definizione dei gruppi, i numeri non sono ancora certi. Ieri sera si è tenuta a Roma la prima cena degli ex: obiettivo, contarsi. Per ora, Renzi ha parlato di «25 deputati e 15 senatori». Sommando frasi sussurrate a mezza bocca, tweet e soprattutto i nomi di chi ha effettuato donazioni sulla piattaforma “Comitati di Azione Civile”, i nomi sono questi: per il Senato Leonardo Grimani, Salvatore Margiotta, Andrea Ferrazzi, Eugenio Comincini, Laura Garavini, Nadia Ginetti, Ernesto Magorno, Mauro Marino, Caterina Biti, Giuseppe Cucca, Alan Ferrari, cui si sommano ovviamente lo stesso Renzi, Francesco Bonifazi ( il braccio destro che ha sostituito Luca Lotti) e la ministra Teresa Bellanova, che sarà a capo della delegazione al governo. Alla Camera, invece, si contano Marco di Maio, Anna Ascani, Mauro del Barba, Martina Nardi, Lisa Noja, Maria Chiara Gadda, Andrea Rossi, Luciano Nobili, Gennaro Migliore, Ettore Rosato, Ivan Scalfarotto, più Roberto Giachetti e la fedelissima Maria Elena Boschi. Se alla Camera i numeri ci sarebbero per fare un gruppo autonomo con probabilmente a capo Giachetti, al Senato si registrano i maggori sommovimenti. Se il regolamento non prevede la formazione di nuovi gruppi in assenza di un simbolo con cui ci si è presentati alle elezioni, Renzi starebbe discutendo col socialista Riccardo Nannicini ( cui fa capo il simbolo “Insieme”) per far nascere in casa sua il nuovo gruppo renziano a cui, in prospettiva di medio periodo, potrebbero aggiungersi nei gruppi anche alcuni transfughi forzisti, attirati dal progetto renziano e timorosi dell’Opa della Lega su Forza Italia. Quanto alle linee guida del nuovo movimento, Renzi ha parlato chiaro: «C’è uno spazio enorme per una politica diversa. Per una politica viva, fatta di passioni e di partecipazione. Questo spazio attende solo il nostro impegno», per cui serve «una Casa giovane, innovativa, femminista, dove si lancino idee e proposte per l’Italia e per la nostra Europa». Poi ha indicato con forza il suo avversario: «La vittoria che abbiamo ottenuto in Parlamento contro il populismo e Salvini è stata importante per salvare l’Italia, ma non basta», ha sottolineato l’ex premier, che vuole sconfiggere il salvinismo «nelle piazze, nelle scuole e nelle fabbriche». Quanto agli orizzonti temporali, Renzi ha spiegato che il movimento ( ancora senza nome) non si candiderà alle prossime amministrative e regionali ma punta a costruire un progetto di respiro in vista delle «politiche del 2023 e delle europee del 2024». L’iniziativa renziana non ha certo spiazzato il Pd, ma ne ha irritato il leader. L’esodo dei parlamentari, per quanto ridotto potrà essere e nonostante l’appoggio confermato al governo, metterà in posizione di debolezza il partito rispetto ai 5 Stelle. «Ci dispiace. Un errore dividere il Pd, specie in un momento in cui la sua forza è indispensabile per la qualità della nostra democrazia. Ora pensiamo al futuro degli italiani, lavoro, ambiente, imprese, scuola, investimenti», è stato il lapidario commento del segretario Zingaretti, sulla cui falsa riga si sono mossi tutti i dirigenti dem ( tranne Goffredo Bettini, che ha teorizzato un rafforzamento del Pd in seguito all’addio dei renziani). Renzi, tuttavia, continua a ripetere: «io sorrido a tutti e auguro buon ritorno a chi adesso rientrerà nel Pd. E in bocca al lupo a chi vi resterà. Per me c’è una strada nuova da percorrere», che comincerà con la Leopolda: «Sarà un’ esplosione di proposte. Ci riconoscerete dal sorriso, non dal rancore. Voi la chiamate scissione, io la chiamo novità». Il Pd, così, rimane orfano del suo ultimo leader indiscusso ( il che probabilmente segnerà il ritorno della “ditta” Bersani- D’Alema), che ha riconosciuto per la prima volta ad alta voce: «Mi hanno sempre trattato come un estraneo».
LA SCISSIONE NEL PD. Grillo liquida la scissione dem: «Una “renzata” d’impulso». Rocco Vazzana il 18 Settembre 2019 su Il Dubbio. Il M5s teme possibili colpi di mano dell’ex premier. Luigi Di Maio prova a sminuire la portata politica della vicenda: «nessuna sorpresa, per noi non rappresenta un problema, anche perché le dinamiche di partito non ci sono mai interessate». «Una minchiata d’impulso!». Beppe Grillo non usa mezzi termini per definire la scissione renziana avvenuta a pochi giorni dalla nascita del governo Conte 2. In casa pentastellata c’è un po’ di preoccupazione per quelle che potrebbero essere le turbolenze generate dall’ingresso in maggioranza di un nuovo partito guidato dall’ex premier, ma la parola d’ordine rimane una sola: sminuire. Sminuire la portata dell’evento, derubricandolo ad affare interno al Pd, e sminuire l’interesse del Movimento nei confronti dell’ex premier, un tempo nemico, oggi alleato indispensabile. Solo il fondatore, Grillo, si concede il lusso di prendersi gioco del la «renzata» sul suo blog. «Matteo Secondo», così il comico ribattezza l’ex segretario dem, «fra una manata di pop corn e l’altra, è scomparso dalla top ten dei politici più graditi, in qualcuna c’è ancora ma… sotto a Franceschini». Per Grillo, quella di Renzi, non sarebbe altro che una trovata pubblicitaria per attirare su di sé l’attenzione dei media, visto che al momento sull’onda della popolarità c’è spazio per due «surfisti» soltanto: Salvini e Conte. «Renzi è un animale politico di livello, si accorge di come vanno le cose velocemente: se aspetta la Leopolda non gli resterà altro da fare che spogliarsi davanti a tutti e mostrare tatuaggi BCE and FMI forever!», continua, con la consueta enfasi, il fondatore del M5S. «Insomma, sa che ogni minuto di assenza dalle scene, in queste settimane, corrisponde ad un oblio di mesi e si sente improvvisamente tornare su i popcorn!». Il “garante” è convinto che dopo una «indigestione» di «guardonismo politico» Renzi sia terrorizzato dal finire fuori da tutte le scene. «Così minaccia il paese di far cessare lo scontro fra i due veri ercoli del gradimento con il grave rischio, per il nostro paese, di svegliarci tutti con Pontida capitale» . Già, perché tra le novità lasciate in dote da questa folle estate 2019 c’è anche uno scambio di ruoli: Grillo, l’uomo del “Vaffa”, diventa improvvisamente responsabile paladino delle istituzioni repubblicane; e Renzi, leader dell’establishment secondo una certa retorica pentastellata, si trasforma nell’istintivo protagonista di strappi potenzialmente destabilizzanti. «Di solito, prima di fare qualcosa di importante si è presi dai dubbi, si valutano i pro ed i contro, si possono vivere anche giorni di tormento interiore, poi ci si esaspera e si fa una minchiata d’impulso!», prosegue il comico genovese, prima di mettere sullo stesso piano «i Mattei», entrambi vittime del loro carattere sanguigno. Ma «il paese è instabile e pieno di rancori, non è il momento di dare seguito a dei narcisismi», conclude il Grillo in versione settembre 2019. Ma se il fondatore liquida con qualche battuta acida la scelta dell’ex presidente del Consiglio, il capo politico M5S prova a coprire i timori di possibili colpi di mano con un comunicato quasi asettico, ostentatamente disinteressato. «Nessuna sorpresa», assicura Di Maio. «Di certo per noi non rappresenta un problema, anche perché le dinamiche di partito non ci sono mai interessate. Lavoriamo per gli italiani, solo a loro dobbiamo dare risposte», argomenta il ministro degli Esteri, come se non stesse parlando del leader di un nuovo partito entrato in maggioranza. «Ogni singolo eletto del M5S ha un solo obiettivo, risolvere le problematiche dei cittadini. E ora che il governo è al completo dobbiamo lavorare con serietà e determinazione e portare a casa altre importanti misure per il Paese come il taglio dei parlamentari», è il massimo del commento pubblico concesso dal capo dei grillini. Ma lontano da microfoni e telecamere, lo stato maggiore pentastellato è in agitazione. Nessuno vuol sentir parlare di «terza gamba». Non cambia nulla, ripete qualcuno. «Nel governo siedono ministri renziani», viene fatto notare, «anche prima della scissione la componente dell’ex segretario Pd era una realtà con cui fare i conti». Chi invece esce allo scoperto è Roberta Lombardi, la madrina dell’alleanza giallo- rossa. E lo fa a modo suo, con un attacco diretto al leader scissionista. «Quest’oggi, con la sua nuova e mirabolante avventura politica, Matteo Renzi è riuscito a dimostrare di condividere con Salvini qualcosa di più del nome». A unirli, secondo la capogruppo M5S nel Lazio, è «quell’opportunismo politico fatto di impulsività ed egocentrismo che sacrifica la lungimiranza sull’altare del piccolo risultato immediato», scrive su Facebook Lombardi, rilanciando il post di Beppe Grillo. «L’importante è che gli impegni che ha preso per la formazione del governo Conte 2 vengano mantenute, altrimenti dovrebbe risponderne davanti agli italiani sul perché ha voluto questo governo e poi lo ha lasciato in balia delle onde». Nel frattempo, però, è meglio navigare a vista.
Paolo Bracalini perIl Giornale il 17 Settembre 2019.
Professor Luca Ricolfi, esiste uno spazio politico per un partito di «sinistra moderata» con Renzi leader?
«Non so più che cosa vuol dire sinistra moderata. Vuol dire non trinariciuta? Vuol dire che non mette nuove tasse e nuove imposte patrimoniali? Vuol dire che vuol modernizzare il mercato del lavoro? Vuol dire che è una riedizione della Margherita, con una forte componete cattolica, tutta accoglienza e diritti umani? Se è soprattutto riformista, meglio il partito di Calenda, se è soprattutto pro-accoglienza, meglio il partito della Bonino.
Si tratta di un'operazione spregiudicata di Renzi, dettata da ambizioni personali, o è spiegabile con uno spostamento a sinistra del Pd di Zingaretti?
«Ma vogliamo scherzare? Il partito di Zingaretti è stato sinistrizzato proprio da Renzi, che costringendolo a fare un governo con i 5s ne ha spento ogni vocazione riformista e modernizzatrice, e resuscitato i peggiori istinti giustizialisti e assistenzialisti».
Come potrebbe influenzare la tenuta del governo?
«Mi pare evidente che, senza i 30 o 40 parlamentari di Renzi, il governo non ha la maggioranza. Quindi Renzi ha il pieno controllo della durata della legislatura. Altroché Mattarella. L'unica cosa che può fare Zingaretti per liberarsi di Renzi è dire: assì? allora andiamo al voto, con questa legge elettorale, e vediamo quanti parlamentari riesci ad eleggere.
Il renzismo finora ha avuto un suo senso come anima del Pd, in opposizione alla corrente più legata all'eredità del Pci-Ds. Può funzionare autonomamente, secondo lei?
«Non credo proprio, ormai il renzismo è solo ricerca spasmodica del potere».
Il modello potrebbe essere En Marche di Macron?
«È del tutto diverso, secondo me. Quando Macron lanciò il suo movimento era una figura politica vergine, con un programma chiaro e tutt'altro che improvvisato. Renzi viene da una sonora sconfitta (al referendum), e ormai ha una patente di inaffidabilità totale: non ha mantenuto la promessa di ritirarsi dalla politica in caso di sconfitta al referendum, ha tradito il suo solenne (e condivisibilissimo) impegno a non allearsi con i Cinque Stelle, ora - se tradisce il Pd - non fa che confermare la fama di spregiudicato trasformista che si è cucito addosso da solo».
Un elettore di centrodestra potrebbe essere attratto da un partito renziano?
«Forse qualche elettore di Forza Italia, ma anche su questo ho dei dubbi: il consenso a Forza Italia è così basso da far pensare che l'unico fattore che induce ancora a votare quel partito sia la figura di Belusconi. Detto altrimenti: il voto a Forza Italia ormai è il voto dei fedelissimi, e un fedelissimo non cambia cavallo facilmente».
Un partito personale può avere successo?
«Di partiti molto legati a una singola personalità ce n'è uno che ha riscosso un enorme successo: Forza Italia, che è nato e si è affermato esclusivamente grazie alla personalità di Berlusconi. Io non escludo affatto che, in futuro, un nuovo imprenditore della politica catalizzi un largo consenso. Il problema, però, è che per fare questo bisogna avere almeno due cose: il carisma, e delle idee in cui si crede fermamente. Renzi il carisma lo ha perduto dopo il referendum. Quanto alle idee, la doppia piroetta di questi giorni ha cancellato ogni dubbio: le idee di Renzi cambiano con le sue convenienze politiche».
Marco Antonellis per Dagospia il 17 settembre 2019. Che aria tira stamattina dalle parti del Nazareno dopo il coming out dalle pagine di Repubblica di Matteo Renzi, Dagoanticipato ieri sera? Beh certamente il clima non è dei migliori anche perché i vertici del Partito Democratico non riescono ancora a capire i veri motivi della scissione, per molti spiegabile solo con un occhio alle future nomine governative. Però la battuta che circola in queste ore ai piani alti del Pd è devastante, a riprova dei pessimi rapporti interni: "Matteo Renzi ha rifatto il Psdi di Nicolazzi e Cariglia". L'ordine di scuderia, comunque, approntato proprio in questi minuti è quello di non dare "guazza" al leader toscano ovvero di non attaccarlo frontalmente bensì di isolarlo. Questo per evitare che ottenga ancora più visibilità di quanta non ne abbia già ricevuta. Insomma, la strategia che il PD sta studiando in queste ore è quella manzoniana di "troncare, sopire, silenziare". Nella speranza, così, di arginare la nuova iniziativa politica di Matteo Renzi.
Da I Lunatici Radio2 il 17 settembre 2019. Carlo Calenda è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì da mezzanotte e trenta alle sei. Sull'addio di Renzi al Pd: "Lo accolgo con confusione. Ha fatto una scelta diversa dalla mia, ha detto che era d'accordo all'alleanza tra Pd e Cinque Stelle, anzi ha spinto il Partito Democratico su quella linea. Adesso fa un'ulteriore giravolta e esce dal Pd. Non lo condivido, la trovo una roba un po' singolare. Avevo avvertito Zingaretti e Gentiloni in tutti i modi possibili. Era chiarissimo che sarebbe accaduto. Zingaretti e Gentiloni hanno sperato e creduto che questo si potesse evitare. Evidentemente non è andata così. Il Pd può avere un futuro solo se riscopre che cosa è. Non puoi allearti con il Movimento Cinque Stelle solo per dire no al Salvini. Non è che levare Salvini dal Ministero degli Interni risolve i problemi. Per risolvere i problemi ci vogliono i programmi. Questo Governo non li ha secondo me. Tornare nel Pd? No. La coerenza in politica è un fatto importante. Non posso venirne meno. Penso che i Cinque Stelle abbiano scassato le città che governano e distrutto un ministero in cui ho sputato sangue per cinque anni. Non posso stare insieme a loro". "Siamo Europei" diventerà un partito a tutti gli effetti: "Non ho cercato parlamentari dem per venire con me. Se c'è un problema nella politica italiana non lo risolvi fondando partiti in cui gravitano sempre le stelle persone. Alla fine vedi in politica sempre le stesse perone e non cambia mai niente. Ancora stiamo con Berlusconi, Franceschini che farebbe patti con chiunque, Grillo che dice cavolate su qualunque materia, Conte che predica discontinuità verso il suo stesso Governo, Salvini con il rosario, la Meloni con le zucchine di mare". Su quello che potrebbe accadere a breve: "I nodi verranno al pettine. Su Alitalia ad esempio il Pd si è allineato ai Cinque Stelle. Vedo più un Pd che si allinea ai cinque stelle che il contrario". Su Pontida: "Si può anche essere sostenitori di Salvini, io non penso che chi sostiene Salvini sia per forza ignorante o fascista. Però al raduno di Pontida son successe cose allucinanti. Tra quello che ha detto a Lerner 'non sei italiano sei ebreo' all'esporre una bambina su un palco come se fosse un oggetto dell'attività politica. Se un leghista serio e perbene non riesce a capire quando Salvini fa una cosa sbagliata è l'inizio della fine. Io spesso, quando Renzi era all'apice del potere, dissentivo dal suo operato. Mi chiedo se Giorgetti, Zaia e gli altri che si presentano come l'ala moderata dalla Lega non possano dire che certe cose sono sbagliate?".
Cosa c'è dietro la scissione di Renzi e la nascita di Italia Viva. Sete di potere, voglia di comandare e soprattutto una enorme ipoteca sul futuro del Governo Conte-bis. Maurizio Belpietro il 17 settembre 2019 su Panorama. La scissione dal Pd di Matteo Renzi e la nascita di Italia Viva condizionerà molto il Governo Conte-bis. Una mossa fatta in questo momento non a caso ma in maniera consapevole, proprio poco dopo che il Governo con la nomina dei sottosegretari e viceministri può operare a tutto tondo: “Pronti, via e vi spiego le regole del gioco” ha detto Renzi a Conte ed agli alleati. Renzi negli ultimi anni ha mal digerito la segreteria di Zingaretti, non si sarebbe mai dimesso dalla segreteria del Pd, le ha provate tutte pur di restare alla guida del partito. Poi ha cercato di condizionare la nuova segreteria, ha sabotato la candidatura di Minniti; infine, con la maggioranza degli eletti del Pd scelti da lui, ne ha portati fuori un po’. Ma non tutti. Ora quindi ha il controllo del Partito Democratico e del Governo. Lo ha fatto adesso perché vuole tornare al tavolo della trattativa mettendo una enorme e colossale ipoteca sul futuro di questo Governo. Chi dice, come Rosato, che nel Pd tutti sapevano cosa sarebbe successo dimentica di dire che non lo sapevano gli italiani. Renzi fino a poche settimane fa giurava che non avrebbe lasciato il Pd ma questo fa parte della doppiezza di Renzi che dice una cosa e fa il contrario; aveva detto che avrebbe lasciato la politica e invece fonda un altro partito. E’ evidente che Renzi sogna di poter ereditare la area politica di Berlusconi e sogna che pezzi di Forza Italia vadano con lui, piazzandosi al centro e sperando di condizionare con il suo 7-8 forse anche il 10 il prossimo Governo e le scelte del futuro. Non è vero che Renzi accetta tutto; vuole mettere le mani delle nomine, di Fincantieri e Leonardo, vuole quello, vuole contare dove il potere conta come fatto anni fa quando arrivò a Palazzo Chigi.
Renzi lascia il Pd, sistema Zingaretti, poi tocca a Conte. Dietro la scissione c'è la smania di potere di un politico bocciato dalla urne che ora controlla il Governo Conte #staisereno. Maurizio Belpietro il 17 settembre 2019 su Panorama. Allacciate le cinture: Matteo Renzi è tornato e si prepara a una spericolata corsa per riprendersi Palazzo Chigi. Sì, manco il tempo di accendere la macchina del nuovo governo e il senatore semplice di Scandicci è pronto a mandarne il motore fuori giri e, prima possibile, a fonderlo. Già, perché questo alla fine rimane l'obiettivo a cui punta l'ex presidente del Consiglio. Ora sussurra suadente all'orecchio dell'uomo che ha contribuito a salvare dalle elezioni anticipate e da un ritorno alla docenza (ho scritto docenza e non decenza). Ma mentre assicura lunga vita a Giuseppe Conte e al suo esecutivo, invitandolo a stare sereno come fece con Enrico Letta, potete star certi che prepara una trappola per sfilargli il prima possibile la poltrona. Perché è ovvio che il percorso intrapreso ad agosto dall'ex segretario del Pd, con un triplo salto mortale che lo ha portato ad abbracciare il Movimento 5 stelle, non è gratis, ma è destinato ad approdare lì, cioè a Palazzo Chigi. Perché Renzi è Renzi e non potete credere che sia cambiato solo perché è stato battuto alle elezioni. Perché Renzi è Renzi e nonostante le sconfitte non imparerà mai la lezione che gli è stata impartita dagli italiani. Perché Renzi è Renzi e fa sempre il contrario di ciò che egli stesso garantisce che farà. Il suo chiodo fisso è lo stesso di tre anni fa quando, cacciato da un voto popolare al referendum costituzionale, si fece sostituire pro tempore da Paolo Gentiloni. Il governo di Er Moviola, per lui, doveva essere una parentesi della sua ascesa, un piccolo intoppo che avrebbe dovuto dopo un certo periodo consentirgli di rioccupare il posto di presidente del Consiglio. E probabilmente, non ci fosse stato il tracollo del 4 marzo dello scorso anno, ce l'avrebbe fatta. Ma poi è arrivato il responso delle urne, con un Pd al 18 per cento, e il risultato non gli ha lasciato altra scelta che il passo indietro. Un addio che però, nella sua testa, è sempre suonato come un arrivederci, perché l'uomo, fino all'ultimo, non solo ha brigato per non abbandonare la presa sul Pd, ma si è dannato l'anima per predisporre un suo rapido ritorno.
Claudio Antonelli per “la Verità” il 18 settembre 2019. Nella lunghissima intervista con cui Matteo Renzi annuncia la scissione del Pd ci sono tante sfumature psicologiche, tutte riconducibili alla sua necessità di rimanere sempre al centro dell' attenzione. Mancano invece reali motivazioni politiche. Spinte ideologiche nemmeno a parlarne: si tratta solo di potere. E non ci vuole un esegeta per capirlo: è lo stesso Renzi a svelarlo in corso d' intervista. «Non sono interessato a mettere il naso nelle nomine, ma voglio dire la mia sulle strategia», ha detto a Repubblica. «Perché continuiamo a tenere divise Leonardo-Finmeccanica e Fincantieri? Che senso ha? Non rischiamo di farci mangiare da partner europei che investono più di noi sullo spazio e sulla difesa?». Come i cani che appena usciti di casa marcano il territorio, l' ex sindaco di Firenze aveva troppa fretta di definire il proprio perimetro di competenza che non è nemmeno riuscito ad attendere l' evento della Leopolda previsto per ottobre. Dal momento che in ballo non ci sono scelte politiche, per il suo nuovo schieramento è importante fissare già da ora i paletti di competenze che riguardano le nomine. Perché solo di questo si tratta: gestire le partecipate e individuare i propri uomini di fiducia. E nella grande abbuffata di poltrone (che si apre da oggi fino alla nomina del successore di Sergio Mattarella) ciò che conta per Renzi è essere sempre al centro. La frase estrapolata dall' intervista a Repubblica fa specifico riferimento a quello che comunemente viene chiamato piano Capricorn. Cioè l' idea che Cdp possa riacquistare alcune partecipate direttamente dal Tesoro, con il duplice obbiettivo di ridurre il perimetro del debito pubblico e al tempo stesso accentrare dentro Cdp la cabina di regia delle nomine. Nello specifico questa non è un' idea partorita da Renzi ma dai 5 stelle, e potrebbe essere appoggiata pure dal ministro dell' Economia Roberto Gualtieri. Tesoro e Cdp si appresterebbero a fare i calcoli per vendere a Cassa depositi e prestiti le quote del 30,2% che il Mef detiene nel colosso della Difesa con sede in piazza Monte Grappa. Il progetto sarebbe di incassare a spanne una cifra che si aggirerebbe sui 2,3 miliardi di euro. In questo modo il controllo resterebbe pubblico, ma il governo riuscirebbe a scambiare patrimonio contro debito. Infatti il Tesoro lo scorso giugno ha incassato circa 800 milioni da Cdp perché necessitava di una riduzione del deficit. Incassando la vendita delle azioni, porterebbe a casa direttamente una riduzione del debito, come promesso all' Ue. Dal punto di vista contabile sarebbe più una partita di giro. Inutile dire che non si tratterebbe di una privatizzazione. Cassa gestisce infatti i risparmi dei pensionati e la raccolta di Poste, oltre a fungere da tesoreria per lo Stato. Una volta incamerata Leonardo, per Cdp - che già adesso detiene Fincantieri - sarebbe poi semplice avviare una fusione. Un progetto che Giuseppe Bono sostiene da molto tempo. Ne abbiamo discusso sulle colonne della Verità anche in occasione dell' accordo tra la stessa Fincantieri e la francese Naval group. Su questa idea molti analisti continuano ad avanzare dubbi, per via della diversità dei due business. Ma soffermarci troppo sulla fusione in sé significa cadere nel tranello dello storytelling renziano. La citazione dei due colossi della Difesa è strumentale. Renzi non ha alcuna idea precisa in merita e nemmeno sarebbe stato imbeccato dall' amico Sandro Gozi che ora fa il consulente del governo francese. Si tratta piuttosto di un messaggio cifrato rivolto a tutti i manager pubblici. Un invito abbastanza palese a convertirsi tutti (di nuovo) al renzisimo. La stanza dei bottoni la gestisco io - sembra dire l'uomo di Rignano - e solo io deciderò le strategie e gli accordi con i Paesi esteri, che contano. Ad esempio il Qatar o l'Arabia Saudita. In questo modo Renzi punta all' Eni e a coordinare le altre partecipate dell' energia come Enel (anch' essa citata nell' intervista). Stavolta al fianco di Renzi ci saranno gli uomini che in passato hanno collaborato con Silvio Berlusconi. Lo si capisce dai viaggi portati avanti dal senatore semplice di Scandicci e dalle relazioni internazionali. A Renzi non basterà far entrare nella sua casa un plotone di esponenti di Forza Italia: per trasformare il suo progetto nella vera Casa delle libertà dovrà disporre anche della massa critica dei manager e dell' appoggio delle grandi partecipate pubbliche. Solo così Berlusconi potrà trovare il suo delfino, e la schiera di Forza Italia potrà fuoriuscire. Uno schema indipendente dagli esiti elettorali (anzi), ma in ogni caso estremamente pericoloso. L' incognita si trova al Colle. Come reagirà Mattarella? Il presidente della Repubblica scenderà a patti o farà muro? La spregiudicatezza di Renzi rischia di far saltare il banco e quindi di spezzare il piano filoeuropeista imbastito dalle parti del Quirinale, che ora comincia a scarseggiare di assi nella manica. Nelle prossime settimane ci sarebbe anche da divertirsi, se in ballo non ci fosse il nostro Paese.
Vittorio Feltri per ''Libero Quotidiano'' il 17 settembre 2019. Matteo Renzi è un furbacchione, e questo lo sappiamo da sempre. Ha commesso qualche errore grave allorché era a capo del governo, però non ha perso l’astuzia che gli consente di mettere nel sacco amici e nemici. È noto che è stato lui a combinare il pasticcio dell’esecutivo giallorosso, trascinando nel dirupo Zingaretti e la sua banda di assetati di potere. Ormai i giochi sono fatti e ne subiremo le conseguenze fino in fondo, mentre Salvini rosica e forse si è pentito di aver adottato la linea dello sfasciacarrozze. È solo una ipotesi che verificheremo nel tempo. Ciò che invece vedremo presto è la strada scelta per l’immediato futuro da Renzi. Il quale è pronto a creare un proprio partito, separandosi dai democratici allo scopo di tenere il gabinetto Conte per le palle. Egli dispone di un gruppo di parlamentari sufficiente a determinare i destini del foggiano e della sua troupe. Se il Matteo di Firenze decidesse di bocciare un qualsiasi provvedimento dell’attuale maggioranza sarebbe immediatamente crisi di governo. Addio coalizione e addio sogni di gloria. In pratica la vita del premier dipenderà dagli umori e dalle idee dell’ex presidente del Consiglio. Che ha voluto unire il Pd al M5s non soltanto per fare fuori la Lega, ma anche per menare il torrone. Infatti i democratici se privati dei renziani non saranno più all’altezza di tenere in piedi l’esecutivo. In altri termini comanda Matteo pur disponendo di un esiguo numero di deputati e senatori ubbidienti. Chiamatelo scemo. Da notare che quest’uomo era dato per spacciato, quando viceversa è più sveglio dei fessi che lo volevano eliminare. Mi sa che prima o poi egli si divorerà Zingaretti e la sua corte di sprovveduti.
Roberto Bordi per Il Giornale il 17 settembre 2019. Alla fine è successo: Matteo Renzi ha lasciato il Pd. Dopo mesi di voci e indiscrezioni, la scissione è avvenuta. A confermarlo è stato lo stesso ex premier con un post su Twitter: "C’è una strada nuova da percorrere. Lo faremo zaino in spalla, passo dopo passo. Offriamo il nostro entusiasmo a chi ci darà una mano ed il nostro rispetto a chi ci criticherà. Ma offriremo soprattutto idee per l’Italia di domani. Ci vediamo alla Leopolda". Parole che non lasciano indifferente il popolo dei social, spaccato tra favorevoli e contrari. Particolarmente coinvolto il popolo del Pd, che ora dovrà scegliere se seguire Renzi al centro o proseguire con Zingaretti. Ettore non ha dubbi: "Questa volta non vi seguo. Basta scissioni e divisioni a sinistra". Anche Marco non condivide la scelta di Renzi: "Caro Matteo, cambiare idea ogni 12 minuti non porta da nessuna parte. Bieco opportunismo, questo è il tuo. Hai perso una grande occasione, l'ennesima". ClaClo, che come foto profilo ha il mitico "Guglielmo il dentone" interpretato al cinema da Alberto Sordi, ironizza: "La nascita della nuova Dc, era tutto scritto". Franz, elettore leghista, si spinge un po' oltre: "Il vostro entusiasmo, equivale a devastare l'italia, bischero. Le idee tienile per i tuoi tirapiedi. Purtroppo sei a quota 0 come persona e come credibilità. La tua politica fa piangere gli italiani e ingrassare i clandestini". Giorni, un altro sostenitore del centro-destra, invece, gli concede l'onore delle armi: "Li hai fregati tutti. Ora non potranno neanche fare la pipì senza chiedertelo. Tripletta Conte Zingaretti Di Maio... da oppositore sei stato abile". Mentre Luigi attacca: "In meno di 10 anni lei è riuscito a fracassare il Pd, che già aveva problemi di suo, come da fosca premonizione addirittura di D'Alema. Missione compiuta!". Insomma, non mancano le critiche, anche aspre. Ma c'è chi, come la signora Marta, si schiera dalla parte di Renzi: "In tanti saremo con te". Katya è addirittura entusiasta: "Grande Matteo, avanti così con le tue idee e innovazioni! Abbiamo bisogno di gente come te in Italia. Io sto con te! Chi ti attacca ha solo paura!". Paola è più poetica: "Pronta ad afferrare quello zaino e partire", mentre Roberta scrive: "Ci aspetta una strada da percorrere e una nuova casa da costruire. L’entusiasmo non ci manca e la determinazione pure". Se un'altra Paola, ermetica, risponde: "Ci sono", Michele è un pochino meno stringato: "Bene, anche i tempi sono giusti. Avanti insieme, siamo in tanti".
Fulvio Abbate per Huffingtonpost il 18 settembre 2019. “Il nome della nostra nuova sfida sarà “Italia Viva”, annuncia Renzi, aggiungendo il dettaglio dei fedelissimi che lo seguiranno nella traversata del deserto: “Sono più di 40 i nostri parlamentari, saranno 25 deputati e 15 senatori e ci sarà un sottosegretario, non due”. Puntiglioso. Italia Viva, dunque. Se c’è un’Italia Viva, occorre immaginarne l’opposto, il suo doppio negativo, un’Italia mortuaria, trapassata, spettrale, infelice, antiquata, “rosicona” (cit.) cui appunto opporre un’Italia vitale, convinta di sé, gagliarda, propositiva, giovane, ergo Viva l’Italia e, già che ci siamo, Forza Italia. Esistono numerosi modi per declinare in termini iconico-elettoralistici l’Italia, sia in senso neo-risorgimentale sia in senso turistico, variante da diportisti, in possesso di un’ideale patente nautica della politica. E questo Renzi lo ha spiegato molto bene, con la banalità e il luogo comune che gli sono propri, schiuma di parole, flatus vocis: “Il tema è parlare, non fare una cosa in politichese, antipatica, noiosa, ma parlare a quella gente che ha voglia di tornare a credere nella politica” (sic). Parlare, esatto, parlare. E ancora, nell’ordine: antipatia, noia, convincersi d’essere necessari (soprattutto a se stessi) e dire ciao ciao, anzi, “ciaone” ai parenti serpenti: “Io voglio molto bene al popolo del Pd, per 7 anni ho cercato disperatamente giorno dopo giorno di dedicare loro la mia esperienza politica. Dopo di che le polemiche, i litigi, le divisioni erano la quotidianità”. L’altruismo del protomartire. Traduzione: ogni supplizio ha un limite, e io mi rifiuto di finire come San Sebastiano. Amor proprio. Dunque, occorre qualcosa di vivo, di “nuovo”, assodato, ascoltate bene, che “il partito novecentesco non funziona più. Voglio fare una cosa nuova, allegra e divertente ma che metta al centro i problemi. I parlamentari li ho lasciati tutti a Zingaretti. Basta con questa cosa che se faccio una cosa io c’è sempre un retropensiero” (sic). Italia Viva, Italia Allegra, Italia Tarantella post-ideologica, Italia come una rotonda sul mare con vista possibilmente non a sinistra. Italia Viva, dunque. Per la scelta di un simile nome, non nuovo e neppure particolarmente allegro, c’è da immaginare gli spasmi delle meningi dei pensatori della Leopolda - forse i Baricco, e magari anche psicanalisti per ceti medi riflessivi con prenotazione obbligatoria quale Massimo Recalcati - convocati per le manovre del varo. E perfino Sgarbi, che quella dicitura già utilizzava nel 2014 per suoi simposi tra arte e tribuna politica da assessorato di provincia. Italia Viva, cioè noi, sì, fattivi, trasmettiamo un pensiero positivo. Per restare nella schiuma, c’è perfino un po’ di Jovanotti e del suo tour balneare nel nome scelto, doverosi richiami alla memoria d’altre edificanti banalità, tra cocker e nostalgie kennediane, veltroniane, come assai presto scopriremo. Viva, o resuscitata che sia, l’Italia immaginata, minacciata dall’attivismo di Matteo Renzi, accanto al riferimento alla propria esistenza in vita, si nutre di un concetto, come da sempre spiegano i filosofi, assolutamente aleatorio, improbabile, inavvicinabile, cioè il “futuro”. Illustra infatti Aristotele che l’affermazione secondo cui “domani vi sarà una battaglia navale oppure non vi sarà una battaglia navale” è indimostrabile. Assodato quindi che il futuro in sé non esiste, restano piuttosto le molte sciocchezze che si pronunciano in nome di esso, anche in occasione della nascita di una nuova formazione politica che giunge a noi insieme al ghigno del suo promotore. Pensandoci bene, è stato proprio un Baricco, anni addietro, a pronunciare una banale sentenza-manifesto nutrita di feticismo letterario per circostanze analoghe, Melville declinato, appunto, alla maniera di un Jovanotti: “Occorre lanciare un arpione al futuro”. Sentenze che, nel migliore dei casi, esistono nelle canzoni, “… e se è una femmina si chiamerà Futura, il suo nome questa notte mette già paura”. E ancora: “Sarà diversa, bella come una stella, sarai tu in miniatura…” un’immagine dove sembra quasi di vedere Maria Elena Boschi, tornata a imporsi come evento destinato ai taccuini dei cronisti per piccine ragioni contingenti, posto che non siamo né al Teatro San Marco di Livorno nel gennaio del 1921, quando nacque il partito dei comunisti, né nel 1994 quando Berlusconi proclamò in tv che “l’Italia è il Paese che amo”. Da Italia Ama a Italia Viva c’è un passo. Se davvero ancora esistesse un presidio intellettuale, se un Cacciari non fosse ottenebrato dal narcisismo, proprio quest’ultimo - che infatti tuttavia si è prontamente manifestato - avrebbe il dovere civico di spiegare a Matteo e ai suoi che il futuro è, appunto, pura illusione, insieme alla non meno impalpabile speranza. O forse, al momento, con quel nome da bevanda del mattino, Renzi ha soltanto cura di suggerire pensieri cosiddetti positivi, pensieri che implicitamente, fantasmaticamente, possano indicare la definitiva sconfitta degli odiati “post-comunisti”. I D’Alema, i Bersani, trasfigurati, rottamati. E qui si torna al già citato “futuro”, alla necessità renziana di “fare una cosa nuova, allegra e divertente” (sic). Insomma, qual è la prospettiva che Renzi immagini per un Paese che si pretenda vivo? Finora, l’unica indicazione chiara sembra escludere un intento moderato, centrista, unitario, proclamando in filigrana semmai unicamente la pervicace intenzione di abbattere “questo governo perché è troppo di sinistra”, un augurio, un auspicio che sembra essere ancor più terribile d’ogni invito a “stare sereni”. Nel frattempo, il generoso Andrea Marcucci, attuale presidente dei senatori del Pd, sodale di Renzi, fa eco con spirito entrista: “Resto a fare il mio lavoro nel Pd, non condivido la scelta di Matteo, sono ancora convinto che ci sia uno spazio importante per i liberaldemocratici come me. Non sarò mai un nemico di Matteo, mai diventerò un suo denigratore. Nel Pd mi sento ancora a casa mia, se si dovesse trasformare in un soggetto sempre più simile al Pds, mi sentirei un estraneo”. Come dire, … e l’ultimo chiuda la porta. Non prima di avere falciato ogni residuo stelo d’erba di sinistra. Parafrasando i classici, fecero un deserto e lo chiamarono “vocazione maggioritaria”. L’ho detto che la scritta “Italia Viva” stava già sui pullman di Veltroni, suo slogan nel 2008? Ora lo sai.
Marino Niola per “la Repubblica” il 24 settembre 2019. Pinocchio, il barone rampante e Gian Burrasca. Provate a mescolare questi tre personaggi per farne una sola persona e vi ritroverete davanti Matteo Renzi. Perché il fondatore di Italia Viva (e speriamo anche vegeta), ha tre corpi. È uno e trino. Ma non trinariciuto. Di Pinocchio ha l' oscillazione continua fra verità e bugia. Ma non perché, come sostengono i suoi più acerrimi nemici, dica tutto e il contrario di tutto con la stessa faccia tosta. Ma piuttosto perché quella postura a dispetto, quella impermeabilità fisica, quella superficie che tutto riflette e rimbalza, quella elasticità accelerata da bambolotto esagitato, è lo specchio del burattino collodiano che dorme in ogni italiano. Sempre pronto a recitare la verità ma a praticare sistematicamente la menzogna. Sempre alla soglia fra detto e non detto, fra opportunismo e buon senso, fra prudenza e innocenza. Nel Seicento il grande Torquato Accetto, filosofo e uomo di mondo, la chiamava "dissimulazione onesta". Nel senso che, in certe circostanze della vita, mentire può essere un segno di saggezza e non di doppiezza, oltre che un' arma contro i forti e i prepotenti. Se non addirittura una virtù, che permette di mostrare di noi solo quel che vogliamo far trasparire. Insomma, il leader toscano ha un percorso di crescita che somiglia alla deburattinizzazione di Pinocchio. A una costruzione di sé perseguita somministrando sistematicamente la verità in nanodosi. Step by step . Del barone rampante invece Matteo ha l' iconoclastia rottamatoria. E quella fame di azione che lo porta a spaccare tutto. Proprio come fa Cosimo Piovasco di Rondò, il personaggio nato dalla penna di Italo Calvino. Che, trasportato dalla sua irruenza giovanile e dissacratoria, usa lo scalone d' onore del palazzo avito come uno scivolo e maldestramente rovescia i busti degli antenati, suscitando le ire del suo nobile padre. Ma in realtà Cosimo quell' eredità familiare, quel retaggio di passato, li ha a cuore anche più del suo imbalsamatissimo genitore. La sua è una strategia impertinente ma dirompente, contro una tattica prudente ma perdente. Perché capisce che il solo modo di salvare certi valori è fare tabula rasa e ripartire. E questa convinzione lo rende tetragono, ingovernabile, inconvincibile e irremovibile. Gli dà la spinta per ribellarsi ai suoi genitori e al suo mondo. Al punto da decidere di abbandonare quelli che hanno sempre i piedi per terra e la testa nel presente e di andarsene a vivere sugli alberi, conducendo un' esistenza rampante, fra un ramo e l' altro, perdendo ogni contatto con i suoi ex compagni terricoli. Di Gian Burrasca, alias Giannino Stoppani da Firenze, l' uomo della Leopolda ha perfino il ciuffetto discolo e il portamento squieto. E proprio come il personaggio creato nel 1912 da Vamba, al secolo Luigi Bertelli, non esita a dinamitare istituzioni e situazioni. Familiari e sociali. Scolastiche e politiche. Manda a monte il matrimonio della sorella, e sputtana il farisaico cognato che si è candidato al Parlamento, mettendo fine alla sua carriera politica. Insomma, Giannino passa su tutto e tutti come un uragano e si lascia dietro le spalle una scia di morti e feriti. E tutto per la sua esuberanza quasi ormonale, per un levantamiento fisiologico, quasi organico, che ha in sé un gene costruttivo e un antigene distruttivo. In realtà l' ex presidente del Consiglio non è il solo abitante del Palazzo a essere uno e anche altro. Se stesso e insieme la somma dei caratteri di fondo e dei caratteristi di superficie dell' antropologia politica nazionale. Che ha sempre pescato a piene mani in quel deposito di profili, di tipi e di stereotipi umani che affonda le sue radici nella Commedia dell' Arte. Nei Pulcinella che imbrogliano perfino se stessi, negli Arlecchini che servono due padroni, nei Pantalone che pagano sempre le spese, nei Balanzone che magnano impuniti. E ancor prima nelle grandi maschere del teatro latino. Dal Miles gloriosus di Plauto, spaccone truce e vanaglorioso che non le manda a dire ma in compenso le prende. Fino a Trimalcione, il cafone arricchito, padre di tutti i bunga bunga. Una volta si diceva che ogni capo ha due corpi, quello fisico che è solo suo e quello politico che è di tutti perché rappresenta la collettività. Nel caso di Renzi invece i corpi sono tre. Tutti messi in scena, ostentati, sovraesposti. E tutti profondamente nazionali. In realtà Matteo è un italiano al cubo.
Nanni Delbecchi per “il Fatto quotidiano” il 24 settembre 2019. "Gestisco io l'evento". Gestisce lui, Lucio Presta, l'agente di Benigni, Bonolis e tanti altri Vip televisivi. Gestisce lui, come gestiva l' evento Pippo Baudo, solo che al posto di Sanremo c' è la Leopolda. "Matteo, tu sei una star, ti devi comportare da star", dunque devi avere me come agente - è fattuale, direbbe Feltri - nella speranza che Beppe Caschetto sia troppo radical chic per occuparsi di Salvini. In attesa di vedere Bonolis condurre il Festival della Leopolda in diretta da Firenze, questa alleanza strategica dà già due certezze. Renzi è davvero figlio non tanto di Berlusconi, ma della deriva scellerata che, nel corso del decennio in cui B. consolidava il suo polo televisivo, ha trasformato la politica italiana in un reality-show permanente. Se B. avesse le tette, disse Biagi, avrebbe fatto anche l' annunciatrice; gli bastò scendere in politica e le tette non servirono più. Venticinque anni dopo, le ideologie sono morte, le scuole di partito roba vecchia. Per Italia Viva ci vuole "il format giusto", come per Il Grande Fratello, e un indizio arriva dal documentario Firenze secondo me, sempre a cura della ditta Renzi-Presta. La Politica secondo me avrà probabilmente la stessa struttura: Renzi mattatore in primo piano, al centro, a destra, a sinistra, sopra e sotto, mentre ogni tanto sullo sfondo si intravede qualcosa. Nel documentario Matteo impallava Giotto, Michelangelo, Leonardo. Qui oscurerà Ettore Rosato, Davide Faraone, Maria Elena Boschi. Sta maturando.
“FINALMENTE RENZI È FUORI DAL PD: DOVEVA USCIRE CINQUE ANNI FA”. Silvia Truzzi per “il Fatto quotidiano” il 18 Settembre 2019. Prime parole di Massimo Cacciari quando gli chiediamo che pensa dell' intervista su Repubblica in cui Matteo Renzi annuncia il suo addio al Pd. "Impressione positiva, è un discorso lucido. Finalmente", comincia il prof. E poi aggiunge: "Certo è un peccato sia così tardivo. Se l' avesse fatto cinque anni fa la storia di questo Paese sarebbe stata diversa Speriamo di non sentire adesso piagnistei per l' unità perduta. Renzi si è evidentemente reso conto di quello che ho predicato, invano, per anni: il Partito democratico è un generoso progetto fallito sin dall' inizio. Meglio tardi che mai, comunque".
Professore, Renzi dice: "Mi hanno sempre trattato come un estraneo, come un abusivo". La responsabilità è del partito?
«La responsabilità è interamente sua nel non aver capito che era un estraneo. Sulle macerie del Pd ha fatto un'Opa dall' esterno: non apparteneva a nessuna delle culture confluite nel Pd e non ne proponeva una diversa. Voleva semplicemente rottamare il vecchio. Ma con la rottamazione non si costruisce una macchina nuova».
L'ex premier ha rivendicato il tempismo dell'operazione: non è un agguato, dice, perché tutto è avvenuto quando il governo Conte bis era già nato. È così?
«Sì, ha ragione. Non ha fatto la scissione come gli altri che l'hanno fatta il giorno prima delle elezioni».
È il secondo ex segretario che esce dal Pd: una maledizione?
«Questo dipende dal fatto che non c'è il Pd. Speriamo che grazie a questa mossa di Renzi, tardiva ma necessaria, il Pd si ricostituisca attorno alla leadership di Zingaretti, che certamente non è l' uomo solo al comando e ha le capacità di creare un gruppo dirigente».
Che dovrebbe fare Zingaretti, secondo lei?
«Un vero congresso, con le tesi e una discussione seria, dove si può misurare con altre posizioni che esistono ma che non sono più completamente dissimili e divergenti come quelle tra i vecchi comunisti e Renzi».
Lei ha capito qual è il nodo politico sul quale si è consumata la rottura?
«Renzi vuol fare Macron. I contenuti poi saranno quelli del suo governo, ispirati a un pensiero vagamente liberal. Che in Europa si possono incontrare con personalità come Macron, appunto. E in Italia con Conte. Un' intesa politica tra Conte e Renzi sarebbe molto logica: sono molto affini».
Lei tutta questa vagheggiata voglia di centro la vede?
«Al momento no. In prospettiva sì: mica si può andare avanti con la battaglia tra estremismi. Non si può pensare di governare il Paese tra populismi di destra e di sinistra».
Il punto è: il Pd si sposterà a sinistra?
«Il suo destino è diventare un partito socialdemocratico».
D'Alema e Bersani rientreranno?
«Può darsi, ma è secondario: non spostano nulla».
Renzi riferisce dell'sms di Franceschini (fuori dal Pd non ti considererà più nessuno) e gli risponde dicendo: "Mi piace da impazzire quando mi danno per morto". Troppo compiaciuto?
«È una risposta simpatica. Ma poi di che parla Franceschini, che ha perso anche a casa sua e si atteggia a grande capo? Renzi gli risponde dicendogli che lui ha portato il partito al 41 per cento e che a Firenze lui i voti li ha presi. È stato anche troppo gentile. Io dissento praticamente da tutto quello che Renzi ha fatto. Ha compiuto errori pazzeschi, per presunzione, arroganza, per ignoranza anche. Ma a differenza di Franceschini, che incarna l' eterno democristiano, è un animale politico».
I sondaggi danno la cosa di Renzi tra il 3 e il 5 per cento.
«È una quota a salire. E poi non mi stupirebbe se, attraverso le varie Boschi, i cerchi magici toscani, ci fossero già degli accordi con Conte. Molto dipenderà da Zingaretti: se va avanti con decisione il Pd può recuperare molto. La condizione è che il governo funzioni, altrimenti andremo alle urne in primavera».
È in grado di rimettere insieme i cocci?
«Finché c'era Renzi doveva provare a tenere insieme i cocci. Adesso deve dimostrare di sapere guidare. E fondare un nuovo partito: nuove strutture, nuove direzioni, nuovo radicamento sul territorio. Che si chiami partito democratico o Geppetto non importa».
L'Aria che tira, la rivelazione di Myrta Merlino: "Ho parlato con molti renziani". Bomba in diretta. Libero Quotidiano il 18 Settembre 2019. Durante la trasmissione di La7 L'Aria Che Tira, la giornalista e conduttrice Myrta Merlino ha svelato alcuni retroscena riguardanti la fuoriuscita di Matteo Renzi dal Pd. La Merlino ha parlato con fonti vicine ai renziani e, in diretta, ha rivelato che l'alleanza tra Pd e M5s può essere qualcosa di più di un patto momentaneo: "A proposito di fonti, ho parlato con molte delle persone che andranno via con Matteo Renzi e la giustificazione era: “Nel partito circola un'idea che l'alleanza con i 5 Stelle diventi permanente e diventi un grande partitone di Sinistra, giustizialista, contro il Capitalismo, il progresso e le infrastrutture”". Insomma, l'idea di poter creare un unico partito con i grillini ha fatto scappare a gambe levate i renziani da via Sant'Andrea delle Fratte. Per Matteo Renzi e soci era un rospo troppo grosso da ingoiare.
Marco Antonellis per Dagospia il 19 settembre 2019. Cherchez la femme verrebbe da dire. Già perché se Giggino di Maio è un cerca di una candidatura civica al femminile per superare l'empasse in Umbria e convolare a giuste nozze (anche locali) con il Pd (la scelta verrà fatta nelle prossime ore), le solite malelingue giurano che le donne abbiano avuto un ruolo determinante nella scissione renziana dal Partito democratico e nella conseguente nascita di Italia Viva. Sapete che si dice al Nazareno? Che "Matteo e Maria Elena si sono riavvicinati moltissimo questa estate. È lei l'indiscussa "reginetta" del nuovo gruppo-partito di Matteo Renzi, la vera "star". Ma proprio per questo si sono acuite le rivalità con altri personaggi storici del "giglio" come Luca Lotti e Anna Ascani che infatti hanno preferito rinunciare (definitivamente?) alla nuova avventura renziana. D'altra parte l'inner circle renziano non è mai stato particolarmente unito nemmeno ai tempi d'oro di Palazzo Chigi". Tanto che ora, si dice ai piani alti del Pd, la vera sfida si giocherà proprio tra Renzi e Lotti: la nuova creatura di Renzi vanta 39 tra deputati e senatori, mentre l'area che fa capo a Lotti e Guerini ha 34 deputati e 19 senatori. In poche parole, su un totale di poco meno di un centinaio di renziani eletti il 4 marzo 2018, 53 parlamentari restano nel Pd mentre 39 andranno con Renzi in Italia Viva. Dunque, Base Riformista ha più parlamentari di Italia Viva. Anche se aleggia il sospetto che all'interno del Pd ci sia chi stia aspettando soltanto un cenno da parte del "capo" per passare dall'altra parte della barricata: insomma, l'avanguardia con Italia Viva e le retrovie nel Pd. Se così fosse, Machiavelli non avrebbe saputo fare di meglio. Ps, avvertite Matteo Renzi che oltre al premier Conte, anche i 5Stelle non hanno alcuna intenzione di sedersi al tavolo con lui e trattare direttamente questioni governative e di coalizione. La volontà ora, come Dagoanticipato nei giorni scorsi e come riprendono in coro i giornaloni stamattina, è quella di trovare in parlamento una dozzina di "responsabili" (magari tramite la formazione di un apposito gruppo parlamentare) in modo da rendere vano ogni possibile condizionamento politico da parte del machiavellico leader toscano.
COME SI PREPARA LA SCISSIONE. Carmine Gazzanni per La Notizia Giornale il 18 settembre 2019. Non sono pochi coloro che ritengono che Matteo Renzi aveva già in mente da tempo di andar via dal Pd. Molto prima che lanciasse l’amo per un Governo giallo-rosso, molto prima che aprisse agli eterni nemici del Movimento 5 stelle per salvare l’Italia dalla deriva fascista e salviniana. C’è un fatto che avvalorerebbe, al di là di mille ricostruzioni, questa tesi. Sembrerebbe, infatti, che l’ex presidente del Consiglio non versi al partito – di cui fino a ieri è stato segretario – contributi da fine febbraio. Nel frattempo, però, la pagina Facebook di Renzi, soprattutto nell’ultimo periodo, ha ricevuto importanti sponsorizzazioni, quasi come – verrebbe da pensare – se si voglia rilanciare la sua persona. Tutto legittimo, per carità. Ma ci sono tutti gli elementi per pensare che l’idea di fondare un proprio movimento che avesse sin da subito un relativo peso all’interno di una maggioranza di Governo, non nasca dal nulla e nel giro di pochi giorni, ma che sia stata studiata a lungo e ragionata nei dettagli.
ASSENZE IMPORTANTI. Ma partiamo da principio. Dal gennaio di quest’anno, per quanto previsto dalla legge sull’Anticorruzione fortemente voluta dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, i partiti hanno l’obbligo di pubblicare mensilmente i contributi volontari ricevuti. E, ovviamente, la lista di parlamentari eletti è molto lunga. Vale per tutti, Pd compreso. C’è da dire, peraltro, che i dem sono senza ombra di dubbio i più “partecipativi” alla vita del partito di appartenenza: deputati e senatori versano mediamente una quota di 1.500 euro ogni mese (o quasi). Ma ecco il punto. Sarà semplicemente un caso, ma l’ultimo versamento di Renzi risale al 25 febbraio: 6.500 euro. Una quota certamente non banale, ma da allora il nome dell’ex segretario scompare dal lungo elenco. Occhio anche alle date: forse anche questa è solo una coincidenza, ma il 17 marzo 2019 Nicola Zingaretti diventa segretario del partito, un nome certamente non gradito a Renzi e ai renziani. Difficile dire se le due cose siano legate, ma è un fatto che dopo la nomina di Zingaretti il senatore toscano non ha versato più un centesimo. Esattamente come la fedelissima Maria Elena Boschi che, se si vuole, ha fatto anche meglio (o peggio, a seconda dei punti di vista): il suo nome non compare mai nel lungo elenco dei contributori. Zero euro, dunque, sin da inizio anno. Dettagli, questi, che lasciano pensare come già da mesi non si credesse più fervidamente al Partito democratico. E, non a caso, si è deciso già da tempo di spostare l’asse di speculazione (e di investimento) altrove. Il Comitato “Azione Civile – Ritorno al Futuro”, che tra le altre cose organizza la Leopolda, ha speso negli ultimi 90 giorni oltre 40mila euro per sponsorizzare la pagina Facebook di Renzi. A rivelarlo, nitidamente, sono i dati delle sponsorizzazioni del social network. Nessun politico ha speso tanto nell’ultimo periodo. Basti questo: la pagina Facebook del Pd ha sborsato in sponsorizzazioni negli ultimi 90 giorni circa 11mila euro. Il quarto di quanto versato sulla pagina dell’ex presidente del Consiglio. Per rendersi conto dell’entità del finanziamento basta sottolineare che neanche Coca Cola Italia ha speso tanto, né Greenpeace né Amnesty. Che ci sia una strategia – come tutto ciò che riguarda il modo del media marketing – è fuor di dubbio, dunque. Tutto sta ora a capire quale sia l’obiettivo ultimo di Matteo Renzi.
Italia viva, così è nato il nome del nuovo partito di Renzi: un misto tra De Gregori, Veltroni e rottamazione. Pubblicato mercoledì, 18 settembre 2019 da Corriere.it. «Italia viva». Il nome scelto da Matteo Renzi per il suo nuovo partito è nato da un mix particolare: tra Francesco De Gregori, Walter Veltroni, rottamazione e anche un bel pizzico di Mario Capanna, uno dei leader del ‘68. Ma facciamo un po’ di ordine. Alla Leopolda del 2012, poco prima della grande sfida (persa) contro Pier Luigi Bersani per la candidatura a premier, Renzi incassa una partecipazione fortissima, grazie anche ad una campagna di comunicazione che punta molto sulle emozioni. La Leopolda della «rottamazione», per intendersi. «Italia viva» è il titolo di un album di De Gregori, cantautore al quale l’allora sindaco di Firenze è molto affezionato. E così, partendo da quel 33 giri, lo slogan della Leopolda diventa: «Viva l’Italia viva», sottotitolo: «Il meglio deve ancora venire». Ben prima di quella Leopolda, per la campagna elettorale del 2008, «L’Italia viva» era stato lo slogan scelto dal Pd di Walter Veltroni, scritto a caratteri cubitali sul pullman che fede il giro d’Italia. Ma il creatore primigenio (e inconsapevole) del futuro slogan politico fu Mario Capanna, uno dei leader del movimento del Sessantotto, che nel 2000 scrisse il libro «L’Italia viva». Siamo davanti ad un plagio? «C’è già un pool di avvocati che sta studiando questa cosa del plagio nei miei confronti — annuncia Capanna all’Adnkronos —. Si sono offerti spontaneamente, non da me richiesti. Però anche la campagna elettorale di Veltroni nel 2008 si chiamava «L’Italia Viva»... «Ricordiamo tutti come andò, non gli portò certo fortuna — conclude Capanna —. Credo che anche in questo caso non porterà fortuna a Renzi: il plagio non paga mai, ha le gambe corte. Lui prende una cosa buona e la converte nel suo contrario, una cosa cattiva». Intanto l’ex premier Renzi ha registrato il sito del nuovo partito: casaitaliaviva.it.
Matteo Renzi sta spendendo tremila euro a settimana su Facebook. Negli ultimi mesi l'ex segretario del Pd ha investito oltre 40mila euro in pubblicità sui social network. Una campagna partita ben prima della nascita del nuovo governo. Segno che la scissione era stata programmata indipendentemente dalle ultime polemiche sui sottosegretari. Mauro Munafò il 18 settembre 2019 su L'Espresso. Negli ultimi tre mesi nessun politico italiano ha speso quanto Matteo Renzi su Facebook. Un investimento importante, circa 40mila euro, segno di una strategia meditata da tempo e che ha trovato la sua logica conclusione dell'annuncio della scissione del Pd e della nascita del suo nuovo movimento: Italia viva. Ad anticipare le mosse politiche dell'ex segretario dem è stata proprio la spesa fatta in pubblicità sul social network più utilizzato per aumentare la diffusione dei suoi messaggi. Una spesa piuttosto anomala sia per la quantità di denaro investito (quasi tremila euro a settimana), sia per il periodo scelto. Mentre infatti altri politici hanno impegnato cifre importanti in prossimità delle elezioni, Renzi ha adottato una strategia del tutto diversa. Dopo mesi di scarso utilizzo dei social e di investimenti quasi nulli, Renzi ha infatti ricominciato a martellare proprio mentre gli altri erano più "tranquilli". L'elaborazione dell'Espresso dei dati forniti da Facebook sulla sua libreria inserzioni aiuta a fare un quadro più completo. Negli ultimi novanta giorni Renzi ha speso per l'esattezza 40.461 euro in pubblicità su Facebook, di cui 13.736 euro solo negli ultimi trenta giorni. Per dare un'idea del rapporto di grandezza, negli ultimi tre mesi Giorgia Meloni ne ha spesi appena 1.700 circa e gli altri big ancora di meno se non addirittura zero. Anche il numero di inserzioni pagate aiuta a capire le mosse di avvicinamento di Renzi al suo partito personale. Dopo mesi di investimenti zero, la pagina di Renzi ha iniziato a comprare visibilità a maggio con 8 inserzioni, che sono diventate 30 a giugno e sono schizzate fino alle 66 di luglio e alle 71 di agosto, mesi in cui proprio l'ex sindaco di Firenze ha ricoperto un ruolo centrale nella nascita del secondo esecutivo Conte. Un protagonismo politico, anche all'interno del Pd, che gli investimenti pubblicitari dimostrano essere stato soltanto una tappa della scissione già decisa. Come in un primo momento sembrava confermare un'altra "traccia" digitale lasciata sul campo: come segnalato da David Allegranti sul Foglio , già il 9 agosto venivano registrati due domini web per il nome ItaliaViva. Una semplice coincidenza, ha spiegato però il registrante a Repubblica : lui ha addirittura fatto campagna per il no al referendum.
Il sito di Italia Viva registrato già il 9 agosto. Prima della nascita del governo fra Pd e Cinque stelle, Renzi ha avviato il suo piano per lanciare il suo nuovo partito. David Allegranti su Il Foglio il 17 Settembre 2019. “Il nome della nostra nuova sfida sarà Italia Viva”, ha detto ieri Matteo Renzi, a Porta a Porta, dopo l’annuncio dell’addio al Pd. Un addio ben meditato a quanto pare, visto che il sito “italiaviva.org” è stato registrato lo scorso 9 agosto, il giorno dopo alcune sue dichiarazioni che in sostanza preannunciavano le sue intenzioni: “Di sicuro nascerà una forza di centro, su questo non ci sono dubbi”, aveva detto in un colloquio comparso sulla Stampa. Anche “italiaviva.eu” è stato registrato il 9 agosto. Prima dunque della nascita del governo fra Pd e Cinque stelle guidato da Giuseppe Conte. Segno che Renzi avrebbe comunque fatto la scissione e che poco c’entrano le corrispondenze d’amorosi sensi fra i due partiti alla ricerca di una “casa comune”, Italia Viva, quindi: uno slogan che Renzi aveva già usato per la Leopolda 2012, “Viva l’Italia viva”, e che, prima di lui, aveva usato anche Walter Veltroni per la campagna elettorale del 2008. Ma “L’Italia viva” è anche il nome di un libro di Mario Capanna. Quanto ai numeri dei parlamentari che lo seguiranno, è stato Renzi a illustrarli a Porta a Porta: “Sono più di 40 quelli che stanno con noi. 25 deputati e 15 senatori. Ci sarà un sottosegretario, non due”.
"I siti di Italia viva li ho registrati io ad agosto, ma con Renzi non c'entro nulla". Alessandro Risso, torinese, a capo di un gruppo di amici popolari: "Quando ho saputo dalla tv che l'ex premier chiamava così il suo partito sono rimasto senza parole". Andrea Palladino il 18 settembre 2019 su L'Espresso. Un caso, un’incredibile coincidenza: «Quando ieri sera ho sentito al telegiornale che il nome del partito di Renzi sarebbe stato "Italia viva" a casa siamo rimasti ammutoliti, increduli». Alessandro Risso, sessant’anni, di Torino, lo scorso 9 agosto aveva registrato tutti i domini disponibili con la denominazione del neonato gruppo politico: «Sì, ho preso anche il dominio eu, oltre a quello org – conferma a Repubblica – ed anche altri, insomma, quelli liberi». Contatti con Renzi? «Mai avuti», assicura. Risso la politica la mastica da decenni. Presidente dell’associazione popolari del Piemonte – una delle tante sigle regionali nate attorno alle ceneri della Democrazia cristiana – giornalista dalla fine degli anni ‘80, è oggi consulente degli enti locali dell’hinterland di Torino. Lontano, però, anni luce dal giro renziano: «Non conosco Renzi, sono stato un attivo propagandista per in No al referendum costituzionale, da iscritto Anpi e popolare alla don Sturzo non potevo che schierarmi in questa maniera». Si riconosce nell’area dei popolari radicata nella dottrina sociale della Chiesa. L’idea di "Italia viva" è nata quasi per caso, quando Salvini dava fuoco alle polveri della crisi, pochi giorni prima di Ferragosto. «Da tempo il mondo dei popolari si sta chiedendo se non valga la pena di tornare nella politica attiva, c’è molto dibattito su questo», racconta. «Online ci sono varie presenze, c’è un mondo variegato e c’è un bel dibattito, aiutato anche dal centenario del partito popolare che cade quest’anno». Con l’esplosione della crisi del primo governo Conte, Risso si attiva: «Mi sono chiesto cosa fare – spiega – non potevamo chiamarci popolari, di partiti così ce ne sono tantissimi, quello europeo è divenuto conservatore. Mi è venuta un’idea che avrei proposto ad altri e di mia iniziativa ho registrato il nome che avevo pensato, Italia viva. Mi sembrava un brand nuovo». E ora? «Non so cosa accadrà, vedremo».
L'EX PREMIER E IL VIZIETTO DI COPIARE I NOMI ALTRUI ITALIA VIVA ERA LO SLOGAN DI VELTRONI NEL 2008. Ilario Lombardo per “la Stampa” il 18 Settembre 2019. La storia del Pd, vista da Matteo Renzi, è un po' come il maiale: non si butta via nulla. E in epoca di educazione al riciclo, l' ex rottamatore è tornato nell' officina del partito che ha appena abbandonato per vedere che pezzi avanzavano. E così si è ritrovato a battezzare la sua nuova creatura con il nome "Italia Viva", che a tutti suonerebbe immediata con le parole invertite, come un grido di libertà, di rivalsa patriottica o come una canzone di Francesco De Gregori. Eppure nel Pd, appena Renzi ha svelato il nome del gruppo che sogna di farsi movimento e poi partito, subito è suonato all' orecchio un ricordo. 2008: lo slogan scelto per la campagna di Walter Veltroni è: "L' Italia Viva". Anzi sul pullman che lo porterà per 45 tappe lungo tutte le province italiane campeggiava quella scritta con accanto la W, di Walter ma anche di Viva.
E quale sarà lo slogan scelto da Renzi per le primarie del 2012 contro Pier Luigi Bersani?
"Viva l' Italia Viva", con il blu e il rosso che faceva un po' americano. In realtà "Viva l'Italia Viva" è la seconda opzione, che a metà corsa per la guida del Pd sostituì il più suggestivo "Adesso!", a sua volta copiato da Dario Franceschini che lo usò da candidato alle primarie tre anni prima. E così di plagio in plagio, Renzi non ha mai perso il vizietto della scopiazzatura, fino alla frettolosa scelta dell' ultimo nome. Anche perché il penultimo - Azione Civile - era la sigla del partito guidato da Antonio Ingroia che da buon ex magistrato ha sintetizzato la mania di Renzi in un reato: «È un tentativo di furto».
Matteo Renzi, quanti soldi ci rimette il Pd per la scissione. Libero Quotidiano il 17 Settembre 2019. Più di due milioni di euro. Per l'esattezza 2 milioni 110 mila euro. Tanto costerà alle casse del Pd di Nicola Zingaretti la scissione di Matteo Renzi, almeno per ora. Un vero e proprio tesoretto, considerati anche i tempi di magra per i partiti dopo il taglio al finanziamento pubblico. Ogni fuoriuscito renziano, infatti, porterà in dote all'ex premier il suo 'contributo annuale' al gruppo di appartenenza. Un deputato 'vale' 49mila euro per 12 mesi, mentre un senatore diecimila euro in più. E visto che si tratta di 25 deputati e 15 senatori pronti a dire addio ai Dem, come annunciato dallo stesso Renzi stasera a 'Porta a Porta', per arrivare alla cifra di oltre 2 milioni di euro, il conto è presto fatto. Numeri alla mano, i venticinque onorevoli, che nei prossimi giorni usciranno dal Pd, sono 'stimati' 1milione 225mila euro. Mentre 'valgono' 885mila euro i 15 senatori vicini a Matteo, che dovrebbero traslocare in blocco con il Psi di Riccardo Nencini, titolare del simbolo 'Insieme', che, presente alle ultime elezioni, a norma del nuovo regolamento del Senato, potrebbe fornire l'appoggio formale per la nascita di un nuovo gruppo a palazzo Madama.
Donazioni da finanzieri e industriali. Arriva il sostegno dei «poteri forti». Da Ferrero a Rattazzi e Serra hanno già staccato robusti assegni. Camilla Conti, Mercoledì 18/09/2019 su Il Giornale. Corruzione, evasione, pensioni troppo alte, costi eccessivi per la spesa pubblica rispetto al servizio prestato. Erano stati questi gli argomenti a tenere banco nel corso della cena per la raccolta fondi della campagna elettorale di Matteo Renzi organizzata a Milano il 17 ottobre del 2012, un anno dopo la prima Leopolda. Al debutto di Matteo nella City meneghina, si erano «attovagliati» tra gli altri il fondatore di Algebris, Davide Serra, il numero uno di Deutsche Bank Italia, Flavio Valeri, l'ex direttore generale di Bpm, Enzo Chiesa, Andrea Soro di Royal Bank of Scotland, l'uomo d'affari Francesco Micheli, ma anche giovani manager di Mediobanca e professionisti di studi legali milanesi. Ora, quasi sette anni dopo quella cena, Renzi ha scelto - parole sue - «una nuova strada da percorrere, lo faremo zaino in spalla». Ma nei salottini della finanza, non solo milanese, chi è ancora disposto a sostenere il suo nuovo partito e a riempire lo zaino? Tra gli irriducibili renzianers si confermano Serra e Micheli. Ma alcune new entry spuntano scorrendo le donazioni a favore dei comitati renziani Azione civile - Ritorno al futuro. Serra ha investito sull'amico Matteo altri 90mila euro. Circa 10mila euro sono arrivati da Gabriele Cipparrone e altri 25mila da Giancarlo Aliberti, entrambi di Apax Partners. Daniele Ferrero, primo azionista e ad della Venchi, azienda della cioccolateria, ne ha scommessi ben 100mila, l'imprenditore Lupo Rattazzi (figlio di Susanna Agnelli) 40mila. Si aggiungono le aziende come la Quintessentially Concierge (10mila euro) di Giulio Zambeletti che già nel 2015 aveva radunato circa duecento tra piccoli impreditori, professionisti, esperti della comunicazione e manager, per comprare una pagina del Corriere della Sera dal titolo «Noi continuiamo a sostenere Renzi» (costo: 140 euro a testa). Ad agosto sono arrivati inoltre 4mila euro dalla Ciemme Hospital (srl dell'imprenditore abruzzese, nonché presidente onorario del Pescara Calcio, Vincenzo Marinelli) che però compare anche tra i finanziatori di Forza Italia con 5mila euro. Manca per ora all'appello il nome di Oscar Farinetti, storico supporter renziano e fondatore di Eataly. Forse perché troppo impegnato nel cercare un partner nel Far East dopo aver accantonato per il momento la quotazione in Borsa e chiuso il bilancio 2018 con una perdita di 17 milioni. E i veri poteri forti del credito? La curiosità del 2012 verso il giovane Renzi, per forza di cose, non c'è più. E le grandi banche, come il mercato, devono metabolizzare il governo Pd-M5s e non avrebbero gradito molto la mossa di Renzi che rischia di creare instabilità e incertezza. Nel frattempo, si registra una scissione anche in quello che era il giglio magico. Il sindaco di Firenze, Dario Nardella, ha deciso di restare nel Pd. Sarà perché lunedì scorso due consiglieri del M5s a Palazzo Vecchio hanno votato a favore di due ordini del giorno collegati al programma e proposti dal Pd. Uno sulle Olimpiadi 2032, e uno che sostiene persino la necessità del «completamento del nodo Alta Velocità».
SCISSO DA LONTANO. Da Libero Quotidiano il 17 Settembre 2019. Matteo Renzi ha lasciato il Partito Democratico, ma stando alle donazioni ricevute, pare che qualcuno avesse intuito la sua mossa. Il boom è iniziato a fine agosto, proprio nel bel mezzo della crisi di governo. A elargire offerte ai comitati civici dell'ex premier sono stati i parlamentari cosiddetti renziani. Come ricostruito dall'Huffington Post, la corsa al versamento di deputati e senatori inizia il 20 di agosto: dopo una settimana, sul conto corrente bancario dei comitati di "Azione Civile", spuntano 36mila euro. Cifre ben più alte rispetto a quelle racimolate da gennaio ad allora. A luglio il vero e proprio boom con 260mila euro, di cui 100mila arrivano dalle tasche di Daniele Ferrero, amministratore delegato della Venchi, azienda specializzata nella produzione e vendita di cioccolato. Poi, ad agosto, le donazioni dei politici: Anna Ascani, Eugenio Comencini, Marco Di Maio, Andrea Ferrazzi, Laura Garavini, Nadia Ginetti e ovviamente Maria Elena Boschi. Dunque, la neo ministra dell'Agricoltura Teresa Bellanova, Mauro Del Barba, Davide Faraone, Ernesto Magorno e Mauro Maria Marino, Martina Nardi. E poi, via via, tutti gli altri: da Caterina Biti a Ettore Rosato, passando per Ivan Scalfarotto e Gennario Migliore, solo per citarne alcuni dei tanti. Sempre ad agosto, lo stilista di lusso Bruno Tommasini dona 20mila euro. Anche a settembre la raccolta non si ferma: per la campagna elettorale si contano già 220 euro raccolti. Tra i finanziatori più generosi emerge Davide Serra (90mila euro), poi Lupo Rattazzi (figlio di Susanna Agnelli) con 50mila euro, Quintessentially Concierge (10mila euro) e la Tci-Telecomunicazioni Italia (5.000 euro) del deputato Pd Gianfranco Librandi.
Valeria Pacelli per il “Fatto quotidiano” il 20 settembre 2019. Non solo la Open. Anche la Fondazione Eyu - che era presieduta dall' ex tesoriere del Pd Francesco Bonifazi, ora passato nelle file di Italia Viva - starebbe per chiudere i battenti: le attività sono state congelate. È una decisione sulla quale, secondo quanto risulta al Fatto, avrebbe inciso l' esplosione dell' inchiesta sui soldi arrivati alla fondazione da parte di una società che era riconducibile all' imprenditore Luca Parnasi, ora a processo, per altre vicende, con l' accusa di associazione a delinquere finalizzata a commettere reati contro la pubblica amministrazione. Si tratta di 150 mila euro pagati dalla Immobiliare Pentapigna Srl, a cavallo delle scorse elezioni politiche, per uno studio di ricerca. Quel denaro, però, per la Procura di Roma, potrebbe rappresentare un finanziamento illecito, tanto che Bonifazi, che ha respinto le accuse, è stato iscritto nel registro degli indagati. L'inchiesta è ancora in corso. Non si conosce l'intenzione dei pm, se quindi decideranno di chiedere un rinvio a giudizio o l' archiviazione. Però sembra che l' indagine abbia già sortito i primi effetti. Oggi il sito della Eyu non è più disponibile. E non lo era neanche a luglio scorso, quando però sarebbe stato hackerato. Poi è arrivata la decisione di non riaprire il sito che oggi risulta non più navigabile. Formalmente quindi la fondazione è ancora aperta, ma le attività sono state congelate. Al centro dell'inchiesta romana, come detto, vi è la ricerca commissionata da una società che era riconducibile a Parnasi. Il progetto - dal titolo "Case: il rapporto degli italiani con il concetto di proprietà" - viene pagato dalla Immobiliare Pentapigna - a fronte di una fattura del 22 febbraio 2018 - con due bonifici. Uno del 1° marzo 2018 dall' importo di 100 mila euro, un secondo per altri 50 mila euro effettuato quattro giorni dopo. Ora si dovrà capire come la fondazione ha inserito la fattura pagata dalla Immobiliare Pentapigna Srl nel bilancio del 2018. Sembra quindi che anche la Eyu potrebbe essere chiusa, proprio come la cassaforte renziana, la Fondazione Open. Ma una porta si chiude e un portone si apre. Infatti il senatore di Rignano, dopo esser uscito dal Pd e aver creato il partito Italia Viva, ha annunciato anche l'apertura della "Matteo Renzi Foundation". Abbiamo verificato se questa nuova fondazione sia già stata iscritta nel registro prefettizio di Milano (dove avrà la sede) come devono fare le associazioni, fondazioni e istituzione di carattere privato. E fino a ieri non risulta registrata. Ma non è tutto. Come rivelato da Repubblica, Renzi ha costituito anche una Srl: la Digistart. La società, con un capitale sociale di 10 mila euro, ha sede a Firenze allo stesso indirizzo della Cys4 Srl, di cui è presidente del cda l' amico Marco Carrai. La Digistart Srl, nata l' 11 maggio 2019, svolgerà una serie di attività. Tra queste nell'atto costitutivo si annovera "l' analisi dei processi comunicativi che collegano cittadini e imprese", ma anche attività di comunicazione "mediante l' organizzazione e/o partecipazione a convegni, seminari, incontri sia in Italia che all' estero". E ancora. La Digistart Srl svolgerà anche "attività di consulenza aziendale e assistenza in ambito strategico" e "attività di consulenza nell' ambito delle pubbliche relazioni e del marketing strategico al fine di migliorare il posizionamento dell' impresa o del singolo imprenditore".
Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della sera” il 21 settembre 2019. Ha ricevuto compensi da una società a titolo di prestazione professionale ma poi li ha versati nelle casse della Fondazione Open. È stato proprio questo a destare il sospetto che i soldi fossero in realtà la contropartita per aver agevolato gli affari dell' azienda. E per l'avvocato Alberto Bianchi è scattata l'accusa di traffico di influenze illecite. Adesso il lavoro della Guardia di Finanza va avanti con l'esame della documentazione contabile anche per verificare se quel passaggio di denaro fosse in realtà un finanziamento illecito. L'inchiesta avviata dalla procura di Firenze si concentra sui bilanci della Fondazione - chiusa nel 2018 - che faceva capo a Matteo Renzi e aveva come consiglieri di amministrazione Maria Elena Boschi (che era anche il segretario generale), Luca Lotti e Marco Carrai. Durante la perquisizione eseguita nello studio di Bianchi il 16 settembre scorso dalla Guardia di Finanza sono stati portati via i libri contabili, ma anche l' elenco dei finanziatori che tra il 2012 e il 2018 hanno portato nelle casse oltre sei milioni di euro. Risorse utilizzate per organizzare la Leopolda e altri eventi pubblici, ma anche appuntamenti politici dell' ex premier e del «giglio magico». Alcuni nomi sono noti e sono stati pubblicati sul sito, altri (privati e società) non hanno dato il consenso a rendere note le elargizioni. E tra loro si celerebbe anche l'azienda finita sotto accusa. Nei giorni scorsi i finanzieri sarebbero entrati anche nella sede legale proprio per acquisire la documentazione necessaria ad effettuare i riscontri. Secondo il procuratore Giuseppe Creazzo e l'aggiunto Luca Turco, Bianchi avrebbe mascherato la sua attività di «agevolatore» con un incarico di consulenza legale. Un modo per nascondere il vero scopo del contratto che - questa è l'accusa ipotizzata - mirava in realtà ad agevolare la conclusione di affari. I versamenti finiti al centro degli accertamenti sono stati effettuati nel 2016 e nel 2017 e la contestazione riguarda al momento le operazioni relative a questa società. I controlli potrebbero però essere ampliati ad altre prestazioni professionali proprio per verificare se si trattasse di un sistema più articolato. Un' eventualità che Bianchi nega e che il suo difensore Antonio D' Avirro si dice pronto a smontare «dimostrando che si tratta palesemente di un equivoco». Per questo il legale sottolinea che «in queste ore stiamo valutando se fare o meno ricorso al Tribunale del Riesame per il sequestro dei documenti. Abbiamo dieci giorni di tempo per farlo e a breve prenderemo la decisione». Bianchi ha sempre evidenziato come «Open sia la Fondazione italiana più trasparente in assoluto» e due giorni fa, quando la notizia dell' inchiesta è stata resa nota, si è detto «molto amareggiato» spiegando però di avere «messo a disposizione dei magistrati tutti gli elementi utili a chiarire la vicenda».
Gianluca Di Feo per “la Repubblica” il 20 settembre 2019. L' indagine della procura di Firenze va ancora una volta a sottolineare un tema fondamentale per la vita democratica: la trasparenza del finanziamento della politica. Al di fuori degli eventuali illeciti penali, che saranno oggetto del vaglio della magistratura, c' è un problema di fondo: l' impossibilità di conoscere chi contribuisce economicamente ai partiti. Finora le contabilità sono state a dir poco opache, con fiumi di milioni distribuiti a leader e correnti attraverso una selva di fondazioni, associazioni e simil-onlus prive di qualunque regola. A volte, come spesso ha denunciato Raffaele Cantone, avevano lo statuto di una bocciofila di paese. La fondazione "renziana" Open , ad esempio, era una delle pochissime a mettere online un dettagliato bilancio. Allo stesso tempo però ha mantenuto l' anonimato su circa il 40 per cento dei finanziatori. E non si tratta di somme irrilevanti: in sei anni ha ricevuto 6 milioni e 700 mila euro. Ma i sovvenzionatori che negano il consenso alla pubblicazione rimarranno per sempre segreti. E non è neppure possibile conoscere la destinazione dei fondi rimasti in cassa al momento della chiusura, almeno un milione e 300 mila euro, che il presidente Alberto Bianchi ha indicato come destinati a ripianare i debiti. Con la legge Spazzacorrotti il Far West sembrava destinato a finire. Per la prima volta sono state introdotte misure rigorose, con l' obbligo di denunciare sulle pagine internet entrate e spese superiori ai 500 euro. Queste regole sono rimaste essenzialmente teoriche, perché i siti dei partiti non risultano aggiornati. Anche lo Spazzacorrotti però rischia di rimanere un' arma spuntata, perché non è stato dotato di un organismo di controllo all' altezza. Se ne deve occupare la "Commissione di garanzia per la trasparenza", dipendente dal Parlamento: è composta da 5 giudici part-time, 7 impiegati prestati da altre amministrazioni e 2 segretarie. Non hanno banche dati nè strumenti di indagine: armati di buona volontà, devono certificare i bilanci di centinaia di soggetti politici. Da oltre un anno il presidente della Commissione Luciano Calamaro ha chiesto rinforzi: venti persone stabili e qualificate, per tentare di far fronte alla missione. Arriveranno mai?
Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della sera” il 20 settembre 2019. Ha guidato per anni la Fondazione Open di Matteo Renzi fino all' ottobre scorso, quando si è deciso di chiuderla. E adesso Alberto Bianchi, l' avvocato fiorentino da sempre amico dell' ex premier, è indagato per traffico d' influenze illecite. Sospettato di aver promesso o comunque agevolato la conclusione di affari proprio grazie alla posizione di presidente del consiglio di amministrazione composto da Maria Elena Boschi, Luca Lotti e Marco Carrai e per questo sottoposto a perquisizione. «Sono molto amareggiato», commenta con un messaggio inviato via WhatsApp, lasciando poi al suo avvocato Antonio D' Avirro il giudizio sull' inchiesta della Procura di Firenze. «Il mio cliente - dichiara il legale - è indagato per una ipotesi di reato fumosa qual è il traffico di influenze per prestazioni professionali a mio avviso perfettamente legittime. Abbiamo messo a disposizione tutto il materiale che ci è stato chiesto e siamo certi di poter dimostrare la perfetta e totale legittimità di ogni atto». Gli investigatori della Guardia di Finanza sono entrati nello studio di Bianchi due giorni fa, nelle stesse ore in cui Renzi annunciava la scelta di lasciare il Pd e fondare il nuovo partito «Italia Viva». Erano autorizzati da un ordine di perquisizione richiesto al giudice dai magistrati guidati dal procuratore Giuseppe Creazzo, come prevede la procedura quando l' indagato è un avvocato. Hanno portato via i bilanci e l' elenco dei finanziatori: le verifiche mirano a stabilire se le elargizioni siano state effettuate anche per garantirsi la conclusione di affari e dunque se fossero la contropartita per agevolare alcuni imprenditori o aziende. E dunque bisognerà controllare se chi ha messo soldi nelle casse della Fondazione ne abbia poi tratto vantaggio. Il fatto che il difensore faccia riferimento a «incarichi professionali» fa presumere che sia proprio questo il nodo: Bianchi potrebbe essere stato nominato da chi riteneva di ottenere in questo modo una corsia preferenziale e lo avrebbe poi ricompensato. Al momento si contesta il traffico di influenze illecite, senza escludere eventuale ipotesi di finanziamento illecito. Quando la Fondazione fu costituita, nel 2012, si chiamava Big Bang e doveva servire a sostenere l' ascesa politica di Renzi grazie alle donazioni dei privati. Un lungo elenco di persone che in sei anni hanno messo a disposizione ben 6,7 milioni di euro. Tra loro il finanziere Davide Serra con circa 300 mila euro, l' armatore Vincenzo Onorato con più di 150 mila euro, la «British american tobacco» con 110 mila euro, ma anche moltissimi cittadini con bonifici via PayPal. Denaro utilizzato per organizzare ogni anno la Leopolda, ma anche per sostenere le altre iniziative che avevano come protagonista proprio Renzi e il suo «giglio magico». Esperienza che l' anno scorso si è deciso però di archiviare. «È innegabile che una fase si sia chiusa. I conti sono già a posto», disse Bianchi assicurando che - nonostante il 40 per cento dei finanziatori non avesse dato l' assenso a pubblicare il proprio nome e dunque fosse rimasto sconosciuto - «siamo la fondazione italiana più trasparente in assoluto». Non è la prima volta che Bianchi viene coinvolto in un' indagine relativa a incarichi professionali. Nel maggio 2017 la Corte dei Conti decise di verificare la regolarità dei contratti di consulenza affidati a professionisti esterni da Consip, la centrale acquisti finita al centro dell' inchiesta dei magistrati romani per la gestione di numerosi appalti, primo fra tutti quello Fm4. Secondo i conteggi effettuati dai finanzieri l' avvocato ha ottenuto oltre 390 mila euro in due anni a partire dal 2015 e gli accertamenti tuttora in corso devono stabilire se la scelta fosse necessaria oppure se questa decisione di non contare sui dipendenti diretti possa aver causato un danno all' erario.
Simone Di Meo per “la Verità” il 21 settembre 2019. Se il renzismo fosse un edificio, il ruolo di capocantiere andrebbe sicuramente all'avvocato Alberto Bianchi. Pistoiese, 65 anni, tesoriere della fondazione Open e instancabile fabbricatore di pilastri e puntelli a sostegno del ben più giovane amico Matteo. Bianchi è da tre giorni indagato dalla Procura di Firenze per traffico di influenze illecite. La guardia di finanza ha perquisito il suo studio sequestrando gli atti dell'ente, che organizza la Leopolda, e la lista dei finanziatori. L'ipotesi dei pm Luca Turco e Giuseppina Mione è che alcune prestazioni professionali a favore di un importante imprenditore possano essere state camuffate per agganciare la politica e ottenerne favori. «Sono rattristato e arrabbiato», ha detto Bianchi agli amici nelle ultime ore. Non certo dimentico che lo spettro dei conflitti d' interesse, tra ruolo pubblico al fianco di Matteo Renzi e impegno privato come amministrativista tra i più quotati del capoluogo toscano, lo insegue da quasi 10 anni. «Le domande fondate sul sospetto o sulla mera illazione aprono praterie sterminate a chi desidera inquinare ogni sistema di relazione», si difese in una intervista, tempo fa. «Il commento che sembra suggerire prudenza di comportamenti dà la stura all' inarrestabile cultura del sospetto onnipervasivo, anticamera della tirannia». Allievo del giurista Alberto Pradieri, Bianchi è stato una presenza costante nell' escalation del Giglio magico nonostante un inizio un po' traballante. Alle primarie del Pd per il sindaco di Firenze nel 2009, che vedranno trionfare a sorpresa il giovane Matteo Renzi, è infatti il braccio destro dello sfidante Lapo Pistelli. In precedenza, Bianchi è stato vicino alla Margherita e al presidente della Regione Claudio Martini che lo ha nominato presidente di Firenze Fiera. Con Renzi a Palazzo Vecchio, l'avvocato ottiene una consulenza legale da 11.000 euro e il ruolo di segretario del Maggio Musicale Fiorentino, di cui il fratello Francesco diventerà commissario straordinario. In quegli anni - siamo nel 2013 - difende il sindaco rottamatore davanti alla Corte dei Conti e cementa rapporti di amicizia con Marco Carrai, l'imprenditore che di Renzi è stato il generoso finanziatore immobiliare avendogli pagato per circa tre anni il fitto di 900 euro al mese nell' appartamento di via degli Alfani 8. Di Carrai, l'avvocato diventa socio nella K-Cube, che si occupa di brevetti farmaceutici, e testimone di nozze, insieme all' ex Rottamatore. Nello studio Bianchi di Firenze, è stata praticante la moglie di Carrai, Francesca Campana Comparini, ed ha lavorato la di lei sorella, Cristina. L'avvocato toscano si muove con scioltezza nel mondo della politica, e non solo per i trascorsi familiari che videro il papà Angiolo, commercialista, numero uno della Cassa di risparmio di Pistoia e Pescia, in quota Dc. L'ex ministro dell' Economia Giulio Tremonti lo volle come liquidatore del carrozzone di Stato Efim (18.000 miliardi di debiti) nel 2001. Incarico che gli costò una condanna in primo grado, poi annullata in appello, davanti alla Corte dei Conti per il pagamento di maxiparcelle professionali. Nel 2011 Bianchi diventa membro dell' organismo di vigilanza di Terna e, nel 2014, durante il governo Renzi, viene indicato nel consiglio di amministrazione di Enel, e riconfermato nel 2017 con l' esecutivo Gentiloni. Nel frattempo, il ruolo di presidente della fondazione Open, che ha preso il posto della precedente Big Bang, e di tesoriere del renzismo gli assicurano una presenza costante nelle dinamiche del potere toscano e romano. Anche se è particolarmente attento a non invadere mai i campi d'influenza e di azione degli altri petali del Giglio, come Maria Elena Boschi e Luca Lotti. L'attività professionale gli regala soddisfazioni e sostanziosi bonifici. Assume la difesa di importanti aziende pubbliche come Ferrovie dello Stato, Firenze parcheggi e di società private come Snai e Siram. Vincitrice, quest'ultima, di un lotto da quasi 100 milioni di euro con Consip, la centrale d'acquisto della pubblica amministrazione. Di cui Bianchi è anche consulente legale per un totale, nel periodo 2014-2017, di 756.000 euro di onorari. Circostanza che dà adito a qualche accusa di conflitto d' interessi. Molti incarichi in Consip (come spiega più diffusamente l' articolo nella pagina accanto, ndr), l'avvocato di Renzi, li ottiene dopo la nomina di Luigi Marroni ad amministratore delegato. Marroni è considerato il teste chiave della Procura di Roma nell' inchiesta sui presunti casi di corruzione in seno alla centrale d' acquisto. Filone in cui è indagato, con una richiesta di archiviazione rigettata a luglio dal gip, proprio Tiziano Renzi per traffico di influenze illecite. Per il babbo di Rignano sull' Arno, Bianchi usò parole di stima all' infuriare della tempesta giudiziaria: «Non nutro il minimo dubbio circa la specchiata onestà del signor Tiziano Renzi», spiegò, «il suo nome non può essere accostato a presunti traffici illeciti. Il tempo lo risarcirà dell' infamia di questi giorni». In totale, nei due anni di governo di Matteo Renzi, Bianchi ha percepito 800.000 euro da due società pubbliche controllate dal ministero dell' Economia, Enel e Consip.
Antonio Rossitto per “la Verità” il 21 settembre 2019. Come tanti accorti uomini di potere, Alberto Bianchi ha sempre tentato di dissimulare il potere. Poche parole, molte relazioni, una caterva di discrezione. Eppure non è la prima volta che l' ex presidente della Fondazione Open viene coinvolto in un' inchiesta. Due anni fa la Corte dei conti decide di verificare le consulenze Consip, la centrale acquisti statale. Tra cui quelle avute dell' avvocato pistoiese, adesso sospettato di traffico d' influenze in un' indagine sulla cassaforte del renzismo. Dal 2015, calcolano i finanzieri, avrebbe incassato oltre 390.000 euro di parcelle professionali: i magistrati contabili stanno verificando se questi affidamenti abbiano causato o meno un danno all' erario. La Verità ha però compulsato la banca dati Consip. E il totale è ben più cospicuo. Tra il 2014 e la metà del 2017 l' amministrativista e i suoi soci hanno ottenuto 756.000 euro, al netto dell' Iva. In cambio, si sono adoperati per seguire 70 contenziosi legali. Ossia beghe giudiziarie sulle gare pubbliche bandite dalla società. Occhio alle date, però. Dopo qualche sporadico mandato avuto in precedenza, è all' inizio del 2014 che Bianchi e l'omonimo studio associato cominciano a macinare incarichi. Proprio quando Matteo Renzi diventa premier. Bianchi e colleghi, in quell'anno, s'accaparrano 15 consulenze, per poco più di 140.000 euro. Va ancora meglio l'anno seguente: 28 cause, in cambio di quasi 206.000 euro. È un periodo di transizione per Consip. A giugno 2015 il governo dell' ex Rottamatore nomina il nuovo amministratore delegato della società. È il fedelissimo Luigi Marroni. Che poi, con un intricato colpo di scena, diventerà il grande accusatore di Tiziano Renzi, padre di Matteo, e di Luca Lotti, ex ministro dello Sport e quintessenza del Giglio magico. Entrambi sono ora indagati dalla Procura di Roma, proprio in un' inchiesta sul sistema Consip. Torniamo però all' estate del 2015, quando il vento del consenso gonfia le vele renziane. E, con Marroni al comando, pure gli incarichi a Bianchi prendono il volo: 14 in sei mesi, da luglio a dicembre. L' anno seguente, nel 2016, sono 19: 237.000 euro in totale. Altri otto vengono conferiti nella prima metà del 2017: 173.000 euro. L' ultimo affidamento, rivelano gli archivi Consip, è del 30 maggio 2017. Due settimane dopo, Marroni è costretto a lasciare la guida della società. Da quel momento, negli annali della megacentrale per le commesse statali di Bianchi non c' è più traccia. Ergo, non sarebbe più stato scelto come legale di fiducia. Questa sequela di consulenze era già stata svelata da Panorama. Ma si trattava ancora di una conta parziale. E l' amministratore delegato scelto dall' ex premier, che si dimette a dicembre 2016, è ancora in sella. Bianchi però, mentre puntualizza di non aver incassato molti dei compensi, rilancia: «Consip ha iniziato ad affidarmi il contenzioso di alcune gare ben prima che Renzi fosse presidente del Consiglio. Ho lavorato di più in passato e non ho beneficiato di alcunché». Il legale aggiunge: «Faccio l' avvocato dal 1986 e ho un percorso che parla per me. Quando Renzi ancora studiava io ero già commissario all' Efim...». Verissimo. Il suo curriculum è già strapieno di medaglie professionali. Così come di ortodossia renziana. Nato 65 anni fa a Pistoia, il padre è un notabile democristiano. Lui ne eredita simpatie politiche e s' avvicina alla Margherita. Elegante e riservato, già titolare di un avviato studio a Firenze, Bianchi diventa lo storico stratega del Giglio magico: discreto, distinto, ottime frequentazioni. Renzi lo considera il suo alfiere nei rapporti con banche e aziende di stato. Tanto da nominarlo, a maggio nel 2014, nel cda di Enel. Poltrona prestigiosa, strategica e molto ben retribuita. I primi approcci tra i due si segnalano però oltre un decennio fa: tra maggio 2008 e gennaio 2009. Renzi, all' epoca, è il giovane e arrembante presidente della provincia di Firenze. In otto mesi, decide di affidare 14 incarichi ad «Alberto Bianchi e associati studio legale», per un totale di 37.000 euro. Servigi certamente apprezzati. Nell' autunno del 2010 Renzi, diventato nel mentre sindaco di Firenze, viene indagato dalla Corte dei conti per un danno erariale di oltre due milioni di euro. E a difenderlo dalle accuse dei magistrati contabili rispunta Bianchi. Negli anni seguenti, l' avvocato continua a seguire le beghe del politico e ad accumulare prestigiose consulenze: tra cui quelle conferite da Firenze parcheggi, società controllata dal comune guidato da Renzi, per 85.000 euro. Il rapporto con Renzi diventa talmente fiduciario da convincere l' ex premier a consegnare al professionista pistoiese persino le chiavi della sua cassaforte. È nello studio di Bianchi che, il 2 febbraio 2012, è firmato l' atto costitutivo della Fondazione Big Bang, poi ribattezzata Open. Il legale viene nominato presidente e diventa il principale artefice del fortunato fundraising che lancerà l' amico Matteo nel firmamento politico nazionale. Convention, primarie, sponsorizzazioni. Tutto passa dalle sapienti e abili mani di Bianchi, compresi i 6,7 milioni donati alla fondazione da amici e imprenditori: ruolo per cui adesso è indagato dalla procura di Firenze. È pure il periodo in cui s' intensifica la collaborazione con Consip. Le parcelle pagate dalla società statale continuano a lievitare: 754.000 euro in tre anni e mezzo. Ma era davvero indispensabile dare una caterva di incarichi a professionisti esterni? Alla Corte dei conti l' ardua sentenza.
Sarina Biraghi per “la Verità” il 23 settembre 2019. Nell'ultima intervista al Messaggero, il leader di Italia viva, Matteo Renzi, ancora una volta ha provato a spiegare la sua decisione di fare la scissione dal Pd senza un vero motivo politico, semmai «politicistico», ma citando un paio di temi importanti. Il primo è quello delle nomine per il rinnovo dei vertici delle partecipate. Nel secondo, Renzi menziona i pm per nome. Cosa rarissima che sembra quasi una minaccia. Sulle nomine spiega: «Io sono molto interessato al futuro delle grandi aziende. Ma a differenza del racconto volgare che viene fatto dai più mi interessano le strategie, non un posto nel board. Le faccio un esempio: è assurdo continuare a tenere divise Fincantieri e ciò che si chiamava Finmeccanica e ora è Leonardo. Un assurdo perché paradossalmente espone entrambe a una possibile acquisizione straniera, probabilmente europea. Perché non metterle insieme facendone un leader di mercato? Di questa e di altre proposte parleremo alla Leopolda. Non mi troverete al tavolo delle nomine ma sarò in prima fila nella discussione sul futuro della nostra economia: perché questa è la politica. Spero che chi ha mire sulle poltrone punti a indicare i nomi migliori. E che poi tiri fuori anche qualche idea su cui discutere, come abbiamo fatto noi». Che dire? Non sarà al tavolo del governo che lui stesso ha proposto e benedetto alla faccia del segretario Pd Nicola Zingaretti, ma la strategia è chiara: chi vuol capire capisca. Poi arriva il passaggio sull' inchiesta aperta dalla Procura di Firenze sulla sua ex fondazione, Open, proprio nei giorni della nascita di Italia viva. Renzi mostra una grande tranquillità e nessuna sorpresa sulla coincidenza: «Nessuna polemica. Non è la prima inchiesta che viene dal procuratore Luca Turco e dal suo capo Giuseppe Creazzo: sono certo che non sarà l'ultima. Che lavorino tranquilli sui numerosi dossier che hanno aperto: noi rispettiamo i magistrati e aspettiamo le sentenze della Cassazione, come prevede la Costituzione. Tutto il resto è polemica sterile». Sarà pure sterile la polemica, ma la nonchalance dell'ex premier è abbastanza inusuale: chiamare per nome e cognome i pm che stanno indagando e invitarli a lavorare tranquilli sembra quasi un avviso «ai naviganti». Senza dimenticare che Creazzo, però, era uno dei magistrati oggetto delle conversazioni tra l' ex fedelissimo Luca Lotti e i consiglieri del Csm sulle nomine dei capi degli uffici giudiziari. E senza perdere la rituale sicumera, sempre sul procedimento a carico della sua storica cassaforte, Renzi aggiunge: «Stimo l' avvocato Bianchi e sono certo dell' assoluta correttezza di Open, che peraltro è già chiusa. Quanto alla Leopolda: la pagheremo a fatica, come tutti gli anni, ma senza pasticci. Consideri che solo negli ultimi quattro giorni la nostra piattaforma di raccolta fondi ha ricevuto più di diecimila euro al giorno di piccole donazioni: la Leopolda ce la pagheremo anche così». Nel frattempo, come rivelato dalla Verità, il sospetto che ha portato la Procura di Firenze a iscrivere nel registro degli indagati l' avvocato Alberto Bianchi, ex presidente della fondazione Open, di Renzi negli anni della scalata al potere, è che gli siano stati dati soldi per intervenire con i politici e sbloccare i problemi del gruppo Toto nel settore delle concessioni autostradali. Bianchi è accusato di traffico di influenze illecite.
Goffredo De Marchis per “la Repubblica” il 21 settembre 2019. Al centro del Giglio magico adesso c'è Lucio Presta, che però è di Cosenza. «Matteo, tu sei una star e ti devi comportare da star». Detto fatto: è nato un partito personale, nel quale tutto ruota intorno al divo. Motivatore, consigliere, amico, uomo di relazioni: Presta per Renzi è tutto questo. Agente delle star tv, manager di Roberto Benigni, Paolo Bonolis, Amadeus, Lorella Cuccarini, Antonella Clerici e della moglie Paola Perego, Presta, 59 anni, conosce Renzi, racconta, «da quando era presidente della Provincia di Firenze». Ma il rapporto si è fatto più stretto negli ultimi tempi. Fra i tanti, anche Presta ha suggerito all' ex premier lo strappo dal Pd «Ma io che c' entro con la politica? Tenetemi fuori, non è il mio mestiere, non do consigli a Matteo che poi non li ascolterebbe nemmeno. Perché è un numero uno, questo sì, un cane sciolto, un istintivo » Ex ballerino di Fantastico e degli spettacoli di Renato Zero, Presta è diventato un ricco, potente e temuto signore della televisione. Dicono sia uno squalo nel mondo degli agenti (non diverso da altri). Che impone i suoi assistiti col pugno di ferro, che offre pacchetti di stelle prendere o lasciare giocando sulla concorrenza tra Rai e Mediaset. E sui contratti milionari ha la sua percentuale, ovviamente. Ma a parlarci sembra gentilissimo, quasi timido. Sarà che la politica è un terreno scivoloso e su Renzi non si può sbagliare. «Lo sento spesso, è vero. Ho prodotto il suo documentario Firenze secondo me e se vuole saperlo stiamo preparando un altro documentario. Lo gireremo nei prossimi mesi ». Però non è tutto così alla luce del sole. Presta sta diventando qualcosa di più. È il primo che Renzi chiama per un consiglio sulla comunicazione, sull' immagine. I due, oltre a preparare la seconda esperienza televisiva, stanno cercando il format giusto di un giro d'Italia per lanciare il nuovo partito. Che non sia il camper, già usato dall' ex sindaco nel 2012, che non sia il pullman legato all'immaginario prodiano. «Ci vuole una chiave, un marchio riconoscibile», dice Renzi a Presta. Si lavora a testa bassa su un' idea originale. L' agente racconta che quando lui e Renzi si sono incrociati nel campo della politica, ci ha sempre rimesso le penne. «Mi ero candidato sindaco a Cosenza, la mia città, e il Pd si è unito contro di me. Sono dovuto scappare. Con Renzi segretario, capisce? Campo Dall' Orto, che ha fatto fuori mia moglie dalla Rai, l' ha messo lui». Ma i due si piacciono molto. Sono affiatati, si cercano, si trovano. Succede anche con Flavio Briatore, ma non è la stessa cosa. Sicuramente Presta ha un altro ruolo, un altro peso. Sarà l' uomo che agisce nell' ombra per la comunicazione. Lo spin doctor che non ti aspetti. Prodi ha detto che Italia viva ricorda uno yogurt: «Chi sono io per rispondere a Prodi? Non ho la sua cognizione». Che ne pensa del nuovo partito? «Da cittadino mi auguro un momento di serenità e stabilità per l' Italia». Presta svicola e allo stesso tempo si prepara a essere protagonista del momento clou del renzismo, la Leopolda di metà ottobre. «Audio, luci, riprese. Gestisco io l' evento, ma questo è il mio lavoro». Come se la "regia" della kermesse non fosse in sé sostanza, contenuto, uno dei principali della narrazione renziana. Sul palco fiorentino ritornerà Bonolis, già presente la scorsa edizione. Il sogno di Renzi è avere Benigni, ma forse neanche Presta può realizzarlo. Il manager fa finta di niente. Ma nel mondo renziano, fra quelli che vogliono bene al capo, qualcuno ne osserva con sospetto l' ascesa e l' influenza: «Matteo può diventare prigioniero di Lucio Presta », dicono. Come una delle star gestite dall' agente, quelle che muove da un canale all' altro, a volte più simile a un burattinaio che a un impresario. Lui giura che no, non è il suo ramo. «Renzi fa quello che vuole in politica. Non ascolta me, non ascolta nessuno. Io intervengo solo quando facciamo qualcosa per la tv. Se giriamo il documentario, lì comando io. Fine». Da Bonolis a Renzi, dagli studi televisivi ai giochi del potere, è un bel salto. Pericoloso anche per un ex ballerino. Presta sa dosare modi spicci e prudenza, ma senza il Pd di mezzo il suo ruolo cresce. «L' immagine è certo importante, quello è il mio settore. Non mi sognerei mai però di diventare un consigliere politico». Magari qualcosa di diverso, ma ugualmente centrale.
Soldi a Bianchi, avvocato di Renzi: l’ombra di finanziamenti illeciti. Pubblicato mercoledì, 25 settembre 2019 su Corriere.it da Antonella Mollica. I fondi, provenienti da una parcella da 400 mila euro netti pagata dal gruppo Toto, sarebbero stati in parte versati al comitato per il Sì al referendum costituzionale. Soldi alla Fondazione Open ma anche al comitato per il Sì al referendum costituzionale del 2016. Nell’inchiesta della Procura di Firenze che coinvolge l’avvocato Alberto Bianchi, l’ex presidente della «cassaforte» renziana, spunta anche un finanziamento di 200 mila euro al comitato per il referendum voluto da Matteo Renzi. Nel mirino degli inquirenti è finito l’incarico affidato a Bianchi nel 2016 dal colosso dell’edilizia Toto Costruzioni per un accordo transattivo con la società Autostrade. Un contenzioso da 75 milioni di euro. La parcella dello studio era di circa due milioni: Bianchi incassò 750 mila euro lordi che corrispondono a 400 netti. Di questa cifra, 200 mila euro furono versati a Open, la Fondazione presieduta da Bianchi e nata per finanziare la scalata politica di Renzi da sindaco di Firenze a presidente del Consiglio. Duecento mila euro, hanno accertato le indagini, sono invece finiti al comitato che sosteneva la riforma costituzionale proposta da Renzi. «Più o meno un anno dopo Open ne ha restituiti 190. Bisognava ripianare i debiti della Fondazione», è la versione fornita ufficialmente da Bianchi. Su questi passaggi di denaro la Procura di Firenze sta cercando di fare luce. Bianchi è indagato per traffico di influenze ma l’obiettivo degli inquirenti è di verificare se si possa configurare l’ipotesi di finanziamento illecito. Tutto il materiale sequestrato nella lunga perquisizione avvenuta il 16 settembre scorso nello studio dell’avvocato Bianchi alla presenza del procuratore aggiunto Luca Turco e del pm Antonino Nastasi che hanno coordinato le indagini è adesso al vaglio degli investigatori. Sono stati portati via i bilanci di Open e la lunga lista dei finanziatori. Open era nata nel 2012 a Firenze con il nome di Big Bang ed era diventata il contenitore per ricevere donazioni da parte di finanziatori privati, legando il suo nome soprattutto alle convention della Leopolda, dove ha avuto inizio la «rottamazione» di Renzi. Nel 2018 , dopo sette edizioni della Leopolda, Open ha chiuso i battenti ma in tutti questi anni ha raccolto circa 6,7 milioni di euro. Questa mattina l’avvocato Nino D’Avirro, difensore di Bianchi, presenterà ricorso al tribunale del Riesame per chiedere l’annullamento dei sequestri.
Strada dei Parchi a pezzi e il gruppo Toto finanzia Matteo Renzi? Le Iene il 20 novembre 2019. Filippo Roma ci ha raccontato le condizioni pietose in cui versano strade e viadotti in Abruzzo, gestiti dal gruppo Toto. Ora, nell’inchiesta sui finanziamenti illeciti alla campagna elettorale di Matteo Renzi, sarebbero stati trovati pagamenti dal Gruppo Toto alla Fondazione dell'ex premier. E i soldi per sistemare le strade? Il gruppo Toto, quello delle autostrade abruzzesi che cadono letteralmente a pezzi e di cui ci ha parlato il nostro Filippo Roma, ha destinato parte delle proprie entrate per pagare la campagna elettorale di Matteo Renzi ai tempi della Leopolda? E' un'ipotesi che emergerebbe dall'ordinanza del riesame nell’ambito dell’indagine sui finanziamenti alla Fondazione Open, di cui via abbiamo già parlato in questo articolo. Le carte dell’indagine raccontano che l’avvocato Alberto Bianchi, storico finanziatore delle iniziative alla Leopolda di Firenze ed ex presidente della Fondazione Open (ora indagato per “traffico di influenze”),avrebbe ricevuto nel 2016 dal gruppo Toto Costruzioni un pagamento di oltre 800mila euro. Quei soldi, 200mila dei quali andarono pochi giorni dopo sui conti della Fondazione Open, sarebbero legati ufficialmente a una fattura emessa a favore di Bianchi, per prestazioni professionali. Nello stesso anno, spiegano ancora le carte processuali, sempre lo studio di Alberto Bianchi avrebbe ricevuto dal gruppo Toto circa 2 milioni di euro, con la medesima causale. Si tratterebbe di operazioni, hanno spiegato i magistrati, che "appaiono dissimulatorie di trasferimento diretto di denaro dal gruppo Toto Costruzioni Generali alla Fondazione Open". Il gruppo Toto Costruzioni Generali fa parte della holding della famiglia Toto, all’interno della quale c’è anche il ramo d’azienda che gestisce le concessioni autostradali. Proprio quelle di cui si è occupato Filippo Roma, che ha indagato sulle condizioni dei viadotti in Abruzzo. Nel primo servizio (che potete rivedere sopra) Filippo Roma con il caschetto in testa è andato a vedere quei ponti da vicino accompagnato dall’ingegnere Tommaso Giambuzzi. Tra i primi che verifichiamo c’è il viadotto Macchia Maura, dove il ferro contenuto nel cemento armato si sgretola appena lo si tocca. “Non c’è niente che resiste”, dice l’esperto. Nello stesso stato è anche il ponte Santa Croce sulla A25, da cui si staccano i pezzi di calcestruzzo. “In questi frammenti c’è anche ferro che si spezza”, mostra Giambuzzi. E riesce persino a spezzarlo a mani nude. Il nostro tour procede sotto il viadotto di Cocullo. Ad attenderci c’è un pilone il cui lo scheletro di metallo è completamente visibile. “Il problema è capire quanto sia deteriorato al suo interno”, spiega l’ingegnere. Nel secondo servizio invece, un operaio addetto alla manutenzione dei viadotti rilancia l’allarme: “Ai miei amici dico: ‘Se ci passate sopra, accelerate! Io cerco di non passarci proprio”. “Se c’è un sisma nessuno dei viadotti regge”, sostiene Placido Migliorino, capo ispettore del ministero dei Trasporti. “C’è un deperimento dei viadotti molto accentuato”, denuncia Augusto De Sanctis, coordinatore di No Toto Autostrade. “La preoccupazione è alta, abbiamo fatto un esposto per chiedere al ministero lo stato di sicurezza”. La Iena, dopo aver documentato con alcuni testimoni come i pezzi di calcestruzzo si riescano a spezzare con le mani, neanche fossero dei biscotti, ne ha parlato con lo stesso ex ministro alle Infrastrutture, Danilo Toninelli. E quando siamo andati proprio da Carlo Toto a chiedere spiegazioni sulle condizioni delle strade che gestisce, prima chiede di chiamare i carabinieri e poi dice a Filippo Roma: “Lei risponderà delle bugie che ha detto, io rispondo ala mia coscienza e alle leggi e ai regolamenti”. Il gruppo Toto, intanto, dovrà rispondere ai magistrati di quei soldi finiti in parte alla fondazione che ha finanziato Matteo Renzi. E dopo i nostri servizi sono partite altre ispezioni e un’indagine, che ha messo sotto la lente sei viadotti nel territorio di Bussi, Popoli e Alanno. A certificare le loro condizioni di sicurezza e di staticità spetterà a Bernardino Chiaia, che è stato nominato come perito. Ai fascicoli aperti dalle procure di L’Aquila e Teramo, ora si somma quello depositato a Pescara che vede indagati i vertici di Strada dei Parchi.
Antonella Mollica per il “Corriere della sera” il 20 novembre 2019. I passaggi di denaro dalla Toto costruzioni all'avvocato Alberto Bianchi e da Bianchi alla Fondazione Open avrebbero avuto l'obiettivo di «dissimulare» il trasferimento diretto del denaro dal colosso delle costruzioni abruzzese alla «cassaforte» nata per finanziare la scalata politica di Matteo Renzi da sindaco. Questa almeno è la convinzione dei giudici del tribunale del Riesame di Firenze che hanno respinto la richiesta di dissequestro della documentazione avanzata dai legali dell' avvocato Bianchi, l' ex presidente di Open, indagato con l' accusa di traffico di influenze e di finanziamento illecito. I giudici hanno ritenuto legittimo il sequestro dell' intera documentazione e di pc, iPad e iPhone perché necessaria agli inquirenti per indagare sui rapporti economici tra il gruppo Toto, l' avvocato Bianchi e la Fondazione. Al centro dell' inchiesta della Guardia di Finanza, coordinata dal procuratore aggiunto Luca Turco, c' è un pagamento effettuato dal gruppo imprenditoriale a Bianchi per una consulenza legale quando era presidente di Open. Nel ricostruire i finanziamenti a Open gli investigatori hanno trovato un versamento di 25 mila euro di Renexia, società del gruppo Toto impegnata sul fronte delle energie rinnovabili ma hanno accertato anche diversi rapporti nel 2016 tra Toto e l' avvocato Bianchi. Quasi 3 milioni di euro, secondo gli inquirenti, la cifra che Bianchi avrebbe ricevuto in totale dal gruppo. Il 5 agosto 2016 a Bianchi arrivano 801.600 euro. Sempre nel 2016 lo studio legale di Bianchi riceve da Toto la somma di 1 milione e 612 mila euro, oltre all' Iva per 354.000, per un totale fatturato di 1 milione e 966 mila euro come pagamento per prestazioni professionali. Il conto di Bianchi a settembre presenta un saldo attivo di 1.096.000 euro. Così il 12 settembre Bianchi compie i due versamenti a Open (200.838 euro) e al Comitato per il sì al referendum (200 mila euro) a titolo di «contributo volontario». Per i giudici del Riesame si tratta di operazioni che servivano a dissimulare il trasferimento diretto di denaro da Toto a Open. Dal dicembre 2017 al febbraio 2018 Bianchi è stato destinatario di bonifici dalla Fondazione Open per 190 mila euro con causale «restituzione parziale prestito». Nel mirino degli inquirenti è finito anche un altro imprenditore vicino all' ex presidente del consiglio Matteo Renzi. Si tratta di Patrizio Donnini che dal 2012 al 2016 ha ricevuto da Open per prestazioni quasi 290 mila euro e sempre nello stesso periodo ha ricevuto dal gruppo Toto quasi 4 milioni, in parte con operazioni di compravendita di quote societarie effettuate dalla società Immobil Green, «prive di valide ragioni economiche», sostengono i giudici. La stessa società nel 2016 aveva effettuato prestazioni per 122 mila euro a favore del comitato per il sì al referendum. Anche queste, ritengono i giudici, sono operazioni dissimulatorie di un mero trasferimento di denaro.
Valeria Pacelli per il “Fatto quotidiano” il 20 novembre 2019. Ci sono associazioni dei farmacisti e quelle delle imprese ferroviarie associate, ma anche Google, Lottomatica Spa e Fastweb Spa. È l' elenco di chi in passato ha disposto bonifici nei confronti della Eyu, la fondazione legata al Pd al tempo di Matteo Renzi, ora in liquidazione. A fronte dei bonifici in entrata ci sono eventi, convegni e incontri organizzati. Si tratta insomma di versamenti regolari sui quali la Procura di Roma non ha rilevato irregolarità. Tuttavia scorrere l' elenco dei conti è interessante per capire con chi la Fondazione intratteneva rapporti. I conti della Eyu sono finiti in un' annotazione del Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di finanza e depositati agli atti dell' indagine su Francesco Bonifazi, che della fondazione è stato presidente. Bonifazi è accusato a Roma di finanziamento illecito ma solo per i 150 mila euro pagati dalla Immobiliare Pentapigna Srl (che era di proprietà dell' imprenditore Luca Parnasi, a giudizio per corruzione anche in relazione alle vicende dello stadio dell' As Roma) a cavallo delle elezioni politiche di marzo 2018 per uno studio di ricerca. Il progetto, dal titolo "Case: il rapporto degli italiani con il concetto di proprietà", viene pagato, a fronte di una fattura emessa dalla alla Fondazione Eyu il 22 febbraio 2018, con due bonifici. Per i pm però il contratto di consulenza tra Eyu e la Immobiliare Pentapigna era "fittizio". Nell' ambito di questa indagine quindi la Finanza deposita un' annotazione sui conti della Eyu. La Fondazione è titolare di due conti correnti "alimentati rispettivamente dalla raccolta di erogazioni liberali e da proventi di natura commerciale". "La Fondazione - continuano i finanzieri - affianca alla propria attività istituzionale di promozione sociale, realizzata con le donazioni dei sostenitori, anche l'esercizio di un' attività commerciale che consiste nell' elaborazione di studi e ricerche. I ricavi di tale attività commerciale confluiscono sul conto corrente che risulta 'dedicato' all' incasso dei medesimi, per essere poi periodicamente trasferiti sull' altro conto corrente della Fondazione su quale pervengono inoltre i contributi e le erogazioni liberali dei sostenitori" della Eyu. Tra i committenti degli studi, come detto, nel 2018 c' era anche la Immobiliare Pentapigna di Parnasi. Scorrendo quindi i conti della Eyu si trova un bonifico in entrata di 100 mila euro della Msc Cruises sa, un altro da 63 mila del Consiglio nazionale del Notariato. La Federfarma, che raggruppa i titolari di farmacie, versa 40 mila euro, la Gamenet spa - che opera invece nel settore del gioco pubblico - 25 mila. Sullo stesso conto arrivano anche 20 mila euro della Fondazione architetti e ingegneri iscritti a Inarcassa e 10 mila della Federcargo, che fondata nel 2009 riunisce 17 Imprese Ferroviarie. La finanza poi passa alla disamina di un secondo conto della Eyu, anche qui elencando i bonifici in entrata. Nel 2016 si trova quindi un bonifico da 30 mila euro della Fb associati srl, società di consulenza specializzata in public affairs e lobbying, nel 2017 invece arrivano 54.900 dal fondo Algebris Uk limited, fondata dal renziano Davide Serra. Il fondo nel primo semestre del 2018 versa altri 80 mila euro. Ma tornando al 2017, si trovano ancora: 40 mila euro di Fastweb, 30.500 di Google e 24.400 di Lottomatica che l' anno dopo versa altri 30.500 euro. Nel primo semestre dello scorso anno la più generosa resta la Immobiliare Pentapigna con i suoi 150 mila euro per lo studio di ricerca. Poi ci sono 61 mila euro della Società Cattolica di assicurazione e 115 mila della Octo Telematics Spa. Come detto questi versamenti non sono ritenuti illeciti e quindi Bonifazi non ha dovuto giustificare alcunché quando è stato interrogato dai pm. Su Parnasi ha spiegato di aver ribadito più volte all' imprenditore cosa fosse Eyu e "la sua autonomia dal partito". Dopo l'interrogatorio però, l' ex tesoriere del Pd ha depositato alcuni documenti, in cui si spiega l' attività della Eyu: dall' attività editoriale ("della rivista trimestrale Eyu sono stati pubblicati 5 numeri") a quella per convegni e ricerca (cinque i progetti di ricerca citati nella memoria). Bonifazi ha consegnato anche alcune locandine dei vari convegni organizzati in passato quasi a giustificare alcuni dei bonifici in entrata nelle casse dalla Fondazione. Con la Fondazione Architetti è stato per esempio organizzato un incontro nel 2016 dal titolo "Il lavoro autonomo ai tempi della crisi", con Federfarma un altro a ottobre dello stesso anno su prospettive e opportunità delle farmacia in Italia. A novembre del 2017 ce n'è stato un altro con Federcargo e poi con Google più di uno: eventi dal titolo "Human-Machine: new policies for the future of work" organizzati in cinque diverse città europee, come Roma o anche Lisbona.
Ex presidente fondazione Open indagato, ipotesi fondi anche al comitato Sì referendum. Alberto Bianchi, al centro dell'inchiesta della procura di Firenze, avrebbe versato 200 mila euro nelle casse dell'organizzazione che supportava la riforma costituzionale proposta da Renzi. I soldi erano parte di un compenso ricevuto per una prestazione professionale dal Gruppo Toto. La Repubblica il 24 settembre 2019. Soldi alla fondazione Open, ma anche al comitato per il sì al referendum costituzionale del 2016. Così, secondo la ricostruzione degli inquirenti, l'avvocato Alberto Bianchi - presidente fino allo scioglimento della fondazione Open che ha fatto da cassaforte all'ascesa politica di Matteo Renzi - avrebbe speso parte dei compensi ottenuti da Toto costruzioni spa per una consulenza. Bianchi avrebbe ricevuto 2 milioni di euro, per lavorare su un contenzioso con Autostrade: 1,3 milioni sarebbero stati pagati al suo studio, 700 mila direttamente da lui, che poi avrebbe versato una quota da 200.000 euro nei conti della Open e un'altra dello stesso importo nelle casse del comitato per il sì. Chi indaga vuole dunque chiarire la natura di quel compenso, per verificare tra le altre cose l'ipotesi del finanziamento illecito. Per l'inchiesta fiorentina il 16 settembre scorso la Guardia di finanza ha anche perquisito lo studio del legale, sequestrando documenti e materiale informatico: in base a quanto appreso il difensore di Bianchi, l'avvocato Nino D'Avirro, presenterà mercoledì 25 settembre ricorso al tribunale del riesame per chiedere l'annullamento dei sequestri eseguiti dalle fiamme gialle. Gli accertamenti proseguono intanto anche sul primo versante di indagine, legato alla plusvalenza da quasi un miliardo che l'imprenditore Patrizio Donnini – anche lui vicino all'ex premier- avrebbe ricavato grazie a una compravendita col gruppo Toto. Le verifiche riguardano la cessione a Renexia (sempre del Gruppo Toto) di cinque società inattive ma autorizzate alla produzione di energia eolica: un affare che ha generato un profitto clamoroso, tale da attirare l'attenzione della guardia di finanza. Per Donnini sarebbero ipotizzati i reati di appropriazione indebita e auto riciclaggio.
Milioni all'uomo della Leopolda dati da Toto per il Giglio magico. L’avv. Bianchi, ex Pres. della fondazione di Renzi, ha incontrato a Cortina il signore della Autostrade. Questi avrebbe rivelato i pagamenti a Donnini in cambio di entrature politiche. Giacomo Amadori il 2 novembre 2019 su Panorama. Le vicende del “Giglio magico” assomigliano sempre di più ad una spyware story. Con vista sulle dolomiti. Nell’inverno del 1981 a Cortina d’Ampezzo vennero girate alcune scene di “Solo per i tuoi occhi”, il dodicesimo film di James Bond. Quasi 40 anni dopo la vallata è diventata la location perfetta per alcune scene degne del film, con protagonisti i personaggi più in vista del Giglio magico. Qui, per esempio, i Carabinieri del Noe, impegnati nell’inchiesta Consip, si erano messi alle costole dell’avvocato Alberto Bianchi (all’epoca presidente della fondazione renziana Open e contemporaneamente legale della Consip) che ha il physique du role da borseggiatore di Martini in galante compagnia e lo avevano pedinato per 16 km sulla neve durante una ciaspolata. I militari si imbatterono anche in Marco Carrai, l’uomo che Renzi voleva a capo della nostra Cybersecurity. Insomma, un altro personaggio degno delle pagine di Ian Fleming. Ma cambiamo inquadratura pur rimanendo sotto il monte Cristallo. Questa volta la scena è ambientata nei saloni del Park Hotel Franceschi, albergo a 5 stelle ospitato in un caratteristico palazzo turrito. Il set è la sala da caffè impreziosita da stufe in maiolica e colonne di legno intarsiato. Qui il solito Bianchi ha bevuto un caffè con Alfonso Toto, rampollo della nota famiglia di imprenditori abruzzesi. I due si erano incontrati per caso su Corso Italia, la via dello struscio della regina delle Dolomiti. Erano con le rispettive famiglie. E Bianchi era accompagnato anche da Carrai e signora. Toto era stato da poco perquisito su ordine della Procura di Firenze, mentre l’avvocato avrebbe ricevuto la visita delle Fiamme Gialle dopo poco più di un mese , nell’ambito dello stesso filone d’inchiesta: i rapporti economici tra i Toto ed il Giglio Magico.
Giacomo Amadori per “la Verità” l'1 novembre 2019. Le vicende del Giglio magico assomigliano sempre di più a una spy story. Con vista sulle Dolomiti. Nell' inverno del 1981 a Cortina d' Ampezzo vennero girate alcune scene di Solo per i tuoi occhi, la dodicesima fatica cinematografica di James Bond. Quasi quarant' anni dopo la vallata è diventata la location perfetta per alcune scene degne del film con protagonisti i personaggi più in vista del Giglio magico. Qui per esempio l'1 gennaio 2017 i carabinieri del Noe, impegnati nell' inchiesta Consip, si erano messi alle costole dell' avvocato Alberto Bianchi (all'epoca presidente della fondazione renziana Open e contemporaneamente legale della Consip), che ha il phisyque du role da sorseggiatore di cocktail Martini in galante compagnia, e lo avevano pedinato per 16 chilometri sulla neve durante una ciaspolada. I militari si imbatterono anche in Marco Carrai, l' uomo che Renzi voleva a capo della nostra Cybersecurity. Insomma, un altro personaggio adatto alle pagine di Ian Fleming. Ma cambiamo inquadratura, pur rimanendo sotto il monte Cristallo. Questa volta la scena è ambientata nei saloni del Park Hotel Franceschi, albergo a cinque stelle ospitato in un caratteristico palazzo turrito. Il set è la sala da caffè impreziosita da stufe di maiolica e colonne di legno intarsiato. Qui il solito Bianchi lo scorso Ferragosto ha bevuto un caffè con Alfonso Toto, rampollo della nota famiglia di imprenditori abruzzesi. I due si erano incontrati per caso su Corso Italia, la via dello struscio della regina delle Dolomiti. Erano con le rispettive famiglie. E Bianchi era accompagnato anche da Carrai e signora. Toto era stato da poco perquisito su ordine della Procura di Firenze, mentre l' avvocato avrebbe ricevuto la visita delle Fiamme gialle dopo poco più di un mese, nell' ambito dello stesso filone d' inchiesta: i rapporti economici tra i Toto e il Giglio magico. Le investigazioni sono iniziate ipotizzando i reati di appropriazione indebita e autoriciclaggio. Nella lista dei primi indagati sono finiti Patrizio Donnini, uno dei primi organizzatori della Leopolda con la sua vecchia Dot media (un' agenzia di comunicazione da lui fondata) e l' amministratore delegato di Renexia Spa (società del gruppo Toto che ha finanziato con 25.000 euro la Open), Lino Bergonzi. Infatti tra l' ottobre 2016 e l' ottobre 2017 Donnini avrebbe realizzato una plusvalenza monstre da 950.000 euro, attraverso la Immobil green, cedendo cinque società che erano costate solo 68.200 euro e avevano in pancia autorizzazioni per costruire parchi eolici. A luglio la Procura di Firenze ha effettuato, come detto, diverse perquisizioni negli uffici di Donnini e del gruppo Toto. I controlli avrebbero innescato il filone che coinvolge Bianchi, accusato di traffico di influenze illecite (avrebbe fatto da trait d' union con la politica). A insospettire gli inquirenti è stata una parcella da circa 2 milioni di euro pagata all' avvocato da una società di Alfonso Toto. Ma a Ferragosto, Bianchi, probabilmente, non immaginava che cosa stesse per piovergli addosso. Chi era presente ricorda che mentre Toto parlava, l' avvocato era cupo in volto, addirittura pallido. Durante il caffè nel lussuoso hotel ampezzano Toto avrebbe rivelato al legale alcune scomode verità. I Toto, oltre ad aver permesso a Donnini di realizzare la plusvalenza milionaria, avrebbero concesso a mister Leopolda due sontuose consulenze (le fonti ci hanno riferito di importi tra i 600 e gli 800.000 euro l' una). Non basta. Donnini avrebbe ottenuto questi pagamenti presentandosi come «mediatore» con il Giglio magico e in particolare di Renzi e Luca Lotti, all' epoca ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega al Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica), organismo chiave per lo sblocco dei fondi destinati alle infrastrutture. Insomma avrebbe assicurato di essere il canale giusto per finanziare l' ex premier e risolvere i problemi degli imprenditori abruzzesi. A questo scopo avrebbe ottenuto, secondo quanto Toto avrebbe riferito allo stesso Bianchi, anche decine di migliaia di euro cash al mese (la nostra fonte ricorda la cifra di 40.000, ma c' è anche chi parla di cifre più consistenti). Una lunga teoria di dazioni che dentro al Giglio magico hanno quantificato a spanne in circa 4 milioni di euro. Bianchi, attraverso l'agenzia di comunicazione Comin and partners, ci ha confermato nella sostanza il contenuto della chiacchierata di Ferragosto con Alfonso Toto e ci ha fatto sapere di essere rimasto «sconvolto dalla voracità di Donnini, ma anche di non aver creduto un solo secondo che questi soldi possano essere andati al Giglio magico, a Renzi o a Lotti». Ci ha confermato che Toto «gli ha raccontato di queste richieste di soldi e che Donnini andava a chiedere denaro perché si presentava come intermediario verso il Giglio magico». Ma Bianchi ha ribadito ai suoi più stretti collaboratori «di non crederci per nulla». Dentro al Giglio magico sostengono che l' ex capo del governo fosse del tutto all' oscuro delle manovre del suo ex fedelissimo (piazzato durante il governo dei mille giorni nello staff del ministro della Difesa, Roberta Pinotti). A condurre Donnini alla corte di Matteo sarebbe stato Tiziano Renzi, che con il leopoldino aveva condiviso alcune esperienze editoriali e i pellegrinaggi a Medjugorje. Nel 2012 Renzi senior salvò la Web & press di Donnini dal crac con un sostanzioso finanziamento, un' operazione che venne «attenzionata» pure dai magistrati. Negli ultimi mesi Donnini si è molto impegnato per far crescere la sua start up, la Keesy srl, che offre «un modo facile e automatizzato per gestire il check in e il check out» degli ospiti di bed and breakfast, agriturismi e affittacamere. In realtà, anche se su Internet risulta amministratore, della Keesy è solo procuratore speciale. La società è controllata per l' 82 per cento dalla Immobil green: Donnini detiene il 5 per cento delle quote e ne è stato amministratore. Oggi l'incarico, come nella Keesy, è ricoperto da Massimiliano Galli, il commercialista delle aziende di Tiziano Renzi e Laura Bovoli. Abbiamo chiesto a un esperto, Guido Beltrame, di esaminare per La Verità i bilanci della Keesy e della Immobil green: «Complessivamente le due realtà hanno fatturato 53.000 euro nel 2017 (a cui bisogna aggiungere 680.000 euro di dividendi) e 260.000 nel 2018 e, al di là di qualche maquillage di bilancio, hanno guadagnato complessivamente 432.000 euro nel 2017 e perso 615.000 nel 2018. Sui due anni, quindi hanno totalizzato una perdita di 185.000» ha spiegato il commercialista. C' è da sperare per Donnini che raggiunga performance migliori con la sua società di consulenza, la Pd consulting, attiva dal 2016, anno in cui è iniziato il rapporto dell' imprenditore con i Toto. Certo non è facile credere che Donnini abbia ottenuto 4 milioni di euro da una famiglia di imprenditori esperti con la fumosa promessa di un'intermediazione che non avrebbe facilitato i rapporti con il governo e il potere politico. Due anni fa, durante il governo Gentiloni, il gruppo ottenne un ottimo risultato grazie a un emendamento alla manovra del maggio 2017, che aveva consentito ai Toto e a Strada dei parchi di risolvere un contenzioso milionario con l'Anas. Nei giorni scorsi abbiamo contattato Alfonso Toto per chiedergli la sua versione sulla chiacchierata di Cortina: «Se ho incontrato l'avvocato Bianchi per parlare di pagamenti fatti a Donnini? Non mi risulta. Quarantamila euro al mese? Ma stiamo scherzando? Tra l' altro perché lo chiede a me? Donnini non era consulente della società che amministro io () lei sa per chi lavorava Donnini?». Per la Renexia «Che io non amministro (l'ad è l'indagato Bergonzi, il presidente è il padre di Alfonso, Carlo, ndr). Lei ha sbagliato persona». Due giorni fa siamo tornati all' attacco. «Quello di cui parla mi sembra gossip. L' incontro con Bianchi? Ha difeso la società che amministro in un contenzioso ed è ancora un avvocato della mia società. Che io lo abbia incontrato non lo posso negare, i rapporti professionali risalgono nel tempo». Per risolvere il mistero, forse, ci sarebbe davvero bisogno di James Bond.
IL GIGLIO MAGICO FA L'INDIANO. R. Eco. per “la Verità” il 24 settembre 2019. Il gruppo di amici attorno alla fondazione Open ha seguito numerosi dossier nel corso degli anni. Uno di questi tocca da vicino le acciaierie di Piombino che oggi sono di proprietà degli indiani di Jindal. La scelta di portare a Piombino dopo lunghe vicissitudini il gruppo Jindal è stata fortemente voluta dai dem, così fortemente che adesso Marco Carrai siede nel consiglio di amministrazione di Jws, di proprietà di Sajjan Jindal, dopo aver ricoperto ufficialmente il ruolo di advisor. La sola speranza è che a gennaio il gruppo indiano stupisca tutti e tiri fuori un maxi coniglio dal cilindro che giustifichi l' ingiustificabile regalo che il precedente governo gli ha fatto pur di farlo subentrare ai precedenti proprietari: ben 79 milioni e 500.000 euro. Nel 2015 l' allora commissario dello stabilimento, Piero Nardi, individua in Issab Rebrab, imprenditore algerino proprietario di Cevital, l' uomo giusto per il rilancio. L' intuizione sembra avere fondamenta, tant' è che Rebrab promette 2 milioni di tonnellate di produzione, Matteo Renzi lo accoglie con la fanfara, ma due anni dopo il ministro del suo successore, Paolo Gentiloni, è costretto ad ammettere che il piano non è stato rispettato. Carlo Calenda, allora titolare del Mise, dichiara decaduti gli accordi e rescinde il contratto. A maggio del 2018 lo stabilimento passa di mano. E finisce appunto agli amici di Carrai della Jindal South West, che già nel 2013 ci avevano messo gli occhi. E in questo frangente il governo tira una linea sulla maxi causa che l' amministratore straordinario aveva intentato a dicembre del 2017 agli algerini. La somma totale per i danni per gli inadempimenti arrivava a 80 milioni di euro e a luglio del 2018 il tribunale di Livorno avrebbe dovuto incasellare la prima udienza. Nel bilancio della società però si legge nero su bianco che la causa è stata estinta ancor prima di arrivare in aula. A fronte di un accordo tombale comprensivo di soli 500.000 euro. Un enorme regalo sia agli algerini, sia agli indiani e al consiglio di amministrazione dove adesso siede Carrai. Chi segue la mediazione tra Cevital e gli indiani? Alberto Bianchi, della Fondazione Open e pure il padre putativo di Maria Elena Boschi, Umberto Tombari, storico avvocato toscano anch' egli vicinissimo a Renzi. «Tutti tacciono, solo il presidente della Regione, Enrico Rossi, fa sapere di non guardare ai nomi dei mediatori: l' importante è firmare quanto prima l' accordo e far ripartire le acciaierie di Piombino, praticamente ferme ormai da anni», scriveva all' epoca il Fatto Quotidiano. Anche il sindaco della città, Massimo Giuliani, si diceva preoccupato delle ragioni dello slittamento della firma, anche se mostrava fiducia. Senza aggiungere dettagli. A quasi due anni di distanza la scelta del governo Gentiloni non appare delle migliori. Lo stabilimento è in crisi. Il rischio è che dal prossimo anno l' impianto debba lasciarsi alla spalle la possibilità di produrre binari, un unicum in Europa. Non ne risentirà nessuno in giro per il mondo, tanto India, Russia e altre nazioni hanno ormai soppiantato la tradizione italiana. Se ne accorgeranno gli oltre 1.500 dipendenti - già in cassa integrazione - dello stabilimento. Invece gli indiani assistiti dal Giglio magico hanno una certezza: aver risparmiato quasi 80 milioni di euro.
Dago Spia il 24 settembre 2019. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, vedo riportato su Dagospia in bella evidenza e con adeguato commento un articolo di R. Eco pubblicato sulla Verità di oggi. Per completezza di informazione le trasmetto la lettera che ho inviato al riguardo al Direttore Belpietro. Cordiali saluti e buon lavoro. Alberto Bianchi
LA LETTERA DI BIANCHI A BELPIETRO: Egregio Direttore, tra le informazioni infondate o parziali che in questi giorni il suo giornale diffonde su di me stanno quelle contenute nell’articolo “l’India fa affari grazie ai renziani” a firma di R. Eco, relativo all’investimento degli indiani di Jindal nelle Acciaierie di Piombino. Ivi si legge che io avrei lavorato, a favore non si capisce bene di quale società, per ridurre da 80 milioni a 500.000 euro la pretesa risarcitoria dell’Amministratore straordinario della Lucchini in un contenzioso tra quest’ultimo e gli algerini di Cevital. Ai sensi della legge sulla stampa le chiedo di precisare la verità delle cose, ossia:
A. non ho mai assistito né l’Amministratore straordinario della Lucchini né gli algerini di Cevital né gli indiani di Jindal in nessun contenzioso che avrebbe opposto gli algerini o gli indiani all’Amministratore straordinario;
B. ignoravo ed ignoro che ci fosse una pretesa dell’Amministratore straordinario della Lucchini di 80 milioni nei confronti degli algerini;
C. ignoravo ed ignoro che questa pretesa si sia ridotta a 500.000 euro;
D. in sintesi non mi sono mai occupato di un affare del genere (ammesso e non concesso che non fosse lecito occuparsene). Mi riservo, in questo e in altri casi, di agire in ogni sede competente per il risarcimento dei danni che il pubblicare notizie false produce all’uomo e al professionista. Cordiali saluti. Avv. Alberto Bianchi.
Alessandro Da Rold per “la Verità” il 24 settembre 2019. È un rapporto profondo quello tra Pd e Link Campus University, ateneo fondato dall' ex Dc Vincenzo Scotti, fucina della classe dirigente a 5 stelle, dal sottosegretario alla Difesa Angelo Tofalo, all' ex ministro Elisabetta Trenta al ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. Alla Link insegna anche Massimo D' Alema, ma vale la pena ricordare come dal 2016 la sede dell' università sia l' antico casale San Pio, fiore all'occhiello degli immobili per ciechi e ipovedenti (centro Sant' Alessio) gestiti dalla Regione Lazio del segretario dem Nicola Zingaretti. La sottoscrizione è venticinquennale e la Link è stata scelta tramite procedura pubblica: un articolo del Fatto Quotidiano di febbraio ricordava un ritardo nei pagamenti del canone per circa 840.000 euro. Affitto a parte, è il legame con i nostri servizi segreti il vero motore della Link, uno scambio che va avanti da anni, legittimato dalla legge riforma dell' intelligence del 2007 che istituzionalizzò i rapporti con le università. L' ateneo romano - un filo diretto con la fondazione Icsa di Marco Minniti - è anche soprannominato la «Terza parte» e ha un peso non indifferente nella linea politica del nostro comparto sicurezza. E sta diventando un simbolo dei legami dell' attuale governo giallorosso di Giuseppe Conte. C' è tensione tra gli uffici del nuovo ministero della Difesa targato Lorenzo Guerini. L' insediamento dell' ex sindaco di Lodi, vecchio democristiano ora piddino di ferro, ha riattivato la vecchia squadra che ha governato con Roberta Pinotti il ministero fino al 2018. Se ne è accorto il sito Sassate, che da una settimana bombarda i tentativi di riposizionamento degli uomini della vecchia guardia pilottiana (Pinotti e Luca Lotti). In principio doveva diventare capo di gabinetto Michele Nones, vice presidente Iai (Ististuto Affari Internazionali) e consigliere dell' industria della Difesa, al posto di Pietro Serino. Ora invece ci sono buone probabilità che questo incarico sia assegnato a Carmine Masiello , uscito a luglio dal Dis, dove era vicedirettore generale e mancato vice capo di sStato maggiore dell' Esercito. Allo stesso tempo come capo della segreteria politica è arrivato Fausto Recchia, già nello stesso ruolo con la Pinotti, riconfermato per altri tre anni come amministratore delegato di Difesa servizi spa. C' è chi parla di conflitto di interessi, ma il tema non sembra scaldare i 5 stelle. Potrebbe tornare da New York, dove è in forza dentro Fincantieri, anche l' ex portavoce Simone Mazzucca. Al ministero dell' Economia sembra confermato come capo di gabinetto Luigi Carbone, ma manca ancora l' ufficialità. Il magistrato «musicista» potrebbe restare per tutto il tempo della legge di stabilità. Anche perché la bozza da cui dovrà partire la nuova squadra di Roberto Gualtieri, l' ha scritta in parte anche lui prima dell' estate con Giovanni Tria.
Antonella Mollica per “il Corriere della sera”il 25 settembre 2019. Soldi alla Fondazione Open ma anche al comitato per il Sì al referendum costituzionale del 2016. Nell' inchiesta della Procura di Firenze che coinvolge l' avvocato Alberto Bianchi, l' ex presidente della «cassaforte» renziana, spunta anche un finanziamento di 200 mila euro al comitato per il referendum voluto da Matteo Renzi. Nel mirino degli inquirenti è finito l' incarico affidato a Bianchi nel 2016 dal colosso dell' edilizia Toto Costruzioni per un accordo transattivo con la società Autostrade. Un contenzioso da 75 milioni di euro. La parcella dello studio era di circa due milioni: Bianchi incassò 750 mila euro lordi che corrispondono a 400 netti. Di questa cifra, 200 mila euro furono versati a Open, la Fondazione presieduta da Bianchi e nata per finanziare la scalata politica di Renzi da sindaco di Firenze a presidente del Consiglio. Duecento mila euro, hanno accertato le indagini, sono invece finiti al comitato che sosteneva la riforma costituzionale proposta da Renzi. «Più o meno un anno dopo Open ne ha restituiti 190. Bisognava ripianare i debiti della Fondazione», è la versione fornita ufficialmente da Bianchi. Su questi passaggi di denaro la Procura di Firenze sta cercando di fare luce. Bianchi è indagato per traffico di influenze ma l' obiettivo degli inquirenti è di verificare se si possa configurare l' ipotesi di finanziamento illecito. Tutto il materiale sequestrato nella lunga perquisizione avvenuta il 16 settembre scorso nello studio dell' avvocato Bianchi alla presenza del procuratore aggiunto Luca Turco e del pm Antonino Nastasi che hanno coordinato le indagini è adesso al vaglio degli investigatori. Sono stati portati via i bilanci di Open e la lunga lista dei finanziatori. Open era nata nel 2012 a Firenze con il nome di Big Bang ed era diventata il contenitore per ricevere donazioni da parte di finanziatori privati, legando il suo nome soprattutto alle convention della Leopolda, dove ha avuto inizio la «rottamazione» di Renzi. Nel 2018 , dopo sette edizioni della Leopolda, Open ha chiuso i battenti ma in tutti questi anni ha raccolto circa 6,7 milioni di euro. Questa mattina l' avvocato Nino D' Avirro, difensore di Bianchi, presenterà ricorso al tribunale del Riesame per chiedere l' annullamento dei sequestri.
Dagospia il 25 settembre 2019. Estratto dell’articolo di Alessandro Da Rold, Simone Di Meo e Carlo Tarallo per “Panorama” pubblicato da “la Verità”. La rosa dei venti del Giglio magico segna quattro punti cardinali: finanza, imprese, nobiltà e politica. E il nuovo partito, Italia viva, è l'ago magnetico che orienterà alla ricerca del potere perduto Matteo Renzi e le sue legioni. Quelle che già lo sostengono apertamente, e quelle in sonno che stanno iniziando a riposizionarsi. Malgrado i tre anni lontano da Palazzo Chigi, i rapporti sono saldi. E, come vedremo, i rapporti sono soprattutto soldi. La creatura dell'ex rottamatore ha bisogno, e subito, di risorse per crescere. Negli ultimi tre mesi, proprio lui che attaccava la Bestia di Matteo Salvini per le costose sponsorizzazioni sui social network, ha speso su Facebook 40.000 euro per promuovere i suoi videomessaggi. Più di tutti gli altri leader politici messi assieme. A ben guardare più che un partito, è un derivato: Italia viva assomiglia a un fondo di investimento politico ad altissimo rischio. Chi crede nel suo successo deve puntare forte, e farlo in fretta, se ha intenzione di incassare sostanziosi dividendi. Renzi si lancia in questa avventura con una manciata di parlamentari e pochissime truppe sui territori, molti dei suoi stessi (ex) fedelissimi, a partire da Luca Lotti e Lorenzo Guerini, stanno facendo di tutto per contenere la crescita dei gruppi parlamentari (che potranno contare, intanto, su un contributo di un milione di euro) eppure c'è chi, per riconoscenza o per amore del rischio, ha messo e metterà mano al portafoglio per finanziare il partitino neocentrista, versando il proprio contributo alla cassaforte del progetto renziano. Parlamentari, imprenditori, semplici cittadini: i finanziatori di Renzi, attraverso i Comitati di Azione Civile, sono tanti e molto ottimisti, e pure buoni profeti, visto che i versamenti aumentano di consistenza man mano che il quadro politico sul quale si reggeva il patto Lega-M5s si destabilizza. Basta un'occhiata al sito internet dei Comitati di Azione Civile - Italia viva (sezione Trasparenza, dove vengono resi noti i finanziatori per più di 500 euro) per verificarlo. [...] Ad agosto esplode la crisi di governo e anche i finanziamenti ai Comitati: solo quelli inferiori ai 500 euro, e quindi anonimi, ammontano a ben 35.348 euro. [...] Il totale di agosto è 216.848 euro. [...] Se bisogna riconoscere a Renzi un'abilità, insomma, è quella di raccogliere denaro per le sue attività politiche. Dal 2007 al 2015, con le associazioni Link e Festina Lente e le fondazioni Big Bang e Open (sostituita dalla Matteo Renzi Foundation) ha rastrellato circa 6,7 milioni di euro, di cui solo il 30 per cento in chiaro. Il resto è rimasto avvolto dalla cortina fumogena dell' anonimato. [...] Un po' senatore semplice un po' fundraiser, l’ex premier, nel maggio scorso, ha costituito una srl, la Digistart, con 10.000 euro di capitale che si occupa di «consulenza aziendale e assistenza nella pianificazione strategica a favore di imprese» oltre che di «ricerca investimenti» e di «individuazione di possibili partners e/o sinergie per creare valore». Il domicilio della società è lo stesso della Carfin, la holding dell' onnipresente Carrai. Attività di lobbista che si affianca a quella di conferenziere globetrotter che gli consente di stringere nuove relazioni che sicuramente torneranno utilissime per lanciare Italia viva. Nel giugno scorso, Renzi è stato ospite dell'annuale riunione del Club Bilderberg, a Montreux in Svizzera, insieme a 130 leader occidentali. [...] Renzi si è impegnato a intensificare i rapporti con il mondo arabo - nonostante la vicinanza a Israele mediata da Carrai che dello Stato ebraico è console nel capoluogo toscano - con ripetute visite negli Emirati Arabi (Dubai) e, soprattutto, in Qatar. Nella penisola affacciata sul Golfo Persico può contare sull'amicizia dell'emiro Tamim Bin Hamad al Thani e su una vasta rete di contatti che gli consentirono, quando sedeva a Palazzo Chigi, di firmare con la Qatar Foundation un accordo da un miliardo di euro per il rilancio dell'ospedale sardo Mater Olbia. A Doha si rifugiò anche dopo le dimissioni da capo del governo, nel gennaio 2017. E in seguito ci ritornò con Carrai - si disse - per trattare la vendita della Fiorentina. Sempre Carrai, in Qatar, è interessato agli appalti per la cybersicurezza in vista dei mondiali di calcio del 2022. Il canale del business calcistico mediorientale ritorna anche nell'inchiesta a carico del pm Luca Palamara, indagato a Perugia per corruzione, il cui cellulare, infettato da un virus trojan, ha raccolto voci su un analogo tentativo condotto da Luca Lotti per la cessione della Roma di James Pallotta. Ma non è solo il fascicolo sulle manovre attorno alle nomine dei procuratori che mette in fibrillazione il Giglio magico. A Firenze, infatti, i pm Luca Turco e Giuseppina Mione hanno recentemente indagato per traffico d'influenze illecite l'avvocato Alberto Bianchi, presidente della fondazione Open e consigliere di amministrazione Enel, in relazione ad alcune prestazioni professionali che, secondo l'accusa, sarebbero servite a noti imprenditori per agganciare la politica. La Guardia di finanza ha perquisito lo studio legale e sequestrato il bilancio dell'ente organizzatore della Leopolda e la lista dei finanziatori. Sempre per traffico di influenze illecite Tiziano Renzi è indagato proprio a Firenze (come rivelato in esclusiva, nel marzo scorso, da Panorama) e a Roma, in uno stralcio dell' inchiesta Consip. Il gip capitolino, a luglio, ha rigettato la richiesta di archiviazione, avanzata dalla procura nei suoi confronti, fissando la camera di consiglio al 14 ottobre. La grande battaglia del riposizionamento renziano, dunque, non prevede tempi supplementari. [...] Da un mese a questa parte, inoltre, sono tornati a squillare i telefoni del Giglio magico in vista del grande spoil system nelle aziende partecipate italiane di primavera. [...] Milano è sempre stato un pallino dei renziani. [...] A Milano a spingere sul vento renziano sono anche i salotti. Tra i recenti finanziatori risulta con 12.000 euro il contributo di Alessandro Fracassi, consigliere di amministrazione di A2a, socio della società Mutui online fondata con Marco Pescarmona, tra i soci del quotidiano online Linkiesta. [...] Per ritornare al potere c' è bisogno di tutto e di tutti.
Tomaso Montanari per “il Fatto quotidiano”il 23 settembre 2019. "Serve un' Agenda Firenze: Peretola, Alta velocità, musei e turismo. Paola De Micheli non è Toninelli, Dario Franceschini non è Bonisoli, e avendo parlato con entrambi sono certo che il governo Conte2 avrà nei confronti del sistema aeroportuale toscano e del sistema museale fiorentino un approccio radicalmente diverso La maggioranza è relativa, non assoluta. Senza di noi non c' è governo, è chiaro? Io non parlo di futuro, parlo di fatti. Il Mibact ha già firmato il ricorso contro la sentenza del Tar della Toscana che nel maggio scorso ha dichiarato nulla la Valutazione d' impatto ambientale, bloccando l' iter di realizzazione della nuova pista di Peretola grazie al ministro Franceschini e al segretario generale del ministero Salvo Nastasi il ricorso è stato firmato Non so se ricorda che in epoca gialloverde Bonisoli non ha mai voluto firmare". Vale la pena di citarla estesamente, questa intervista del Corriere Fiorentino a Matteo Renzi di domenica scorsa. Perché c' è dentro tutto quello che ci si deve aspettare dal comitato di affari&influenze appena battezzato col nome che a Prodi ricorda quello di un fermento lattico. Il metodo, intanto: che è, fin da subito, quello del ricatto craxiano. La rocca di Rignano sorge ora sulla strada stretta che tiene insieme 5 Stelle e Pd: ed è lì che il novello Ghino di Tacco esigerà taglie e pretenderà riscatti (i "fatti"). Il senatore-brigante esibisce fiero il primo bottino: e le anime belle a cui non erano bastati 4 anni di epocali disastri per emettere un fiato sul ritorno di Dario Franceschini al Mibac(t), possono ora giudicare senza temere di emettere un pre-giudizio. Il primo atto da neoministro del tenutario di bed and breakfast ferrarese è stato prendere la politica ambientale dei 5 Stelle e buttarla nel cesso, nel totale silenzio dei malcapitati. Anzi, peggio. I pentastellati del consiglio comunale di Firenze si sono affrettati a votare il programma di mandato di Dario Nardella (clamoroso salto dall' opposizione all' appoggio esterno), che hanno scoperto essere "del tutto in linea con il programma per le elezioni comunali presentato ai cittadini la scorsa primavera in occasione della tornata elettorale". Dopo che i loro elettori, inferociti, hanno fatto notare che quel programma contiene anche il pacchetto delle Grandi Opere del Giglio Magico, hanno chiarito che non avevano capito su cosa si votasse, e dichiarato che "è diverso il giudizio sul completamento del nodo Alta Velocità così come concepito che, nella sua natura di opera costosa e inutile, riteniamo sia l' ennesima occasione dell' incredibile sperpero di denaro pubblico che nulla ha a che vedere con il bene collettivo". Un incidente fantozzesco o l' inizio di quella metamorfosi alla Zelig che ai tempi della coabitazione con Salvini portava i 5 Stelle a indossare la camicia nera, e che ora quella con i piddini potrebbe presto indurli a vestire la grisaglia dei mediatori d' affari? Intanto, una cosa è chiara, e spiega perché se ne parli in questa rubrica. Ed è che le spese del piccolo potere di ricatto del novello Ghino le faranno soprattutto il "paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione", per usare le parole dell' articolo 9 della Costituzione. L' ossessione della nuova pista per l' aeroporto di Firenze (la cui società è presieduta dall' eterno amico Marco Carrai, che ha da poco offerto il domicilio anche all' ultima società creata da Renzi, la Digistart srl) è il manifesto di quello sviluppismo insostenibile anni Ottanta che tanto appassiona il nostalgico Renzi. La prima decisione toscana da prendere per fare almeno finta di aver capito qualcosa del messaggio di quella Greta che tutti citano, sarebbe invece quella di rinunciare all' ampliamento dell' aeroporto. Perché non ha senso duplicare quello di Pisa, perché si distruggerebbe quel poco che resta delle zone umide dalla Piana, perché aumentare il traffico significa rovinare ancora un po' la vita di quei cittadini già marginali che vivono intorno all' aeroporto. E per tutte le ragioni elencate nelle interminabili prescrizioni della Via della Regione Toscana che il Tar aveva giustamente annullato, ritenendola di fatto una bocciatura travestita da promozione. Invece no, Italia Viva vuole la pista. Chiarendo bene la genesi del suo nome: da leggere in opposizione a Italia Nostra e in continuità con Sblocca Italia. Italia Viva: il partito del Fare, il partito del Sì alla qualunque, il partito delle mani libere su territorio e patrimonio. Renzi sgomita per intestarsi una politica sviluppista che in Toscana ha fin troppi promotori: a partire dal presidente Enrico Rossi, appena rientrato nel Pd e fervente apostolo della pista di Peretola e del suo modello di consumo. Proprio le prossime regionali rischiano di avvitarsi su questo tema: come farebbe, per esempio, LeU (il cui più autorevole esponente toscano è il sindaco di Sesto Lorenzo Falchi, eletto proprio come paladino della lotta contro l' ampliamento dell' aeroporto) a stare in una santa alleanza Italia Viva-Pd-5 Stelle? e poi in nome del frontismo contro Salvini si decidesse di immolare proprio il tema della giustizia ambientale, il risultato sarebbe catastrofico: perché aumenterebbe ancora quell' astensione da nausea che prosciuga il bacino dei votanti, dando peso proprio ai voti di protesta alla Lega. Ma niente paura, il sorriso del senatore Ghino diffonde ottimismo: Toscana, stai serena!
Dago Spia il 25 settembre 2019. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, Ieri su Dagospia è stato ripreso e pubblicato un articolo di T. Montanari pubblicato su Il Fatto Quotidiano sempre di ieri. Per completezza di informazione le trasmetto la lettera che ho inviato al riguardo al direttore Travaglio che ha costretto, pur con una elucubrazione mentale successiva perché per gli storici è duro ammettere l’errore, il dott Montanari ad ammettere la falsità della notizia precedentemente data. Cordiali saluti e buon lavoro. Marco Carrai
Gentile direttore, Nel giornale da Lei diretto in data 23 settembre u. s. è uscito un articolo a firma di Tomaso Montanari dal titolo “Ambiente? Il ricatto di Renzi per l’aeroporto di Firenze”. Senza entrare nel merito delle questioni generali trattate nell’articolo, perché essendo tutte visioni opinabili porterebbe via molto spazio a questa mia lettera e sappiamo bene le opinioni del dottor Montanari in proposito essendo tra i principali oppositori della nuova pista aeroportuale, voglio però significarle che nell’articolo vi è scritto: “L’ossessione per l’aeroporto di Firenze (la cui Società è presieduta dall’eterno amico Marco Carrai, che ha da poco offerto il domicilio anche all’ultimo Società creata da Renzi, la digistart srl).”Egregio direttore io non ho offerto nessun domicilio all’azienda creata da Renzi. Digistart srl ha la sede legale, così com’è possibile per Legge, presso un commercialista di Firenze che essendo anche il mio commercialista vede lì anche la sede legale di alcune mie Società. Il dottor Montanari tanto apparentemente attento e scrupoloso non lo è quando si tratta di diffondere la cultura del sospetto. Bastava un semplice controllo e non sarebbe incappato in questa menzogna per cui richiederò il risarcimento del danno che come tutti quelli vinti negli ultimi anni devolverò in beneficienza. Cordiali saluti Marco Carrai
La risposta di Montanari sul ''Fatto'': Non si tratta di una menzogna, ma di una mia deduzione: al più di un' innocua imprecisione, della quale prendo atto. Se è vero come è vero che i grandi amici Carrai e Renzi si servono dello stesso commercialista (al momento assai più indaffarato per la mole di affari del primo), deve essere avvenuto per caso, forse perfino senza che se lo siano mai detto. Sta di fatto che presso quello stesso studio sono domiciliate sia la Digistart di Renzi che la Carfin di Carrai. Nessuna cultura del sospetto (vista poi la marginalità del dettaglio): semmai l'abitudine dello storico a connettere i dati di fatto per interpretare la realtà. E giudicarla. Tomaso Montanari
Antonio Massari e Valeria Pacelli per il “Fatto quotidiano”il 25 settembre 2019. C' è un punto chiave sul quale gli investigatori della Guardia di Finanza stanno facendo luce in queste ore: dare un nome al tramite tra Patrizio Donnini e la società Renexia del gruppo Toto. Il sospetto è che si tratti di un politico di alto livello dell' area renziana. È una domanda fondamentale e vediamo perché. Patrizio Donnini è un imprenditore fiorentino, creatore della Dot Media, società di comunicazione che ha lavorato anche per la kermesse renziana, la Leopolda. È accusato dalla Procura di Firenze di autoriciclaggio e appropriazione indebita in concorso con l' amministratore delegato di Renexia Lino Bergonzi. Tra il 2016 e il 2017 la Immobil Green Srl (di cui Donnini detiene una quota del 5 per cento) vende alla Renexia Spa cinque aziende operanti nell' eolico: riesce così, piazzandole al quadruplo del prezzo d' acquisto, a incassare una plusvalenza di 950 mila euro in totale. Il punto è che Donnini non s' è mai occupato prima di eolico. E non si limita a fare da mediatore per l' affare, ma rischia in proprio: acquista e poi rivende. Da qui il sospetto (per ora tale) degli investigatori: era forse certo che avrebbe rivenduto a Renexia? E - in caso affermativo - da dove traeva quella certezza? Intanto un perito incaricato dai pm di Firenze sta passando al setaccio il contenuto dei cellulari di Donnini e di Alfonso Toto, legale rappresentante della Toto Costruzioni Generali spa: i cellulari di entrambi sono stati sequestrati. Gli investigatori stanno verificando se ci siano stati contatti precedenti all' operazione - e di quale natura - tra l' imprenditore fiorentino, la Renexia e lo stesso Alfonso Toto. Peraltro, considerato che Bergonzi è indagato per appropriazione indebita, la Renexia risulta la parte lesa. A meno che Bergonzi non abbia agito con il consenso di alti componenti del gruppo. Il contenuto dei cellulari di Donnini e Toto, anche su questo punto, potrebbe fornire una risposta. Ma soprattutto, l'analisi di entrambi i telefoni, può portare a sciogliere il dubbio iniziale: chi ha messo Donnini in contatto con uomini e società del gruppo Toto? Il telefono dell' imprenditore fiorentino conterrà inevitabilmente contatti con il mondo renziano che, a meno di risultare penalmente rilevanti, non saranno utilizzabili nell' inchiesta. La vicinanza di Donnini al Giglio Magico è infatti nota: il 20 per cento della Dot Media da lui fondata, giusto per fare un esempio, appartiene ad Alessandro Conticini, fratello di uno dei cognati di Matteo Renzi. E così per evitare che siano depositati messaggi che non riguardano l'inchiesta in corso, i legali di Donnini hanno chiesto ai pm la distruzione di tutto ciò che non sia attinente all' indagine. I finanzieri inoltre nei giorni scorsi hanno bussato anche alle porte della sede della Dot Media: ciò è avvenuto non perché questa società rientri dell' indagine, ma perché le fiamme gialle hanno perquisito i luoghi che potevano essere nella disponibilità di Donnini. E qui hanno anche sequestrato un pc in uso a Lilian Mammoliti, vecchia amica di Donnini, che detiene il 50 per cento delle quote della Dot Media. C'è però un' altra inchiesta fiorentina che riguarda un renziano della prima ora: quella che vede indagato Alberto Bianchi, ex presidente della fondazione Open, la cassaforte del renzismo, per traffico di influenze. Anche in questo caso c' è un collegamento con il gruppo Toto, dal quale Bianchi ha ricevuto un incarico per un contenzioso con Autostrade, con parcella di più di un milione di euro. Due terzi della somma sarebbero stati versati da Bianchi al suo studio associato, un terzo per sé. Dal suo conto il legale avrebbe poi versato alla Open, che in quel momento era in difficoltà economiche, circa 200 mila euro. Salvo riprenderne - secondo fonti vicine all' avvocato - circa 190 mila euro quando la Fondazione stava per chiudere. Bianchi non ha soltanto dato una mano alla Open. Ha anche finanziato il comitato per il "Sì" al referendum costituzionale del 2016. Nessuna conferma che anche questa parte di finanziamento sia al vaglio degli inquirenti. Il suo legale oggi presenterà ricorso al Riesame per chiedere l' annullamento dei sequestri eseguiti dalle Fiamme gialle.
Giacomo Amadori e Simone Di Meo per “la Verità” il 27 settembre 2019. C' era anche la Renexia spa tra i finanziatori della fondazione Open di Matteo Renzi. La società impegnata nel settore delle energie rinnovabili appartiene al gruppo Toto, nota famiglia di imprenditori abruzzesi, e il suo amministratore delegato, il pavese Lino Bergonzi, è attualmente indagato per appropriazioni indebita e falso in bilancio per aver acquisito, tra l' ottobre del 2016 e quello del 2017, cinque aziende autorizzate a costruire parchi eolici da Patrizio Donnini, ex stretto collaboratore di Renzi, al prezzo monstre di 1.030.000. Donnini tra agosto e settembre 2016 aveva pagato le stesse ditte 68.200 euro, realizzando una plusvalenza dichiarata di 950.000 euro. Ma la Renexia, prima di arricchire Donnini (indagato a sua volta per appropriazione indebita e autoriciclaggio), aveva iniettato 25.000 euro nella cassaforte renziana, accettando che quell' offerta venisse resa pubblica. Il finanziamento è inserito nell' elenco (periodo luglio 2014-maggio 2015) che era presente su Internet sino a qualche mese fa. Ora il sito della fondazione è stato cancellato e la stessa è stata chiusa nel 2018. A riaprire gli archivi ci ha pensato la Guardia di finanza di Firenze su ordine della Procura di Firenze. Il 16 settembre le Fiamme gialle hanno perquisito lo studio dell' avvocato Alberto Bianchi, ex presidente della fondazione, e hanno portato via bilanci ed elenchi dei finanziatori. Al centro delle loro indagini la parcella da 2 milioni di euro pagata dalla Toto costruzioni generali allo studio di Bianchi. Di quei 2 milioni, 750.000 euro sono finiti direttamente nella disponibilità dell' avvocato che, dopo aver pagato le tasse, ha dirottato il guadagno netto di quella prestazione professionale: 200.000 euro su Open e 200.000 verso i comitati per il Sì del referendum costituzionale del 2016. La versione ufficiale è che quest'ultima sia stata un'elargizione a titolo personale, mentre la prima sarebbe stata fatta per evitare di rispondere davanti alla legge per i bilanci dissestati della fondazione. Alla chiusura di Open, il presidente avrebbe recuperato 190.000 euro. Dunque con che formula sono entrati nelle casse della fondazione? Era un prestito? Oppure un' erogazione liberale? Nell' articolo 6 si legge: «La fondazione non ha scopo di lucro e pertanto durante tutta la sua esistenza non potrà distribuire, neppure in modo indiretto, utili o avanzi di gestione, nonché fondi, riserve o capitali, salvo che la destinazione o la distribuzione non siano imposte dalla legge. Eventuali utili o avanzi di gestione dovranno essere impiegati esclusivamente per la realizzazione delle attività istituzionali e di quelle connesse». L' articolo 17 aggiunge: «Se lo scopo della fondazione divenisse impossibile o di scarsa utilità [...] il patrimonio residuo della fondazione sarà devoluto a fini di pubblica utilità». Quindi Bianchi, se abbiamo ben compreso, avrebbe potuto recuperare i suoi soldi solamente se non fossero stati una donazione. E in effetti, sino al giugno del 2017 (l' elenco pubblico dei finanziatori si ferma a quella data), Bianchi compare nella lista dei donatori per aver elargito 30.400 euro, un versamento che sarebbe stato effettuato dopo il maggio 2015. Quando sono stati versati gli altri 200.000 euro? Dopo il giugno 2017? Oppure, come abbiamo ipotizzato, non sono da considerarsi un' elargizione? L' avvocato non ci ha risposto, ma certamente lo farà con gli inquirenti. I quali stanno passando ai raggi x i bilanci (su Internet l' ultimo disponibile risale al 2016) e la lista dei finanziatori. La loro l' attenzione si starebbe concentrando sui sostenitori più generosi, alla ricerca di eventuali ricadute dell' attività di governo sulle loro aziende. Nel salvadanaio di Matteo Renzi hanno messo soldi un po' tutti i bei nomi della finanza e dell' imprenditoria sedicente progressista del Paese. Molti però hanno preferito nascondersi dietro le cortine fumogene dell' anonimato negando l' autorizzazione alla diffusione dei loro dati. Sui 6,7 milioni di euro raccolti complessivamente dalla fondazione, solo 2,3 milioni sono «noti». In pratica, come scritto dal settimanale Panorama questa settimana in edicola, appena un terzo. Sul sito «oscurato» della fondazione, gli organi sociali di Open hanno reso pubblici i nomi dei simpatizzanti che hanno «contribuito finanziariamente [] dalla sua costituzione al 30 giugno 2017» per un totale di 5.542.902,49 euro. Considerato che l' ente ha chiuso i battenti agli inizi del 2018, significa che da luglio 2017 in poi sono stati raccolti altri 1,2 milioni di euro di cui si sa nulla. Il che non corrisponde esattamente alle convinte dichiarazioni di Bianchi («Siamo la fondazione italiana più trasparente in assoluto») né agli obblighi di chiarezza che uno strumento finanziario, legato alla politica, dovrebbe avere. Oggi, con la legge Spazzacorrotti, questo meccanismo di «occultamento» non sarebbe più possibile. Ma chi sono i finanziatori in chiaro di Open? Il banchiere Carlo Micheli, figlio del finanziere Francesco, ha versato 10.000 euro. L' immancabile Davide Serra e la moglie Anna Barassi hanno staccato un assegno da 175.000 euro. L' ex presidente della Fiat Paolo Fresco e la moglie Marie Edmée Jacquelin hanno offerto 50.000 euro. Un po' di più (60.000 euro) è arrivato dalla Isvafim spa, società che fa riferimento all' imprenditore napoletano Alfredo Romeo coinvolto nell' inchiesta Consip insieme all' ex ministro Luca Lotti e al papà di Matteo Renzi, Tiziano. La stessa cifra (62.000 euro) messa sul piatto da Enzo Manes, patron della finanziaria Intek spa e della Km Europa metalli. Dall' industriale dell' acciaio Guido Ghisolfi (suicidatosi nel febbraio 2019) e dalla moglie Ivana Tanzi è giunto esattamente il doppio, 125.000 euro. Tra i capitani coraggiosi ci sono pure l' armatore Vincenzo Onorato (50.000 euro) e la sua Moby (100mila). La lista comprende anche la multinazionale delle sigarette, British american tobacco (100.000 euro), la Blau meer (20.000 euro), di cui sono titolari i fratelli Orsero, i re della frutta, e la Alicros spa (30.000 euro), controllata dalla famiglia Garavoglia dell' azienda Campari. Diecimila euro è la quota versata da Jacopo Mazzei, presidente della Cassa di risparmio di Firenze e consuocero di Paolo Scaroni e cugino di Lorenzo Bini Smaghi, e da David Ermini, attuale vicepresidente del Csm. Due curiosità: i 5.000 euro di Dario Cusani, fratello di Sergio, condannato nel processo per la maxitangente Enimont, e i 250 euro di Antonio Campo Dall' Orto che sarà poi nominato dg della Rai renziana.
Scissione, ecco come Renzi e Italia viva portano via al Pd oltre 3 milioni di euro. Pubblicato giovedì, 26 settembre 2019 su Corriere.it da Claudio Bozza. Con l’addio dei 41 parlamentari, arriveranno oltre 2 milioni in meno di rimborsi ai gruppi dem. E al Nazareno mancherà un milione di contributi dagli eletti. Rischio licenziamenti. Non solo i 41 parlamentari. Con la scissione dal Pd, l’ex segretario Matteo Renzi porta via al Nazareno oltre 3 milioni di euro l’anno. Una cifra enorme. Sul piatto mancheranno i rimborsi annuali (2 milioni e 150 mila euro) che Camera e Senato versano ai gruppi in base al numero di eletti. E a questi va aggiunto il milione che non arriverà direttamente nelle casse del Partito democratico, visto che il regolamento dei dem impone ad ogni eletto un contributo mensile di 1.500 euro, che moltiplicato per 51 parlamentari e poi per 12 mesi dà un ammanco totale di 918 mila euro. Le conseguenze della scissione di Italia viva non sono quindi solo politiche, ma anche economiche. Un aspetto, quest’ultimo, che non riguarda solo il «Palazzo», perché il Pd subirà un danno operativo concreto. I rimborsi ai gruppi servono infatti per finanziare l’attività politica sul territorio e soprattutto per pagare i dipendenti assunti a Montecitorio e Palazzo Madama: sono loro, dietro le quinte, che portano avanti tutta la parte legislativa, di relazioni e di gestione di tutta la macchina parlamentare. E adesso i dirigenti dei gruppi dem sono impegnati in una complicata operazione di “taglia e cuci” per scongiurare la possibilità di dover licenziare qualcuno a causa della mancanza di fondi per gli stipendi. Prima dello strappo di Renzi, al Senato il Pd percepiva 3,3 milioni di rimborsi annui. Con l’addio dei 15 senatori arriveranno 900 mila euro in meno, dirottati verso il nuovo gruppo di Italia viva, presieduto da Davide Faraone. A Palazzo Madama, dopo il crollo alle Politiche del 4 marzo 2018, i dipendenti del partito sono 39, che nella precedente legislatura erano ben 54. Adesso, per provare a scongiurare i licenziamenti, scatterà una pesante sforbiciata alla voce “consulenze”, poi si vedrà. Di certo, a rendere almeno un po’ meno ostica la situazione, c’è il fatto che con il Pd di nuovo al governo almeno una parte dei dipendenti potrà essere accolta tra Palazzo Chigi ed i vari ministeri. Alla Camera, sempre prima della scissione, il Pd riceveva 5,4 milioni di rimborsi. Oggi sono di minuiti di 1 milione e 250 mila euro, che andranno al gruppo guidato da Maria Elena Boschi. Nella scorsa legislatura, i dipendenti del gruppo a Montecitorio erano 120-130: oggi sono calati a 70. E anche in questo caso, bilancio alla mano, i dirigenti del gruppo sono impegnati notte e giorni ad individuare le voci da tagliare per evitare di toccare i lavoratori.
Giacomo Amadori per “la Verità” il 27 settembre 2019. Il senatore Matteo Renzi è ormai una macchina da soldi. Infatti al suo stipendio da senatore (che lo stesso ex premier ha quantificato in 10.000 euro) aggiunge le numerose entrate che gli derivano da consulenze, conferenze e cause civili per diffamazione. Per la sua attività di conferenziere globe trotter sta firmando contratti anche a cinque zeri. Un filone così remunerativo per cui avrebbe fondato una società ad hoc, la Digistart. Ma anche le citazioni in tribunale di giornalisti e avversari vari si stanno dimostrando un esercizio altamente redditizio. Ad aprile aveva annunciato cause contro personaggi come il cantante Piero Pelù (che lo aveva definito «boy scout di Licio Gelli»), lo chef Gianfranco Vissani, il direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio e altri, compresa una vecchietta inviperita con lui per il cosiddetto decreto Salvabanche. Sembra che con qualche volto noto Renzi abbia già chiuso la pratica incassando ricche transazioni, mentre con altri la guerra continua. Per esempio ieri il suo ufficio stampa ha comunicato che l' ex Rottamatore ha incaricato i propri legali di procedere con un' azione civile contro Il Fatto Quotidiano per gli articoli firmati da Carlo Tecce e Tomaso Montanari il 25 settembre. Il primo servizio si intitolava «Politico e oratore: Renzi (ri)organizza le sue casse» e faceva i conti in tasca al leader di Italia viva; il secondo aveva invece questo incipit: «L' imbarazzante fuga di Matteo Renzi dal Partito democratico non è solo l' occasione per capire una volta per tutte la vera natura di questo piccolo imprenditore del proprio potere, personale e di clan (inseparabile dallo "stantio odore di massoneria" captato per tempo da Ferruccio de Bortoli)». E deve essere stata propria quest' ultima citazione a far infuriare il fu Rottamatore. Infatti la settimana scorsa l' avvocato fiorentino Lorenzo Pellegrini ha depositato una richiesta di risarcimento danni da 100.000 euro per diffamazione contro l' ex direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli e una richiesta di mediazione all' Organo di conciliazione di Firenze per le «plurime espressioni offensive» che avrebbero leso la reputazione di Renzi. Tra le frasi contestate c' è proprio quella sulla «massoneria», vergata nel 2014: «Il patto del Nazareno finirà per eleggere anche il nuovo presidente della Repubblica, forse a inizio 2015. Sarebbe opportuno conoscerne tutti i reali contenuti. Liberandolo da vari sospetti (riguarda anche la Rai?) e, non ultimo, dallo stantio odore di massoneria». Nel 2015, sempre de Bortoli, è tornato alla carica: «Del giovane caudillo Renzi che dire? Un maleducato di talento», dove l' accostamento a Francisco Franco o comunque a un dittatore è stato ritenuto dall' ex premier diffamatorio. Infine l' avvocato Pellegrini contesta un capitolo del libro di de Bortoli Poteri forti (o quasi), in cui, nel 2017, l' autore avrebbe riportato «falsamente» un episodio che si sarebbe verificato a Forte dei Marmi nell' estate del 2014. Nell' occasione, secondo de Bortoli, l' allora premier avrebbe intimidito in hotel l' inviato Marco Galluzzo del Corriere, accusandolo di violare la sua privacy.
(ANSA il 2 ottobre 2019) - "Matteo Renzi ha denunciato il sito Dagospia chiedendo un risarcimento danni di 100.000 euro per aver sostenuto che gli utili che Renzi ricava come conferenziere hanno il regime fiscale delle società. La notizia è falsa, destituita di ogni fondamento e gravemente lesiva della reputazione del Senatore Renzi. Lo annuncia il suo ufficio stampa.
Dall'articolo di Gianluca Di Feo per La Repubblica del 18 settembre 2019. (…) L’11 maggio scorso il senatore ha creato a Firenze la Digistart Srl, unica sigla interamente posseduta e gestita dall’ex premier. Per carità, si tratta di un’azienda piccola piccola: capitale di soli 10 mila euro, versato cash. Renzi ne è amministratore unico e titolare di tutte le azioni. A dispetto delle dimensioni, però, la società mostra grande ambizioni. Di cosa si occupa la Digistart? Al primo posto c’è “l’attività di analisi dei processi comunicativi che collegano cittadini e imprese. Anche mediante l’organizzazione e/o partecipazione a convegni, seminari, incontri sia in Italia che all’estero”. In apparenza, quindi, una srl utile per fatturare i compensi delle conferenze retribuite, come quelle che l’anno scorso hanno visto l’ex segretario del Pd viaggiare in Qatar, Stati Uniti e Sudafrica. Ma la società può teoricamente anche farsi carico delle spese per eventi come la prossima Leopolda, anche se ciò viene escluso da ambienti renziani. (…) L’oggetto sociale della Digistart è però più ampio e articolato. Con una spettro di intervento che poco si addice a un senatore della Repubblica in carica. Si parla di “consulenza aziendale e assistenza nella pianificazione strategica a favore di imprese. In particolare l’elaborazione di piani strategici industriali”. Ancora più impegnativo il terzo capitolo, che ricorda da vicino il procacciamento d’affari: “L’attività di consulenza tecnica (business advisor) nell’ambito delle operazioni straordinarie d’impresa, quali fusioni, acquisizioni, joint ventures industriali e commerciali, attività di attrazione e ricerca investimenti”. Tanto più che la srl renziana si occupa dell’“individuazione di possibili partners e/o sinergie per creare valore, ricerca e studio di possibili acquisizioni o cessioni per migliorare il rendimento”. Il punto E invece è a metà strada tra la promozione lobbystica e la costruzione dell’immagine: “consulenza nell’ambito delle pubbliche relazioni e del marketing strategico al fine di migliorare il posizionamento dell’impresa o del singolo imprenditore, ampliare la presenza sui mercati, rafforzare la reputation aziendale”. All’ultimo posto infine una vecchia passione renziana: “assistenza e consulenza a favore di start up e pmi innovative e digitali”. A leggere lo statuto della Digistart, insomma, Renzi nello scorso maggio pareva ancora in bilico tra il rilancio politico o una nuova vita di superconsulente d’azienda. Un dubbio che l’esordio di Italia Viva dovrebbe avere sciolto definitivamente.
Simone Di Meo, Antonio Rossitto, Fabio Amendolara per ''La Verità'', 21 settembre 2019. (…) Ma il fu Rottamatore, in realtà, la Digistart Srl (10.000 euro di capitale versato), l' ha fondata anche per poter fatturare. La sua attività di conferenziere internazionale è ormai nota. La presenza sul portale Celebrity speakers, che ha come obiettivo quello di offrire oratori per qualsiasi genere di conferenza (e che parlino a peso d' oro di qualsiasi cosa), gli ha dato ampia visibilità, gli ha fruttato qualche viaggetto all' estero (Qatar, Stati Uniti e Sudafrica) e lo aiuterà, vista la dichiarazione 2018 (29.315 euro per i redditi percepiti nel 2017), a incrementare il reddito annuale. E, così, il giorno 11 maggio 2019 nasce la Digistart Srl. Lo scissionista del Partito democratico ha scelto come sede un ufficio in un bel palazzotto fiorentino al civico 47 di via Giuseppe La Farina. Coincidenza: è lo stesso domicilio scelto dalla Carfin Srl del fidatissimo Marco Carrai. Il 18 giugno la Digistart Srl viene iscritta nel Registro delle imprese. E l' avventura può cominciare. Al primo posto tra le attività che l' amministratore unico Matteo Renzi prevede di mettere in campo, stando allo statuto, c' è «l' analisi dei processi comunicativi che collegano cittadini e imprese». Ma anche «l' analisi della comunicazione mediante l' organizzazione o la partecipazione a convegni, seminari e incontri sia in Italia che all' estero». Ed è proprio il quadro A dello statuto che spiega a cosa gli sia utile la Srl. Renzi aveva bisogno di fatturare i compensi per le conferenze. Poi, però, l' ex premier si è fatto prendere la mano. E siccome le sue vecchie passioni non sono ancora sopite, si è tenuto qualche porta aperta. Al quadro B, infatti, lo statuto prevede che l' impresa Renzi possa occuparsi di «consulenza aziendale e assistenza nella pianificazione strategica a favore di imprese. In particolare l' elaborazione di piani strategici industriali». Al quadro C la Digistart Srl si trasforma in un' attività da broker: «Consulenza tecnica (business advisor) nell' ambito delle operazioni straordinarie d' impresa quali, a titolo semplificativo e non esaustivo, fusioni, acquisizioni, joint ventures industriali e commerciali, attività di attrazione e ricerca investimenti». In più, ma bisgona fare un salto al paragrafo F, la società del Bullo prevede di poter individuare «possibili partner e sinergie». Qualche strada, a dire il vero, la Srl di Renzi se l' è preclusa: niente attività bancarie, niente intermediazioni finanziarie, niente attività riservate agli iscritti ad albi professionali. «Il tutto», è precisato in fondo allo statuto», «nei limiti di legge». E ci mancherebbe.
''il Fatto Quotidiano'', 25 settembre 2019: (…) Tant' è che ha creato, lo scorso maggio, con il Conte I ancora in salute, la società Digistart per i suoi lavori personali, per fatturare. Un accorgimento tecnico per organizzare gli affari che, si presume, siano in aumento. Vuol dire che i guadagni del 2018 saranno diffusi con la prossima dichiarazione dei redditi da depositare in Senato, mentre quelli del 2019 finiranno nei bilanci di Digistart.
''Panorama'' del 25 settembre ottobre 2019. (…) Un po’ senatore semplice un po’ fundraiser, l’ex premier, nel maggio scorso, ha costituito una srl, la Digistart, con 10 mila euro di capitale che si occupa di «consulenza aziendale e assistenza nella pianificazione strategica a favore di imprese» oltre che di «ricerca investimenti» e di «individuazione di possibili partners e/o sinergie per creare valore». Il domicilio della società è lo stesso della Carfin, la holding dell’onnipresente Carrai. Attività di lobbista che si affianca a quella di conferenziere globetrotter che gli consente di stringere nuove relazioni che sicuramente torneranno utilissime per lanciare Italia viva. (…)
Tutti gli uomini (e i soldi) della Renzi Spa. Tra piccoli e grandi contribuenti il fondatore di Italia Viva ha raccolto 8mln di euro in 10 anni. Ecco i nomi dei principali sostenitori, con i loro interessi personali. Antonio Rossitto il 10 ottobre 2019 su Panorama. La gente s’è rotta le scatole!» Era solo lo scalpitante sindaco di Firenze, ma nel 2013 Matteo Renzi aveva già le idee chiare: «Aboliamo il finanziamento pubblico ai partiti». Gliene va dato merito: stavolta è stato conseguente. Nell’ultimo decennio ha rastrellato danari come nessuno mai. Associazioni, fondazioni e adesso l’agognato partitino personale. Tra piccoli e grandi contributi alla causa, in una decade ha raccolto più di otto milioni di euro. Cittadini, onorevoli colleghi e imprenditori hanno sborsato da qualche spiccio a qualche centinaia di migliaia di euro. Sempre disinteressatamente? Chissà. L’avvocato Alberto Bianchi, già presidente della cassaforte renziana Open, è indagato per traffico di influenze. Avrebbe girato parte di una parcella ricevuta da Toto costruzioni, colosso dell’edilizia, proprio a Open e al comitato che sosteneva la riforma costituzionale. L’inchiesta della procura di Firenze è ai prodromi. E Bianchi spiega che ha solo ripianato i debiti della fondazione. Però il dilemma riaffiora: i finanziamenti dei privati ai politici possono avere secondi fini? Negli Stati Uniti è tollerato e trasparente lobbysmo. In Italia quei frastagliati confini rischiano di diventare lande opache. Eppure, fino a prova contraria, sono tutti sulla retta via. Chi ha quindi aiutato in questi anni Renzi e i suoi? L’ultimo elenco comprende le «erogazioni liberali» agli altisonanti Comitati di azione civile, che concimano Italia viva e la Leopolda ventura. I versamenti al partito fondato dall’ex premier sono cominciati a gennaio di quest’anno. Quisquilie, però: pochi e simbolici gesti di stima, sempre sotto ai 500 euro. La cavalleria è arrivata lo scorso giugno, quando già s’udiva lo squillo di trombe della scissione. In poco più di tre mesi viene raccolto quasi mezzo milione di euro. Un trionfo. Il più generoso è stato Daniele Ferrero. Erede della più famosa industria dolciaria italiana? Errore. Daniele è l’altro Ferrero: quello che, vent’anni fa, ha rilevato Venchi, ancora nel ramo dolciumi. L’azienda, dal 2010 a oggi, ha triplicato il fatturato, passando da 30 a un centinaio di milioni di euro. Ferrero siede anche nel board di Taste of Italy, il primo private equity specializzato nell’agroalimentare italiano. Viene fondato dalla Dea Capital, gruppo De Agostini, nel 2015, mentre Matteo è a Palazzo Chigi. Accanto a Ferrero, nello strategico comitato per gli investimenti siede uno dei più sperticati e storici renziani: Oscar Farinetti, patron di Eataly. Che mena vanto di non aver mai dato un euro a chicchessia. C’è però un altro collegamento tra i due capitani d’azienda. È la sconosciuta ma strategica Carlo Alberto. La società possiede quasi il 10 per cento di Venchi e il 20 per cento di Eataly. E chi la controlla? Luca Baffigo Filangieri, ex ad proprio dell’azienda di Farinetti, adesso guidata Andrea Guerra, già manager prediletto dell’ex presidente del Consiglio. Nella finanza il beniamino è invece Davide Serra, il capo del fortunato fondo d’investimento inglese Algebris. Il finanziere ha versato a Italia viva 90 mila euro. Obolo che segue i 300 mila omaggiati negli anni scorsi. Inscalfibili rapporti emergono già a ottobre del 2012. Quando Serra organizza un cocktail al Principe di Savoia, a Milano. Oggetto: raccolta fondi per l’arrembante Matteo. Répondez, s’il vous plaît. Accorrono 70 commensali paganti: mille euro a testa. Un mese dopo, in consiglio comunale di Firenze, segue attinente polemica. Pietra dello scandalo: l’investimento dell’Ente cassa di risparmio cittadino proprio nel fondo Algebris: 10 milioni di CoCo bond. E cosa c’è di male? Moltissimo, avvampa l’opposizione di Palazzo Vecchio. La fondazione bancaria, denunciano, è imbottita di turborenziani: nel cda siede Marco Carrai. E pure il presidente è un fedelissimo: Jacopo Mazzei. Un altro che, negli anni a seguire, non si sottrarrà da cospicue donazioni. L’interessato però minimizza: non è stato Renzi a presentargli il finanziere. E nemmeno Carrai: «Tutto è partito da un mio incontro di quest’estate al mare con Serra» informa Mazzei. Del resto è noto: i migliori affari si concludono sotto l’ombrellone. «Peanuts», dicono gli americani. Cosa volete che siano 10 milioni per Algebris? O 390 mila per Serra? Noccioline, appunto. Come quelle lanciate da Lupo Rattazzi, figlio di Susanna Agnelli: 60 mila euro. E un inamovibile gardaglietto sul bavero: aver contribuito per primo alla causa scissionista. Data del bonifico: 13 giugno 2019. Quando la crisi balneare non era che una pallida ipotesi. L’ennesimo atto di fede. «Non è né la prima né l’ultima volta che lo farò» annuncia al Foglio. Rattazzi è apprezzato manager: siede tra l’altro nel consiglio d’amministrazione di Vianini, storica azienda di costruzioni, di Italian hospital group, settore sanità, e di Neos, ramo charter. Ed è anche un accorto imprenditore. Con Giovanni Malagò, presidente del Coni, possiede la Gl investimenti. Società dal portafoglio azionario ricco e multiforme: banche, energia e gas. A proposito di risorse naturali: alle magnifiche sorti di Italia viva contribuiscono pure alcune aziende del settore. Tra cui Energas, che ha elargito 10 mila euro. La società da anni ha ingaggiato una battaglia legale con ambientalisti e amministratori locali. Vuole realizzare un gasdotto a Manfredonia, progetto che ha avuto il via libera ambientale dal governo Renzi a fine 2015. È inciampato invece in un’inchiesta per traffico illecito di rifiuti Angelo De Cesaris che, tramite l’omonima ditta, ha girato un obolo di 3 mila euro. Due mesi prima, il 27 giugno 2019, l’imprenditore di Chieti era finito a processo, con l’accusa di aver scaricato sostanze tossiche in un fiume. I Comitati di azioni civile sono però solo l’ultima trovata. Già agli albori della carriera, quando era presidente della provincia di Firenze, il lungimirante Matteo guardava avanti. Il 1° ottobre 2007 nello studio del commercialista di fiducia Marco Seracini, che oggi siede nel collego sindacale di Eni, viene fondata l’associazione Noi Link. Tra i membri ci sono anche due nomi che poi ricorreranno con sistematicità nel groviglio tra militanza e danari. Il primo è Marco Carrai: storico pontiere con i potentati economici. L’altro è il costruttore Andrea Bacci, che ristrutturò pure l’ex casa di Matteo a Pontassieve: lo scorso marzo ha patteggiato a due anni per il fallimento della sua Coam. Sono gli amici di sempre, i primi petali del Giglio magico e l’anima di Noi Link. In cinque anni l’associazione raccoglie 700 mila euro. Con Tommaso Grassi, ex consigliere comunale di Sel, che chiede a Renzi, nel frattempo eletto sindaco di Firenze, di svelare i nomi dei generosi elargitori. E accusa: tutti gli alfieri di Noi Link sono stati «ricompensati» con incarichi ad hoc. È già tempo però di fare le cose sul serio. Chiusa l’associazione, nel 2012 nasce una fondazione: Big bang. Dovrà raccogliere fondi per la Leopolda, la kermesse che diventerà la chiamata alle armi in vista delle primarie democratiche. Vengono raggranellati quasi 815 mila euro. Ma, forse per quel nome troppo apocalittico, Big bang ha vita breve. Nel 2013 nasce Open, adesso finita nell’inchiesta fiorentina. È guidata da Bianchi. Oltre all’avvocato, nel consiglio direttivo siedono altri due sodali politici, come Maria Elena Boschi e Luca Lotti, e l’onnipresente Carrai. In sette anni le due fondazioni raccolgono ben 6,7 milioni di euro. I donatori sono centinaia. Il più prodigo è Serra. Alle sue spalle, con 150 mila euro, c’è Vincenzo Onorato, patron della compagnia di navigazione Moby e indomito gonfaloniere dei marittimi italiani. Uguale contributo è arrivato dal Gruppo Getra, produttore di trasformatori elettrici. Renzi, da premier, andò in visita negli stabilimenti dell’azienda di Marcianise, nel Casertano. Versa invece 110 mila British American Tobacco, la seconda società produttrice di sigarette al mondo. Segue un lungo elenco di aziende. Concede una dote di 60 mila euro Isvafim di Alfredo Romeo, coinvolto nel caso Consip con Lotti e Tiziano Renzi, padre dell’ex premier. Si limita a 25 mila euro Renexia del Gruppo Toto, coinvolto nelle verifiche su Open. L’amministratore Lino Bergonzi è indagato per appropriazione indebita e falso in bilancio per l’acquisto di cinque aziende, autorizzate a realizzare parchi eolici, da Patrizio Donnini, ex collaboratore di Renzi. Attiva nei servizi idrici è invece Intesa Aretina, che gestisce il servizio idrico nel Valdarno. Nel 2017 dona a Open 15 mila euro. E tra i soci di allora, con un piccola quota, c’è anche Banca Etruria, di cui è stato vicepresidente Pier Luigi Boschi, genitore di Maria Elena. Tre versamenti che esemplificano il garbuglio. Affari e politica a volte sono talmente avviluppati da incrociarsi anche casualmente. O no? Perché il dubbio sovviene: quale motivo spinge aziende e imprenditori a elargire denari a una fondazione? Altissimi ideali, rispondono gli interessati. Con i malpensanti costretti ad abbozzare. Fino all’inchiesta fiorentina, che adesso insinua di nuovo il rovello: quanta munificenza cela un tornaconto?
DIMMI CHI TI PAGA E TI DIRÒ CHI SEI. Giovanna Vitale per ''la Repubblica'' il 21 ottobre 2019. Non solo imprenditori e finanzieri - dal nipote dell'avvocato Agnelli, Lupo Rattazzi, al patron della cioccolata Venchi Daniele Ferrero - che comunque fanno la parte del leone. Il nuovo partito di Matteo Renzi, almeno a giudicare dal nome di alcuni sponsor, comincia a riscuotere simpatie anche nel mondo della cultura. Basta dare uno sguardo a una delle ultime arrivate nella lista dei finanziatori di Italia Viva: Andrée Ruth Shammah, figura di spicco dell'intellighenzia milanese. La regista, storica direttrice e anima del teatro Franco Parenti, il 25 settembre, a una settimana esatta dall'annuncio della scissione, ha versato ai comitati di azione civile 10mila euro. Dopo la chiusura nell'aprile 2018 della fondazione Open - la cassaforte costruita nel 2012 sotto il nome di Big Bang per avere a disposizione un contenitore che, giuridicamente, potesse ricevere le donazioni dei finanziatori privati - sono stati infatti i comitati lanciati a ottobre dello scorso anno il "veicolo" per attrarre i soldi necessari a preparare la scalata bis dell'ex segretario dem. Ossatura del partito in gestazione e motore del fund rising renziano, che però ha iniziato a correre a pieni giri solo nel giugno scorso: segno che il divorzio dal Pd, smentito con veemenza per tutta l'estate, era stato avviato almeno tre mesi prima che si consumasse ufficialmente, sostenuto dall'impennata dei bonifici ricevuti. È la sezione "trasparenza" dei comitati di azione civile - il cui sito è stato oscurato ieri, in concomitanza con la nascita di Italia Viva sancita alla Leopolda 10 - a svelare chi sono i finanziatori del partito di Renzi e quanto hanno sborsato. Un obbligo previsto dalla legge cosiddetta "Spazzacorrotti", che dalla fine di gennaio 2019 impone a partiti e movimenti politici di pubblicare in Rete tutti i contributi superiori ai 500 euro. Ed è qui che si scopre l'arcano. Tra gennaio e maggio nessun versamento oltrepassa la soglia fatidica, in cassa nei primi cinque mesi entrano solo microdonazioni da poche decine di euro, non soggette perciò a dichiarazione: si va dal totale più basso di febbraio, appena 603 euro, a quello più alto di maggio, 3.134. E sempre la casella "soggetto erogatore" resta desolatamente in bianco. Comincia a riempirsi solo a giugno, allorché Lupo Rattazzi, figlio di Susanna Agnelli, presidente della compagnia aerea Neos e dell'Italian Hospital Group, per primo mette sul piatto 10 mila euro, che a luglio diventano 40mila, per poi assestarsi stabilmente a 10mila, erogati sia ad agosto, sia a settembre, quando a contribuire con mille euro è pure il suo giovane braccio destro, Piergiorgio Medori. Sforzo complessivo del conte Rattazzi: 70mila euro. E non è neanche il regalo più sostanzioso. Il record spetta, per adesso, a Daniele Ferrero, presidente e ad della fabbrica del cioccolato Venchi, oltre 100 store a gestione diretta in 70 paesi e un giro d'affari da 90 milioni l'anno: lui a luglio ha bonificato 100mila euro. Seguito a poca distanza da uno degli storici sponsor di Renzi, già attivo nella fondazione Open: il finanziere Davide Serra, ad del fondo Algebris, a quota 90mila. Più contenuti, ma pur sempre consistenti, i contributi di altri capitani d'impresa. Giancarlo Aliberti, managing director di Apax Partners, uno dei maggiori gruppi internazionali di investimento, ad agosto ha donato 25mila euro. Cinquemila in più dello stilista Bruno Tommassini, tra i fondatori dell'Arcigay e presidente di Federmoda Toscana (Cna), mentre Alessandro Fracassi, ad di Mutuionline e consigliere di A2a, ne ha messi 15mila. Nicoletta Ligabue, direttore artistico di Grandi Viaggi, si e fermata a 12.500. Poco sopra i 10mila versati da Andrée Ruth Shammah. Stessa cifra del principe dei tributaristi italiani, Tommaso Di Tanno - professore alla Bocconi e già presidente dei sindaci al Monte dei Paschi - nonché della Walter Tosto spa, fornitore di attrezzature per prodotti petroliferi. Difatti compaiono pure diverse aziende fra i contributori di Renzi. Oltre a quelle "green" come la Eco Iniziative srl (2mila euro) e la Acqua Sole (3mila) si va dalla Tci del deputato Gianfranco Librandi - imprenditore ex fi, ex Ala di Verdini, ex Scelta Civica poi confluito nel Pd e ora in Italia Viva - che ha versato in due rate 11.710 euro, fino alla Quintessential Concierge srl (servizi extralusso) della famiglia Zamberletti che ne ha messi 10mila, mentre la Ciemme Hospital si è fermata a 4mila. Un calderone variegato che ovviamente contiene pure l'obolo dei parlamentari fuoriusciti - importo base 1000 euro, Renzi però ne ha bonificati 10mila, Rosato 2mila e Boschi 1.500 - ma anche di qualcuno rimasto nel Pd come Salvatore Margiotta, che il 30 luglio ne ha sborsati 1.500, come la viceministra all'istruzione Anna Ascani. Risultato? Tra piccole e grandi erogazioni Italia Viva ha incassato a luglio oltre 210mila euro, ad agosto 227mila, a settembre 167mila. Quando il nuovo partito, annunciato esattamente un mese fa, non era ancora nato. E c'è già chi scommette che dopo la Leopolda sarà tutto un altro tintinnar di moneta.
Ecco chi ha finanziato la scissione premeditata di Matteo Renzi dal Pd. Il Corriere del Giorno il 20 Ottobre 2019. Nella lista dei donatori: Lupo Rattazzi, Davide Serra, il patron di “Venchi” ed esponenti del mondo della cultura. Incassati a luglio oltre 210mila euro, ad agosto 227mila, a settembre 167mila. Il boom è iniziato a fine agosto, proprio nel bel mezzo della crisi di governo. Sulla base alle donazioni ricevute, sembra che qualcuno avesse intuito la sua mossa.A elargire offerte ai comitati civici dell’ex premier sono stati i parlamentari cosiddetti “renziani.” La corsa al versamento di deputati e senatori inizia il 20 di agosto: dopo una settimana, sul conto corrente bancario dei comitati di “Azione Civile”, spuntano 36mila euro. Dopo la chiusura della Fondazione Open avvenuta nell’aprile 2018 sei anni dopo la costituzione nel 2012 sotto il nome di “Big Bang” della cassaforte realizzata per avere a disposizione una “cassaforte” che potesse ricevere giuridicamente le donazioni dei finanziatori privati, presieduta dall’avvocato fiorentino Alberto Bianchi, indagato dalla procura di Firenze nell’ambito di un’inchiesta che ipotizza il reato di traffico di influenze, questa volta sono stati attivati i comitati civici lanciati a ottobre dello scorso anno per reperire i soldi necessari a preparare la scalata bis dell’ex segretario nazionale del Pd. E’ stato questo il nuovo asse portante del partito Italia Viva in fase di preparazione e volano delle attività fund rising del “giglio magico”, che ha iniziato a correre a pieni giri solo nel giugno scorso, a conferma che il divorzio e la fuoriuscita dal Pd, era stato “studiata “a tavolino e preparata nei dettagli organizzativi e finanziari come minimo tre mesi prima che sia stata resa pubblica ufficialmente, grazie sopratutto all’impennata dei bonifici ricevuti, nonostante tutto ciò fosse stato ripetutamente smentito con determinazione e sfacciataggine per tutta l’estate. Il nuovo partito di Matteo Renzi, almeno a giudicare dal nome di alcuni sponsor, sembra essere sostenuto da un gruppi di fedelissimi, a cominciare da Lupo Rattazzi , nipote dell’avvocato Agnelli, per passare poi al proprietario della cioccolata Venchi Daniele Ferrero, cominciando a riscuotere attenzione anche nel mondo della cultura. Infatti, per averne conferma, basta dare uno sguardo a una delle ultime arrivate nella lista dei finanziatori di Italia Viva, fra cui spicca la regista Andrée Ruth Shammah, personaggio di rilievo del jet-set milanese , storica direttrice ed anima trainante del teatro Franco Parenti, che ha versato 25mila euro ai comitati di azione civile ad a una settimana esatta dalla scissione annuncia. A rendere publiche la sezione “trasparenza” dei comitati di azione civile a svelare chi sono i finanziatori del partito di Renzi e quanto hanno versato, rispettando la norma previsto dalla Legge 9 gennaio 2019, n. 3 meglio nota come “Spazzacorrotti“, che dalla fine del gennaio 2019 costringe a pubblicare sul web tutti i contributi superiori ai 500 euro destinati a partiti e movimenti politici. Il sito è stato preso d’assalto dai curiosi come noi, proprio in concomitanza con la nascita di Italia Viva avvenuta in occasione della decima edizione della Leopolda 10. A partire dal gennaio sino a maggio non risulta che alcun versamento ricevuto abbia oltrepassato la soglia che ne conseguiva la pubblicità, a seguito delle micro-donazioni ricevute anche di alcune decine di euro, che non andavano sottoposte a dichiarazione: negli ultimi cinque mesi infatti si parte dal versamento più basso di 603 euro ricevuto a febbraio 2019, a quello più alto di 3.134 ricevuto il successivo mese di maggio, per i quali l’indicazione del “soggetto erogatore” rimane in bianco. I nominativi appaiono solo a partire dallo scorso mese di giugno quando Lupo Rattazzi, figlio di Susanna Agnelli, presidente dell’Italian Hospital Group, e della compagnia aerea Neos effettua un versamento di 10 mila euro, che diventano 40mila a luglio , per poi stabilizzarsi a 10mila, erogati ad agosto, ed a settembre. A contribuire con 1.000 euro è persino il suo giovane braccio destro, Piergiorgio Medori. Il contributo complessivo di Rattazzi raggiunge 70mila euro, ma non è il versamento più cospicuo ricevuto. Il primato al momento spetta, è assegnato a Daniele Ferrero, presidente ed amministratore delegato della Venchi, nota fabbrica del cioccolato, che a luglio ha versato a mezzo bonifico la somma di 100mila euro. Un contributo modesto per una società che conta su un giro d’affari di 90 milioni l’anno in virtù dei suoi 100 punti vendita a gestione diretta distribuiti in 70 Paesi. Il record della contribuzione vede piazzarsi al secondo posto con 90 mila euro bonificati il finanziere Davide Serra, amministratore delegato del fondo Algebris, uno degli storici “sostenitori” di Matteo Renzi, già presente fra i “benefettori” della Fondazione Open. Da segnalare i contributi seppure più contenuti ma comunque sempre consistenti, di altri imprenditori come Giancarlo Aliberti direttore generale di Apax Partners, uno dei maggiori gruppi internazionali di investimento, che ha donato lo scorso agosto 25mila euro. Ventimila ne ha versati lo stilista Bruno Tommassini, presidente di Federmoda Toscana (Cna) e noto anche per essere dei fondatori dell’Arcigay, seguito con 15 mila euro devoluti da Alessandro Fracassi, amministratore delegato di Mutuionline e consigliere di amministrazione di A2a. A 12.500 euro si è limitato il contributo di Nicoletta Ligabue, direttore artistico del tour operator Grandi Viaggi , che ha superato, seppure di poco i 10mila euro versati da Andrée Ruth Shammah, come la Energas Spa, azienda che si occupa di distribuzione e vendita del Gpl . La stessa cifra di 12.500è stata versata anche dal tributarista italiano Tommaso Di Tanno, professore dell’ Università Bocconi di Milano ed in passato presidente del collegio sindacale del Monte dei Paschi ed della Walter Tosto spa, società che vende di attrezzature per prodotti petroliferi. Fra i benefattori e sostenitori delle iniziative politiche di Matteo Renzi, sono presenti non poche diverse aziende, come la Angelo De Cesaris Srl, azienda abruzzese che si occupa di costruzioni e ambiente, come lo smaltimento rifiuti che ha versato 3.000 euro, la Eco Iniziative srl (2mila euro), la Acqua Sole (3mila) , la Tci-Telecomunicazioni Italia del deputato-imprenditore Gianfranco Librandi un girovago della politica con trascorsi in Forza Italia poi Ala di Denis Verdini, ed infine Scelta Civica con Mario Monti, prima di confluire nel Pd e adesso in Italia Viva che ha devoluto 11.710 euro con due versamenti, per arrivare alla Quintessential Concierge srl della famiglia Zamberletti, un “servizio concierge -si legge nel sito- ideato per supportare i suoi soci 24 ore al giorno, 365 giorni all’anno, dalla soluzione dei piccoli problemi della vita quotidiana alla prenotazione di un viaggio, dalla ricerca di un appartamento al semplice pagamento di una multa, all’accesso ad un evento esclusivo. In poche parole, tutto ciò che può essere utile a semplificarvi la vita” che ne ha bonificati e devoluti 10mila, mentre la Ciemme Hospital srl impresa attiva nel commercio all’ingrosso di prodotti farmaceutici, si è fermata a 4mila euro. Un vero e proprio pentolone di contributi che contiene anche il contributo dei parlamentari fuoriusciti dal base per l’ importo di base 1000 euro, anche se va detto che Matteo Renzi nonostante un mutuo sulle spalle contratto per l’acquisto della sua nuova villa ove risiede, ne ha bonificati 10mila, Ettore Rosato 2mila e Maria Luisa Boschi che versa 1500 euro in due tranche – ma anche qualcuno rimasto nel Pd come il senatore di Potenza Salvatore Margiotta, oggi sottosegretario alle Infrastrutture, che il 30 luglio ne ha sborsati 1.500, e la viceministra all’istruzione Anna Ascani. Totale ? Tra i senatori sostenitori ci sono: Andrea Ferrazza, Eugenio Comincini, Laura Garavini, Nadia Ginetti, Ernesto Magorno, Mauro Maria Marino, il ministro Teresa Bellanova, Davide Faraone, Giuseppe Cucca, Caterina Biti, Alan Ferrari, Salvatore Margiotta, Leonardo Grimani. Tra i deputati sostenitori compaiono: Maria Elena Boschi , Ettore Rosato, Marco Di Maio, Anna Ascani, Mauro Del Barba, Martina Nardi, Lisa Noja, Maria Chiara Gadda, Andrea Rossi, Vito De Filippo, Luciano Nobili, Gennaro Migliore, Ivan Scalfarotto. Al momento tra piccole e grandi contributi Italia Viva ha sinora incassato oltre 210.000 euro a luglio, 27.000 ad agosto, 167.000 a settembre, cioè allorquando il nuovo partito non era ancora nato, essendo stato annunciato per la cronaca un mese fa.
Matteo Renzi, l'opa su Forza Italia e la Leopolda democristiana. Il leader di Italia Viva nella kermese di fondazione del nuovo partito sogna Macron e cita Moro. Ma rischia di finire come Casini e Mastella. Susanna Turco su L'Espresso il 21 ottobre 2019. Allargare, annettere, assorbire. A sinistra ma anche a destra. Dal Pd e da Forza Italia. Giunto alla cima dei suoi dieci anni di Leopolda, agitando il vessillo di un governo Pd-M5S che ha fatto nascere e giura non farà morire, ma che – come un personaggio di Altan - non condivide, sotto al simbolo a forma di ali Matteo Renzi celebra la nascita della sua Italia viva sciorinando un programma vecchissimo: rifare una specie di Dc. Un progetto nel quale si sono affossati decine di leader politici, dagli anni Novanta in poi. Un afflato democristiano ed ecumenico (almeno nelle intenzioni) del quale l'ex premier da un segnale preciso, alla fine del suo discorso, citando - a una platea di seimila persone composta anche da Lele Mora, forse l'unica vera sorpresa della kermesse dopo il mancato arrivo di Verdini junior - addirittura Aldo Moro: «Se vogliamo essere presenti, dobbiamo essere per le cose che nascono, anche se hanno contorni incerti, e non per le cose che muoiono, anche se vistose e in apparenza utilissime». Le cose che muoiono, con ogni evidenza, sono per Renzi gli assetti degli ultimi vent'anni. Anzitutto il Pd nel quale è cresciuto, un partito trattato per la tre giorni fiorentina come un lascito ereditario da depauperare giorno per giorno - con decine di giovani militanti e amministratori che, nei loro cinque minuti di intervento, citano il giorno in cui hanno lasciato i dem come una conversione sulla via di Damasco. Sul partito del Nazareno, Renzi sogna di fare ciò che ha fatto Emmanuel Macron ai socialisti francesi: «Saremo competitor del Pd, vogliamo recuperare e assorbire larga parte di quel consenso», spiega. L'ex premier, con la solita perfidia, cita «Dario e Nicola», Franceschini e Zingaretti, non come vertici del suo ex partito, ma come «ministro della cultura» e «presidente di Regione», e lo fa significativamente solo per parlare di un carcere. Quello di Ventotene, per impiantarci una grande scuola europea. Fine. Animale morente, anzi praticamente già morto, è anche il centrodestra moderato: «L'altro giorno in piazza San Giovanni è finito un modello di centrodestra, quello restato ancorato al popolarismo europeo. C'è stato un passaggio di consegne, da Berlusconi a Salvini» spiega Renzi. Pronto ad attrarre tutti i delusi di Forza Italia, elettori ed eletti a partire da Mara Carfagna, anche a costo di fare un monumento a Silvio Berlusconi ed elevarlo a padre della patria, gigante al confronto del leader leghista, che «di moderato non ha neanche la pettinatura». Nel complesso un disegno chiarissimo, che altrettanto chiaramente - dalla fine della Balena bianca in poi - non è mai riuscito a nessuno: da Casini a Monti, da Mastella a Montezemolo, da quei progetti sono nati solo partitini di brevissima gittata. "Chi ha votato Fi convintamente per votare un partito moderato, oggi di moderato in Salvini non vede nemmeno la pettinatura". Matteo Renzi, leader di Italia viva, lo dice dal palco della Leopolda. A San Giovanni, ieri, "è finito un modello culturale di centrodestra, che io non ho mai votato, e Berlusconi non ha mai votato la fiducia a me- dice Renzi- ma ha rappresentato per 25 anni un modello che aveva distorsioni, ha cercato di rappresentare l'area liberale del Paese" E allora oggi "dico con forza e decisione a chi crede ci sia spazio per un'area liberale e democratica, non contro altri ma per il Paese che ha bisogno di esser più forte e più solido di quanto non sia stato sino a oggi, diciamo a queste persone e a tutti gli altri che IV è aperta" ha concluso Renzi. Paradossalmente, alla prova dei fatti, gli unici capaci di piazzarsi al centro con un pacchetto di voti consistente sono stati in effetti i Cinque stelle, per nulla democristiani, ma in grado di presentarsi nello stesso tempo come un partito di destra e di sinistra – senza alcun tipo di moderazione, né di qua , né di là. Rispetto al passato, Renzi può fare leva su una effettiva debolezza del Pd e su una violenta rivoluzione in corso nel centrodestra, e sulla progressiva riduzione di qualcuno che rappresenti i moderati, soprattutto sul lato destro del centro. Basterà? Anche per esorcizzare i sondaggi per ora davvero magri (4-6 per cento), l'ex premier alla Leopolda ha detto di puntare alle due cifre come «minimo sindacale». Intorno, però, almeno per adesso gli stanno quelli di sempre: non si registrano nuovi sorprendenti ingressi. Il pubblico accorso ad ascoltarlo, invece, è più numeroso di sempre: ma è presto per dire che si tratti di un segnale di sicuro successo, tantomeno elettorale. Le urne appaiono ancora lontane. E il grande balzo pure.
Il traditore Renzi cerca altri voltagabbana. Dalla Leopolda lancia l'invito ai "delusi" di Forza Italia dimostrando la pochezze del suo progetto politico. Panorama il 21 ottobre 2019. Un vecchio proverbio recita: “Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”. E’ la prima cosa che torna in mente dopo aver sentito Matteo Renzi dal palco della Leopolda invitare “i delusi di Forza Italia a venire con noi”. Ovviamente il fondatore del Governo Conte bis e poco dopo del nuovo partito del 4%, Italia Viva, usa parole educate per mascherare la realtà dei fatti. Delusi infatti in Forza Italia non ce ne sono. Il partito è vivo, come dimostra la manifestazione del centrodestra unito di Piazza San Giovanni a Roma; un centrodestra a trazione si salviniana ma pur sempre centrodestra, con valori ed idee comuni. Chi tra i berlusconiani oggi starebbe meditando di lasciare il partito per seguire l’ex sindaco di Firenze non lo farebbe per questioni ideologiche ma solo perché andrebbe, in caso di nuove elezioni, a perdere la poltrona (Forza Italia, stando alle simulazioni dei sondaggisti dovrebbe perdere più di 100 parlamentari). Insomma, un altro piccolo grande tradimento. Niente di nuovo per Renzi che di questo ha fatto la sua ragione di vita politica. Pensate a quanto successo in queste ultime settimane:
Ha tradito quando ha creato l’alleanza tra Pd e M5S, rimangiandosi accuse ed offese che per anni ha ripetuto verso i grillini.
Ha tradito gli elettori a cui aveva promesso di ritirarsi dalla vita politica e poi (un anno e mezzo fa) di limitarsi ad essere un senatore semplice.
Ha tradito il Governo Conte-bis, da lui inventato assieme a Beppe Grillo, formando poche ore dopo il giuramento dell’esecutivo il suo partito, Italia Viva e mettendo all’angolo gli alleati. Oggi le chiavi del Governo le ha lui ed è in grado di spegnerlo ed accenderlo a piacimento come dimostrano le tensioni di questi giorni.
Cosa fa quindi un traditore, seriale..?? Semplice, si circonda di traditori; primi i suoi sodali da sempre tra cui merita una menzione speciale per la faccia di bronzo Maria Elena Boschi capace, dopo essere stata per un ventennio nel Partito Democratico, di dire che “il Pd è il partito delle tasse”. Ma se i traditori ed comunisti non bastano come numero in parlamento e nei sondaggi ecco allora le porte aperte ad altri traditori, compresi i berlusconiani. Inutile dire che un partito nato con questi presupposti non possa fare nulla di buono per il paese. Ma sarà divertente vedere in questi giorni chi avrà il coraggio di seguire l’invito di Renzi e diventare un traditore.
Leopolda: il discorso di chiusura di Matteo Renzi. Il Corriere del Giorno il 20 Ottobre 2019. Ieri il battesimo di Italia Viva e la presentazione del simbolo. Matteo Renzi da sempre si caratterizza per le sue azioni politiche a sorpresa e d i suoi imprevedibili cambi di strategia, adesso ha un suo partito, fatto su misura, pensato voluto e realizzato su a sua immagine e somiglianza con un simbolo e soprattutto una linea politica che potrebbe cambiare rotta rispetto ai propositi iniziali di alleanza nel governo rossogiallo guidato da “Giuseppi” Conte. Matteo Renzi da sempre si caratterizza per le sue azioni politiche a sorpresa e d i suoi imprevedibili cambi di strategia, adesso ha un suo partito, fatto su misura, pensato voluto e realizzato su a sua immagine e somiglianza con un simbolo e soprattutto una linea politica che potrebbe cambiare rotta rispetto ai propositi iniziali di alleanza nel governo rossogiallo guidato da “Giuseppi” Conte. Di ufficiale non c’è ancora nulla di deciso ma è il grande “Transatlantico” della vecchia stazione ferroviaria “Leopolda” di Firenze, ove si è celebrato il battesimo di fondazione di “Italia Viva” a lanciare il tema “elezioni regionali”.Come, quando, dove e sopratutto con quali progetti politici? Di questo stanno ragionando i parlamentari e gli amministratori locali che hanno aderito al partito renziano. Il primo punto di arrivo (e partenza) sarà la regione Emilia Romagna dove a gennaio 2020 si vota per il rinnovo del consiglio regionale. Renzi è già entrato in contatto nelle scorse settimane con il governatore Stefano Bonaccini che si ricandida ed insieme hanno deciso di prendere in considerazione l’opportunità di presentare la lista di Italia Viva, sopratutto per raccogliere adesioni e consensi anti leghisti. Ipotesi che avanza anche le prossime regionali nella Toscana cara a Renzi dove gli ultimi dubbi sono venuti meno: i dirigenti nel nuovo partito di Matteo Renzi considerano quasi fondamentale la presentazione di una lista di Italia Viva alle elezioni che si svolgeranno nella prossima primavera 2020. Una “Mossa” che sta portando lo stesso Pd a rivedere i propri programmi. Italia Viva è data a livello nazionale dai sondaggi al 4-5%, mentre in Toscana sarebbe già all’8,4% come emerso da un sondaggio riservato commissionato dal gruppo regionale toscano del Pd. Maria Elena Boschi nei giorni scorsi ha reso noto ufficialmente che la valutazione è in cantiere. Una cosa viene data per certa, e cioè che i “renziani” rimasti per il momento nel Pd stanno facendo per avere sulla scheda regionali nell’alleanza di sinistra anche il nuovo partito nato alla Leopolda: “L’obiettivo è vincere e Italia Viva potrebbe intercettare un voto d’opinione che difficilmente sta col Pd“, dice il consigliere regionale dem Antonio Mazzeo. Un’iniziativa del genere avrebbe una doppia valenza . Da un lato coprirsi al centro e sbarrare il percorso al Movimento 5 Stelle, infatti con la lista di Renzi in campo non sarebbe più strategico allearsi con il M5S per vincere le elezioni”. Ed anche in Calabria, dove Italia Viva ha “saccheggiato” all’interno il Pd, potrebbe nascere una lista “renziana”. Centinaia le persone che hanno aspettato anche per ore questa mattina per poter entrare all’interno della ex stazione di Firenze. Prima di Renzi ha parlato Teresa Bellanova, ministro dell’Agricoltura e capodelegazione di Italia Viva nel Governo Conte 2. Questo il suo intervento: Dopodiche alle 12:30 sale sul palco Matteo Renzi , accolto da un tripudio di applausi. “Il prossimo anno dicono che forse non la facciamo più la Leopolda. Continueremo a farla ma non potremo fare un abuso edilizi per allargarla. Popolo della Leopolda, non avere paura: quando uno fa una canzona dopo una scissione fa una canzone molto migliore di quelle fatte prima, come è accaduto a Tommaso Paradiso, e quando uno fa un partito dopo una scissione gli viene molto meglio di prima“. aggiungendo “Grazie dal profondo del cuore a tutti. Il primo applauso è per i volontari e per le migliaia di persone che sono rimaste fuori. Il popolo della Leopolda non ha paura. Questo è il luogo in cui i sogni si popolano, in cui fioriscono delle idee e proposte, nascono delle amicizie. Noi non abbiamo paura, e ci prendiamoci cura l’uno degli altri“. Ecco il suo intervento: Alla convention renziana fra il pubblico presente anche Lele Mora. “Sono venuto a salutare Renzi, per curiosità. Ero mussoliniano? Io sono mussoliniano ma la simpatia di un amico non si discute. Renzi mi ha invitato, ha detto vieni a salutarci e sono venuto. Perché sono vestito di nero? La camicia nera va sempre bene, snellisce”, ha spigato Mora, che tuttavia non sembra intenzionato a prendere la tessera del nuovo partito Italia Viva, aggiungendo “No, niente tessere. Se è la nuova Forza Italia? Beh, lo spero per Renzi”. Presente tra i sostenitori di Italia Viva lo stilista Brunello Cucinelli, che dal palco ha detto. “Tornate ad investire nei grandi ideali, tornate ad investire nell’educazione, perché nell’ultimo trentennio abbiamo cercato di sostituire l’educazione con l’istruzione, ma ogni essere umano istruito è un essere umano che conosce qualcosa, e un essere umano educato è un umano aperto al mondo”.
Da corriere.it il 26 novembre 2019. Oltre venti perquisizioni sui finanziatori di Open, la ex fondazione di Matteo Renzi, sono in corso dall’alba. La procura di Firenze sta indagando sui soldi che numerosi imprenditori hanno versato all’avvocato Alberto Bianchi come consulenza o attività professionale e poi sono finiti nelle casse dell’organizzazione che ha pagato tra l’altro le spese della Leopolda, ma anche la campagna elettorale per il referendum del 2016. Bianchi è indagato per traffico di influenze. L’elenco dei finanziatori è stato sequestrato nel suo ufficio. Secondo i magistrati fiorentini - il procuratore Giuseppe Creazzo e l’aggiunta Luca Turco - open agiva come «articolazione di un partito politico» e questo sarebbe dimostrato anche dalle ricevute di versamento da parte di alcuni parlamentari.
Fondazione Open e Renzi, i pm: «Carte e bancomat ai parlamentari. Così finanziò il Giglio magico». Pubblicato martedì, 26 novembre 2019 su Corriere.it da Antonella Mollica, Fiorenza Sarzanini e Marco Gasperetti. Controlli sui finanziatori della fondazione, da Milano a Palermo. Secondo i pm i versamenti dissimulavano il sostengo all’attività politica di Matteo Renzi. I 5 Stelle all’attacco: «Ora una commissione sui fondi ai partiti». La Fondazione Open gestita dall’avvocato Alberto Bianchi era una vera e propria cassaforte che Matteo Renzi utilizzava per la sua attività politica. E per questo «bisogna accertare quali siano stati nel dettaglio i rapporti instauratisi tra la stessa Open e i soggetti finanziatori». È in questa frase, contenuta nel decreto di perquisizione eseguito ieri dalla Guardia di Finanza, la chiave dell’indagine della procura di Firenze che mira a verificare dove siano finiti i soldi che imprenditori e aziende hanno versato dal 2012 al 2018. Ma soprattutto se quel denaro potesse essere in realtà, almeno in alcuni casi, un finanziamento illecito che aveva lo scopo di portare vantaggi a chi decideva di sostenere economicamente la carriera di Renzi e il partito. Ecco perché, dopo aver acquisito nei mesi scorsi i documenti relativi ai bonifici nello studio di Bianchi, i pubblici ministeri guidati da Giuseppe Creazzo hanno deciso di verificare le “uscite” delle aziende. Nella lista dei perquisiti c’è la multinazionale del farmaco Menarini della famiglia Aleotti, ma ci sono anche le società dell’armatore napoletano Onorato, oltre a quelle che fanno capo all’imprenditore napoletano Alfredo Romeo (già coinvolto nell’inchiesta Consip). I finanzieri sono entrati pure nella sede dell’impresa di costruzioni di Parma Pizzarotti, e in quella della holding del gruppo Gavio, secondo concessionario italiano delle autostrade, così come alla Garofalo Healt Care, società del settore della sanità privata. E poi hanno “visitato” la Getra di Napoli, che produce trasformatori elettrici, e la British american Tobacco. In sei anni sono stati elargiti quasi sette milioni di euro e adesso si vuole verificare se almeno una parte di questi contributi fosse la contropartita di “favori”, come già contestato nelle scorse settimane al gruppo Toto. Il sospetto è che Bianchi fungesse da mediatore con la politica e in particolare con il “giglio magico”, visto che la Fondazione è stata aperta nel 2012 e chiusa nel 2018 quando Renzi si è dimesso da premier. Nel provvedimento viene specificato che «la Fondazione Open ha agito come articolazione di partito politico» e per dimostrarlo vengono elencate le iniziative «relative alle “primarie” dell’anno 2012, quelle per il “comitato per Matteo Renzi segretario”, ma anche le ricevute di versamento da “parlamentari”». Nel capitolo relativo al “sostegno” dei parlamentari si sottolinea come «Open ha rimborsato loro le spese e ha messo a loro disposizione carte di credito e bancomat». Una cassaforte, quindi, che era alimentata dai soldi versati dai privati. Denaro che in alcuni casi veniva pagato all’avvocato Bianchi per pratiche legali o consulenze, ma che poi veniva “retrocesso” dal professionista. Un modo - questa è l’accusa - che in realtà serviva a mascherare il finanziamento illecito. Non a caso si sottolinea la «necessità di vagliare le sue condotte, considerato che le acquisizioni investigative evidenziano significativi intrecci tra prestazioni professionali rese da Bianchi e dai suoi collaboratori e i finanziamenti alla Open». Dopo aver esaminato chat e messaggi trovati nei computer, iPad e iPhone di Bianchi relativi al rapporto con la Toto costruzioni, i magistrati hanno deciso di analizzare anche il legame con gli altri finanziatori per verificare se il “sistema” utilizzato in quel caso potesse essere stato replicato con altre aziende. nella vicenda che coinvolge Toto, la società aveva pagato quasi 3 milioni di euro a Bianchi per la sua attività professionale, ma una parte di quel denaro era stato poi versato da Bianchi a Open a titolo di «contributo volontario». La difesa ha contestato che potesse trattarsi di un “giroconto” ma i giudici del tribunale del Riesame hanno ritenuto fondati i sospetti dell’accusa parlando di «operazioni di trasferimento di denaro che appaiono dissimulatorie». I controlli sui documenti sequestrati ieri serviranno a stabilire se anche altri abbiano utilizzato la stessa tecnica.
Marco Gasperetti per corriere.it il 26 novembre 2019. Più che una cassaforte, capace di erogare sei milioni di euro in sei anni per finanziare le iniziative politiche di Matteo Renzi e la sua inarrestabile ascesa sino alla poltrona di premier, secondo la procura di Firenze «la fondazione Open era un’estensione di un partito» all’interno della quale venivano violate leggi sul finanziamento alle forze politiche mentre alcuni dei suoi sostenitori si macchiavano dei reati di riciclaggio, auto-riciclaggio, appropriazione indebita, false comunicazioni sociali, traffico di influenze. E per avvalorare questa tesi ieri la Guardia di finanza, su ordine del procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo e dell’aggiunto Luca Turco, ha indagato e perquisito Marco Carrai e ha effettuato una ventina di perquisizioni tra i finanziatori della fondazione. I militari si sono presentati in case, uffici e studi di professionisti e imprenditori di Firenze, Milano, Modena, Torino, La Spezia, Bari, Alessandria, Pistoia, Roma, Napoli, Palermo. Sequestrando documenti e cercato carte di credito e bancomat che, secondo l’ipotesi accusatoria, sarebbero state messe a disposizione di alcuni parlamentari. Carrai è stato uno dei componenti del Cda di Open insieme con Maria Elena Boschi e Luca Lotti. Il blitz ha fatto seguito alla perquisizione e all’avviso di garanzia contro l’ex presidente di Open, l’avvocato fiorentino Alberto Bianchi, indagato per traffico d’influenze illecite e finanziamento illecito. Nel suo studio a settembre fu sequestrato l’elenco dei finanziatori della fondazione. Gli inquirenti avrebbero poi «individuato legami, ipotizzati come anomali», tra le prestazioni professionali, rese dall’avvocato Alberto Bianchi di Firenze e da collaboratori del suo studio, e i finanziamenti percepiti dalla Open. Nel consiglio di amministrazione della fondazione, nata nel 2012 e poi sciolta nel 2018, appariva Marco Carrai, braccio destro di Renzi, presidente di Toscana Aeroporti, appena nominato console onorario di Israele nel capoluogo toscano. L’ex presidente di Open Bianchi, in una nota, oltre a rinnovare «piena collaborazione con la magistratura», ha ricordato che «tutte le entrate e le uscite della fondazione Open sono tracciabili, perché avvenute con bonifico, carte di credito». Dunque, secondo Bianchi, «tutto è stato fatto alla luce del sole, tutto è stato messo nero su bianco e si sta facendo una polemica strumentale che potrebbe toccare qualsiasi politico e qualsiasi amministratore». Mentre la procura indaga, la politica discute e s’interroga. «Serve subito una commissione d’inchiesta sui fondi ai partiti. Lo chiederemo nel contratto di governo che vogliamo far partire a gennaio», ha detto ieri Luigi Di Maio. E incalzato dai cronisti sulla possibilità di indagare anche su Rousseau ha replicato: «Indagate su ciò che volete, non c’è problema». Il premier Giuseppe Conte ha spiegato che c’è «molta attenzione da parte delle forze politiche sul sistema dei finanziamenti» ma su un’eventuale commissione «il Parlamento è sovrano».
Da corriere.it il 26 novembre 2019. «Un’operazione in grande stile, all’alba, di forte impatto mediatico. La decisione è stata presa dai pubblici ministeri di Firenze, Giuseppe Creazzo e Luca Turco, titolari anche di altre inchieste: sono loro, ad esempio, ad aver firmato l’arresto per i miei genitori, provvedimento - giova ricordarlo - che è stato annullato dopo qualche giorno dai magistrati del Tribunale del Riesame». Così l’ex premier Matteo Renzi, definisce la raffica di perquisizioni in tutta Italia nell’ambito di una inchiesta che vede indagato l’avvocato Alberto Bianchi, presidente della Fondazione Open, «cassaforte» che ha finanziato l’attività politica di Matteo Renzi. In un lungo post su Facebook, oltre ad attaccare i vertici della procura di Firenze, il leader di Italia viva afferma: «Chi ha finanziato in questi anni la Fondazione Open ha rispettato la normativa sulle fondazioni — scrive Renzi che parla di «massacro mediatico» dal blitz della Gdf —. Cosa facesse la Fondazione è noto, avendo - tra le altre cose - organizzato diverse edizioni della Leopolda. E se è giusto che i magistrati indaghino, è altrettanto giusto che io mi scusi con decine di famiglie per bene che stamattina all’alba sono state svegliate dai finanzieri in tutta Italia solo perché un loro congiunto ha sostenuto in modo trasparente la nostra attività politica». Renzi contrattacca anche il leader del M5S Luigi Di Maio, che una volta uscita la notizia delle perquisizioni aveva richiesto una commissione d’inchiesta sui fondi ai partiti, da inserire nel nuovo contratto di governo da discutere con il Pd. L’ex premier ribatte così: «Se poi altri partiti utilizzano questa vicenda per chiedere commissioni di inchiesta sui partiti e sulle fondazioni io dico che ci sto. Anzi, rilancio: dovremmo allargare la commissione di inchiesta anche a quelle società collegate a movimenti politici che ricevono collaborazioni e consulenze da società pubbliche. Italiane, certo. Ma non solo italiane», conclude riferendosi alla Casaleggio e associati.
Open, indagato anche Marco Carrai: "Pagate le spese a parlamentari". Lui: "Ho sempre rispettato la legge". Si allarga l'inchiesta sulla ex fondazione renziana. Perquisito l'amico dell'ex premier e una dozzina di imprenditori. Nuove accuse contro Bianchi. Michele Bocci e Luca Serranò il 26 novembre 2019 su La Repubblica. La fondazione Open, che organizzava la Leopolda, ha agito da articolazione di partito provvedendo tra le altre cose alle spese di parlamentari. Il suo presidente, Alberto Bianchi, e uno dei consiglieri, l'imprenditore Marco Carrai, sono stati perquisiti dalla procura nell'ambito dell'inchiesta sull'ex cassaforte renziana. Viene dunque indagato anche un amico d'infanzia e punto di riferimento nel mondo economico di Matteo Renzi, appunto l'imprenditore Marco Carrai. Bianchi, avvocato e altro uomo forte del Giglio magico, è ora accusato non solo per il traffico di influenze, reato che gli era stato contestato già nel settembre scorso, ma anche di finanziamento illecito ai partiti. "Ho fiducia che la magistratura chiarirà presto la mia posizione. So di non aver commesso reati e di aver sempre svolto i miei compiti rispettando la legge", ha dichiararlo Marco Carrai in tarda serata. All'alba la guardia di Finanza, coordinata dal procuratore Giuseppe Creazzo, ha eseguito oltre trenta perquisizioni presso una dozzina di imprenditori di 9 città italiane che in passato avevano finanziato Open, molti dei quali rendendolo noto pubblicamente. Non sono indagati, la Procura cerca prove di eventuali irregolarità, e più in generale "significativi intrecci tra prestazioni professionali rese da Bianchi e dai suoi collaboratori e finanziamenti alla Open". Sono stati visitati tra gli altri l'armatore Vincenzo Onorato e il finanziere David Serra, a Milano, Marco Zigon della Getra a Napoli, il gruppo Garofalo a Roma e a Firenze i fratelli Aleotti (proprietari della farmaceutica Menarini), Corrado Fratini e i fratelli Bassilichi. Le perquisizioni e anche il coinvolgimento di Carrai sono conseguenza di controlli fatti nello studio dell'avvocato Bianchi nel settembre scorso, quando venne presa la documentazione di Open. "Tutte le entrate e le uscite della fondazione sono tracciabili - si è difeso ieri Bianchi tramite il suo avvocato Nino D'Avirro - perché avvenute con bonifico e carte di credito. Tutto alla luce del sole". L'inchiesta ha innervosito l'ex premier Matteo Renzi, che ha deciso di parlare dell'inchiesta su Facebook. "Questa mattina centinaia di finanzieri in tutta Italia hanno perquisito all'alba abitazioni e uffici di persone fisiche e giuridiche "colpevoli" di aver finanziato la Fondazione Open. La decisione è stata presa dai pubblici ministeri di Firenze, Creazzo e Turco, titolari anche di altre inchieste: sono loro, ad esempio, ad aver firmato l'arresto per i miei genitori". Secondo la procura, Open ha agito da "articolazione" di un partito, come testimoniato dal lavoro in occasione delle primarie del 2012 o dalle ricevute di versamento da parlamentari. Inoltre, si legge ancora nel decreto di perquisizione dei pm Luca Turco e Antonino Nastasi, "ha rimborsato spese a parlamentari ed ha messo a loro disposizione carte di credito e bancomat". Secondo fonti vicine a Bianchi stesso, le carte sarebbero state a disposizione di un solo onorevole. Concludono i magistrati: "Occorre vagliare le condotte dell'indagato (quindi Bianchi, ndr), accertare quali siano stati nel dettaglio i rapporti tra la fondazione e i soggetti finanziatori". Open è strettamente legata a Matteo Renzi e alla sua ascesa politica. I suoi consiglieri erano oltre a Carrai, Maria Elena Boschi e Luca Lotti. Negli anni in cui ha operato, cioè tra il 2012 e il 2018, è stata un'efficiente macchina per raccogliere finanziamenti e per l'organizzazione di eventi, tra i quali la Leopolda.
Firenze, la Procura indaga sulla fondazione Open. Renzi accusa: è un massacro mediatico. Giovanni M. Jacobazzi il 27 Novembre 2019 su Il Dubbio. La Finanza perquisisce la fondazione Open dell’ex premier. Secondo I magistrati di Firenze era “l’articolazione di un partito politico“. Perquisizioni in undici città. La procura di Firenze sta indagando sui soldi finiti nelle casse della fondazione Open che gli inquirenti considerano «l’articolazione di un partito politico“.. Le Fiamme Gialle, starebbero cercando anche le Carte di credito a disposizione di parlamentari. Entrato in vigore nel 2012 sotto il governo dei professori, presieduto da Mario Monti, il reato di traffico di influenze ha segnato la definitiva subalternità della politica nei confronti della magistratura. «Fumoso, indistinto, dai contorni e dai confini difficilmente individuabili, che prestano il fianco a una eccessiva discrezionalità dei magistrati e a una difformità di giudizio», disse all’indomani della sua approvazione l’ex presidente del Senato Marcello Pera. Ed in effetti è quanto ha dichiarato, a distanza di sette anni da quel giorno, l’avvocato fiorentino Nino D’Avirro, difensore dell’avvocato Alberto Bianchi, presidente della Fondazione Open, finito nel mirino della Procura del capoluogo toscano. «L’avvocato Bianchi – spiega D’Avirro – è indagato per una ipotesi di reato fumosa qual è il traffico di influenze per prestazioni professionali a mio avviso perfettamente legittime». L’inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto di Firenze Luca Turco con il pm Antonino Nastasi, vede indagato Bianchi e alcune decine di finanziatori della Fondazione Open, l’ex cassaforte renziana, chiusa nel 2018. E che, fra le altre cose, serviva a finanziare la Leopolda: la convention politica dell’ex premier Matteo Renzi. La Guardia di Finanza ha eseguito ieri mattina oltre venti perquisizioni ad aziende che negli anni hanno finanziato la Fondazione. Oltre al traffico di influenze illecite, l’iniziale ipotesi accusatoria da cui sarebbe partito tutto, viene contestato anche il finanziamento illecito ai partiti. Secondo l’accusa "la fondazione Open ha agito come articolazione di partito, ha rimborsato spese a parlamentari, messo a loro disposizione carte di credito e bancomat". L’attenzione degli inquirenti si sarebbe focalizzata sulle primarie del 2012, sul Comitato per “Matteo Renzi segretario” e su ricevute di versamento da parlamentari. Sempre secondo quanto emerge, gli investigatori avrebbero individuato legami, ipotizzati come anomali, tra le prestazioni professionali, rese dall’avvocato Bianchi e da collaboratori del suo studio, e i finanziamenti percepiti dalla Open. L’inchiesta sulla fondazione Open è partita lo scorso settembre. "Rinnovo la mia piena collaborazione con la magistratura affinché sia fatta chiarezza prima possibile sull’indagine che mi riguarda. Sin da subito mi sono messo a disposizione fornendo qualsiasi atto mi fosse richiesto. Del resto tutte le entrate e le uscite della Fondazione Open sono tracciabili, perché avvenute con bonifico, carte di credito… È stato fatto tutto alla luce del sole. Messo nero su bianco", ha fatto sapere ieri Bianchi. "Si sta facendo una polemica strumentale – afferma ancora Bianchi – che potrebbe toccare qualsiasi politico e qualsiasi amministratore". «Serve subito una commissione d’inchiesta sui fondi ai partiti. Lo chiederemo nel contratto di governo che vogliamo far partire a gennaio», il commento a caldo di Luigi Di Maio dopo le perquisizioni. «Vogliamo sapere tutto di tutti, comprese le collaborazioni o consulenze con società pubbliche italiane, europee o cinesi, ad esempio», la replica al vetriolo di Luciano Nobili di Italia viva. E nella serata di ieri è arrivata la replica dell’ex premier: «Un’operazione in grande stile, all’alba, di forte impatto mediatico. La decisione è stata presa dai pubblici ministeri di Firenze, Giuseppe Creazzo e Luca Turco, titolari anche di altre inchieste: sono loro, ad esempio, ad aver firmato l’arresto per i miei genitori, provvedimento – giova ricordarlo che è stato annullato dopo qualche giorno dai magistrati del Tribunale del Riesame».
Giampiero Mughini per Dagospia il 26 novembre 2019. Caro Dago, questa tanto per confessarti che pochi istanti fa ho mandato un messaggio all’avvocato Alberto Bianchi, galantuomo dalle cui mani - se ho inteso bene - passavano soldi destinati ad alimentare Matteo Renzi e i suoi intenti, ossia la democrazia pluripartitica. Perché senza quei soldi la democrazia pluripartitica nemmeno un solo istante. L’esistenza del Pci è stato tra gli anni Cinquanta e Settanta un punto fermo di quella democrazia. Ebbene il Pci a Bologna aveva un apparato di ben 120 funzionari pagati a fine mese. Pensate che quei soldi venissero dai soldi risparmiati dalle loro zie? No, venivano in buona parte dall’Urss, dove andava a prenderseli un altro galantuomo, Armando Cossutta, un comunista che non s’è mai messo un rublo in tasca (in realtà l’Urss pagava in dollari, una moneta buona). La vita e gli intenti del più grande partito democratico italiano del dopoguerra, la Democrazia cristiana, mai e poi mai sarebbe stata possibile senza il lavoro accurato del suo amministratore, Severino Citaristi, al quale fecero non ricordo più se 50 o 60 cause senza poter dimostrare che lui si fosse intascato una sola lira. Senza i soldi che il Pli prelevava illegalmente al tempo in cui ne era un leader il mio amico Francesco De Lorenzo, il partito di Camillo Benso conte di Cavour e di Giolitti un corno che sarebbe durato negli anni Settanta e Ottanta. Figlio di Ugo La Malfa, il mio amico Giorgio La Malfa venne condannato perché aveva raccattato 30 milioni di lire per una sua campagna elettorale. Sì o no il suo Pri era un elemento centrale della nostra democrazia. Io dico di sì, eccome. Quando scrivevo per “l’Astrolabio” che era un bel settimanale di centro-sinistra diretto da Ferruccio Parri, l’ex capo della Resistenza, e prendevo 25mila lire ad articolo, per un po’ di tempo non incassavo niente: poi succedeva che Parri passasse all’Eni dove c’erano un bel po’ di ex comandanti partigiani e a quel punto mi pagavano le 25mila lire. Lo stesso al “Mondoperaio” che ha fatto da bandiera del revisionismo socialista e dunque da elemento motore della nostra migliore cultura politica. Per qualche mese non mi pagavano, poi a un certo punto arrivano dei soldi e mi telefonavano per andare a incassare. Da dove arrivano quei soldi? Lascio a voi l’indovinarlo. Ps. “Mondoperaio” è stata la più bella rivista politica italiana dell’ultimo mezzo secolo.
L'inchiesta sulla fondazione Open. Se vogliono sciogliere i partiti, perché non fanno come Mussolini? Piero Sansonetti su Il Riformista il 27 Novembre 2019. Ieri la Guardia di Finanza ha eseguito una ventina di perquisizioni in altrettante città. Ha messo sotto tiro la Fondazione Open, su incarico della Procura di Firenze, perché la Procura di Firenze sospetta che questa Fondazione abbia qualcosa a che fare con il finanziamento dell’attività politica del gruppo di Matteo Renzi. I sospetti, a guardar bene, non sono infondati: effettivamente la Fondazione Open è nata per finanziare, in modo ufficiale e pubblico, la Leopolda e la corrente di Renzi. Non ha altre finalità. Accusarla di avere finanziato Renzi è come accusare una banca di aver prestato dei soldi ai clienti. La novità non sta nell’aver scoperto questo flusso di soldi, che era conosciuto e avveniva alla luce del sole, ma nell’aver deciso che questo flusso di soldi è illecito. Finanziamento illecito dei partiti e traffico di influenze, sono questi i reati che vengono contestati. E questi reati, lo sapete, sono diventati negli ultimi anni i reati più gravi d’ogni altro, nella percezione pubblica. Una volta si pensava che uno fosse un vero mascalzone se magari ammazzava qualcuno, o se lo riempiva di botte, o se commetteva uno stupro, o atti di pedofilia. Adesso il padre di tutti i reati è il finanziamento di un partito. Nel codice penale si scrive “finanziamento illecito”, ma ormai la parola “illecito” è un orpello: l’idea è che il finanziamento comunque sia illecito se riguarda un partito. Dunque, cerchiamo di capire come stanno le cose. Il Procuratore aggiunto di Firenze, Luca Turco, e il sostituto Antonio Nastasi hanno mandato i finanzieri a perquisire le sedi di Open e anche quelle di possibili finanziatori di Open. L’accusa alla Open è di avere raccolto dei soldi da imprenditori che intendevano finanziare Renzi e poi di avere versato questi soldi alla corrente di Renzi. Con questi fondi, secondo l’accusa, Renzi avrebbe pagato la sua campagna elettorale per le primarie del 2012 (quando fu sconfitto da Bersani), e poi varie convention della Leopolda e infine la campagna elettorale del Pd in occasione del referendum sulla riforma costituzionale. Gli inquirenti sono convinti che tutto ciò è assolutamente illegale. L’amministratore delegato della Open, l’avvocato Bianchi, si è detto un po’ stupito, perché i finanziamenti – ha spiegato – non erano occulti, ma tutti regolarmente registrati, e lui non era stato informato del fatto che le campagne elettorali fossero attività illegali dunque non sa spiegarsi quale sia il reato. Matteo Renzi ha reagito in modo un po’ più irritato. Facendo notare che i Pm che stanno conducendo l’inchiesta sono gli stessi che un po’ più di un anno fa fecero arrestare i suoi genitori. Renzi, probabilmente, sospetta che qualcuno, alla Procura di Firenze, ce l’abbia con lui. Dicevamo che i reati dei quali sono accusati l’avvocato Bianchi e altri, sono essenzialmente due: finanziamento illecito dei partiti e traffico di influenze. La questione del traffico di influenze è molto complesso, perché nessuno ha mai capito bene in che cosa consista questo reato. Pare che non lo sappiano neppure i parlamentari che hanno scritto quella legge. Se provate a prendere un giurista a caso e gli chiedete cortesemente di spiegarvi che differenza c’è tra il reato – poniamo – di corruzione e il reato di traffico di influenze, vi spiegherà che la differenza è semplicissima: il reato di corruzione deve essere provato, e spesso non è facile provarlo. Il reato di traffico di influenze invece può essere contestato anche senza prove, e questo è più semplice. Finanziamento illecito dei partiti è un reato che prevede fino a 4 anni di prigione. Traffico di influenze 4 e mezzo. Sommati fanno più di otto anni. Per capire bene la loro gravità basta dire che per stupro puoi cavartela con 5 anni, per violenza privata al massimo con 4 anni in tutto, per lesioni gravi con tre anni (ma se hai le attenuanti bastano 3 mesi). I 5 Stelle ieri in Parlamento erano molto agitati e hanno chiesto una commissione di inchiesta. Probabilmente l’otterranno, e noi ci troveremo di fronte alla seguente situazione: una Procura della Repubblica e una commissione parlamentare impegnatissime ad indagare per stabilire se una fondazione nata per finanziare la corrente di Renzi abbia finito per finanziare la corrente di Renzi. Non credo – come immagino creda Renzi – che questa sia una persecuzione contro il fondatore di Italia Viva. È una cosa un po’ più complessa. E cioè è uno dei passaggi di una strategia che punta comunque a mettere fuorigioco i partiti. Permettetemi di usare una parola più inquietante: fuorilegge. Mi ricordo che quando ero giovane c’era un pezzo della sinistra extraparlamentare che gridava “Msi fuorilegge”. A tutti i cortei. Non solo i partiti di governo, ma anche il Pci si oppose sempre a quello slogan, perché riteneva che una democrazia libera non mette fuorilegge i partiti. Ora invece ci troviamo di fronte a un’ondata di qualunquismo, che si fa partito e si fa potere. Ed è guidata da un pezzo della magistratura e dal movimento delle Cinque stelle: punta a mettere fuorigioco tutti i partiti. Non un partito, o una corrente: tutti. Nel 1993 fu abolita l’immunità parlamentare. Deputati e senatori furono lasciati alla mercé di qualunque sostituto procuratore. Nel 2012 furono aboliti i vitalizi. Nel 2018 furono aboliti i vitalizi anche retroattivamente, con buona pace della Costituzione e del diritto. Nel frattempo sono stati drasticamente ridotti gli stipendi dei parlamentari. Nel 2014 fu abolito il finanziamento dei partiti. Abolito al 100 per cento: zero lire. Nel frattempo sono state approvate leggi (come quella sul traffico di influenze) che rendono difficile il finanziamento privato ai partiti. Ora i partiti si trovano in questa situazione: non possono ricevere finanziamenti pubblici né privati. Cioè non possono maneggiare denaro. O rubano o spariscono. In Italia è successo qualcosa di simile già una volta: nel 1926, con una legge approvata il 29 novembre, furono aboliti i partiti politici. Due anni dopo si stabilì che alle elezioni poteva partecipare solo una lista, scelta dal Gran Consiglio del fascismo. In fondo i fascisti ottennero lo stesso obiettivo in modo più spiccio ma anche molto più semplice. Che cosa c’è di male se in Italia si aboliscono i partiti e si stabilisce che il loro posto viene preso dalla magistratura e dai 5 Stelle?
Finalmente qualcuno indaga su Open. La Procura di Firenze con le perquisizioni di oggi ha dimostrato di voler vederci chiaro. E le accuse sono pesanti, come i sospetti di cui anche noi abbiamo parlato a lungo. Maurizio Belpietro il 26 novembre 2019 su Panorama. La Procura di Firenze con le perquisizioni di oggi ha dimostrato di voler vederci chiaro nei finanziamenti di questa fondazione Open che lo ricordo è quella che nel corso degli ultimi anni ha finanziato tutta una serie di attività di Matteo Renzi, prima tra tutte la Leopolda, la famosa kermesse creata da Renzi a Firenze, servita come lancio politico che è passato da sindaco di Firenze a premier proprio passando dalle varie edizioni della Leopolda stessa. Che cosa vuol capire la Procura? Semplice, vuole capire da dove arrivassero tutti questi soldi finiti nelle casse di Open e soprattutto a cosa servissero. Fino ad oggi non era interessato a nessuno capire la trasparenza, tranne a noi, ad essere sinceri, che su La Verità e su Panorama abbiamo da mesi cominciato a ricostruire tutta una serie di attività economiche e non solo scoprendo cose sorprendenti. Ad Open arrivavano centinaia di migliaia, in alcuni casi milioni di euro che poi venivano dirottati, apparentemente erano parcelle, anche al comitato per il referendum sulla riforma del Senato quello della clamorosa sconfitta dello stesso Renzi che fu costretto alle dimissioni da Presidente del Consiglio. I soldi arrivavano anche ad altre persone, persone vicine sempre a Reni. In totale la Procura di Firenze ha calcolato finanziamenti per circa 7 milioni di euro e vuole quindi capire se questi soldi siano serviti per attività politiche oppure se siano stati usati per altri scopi ed altre ragioni. Va detto che al momento Renzi non rischia nulla, non essendo stato neanche indagato; lo sono invece diversi uomini da sempre vicini a lui, come l’avvocato Bianchi, il Presidente della Fondazione Open, oppure la persona che organizzava la Leopolda, ma anche persone che con Renzi avevano fatto campagna elettorale. Le accuse sono gravi, sono influenze illecite, finanziamento illecito ai partiti, riciclaggio ed auto riciclaggio, si parla anche di falso in bilancio. E’ un’inchiesta molto seria.
Nuovo contratto Pd e M5S. In questi giorni si parla del possibile nuovo contratto di Governo tra i partiti della maggioranza. Un contratto tra Pd e Movimento 5 Stelle in realtà è già stato fatto ed ha un articolo solo: non andare a votare. Su tutto il resto infatti i due partiti sono da sempre divisi. Sono divisi sulla giustizia, sulla prescrizione, sono divisi sulle tasse, sono divisi sul fondo salva stati, sono divisi su ogni mossa sia stata fatta in questi tre mesi di Governo. Litigano su tutto. Ma nessuno di loro vuole andare alle elezioni perché sanno di avere da perdere, soprattutto il genitore di questo Governo, Renzi stesso, perché sa benissimo che nelle urne il sogno di Italia Viva e del suo progetto politico verrebbe bocciato dagli elettori come dicono i sondaggi.
Bella Ciao. C’è poco da stupirsi sul fatto che don Biancalani abbia fatto cantare “Bella Ciao” nella sua Chiesa; in passato lo ricordo aveva ospitato in piscina decine di migranti, oppure li aveva ospitati nella sua Chiesa e sul sagrato trasformato in un dormitorio. Certo, fare entrare i migranti in chiesa è servito a far uscire molti fedeli. Spero che questa ultima trovata, questo contributo di questo sacerdote, che è noto per le sue polemiche ed i suoi gesti, farà in modo di allontanare dalla Parrocchia. Io non credo che in Chiesa di vada a cantare “Bella Ciao”, che resta un canto partigiano e come tale deve restare fuori dalle chiese.
Il pizzino giudiziario. Alessandro Sallusti, Mercoledì 27/11/2019 su Il Giornale. Venti perquisizioni contemporaneamente in tutta Italia sanno di retata, così si dice di un'operazione eseguita con sorpresa, rapidità e spiegamento di forze di solito usate per stanare organizzazioni criminali. Forse troppo onore per Matteo Renzi, presunto boss di questa presunta cosca che di nome fa Open e che dal 2012 al 2017 ha raccolto fondi privati per finanziare la corrente politica dell'ex premier. Una fondazione, come si usa in politica, che nel tempo ha gestito circa sette milioni di euro usati tra l'altro per pagare i conti della Leopolda (l'annuale congresso dei renziani). Le accuse sono varie, da traffico d'influenze a riciclaggio, e sono state subito respinte al mittente dagli interessati. Non solo perché garantisti, non tanto perché non abbiamo letto tutte le carte, ma questa storia puzza lontano un miglio, quanto meno per il dispiegamento di forze, il clamore mediatico e il tempismo. Che i privati finanzino un politico o un partito fino a prova contraria è un fatto legale, che tra queste operazioni ce ne sia stata qualcuna irregolare (e quindi perseguibile per legge) è cosa probabile. Ma altro è volere far passare un movimento politico - nei confronti del quale non abbiamo mai avuto simpatie - per un'organizzazione criminale. Personalmente penso che Matteo Renzi sia politicamente spregiudicato e inaffidabile, non credo sia un ladro. Il suo problema ora è che si trova a governare insieme a soci - i 5 Stelle e il Pd - che invece pensano il contrario, o quanto meno godono all'idea che lui passi per ladro a prescindere dai fatti. Ormai in Italia funziona così, il nemico politico - e Renzi è un ospite indesiderato nel governo, un problema da risolvere - va fatto abbattere dai giudici se non puoi batterlo con gli elettori (noi del centrodestra ne sappiamo qualcosa). Questa retata ha incerti esisti giudiziari, ma certe ripercussioni politiche sulla fragile maggioranza e sul traballante governo. L'avviso mi sembra chiaro: caro Renzi, o la smetti di rompere le palle o ti cuociamo a fuoco lento. E dire che, senza di lui, questi sarebbero già a casa da un paio di mesi. I latini avevano battezzato questa pena come damnatio memoriae. Renzi? Non è mai esistito.
Una segnalazione dall’antiriciclaggio per l’indagine sulla casa del leader. Pubblicato giovedì, 28 novembre 2019 su Corriere.it da Antonella Mollica, Fiorenza Sarzanini. A Lotti una delle carte di credito della fondazione. L’accusa: così Carrai reclutò i finanziato. Operazioni immobiliari, carte di credito, cene e convegni. Sono due le inchieste avviate dalla procura di Firenze sull’utilizzo dei soldi della Fondazione Open. Oltre alle verifiche sul denaro gestito dall’avvocato Alberto Bianchi - che era presidente della Fondazione chiusa nel 2018 dopo sei anni di attività e incassi per circa 7 milioni di euro -, i pubblici ministeri hanno disposto accertamenti sulla villa acquistata nell’estate 2018 da Matteo Renzi. I soldi per versare la caparra da 400mila euro furono infatti messi a disposizione da uno dei finanziatori. La somma è stata poi restituita ma un anno fa l’operazione è stata segnalata dall’Uif, l’Unità antiriciclaggio, come “sospetta” e per questo sono in corso le verifiche. Controlli che riguardano pure l’utilizzo delle carte intestate alla Fondazione ma messe a disposizione di alcuni parlamentari. Tra loro, Luca Lotti che con Maria Elena Boschi e Marco Carrai - indagato come Bianchi per finanziamento illecito - faceva parte del consiglio di amministrazione della Fondazione. L’alert scatta un anno fa quando i magistrati di Firenze guidati da Giuseppe Creazzo ricevono una “segnalazione di operazione sospetta” che riguarda un passaggio anomalo di soldi sui conti di Renzi. Chiedono alla Guardia di Finanza un approfondimento e scoprono che il 12 giugno 2018 l’ex premier ha ricevuto un prestito da 700mila euro dai fratelli Maestrelli, attraverso un conto dell’anziana madre Anna Picchioni. Una parte dei soldi è stata utilizzata per emettere 4 assegni circolari per un totale di 400mila euro da versare come caparra per l’acquisto della dimora da un milione e 300mila euro a due passi da piazzale Michelangelo. Si scopre che i rapporti tra Renzi e i Maestrelli risalgono a molti anni fa. La famiglia ha fatto alcune donazioni ad Open e Riccardo, uno dei fratelli, nel 2015 era stato nominato proprio dal governo Renzi nel consiglio di amministrazione di Cassa Depositi e Prestiti. Renzi ha restituito i 700mila euro, ma l’indagine dovrà accertare se quel prestito fosse la contropartita per favori ricevuti. E se dietro le altre donazioni dei Maestrelli - proprietari tra l’altro di alcune aziende ortofrutticole - possano celarsi vantaggi ottenuti proprio grazie al legame con l’ex premier e con il suo entourage. L’accusa ritiene che Open abbia agito come «articolazione di partito politico» e dunque che sia stata trasformata in una vera e propria cassaforte per finanziare la carriera di Renzi nel Pd. E che i sostenitori economici ne abbiano poi potuto trarre vantaggi per le proprie imprese. L’avviso di garanzia notificato a Carrai per finanziamento illecito contesta infatti il “sistema” utilizzato da Open per ottenere il sostegno economico. Secondo l’accusa il “collettore” sarebbe l’avvocato Alberto Bianchi nominato dai “soggetti finanziatori” come consulente legale. In realtà in alcuni casi parte della parcella sarebbe stata poi versata ad Open per «mascherare il sostegno all’attività politica di Matteo Renzi» e trarne vantaggi. In questo schema Carrai viene indicato come «l’anello di congiunzione tra i finanziatori e la Fondazione». È stato infatti proprio lui a trovare imprenditori italiani e stranieri disposti a elargire contributi a Open. E le verifiche della Guardia di Finanza si concentrano su eventuali contropartite che avrebbe garantito grazie al ruolo strategico nel “giglio magico” e alla sua amicizia con Renzi. Il 4 ottobre scorso Carrai è stato nominato console d’Israele: quando i finanzieri sono entrati negli uffici della sua azienda per la perquisizione hanno dovuto utilizzare alcune cautele legate all’immunità diplomatica, anche se questo non ha impedito di portare via la documentazione sul suo ruolo in Open. «Non ho ricevuto alcuna perquisizione», dichiara invece l’imprenditore Alfredo Romeo, anche se alcune aziende a lui collegate risultano nell’elenco affidato agli investigatori. «Non sono mai esistite carte di credito o bancomat della Fondazione Open intestati a parlamentari», si è affrettato a dichiarare ieri Luca Lotti. Nel decreto di perquisizione viene in realtà specificato che «Open ha rimborsato spese a parlamentari e ha messo a loro disposizione carte di credito e bancomat». Una di queste risulta utilizzata proprio da Lotti e le verifiche delegate alla Guardia di Finanza riguardano la lista delle spese effettuate. La carta poteva essere infatti usata soltanto per l’attività collegata a Open e dunque se tra le “uscite” ci fossero impegni legati alla politica scatterebbe l’accusa di finanziamento illecito. Il ruolo di Lotti, così come quello di Maria Elena Boschi, nel consiglio di amministrazione della Fondazione sarà valutato dopo aver esaminato la documentazione sequestrata negli uffici e nell’abitazione di Bianchi. Ma sono entrambi parlamentari e dunque ogni eventuale provvedimento dovrebbe essere autorizzato dalle Camere.
Esclusivo. La villa di Matteo Renzi comprata col prestito da 700 mila euro del finanziatore di Open. L'ex segretario del Pd, ora Italia Viva, secondo i documenti consultati da L'Espresso ha acquistato la nuova casa a Firenze anche grazie ai soldi ricevuti dalla madre dell'imprenditore Riccardo Maestrelli. Un generoso finanziatore della fondazione renziana. Renzi replica: «Non confermo e non smentisco nulla». La prima parte dell'inchiesta esclusiva in edicola domenica. Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian il 27 novembre 2019 su L'Espresso. Un prestito da 700 mila euro ricevuto dalla madre di un imprenditore che ha finanziato la fondazione Open, nominato in una società pubblica durante il governo di cui Matteo Renzi era premier. Denaro utilizzato in parte per comprare la nuova villa immersa tra le colline fiorentine. È l’intrigo che avvolge la casa dell’ex premier, acquistata a luglio dell’anno scorso grazie ai soldi prestati da una famiglia toscana di grossisti di ortofrutta amici dell’ex premier. Renzi, in quell’estate del 2018, era furioso. Aveva appena comprato la casa da 1,3 milioni di euro in una delle più belle zone di Firenze, ma non si capacitava degli attacchi violenti lanciategli via social. «Il web da giorni è pieno di spazzatura» spiegò nella sua e-news. «Mi dicono: perché hai detto che avevi solo 15 mila euro in banca e adesso compri casa? Vi svelo un segreto: sono stato eletto parlamentare e prendo un ottimo stipendio. Queste entrate mi permettono persino di prendere un mutuo. Funziona così, da qualche secolo!». Per rintuzzare le critiche, l’ufficio stampa confermò in una nota che tutta l’operazione dell’acquisto della villa di quasi 300 metri quadri più giardino sarebbe stata cristallina. Nessuno scandalo, dunque: «Quando il percorso sarà concluso tutte le informazioni saranno rese pubbliche, come peraltro prevede la normativa per la trasparenza dei parlamentari». Dopo un anno e mezzo, però, dei dettagli dell’affare immobiliare sappiamo (ufficialmente) ancora poco. Nell’ultima dichiarazione patrimoniale depositata a Palazzo Madama Renzi segnalava solo la proprietà del 50 per cento della nuova casa (l’altra metà è intestata alla moglie Agnese Landini), mentre alcuni giornali hanno raccontato - grazie agli atti del catasto - che Matteo e Agnese avevano pagato ai venditori una caparra di 400 mila euro, e acceso un mutuo con il Banco di Napoli per i restanti 900 mila. Tutto chiaro, dunque? Non proprio. L’Espresso ha scoperto che la compravendita nasconde più di un’ombra. Anomalie che emergono da alcuni documenti dell’inchiesta della procura di Firenze sulla renzianissima fondazione Open, informative della Guardia di Finanza e l’analisi dei flussi finanziari di alcuni conti correnti segnalati alla Uif (l’ufficio antiriciclaggio della Banca d’Italia) dalla banca Cassa di risparmio di Firenze. Matteo e Agnese infatti hanno comprato la grande villa anche con i denari girati a loro dalla famiglia Maestrelli, ricchi imprenditori toscani amici e finanziatori della fondazione Open di Renzi. Tanto intimi da girare ai Renzi - attraverso il conto corrente dell’anziana Anna Picchioni, madre dei fratelli Maestrelli - un bonifico da ben 700 mila euro datato 12 giugno 2018. Ecco: parte del “prestito” (questa la causale del bonifico) il giorno dopo, il 13 giugno, viene usata da Matteo e moglie proprio per chiedere l’emissione di quattro assegni, per un totale di 400 mila euro. Quelli necessari a pagare la caparra. Possibile che il capo di Italia Viva abbia usato i soldi dei Maestrelli per comprarsi la villa? Possibile che il senatore non ricordasse che Riccardo Maestrelli fu nominato dal suo governo nel consiglio di amministrazione di Cassa depositi e prestiti Immobiliare spa, società pubblica di Real Estate controllata dal ministero dell’Economia, e che quindi il rischio di un conflitto d’interessi era enorme? Contattato dall’Espresso, che gli ha chiesto dettagli sull’operazione e se e quando ha restituito il prestito, Renzi risponde: «Vi risulta il prestito e non vi risulta la restituzione? Non confermo e non smentisco nulla». Per poi aggiungere: «Andremo in causa». Successivamente, in una conferenza stampa, ha dichiarato di aver restituito il prestito «in quattro mesi» e ha annunciato di voler denunciare L’Espresso per «violazione di segreto bancario». Inoltre, ha rivelato di aver guadagnato più di 800 mila euro nel 2018 e oltre un milione quest’anno grazie alla sua attività professionale.
IL PRESTITO DELLA VEDOVA. Andiamo con ordine. Anna Picchioni è una signora di Firenze anziana e sconosciuta al pubblico. Secondo l’analisi del suo conto corrente sulla Cassa di Risparmio di Firenze, il 12 giugno 2018 riceve 700 mila euro. Arrivano dalla Pida spa, una holding fiorentina attiva nel commercio all’ingrosso di frutta, nel settore immobiliare e in quello alberghiero, fondata da suo marito Egiziano e oggi, dopo la sua scomparsa, controllata dai suoi tre figli: Riccardo, Giulio ed Elena Maestrelli. E dalla stessa signora Picchioni, che detiene il 5 per cento delle azioni. La causale del bonifico recita «Pagamento in conto acquisto 25 partecipazione Mega srl». Gli investigatori che hanno lavorato sui flussi hanno scoperto che nel 2015 i figli avevano in effetti comprato dalla madre il 25 per cento di un’altra società di famiglia, la Mega appunto, e che lei avrebbe dovuto avere 719 mila euro. Da incassare in 15 rate annuali, da poco meno di 50 mila euro l’una. Il 12 giugno 2018, invece, i fratelli (che negli anni passati le avevano già versato tre rate per un totale di 150 mila euro) decidono di indennizzare la madre in un solo colpo. Versandole, attraverso la loro holding altri 700 mila euro, e dunque dandole alla fine molti più soldi (circa 158 mila, secondo i calcoli degli analisti della Uif) di quanto le sarebbe spettato secondo gli accordi contrattuali conosciuti. Come mai quest’urgenza? Non sembra che la signora Picchioni avesse bisogno di una somma così rilevante per necessità personali: i denari sostano infatti poche ore sul conto della donna settantenne, e ripartono con un bonifico di pari importo verso un conto corrente aperto al Banco di Napoli dal senatore Matteo Renzi e da Agnese Landini. Che il giorno successivo, dopo aver incassato il tesoretto, corrono nell’istituto chiedendo l’emissione di 4 assegni circolari non trasferibili del valore di 100 mila euro ciascuno. Il motivo di tanta fretta è che i due sono in procinto di stipulare il rogito per acquistare la prestigiosa villa di via Tacca tra le colline fiorentine: 285 metri quadri, 11 vani e mezzo e annesso terreno di 1580 metri quadri venduti da Natalia Gajo e dai figli Giusto e Oretta Puccini. Il primo, 68 anni, è il papà dell’attrice Vittoria Puccini ed è docente di Istituzioni di diritto pubblico, collega del presidente del Consiglio Giuseppe Conte all’Università di Firenze. La sorella Oretta, invece, è stata dipendente della Provincia di Firenze, la stessa governata da Matteo Renzi dal 2004 al 2009. L’atto del notaio con cui si conclude la compravendita tra i Puccini e i Renzi è datato 23 luglio 2018. Il prezzo finale pattuito con i venditori è di 1,3 milioni di euro.
TU MI NOMINI, IO TI AIUTO. Perché una settantenne dovrebbe prestare una somma così ingente all’ex premier? Come mai, stando ai documenti, i fratelli Maestrelli - veri finanziatori dell’operazione immobiliare - hanno schermato il bonifico attraverso il conto della madre? E se i Renzi hanno usato 400 mila euro per la caparra, che fine ha fatto il resto della somma prestata, cioè 300 mila euro che Renzi non usa né per l’anticipo né per provare a strappare un mutuo più leggero? Renzi dice di aver restituito il prestito a Picchioni. Di certo i Maestrelli sono da sempre molto generosi nei confronti del senatore ed ex presidente del Consiglio. Oltre ai 700 mila euro del bonifico della vedova, infatti, le carte dell’inchiesta sulla fondazione Open evidenziano che Egiziano, il fondatore dell’impero di famiglia, nel marzo del 2017 ha girato all’organismo renziano una donazione da 150 mila euro. Non solo: a febbraio 2018, pochi giorni dopo la morte del capostipite (al funerale erano presenti sia il senatore che Luca Lotti) la Frama Fruit, la Tirreno Fruit e la Fondiaria Mape, tutte srl controllate dai fratelli, versano alla Open altri tre bonifici, per un totale di 150 mila euro. In tutto 300 mila euro: una somma che permette ai Maestrelli, dunque, di essere annoverati tra i principali finanziatori della vecchia cassaforte del leader, chiusa qualche mese dopo. La chiusura, tuttavia, non ha allontanato lo tsunami giudiziario dal Giglio magico, travolto in pieno nelle ultime settimane dall’inchiesta della procura di Firenze guidata da Giuseppe Creazzo. L’incubatrice della Leopolda renziana, infatti, presieduta dall’avvocato Alberto Bianchi - e animata dal cda composto da Marco Carrai, Luca Lotti e Maria Elena Boschi - è finita nel mirino dei pm fiorentini, che indagano per finanziamento illecito, riciclaggio e traffico di influenze. Un’inchiesta che nei giorni scorsi ha portato all’iscrizione nel registro degli indagati dello stesso Bianchi e di Carrai. E a perquisizioni in tutta Italia, con magistrati e finanzieri impegnati a scandagliare i flussi finanziari della Open, foraggiata, appunto, anche dai Maestrelli. Dei tre fratelli Maestrelli, il più in vista è sicuramente Riccardo, presidente di Pida, la spa - ricordiamolo - che ha liquidato i 700 mila euro a favore della madre poi finiti sul conto di Renzi. Matteo e Riccardo si conoscono da tempo. Era noto che l’imprenditore lo ha sempre sostenuto fin dalle campagne elettorali per le comunali di Firenze. Ma quasi nessuno sa che Riccardo siede nel Cda di Cassa depositi e Prestiti Immobiliare da fine 2014, nominato proprio dal governo Renzi. Una società pubblica che ha commercializzato, da quando è nata, immobili per due miliardi di euro. Un incarico di prestigio. Per questo il prestito dei Maestrelli per l’acquisto della villa sulle colline fiorentine, monitorato anche dalla Banca d’Italia, potrebbe configurare per il capo di Italia Viva quantomeno un grave conflitto di interessi. Aggravato dal fatto che i Maestrelli sono tra i maggiori finanziatori della Fondazione Open. Non è tutto. La carriera imprenditoriale di Maestrelli junior incrocia spesso la vita dell’ex premier di Rignano. La holding di famiglia, Pida, è anche azionista di aziende che fanno capo a gruppi della grande distribuzione - Conad per esempio - e dell’industria ortofrutticola del calibro di Orsero, famoso marchio di Albenga quotato in borsa. Maestrelli, attraverso la Millenaria Srl, gestisce due hotel Hilton nel capoluogo toscano, attività redditizia che ha portato utili per oltre 5 milioni alla srl di cui in passato ha fatto parte anche l’imprenditore Riccardo Fusi (intimo di Denis Verdini e amico di Matteo, Fusi fu intercettato mentre parlava di Riccardo Maestrelli nell’inchiesta dei pm toscani sulla cricca delle grandi opere). Ma Riccardo insieme ai fratelli è il proprietario anche della Egan immobiliare, che controlla al 50 per cento Palazzo Ruspoli, B&B di lusso a pochi metri dalla cupola del Brunelleschi, che nel 2012 ospitava pure la sede della fondazione Big Bang, e del comitato elettorale renziano, embrione di quella che sarà la Open. Socio di Riccardo in Egan srl era poi, fino al 2017, Andrea Bacci, anche lui storico amico dell’ex premier. E La Pida è anche proprietaria di Villa Roma Imperiale, un hotel di lusso a Forte dei Marmi, dove Renzi è stato ospite per una vacanza da sogno ad agosto 2014. Il rottamatore, criticato su alcuni giornali, fece trapelare sui giornali che la vacanza, lui, nonostante l’amicizia antica la pagò di tasca sua. Impossibile verificare. L’ex premier dice di aver restituito il prestito avuto dai Maestrelli. Perché nel 2018 ha guadagnato benissimo. Di certo, a maggio di quest’anno, è riuscito a vendere la vecchia casa di Pontassieve. L’Espresso è in grado di rivelare, documenti catastali alla mano, che l’abitazione da 295 metri ha fruttato a lui ed Agnese 830 mila euro. I compratori hanno versato 551 mila euro direttamente alla coppia, mentre i restanti 278 sono stati usati dai Renzi per estinguere due mutui accesi dall’ex premier in due banche differenti.
Open, Renzi: «Il prestito di 700 mila euro non c’entra, l’ho restituito dopo 4 mesi». Pubblicato mercoledì, 27 novembre 2019 su Corriere.it da Antonella Mollica, Fiorenza Sarzanini. A Lotti una delle carte di credito della fondazione. L’accusa: così Carrai reclutò i finanziato. Matteo Renzi prova a difendersi dalle accuse che lo vedono legato all’inchiesta sulla Fondazione Open al termine di un incontro con degli imprenditori a Fontanellato, nel Parmense. A partire dall’acquisto della casa di Firenze, vicenda pubblicata dall’Espresso «Nel 2018 ho ricevuto un importante ritorno economico dalle mie attività, fino a 2018 ho fatto solo politica, 830mila euro -ha spiegato il leader di Italia viva-. Nel 2019 saranno più di un milione, sono i miei proventi. Dovendo effettuare un anticipo bancario ho fatto una scrittura privata con un prestito concesso e restituito nel giro di qualche mese, quattro mesi circa». Renzi ha sottolineato: «Tutti i miei denari sono pubblici, non c’entra nulla la Fondazione» Open, dice Renzi, annunciando dia ver denunciato per divulgazione di segreto bancario l’Espresso. «Chi decide cos’è un partito politico? Io non sto attaccando l’autonomia della magistratura, io sto difendendo l’autonomia della politica. Questo punto è enorme, è l’elefante nella stanza. Perché se assegniamo ai magistrati il compito di decidere cosa è un partito e cosa non abbiamo messo in discussione la separazione dei poteri», dice Renzi sulla vicenda della Fondazione Open. «Il fatto che Open sia stata trasformata da qualcuno in un partito politico - ha aggiunto - è una cosa enorme». «Mi sembra di essere divenuto oggetto di attenzioni speciali da parte di qualche magistrato. Un tempo i magistrati della Procura di Firenze erano famosi perchè andavano a caccia del mostro di Scandici, oggi l’attenzione è sul senatore di Scandicci», ha aggiunto Renzi. Secondo Renzi, la vicenda Open «è una ferita al gioco democratico perché noi abbiamo fatto la battaglia per abolire il finanziamento pubblico... Ma poi se chi del tutto legittimamente finanzia una fondazione, che è una fondazione, vede che questa fondazione viene improvvisamente trasformata dalla interpretazione di un magistrato in un partito... Vuol dire che io ho fondato un partito a mia insaputa, mettiamola così», ironizza il senatore e fondatore di Italia Viva. Secondo la Procura, che ha aperto un’inchiesta, la Fondazione Open gestita dall’avvocato Alberto Bianchi era una vera e propria cassaforte che Matteo Renzi utilizzava per la sua attività politica. Nell’ambito dell’inchiesta è stato perquisito e indagato Marco Carrai, imprenditore e amico personale di Renzi. «Incredibile, gli hanno tolto anche il telefonino», dice Renzi.
Inchiesta Open, Renzi difende la Fondazione. E attacca i pm: "Un tempo cercavano il mostro di Firenze, ora il senatore di Scandicci". L'ex premier: " L'hanno trasformata in un partito politico. E' un fatto enorme. Salvini si smarca: "Non giudico cose che non conosco". L'Anm: "Attacchi gravissimi. Ma non ci faremo intimidere". La Repubblica il 27 novembre 2019. Matteo Renzi difende a spada tratta l'ex Fondazione Open e attacca duramente i magistrati dopo l'allargamento dell'inchiesta e l'iscrizione nel registro degli indagati di Marco Carrai, imprenditore amico dell'ex premier. "Mi sento oggetto di attenzioni speciali da parte di alcuni magistrati. Un tempo i magistrati della procura di Firenze cercavano il mostro di Scandicci, non vorrei che avessero adesso fatto confusione con il senatore di Scandicci", dice Renzi in una conferenza stampa a Fontenallato, in provincia di Parma. "Sento il silenzio dei costituzionalisti, che evidentemente devono ancora devono riprendersi dalla battaglia per il referendum del 2016. Ma chi decide cosa è un partito e cosa è una fondazione. Il fatto che Open sia stata trasformata da qualcuno in un partito politico è una cosa enorme. Chi mi dice che un srl non è un partito politico?", dice con evidente riferimento alla Casaleggio Associati. Nonostante tutto. Renzi dice di avere fiducia nella magistratura: "Credo talmente nella giustizia - dice - che ho 50 procedimenti aperti. In molti casi sono richieste di risarcimento danni. Ho chiesto 1 milione di risarcimento solo su Unicef, circa 4,5 milione in totale". L'ultima querela sarebbe contro L'Espresso per gli articoli sull'acquisto della sua villa. Le parole di Renzi non sono piaciute all'Associazione nazionale magistrati. "Le dichiarazioni di un esponente delle istituzioni che, per reagire a un'iniziativa giudiziaria, attacca personalmente i magistrati titolari dell'indagine sono gravissime", dice l'Anm. "Innanzitutto sotto questo profilo, - continua il sindacato della toghe, . e pur iscrivendosi in un ormai consueto filone di reazioni scomposte, per linguaggio e sostanza, non smettono di suscitare indignazione. Se il tentativo è quello di intimidire i magistrati, è e resterà vano". Una lunga serie di accuse e contrattacchi che sono partiti in mattinata a colpi di tweet: "Noi abbiamo seguito le regole delle Fondazioni - scrive l'ex premier - I due giudici fiorentini dicono che Open era un partito (!). Chi decide come si fonda un partito? La politica o la magistratura? Colpisce il silenzio di commentatori sul punto, decisivo per la democrazia di un Paese. Tutti zitti?". E in un altro tweet aveva aggiunto: "Entrate e Uscite di #Open sono tutte tracciate. Trasparenza al massimo. Magari le altre fondazioni fossero state trasparenti come Open". In serata Renzi insiste: "Chi decide cos'è un partito politico? Io non sto attaccando l'autonomia della magistratura, io sto difendendo l'autonomia della politica. Questo punto è enorme, è l'elefante nella stanza. Perché se assegniamo ai magistrati il compito di decidere cosa è un partito e cosa non lo è abbiamo messo in discussione la separazione dei poteri. Il fatto che Open sia stata trasformata da qualcuno in un partito politico - ha aggiunto - è una cosa enorme". In difesa della Fondazione renziana anche il capogruppo di Italia Viva in Senato Davide Faraone: "Fin dalla prima Leopolda, dieci anni fa, ricordo le illazioni: 'Chi c'è dietro Renzi?', 'Chi li finanzia?', 'I poteri occulti?'. Non era concepibile che quattro ragazzi di provincia tentassero la scalata alla politica italiana, doveva per forza esserci qualcosa sotto. Allora, nonostante la legge non lo imponesse, furono chiamati tutti coloro che avevano versato un contributo alla fondazione e fu chiesto loro se avessero problemi a rendere pubblico il finanziamento. La gran parte aderì e tutto fu pubblicato sul sito. Le spese di 'Open' sono tutte tracciate. 'Open' è stata la fondazione più trasparente nella storia della politica italiana". Il leader leghista Matteo Salvini, che alle spalle ha il caso dei 49 milioni di rimborsi elettorali della Lega spariti nel nulla, si tiene prudentemente lontano dalle polemiche: "Non giudico cose che non conosco, non posso nè condannare nè assolvere. Non è il mio lavoro", replica ai cronisti davanti a Montecitorio.
Fondazione Open, Renzi allo scontro con i pm: «Invadono la politica». Rocco Vazzana il 28 Novembre 2019 su Il Dubbio. Nuove perquisizioni Gdf. L’ex premier controle toghe «Chi non reagisce oggi accetta che si metta in discussione il principio della separazione dei poteri che è una colonna del sistema democratico occidentale». «Se ho fondato un “partito” Open e non lo sapevo significa che stiamo mettendo in discussione le regole del gioco democratico». Lo ha ribadito Matteo Renzi nel parmense intervenendo sull’inchiesta relativa alla Fondazione Open. «Si è creato un vulnus – ha ribadito Renzi – l’impossibilità di un partito politico di finanziarsi se non con il piccoli aiuto delle persone». Renzi ha poi sottolineato «l’incredibile attenzione speciale non della magistratura ma di qualcuno sempre nella stessa direzione». Per Renzi esiste dunque un conflitto: «C’è potere giudiziario e legislativo, penso siamo in presenza di una invasione di campo nel settore della politica». Insomma, l’ex premier è un furia e apre senza alcuna remora la polemica con la procura di Firenze che intanto continua a spulciare tra i conti correnti della Fondazione. «Quello che è accaduto ieri mattina all’alba costituisce un vulnus clamoroso nella vita democratica del Paese». Nel giorno in cui la Guardia di Finanza, su mandato della Procura di Firenze, esegue nuove perquisizioni in tutta Italia nei confronti dei finanziatori privati della Fondazione Open, Matteo Renzi passa al contrattacco. E lo fa attraverso tutti i canali di comunicazione a sua disposizione: Twitter, E- news e conferenza stampa in diretta Facebook. L’ex presidente del Consiglio si scusa con tutte le «persone perbene non indagate» svegliate all’alba dagli agenti per essere sottoposti a perquisizioni. Una «retata», dice, disposta da due magistrati fiorentini, «Creazzo e Turco», convinti che Open non fosse una fondazione ma un partito. «Chi decide cos’è un partito politico?», si chiede Renzi. «Io non sto attaccando l’autonomia della magistratura, sto difendendo l’autonomia della politica», spiega. «Il fatto che Open sia stata trasformata da qualcuno in un partito politico è un fatto enorme. Se accettiamo questo principio è una cosa enorme per la democrazia», aggiunge. Perché a essere messa in discussione è la possibilità di «un partito di finanziarsi. Chi non reagisce oggi accetta che si metta in discussione il principio della separazione dei poteri». Non possono essere le toghe a decidere cosa è o cosa non è un partito. E tanto meno, possono «fondare partiti conto terzi», attacca ancora l’ex premier. Equiparare una fondazione a un partito è solo un pretesto «per indagare alcuni e perquisire tutti», insiste. Perché di questo passo, è convinto Renzi, anche una Srl potrà essere considerata simile a un partito in futuro. Anzi, dice ironico, «se volete stare tranquilli date i soldi alla Casaleggio, non li date a Italia viva». L’ex segretario del Pd mette in discussione la legittimità dei metodi investigativi dei pm fiorentini, gli stessi che chiesero e ottennero gli arresti per i suoi genitori. «Mi sento oggetto di attenzioni speciali da parte di alcuni magistrati», ribadisce il leader di Italia viva. Che poi prova a parare anche i colpi provenienti da altri fronti. Nel pomeriggio, infatti, L’Espresso pubblica un’altra notizia sul conto dell’ex presidente del Consiglio: nel 2018, Riccardo Maestrelli, un imprenditore nominato dal governo Renzi in Cassa depositi e prestiti ( tra i finanziatori di Open) prestò 700mila euro all’ex premier per comprare la sua villa sulle colline toscane. “L’inchiesta non ha niente a che vedere con la Fondazione Open», precisa il diretto interessato, che in conferenza stampa annuncia la querela ai giornalisti del settimanale per divulgazione del segreto bancario. Ma conferma di aver ricevuto un prestito, restituito in 4 mesi. «Ho comprato casa a Firenze per 1.300.000 euro e ho venduto la mia casa di Pontassieve per 830.000 euro», spiega. «Prima che si perfezionasse la vendita – in attesa di avere la disponibilità finanziaria – ho chiesto un prestito nel giugno 2018 a una conoscente, prestito che ho prontamente restituito nel novembre dello stesso anno», è la sua ricostruzione dei fatti. In ogni caso, prosegue Renzi, che liquida come una «velina» la notizia dell’Espresso, «se qualcuno pensa di intimorirmi, ha sbagliato persona. Farò più Tv del previsto. Più radio del previsto. Più social del previsto». E non solo, visto che capogruppo di Italia Vivaal Senato, Davide Faraone, ha scritto alla presidente Elisabetta Casellati per «calendarizzare urgentemente un dibattito in Senato sulle regole del finanziamento alla politica e su chi stabilisce cos’è un partito e cosa no». A intervenire sarà proprio il senatore Matteo Renzi. «Non vedo l’ora», sottolinea l’ex premier. E mentre il leader di Italia viva sembra deciso a rispondere colpo su colpo, il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, pur non entrando nel merito della vicenda, pretende «rispetto» per la magistratura. Il capo politico del suo partito, Luigi Di Miao, insiste sull’istituzione di una commissione d’inchiesta sui fondi ai partiti. «Per noi questo tema è una priorità», dice, «faremo in modo di portarla a casa il prima possibile». Proposta accolta con favore da Renzi, che non vede l’ora di far luce su Rousseau e Casaleggio associati. Evita di commentare, invece, il capo dell’opposizione Matteo Salvini, che sulle perquisizioni in corso dice: «Non mi interessa fare battaglia politica su questo e non do giudizi».
Da matteorenzi.it il 27 novembre 2019. Mi spiace disturbarvi per una Enews straordinaria. Ma quello che è accaduto ieri mattina all’alba costituisce un vulnus clamoroso nella vita democratica del Paese. Chi non reagisce oggi accetta che si metta in discussione il principio della separazione dei poteri che è una colonna del sistema democratico occidentale. E lascia che siano i magistrati a decidere che cosa sia un partito e cosa no. All’alba, centinaia di finanzieri hanno perquisito decine di persone perbene “colpevoli” solo di aver contribuito in modo trasparente e legittimo alla Fondazione OPEN (la fondazione che ha organizzato fino al 2017 la Leopolda). Tutti bonifici, tracciati, verificabili, dichiarati. In molti casi finanziamenti di anni fa, quando io ero sindaco. Due magistrati di Firenze, Creazzo e Turco, decidono di fare questa “retata” contro persone non indagate. Perché? Perché secondo loro OPEN non è una Fondazione ma un partito. E come partito ha regole diverse. Ma chi lo stabilisce? E i perquisiti come potevano saperlo? La Fondazione ha uno statuto, un cda, dei revisori, rispetta le regole delle fondazioni. Ci sono migliaia di fondazioni con politici in Italia: Open è tra le pochissime che rispetta tutte le norme sulla trasparenza. Perché due magistrati possono “trasformare” una fondazione in un partito solo allo scopo di indagare per finanziamento illecito ai partiti? E soprattutto: in democrazia CHI decide che cosa è partito e cosa no? Un magistrato? Ma stiamo scherzando? Siamo o non siamo un Paese in cui vige la separazione dei poteri? I partiti devono rispettare le leggi, le fondazioni devono rispettare le leggi, i cittadini devono rispettare le leggi. I magistrati vigilano sul rispetto della legge. Ma non possono cambiare la legge o fondare partiti in conto terzi: questo non è loro compito. Dire che io ho fondato Open come partito diventa una giustificazione per indagare alcuni e perquisire tutti. Attenzione: nessun equivoco! Io non sto attaccando l’indipendenza della magistratura, ma sto difendendo l’indipendenza della politica. Se fondo un partito, lo decido io, non un magistrato. Altrimenti è in discussione il gioco stesso della democrazia. Io credo nella giustizia. Chiediamo garantismo contro il giustizialismo. Certo, c’è anche questo. Ma non è di Beccaria che stiamo parlando. Questa indagine attacca i principi di Montesquieu, non (solo) quelli di Beccaria. Aspetteremo le indagini con la libertà di chi conosce la verità. Ma contemporaneamente porteremo a tutti i livelli istituzionali lo sconcerto di chi vede messo in dubbio una colonna del sistema istituzionale con due magistrati che invadono il terreno della politica decidendo che cosa è partito e cosa no. E creando le condizioni perché chiunque possa definire partito, un domani, una Srl o un’associazione. Persino una bocciofila. Il capogruppo di Italia Viva al Senato ha chiesto di calendarizzare con urgenza una discussione su questo tema perché è in gioco l’autonomia della politica. Non vedo l’ora di intervenire sul punto. Inutile dire che il primo effetto di questa vicenda sarà l’azzeramento di tutti i contributi di aziende a Italia Viva. Noi abbiamo abolito il finanziamento pubblico ai partiti, questa indagine ha abolito il finanziamento privato a Italia Viva. Peccato, è un bel danno. Ma sono il primo a suggerire alle aziende di stare lontano da me: solo chi ha sprezzo del pericolo può finanziarci come azienda oggi. Chiedo un aiuto invece a chi può darci una mano con i piccoli versamenti: 5€, 10€, 100€. Fino a queste cifre non dovrebbero perquisirvi. Almeno mi auguro. Ovviamente si va avanti.
1. Oggi sarò a visitare le aziende della plastica. Se vogliamo combattere l’inquinamento investiamo nell’economia circolare senza alzare le tasse. E iniziamo da gestire bene i rifiuti a cominciare da Roma. Altro che aumentare le tasse!
2. Al termine farò una conferenza stampa. Poi domani sarò al Post Tg2. Se qualcuno pensa di intimorirmi, ha sbagliato persona. Farò più TV del previsto. Più radio del previsto. Più social del previsto.
3. Sabato, domenica, lunedì, parleremo di Italia Shock a Bologna, Pistoia, Milano. Dobbiamo sbloccare i cantieri, questa è la sfida.
Un sorriso, Matteo
Inchiesta Open, magistrati contro Renzi: “Attacchi gravissimi”. Antonella Ferrari il 28/11/2019 su Notizie it. L'Anm ha risposto alle dichiarazioni di Matteo Salvini in relazione all'inchiesta sulla Fondazione Open. L’Associazione nazionale magistrati ha replicato alle dichiarazioni rilasciate da Matteo Renzi in merito all’inchiesta sulla Fondazione Open. La notizia ha infatti portato una reazione tutt’altro che pacata anche nei confronti della magistratura, duramente attaccata. In particolare, il leader di Italia Viva si sarebbe rivolto ai due pm che si stanno occupando dell’indagine, Giuseppe Creazzo e Luca Turco: “Due magistrati decidono di fare questa “retata” contro persone non indagate. Perché? Perché per loro Open non è una Fondazione ma un partito. Ma chi lo stabilisce?“.
Inchiesta Open: l’Anm risponde a Renzi. L’Associazione nazionale dei magistrati ha voluto replicare alle durissime parole di Matteo Renzi: “Le dichiarazioni di un esponente delle istituzione che, per reagire ad un’iniziativa giudiziaria, attacca personalmente i magistrati titolari dell’indagine, sono gravissime innanzitutto sotto questo profilo, e pur iscrivendosi in un ormai consueto filone di reazioni scomposte, per linguaggio e sostanza, non smettono di suscitare indignazione“. Con tale risposta, l’Anm ha voluto lanciare un chiaro messaggio a Matteo Renzi: “Se il tentativo è quello di intimidire i magistrati, è e resterà vano“.
“Respingiamo l’attacco”. In una nota, la magistratura ha voluto quindi specificare la volontà di prendere le distanze da quanto riferito da Renzi: “L’associazione Nazionale Magistrati, nel ribadire che le valutazioni dei fatti, della loro rilevanza e della loro qualificazione costituiscono l’essenza della giurisdizione e ne sono prerogativa fondamentale, respinge con fermezza l’ennesimo attacco all’autonomia ed indipendenza della magistratura ed esprime piena solidarietà ai magistrati fiorentini“.
Open, Daniela Preziosi de il manifesto contro Matteo Renzi: "Giù le mani dai magistrati, lui come Salvini". Libero Quotidiano il 28 Novembre 2019. Sotto assedio dei magistrati. Si parla di Matteo Renzi e dell'inchiesta che riguarda la fondazione Open. L'ex premier passa al contrattacco, punta il dito contro la magistratura, appunto, accusata di voler decidere anche sui partiti, di fatto annullando il finanziamento privato. Tesi che però vengono rigettate da Daniela Preziosi, firma de il manifesto, il quotidiano comunista, che ovviamente si schiera al fianco dei giudici: "Renzi stia calmo sulla questione dei magistrati eversivi", tuona a L'aria che tira di Myrta Merlino, su La7. E ancora, la comunista ha aggiunto: "Renzi non si può ricordare di questa cosa solo quando succede a lui. Se non mi sbaglio, la storia dei 49 milioni della Lega l'abbiamo sentita molto spesso", ha concluso la Preziosi.
Open, Alfonso Bonafede risponde a Matteo Renzi: "Pretendo che ci sia rispetto per la magistratura". Libero Quotidiano il 28 Novembre 2019. Alfonso Bonafede, ospite de L'aria che tira, su La7, ha commentato la vicenda della Fondazione Open finita nel mirino dei magistrati per i finanziamenti a Matteo Renzi. "Non entro nel merito del singolo caso e non mi interessa rispondere sulle singole dichiarazioni", ma "pretendo che ci sia rispetto della magistratura", attacca il ministro della Giustizia: "Invito tutte le istituzioni ad avere rispetto per la giustizia e la magistratura - ha aggiunto il Guardasigilli - i nostri magistrati lavorano da mattina a sera, spesso anche di notte per garantire i diritti e per assicurare che la giustizia funzioni. Tanti rischiano la vita per combattere anche contro le mafie".
“Open”, ecco tutte le balle di Pm e giornali. Piero Sansonetti 28 Novembre 2019 su Il Riformista. Ieri tutti i giornali, quelli di carta e quelli online, hanno titolato, in prima pagina, sulle perquisizioni ordinate dalla Procura di Firenze contro la fondazione “Open” e contro Matteo Renzi. Gli articoli erano quasi tutti uguali. Anche negli avverbi, nelle congiunzioni, nei gerundi. Strano. Strano? No, non tanto, probabilmente erano in parte copiati, o adattati, da un’unica fonte, e dunque da un’unica prosa. Vedete voi di capire quale. Cercate di intuire se questa prosa possa essere accostata al modo di scrivere che piace di più alla Procura di Firenze. Quasi tutti i giornali (tranne forse la sola Repubblica e il napoletano Il Mattino) avevano anche la notizia della perquisizione – in ufficio o in casa – eseguita nei confronti di Alfredo Romeo. Probabilmente saprete che Alfredo Romeo è l’editore di questo giornale. Perciò ieri gli ho chiesto: «A che ora ti hanno perquisito ieri sera? Perché non me lo hai detto e mi hai fatto bucare la notizia?». Mi ero un po’ arrabbiato. Lui mi ha risposto che non ha subìto nessuna perquisizione. Me l’ha giurato. Dunque i casi sono due: o diversi giornali, tra i quali il numero 1 dei giornali italiani, si sono inventati di sana pianta tutti la stessa notizia – ma questa possibilità è statisticamente molto improbabile: i giornali spesso inventano le notizie, ma è difficile che inventino tutti la stessa – oppure hanno avuto la notizia della perquisizione dalla stessa fonte. Quale fonte? Beh, torna il sospetto che la fonte fosse la Procura di Firenze. Perché la Procura di Firenze ha dato una notizia falsa ai giornali? E perché i giornali l’hanno pubblicata senza verificarla? Anche qui la risposta non è difficile: succede molto spesso. Succedono spesso tutte e due le cose. Però c’è una seconda ipotesi, ed è molto inquietante: che la notizia non fosse falsa. E cioè che la Procura avesse ordinato anche la perquisizione a Romeo, ma poi per qualche ragione abbia rinunciato e si sia scordata di avvertire i giornalisti. Oppure che non abbia rinunciato e la perquisizione sia stata rinviata. In tutti e due casi sarebbe avvenuta una cosa gravissima: la Procura avrebbe permesso una fuga di notizie gravissima, commettendo un reato molto serio. Tipo quello per il quale – pur se non ci sono mai state prove di colpevolezza – Totò Cuffaro scontò quasi cinque anni di prigione. Se si accertasse che le cose stanno così sarebbe opportuno che la magistratura aprisse un’indagine sulla Procura di Firenze, ma in genere, in questi casi – chissà perché – la magistratura chiude un occhio. E quindi al momento ci troviamo solo di fronte a un falso giornalistico. Che sta a testimoniare lo stato comatoso del nostro sistema dell’informazione. Giorni fa Il Fatto Quotidiano si arrabbiò perché avevamo fatto notare che aveva pubblicato notizie sui guai di Lara Comi, deputata europea di Forza Italia, la mattina stessa del suo arresto. Cioè aveva “previsto” il suo arresto. Travaglio ci rispose sostenendo che il compito dei giornali è quello di dare le notizie e che il Fatto è un giornale e dunque dà le notizie. Mentre noi del Riformista, che demmo la notizia dell’arresto della Comi solo dopo il suo arresto, non siamo un giornale perché non diamo le notizie. Diciamo che in quel modo il direttore del Fatto rivendicava il diritto dei giornali a fare da poggiapiedi ai Pm che gli anticipano, illegalmente, notizie riservate. Benissimo. In questo caso però l’anticipazione della notizia è stata l’anticipazione di un falso. Chissà se Travaglio ritiene che la distinzione tra i giornali e i “foglietti” come il Riformista stia proprio qui: che i giornali seri non solo anticipano le notizie, ma le danno anche se son false, mentre i foglietti le verificano. Temo di sì. Quali saranno le conseguenze dell’inchiesta di Firenze, che sembra puntare essenzialmente contro Renzi, e che probabilmente ha l’obiettivo di raderlo al suolo prima che lui riesca a mettere su un partito? La prima inevitabile conseguenza sarà la fine del finanziamento privato ai partiti. Tutti i partiti (salvo forse la Casaleggio). Nessuno oserà più versare un solo euro, sapendo che il finanziamento dei partiti, ormai, è diventato un reato. E dal momento che il finanziamento pubblico è stato ormai da tempo abolito, i partiti non avranno più la possibilità di usare il denaro. E dunque dovranno chiudere. Ieri il Presidente della regione toscana, Rossi, ha proposto il ritorno al finanziamento pubblico dei partiti. Nessuno gli ha risposto. Anzi, probabilmente nessuno lo ha neppure voluto sentire. Se qualcuno proponesse seriamente il ritorno al sistema democratico di finanziamento dei partiti, verrebbe legato a un palo, in piazza, e sottoposto alla gogna finché non si pente. Sul fronte governativo l’unica voce che si è sentita è quella del ministro della Giustizia Bonafede, il quale ha chiesto ai partiti di portare rispetto alla magistratura. Chissà perché nessuno chiede mai alla magistratura di portare rispetto ai partiti…Altre dichiarazioni sono venute dall’ex ministro Lotti, che faceva parte del consiglio di amministrazione della Open, il quale ha giurato che non esisteva nessun bancomat e nessuna carta di credito a disposizione dei parlamentari. Lo stesso concetto è stato ribadito da Marco Carrai, anche lui del vecchio consiglio di amministrazione. Il Csm invece ha votato a maggioranza una mozione nella quale stigmatizza il comportamento dei politici che attaccano i magistrati. Il Csm? Sì, il Csm. Ma non avrebbe il compito di vigilare sul funzionamento della magistratura, e magari accertare perché è avvenuta una fuga di notizie quasi certamente ad opera di magistrati? Sì, dovrebbe accertare queste cose. Ma di solito non lo fa.
Carrai e i soci in Lussemburgo, l’intreccio con i finanziatori dell’ex fondazione di Renzi. Pubblicato giovedì, 28 novembre 2019 su Corriere.it da Antonella Mollica e Fiorenza Sarzanini. Nell’elenco anche Davide Serra. Trovato l’archivio segreto dell’avvocato Bianchi, il presidente dell’organizzazione. Un archivio segreto con l’elenco degli imprenditori e accanto i nomi di politici e consiglieri di amministrazione che li avevano convinti a finanziare Open. Era nella disponibilità dell’avvocato Alberto Bianchi, il presidente della Fondazione indagato per traffico d’influenze, riciclaggio e finanziamento illecito. Gli investigatori della Guardia di Finanza lo hanno trovato nel corso della seconda perquisizione compiuta tre giorni fa e adesso la lista dovrà essere ricontrollata per verificare se chi ha versato denaro «per sostenere l’attività politica di Matteo Renzi» abbia ottenuto vantaggi per le proprie aziende o incarichi nelle istituzioni. I magistrati ritengono che un ruolo chiave in questa partita lo abbia avuto Marco Carrai, fedelissimo dell’ex premier che aveva un posto nel cda, ma soprattutto gestiva una serie di società — anche all’estero — che avevano tra i soci proprio alcuni soggetti poi comparsi tra i beneficiari della Open. E per questo gli specialisti della Finanza indagheranno anche su chat e mail rintracciate nei suoi telefonini e computer. Un lavoro che non si preannuncia affatto semplice, anche perché Carrai utilizzava un sistema per criptare le telefonate prevedendo «l’autodistruzione» dei messaggi inviati e ricevuti. L’indagine coordinata dal procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo riguarda i versamenti oltre i 50mila euro. È lungo l’elenco di chi ha elargito denaro tra il 2012 e il 2018. Nella maggior parte dei casi sono stati i componenti del «giglio magico» a trovare sponsor per la Fondazione e il loro impegno veniva riconosciuto con una sigla apposta accanto al nominativo e alla cifra versata. Luca Lotti, Maria Elena Boschi, lo stesso Bianchi e altri politici vicini a Renzi si sono impegnati affinché Open ricevesse finanziamenti e alla fine la Fondazione ha ottenuto oltre 7 milioni di euro. Nel 2018, quando si è deciso di chiuderla dopo le dimissioni di Renzi da capo del governo, Bianchi ha dichiarato di avere una perdita di circa un milione di euro. Entrate e uscite che la Finanza sta ricostruendo partendo dal sospetto che in realtà una buona parte dei soldi fossero un vero e proprio finanziamento illecito alla corrente del Pd che faceva capo a Renzi. Per questo l’indagine si concentra sulle società di Carrai con un’attenzione particolare alla Wadi. Nel decreto di perquisizione che ipotizza il finanziamento illecito si sottolinea che «Carrai risulta essere tra i soci della Wadi Ventures Management, società che ha sede in Lussemburgo e che ha come oggetto la detenzione di partecipazioni societarie». Le verifiche già svolte hanno dimostrato che alcuni soci dell’azienda risultano anche tra i finanziatori di Open e dunque bisognerà scoprire se in realtà la Wadi possa essere stata utilizzata anche per trasferire fondi all’estero. Nel 2012 il finanziere Davide Serra — che tre giorni fa ha subito la perquisizione — ha versato 50mila euro nelle casse della Wadi per diventarne socio, dopo aver finanziato la Fondazione Big Bang di Renzi. Interessante per gli inquirenti è anche il ruolo di Francesco Valli, fino al 2012 capo della British American Tobacco Italy. Nel 2014 ha elargito 100mila euro a Open. Ma l’anno prima è diventato socio della Wadi versando 50mila euro. Percorso analogo a quello compiuto un anno dopo dal costruttore Michele Pizzarotti che ha deciso di entrare nell’azienda lussemburghese con 100mila euro e adesso ha ricevuto la «visita» dei finanzieri. Obiettivo: svelare quali siano i reali interessi che si celano dietro questo intreccio di nomi e aziende. E soprattutto quali affari siano stati realizzati. Per scoprirlo saranno analizzati i documenti sequestrati negli uffici di Carrai — che gode di una particolare immunità visto che dal 4 ottobre è stato nominato console di Israele — ma anche telefoni e computer. È noto che Carrai, grande esperto di cybersicurezza tanto che Renzi voleva nominarlo consulente del suo governo per quel settore, utilizza applicazioni criptate per parlare e mandare messaggi quindi non sarà facile ricostruire contatti e conversazioni. L’obiettivo rimane comunque quello di svelare la sua «rete» italiana ed estera proprio per individuare eventuali canali paralleli di finanziamento. Per questo si controllerà anche tutta la movimentazione dei conti correnti e le spese effettuate con carte di credito e bancomat messe a disposizione da Open. Una veniva utilizzata da Luca Lotti che nega di averla utilizzata per l’attività politica: «Esistono soltanto semplici e regolari indennizzi delle spese che ho sostenuto nello svolgimento del mio ruolo di membro del cda della Fondazione Open. Tutto, ribadisco, si è sempre svolto nell’assoluta trasparenza, tutti i costi sono tracciati, dettagliati e messi nero su bianco, oltre ad essere indicati nei bilanci della Fondazione stessa e per questo vagliati dai sindaci revisori».
Matteo Renzi e Open: i nuovi nomi. E quegli 800mila euro dall'imprenditore (poi candidato). L'Espresso ha letto i nuovi documenti dell'inchiesta che sta terremotando il Giglio Magico. Gianfranco Librandi, ex deputato Pd passato con Italia Viva, ha donato alla fondazione cifre da record. Anche l’ex socio di Bisignani ha girato ad Open 100mila euro. E spunta un altro prestito per Renzi: 20mila euro da Carrai. Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian il 28 novembre 2019 su L'Espresso. Oltre al prestito di 700 mila euro per comprare casa Renzi , c’è molto di più nella saga finanziaria del Giglio magico cresciuto politicamente all’ombra della fondazione Open. Ed è proprio Open, presieduta fino alla sua chiusura nel 2018 dall’avvocato Alberto Bianchi, la cassaforte nella quale sono affluiti i soldi di importanti donatori. Imprenditori, armatori, finanzieri: operazioni e nomi al centro dell’indagine della procura di Firenze, condotta dalla guardia di finanza, sulla base di un rapporto dei detective dell’antiriclaggio di Bankitalia. E se i magistrati romani indagano sull’ex tesoriere renziano Francesco Bonifazi e la Fondazione Eyu (organismo del Pd finito nei guai per le donazioni avute dal costruttore Luca Parnasi), nei giorni scorsi la procura di Firenze ha perquisito decine di imprenditori e finanziatori di Open: tranne Carrai e Bianchi, nessuno per adesso risulta indagato. Renzi ha gridato al complotto sui social, attaccando i pm di Firenze che stanno cercando prove per capire se davvero la fondazione (beneficiaria in sette anni di donazioni per quasi 7 milioni) fosse «un’articolazione di partito». E se si siano commessi reati gravi come finanziamento illecito alla politica e traffico di influenze. Senza dimenticare l’ipotesi secondo cui Open potrebbe aver fornito ad alcuni parlamentari carte di credito poi usate per spese personali. Vedremo. Al netto del rilievo penale dell’inchiesta, tutto ancora da dimostrare, le carte consultate dall’Espresso evidenziano come gli investigatori si stanno concentrando su alcuni passaggi di denaro effettuati da alcuni protagonisti della vicenda. Transazioni che potrebbero imbarazzare non poco il senatore e il suo Giglio magico. Un mese e mezzo prima di ricevere i 700 mila euro dai Maestrelli, per esempio, Renzi ha ricevuto, il 24 aprile 2018, un altro “prestito infruttifero” da 20 mila euro da Carrai. Marchino, come lo chiamano gli amici, è un sodale di vecchia data di Renzi: suo ex capo di gabinetto alla provincia di Firenze e poi membro del consiglio direttivo di Open, fu nominato nel 2009 (quando Renzi era il dominus delle municipalizzate fiorentine) presidente di Aeroporti di Firenze. Dove siede ancora oggi. Oltre a Carrai, baricentro delle indagini è Alberto Bianchi, l’ex numero uno della Fondazione. È stato indagato per traffico illecito di influenze e finanziamento illecito a causa di consulenze ottenute dal gruppo Toto Costruzioni Generali. Contratti legati a un contenzioso da 75 milioni di euro che gli imprenditori avevano con Anas ma che, questa l’ipotesi dei magistrati, nascondevano in realtà un sistema per «dissimulare» il finanziamento alla politica, e in particolare alla Open: parte importante dei soldi dei Toto ottenuti da Bianchi sarebbe stata infatti girata dall’avvocato sia alla Open (200.838 mila euro) sia al Comitato per il Sì, creato dai renziani per la campagna referendaria di fine 2016, che ne ricevette 200 mila a titolo di «contributo volontario». Bianchi ha negato ogni addebito, spiegando di non essere un facilitatore dei Toto. E ha spiegato di aver versato i soldi alla fondazione che presiedeva solo come semplice prestito, restituito quasi per intero tra dicembre 2017 e febbraio 2018. Di certo Bianchi avrebbe ricevuto, il 2 agosto 2017, 100 mila euro anche dal Comitato nazionale “Basta un sì”. Anche Patrizio Donnini, altro imprenditore vicinissimo a Renzi, è indagato. Ma in un’inchiesta parallela. Reati ipotizzati: appropriazione indebita e riciclaggio. Donnini, leggendo le carte dei giudici del Riesame, avrebbe ricevuto dal gruppo Toto una somma importante (se Bianchi ha avuto quasi 3 milioni di euro, Donnini arriva a 4,3 milioni) «in parte per operazioni di compravendita di quote societarie effettuate dalla società Immobil Green prive di valide ragioni economiche e, in effetti, dissimulatorie di un mero trasferimento di denaro». Per i giudici anche la società di Donnini Dot Media (che ha ricevuto da Open per prestazioni varie centinaia di migliaia di euro) ha poi bonificato oltre 120 mila euro al Comitato “Basta un sì”. Ora L’Espresso ha scoperto altre anomalie. Su uno dei conti della Open aperto il 15 febbraio 2017 presso la Cassa di risparmio di Firenze (conto 1000/862) sul quale è delegato ad operare Bianchi, ci sono movimenti in entrata per circa 1,7 milioni di euro. Quasi tutte le donazioni provengono da pochi centri di interesse: 300 mila euro dai Maestrelli e dalle loro aziende; tre bonifici per complessivi 160 mila euro arrivano proprio dal Comitato Basta un Sì, e sono giustificati con la causale “restituzione finanziamento” (in effetti, sul conto del comitato referendario, si scopre che la Open aveva girato tra ottobre e novembre 2016 200 mila euro a titolo di contributo). Ma il finanziatore più munifico è, a sorpresa, un parlamentare. Gianfranco Librandi, tra febbraio 2017 e giugno 2018, ha regalato alla fondazione renziana la bellezza di 800 mila euro, attraverso la Tci Telecomunicazioni Italia e la Tci Elettromeccanica, due società a lui riferibili. Librandi è un ex berlusconiano, nel 2013 eletto alla Camera con Scelta Civica, il partito fondato da Mario Monti e di cui Librandi è stato tesoriere. È pure uno dei più generosi finanziatori della politica: in 9 anni, dal 2008 al 2017, ha donato 499 mila euro un po’ a tutti i partiti dell’arco parlamentare. Da onorevole è rimasto poco in Scelta Civica, spostandosi prima nel Misto, per approdare poi al Pd nel luglio del 2017. Un autentico trasformista che Renzi ha voluto a tutti i costi nelle liste del partito per le politiche del marzo 2018: l’imprenditore Librandi, che ha finanziato Open con una somma monstre quasi doppia rispetto a quanto girato nel corso degli anni ai vari partiti che ha via via aiutato, è stato rieletto con il Pd in una comoda circoscrizione lombarda. Tuttavia la folgorazione per i Dem è durata poco. Qualche settimana fa ha lasciato Zingaretti e ha seguito Renzi e Italia Viva. «Il sistema delle “erogazioni liberali”» sospetta la banca che segnala i movimenti sospetti alla Uif, potrebbe essere «utilizzato anche in funzione di tramite, per interrompere la riconducibilità di somme di provenienza illecita agli effettivi titolari con finalità di riciclaggio, oppure il passaggio di denaro di cui illecita sia eventualmente la finalità corruttiva». Librandi, dunque, risulta così essere nettamente il primo contributore di Open, superando di slancio Davide Serra, l’armatore Vincenzo Onorato e Alfredo Romeo, poi in ottima posizione ci sono non solo i Maestrelli, ma pure la famiglia Aleotti. I patron della casa farmaceutica Menarini in una sola settimana, tra il 15 e il 23 febbraio 2018, hanno versato nelle casse della cassaforte di Bianchi e Renzi otto bonifici, per un totale di 300 mila euro. I Menarini, famiglia fiorentina, sono tra gli imprenditori perquisiti martedì mattina dalla Guardia di Finanza. A sorpresa, tra i grandi finanziatori di Open, spunta anche Vittorio Farina. Non un imprenditore qualunque, ma il “re degli stampatori” ed ex socio del faccendiere Luigi Bisignani. Farina ha donato a maggio 2017 alla Open 100 mila euro, quattro mesi prima che la Guardia di Finanza lo arrestasse per bancarotta fraudolenta della Ilte, (Bisignani ne è stato dirigente fino al 2011), la società che stampava giornali, periodici e le Pagine Gialle. I pm hanno chiesto il suo rinvio a giudizio a giugno di quest’anno. Nulla di nuovo, per i renziani: come chiosano gli investigatori specializzati in flussi finanziari, una parte consistente dei finanziamenti di Open «deriva da donazioni di imprenditori privati che, spesso, sono coinvolti in vicende giudiziarie legate ad illeciti di natura fiscale-finanziaria». Pecunia non olet.
Marco Franchi per il “Fatto quotidiano” il 28 novembre 2019. Riccardo Maestrelli, imprenditore fiorentino (in passato finanziatore di Open) con la sorella Elena elargisce, attraverso un bonifico dal conto corrente della madre, l' anziana signora Anna Picchioni, 700 mila euro a Matteo Renzi. Causale: "Prestito". Estate 2018. La casa costa 1,3 milioni di euro ed è in una delle zone più nobili e belle di Firenze. A rivelare il giro bancario - emerso dalle carte dell' inchiesta sulla fondazione Open - è il settimanale l' Espresso con un' anticipazione dell' articolo che sarà pubblicato nell' edizione in edicola da domenica prossima.
Ma chi è Riccardo Maestrelli? Lo raccontava Marco Lillo sul Fatto del 3 ottobre 2014, con Renzi saldamente a Palazzo Chigi da premier: "Riccardo Maestrelli è diventato famoso questa estate quando Matteo Renzi ha scelto l' albergo Villa Roma Imperiale per le sue vacanze e i giornali si sono ricordati che era stato un finanziatore del sindaco di Firenze. Il lussuoso resort di Forte dei Marmi appartiene infatti alla sua famiglia. Il presidente del Consiglio ha alloggiato con moglie e figli in alta stagione ad agosto pagando una somma importante (5 mila e 100 euro) ma più bassa del listino dei clienti ordinari. Questo aveva attirato le attenzioni sui suoi rapporti con Maestrelli (), che non è stato solo un suo finanziatore, ma ha organizzato e pagato le spese di una cena all' Hilton di Firenze nella quale sono stati raccolti circa 80 mila euro". E Lillo scriveva anche della soluzione per il nuovo stadio della Fiorentina di cui si parlava in quei giorni del 2014, l' area Mercafir: "In quella zona ha interessi importanti proprio Riccardo Maestrelli. Con la sua società, infatti, la famiglia Maestrelli è titolare dal 2007 di un' area di 13 mila metri quadrati di proprietà del Comune che ha ceduto il diritto di superficie per 50 anni al gruppo. Nel caso in cui lo stadio della Fiorentina fosse costruito proprio nella zona in cui oggi si trovano gli stabilimenti di trasformazione della frutta dei Maestrelli, è facile prevedere che in loro favore il Comune troverà un' altra area o pagherà un indennizzo notevole".
Torniamo al 2018, il giorno dopo il bonifico dal conto corrente di Anna Picchioni, madre dei Maestrelli, il 13 giugno. Matteo Renzi, ormai solo "senatore di Lastra a Signa e Scandicci" e la moglie Agnese Landini chiedono l' emissione di quattro assegni da 400 mila euro. Scrive l' Espresso: "Quelli per usare la caparra. Possibile che il capo di Italia Viva abbia usato i soldi dei Maestrelli per comprarsi la villa? Possibile che il senatore non ricordasse che Riccardo Maestrelli fu nominato dal suo governo nel consiglio di amministrazione di Cassa Depositi e Prestiti Immobiliare spa, società pubblica di Real Estate controllata dal ministero dell' Economia, e che quindi il rischio di un conflitto d' interessi era enorme?". Replica Renzi su Facebook: "Ho comprato casa a Firenze per 1.300.000 euro e ho venduto la mia casa di Pontassieve per 830.000 euro. Prima che si perfezionasse la vendita - in attesa di avere la disponibilità finanziaria - ho chiesto un prestito nel giugno 2018 a una conoscente, prestito che ho prontamente restituito nel novembre dello stesso anno () una cosa del tutto legittima e ineccepibile. Prestito restituito in meno di cinque mesi. Ovviamente tutto tracciato con bonifico. Ho poi acceso un mutuo di 1.000.000 di euro che sto pagando con la mia indennità parlamentare". Poi Renzi svela i suoi redditi: "ho dichiarato 830 mila euro nel 2018 e dichiarerò oltre un milione di euro nel 2019. Nel 2019 ho pagato per adesso circa mezzo milione di euro di tasse". Renzi ieri sbotta dopo un incontro con imprenditori nel Parmense: "Questa storia non ha niente a che vedere con la fondazione Open. Non ha alcuna attinenza, tanto che ci sarà una denuncia per divulgazione di segreto bancario". Tra dichiarazioni pubbliche e post su Facebook, l' ex premier scava l' ultimo solco tra lui e la magistratura: "Non ho nulla da nascondere e non ho paura, la velina sulla mia casa è da brividi". Lo sfogo di Renzi continua così: "È l' ennesima indagine di due magistrati che adesso hanno deciso che ho fatto un partito politico senza che io lo sapessi, che nel 2019 hanno deciso per l' arresto dei miei genitori che altri magistrati e giudici hanno annullato". In realtà per completezza va detto che gli arresti furono sì sostituiti dalla semplice interdizione ma il quadro indiziario delineato dai pm anche per i giudici del riesame "è da qualificare grave in relazione a tutti i reati da loro iscritti".
Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 28 novembre 2019. Sullo scandalo Open si leggono così tante scemenze, fra l' altro copiate da B. senza pagargli i diritti d' autore, che è meglio mettere qualche puntino sulle i. "Mi scuso con le persone perbene perquisite perché colpevoli di contribuire in modo onesto alla politica. Subiscono la gogna mediatica pur avendo seguito le regole con la massima trasparenza" (Matteo Renzi). Gli imprenditori in questione non sono stati perquisiti per la loro "onestà" e "trasparenza", ma perché sospettati di aver finanziato la fondazione renziana Open dal 2012 al 2018, cioè dall' inizio della scalata al Pd fino all'ultima débâcle elettorale, aggirando la legge sul finanziamento privato ai partiti. Come? Pagando una fondazione anziché un partito o suoi eletti. Con due possibili finalità, tutt' altro che incompatibili fra loro: non far sapere di foraggiare Renzi (possibili illecito finanziamento e appropriazione indebita, anche tramite false fatture) e ricevere favori dal suo governo e/o partito (possibile traffico d' influenze). […] La legge consente a qualunque imprenditore di dare soldi a partiti e a politici, purché: il donatore li registri a bilancio (altrimenti è appropriazione indebita, falso in bilancio e frode fiscale); il percettore li dichiari nel registro parlamentare (se no è illecito finanziamento); il contributo sia gratuito e disinteressato (in caso contrario, anche se dichiarato, è corruzione). E qui risultano finanziamenti da Toto (beneficato dal governo Renzi nel 2017 con l'abbuono di 121 milioni per la concessione delle Autostrade dei Parchi). Ma non solo: l'altra fondazione renziana Eyu era finanziata da Msc Crociere (che sotto il governo Renzi firmò un contratto da 2,1 miliardi con Fincantieri e di cui Renzi scarrozzò il top manager Pierfrancesco Vigo nella visita ufficiale a Cuba); da Lottomatica (altri aiutini dal governo Renzi); da Google (devota a Renzi che fece saltare la Web tax voluta da Letta); ecc. Tutte coincidenze? […]
Francesco Grignetti per ''la Stampa'' il 29 novembre 2019. È un rapporto che viene da lontano, quello tra Matteo Renzi e Riccardo Maestrelli, l' imprenditore fiorentino che ha prestato i famosi 700mila euro all' ex premier. Si può fissare una prima data al maggio 2009. Renzi è il giovane ambizioso presidente della provincia che cerca di dare la scalata al capoluogo e Maestrelli il figlio del più famoso Egiziano, uno che si è fatto da solo con una catena di supermercati (poi ceduti), la trasformazione e vendita di frutta all' ingrosso, le società immobiliari, gli hotel di lusso in Versilia, e senza dimenticare la Lucchese calcio. Ebbene nel 2009 Riccardo Maestrelli si dà un gran daffare per la campagna elettorale del giovanotto di Rignano. Organizza e paga le spese per una cena di lusso all' hotel Hilton da cento coperti, dove gli imprenditori cittadini si autotasseranno di 1000 euro ciascuno per essere a tavola con il candidato sindaco. In quell' occasione, chiamava all' appello il suo amico Riccardo Fusi, un altro immobiliarista, poi finito nei guai: «Devo fare l' esattore...Sicchè devo raccattare un po' di persone». L' uomo è schivo. Di sue interviste, poche. Diceva nel 2011 alla Gazzetta di Lucca, mentre s' ipotizzava un ritorno della famiglia al calcio: «Io penso che i politici facciano un mestiere difficile e che in questo momento la percezione della gente verso la politica è assolutamente negativa. Personalmente, penso che se la politica fosse fatta nella maniera giusta sarebbe una cosa bella». A Riccardo Maestrelli piace la bella politica, insomma. E gli piace Matteo Renzi. Nell' estate del 2014, per ritemprarsi dalle fatiche di palazzo Chigi, l' amico premier passa la settimana di Ferragosto in un suo resort di lusso in Versilia, il "Villa Roma Imperiale". Desta scandalo all' epoca, e lo scatenatissimo Alessandro Di Battista ci impiantò pure un' interrogazione parlamentare, lo sconto di cui la famiglia Renzi beneficia. Ma forse ai grillini interessava soprattutto alzare i toni. Tempo qualche mese, e Riccardo Maestrelli viene catapultato da Renzi nel cda di una società minore di Cassa Depositi e Prestiti, la Cdp Immobiliare srl. Sconosciuta ai più, questa srl detiene in portafoglio circa 200 grandi immobili che un tempo erano dello Stato, poi transitati all' Iri, di qui a Fintecna, e ora a Cdp. Valore stimato, circa 2 miliardi di euro. Quel cda, tecnicamente in fase di transizione perché le nuove nomine sono state annunciate pochissimi giorni fa, gestisce grandi operazioni immobiliari: per la riconversione della ex Manifattura Tabacchi di Firenze, opera pregevole dell' architetto Nervi alle Cascine, stringe accordi con un grande fondo immobiliare inglese, Aermont, e ne sta nascendo un Centro polifunzionale; a Roma, la ex Dogana di San Lorenzo diventerà uno studentato di lusso in partnership con gli olandesi di Tsh; il tentativo di trasformare in hotel l' ex Poligrafico dello Stato, sempre a Roma, in piazza Verdi, è fallito quando la multinazionale Four Season all' ultimo si è tirata indietro e ora si avvia a diventare una sede per l' Enel. Grandi affari, insomma, per uno snello organismo che sfugge alla vetrina. Nel frattempo, come ha scoperto L' Espresso, i Maestrelli versano, con più bonifici, ben 300 mila euro alla fondazione renziana Open. E nel giugno 2018 anticipano i 700 mila euro (passando per il conto dell' anziana madre) che a Renzi servono come caparra per l' acquisto della nuova villa di Firenze. I soldi vengono rimborsati nel giro di quattro mesi, quando l' ex premier potrà incassare 120 mila euro da un giro di conferenze e soprattutto altri 450 mila come compenso per il documentario "Firenze secondo me", prodotto dal nuovo amico Lucio Presta, l' agente che più conta in tv. Il documentario non ha gran fortuna. Mediaset lo rifiuta perché ritiene esorbitante la richiesta di 3 milioni di euro per i diritti. Così anche la Rai. Finirà sui canali Discovery (e chissà quanto c' entra che la manager Marinella Soldi, fiorentina, nel 2013 fosse stata una candidata di Renzi per la Rai) e come audience è un flop. Ma il rapporto con Presta si stringe ancor di più, tanto che è lui, uomo di televisione, a gestire il palco della Leopolda 9 e sarà il suo pupillo Paolo Bonolis a intervistare Renzi nel gran finale. Questo vorticoso giro di soldi ha generato una segnalazione dell' Unità informazioni finanziarie presso Bankitalia.
Maurizio Belpietro per “la Verità” il 28 novembre 2019. Soldi, soldi, soldi. C' è un solo modo per capire che cosa stia accadendo a Matteo Renzi e alla sua creatura politica ed è cercare la pista dei soldi. È questo il filo rosso seguito dai magistrati, che vogliono scoprire se quel fiume di denaro che affluiva nelle casse della fondazione Open servisse a finanziare illecitamente la politica e se quei milioni avessero finalità diverse da quelle apparentemente nobili di sostenere un dibattito culturale senza tornaconto economico né politico. Del resto, che i soldi siano la chiave di tutto lo ha involontariamente ammesso lo stesso ex presidente del Consiglio, il quale l' altro giorno, replicando via Facebook ai magistrati di Firenze che hanno spedito avvisi di garanzia in mezza Italia, ha detto che per finanziare Italia viva è meglio donare piccole somme, con il sistema del crowdfunding, e non mettere sul tavolo centinaia di migliaia di euro che poi -come nel caso della fondazione - finiscono nel mirino dei pm. Così, senza volerlo, il senatore semplice di Scandicci ha accomunato Open a Italia viva, quasi confermando la tesi dell' accusa, che indagando sulla cassaforte del Giglio magico ha ipotizzato che la Onlus presieduta dall' avvocato Alberto Bianchi, eminenza grigia del gruppo, si muovesse come un partito e servisse da schermo per finanziare la corrente renziana. Sì, quello dell' ex segretario del Pd è stato un autogol, una excusatio non petita, una dimostrazione di scarsa lucidità. Che l' uomo non sia perfettamente padrone della situazione, del resto, lo ha dimostrato anche ieri, con la seconda ondata di accuse ai magistrati di Firenze: una serie di tweet prima e una specie di monologo poi. Così Renzi è tornato a puntare il dito contro i pm che fecero arrestare - e poi condannare - i genitori. Le due toghe, che l' ex premier chiama giudici dimostrando di fare confusione fra chi sostiene la pubblica accusa e chi emette sentenze, sarebbero, secondo il fondatore di Italia viva, gli autori di una specie di persecuzione. E, per la seconda volta, l' ex presidente del Consiglio insiste sul concetto di partito, dicendo che non sono i giudici a decidere come lo si fonda. Ma i magistrati non indagano su Italia viva, su come sia nata, su chi l' abbia sostenuta. I pm vogliono conoscere i flussi di denaro della fondazione Open, ovvero del sistema che ha generato il renzismo. Il senatore di Scandicci grida al complotto, invoca l' intervento dei costituzionalisti, minaccia querele. Dice di avere fiducia nella magistratura, tanta fiducia da aver aperto 50 procedimenti giudiziari, quasi tutti per diffamazione, da cui ricavare risarcimenti. Sì, perché alla fine si torna lì, al denaro.
Soldi, soldi, soldi. Ma non c' è solo lo spauracchio delle azioni giudiziarie agitate contro i giornalisti. Il tema dei quattrini riaffiora come un fiume carsico anche nella vicenda della casa di Firenze, quella villa di cui La Verità rivelò in esclusiva l' acquisto dopo che Renzi aveva dichiarato di avere sul conto poco più di 15.000 euro. Ricordate? All' epoca, dopo aver raccontato l' affare immobiliare milionario, ci interrogammo su come fosse stato pagato e su chi lo avesse finanziato. L' ex presidente del Consiglio tergiversò, sostenendo la regolarità dell' operazione, ma senza descrivere da dove giungesse quel denaro. Ora un' informativa giudiziaria svela un giro sospetto, ovvero un passaggio di denaro da 700.000 euro, partito dalla società Pidas in favore della signora Anna Picchioni (ovvero la madre di Riccardo Maestrelli, uno dei grandi finanziatori della Open) e da questa girato a titolo di prestito sul conto intestato a Matteo Renzi e alla moglie Agnese Landini. Soldi poi usati dalla coppia per pagare la villa di Firenze, costata 1,4 milioni, ma anche restituiti in tutta fretta, ovvero pochi mesi dopo. Un andirivieni di denaro che ha fatto rizzare le antenne al nucleo della Guardia di finanza che si occupa di segnalazioni sospette. Da dove è arrivata la provvista che ha consentito di rimborsare la signora Picchioni? La risposta sta in una seconda informativa: da società italiane ed estere. Quasi 120.000 euro da Celebrity speaker e Minds agency, oltre 450.000 dalla Arcobaleno 3 Srl e altri pagamenti disposti dal fondo Algebris Uk, riconducibile al finanziere Davide Serra. Si tratterebbe di soldi incassati con le conferenze e i programmi condotti in tv, cioè della seconda vita del senatore semplice di Scandicci. Un business che pare andare a gonfie vele. Al punto da spingere l' ex premier a ribattere alla notizia della segnalazione della Finanza con un rilancio. Quelli indicati nella nota sulla sospetta operazione sarebbero solo una parte dei suoi guadagni del 2018 e per il 2019 il «fatturato» sarebbe andato ancor meglio, raggiungendo il milione. Dunque, come detto, alla fine con Renzi la questione è quella: i soldi. Perché l' uomo, più che un politico, sembra una società per azioni. Ma una spa può fare politica?
Giovanna Casadio per “la Repubblica” il 28 novembre 2019. «Il Pd chieda al suo ex segretario Renzi spiegazioni sulla Fondazione Open. Io mi auguro che non ci sia nulla di irregolare, ma ormai il danno è fatto. Chi ha voluto la cancellazione del contributo elettorale è vittima di quella scelta sciagurata. La politica si vendica sempre». Ugo Sposetti, ex tesoriere dei Ds, è il presidente dell'Associazione Enrico Berlinguer che raccoglie 62 fondazioni sparse in tutta Italia che vegliano sull' enorme patrimonio di documenti e di immobili che proviene dal Pci. «L'errore degli errori? È stato avere eliminato i rimborsi pubblici ai partiti», dice.
Sposetti, cosa pensa dei guai in cui è finito Matteo Renzi per la sua Fondazione Open?
«È il Pd che deve parlare. Spetta all' attuale gruppo dirigente dei Democratici chiedere a chi ha avuto la brillante idea di costituire quella Fondazione, di spiegare esattamente cosa è successo».
Il Pd deve chiedere conto al suo ex segretario?
«Se guidi un partito, se poi vai a Palazzo Chigi, e se hai una Fondazione per la tua attività politica, una spiegazione ci vuole. Il partito deve dirgli: "Spiegaci cosa è successo". Io mi auguro che alla fine l' inchiesta troverà che tutto è regolare, perché la politica ci guadagna se tutto è regolare. Ma già solo con quello che è successo il danno è fatto».
In che senso?
«La penso come Piercamillo Davigo: se il tuo vicino di casa è accusato di pedofilia, tuo figlio non glielo affiderai di certo. Poi magari risulta innocente, ma il danno è fatto».
Sta dicendo che senza il vecchio finanziamento, la politica è nelle mani dei privati?
«I privati intervengono sempre. Hai bisogno di risorse e le vai a cercare».
Eliminare i rimborsi pubblici ai partiti fu un errore?
«Io feci una battaglia quando il duo Enrico Letta premier e il segretario del Pd Renzi pensarono di lisciare il pelo all'anti-politica per bloccare l'avanzata dei 5Stelle che facevano campagna elettorale del tipo "entreremo in Parlamento e lo apriremo come una scatoletta di tonno", ritenendo arginare Di Maio e Salvini bloccando le risorse che andavano alla democrazia. Contestai il danno che avrebbe avuto la democrazia italiana e il prezzo alto che si sarebbe pagato per quella scellerata scelta».
Quindi un cedimento all'anti casta, secondo lei?
«Un presupposto errato ritenere che in questo modo dai in pasto all'antipolitica un'esca e ti salvi. Ma non è così. In primo luogo, la democrazia va difesa, la politica va sostenuta e i partiti vanno aiutati a migliorare loro stessi e la loro attività».
Non salva nulla di quella decisione?
«Aggiungo che negli stessi giorni in cui il governo italiano prendeva questo orientamento politico, culturale e fattivo scrivendo quel decreto, davamo l'ok al regolamento del Parlamento Ue che stabiliva il finanziamento ai partiti europei e alle fondazioni collegate. Un atteggiamento miserabile, per il quale ci vorrebbe uno psichiatra».
C'è il 2 per mille ai partiti, però. Non è una buona idea?
«Mica dico che è cattiva. Ma questo fondo è limitato e troppo basso, insufficiente per l'attività politica».
Le fondazioni sono virtuose o sono un modo per aggirare il finanziamento a un partito?
«La domanda è offensiva nei miei confronti. Le fondazioni sono virtuose se fanno attività culturale, allora servono a questo paese così malridotto. Noi con le nostre fondazioni abbiamo difeso una storia e un patrimonio, non del Pci ma di milioni di lavoratori. Stiamo sistemando gli archivi mettendoli a disposizione della cultura italiana per capire meglio cosa è stata l'Italia repubblicana nella provincia profonda».
Non ha risposto però. Il rischio che così si aggiri il finanziamento ai partiti c'è?
«Open ho visto che è stata chiusa a fine 2018 e poi è stata costituita una srl. Era legittima la Fondazione, l'attività politica e culturale che un gruppo intendeva svolgere. Se di questo si è trattato...».
Open, Di Maio: “Commissione d’inchiesta sui fondi ai partiti”. Veronica Caliandro il 28/11/2019 su Notizie.it. Luigi Di Maio ha proposto una commissione d’inchiesta sui fondi ai partiti, inclusi associazioni, fondazioni, movimenti. Dopo la notizia dell’inchiesta sulla fondazione Open, vicina a Matteo Renzi, Luigi Di Maio aveva proposto una Commissione parlamentare sui finanziamenti ai partiti.
La presa di posizione di Luigi Di Maio. Dopo la proposta di Luigi Di Maio di aprire una Commissione parlamentare sui finanziamenti ai partiti, Matteo Renzi aveva immediatamente replicato che “su una commissione di inchiesta su come si finanzia la politica io ci sto. Mettiamoci dentro Partiti, Fondazioni e Srl vicine al Movimento che ricevono consulenze e collaborazioni da società pubbliche, non solo italiane. La trasparenza vale sempre, no?”. Parole giunte inevitabilmente al ministro degli Esteri che, attraverso un video messaggio trasmesso nella giornata di mercoledì 27 novembre su Facebook, ha voluto rispondere in maniere indiretta e con toni che sembrano decisamente diversi al leader di Italia Viva. In particolare Luigi Di Maio ha dichiarato: “Dobbiamo fare una commissione d’inchiesta sui fondi ai partiti, inclusi, lo voglio dire, associazioni, fondazioni, movimenti, quindi ci dobbiamo sottoporre tutti al controllo della commissione d’inchiesta. La magistratura farà i suo corso, ma qui non stiamo parlando di atti illegali, qui magari stiamo parlando di atti legali ma che richiedono trasparenza”. Un’apertura, quella di Di Maio, che alcuni hanno considerato come una frecciatina alla Casaleggio Associati e dunque a Rousseau. Il capo politico del Movimento 5 Stelle non ha mai nominato nel suo discorso né Matteo Renzi, né l’inchiesta sulla fondazione Open. Di Maio, infatti, si è limitato a dire che “Quello che sta venendo fuori è allucinante, ma abbiamo gli strumenti parlamentari: la commissione di inchiesta ci serve a questo. Queste sono ore in cui stiamo leggendo di inchieste ancora una volta per finanziamento illecito”.
Inchiesta Open, Renzi attacca: «E’ un avvertimento, denuncio tutti». Simona Musco il 29 Novembre 2019 su Il Dubbio. L’indagine sulla fondazione Open. L’ex premier denuncia I giornali e avvisa la procura di Firenze: «Violato il segreto bancario indaghino anche I giudici di Genova». Matteo Renzi non vuole usare le parole «complotto» o «sabotaggio», ma che si tratti di una «coincidenza strana» ne è certo. E così, dopo le perquisizioni disposte dalla procura di Firenze nell’inchiesta “Open”, la fondazione cassaforte della Leopolda che secondo i magistrati avrebbe agito come una “articolazione” di partito, ha presentato la contromossa: tre denunce indirizzate al procuratore capo di Firenze e a quello di Genova. Con un duplice scopo: da un lato rimarcare la più volte dichiarata fiducia nella magistratura, «anche quella di Firenze» ; dall’altro accendere i fari proprio sul procuratore Giuseppe Creazzo, spedendo gli atti anche ai magistrati competenti delle indagini sul distretto fiorentino, ovvero in Liguria. E scoprire, così, chi ha «diffuso documenti privati», svelando il segreto bancario o istruttorio, sulla compravendita della sua abitazione. Un’operazione svelata da L’Espresso, che riguarda il prestito da 700mila euro ricevuto da Anna Picchioni, madre di Riccardo Mestrelli, finanziatore di Open e nel 2015 nominato dal governo Renzi nel consiglio di amministrazione di Cassa Depositi e Prestiti. Una notizia poi rilanciata da La Verità e oggetto della seconda denuncia di Renzi. A questa, si associa quella contro Marco Travaglio, «per aver detto che il Governo Renzi ha “beneficato il gruppo Toto nel 2017”. Non so di cosa parli Travaglio ha sottolineato Renzi -. Ma so che il governo Renzi termina la propria esperienza nel 2016. Notizia falsa e diffamatoria, reato certo». Proprio ieri è arrivata anche la notizia degli accertamenti disposti dai pubblici ministeri sulla villa acquistata nell’estate 2018, per ora senza ipotesi di reato. Il prestito finito al centro della vicenda è stato poi restituito nel giro di pochi mesi, ma quell’operazione era stata segnalata un anno fa come sospetta dall’Unità antiriciclaggio. Si tratta, dunque, dell’ennesima vicenda giudiziaria che lega la famiglia Renzi alla procura guidata da Creazzo. La stessa che aveva indagato sul cognato dell’ex premier in merito alla presunta appropriazione indebita dei fondi Unicef, per la quale Renzi ha chiesto risarcimenti milionari, quella che ha fatto finire ai domiciliari i suoi genitori, poi rimessi in libertà dal Riesame, e quella che, infine, ha acceso i fari su Open, disponendo decine di perquisizioni in tutta Italia. Ma l’ex premier spara a zero su tutti. «Siamo in presenza di una cosa enorme – dice Renzi -. Se fondare un partito è decisione della magistratura e non della politica siamo in presenza di un vulnus per la democrazia». Una ferita, dice. E mentre il ministro degli Esteri Luigi Di Maio lo accosta a Matteo Salvini, per le parole «contro la magistratura», Renzi frena e rispedisce al mittente le accuse. «Ma di che parliamo?», dice ai microfoni di Circo Massimo, rilanciando l’idea del leader grillino di istituire una Commissione sui finanziamenti ai partiti e alle fondazioni. Io ci sto, dice Renzi, ma mettiamoci dentro «anche le Srl», come la Casaleggio. Poi torna alla magistratura, che invita ad andare avanti smentendo gli attacchi. Per poi affondare: «certo, colpisce che persone non indagate, che hanno fatto versamenti trasparenti, vengano svegliati alle 7 con una perquisizione con 300 finanzieri in tutta Italia, che assomiglia molto ad una retata». Sui conti di Open tutto è pubblico, ribadisce, e anche se l’indagine «si rispetta» il problema è il limite: «due magistrati decidono che la fondazione che organizzava la Leopolda e che ha segnato la politica degli ultimi anni non è una fondazione, ma un partito». E dopo aver deciso di abolire il finanziamento pubblico, aggiunge, è necessario permettere un finanziamento privato «in modo trasparente». L’estremismo, denuncia, «è che può diventare partito chiunque e che possa avere dei vincoli che spiego ex post, facendo le perquisizioni all’alba». Un’idea pericolosa, dice Renzi, che rientra in una partita importantissima «su chi decide cos’è un partito. Io ho detto questo e casualmente – aggiunge – ricevo quello che considero un avvertimento: la diffusione di miei documenti privati». Da qui l’avvertimento alle aziende: «non finanziate Italia Viva o rischiate di essere perquisiti». E mentre l’Anm Toscana parla di «attacco intollerabile», nell’affermare «che i magistrati agiscono per finalità diverse da quelle previste dalla legge e per colpire singoli esponenti politici e/ o partiti», dalla parte di Renzi si schiera anche Giorgio Mulè, deputato di Forza Italia. «L’anomalia che oggi denuncia Matteo Renzi è un male antico mai curato e anzi a lungo avallato proprio dalla sinistra italiana – dice -. Con lo scudo dell’indipendenza della magistratura e la difesa corporativa e miope del sindacato dei giudici, si sono consumati in Italia strappi enormi nell’amministrazione della giustizia».
Lorenzo Giarelli per il “Fatto quotidiano” il 14 dicembre 2019. Al terzo tentativo, riuscito in pieno, viene quasi da pensare che lo faccia apposta. Qualcosa tipo: "Quereliamo Il Fatto, così vediamo cos' altro si può dire su di me senza essere condannati". Già, perché con irresistibile sagacia tattica Matteo Salvini ha scelto di contestare in Tribunale al nostro giornale tutto ciò di cui si ritiene offeso. Il risultato, già tragicomico per alcune denunce passate, è presto detto: asserire che "Salvini si impegna in una doppia pagliacciata razzista e demagogica" non è diffamatorio. A scriverlo è la Gip di Roma Angela Gerardi, che ha appena depositato le motivazioni con cui ha archiviato il direttore del Fatto Marco Travaglio e il giornalista Michele De Lucia, autore della frase incriminata. Salvini se l' era presa per un articolo del 2015 che raccontava le sue origini da Comunista padano e da frequentatore dei centri sociali milanesi, tra cui il celebre Leoncavallo, quando ancora difendeva gli occupanti e dispensava elogi ai graffittari ("Vogliamo una città più vivace e colorata"). Nell' articolo il collega riportava poi la suddetta "doppia pagliacciata razzista e demagogica", ovvero un numero telefonico istituito dalla Lega a cui i milanesi avrebbero potuto segnalare gli episodi di criminalità degli extracomunitari (gli altri delinquano pure in santa pace) e la promessa che la Lega avrebbe avviato "le azioni giudiziarie ritenute opportune per stanare i responsabili". Propaganda da sceriffo che, repitita iuvant, può essere ricondotta a una pagliacciata senza incorrere in conseguenze penali: "Il giudizio critico dell' autore - scrive la gip - mira ad evidenziare la finalità dell' iniziativa, di tipo evidentemente propagandistico, in quanto diretta a mantenere o conquistare il consenso dei cittadini su un tema particolarmente sensibile come quello della sicurezza". Ma il linguaggio è stato forse troppo offensivo? Per niente: "Le modalità espressive risultano funzionali alla comunicazione dell' opinione e alla manifestazione di un dissenso politico e, per quanto colorite, non paiono trasmodare in attacchi alla persona e alla sua sfera morale". A prevalere, dunque, è il diritto di critica nei confronti di un personaggio di spicco: "Quanto all' interesse pubblico, esso è insito in qualunque opinione relativa all' attività politica di esponenti e, a maggior ragione, di leader politici eletti dal popolo". Via libera dalla gip, allora, con Salvini che ancora una volta punta a far condannare Il Fatto ed esce dal Tribunale con una incresciosa biografia non autorizzata da lui, ma vidimata dal giudice. A forza di querele-boomerang, si amplia infatti la rosa di epiteti e commenti riferibili a Salvini a prova di legge. Qualche tempo fa, l' ex ministro riuscì nel difficile autogol di farsi certificare da un giudice il fatto che non abbia mai lavorato in vita sua. Era il gip di Bergamo, che ritenne di non rinviare a giudizio il collega Davide Vecchi per un pezzo sul Fatto in cui si sosteneva che Salvini, ormai impegnatissimo tra comizi e tv, fosse un politico professionista: "Neppure nel suo atto di opposizione alla richiesta di archiviazione - scrisse allora il giudice - Salvini ha potuto dimostrare di aver fatto qualcosa al di fuori della Lega". Più recente, ma non meno disastrosa, la querela contro il direttore Marco Travaglio, che in un editoriale lo aveva definito "cazzaro verde" mettendogli in conto più d' una "supercazzola". Anche in quel caso, tutto ritenuto lecito dal gip di Milano e denuncia rispedita al mittente con perdite, visto che nelle motivazioni dell' archiviazione il giudice aveva ricordato come la corretta definizione di "cazzaro", non certo lesiva dell' onore, l' avesse data lo stesso Salvini in sede di querela: "Un millantatore di presunte capacità, virtù e successi, di fatto un fanfarone". Un perfetto autoritratto involontario.
Da ilfattoquotidiano.it il 18 dicembre 2019. Il direttore de Il Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, nel corso di Dimartedì (La7), spiega l’inchiesta relativa alla Fondazione Open di Matteo Renzi: “Il punto è che tutti possono finanziare i partiti, avendone anche sgravi fiscali, purché lo dichiarino e purché i partiti che ricevano quei finanziamenti inseriscano i nomi dei finanziatori in un apposito registro del Parlamento. La fondazione diventa uno schermo che con la scusa della privacy consente di coprire i nomi dei finanziatori che non vogliono comparire. E questa è già un’anomalia e non un reato”. Travaglio continua: “L’ipotesi su cui si indaga è che ci siano dei finanziatori di una fondazione che hanno ottenuto dei favori in termini di norme, emendamenti, commi, codicilli, per le proprie aziende. Se poi quel tizio che riceve un favore, finanzia pure il partito che gli ha fatto quel favore, quello, che sia finanziamento registrato oppure occulto, sempre tangente è. Stupirsi perché c’è una indagine mi sembra stupefacente”. E chiosa: “Renzi dice che ha rispettato le regole che riguardano la fondazione? Come diceva Rino Formica, ai tempi del partito socialista, il convento è povero e i frati sono ricchi. Negli anni in cui Renzi era segretario del Pd e in cui i finanziamenti, anziché al partito, andavano alla fondazione, il Pd metteva in cassa integrazione i dipendenti e chiudeva l’Unità. Che la fondazione fosse una struttura parallela a quella del partito è un dato di fatto. Quello di cui Renzi non vuole parlare e su cui non risponde è il fatto che ci sono alcuni finanziatori della fondazione renziana che hanno ricevuto delle norme a vantaggio delle proprie aziende. Le leggi non si comprano, le leggi non si pagano, le leggi si fanno gratis”.
Matteo Renzi, quarta querela in venti giorni contro Marco Travaglio: nel mirino l'ospitata a DiMartedì. Libero Quotidiano il 18 Dicembre 2019. Colleziona querele, Marco Travaglio. E le colleziona soprattutto da Matteo Renzi, dal quale il direttore del Fatto Quotidiano è semplicemente ossessionato. Già, Renzi è scomodo per il M5s, proprio come lo è Matteo Salvini: meglio dargli contro, insomma, sempre e comunque. Travaglio non ha fatto eccezione nello studio di DiMartedì, su La7, nella puntata del 17 dicembre, dove è tornato nuovamente all'attacco, durissimo, del leader di Italia Viva. Risultato? Scontato: un'altra querela, annunciata dal fu rottamatore, che ha dato mandato ai propri legali di agire in sede civile contro Travaglio per quanto detto durante l'ospitata nel salottino di Giovanni Floris. Lo ha reso noto l'ufficio stampa di Italia Viva. Una querela che arriva a stretto giro di posta rispetto alle tre presentate soltanto lo scorso 28 novembre, tutte e tre di Renzi contro Travaglio.
SOLDI E PARTITI. Finanziamento ai partiti, Zanda (Pd): «Le fondazioni? Sono legittime». Rocco Vazzana il 28 Novembre 2019 su Il Dubbio. Le parole al Dubbio di Luigi Zanda, tesoriere Pd. «Cancellare il sostegno ai partiti è stato uno sbaglio dettato da un vento violento che soffiava in quella direzione. Ma sono contrario alle commissioni d’inchiesta». Il finanziamento pubblico alla politica non è un sostegno ai partiti ma alla «democrazia». Ne è convinto Luigi Zanda senatore e tesoriere del Pd, firmatario di un disegno di legge per la reintroduzione del finanziamento pubblico ai partiti attraverso l’istituzione di un fondo da 90 milioni di euro presso il ministero dell’Economia. Un progetto di riforma che gli è costato l’attacco frontale dell’allora vice premier del governo Conte1, Luigi Di Maio. «La vera natura del Pd è quella di difendere privilegi e perseguire interessi personali», furono le parole esatte utilizzate dal capo politico M5S, nel maggio scorso, per commentare la proposta dell’esponente dem.
Senatore, a parte gli eventuali risvolti giudiziari, ancora tutti da dimostrare, cosa ci racconta la vicenda Open sul rapporto tra politica e finanziamenti privati?
«Sulla Fondazione Open so soltanto quel che ho letto sui giornali: frammenti di ordinanze della magistratura e frammenti di elenchi di finanziatori legittimi. Non conosco altro. Poi, Open non è mica l’unica fondazione che si occupa di politica in Italia, anzi, sono numerose e svolgono tutte le loro attività da parecchio tempo. I problemi eventuali, e sottolineo eventuali, possono ritrovarsi nel tipo di attività svolta, non nella natura della Fondazione».
Ma anche in presenza di finanziamenti legittimi, è sano che un portatore di interessi privati sovvenzioni la politica?
«Tutto questo è in gran parte responsabilità della politica stessa, perché l’abolizione del finanziamento pubblico ha reso necessario trovare risorse private con cui finanziare l’attività delle formazioni politiche. Immagino che tutti i partiti trovino un modo legale e legittimo di sostentarsi. E tra i modi previsti dal nostro ordinamento ci sono le donazioni da parte di privati».
Non rischia di generare alcune disfunzioni un sistema così concepito?
«Ci sono Paesi come gli Stati Uniti d’America dove la politica è finanziata totalmente dal mondo privato. Tutto ciò ha prodotto un aumento vertiginoso dei costi delle campagne elettorali americane e Presidenti, come Donald Trump, che debbono la loro elezione, in maniera rilevane, ai loro finanziatori. La riprova di questo modello istituzionale è data dal fatto che i Presidenti Usa sono soliti ricompensare chi li ha aiutati finanziariamente offrendo loro persino le responsabilità di ambasciate importanti in giro per il mondo».
La sovvenzione statale è l’unico modo per mettere al sicuro la politica dalle influenze private?
«Non so se sia l’unico modo, ma penso che una forma ridotta e controllata di finanziamento pubblico, in una democrazia che voglia chiamarsi tale, sia necessaria e preferibile alla pioggia di denaro privato proveniente da portatori di interessi».
Eppure a cancellare il finanziamento pubblico, nel 2013, fu il suo partito. Perché il Pd si fece promotore di questa campagna?
«Perché c’era un vento in Parlamento che soffiava in quella direzione. Era un vento molto violento e molto largo. Però nella politica, come nella vita di ciascuno di noi, si possono commettere errori che poi, in seguito, può diventare necessario correggere».
Quindi riproporrete il ddl Zanda per la reintroduzione del finanziamento pubblico?
«Io sono molto convinto di quel disegno di legge. Prevede una forma di finanziamento sulla falsa riga dei rimborsi previsti dal Parlamento europeo per le forze politiche rappresentate nei gruppi parlamentari».
Il suo partito troverà il coraggio di sostenere una riforma impopolare di questo tipo, a costo di scontrarsi con il maggior alleato di governo?
«Non sono mai stato un sostenitore delle forzature parlamentari e non lo sono nemmeno adesso. Anzi, soprattutto adesso, perché credo che il tema del finanziamento della democrazia, non dei partiti, sia insieme vitale e molto delicato. E prima di partire lancia in resta con certe battaglie, bisogna verificare se esiste un consenso largo in Parlamento».
Luigi Di Maio ha chiesto con urgenza l’istituzione di una Commissione d’inchiesta sul finanziamento ai partiti. Il Pd la sosterrà?
«Quello che farà il mio partito in Aula lo deciderà il presidente del gruppo parlamentare. Personalmente sono contrario, perché non credo sia utile. Non è possibile che davanti a ogni nuovo problema qualcuno si alzi in Parlamento e chieda l’istituzione di una Commissione d’inchiesta. Poi, nel caso specifico, abbiamo a che fare con un’indagine giudiziaria appena iniziata, di cui soltanto stamattina abbiamo letto qualcosa sui giornali. Dovremmo lasciare lavorare in pace la magistratura. La democrazia è fatta di divisione di poteri e quello legislativo deve stare molto attento a non invadere il campo di quello giudiziario con iniziative intempestive d’inchiesta».
Faraone (Pd): «L’unica colpa di Matteo è aver voluto fondare un partito». Simona Musco il 29 Novembre 2019 su Il Dubbio. Intervista a Davide Faraone. «Il solo reato commesso, non da noi, è la violazione del segreto bancario siamo garantisti ma non fessi la verità verrà a galla, abbiamo pazienza». «La gogna ti toglie la vita. Non stiamo attaccando l’indipendenza della magistratura, ma stiamo difendendo l’indipendenza della politica. L’unica colpa di Renzi? Aver voluto fondare un partito». A parlare è Davide Faraone, senatore di Italia Viva e oggi in prima fila nel difendere l’ex premier dopo l’inchiesta della procura di Firenze sulla fondazione Open.
Crede anche lei che qualcuno voglia distruggere il progetto politico di Matteo Renzi attraverso un’indagine?
«L’unica colpa di Matteo Renzi è quella di aver voluto fondare un partito. E come abbiamo detto in questi giorni: chi è che decide che cosa è un partito o no? Non lo decidono i giornali, non lo decide la magistratura, altrimenti l’articolo 49 della Costituzione diventa carta straccia. Non ci possono essere partiti fondati a nostra insaputa. Open è una fondazione che è stata trattata come un partito, i finanziatori come delinquenti e Italia Viva come una banda di malfattori che spendono con carte di credito i soldi degli altri. Noi siamo garantisti, ma fessi no. Dopo questo fatto, con le perquisizioni che sono scattate in contemporanea in dieci città, modello "retata", Matteo Renzi si è messo davanti alle telecamere per rispondere a tutte le domande dei giornalisti: non è scappato, ci ha messo la faccia. Trovatemi un altro politico che messo così sotto assedio senza che vi sia alcuna indagine in corso, con i conti correnti violati e sbattuti in prima pagina su tutti i giornali, non parli a buona ragione di ‘ vulnus’ aperto nella nostra democrazia. L’unico reato commesso sin qui è la violazione del segreto bancario e la pubblicazione di dati sensibili sui giornali. Ci sono interrogativi inquietanti che riguardano tutti: chi ha dato queste veline ai giornalisti? Come mai le redazioni dei giornali hanno in mano le carte delle inchieste prima di tutti? Ieri sera sono arrivate le scuse del giornalista dell’Espresso che aveva accusato Renzi di essersi fatto pagare la casa da un finanziatore quando sappiamo che Matteo ha ricevuto un prestito personale che ha rimborsato nel giro di 4 mesi: noi delle scuse siamo contenti, ma adesso basta. C’è un clima surreale davvero: si sta spingendo fango col ventilatore».
L’ex premier dice di non voler attaccare la magistratura, ma ha ricordato le indagini di Creazzo sulla sua famiglia e ha allertato la procura di Genova, competente sul distretto di Firenze…
«Diciamo che quando due giudici non fanno altro che indagare su di te e su qualunque tuo congiunto, fino al grado di parentela più lontano, quando scoperchiano casa tua, scavano nella vita dei tuoi cari, finanche a metterli agli arresti domiciliari due 70enni senza che sia necessaria o prevista dal gip una misura così invasiva per il tipo di reato ipotizzato, quando trattano una fondazione come fosse la banda della Magliana e decidono che è un partito politico sostituendosi alla libera iniziativa dei cittadini, allora qualche dubbio viene. Ma la verità verrà a galla, noi abbiamo pazienza».
Davvero è a rischio la tenuta democratica delle istituzioni?
«È surreale il clima che si sta generando: chi fa un partito non lo decide la magistratura o la redazione di un settimanale. Io credo profondamente nell’idea della separazione dei poteri di Montesquieu: il fatto che le funzioni legislativa, esecutiva e giudiziaria restino separate ed affidate a organi diversi e indipendenti rappresenta la tutela delle nostre libertà. Oggi vedo qualche sovrapposizione, lo ammetto, e mi stupisco».
Aveva ragione Berlusconi, dunque?
«Ogni percorso e ogni storia è a sé e non mi piace il mantra di queste ore che vuole cercare paragoni tra Renzi e Berlusconi o Craxi. Mi limito a riflettere sul numero di volte che le vite delle persone, i loro destini, le vicende professionali sono state interrotte da indagine condotte senza arrivare a nulla, per anni e anni. La gogna ti toglie la vita, lo sappiamo bene. Per questo siamo garantisti sempre e continueremo a batterci per un Paese dove esista il diritto a un processo breve e in tempi certi».
Open è davvero così trasparente? Non è stato, forse, un errore abolire il finanziamento pubblico ai partiti?
«Rivendichiamo la volontà di abolire il finanziamento pubblico ai partiti, cosa che abbiamo voluto noi per primi. Ora si sta cercando di abolire anche quello privato, intimidendo i finanziatori. Noi credevamo e crediamo in un modello all’americana, dove le donazioni sono libere e trasparenti. Open ha peccato di eccesso di trasparenza. Questa vicenda nasce perché la fondazione ha chiesto ai suoi finanziatori di poter rendere noti i loro nomi in tempi in cui nessuna legge lo prevedeva. Quale altra fondazione in Italia lo ha mai fatto?»
Lei ha inviato una lettera alla presidente Casellati per ridiscutere il tema del finanziamento ai partiti. Qual è il senso di questa iniziativa?
«Quella di sfidare tutti sulla trasparenza e di aprire un dibattito sul funzionamento dei partiti. Siamo stati noi i più trasparenti e oggi chiediamo la commissione di inchiesta. Non stiamo attaccando l’indipendenza della magistratura, ma stiamo difendendo l’indipendenza della politica ed è per questo che abbiamo chiesto un confronto in aula. Vuole sapere quale sarà la reazione di tutto questo? Che la gente capirà cosa sta succedendo e ci sosterrà ancora di più come abbiamo visto nelle ultime ore con un vero e proprio boom di libere donazioni da semplici cittadini. Prima di tutto perché abbiamo un progetto politico vero, solidamente riformista, che si chiama piano Shock e anche in manovra abbiamo dimostrato la nostra identità no tasse e per la crescita. E secondo perché gli italiani capiscono molto bene quello che sta accadendo, altrimenti un domani chiunque può decidere che una srl è un partito».
Traffico di influenze illecite, quel reato scivoloso e indefinito. Giulia Merlo il 28 Novembre 2019 su Il Dubbio. La prima vittima eccellente fu la ministra Guidi e a chiederne la testa fu l’allora premier Renzi che oggi “subisce” la stessa sorte. All’origine dell’ipotesi accusatoria dei magistrati fiorentini contro i membri del Cda di Open c’è una delle fattispecie penali più scivolose tra quelle introdotte nel recente passato. Il reato, rubricato all’articolo 346 bis del codice penale come “traffico di influenze illecite”, è stato previsto dalla legge 6 novembre 2012, n. 190, passata alle cronache come legge Severino, dal nome della ministra della Giustizia dell’allora governo Monti. L’articolo punisce chi, «sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere a sé o ad altri denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio ovvero per remunerarlo in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio». Per esempio, è il caso del cosiddetto “faccendiere” che, sfruttando in modo illecito la sua conoscenza con un pubblico ufficiale, si faccia promettere o dare del denaro da un privato con la promessa di intercedere illecitamente in favore del privato stesso. Si tratta di un reato con natura finalistica, che punta alla tutela anticipatoria dalle attività preparatorie della corruzione, perché punisce l’intermediario prima ancora che si perfezioni un accordo corruttivo. Sin dalla sua introduzione, il reato è stato oggetto di critiche, a causa dell’eccessiva indeterminatezza del confine tra traffico di influenze illecite e attività lecita di lobbying (volta a “influenzare” un politico nelle sue scelte legislative). Non solo. A complicare ulteriormente l’applicazione della fattispecie è il fatto che essa esclude la presenza di corruzione ( in quel caso, il reato di traffico di influenze illecite viene sussunto) e dunque ad essere punita è la promessa, poiché il denaro o l’utilità consegnata al mediatore perché corrompa il funzionario pubblico non deve essere stata effettivamente consegnata e nemmeno promessa. «E’ un reato dalla consistenza criminosa inafferrabile», è stata la definizione data dal professore di Diritto penale all’Università Sant’Anna di Pisa, Tullio Padovani. La ragione è che la condotta del mediatore, per essere penalmente illecita, deve essere svolta in maniera “indebita”. Tuttavia nel nostro ordinamento manca una legge che chiarisca nel dettaglio cosa sia la mediazione ( compresa la sua variante illegale). Dunque, lascia enormi spazi di discrezionalità al magistrato. Inoltre, un secondo elemento di indeterminatezza è dato dal fatto che, per non sfociare nella fattispecie corruttiva, il denaro fornito al mediatore non deve essere consegnato al pubblico ufficiale. Si tratta dunque di una attività solo preparatoria e la finalità corruttiva da stabilire è di fatto solo nella mente del mediatore, dunque molto difficile da dimostrare. Proprio a causa di questa indefinitezza, il reato di traffico di influenze illecite ha trovato scarso utilizzo. Lo è stato, tuttavia, in alcuni casi giudiziari molto noti perché hanno coinvolto la politica. E’ stato il caso dell’imprenditore Gianluca Gemelli, indagato per traffico di influenze illecite per aver fatto pressione sulla compagna, la ministra Federica Guidi ( poi dimessasi), affiché inserisse nella legge di Stabilità del 2015 un emendamento che sbloccava il progetto petrolifero Tempa Rossa, in cambio di un subappalto. Più recentemente, anche Tiziano Renzi è stato indagato per lo stesso reato, perché un suo ex socio Luigi Dagostino gli aveva chiesto di fissare un appuntamento per il pm Antonio Savasta ( titolare di un’inchiesta su Dagostino per false fatture) con l’allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Luca Lotti. Nel caso Open, ad essere indagato per traffico di influenze illecite è l’avvocato Alberto Bianchi, vicino a Matteo Renzi ed ex presidente della Fondazione. Al vaglio degli inquirenti ci sarebbe un versamento di denaro a Open di circa 700mila euro, denaro che Bianchi avrebbe incassato dalla holding Toto e che l’avvocato ha giustificato come compenso professionale.
Francesco Grignetti per “la Stampa” il 29 novembre 2019. «Si è creato un clima...». Si morde la lingua all'ultimo, Matteo Renzi, consapevole di ricalcare la fatidica frase di Bettino Craxi. All'epoca si era allo scoppio di Tangentopoli. Stavolta si è agli inizi di un' inchiesta, quella sulla fondazione Open, che può segnare un punto di non ritorno per la sua avventura politica. A Fontanellato, nel cuore della Plastic Valley italiana, alle porte di Parma, era in programma un incontro con gli imprenditori del settore, terrorizzati dalla plastic tax. Ma siccome l'attualità incombe, Renzi convoca i giornalisti per la sua controffensiva. Il punto, secondo Renzi, è che quei due magistrati, Creazzo e Turco, ce l' hanno proprio con lui. «Un tempo a Firenze s' indagava sul Mostro di Scandicci, ora sul senatore di Scandicci. Non vorrei che avessero confuso», prova a ironizzare. In verità non ha alcuna voglia di ridere. Al contrario, Renzi è qui per drammatizzare. «C' è stata una invasione di campo da parte di due magistrati nella sfera della politica. Il nostro capogruppo Faraone ha chiesto un dibattito al Senato. Ne ho appena parlato direttamente con la presidente Casellati. Io prenderò la parola in Parlamento e parlerò». E' un Renzi scatenato. Annuncia di avere appena querelato chi ha raccontato del prestito ricevuto per comprarsi casa a Firenze. «Vedo la "casuale" diffusione di una velina su una mia vicenda privata. Si è violato il segreto bancario, e allora io denuncio. Quel prestito l' ho restituito in 4 mesi. Dovevo fare fronte a un investimento e sapevo che avrei avuto guadagni importanti. Posso già dire che ho dichiarato redditi per 830mila euro l' anno scorso; saranno 1 milione quest'anno. Tutto pubblico e dichiarato. Guadagno bene e non mi lamento». Ci sono gli imprenditori che si sono spaventati. E c'è la magistratura in azione pesante. «Hanno sequestrato i cellulari, tra qualche mese potrete leggere gli sms». Se non sono toni craxiani, questi. «Il mio, da ex presidente del Consiglio, è un allarme per tutta la politica. Se non vorranno ascoltare quel che ho da dire, io avrò comunque la coscienza a posto di aver posto il problema. Chi decide che cosa è un partito politico? Qui ne va dell' articolo 49 della Costituzione. E' una cosa enorme». «Ho forse fondato un partito a mia insaputa?». Open era però una fondazione sui generis, perchè finanziava la Leopolda, ma anche la sua ascesa politica. «Vero. La fondazione Open è nata con l'obiettivo nello statuto di sostenere l' attività politica del signor Matteo Renzi che allora era sindaco di Firenze, poi candidato alle primarie. Del tutto legittimo». Ha studiato le carte, Renzi. «Giusto un anno fa, è stata votata una legge di Bonafede che ha equiparato le fondazioni ai partiti politici. Stessi obblighi di trasparenza e di rendicontazione. E' un punto di vista. Non sono d'accordo, ma è chiaro. Solo che quel voto certifica che prima l' equiparazione non c'era. E non è possibile che si alzi un magistrato e dica: no, quello è un partito. Ma allora perchè non quell' associazione, quella bocciofila, quella srl?». Una srl in particolare. La società di Davide Casaleggio. «Vedo che il capo politico del M5S ha chiesto con particolare enfasi una commissione parlamentare d' inchiesta. Va bene. Ma indaghiamo su tutti: fondazioni, associazioni, srl». Ed è questo il suo rilancio rivolto ai partner della maggioranza giallo-rossa. Che i dem non lo avrebbero seguito nella battaglia, se lo aspettava. Che i grillini si avventassero, forse no. «E quando tra due mesi aprono un' indagine sulla Casaleggio, staremo a vedere».
Open, il Giglio Magico di Renzi nella morsa dei pm: "Bonifico sospetto di 20mila euro". tremano i fedelissimi. Libero Quotidiano il 30 Novembre 2019. Gli sviluppi dell'inchiesta su Open ora toccano anche la fondazione Eyu guidata da Francesco Bonifazi, braccio destro di Matteo Renzi e Maria Elena Boschi e tesoriere del Pd renziano. Secondo quanto riporta il Corriere della Sera, la fondazione Open nel 2018, poco prima di chiudere, ha ricevuto 20mila euro dalla "creatura" di Bonifazi: un bonifico "finito in una segnalazione di operazione sospetta assieme ad altri trasferimenti di soldi disposti da Davide Serra, il finanziere titolare di Algebris perquisito nei giorni scorsi per ordine della procura di Firenze, in favore di Eyu". Questi passaggi di denaro si aggiungono ai documenti sequestrati nelle sedi di Open, dei suoi finanziatori e nelle società dell'imprenditore Marco Carrai e, scrive ancora il Corriere della Sera, "alimentano il sospetto che i finanziamenti alla Fondazione Open guidata dall'avvocato Alberto Bianchi fossero un illecito finanziamento all'attività politica di Renzi". E a insospettire ancora di più gli inquirenti è stato il tempismo di quel bonifico partito da Eyu il 5 giugno, poche settimane dopo che il cda di Open (composto da Bianchi, Carrai e altri due fedelissimi di Renzi, la Boschi e Luca Lotti) avesse già deciso per la chiusura della fondazione. Tutti i componenti dell'ex Giglio Magico, insomma, sono chiamati in causa: "Che motivo c'era di trasferire quel denaro? - si domandano i pm - Si trattava di un passaggio per mascherare un'operazione di diversa natura?".
Il filo tra i finanziatori di Open e gli affari immobiliari di Renzi. L'ex premier nega esposti ai pm e si difende: «Tutto trasparente». I fari della procura sulle compravendite. Fabrizio Boschi, Sabato 30/11/2019, su Il Giornale. Mettiamola così: a Matteo Renzi le case non hanno mai portato fortuna. Banca d'Italia fa accertamenti sul prestito da 700mila euro fatto a Renzi dalla famiglia Maestrelli, serviti nel giugno 2018 per l'acquisto della villa in via Pietro Tacca, vicina a piazzale Michelangelo, da 1,3 milioni di euro. Ma la sirena dell'antiriciclaggio suona anche per altri bonifici sospetti. Le carte dell'inchiesta sulla fondazione Open evidenziano che Egiziano Maestrelli, il fondatore della Pida spa, la holding di famiglia attiva nel commercio all'ingrosso di frutta, nel settore immobiliare e in quello alberghiero (e oggi, dopo la sua scomparsa, controllata dai suoi tre figli, Riccardo, Giulio ed Elena) nel marzo 2017 gira all'organismo renziano una donazione da 150mila euro. Non solo: a febbraio 2018, pochi giorni dopo la morte del patron, la Frama Fruit, la Tirreno Fruit e la Fondiaria Mape (tutte srl controllate dalla famiglia) versano alla Open altri tre bonifici, per un totale di 150mila euro. In tutto 300mila euro. La lista di personaggi eccellenti della finanza e dell'imprenditoria, posseduta dall'avvocato Alberto Bianchi, indagato per traffico d'influenze, riciclaggio e finanziamento illecito viene in questi giorni controllata e ricontrollata dai pm per verificare se chi ha versato denaro «per sostenere l'attività politica di Matteo Renzi» abbia ottenuto vantaggi per le proprie aziende o incarichi nelle istituzioni. Come Riccardo Maestrelli, che siede nel Cda di Cassa depositi e Prestiti Immobiliare da fine 2014, nominato proprio dal governo Renzi. Per questo il prestito dei Maestrelli per l'acquisto della villa sulle colline fiorentine, monitorato dalla Banca d'Italia, potrebbe configurare per Renzi quantomeno un grave conflitto di interessi. Aggravato dal fatto che i Maestrelli sono stati tra i maggiori finanziatori della Open. Ma ieri a Radio Anch'io Renzi nega esposti ai pm e si difende: «Nella Fondazione Open tutto è trasparente, con bilanci pubblicati. Non si può pensare che sia una articolazione di partito». «Avviare una commissione di inchiesta sui fondi alle forze politiche», rincara invece Di Maio. Riccardo insieme ai fratelli è il proprietario anche della Egan immobiliare, che controlla al 50 per cento Palazzo Ruspoli, b&b di lusso a pochi metri dalla cupola del Brunelleschi, che nel 2012 ospitava la sede della fondazione Big Bang, embrione di quella che poi divenne la Open. E La Pida è anche proprietaria di Villa Roma Imperiale, hotel di lusso a Forte dei Marmi, dove Renzi è stato ospite per una vacanza ad agosto 2014. Il senatore semplice dice di aver sempre pagato e/o restituito tutto ai Maestrelli, anche perché nel 2018 ha guadagnato benissimo (più di 800mila euro nel 2018 e oltre un milione quest'anno grazie alla sua attività professionale). A maggio di quest'anno poi, è riuscito a vendere la vecchia casa di Pontassieve per 830mila euro. E su questo si scatena il gossip fiorentino: la casa di Pontassieve, sebbene di 295 metri quadrati, non poteva valere una cifra simile e le ville di quella metratura a piazzale Michelangelo non possono costare solo 1,3 milioni. Anche la procura vuole vederci chiaro. Socio di Riccardo in Egan srl era, fino al 2017, Andrea Bacci, condannato per il fallimento della Coam srl, società edile con sede a Rignano sull'Arno, e finanziatore della prima ora della fondazione Big Bang, nominato poi dall'allora sindaco a capo di alcune partecipate del Comune. La sua impresa edile ha realizzato nel 2004 i lavori di ristrutturazione nella villa di Renzi a Pontassieve e successivamente la ristrutturazione dei bagni a casa dei genitori Tiziano e Laura. Il curatore fallimentare della Coam ha trovato una notevole discrepanza tra il preventivo e le fatture pagate da Matteo: «Nei lavori ho recuperato solo le spese generali e i costi di costruzione, il mio guadagno non c'è stato; mentre i 70mila euro per rifare i bagni ai genitori non sono stati mai saldati», si lamenta Bacci. Nel 2010, dopo essersi insediato a Palazzo Vecchio, Renzi andò a visionare a un appartamento di Bacci a Firenze, con l'idea di traslocare a casa dell'amico: «Glielo sconsigliai: qualunque cifra mi pagherai, chi ci crederà?», gli disse. Allora prese residenza in via degli Alfani 8, a pochi metri dal Duomo, in un appartamento intestato e pagato da Carrai (prima 900 e poi 1.200 euro al mese), nello stesso periodo nel quale ricopriva la poltrona di presidente della Firenze Parcheggi, società partecipata del Comune di Firenze. Coincidenze.
IL BENEFATTORE. Open, Gianfranco Librandi e gli 800mila euro alla fondazione di Renzi: "L'ho fatto per la mia famiglia". Libero Quotidiano il 29 Novembre 2019. Hanno creato scalpore gli 800mila euro donati dal politico-imprenditore Gianfranco Librandi alla fondazione Open, afferente a Matteo Renzi. Il neodeputato di Italia viva - ex Scelta Civica di Monti dunque eletto col Pd - ha chiarito le ragioni della sua scelta in un'intervista a Il Fatto Quotidiano. Il deputato Librandi afferma di credere fortemente nelle capacità politiche del leader di Italia Viva, tanto da aver donato quella cifra "in diversi anni" alla fondazione Open. "L'ho finanziato per dare un Paese migliore alla mia famiglia", afferma Librandi. E poi rincara la dose: "Ci sono imprenditori che si comprano la barca, o i cavalli... Io invece sono interessato al mio Paese. Renzi mi sembra il purosangue più italiano che c'è". Il giornalista del Fatto gli fa notare come l'imprenditore-politico, durante la sua carriera, abbia finanziato un po' tutti: da Sala a Gelmini fino a Parisi. Il deputato ribadisce di aver donato sempre a norma di legge e, sull'inchiesta Open, dà un consiglio alla magistratura: "Giusto che indaghi sulla fondazione, ma con meno clamore e visibilità".
Fabio Amendolara per ''La Verità'' il 29 novembre 2019. Gruppo Gavio stava cercando di ottenere il rinnovo della concessione per la gestione delle autostrade fino al 2030. Ma c' era un problema: la Commissione ministeriale era convinta che la scadenza fosse da anticipare al 2024, mentre il ministro Graziano Delrio pensava a una proroga che non superasse il 2028. I Gavio puntano tutto su un loro consulente: Maurizio Maresca, che era pure consulente dell' Aiscat (l' associazione delle concessionarie), di Atlantia, consigliere di Renzi per la razionalizzazione delle concessioni e collaboratore del ministro Delrio per la struttura di missione che ha perorato la proroga delle concessioni a Bruxelles. All' epoca i carabinieri evidenziarono gli incontri di Maresca con Alberto Bianchi, oggi indagato per traffico di influenze per i rapporti con un altro concessionario autostradale, il gruppo Toto, a cui avrebbe fatto da trait d' union con il Giglio magico. Ma quelle carte rimasero in un cassetto, forse perché l' oggetto dell' inchiesta erano le grandi opere. Gli investigatori che si stanno occupando di Open, però, dopo essere stati nello studio dell' avvocato Bianchi (perquisito il 22 settembre scorso), sono entrati negli uffici del Gruppo Gavio (tra i finanziatori della fondazione) che, insieme ai Toto, hanno beneficiato dell' articolo 5 inserito nel decreto Sblocca Italia il 5 novembre 2014. E hanno riesumato l' informativa nella quale traspare che Gavio volesse fare «sfaceli», così viene descritta al banchiere Fabrizio Palenzona l' intenzione degli imprenditori (che nel 2015 non erano ancora sostenitori di Renzi). L'unica strada percorribile è pressare il governo. E l' uomo individuato da Maresca è l'avvocato Bianchi. Tra i due ci sono scambi di sms. E incontri. Come quello del 18 giugno 2015. Le prime indicazioni vengono fornite agli investigatori da una chiamata intercettata fra lui e Palenzona. Quest' ultimo chiede: «Dove sei stella?». Lui replica: «Sono a Genova che sto andando a Milano [] poi nel pomeriggio vado a Firenze». Per l' interlocutore non ci sono dubbi: «Ormai sei Giglio magico pieno». Maresca si schermisce: «No che Giglio magico... vado dal nostro amico Alberto». Gli investigatori lo seguono. E lo fotografano. Maresca arriva nel capoluogo toscano con un treno veloce alle 15.55. E da lì va a piedi verso via Palestro 3, sede dello studio legale Bianchi. Qualche minuto più tardi Paolo Pierantoni, presidente di Sias, società del gruppo Gavio, avvisa Maresca che a breve li raggiungerà. Mentre si pensa di avvicinare anche Giovanni Toti, governatore della Liguria (ma le citazioni nell' informativa si sprecano: oltre che di Renzi, si parla di Mauro Bonaretti, ex direttore generale a Palazzo Chigi, e di Roberto Mercuri, che aveva attirato l' attenzione di Luigi De Magistris quando ancora faceva il pm in Calabria), seguono altri incontri. In un' occasione si ipotizza che possa partecipare anche Beniamino Gavio detto Mino. Ed è a questo punto che il prof sembra parlare con Bianchi di soldi. I carabinieri annotano: «Tocca il tema dei comuni compensi che Bianchi dovrebbe affrontare con Gavio». Ecco il testo, trascritto a pagina 117 dell' informativa: «Chiaro...tieni conto che io ma non parlando al capo ma parlando a Pierantoni... per il tema compensi eccetera... un accenno glielo avevo fatto... che riguardava entrambi... quindi a mio avviso se ti attacchi lì va bene...». E Bianchi: «Cioè i 500?». Maresca: «500 oltre a... oltre a...». Delrio, però, si è chiuso a riccio. E c' è un interlocutore di Maresca che sembra aver capito bene cosa fare, il vicesegretario generale della presidenza del Consiglio, Raffaele Tiscar: «In questa situazione c' è bisogno di un chiaro mandato politico...». E dopo l' ennesimo incontro con Bianchi, Maresca aggiorna Palenzona: «[...] con Alberto è venuto un po' fuori il tema di come ci si comporta...». E Bianchi, stando al racconto di Maresca, avrebbe detto: «È chiaro che se però prendi una posizione che sia proprio visibilmente anti governo e anti capo del governo, vuol dire che scommette che questo governo tra poco non ci sia più o non scommette insomma». Come ha indicato Tiscar, serve un mandato politico. Maresca cerca una nuova strategia: «Io contornerei informandone Lotti». La valutazione che fa Palenzona è questa: «Io temo che il povero Renzi sia più ammalorato di quello che pensi». Ma successivamente qualcosa si dev'essere sbloccato: ad aprile 2018 la Sias dei Gavio ha ottenuto la proroga sino al 2030. Al governo c' era ancora il Pd, ma il premier era Paolo Gentiloni. Un anno prima era stato approvato un emendamento a favore dei Toto. E ora la Procura vuole vederci chiaro.
Open e l’intreccio dei finanziatori, quei bonifici sospetti dalla fondazione di Bonifazi. Pubblicato venerdì, 29 novembre 2019 su Corriere.it da Antonella Mollica e Fiorenza Sarzanini. La Finanza indaga: nel 2018, poco prima della chiusura, Open ha ricevuto 20mila euro dalla Fondazione Eyu del tesoriere del Pd guidato da Renzi. Nel 2018, poco prima della chiusura, la Open ha ricevuto 20mila euro dalla Fondazione Eyu di Francesco Bonifazi, tesoriere del Pd guidato da Matteo Renzi e indagato per finanziamento illecito dalla procura di Roma. Quel bonifico è finito in una “segnalazione di operazione sospetta” insieme ad altri trasferimenti di soldi disposti da Davide Serra, il finanziere titolare di Algebris perquisito nei giorni scorsi per ordine della procura di Firenze, in favore di Eyu. Un intreccio che la Guardia di Finanza dovrà adesso approfondire per scoprire quali reali interessi si nascondano dietro i vari passaggi di denaro avvenuti negli ultimi anni. Anche perché i documenti sequestrati presso la Open, nelle società dei “soggetti finanziatori” e in quelle dell’imprenditore Marco Carrai alimentano il sospetto che i finanziamenti alla Fondazione Open guidata dall’avvocato Alberto Bianchi fossero «un illecito finanziamento all’attività politica di Matteo Renzi». Il primo bonifico inserito nell’elenco trasmesso dall’Unità antiriciclaggio risale 5 giugno 2018. Quel giorno la Fondazione di Bonifazi manda 20mila euro a quella di Bianchi. E questo nonostante già dagli inizi di aprile i componenti del consiglio di amministrazione di Open - oltre a Bianchi e Carrai, Maria Elena Boschi e Luca Lotti - avessero deciso di chiuderla. Che motivo c’era di trasferire quel denaro? Si trattava di un passaggio per “mascherare” un’operazione di diversa natura? Interrogativi che dovranno trovare risposta anche in riferimento ad altri due versamenti, disposti da Serra. Il titolare di Algebris - che risulta tra i “donatori” di Open per 300mila euro - versa a Eyu 54,900 euro nel 2017 e 80mila nel 2018. Scrive la Finanza nell’informativa relativa all’analisi dei conti della Eyu di Bonifazi: «In considerazione degli accrediti pervenuti sul conto corrente che non trovano rispondenza nei dati di bilancio 2017 e dei numerosi e cospicui giroconti pervenuti da altro intermediario di cui non è possibile verificare l’origine della provvista, in assenza del piano annuale delle attività istituzionali e in considerazione inoltre della parcellizzazione dei pagamenti che non consentono nè la verifica dell’utilizzo dei fondi nè la verifica che la fondazione abbia correttamente perseguito le proprie finalità mediante l’erogazione di contributi a progetti e iniziative». Bianchi e Carrai sono ritenuti personaggi chiave nell’inchiesta guidata dal procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo. Sospettati di aver gestito il flusso di denaro destinato a Renzi e per questo indagati di finanziamento illecito. “Collettori” di circa 7 milioni di euro che dal 2012 al 2018 sono stati versati a Open sia pur in ruoli diversi. L’accusa ritiene che Bianchi utilizzasse la propria attività di avvocato e consulente legale per “mascherare” i bonifici provenienti dai finanziatori, mentre Carrai mettesse a disposizione le proprie società italiane ed estere sia per trovare «sostenitori economici» sia per metterli in contatto con i politici del “giglio magico”. «Le acquisizioni investigative - si legge nel decreto di perquisizione eseguito nei giorni scorsi - evidenziano significativi intrecci tra fondazione Open e società lussemburghesi e fiorentine». Molti soci di Carrai nella Wadi e in altre aziende risultano finanziatori di Open e questo ha alimentato il sospetto che in realtà quelle “provviste” potessero anche essere state spostate dall’estero o comunque rappresentino donazioni fittizie e in realtà siano vere e proprie contropartite per vantaggi ottenuti dagli imprenditori.
Non è avvertimento, è giornalismo. L'Espresso ha fatto un accurato e paziente lavoro di ricostruzione di dati, nomi, cifre, contesti. Che non arriva a conclusioni, ma pone domande. A cui il senatore Matteo Renzi dovrebbe rispondere invece di attaccare la libera stampa. Marco Damilano il 28 novembre 2019 su L'Espresso. Un articolo, un servizio, un'inchiesta giornalistica in democrazia non sono un avvertimento, ma l'opposto. Sono un contributo che si porta alla conoscenza dei fatti, per mettere i cittadini e gli elettori di scegliere i loro rappresentanti nelle condizioni migliori. Ha sbagliato, dunque, il senatore Matteo Renzi a definire così, come ha fatto ieri mattina dai microfoni di Radio Capital, la storia di copertina firmata da Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian che i lettori dell'Espresso potranno leggere finalmente domenica primo dicembre nella sua interezza, dopo tante anticipazioni, discussioni, polemiche. Se, dopo aver minacciato querele e dopo essersela presa con il collega Gigi Riva che ha fatto un errore e si è subito scusato, il senatore Renzi avrà la pazienza di leggere la nostra inchiesta, vedrà che non di avvertimenti o di veline o di pizzini si tratta, ma di un accurato e paziente lavoro di ricostruzione di dati, nomi, cifre, contesti. Il miglior giornalismo di inchiesta, di cui Fittipaldi e Tizian sono firme riconosciute. Che non arriva a conclusioni, ma pone domande. Sull'acquisto della villa, e sull'ormai famoso prestito che ha consentito alla coppia Renzi di traslocare nell'estate 2018, sono da chiarire almeno due questioni. L'ex segretario del Pd, ora Italia Viva, secondo i documenti consultati da L'Espresso ha acquistato la nuova casa a Firenze anche grazie ai soldi ricevuti dalla madre dell'imprenditore Riccardo Maestrelli. Un generoso finanziatore della fondazione renziana. Renzi replica: «Ho restituito tutto, denuncerò L’Espresso per violazione del segreto bancario». La prima parte dell'inchiesta esclusiva in edicola domenica
La prima: perché l'amico di Renzi, l'imprenditore Riccardo Maestrelli, appartenente a una famiglia che figura con le sue società tra i finanziatori della fondazione Open , nominato nel consiglio di amministrazione della Cdp Immobiliare il 5 maggio 2015, mentre a Palazzo Chigi governava l'ex sindaco di Firenze, non ha elargito il prestito da 700mila euro destinato all'acquisto della casa, ma tramite la madre, signora Anna Picchioni?
La seconda questione: la coppia Renzi ha trasferito 400mila euro per la caparra l'acquisto della casa, restano altri 300mila euro, sono stati restituiti tutti, o soltanto in parte?
Queste domande prescindono dall'inchiesta della magistratura, nessuno dei protagonisti risulta sotto indagine, per esempio, ma richiamano un profilo di trasparenza e di distinzione tra sfera privata e sfera pubblica che dovrebbe rappresentare la strada maestra per chi fa politica ad altissimi livelli come l'ex premier in questi anni. Ricordate Anna Maria Cancellieri, Maurizio Lupi, Federica Guidi? Cosa hanno in comune questi tre ex ministri? Di tutti e tre Renzi chiese le dimissioni, eppure nessuno di loro era indagato. Di due di loro (Lupi e Guidi) le ottenne in pochi giorni, o addirittura in poche ore, perché erano ministri che facevano parte del suo governo e non potevano godere di una difesa politica, non avevano alle spalle né un partito potente né una corrente di appoggio dell'opinione pubblica. «Le dimissioni si danno per una motivazione politica o morale, non per un avviso di garanzia», disse Renzi in un'intervista a Goffredo De Marchis (Repubblica, 22 marzo 2015). D'accordo: ma chi stabilisce cos'è morale e cosa non lo è, i criteri di inopportunità politica che sono più esigenti perfino di quelli di un'indagine giudiziaria che muove da ipotesi di reato? Il giornalismo può aiutare a formare un'opinione pubblica, non giustizialista, come si usa dire, ma sensibile, attenta, reattiva. Questo è il giornalismo in cui crediamo noi dell'Espresso. Abbiamo svelato di recente l'esistenza dell'associazione Più voci, appartenente alla galassia leghista , per cui il tesoriere della Lega Giulio Centemero è oggi sotto inchiesta, abbiamo raccontato il viaggio di Salvini e di Gianluca Savoini a Mosca dell'ottobre 2018 , su cui ora indaga la procura di Milano con l'ipotesi di corruzione internazionale, ci siamo interessati delle frequentazioni di Davide Casaleggio con le lobby e con le aziende di Stato. Nelle prossime settimane ci occuperemo di altri partiti e di altri finanziamenti, perché pensiamo sia un tema cruciale per la qualità della nostra democrazia. Sui finanziatori della fondazione Open, su cui è aperta un'inchiesta della procura di Firenze, i lettori dell'Espresso potranno trovare domenica in edicola nuove informazioni: nomi e cifre. Tra loro, spicca il caso di Gianfranco Librandi , imprenditore, già deputato e tesoriere di Scelta civica, passato al Pd nel 2017, inserito nella lista bloccata in Lombardia per la Camera, rieletto, oggi traslocato in Italia Viva. Abbiamo scoperto che ha finanziato la Open con 800mila euro. Un'elargizione fuori misura che forse spiega il suo tortuoso percorso politico. Anche in questo caso, c'è una domanda aperta, di carattere generale. Quando nel 2014 fu abolito il finanziamento pubblico dei partiti mascherato da rimborsi elettorali, dopo i casi Lusi e Belsito, i tesorieri di Margherita e Lega che avevano rubato a se stessi, truccato i bilanci, truffato lo Stato, si parlò giustamente di canali di finanziamento privati trasparenti, tracciabili, pubblici. Oggi siamo molto lontani da questo obiettivo. Nel frattempo, però, le oligarchie si sono fatte ancora più ristrette, la politica da più di venti anni è diventata una cosa per pochi e i rinnovatori non hanno migliorato la situazione, anzi. Si moltiplicano i partiti personali, di proprietà del leader, non contendibili, come si dice, o i partiti azienda, con le piattaforme affidate a società private che decidono vita e morte dei governi, com'è accaduto questa estate con il voto della piattaforma Rousseau sul via libera da dare al Conte due. Intanto i partiti storici si sono impoveriti: il Pd ha 174 dipendenti in cassa integrazione, ma la fondazione Open ha moltiplicato i finanziamenti, negli stessi anni in cui Renzi era segretario del Pd e punto di riferimento della fondazione. La commistione tra politica e affari è diventata più stretta. Il mix tra finanziamenti privati opachi, liste bloccate con la scelta delle candidature per il Parlamento nazionale affidate a cerchie ristrettissime, nomi spuntati dal nulla ma forti del potere dei soldi, hanno spezzato il circuito tra consenso, responsabilità e possibilità di scelta dell'elettore che sta alla base della rappresentanza democratica e ha spalancato le porte ai populismi di ogni genere. Oggi un bravo amministratore non ha nessuna possibilità di essere inserito in una lista, rischia di essere scavalcato da un signor nessuno che ha alle spalle ingenti risorse economiche e che si è comprato il seggio. È questo il vero vulnus democratico, noi vorremmo parlare di questo. Con lo strumento parziale ma tenace di cui disponiamo. Si chiama giornalismo.
Giovanna Casadio per ''La Repubblica'' il 30 novembre 2019.
Senatore Luigi Zanda, tesoriere del Pd, che opinione si è fatto dell'inchiesta sulla Fondazione Open?
"Dell'indagine so poco o nulla. Naturale che chi ha violato le regole ne risponderà, ma non ne parlo. Renzi ha capitanano una scissione, sulla quale do un giudizio molto negativo e non voglio che questo finisca per condizionare il mio punto di vista. Di certo sono contrario alla commissione d'inchiesta che Di Maio ha proposto, perché penso che, quando indaga la magistratura, il Parlamento debba lasciarla lavorare".
Renzi tuttavia attacca i metodi usati dai giudici.
"Penso che su questo procedimento l'autorità giudiziaria debba fare conoscere le ragioni di tante perquisizioni e di tanti sequestri di telefoni, perché l'opinione pubblica deve essere rassicurata sul fatto che ci siano forti motivazioni per un'azione così imponente".
Ma il Pd chiede spiegazioni all'ex segretario dem?
"C'è una questione di etica politica. Da segretario e da senatore del Pd, Renzi ha raccolto risorse molto rilevanti di 7 o 8 milioni convogliandole alla Fondazione Open che, come lui stesso ha dichiarato, finanziava le sue attività politiche. Come segretario del Pd avrebbe dovuto riflettere sull'evidente situazione di conflitto in cui si trovava".
Sta dicendo che mentre voi Dem eravate in difficoltà, i renziani avevano un tesoretto?
"La fatica del segretario di un partito deve essere diretta a trovare risorse per il suo partito, come hanno sempre fatto tutti i segretari che hanno preceduto Renzi. Lui era il capo del Pd e aveva la responsabilità della finanze dem. Invece, da segretario cercava risorse per la sua Fondazione Open, mentre allo stesso tempo, sempre da segretario, metteva in cassa integrazione ben 160 dipendenti del suo partito, peraltro al verde per via della campagna per il referendum costituzionale del 2016, costata uno sproposito".
Lei, diventato tesoriere, si è trovato in una situazione difficile?
"Abbiamo dovuto tenere insieme l'assenza di risorse, la cassa integrazione e le esigenze di un partito che svolge un'azione politica importante. L'anno prossimo promuoveremo una campagna per raccogliere fondi chiedendo a iscritti e elettori di darci una mano con aiuti individuali di 2 o 5 euro".
L'affaire Open danneggia il Pd e la politica in generale?
"Non credo che l'inchiesta su Open possa condizionare chi vuole aiutare economicamente il Pd. Aggiungo però che il finanziamento pubblico dei partiti è una necessità della democrazia. Non è l'antidoto all'illegalità, che va combattuta con altri mezzi, ma è un elemento costitutivo di una democrazia più sana. Il Parlamento dovrebbe discutere se la democrazia è la principale tra le risorse di libertà cui dispongono i cittadini o debba essere considerata in ostaggio di chi ha i mezzi economici per finanziarla".
Lei è stato messo sulla graticola per avere proposto il ritorno al finanziamento pubblico ai partiti quando è stato nominato tesoriere dem. Si è trovato isolato. Rifarebbe quella battaglia?
"È una battaglia che ho iniziato quando non pensavo che mai mi sarebbe capitato di fare il tesoriere del Pd. Considero vitale l'attuazione dell'articolo 49 della Costituzione per garantire la democrazia interna dei partiti, presupposto per evitare la deriva dei tanti partiti personali. Al tempo stesso bisogna individuare delle forme ragionevoli di finanziamenti pubblici e controllabili".
Eliminare il finanziamento pubblico è stato un modo per lisciare il pelo all'anti casta?
"La politica commette molti errori, ma sarebbe ben più grave se, quando se ne accorge, non provvedesse ad eliminarli. Ho presentato un disegno di legge che riguarda sia l'attuazione dell'articolo 49 della Carta che una limitata forma di rimborso ai partiti per il loro funzionamento".
Le fondazioni sono virtuose o sono un modo per aggirare il finanziamento a un partito?
"Le fondazioni sono un istituto benemerito e utile. Naturalmente bisogna che vengano utilizzate per fini nobili e non illegali".
Il rapporto tra la Casaleggio e i 5Stelle è ineccepibile?
"Un rapporto misterioso, io non ne conosco francamente l'estensione, anche se mi sembra che la Casaleggio associati condizioni molto la vita dei 5Stelle".
Valentina Errante per ''Il Messaggero'' il 30 novembre 2019. I soldi di Open, cassaforte renziana finita al centro dell' inchiesta dei pm di Firenze, e quelli dell' altra fondazione del Partito democratico, Eyu, da poco coinvolta nell' inchiesta romana sul finanziamento illecito dei partiti. Stessi donatori e medesime ombre come rileva la Guardia di Finanza. La segnalazione per Eyu arriva dall' Uif di Bankitalia, che ha rilevato alcune operazioni sospette. Tra queste il passaggio di denaro dall' una all' altra: da Eyu a Open, quando la fondazione, presieduta da Alberto Bianchi, è praticamente in liquidazione. Passaggi non del tutto chiari, visto che, secondo la Guardia di finanza di Roma, molte operazioni di Eyu non sono state iscritte in bilancio e non è possibile ricostruire con chiarezza la provenienza dei soldi. Di certo la fondazione versa soldi alla gemella, quando questa ha già chiuso i battenti e riceve donazioni dalla holding del manager renziano David Serra, perquisito nei giorni scorsi. Il manager finanzia contemporaneamente Open. È giugno 2018 quando dalle casse di Eyu parte il bonifico per Open. Sebbene ad aprile dello stesso anno la cassaforte renziana, che aveva finanziato la Lepolda e le primarie dell' ex premier sin dal 2012, abbia annunciato la chiusura, l' altro ente dei dem (il 5 giugno) fa partire il versamento di 20mila euro. Un' operazione non del tutto chiara che viene segnalata dall' Antiriciclaggio e finisce in un' informativa della Guardia di Finanza che, tra l' altro, proprio su Eyu, segnala altre anomalie. Annotano i militari della Guardia di Finanza: «In considerazione degli accrediti pervenuti sul conto corrente (di Eyu ndr) che non trovano rispondenza nei dati di bilancio 2017 e dei numerosi e cospicui giroconti pervenuti da altro intermediario di cui non è possibile verificare l' origine della provvista, in assenza del Piano Annuale delle attività istituzionali ed in considerazione inoltre della parcellizzazione dei pagamenti, che non consentono né la verifica dell' utilizzo dei fondi né la verifica che la fondazione abbia correttamente perseguito le proprie finalità mediante l' erogazione di contributi a progetti ed iniziative, si inoltra a Uif la presente segnalazione». Serra uno dei principali finanziatori di Open versa anche soldi a Eyu: nel 2017 55mila euro, nel 2018 80mila. Intanto a Firenze le indagini vanno avanti e riguardano soprattutto la società lussemburghese di Marco Carrai, amico personale di Matteo Renzi, ex componente del cda di Open, indagato per finanziamento ai partiti. Della sua Wadi Ventures Management, nel tempo, sono diventati soci alcuni dei più fedeli finanziatori di Open. Invece Bianchi, accusato di traffico di influenze e finanziamento illecito, ha diffuso una nota negando di aver realizzato una sorta di archivio segreto dei finanziatori della fondazione. «Tutti i contributi sono stati effettuati su unico conto corrente bancario, intestato ad Open, ne era conoscibile e tracciata provenienza, data e importo», ma il sospetto dei pm fiorentini è che una parte dei fondi arrivasse nelle casse della fondazione proprio attraverso gli incarichi professionali affidati a Bianchi.
Fondazione Open, i pm: «Le società di Carrai forse usate per portare i soldi all’estero». Pubblicato lunedì, 02 dicembre 2019 su Corriere.it. da Mollica e F. Sarzanini. Caso Open, i sospetti su quelle lussemburghesi. Renzi: combatterò perché non si diventi un Paese sudamericano. Le società lussemburghesi di Marco Carrai potrebbero essere state utilizzate per portare all’estero i soldi di alcuni finanziatori della Fondazione Open. Il sospetto emerge dai provvedimenti di perquisizione eseguiti la scorsa settimana e dalle accuse contestate all’amico di Matteo Renzi indagato per finanziamento illecito con l’avvocato Alberto Bianchi. Carrai era nel consiglio di amministrazione di Open, Bianchi era il presidente. Ed entrambi, questo è il fulcro dell’inchiesta condotta dai magistrati di Firenze coordinati da Giuseppe Creazzo, si sarebbero adoperati per far confluire sui conti della Fondazione denaro che doveva «sostenere la carriera politica di Renzi». Nel provvedimento contro Carrai si parla esplicitamente della Wadi Ventures Management Company e si specifica: «Ha come unico asset la Wadi Ventures sca che ha sede anch’essa in Lussemburgo e oggetto sociale la detenzione di partecipazione societaria». Ma quello che fa ben comprendere quale sia l’interesse investigativo è specificato dopo, quando si sottolinea come «quest’ultima società risulta destinataria di somme di denaro provenienti, fra gli altri, da investitori italiani già finanziatori di Open e collegati a Carrai». Ecco perché le verifiche della Finanza si stanno concentrando su tutte le somme trasferite nell’ipotesi che in realtà la Wadi fosse lo schermo per portare i capitali all’estero. E non escludendo che fosse proprio questa la contropartita che veniva offerta a chi era disponibile ad aumentare gli introiti della fondazione renziana. Per questo potrebbero diventare interessanti le posizioni di Giampaolo Moscati e Jonathan Pacifici, che compaiono con Carrai «nell’organo amministrativo». Pacifici avrebbe anche agevolato la nomina di Carrai a console di Israele a Firenze. Già questa settimana potrebbero cominciare gli interrogatori dei testimoni dopo le ultime perquisizioni e i difensori degli indagati presenteranno ricorso al Tribunale del Riesame per chiedere il dissequestro della documentazione contabile, ma anche di cellulari, tablet e computer portati via dagli uffici e dalle abitazioni di Carrai e Bianchi. «A me non fa paura niente — ha commentato ieri Matteo Renzi —. Combatterò con Italia viva perché le condizioni di civiltà per i cittadini siano garantite e non si diventi un Paese sudamericano».
Alessandro Da Rold e Simone Di Meo per ''La Verità'' l'1 dicembre 2019. La belle époque del renzismo, tra il 2014 e il 2016, aveva contagiato davvero un po' tutti. Capitani d' industria, professionisti, manager e stakeholder (formula inglese che copre il nostro brutale «portatore d' interessi») che videro nel sindaco di Firenze il nuovo corso del centrosinistra in Italia. E, con la partecipazione, arrivarono anche i finanziamenti. Proporzionali alla caratura del donante e alla sua fiducia in Matteo. In totale, la fondazione Open - finita sotto inchiesta a Firenze con il suo ex presidente, Alberto Bianchi, accusato di traffico di influenze illecite e finanziamento illecito ai partiti - ha raccolto complessivamente oltre 6,7 milioni di euro. Molti sostenitori di Open sono stati poi nominati in aziende pubbliche o hanno ottenuto incarichi in orbita governativa, quando a Palazzo Chigi c' erano Matteo Renzi o il suo successore. Uno dei più famosi è Antonio Campo Dall' Orto (contributo di appena 250 euro) che nel 2014 diventa prima consigliere d' amministrazione di Poste e poi direttore generale della Rai. Del 2014 è anche la nomina, nel board di Leonardo Finmeccanica, del manager Fabrizio Landi (10.000 euro). Nella lista dei sostenitori troviamo pure il giornalista Erasmo D' Angelis (6.400 euro), designato alla direzione generale della struttura di missione contro il dissesto idrogeologico di Palazzo Chigi dal 2014 al 2015 e successivamente (2017, Gentiloni premier) segretario generale dell'autorità di distretto idrografico dell' Italia centrale. Fra il 2015 e il 2016 è andato a fare il direttore dell' Unità. A Palazzo Chigi ha lavorato anche Vincenzo Manes (62.000 euro). È stato «consigliere del presidente del Consiglio Renzi per il terzo settore e lo sviluppo dell' economia sociale» («pro bono», specifica). A quota 30.400 euro (la metà circa di quanto versato da Manes) troviamo un volto noto: quello di Alberto Bianchi, l' avvocato amministrativista di Firenze che nel 2014 diventa consigliere di amministrazione di Enel, oggi indagato e perquisito due volte dalla Finanza su ordine dei pm che sospettano che la Open abbia operato come «articolazione di partito», nascondendo rapporti opachi tra politica e affari. A pari merito l' imprenditore calzaturiero Gabriele Beni (25.000 euro a titolo personale più 5.000 euro con la sua società Calzaturificio Gabriele) che, nell' ottobre 2014, è stato nominato prima consigliere e poi vicepresidente in carica di Ismea, Spa controllata dal ministero dell' Agricoltura. La lista del 2014 riserva ancora qualche spunto. Jacopo Mazzei (8.000 euro) è nel cda di Toscana Aeroporti, di cui è presidente un big renziano come Marco Carrai, indagato nell' inchiesta Open per finanziamento illecito. Il 5% delle azioni della società appartiene alla Regione Toscana. Gabriele De Giorgi (1.050 euro versati nel 2014), figlio dell'ex capo di Stato maggiore della Marina militare Giuseppe, è stato assistente del sottosegretario Domenico Manzione. Fuori quota ci imbattiamo, invece, in Marco Seracini: commercialista di Renzi e ideatore della fondazione Noi link (antesignana della Open), diventato nel 2014 sindaco revisore di Eni. Diverso il discorso per Federico Lovadina, fondatore con Francesco Bonifazi dello studio Bl (Bonifazi e Lovadina) di cui è socio anche Emanuele Boschi, fratello di Maria Elena. Risultano finanziamenti di Bonifazi (sotto inchiesta per finanziamento illecito alla fondazione Eyu, di cui era presidente) a Open per 12.800 euro, e di Emanuele Boschi a Eyu nel 2017 per 40.000 euro. Lovadina entra nel 2014 nel cda di Trenitalia, poi in Prelios, e ora è in Sia, controllata Cdp. Infine ci sono i maxi-finanziamenti dell' ex Pd (oggi Italia viva) Gianfranco Librandi , che tra il febbraio 2017 e il giugno 2018 ha versato ad Open circa 800.000 euro, e della famiglia Maestrelli (300.000 euro), la stessa che nel 2018 ha prestato a Renzi 700.000 euro per l' acquisto della supervilla di Firenze. Ma oltre ai singoli finanziatori ci sono anche diverse aziende private che spesso lavorano o hanno avuto a che fare con il settore pubblico. A parte l' immobiliarista Luca Parnasi, anche lui sotto inchiesta per il finanziamento a Eyu, c' è il caso dei fratelli Orsero, tra i leader mondiali nella produzione e distribuzione di frutta. Nelle casse di Open, prima Big Bang, il marchio di Albenga ha versato 20.000 euro nel 2013, in uscita dalla controllata Blue meer, e poi altri 50.000 nel 2014 dalla cassaforte Gf group. In quegli anni il gruppo è in difficoltà economiche. Proprio nel 2014 l' autorità portuale di Savona, con Renzi premier e Delrio ministro delle Infrastrutture, rileverà con 24 milioni di fondi pubblici il 64% delle quote dell' interporto di Vado (Vio), di proprietà degli Orsero. Altro finanziatore è stata la Uno spa, azienda produttrice di mobili di lusso che ha stanziato 50.000 euro nel 2014 per gli esponenti del Giglio magico. Nel 2015 la Uno sarà celebrata sui quotidiani per una commessa a Dubai da 4 milioni di euro e un accordo con Fincantieri per gli arredi delle navi. C' è poi il caso della Sinelec (25.000 euro nel 2014), azienda tecnologica del gruppo Astm group, secondo gestore al mondo di reti autostradali a pedaggio in concessione. Nel cda della controllante siede - oltre ai fratelli Gavio, già finanziatori di Renzi - Arabella Caporello, ex direttore generale del Comune di Milano (giunta di Giuseppe Sala) e fondatrice del renzianissimo circolo della Pallacorda nel capoluogo lombardo. A finanziare negli ultimi anni la fondazione Open c' è stata anche la Intesa aretina scarl (15.000 euro), consorzio che raduna i soci privati di Nuove acque, società a partecipazione pubblica che si occupa del servizio idrico in diversi Comuni toscani: tra i soci privati ci sono Suez Italia, Acea, Mps, Ubi banca e in passato anche Banca Etruria. Anche due aziende che hanno lavorato in Expo 2015 hanno versato soldi. La Nacost navarra costruzioni del gruppo Navarra (30.000 euro tra il 2016 e il 2017), si occupò del Padiglione Italia e ora è ancora impegnata nel dopo Expo. E la Sicuritalia group service, con altri 30.000 euro sempre tra il 2016 e il 2017: durante l' esposizione universale vinse con altre aziende il bando per la gestione della sicurezza. Infine, a lato degli intrecci italiani, una curiosità internazionale. In Fondazione Eyu compare un bonifico da 87.000 euro di The tides foundation, collegata alla Open society di George Soros, tra i finanziatori di Greta Thunberg, la giovane che si batte per l' ambiente. Forse l' unica non renziana dell' articolo.
Riccardo Saporiti per infodata.ilsole24ore.com il 14 dicembre 2019. George Soros e la moglie che sostengono +Europa, Paolo Berlusconi che finanzia il movimento del fratello e il Partito democratico che primeggia per la somma ricevuta. Ecco cosa si scopre analizzando i dati relativi ai contributi che i privati cittadini hanno erogato nei confronti dei partiti politici dall’inizio della legislatura. La cifra complessiva sfiora i 3 milioni e mezzo di euro ed è stata calcolata da Transparency International Italia, che li ha pubblicati sulla piattaforma Soldi e politica. Infodata li ha utilizzati per realizzare questa infografica che mostra i contributi ricevuti dai principali partiti italiani. I cerchi sono dimensionati sull’ammontare delle donazioni erogate. Cliccando sul nome di un partito si attiva uno zoom che mostra le informazioni relative alla singola forza politica selezionata. Come si può osservare dalle dimensioni dei cerchi, la forza che ha ricevuto il contributo più alto è il Partito democratico, nei confronti del quale sono stati erogati 976mila euro. La somma più consistente, pari a 50mila euro, è stata donata da Giovanni Arvedi, imprenditore cremonese attivo nella siderurgia e nell’editoria. Il campione delle donazioni è però Paolo Berlusconi, fratello di Silvio, che ha finanziato Forza Italia con 100mila euro, la cifra massima che un privato cittadino possa far avere ad un movimento politico. Tra i principali donatori spicca quindi il nome del finanziere George Soros, bersaglio preferito dei complottisti. Il quale non solo ha sostenuto +Europa con una somma pari a 99.789 euro, ma ha coinvolto anche la moglie Tamiko Bolton, che ha staccato un assegno dell’identico importo in favore del movimento guidato alle ultime elezioni da Emma Bonino. Certo, vale anche l’ipotesi opposta. Ovvero che sia stata la signora Bolton a convincere il marito a sostenere il movimento europeista: i dati non forniscono indicazioni sulle dinamiche familiari dei signori Soros. Tornando al quadro generale, la Lega ha ricevuto 879mila euro, Forza Italia 777mila, Fratelli d’Italia 392mila. Il Movimento 5 Stelle ha dovuto accontentarsi di 55mila euro, con contributi che non vanno oltre i 4mila euro. Il più alto, pari a 3.900 euro, è arrivato dal consigliere regionale campano, ovviamente grillo, Gennaro Saiello. Ultima, in questa classifica, Leu, che ha potuto contare su appena 20mila euro.
Renzi, nel mirino della procura anche i compensi da conferenziere. "Su Open tutto tracciato e regolare". Libero Quotidiano l'1 Dicembre 2019. Matteo Renzi sempre di più nell'occhio de ciclone. Lo scrive Repubblica in edicola domenica 1 dicembre. Si scava nel complicato giro di denaro che ha permesso a Matteo Renzi di acquistare la villa da 1,3 milioni sulle colline fiorentine. E a finire sotto indagine non è solo il prestito da 700 mila euro ricevuto dalla madre di imprenditori amici, ma anche i cachet che il leader di Italia Viva ha percepito per le sue attività di conferenziere, autore e personaggio televisivo. L' Unità antiriciclaggio della Banca d' Italia, alla fine dello scorso anno, ha segnalato alla Guardia di Finanza una serie di bonifici arrivati sul conto corrente aperto da Renzi presso la Bnl al Senato: "Operazioni sospette". Il senatore, scrive Marco Mensurati, ribadisce che sono compensi del tutto regolari e tracciabili, avuti per attività pubbliche di cui non ha mai fatto mistero. Tuttavia qualcosa deve aver allarmato l'intelligence finanziaria di Bankitalia se hanno sentito l'esigenza di indicare quei bonifici, e solo quelli, in una Segnalazione di operazione sospetta, della cui esistenza ha dato conto il quotidiano la Verità. Tutta colpa di quel prestito "laser" di 700 mila euro che la vedova Picchioni ha concesso al senatore, con una scrittura privata davanti a un notaio, per permettergli di pagare la caparra della villa sui colli fiorentini. Occhio alle date: il 12 giugno la Pida srl, la holding dei tre fratelli Maestrelli (tra cui Riccardo, nominato nel 2014 dal governo Renzi alla Cassa Depositi e Prestiti Immobiliare), gira 700 mila sul conto della madre, dopo poche ore Anna Picchioni fa un bonifico della stessa cifra sul conto di Renzi e della moglie Agnese Landini presso il Banco di Napoli. La causale del versamento della Pida è riferita al saldo di un vecchio debito con la signora, ma - hanno calcolato gli analisti dell' antiriciclaggio - ballano 158 mila euro in più del dovuto. Quanto basta per allungare sull'operazione l'ombra della possibile violazione della legge sul finanziamento a partiti e parlamentari.
Estratto dall'articolo Luigi Franco e Thomas Mackinson per ''il Fatto Quotidiano'' l'1 dicembre 2019. Per avere Matteo Renzi? "Forty thousand euros. Quarenta, qu-a-tro siii-ro", scandiscono al telefono dalla Pro Motivate, una delle agenzie che propongono online l' ex premier come speaker. "Dovete contare anche un viaggio in business per una e a volte due persone". Tanto costa ingaggiare il fondatore di Italia Viva a una conferenza che - facciamo credere all' interlocutore - sarà in programma l' anno prossimo a Barcellona, titolo "Populismo e dinamiche economiche". Tema su cui Renzi - ci viene garantito - saprà dire la sua. Del resto "politica globale, "affari correnti", "finanza e tendenze future" sono solo alcuni degli argomenti elencati online di quello che è stato "il più giovane primo ministro in Italia e il più giovane leader del G7 ". Analogo curriculum sponsorizza l' agenzia Chartwell Speakers, ma per "appena" 25mila euro. C' è un però: a sentire l' agente che risponde da Dublino, Renzi non è la scelta più azzeccata. Di conferenzieri che possano parlare di populismo ce ne sono altri, pure meno esosi: con 16mila euro, per esempio, ti porti a casa Anne Applebaum, un premio Pulitzer che "in quanto giornalista, e non politico, può affrontare il tema in modo più indipendente di Renzi". Dalla Chartwell quasi ci convincono, spendere tutti quei soldi per Renzi non conviene. È diventato troppo caro, più dei 20mila euro di cui parlava solo un anno fa Marina Leo, responsabile per l'Italia di un'altra agenzia che vende i suoi discorsi, Celebrity Speakers. (…) Di quante conferenze parliamo? "Una cinquantina in due anni", risponde il leader di Italia Viva. In media, un ingaggio ogni due settimane in giro per il mondo. Con viaggi e preparazione dei discorsi, sembra ormai un lavoro a tempo pieno, che però non lascia tracce. Non è infatti dato sapere dove sia stato di preciso, davanti a che pubblico abbia parlato, di cosa e chi l' abbia poi pagato. "La dichiarazione dei redditi è pubblica, la lista delle conferenze no", taglia corto in uno dei messaggi che ci scambiamo nei giorni in cui la Finanza sta ricostruendo le vicende della sua fondazione Open. Dei suoi speech non c' è traccia nemmeno in rete o negli archivi dei giornali, al di là di qualche puntata a Pechino, Riad e poco altro.(…) Se va a Timbuctù o Washington pagato da industriali, fondi di investimento o lobby, lo fa privatamente o per conto del partito? "I compensi sono redditi personali, nulla va al partito", dice Renzi. "Non c' è alcun conflitto di interessi tra l' attività di conferenziere e il ruolo di parlamentare. Né problemi di opportunità che invece ci sarebbero in caso di ruolo istituzionale come ministro in carica". Tuttavia, a parlare non è un ex leader ma il capo di un partito che esprime due ministri e un sottosegretario, nonché 41 tra deputati e senatori. Da qui, il legittimo sospetto. (…) A maggio Renzi ha fondato la società Digistart, a settembre si è fatto sostituire temporaneamente nel ruolo di amministratore unico dall' amico di sempre Marco Carrai, oggi indagato nell' inchiesta sulla fondazione Open. Come mai quel fugace passaggio a cavallo del debutto di Italia Viva? "La società è stata aperta e poi chiusa per le polemiche mediatiche - rivela -. Carrai avrebbe dovuto gestire la società ma alla luce delle polemiche e dell' annuncio della chiusura ha subito lasciato la carica". La Digistart, sottolinea, non ha fatturato nulla. Renzi, invece, continua a farlo. E con gran profitto.
Marco Mensurati e Fabio Tonacci per ''la Repubblica'' l'1 dicembre 2019. Si scava nel complicato giro di denaro che ha permesso a Matteo Renzi di acquistare la villa da 1,3 milioni sulle colline fiorentine. E a finire sotto indagine non è solo il prestito da 700 mila euro ricevuto dalla madre di imprenditori amici, ma anche i cachet che il leader di Italia Viva ha percepito per le sue attività di conferenziere, autore e personaggio televisivo. Dunque, con ordine. L' Unità antiriciclaggio della Banca d' Italia, alla fine dello scorso anno, ha segnalato alla Guardia di Finanza una serie di bonifici arrivati sul conto corrente aperto da Renzi presso la Bnl al Senato: "Operazioni sospette". Complessivamente si tratta di circa 673 mila euro, che sono serviti per restituire il prestito alla generosa Anna Picchioni, vedova di Egiziano Maestrelli, lo storico patron della Lucchese calcio legato a Matteo Renzi da un' amicizia di vecchia data. Nell' elenco dei bonifici sospetti ci sono i 119 mila euro ricevuti da Celebrity Speakers e Minds Agency, i 454 mila della Arcobaleno 3 srl (la società del manager dei vip Lucio Presta) e i circa 100 mila provenienti dal fondo inglese Algebris del finanziere Davide Serra, per tre speech (due in Italia, uno a Londra) tenuti da Renzi dopo le sue dimissioni da premier. Il senatore ribadisce che sono compensi del tutto regolari e tracciabili, avuti per attività pubbliche di cui non ha mai fatto mistero. Spicca, ovviamente, il quasi mezzo milione di euro corrispostogli dalla Arcobaleno 3 Srl per il documentario in quattro puntate "Firenze secondo me", andato in onda lo scorso dicembre sulla Nove con uno share che non ha superato il 2,2 per cento. Di quel documentario, però, Renzi non era solo il narratore, ma anche il conduttore, l' ideatore e l' autore, quindi l' elevato compenso si può spiegare anche così. Tuttavia qualcosa deve aver allarmato l' intelligence finanziaria di Bankitalia se hanno sentito l' esigenza di indicare quei bonifici, e solo quelli, in una Segnalazione di operazione sospetta, della cui esistenza ha dato conto il quotidiano la Verità . La Sos sui cachet di Renzi risale alla fine del 2018 ed è stata trasmessa al Nucleo di polizia economico- finanziaria di Firenze, che già stava lavorando sui movimenti di denaro attorno all' acquisto della casa da 11 vani e 285 metri quadrati di via Tacca, zona di pregio vicina al panoramico Piazzale Michelangelo. Nonostante sulla vicenda la procura di Firenze abbia aperto un fascicolo modello 45, quindi senza indagati né ipotesi di reato, le carte di Bankitalia sono state allegate a un altro procedimento (numero 13966/2017 del Registro generale delle notizie di reato), che riguarda la bancarotta della Coam, società del costruttore Andrea Bacci. Il motivo è che Bacci, oltre a far parte del Giglio Magico di Renzi, ha intessuto relazioni di tipo imprenditoriale con la famiglia Maestrelli, finita anch' essa in un precedente report dell' antiriciclaggio di Bankitalia. Tutta colpa di quel prestito "laser" di 700 mila euro che la vedova Picchioni ha concesso al senatore, con una scrittura privata davanti a un notaio, per permettergli di pagare la caparra della villa sui colli fiorentini. Occhio alle date: il 12 giugno la Pida srl, la holding dei tre fratelli Maestrelli (tra cui Riccardo, nominato nel 2014 dal governo Renzi alla Cassa Depositi e Prestiti Immobiliare), gira 700 mila sul conto della madre, dopo poche ore Anna Picchioni fa un bonifico della stessa cifra sul conto di Renzi e della moglie Agnese Landini presso il Banco di Napoli. La causale del versamento della Pida è riferita al saldo di un vecchio debito con la signora, ma - hanno calcolato gli analisti dell' antiriciclaggio - ballano 158 mila euro in più del dovuto. Quanto basta per allungare sull' operazione l' ombra della possibile violazione della legge sul finanziamento a partiti e parlamentari.
Francesco Grignetti per ''la Stampa'' il 30 novembre 2019. È un rapporto che viene da lontano, quello tra Matteo Renzi e Riccardo Maestrelli, l' imprenditore fiorentino che ha prestato i famosi 700mila euro all' ex premier. Si può fissare una prima data al maggio 2009. Renzi è il giovane ambizioso presidente della provincia che cerca di dare la scalata al capoluogo e Maestrelli il figlio del più famoso Egiziano, uno che si è fatto da solo con una catena di supermercati (poi ceduti), la trasformazione e vendita di frutta all' ingrosso, le società immobiliari, gli hotel di lusso in Versilia, e senza dimenticare la Lucchese calcio. Ebbene nel 2009 Riccardo Maestrelli si dà un gran daffare per la campagna elettorale del giovanotto di Rignano. Organizza e paga le spese per una cena di lusso all' hotel Hilton da cento coperti, dove gli imprenditori cittadini si autotasseranno di 1000 euro ciascuno per essere a tavola con il candidato sindaco. In quell' occasione, chiamava all' appello il suo amico Riccardo Fusi, un altro immobiliarista, poi finito nei guai: «Devo fare l' esattore...Sicchè devo raccattare un po' di persone». L'uomo è schivo. Di sue interviste, poche. Diceva nel 2011 alla Gazzetta di Lucca, mentre s' ipotizzava un ritorno della famiglia al calcio: «Io penso che i politici facciano un mestiere difficile e che in questo momento la percezione della gente verso la politica è assolutamente negativa. Personalmente, penso che se la politica fosse fatta nella maniera giusta sarebbe una cosa bella». A Riccardo Maestrelli piace la bella politica, insomma. E gli piace Matteo Renzi. Nell' estate del 2014, per ritemprarsi dalle fatiche di palazzo Chigi, l' amico premier passa la settimana di Ferragosto in un suo resort di lusso in Versilia, il "Villa Roma Imperiale". Desta scandalo all' epoca, e lo scatenatissimo Alessandro Di Battista ci impiantò pure un' interrogazione parlamentare, lo sconto di cui la famiglia Renzi beneficia. Ma forse ai grillini interessava soprattutto alzare i toni. Tempo qualche mese, e Riccardo Maestrelli viene catapultato da Renzi nel cda di una società minore di Cassa Depositi e Prestiti, la Cdp Immobiliare srl. Sconosciuta ai più, questa srl detiene in portafoglio circa 200 grandi immobili che un tempo erano dello Stato, poi transitati all' Iri, di qui a Fintecna, e ora a Cdp. Valore stimato, circa 2 miliardi di euro. Quel cda, tecnicamente in fase di transizione perché le nuove nomine sono state annunciate pochissimi giorni fa, gestisce grandi operazioni immobiliari: per la riconversione della ex Manifattura Tabacchi di Firenze, opera pregevole dell' architetto Nervi alle Cascine, stringe accordi con un grande fondo immobiliare inglese, Aermont, e ne sta nascendo un Centro polifunzionale; a Roma, la ex Dogana di San Lorenzo diventerà uno studentato di lusso in partnership con gli olandesi di Tsh; il tentativo di trasformare in hotel l' ex Poligrafico dello Stato, sempre a Roma, in piazza Verdi, è fallito quando la multinazionale Four Season all' ultimo si è tirata indietro e ora si avvia a diventare una sede per l' Enel. Grandi affari, insomma, per uno snello organismo che sfugge alla vetrina. Nel frattempo, come ha scoperto L' Espresso, i Maestrelli versano, con più bonifici, ben 300 mila euro alla fondazione renziana Open. E nel giugno 2018 anticipano i 700 mila euro (passando per il conto dell' anziana madre) che a Renzi servono come caparra per l' acquisto della nuova villa di Firenze. I soldi vengono rimborsati nel giro di quattro mesi, quando l' ex premier potrà incassare 120 mila euro da un giro di conferenze e soprattutto altri 450 mila come compenso per il documentario "Firenze secondo me", prodotto dal nuovo amico Lucio Presta, l' agente che più conta in tv. Il documentario non ha gran fortuna. Mediaset lo rifiuta perché ritiene esorbitante la richiesta di 3 milioni di euro per i diritti. Così anche la Rai. Finirà sui canali Discovery (e chissà quanto c' entra che la manager Marinella Soldi, fiorentina, nel 2013 fosse stata una candidata di Renzi per la Rai) e come audience è un flop. Ma il rapporto con Presta si stringe ancor di più, tanto che è lui, uomo di televisione, a gestire il palco della Leopolda 9 e sarà il suo pupillo Paolo Bonolis a intervistare Renzi nel gran finale. Questo vorticoso giro di soldi ha generato una segnalazione dell' Unità informazioni finanziarie presso Bankitalia.
Dagospia il 30 novembre 2019. Riceviamo e pubblichiamo: Egregio Direttore, Riguardo l’articolo odierno di Francesco Grignetti sul Vostro giornale, tengo a precisare che la decisione di trasmettere il documentario ‘Firenze secondo me’, di Matteo Renzi, e la relativa negoziazione dei diritti, sono avvenute successivamente alla mia uscita dal gruppo Discovery, divenuta effettiva il 1 ottobre 2018. Non ho pertanto avuto alcun ruolo in tali decisioni aziendali. Cordiali saluti, Marinella Soldi.
Dagospia il 30 novembre 2019. Scontro a “L’aria che tira” (La7) tra i giornalisti Maria Teresa Meli (Il Corriere della Sera) ed Emiliano Fittipaldi (L’Espresso) sulla vicenda che ha coinvolto Renzi e la sua fondazione. Meli osserva: “Secondo me, c’è un problema di opportunità politica, perché sappiamo che Renzi è nel mirino di tante persone. I due pm di Firenze che si stanno occupando di questo caso sono gli stessi che si sono occupati prima dei genitori di Renzi e poi di un altro suo parente. Insomma, Renzi è molto attenzionato dalla Procura di Firenze e quindi forse se lo poteva risparmiare per opportunità politica. Renzi non ha fatto nulla, perché ovviamente non è che uno si fa corrompere facendosi prestare 800mila euro per restituirli 5 mesi dopo. Non c’è proprio assolutamente nulla di strano“. E aggiunge: “C’è sicuramente un problema di opportunità politica, perché in Italia funziona così: le Procure ti possono uccidere. Adesso tutti noi diamo per sicuro questo o quell’altro sulla fondazione Open, ma voglio ricordare che l’Italia è il Paese dove Marcello De Vito (ex presidente M5s dell’Assemblea Capitolina, , arrestato per l’accusa di corruzione nel marzo scorso in uno dei filoni dell’indagine sul nuovo stadio della Roma ndr) è andato in galera e tutti i giornali hanno scritto che prendeva tangenti. E adesso De Vito è tornato al suo posto. Questo Paese è l’Italia”. Insorge Fittipaldi: “Ma devono ancora fare il processo, Meli”. Meli continua: “Io credo che in Italia bisogna stare attenti non solo alle questioni di opportunità politica, ma anche al pericolo che si faccia scempio dello Stato di diritto, con tutti che tacciamo, giornalisti e politici. Capisco che l’Italia sia poco avvezza a questa cosa, tanto che gli unici che ne parlano Radicali. Lo Stato di diritto in Italia non esiste“. “Veramente è tutto il contrario – commenta Fittipaldi – L‘Italia è uno dei Paesi più corrotti dell’Europa, ahimè. E ha la più alta evasione fiscale“. “Ma che cosa c’entra? Io sto parlando di Stato del diritto – protesta Meli – Il fatto che l’Italia sia un Paese corrotto implica che debba diventare una Repubblica delle banane, come sta diventando?”. La polemica si replica anche quando viene mostrata una sintesi grafica della vicenda su Renzi e su Open. Meli contesta la ricostruzione, Fittipaldi le ricorda che la stessa spiegazione è stata pubblicata oggi sul Corriere della Sera a firma di Fiorenza Sarzanini.
Sarah Buono per ''il Fatto Quotidiano'' l'1 dicembre 2019. È uno show a tutto campo quello di Matteo Renzi a Bologna. Contro la magistratura che "vuole decidere cosa sia politica e cosa no", contro la stampa, "intitolerò a Marco Travaglio un' aiuola nella mia nuova villa", ma soprattutto contro il Pd. "Lo dico a chi fa finta di niente, a chi fischietta e gode delle difficoltà di Open: questa storia riguarda più voi che noi, perché noi abbiamo i bilanci totalmente trasparenti, non tutti possono dire la stessa cosa". Dal palco del teatro delle Celebrazioni, davanti a 400 persone, il leader di Italia Viva ha attaccato gli ex compagni di viaggio, a partire da Luigi Zanda, tesoriere dem. Sul mega schermo appare l' intervista rilasciata a Repubblica: "Raccolse 7 o 8 milioni convogliandole alla Fondazione Open che finanziava le sue attività politiche, una evidente situazione di conflitto". Dalla platea parte un brusio, Renzi ride, "buoni", calma gli animi e poi affonda: "Chi gliel' ha pagata la campagna elettorale a Zanda? In modo regolare, con un bonifico trasparente, potrebbe venire fuori che ha ricevuto dei soldi da Carlo De Benedetti. Esattamente come la fondazione Open, credo sia trasparenza e aiuto di un imprenditore importante a chi si fida". Nel 2018 l' Ingegnere fece una donazione di 15mila euro a Zanda, ex componente del cda del gruppo Espresso. Un fatto acclarato, diverso dall' ipotesi, al vaglio dei pm fiorentini, di finanziamento illecito. Poi tocca a Ugo Sposetti, tesoriere nazionale Pd, già attaccato dal deputato di Italia Viva Mauro Del Barba per la gestione delle fondazioni. Per Renzi "si sta criminalizzando chi fa politica, solo Silvio Berlusconi allora può farla, così si tagliano il ramo dell' albero su cui sono seduti". La terza slide è dedicata al Fatto Quotidiano, un' intervista ad Alessandro Di Battista del M5S . "Questo signore è lo stesso che ha ricevuto un lungo contratto dallo stesso giornale che lo intervista? Per me è tutto trasparente, va bene, ma se qualcuno dicesse che i denari che ha ricevuto non sono per una prestazione professionale? A me sembrerebbe di sognare eppure è la stessa cosa che viene contestata ad alcuni dei nostri". L'ultimo pensiero è dedicato a Liberi e Uguali, "ve lo ricordate quel partito? Quelli che dicevano che Renzi e Salvini erano uguali", reo di aver proposto un emendamento per posticipare di un anno la legge che equipara fondazione e partiti. "Non permetteremo che si faccia i moralisti contro di noi quando si presentano gli emendamenti di nascosto nel silenzio di tutti, invito anche il M5S a votare contro. Forse c' è qualche fondazione che ha qualche amico di Leu?". La chiusa è epica: "Male non fare, paura non avere".
Adnkronos l'1 dicembre 2019. "Il governo è oggettivamente una risposta a un'emergenza, ma il dopo? Chi ama la politica non può star fermo ad assistere al caos che gli altri creano. E' bellissimo vedere la piazza piena, a gridare 'noi non ci stiamo'. E' tutto bello, ottimo, bravo. Ma accanto alle sardine servono anche i salmoni, quelli capaci di andare controcorrente, per raccontare la verità a questo Paese. Ecco, noi siamo i salmoni che vanno controcorrente rispetto all'ondata di populismo che avanza in tutto il paese; un populismo economico, culturale e giudiziario. La responsabilità non è dire solo no a Salvini". Lo ha detto l'ex premier Matteo Renzi intervenendo alla convention di Italia Viva a Pistoia. "A maggior ragione oggi - aggiunge -, noi siamo sorridenti e allegri quando qualcuno vorrebbe farci venire il nervoso e in qualche momento ci riesce anche". Poi l'attacco sul caso Open: "Non tocca ai magistrati decidere cosa fosse la Leopolda". Alla convention toscana, secondo gli organizzatori, hanno partecipato circa 400 persone. Per Renzi è stato un trionfo e il suo intervento, di oltre mezz'ora, è stato contrassegnato da continui applausi. Al termine della convention, che si è tenuta nella serra di un vivaio, uno tra i più grandi di Europa, l'ex premier si è concesso per numerosi selfie. Il leader di Italia Viva era accompagnato dalla moglie Agnese Landini, che ha seguito l'intervento del marito seduta in prima fila. "Se qualcuno ha fatto reati giudicatelo, ma non potete considerare la Leopolda un reato perché la Leopolda è politica. I politici rispettano la magistratura ma la magistratura deve rispettare l'autonomia della politica", spiega l'ex premier parlando dell'indagine in corso sulla Fondazione Open. "Vogliono giudicare non sul reato ma su cosa è la Leopolda - ha proseguito Renzi -. Non tocca ai magistrati decidere cosa fosse la Leopolda. Ve lo diciamo noi cos'è la Leopolda: è la più grande manifestazione politica degli ultimi dieci anni, di donne e uomini che credono nella politica e se la sono finanziata per il loro tempo, per la loro passione". "Rivendichiamo la libertà di fare politica senza chiedere il permesso a qualcuno che deve giudicare dal punto di vista della magistratura, perché non è così in democrazia, non decidono i magistrati", ha detto ancora Renzi. "Faccio una richiesta sommessa a chi sta indagando, ricordando che abbiamo fatto delle denunce anche noi. Ho deciso - spiega ancora il leader di Italia Viva - di ribattere colpo su colpo e c'è qualcuno che ha cominciato a chiedere scusa. Ai magistrati della procura di Firenze noi diciamo buon lavoro. C'è una mia denuncia penale presentata venerdì scorso per sapere chi ha rivelato notizie coperte da segreto istruttorio e bancario. Vorrei però sapere dal procuratore dottor Giuseppe Creazzo chi ha diffuso il materiale coperto da segreto bancario e istruttorio". "E' facile scoprirlo - sostiene -, perché i soggetti sono tre: Banca d'Italia, ma non credo proprio, la procura di Firenze, ma non credo e nel caso dovrebbe indagare la procura di Genova, e la Guardia di Finanza - ha sostenuto Renzi -. Domando di sapere chi sono i responsabili della fuga di notizia. Mi affido al dottor Creazzo di perseguire la fuga di notizie. Credo nella giustizia, credo nel dottor Creazzo". A Renzi "non fa paura niente: male non fare, paura non avere. A me possono guardare tutto. Io non difendo me stesso, possono guardare tutto di me, ma combatterò e combatteremo come Italia Viva perché le condizioni di civiltà per i cittadini siano garantite e non si diventi un paese sudamericano". "Quando in questo paese qualcuno può entrare dentro i conti correnti, qualcuno può perquisire persone oneste la mattina alle 7, con 300 finanzieri che potevano fare altro ed è stato deciso che dovessero fare quella cosa lì, io non pongo un 'ma' per me - ha aggiunto Renzi -. Io sono trasparente anche oltre i miei doveri istituzionali. Ma in questo paese non è permesso a nessuno, nè alla stampa nè alla magistratura di entrare nella vita delle persone per distruggerla. Rinuncio a ogni privilegio come parlamentare, ma loro devono rispettare i diritti dei cittadini". Poi Renzi passa al programma: "Abbiamo questo governo da sostenere e continueremo a fare proposte concrete e puntuali. Le polemiche non ci interessano. La prima proposta è il piano 'Italia Shock', con 120 miliardi di euro bloccati nei cassetti della pubblica amministrazione. Se i soldi ci sono e li tieni fermi per tua incapacità mentre il Paese è bloccato, questo è un disastro. Altro che reddito di cittadinanza, facciamo lavorare le persone, apriamo i cantieri". Italia Viva, spiega ancora l'ex premier, "chiede al governo di far sbloccare cantieri per 120 miliardi di euro in tre anni. Noi su questo ci faremo sentire". "Da gennaio Italia Viva avrà un camper che girerà la Toscana, casa per casa, comune per comune, a spiegare che Iv non si arrende di fronte alla paura", annuncia. "Sarà il camper che farà la differenza alle elezioni". "In Toscana saremo a doppia cifra - ha sostenuto Renzi - saremo decisivi per la vittoria alle elezioni regionali e in Toscana ci divertiremo 'un monte' da qui ai prossimi sei mesi". "E' la prima volta - ha affermato rivolto agli esponenti toscani - non facciamo brutte figure". E ancora: "Ci attendono sei mesi di campagna elettorale a tappeto. E avremo ancora più polemiche, non abbiamo difficoltà perché ci lega un entusiasmo che è difficile da contenere, l'entusiasmo di chi dice che la politica è una cosa seria. Questo si chiama fare politica e nessuno potrà giudicare il nostro diritto dovere di mettersi in gioco, ciascuno di noi, per provare a rendere questo paese più bello di com'è. Questa Regione è difficile farla più bella di com'è, ma c'è ancora possibilità di crescita"
Italia Viva: esposti in tutta Italia per chiedere di indagare sulle fondazioni. Dopo l'inchiesta su Open una decina di parlamentari del partito di Renzi presenterà la richiesta nelle procure delle principali città italiane. Ernesto Ferrara l'01 dicembre 2019. Una raffica di esposti firmati da deputati e senatori di Italia Viva indirizzati alle principali Procure del Paese per chiedere di indagare su tutte le fondazioni politiche italiane, da Milano a Roma a Napoli. Reagisce e rilancia, Matteo Renzi. Le indagini dei magistrati di Firenze sulla fondazione Open e sul prestito da 700 mila euro ricevuto dalla famiglia Maestrelli per l’acquisto della sua casa lo assediano e l’ex premier organizza la controffensiva. Ieri da Pistoia al procuratore capo di Firenze Giuseppe Creazzo ha chiesto di indagare sulla denuncia da lui già presentata per sapere chi ha diffuso documenti relativi al suo conto corrente: “Ci sono tre ipotesi, tre buste, la uno la due o la tre? Banca d'Italia, Procura di Firenze o Guardia di finanza. Domando di sapere chi sono i responsabili della fuga di notizia. Mi affido al dottor Creazzo perchè persegua la fuga di notizie. Credo nella giustizia". Ma è anche su Open che il leader di Italia Viva vuole insistere. Una delle mosse del contrattacco che sta preparando prevede segnalazioni alle procure italiane perché indaghino a tappeto su tutte le fondazioni politiche. L’ex premier ha iniziato a discuterne nel weekend coi parlamentari del suo nuovo partito e le prime carte potrebbero partire già nei prossimi giorni, per chiedere che si faccia luce sulla provenienza dei fondi, la quantità, il modo in cui i denari vengono spesi da ognuno di questi soggetti. “In Open tutti i finanziamenti sono stati fatti con bonifico, sono tutti tracciabili. E gli altri?".
Pistoia, Renzi: "La procura indaghi su chi ha diffuso il mio conto bancario". E l'ex premier chiede al procuratore di indagare. Alla convention di Italia Viva, lungo intervento per spiegare l'inchiesta che riguarda Open: "La magistratura deve rispettare l'autonomia della politica". Laura Montanari ed Ernesto Ferrara l'1 dicembre 2019. "Non tocca ai magistrati stabilire cosa sia la Leopolda, la Leopolda è politica". Così dice Matteo Renzi a Pistoia parlando alla convention di Italia viva in riferimento all'inchiesta sulla fondazione Open, la cassaforte della convention renziana chiusa nel 2018. "Alla procura di Firenze chiedo di indagare, perché non ho niente da nascondere", "ma anche io ho presentato una denuncia venerdì per sapere chi ha diffuso documenti relativi al mio conto corrente bancario e allora chiedo di indagare anche su quello". Renzi vuole sapere chi possa avere diffuso quei suoi dati sensibili e fa tre ipotesi: "La Banca d'Italia, non credo proprio. La procura di Firenze, la escluderei perché indagherebbe Genova. La guardia di finanza..." . Il leader di Iv chiede al procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo di indagare per perseguire la fuga di notizie: "Domando di sapere chi sono i responsabili della fuga di notizia. Mi affido al dottor Creazzo di perseguire la fuga di notizie. Credo nella giustizia, credo nel dottor Creazzo". Sui finanziamenti spiega: "Tutti i finanziamenti sono stati fatti con bonifico, sono tutti tracciabili" e più avanti:. "Se qualcuno ha fatto reati giudicatelo, ma non potete considerare la Leopolda un reato perchè la Leopolda è politica. I politici rispettano la magistratura ma la magistratura deve rispettare l'autonomia della politica". Renzi difende la Leopolda, sostiene sia sotto attacco della magistratura: "Vogliono giudicare non sul reato ma su cosa è la Leopolda. Non tocca ai magistrati decidere cosa fosse la Leopolda. Ve lo diciamo noi cos'è la Leopolda: è la più grande manifestazione politica degli ultimi dieci anni, di donne e uomini che credono nella politica e se la sono finanziata per il loro tempo, per la loro passione". In quattrocento si sono ritrovati in un vivaio pistoiese scelto per presentare in Toscana Italia Viva. Applausi e selfie. Nella grande serra, completamente gremita di sostenitori ed esponenti di Iv, c'erano Ettore Rosato, vice presidente della Camera e coordinatore nazionale di Iv, Maria Elena Boschi, capogruppo alla Camera di Iv, il senatore Francesco Bonifazi, l'europarlamentare Nicola Danti, il deputato Gabriele Toccafondi. "Il governo è oggettivamente una risposta a un'emergenza, ma il dopo? Chi ama la politica non può star fermo ad assistere al caos che gli altri creano. E' bellissimo vedere la piazza piena, a gridare 'noi non ci stiamo'. E' tutto bello, ottimo, bravo. Ma accanto alle sardine servono anche i salmoni, quelli capaci di andare controcorrente, per raccontare la verità a questo paese. Ecco, noi siamo i salmoni che vanno controcorrente rispetto all'ondata di populismo che avanza in tutto il paese; un populismo economico, culturale e giudiziario. La responsabilità non è dire solo no a Salvini". Renzi ha poi annunciato che in Toscana per le regionali metterà in strada un camper per girare comune per comune e prevede di portare Italia viva in doppia cifra.
Inchiesta Open, le prove restino al riparo dei gossip. Giulia Merlo il 28 Novembre 2019 su Il Dubbio. L’auspicio, allora, non può essere che il seguente: che i pm ( come non fu per l’altro processo che investì Renzi) scelgano in tutto e per tutto la strada delle garanzie processuali. L’inchiesta giudiziaria su Open è partita e, tra gli oggetti sequestrati nelle venti perquisizioni avvenute su tutto il territorio nazionale ai finanziatori della fondazione renziana, alcuni fanno più paura di tutti: i telefoni. Bombe a orologeria da taschino, se ciò che contengono finisse nelle mani sbagliate: non certamente quelle dei magistrati ma quelle della stampa, che mai si ferma dal pubblicare atti coperti da segreto istruttorio ( magari per nulla inerenti la vicenda giudiziaria in sè, ghiotti però sul versante del retroscena politico). Del resto sono stati in molti, ieri, a scrivere come Matteo Renzi sia preoccupato non tanto per i risvolti penali dell’inchiesta ( che lui considera quasi nulli), quanto per il danno politico che potrebbe derivargli proprio dalla rivelazione di cosa è conservato dentro a quei telefoni. Non le prove di eventuali reati, ma le evidenze di trame politiche, antipatie personali, giudizi espressi via chat o messaggi vocali agli amici, proprietari degli apparecchi sequestrati. Basterebbe la pubblicazione anche solo di una manciata di questi contenuti per mettere più che in difficoltà non solo Matteo Renzi, ma anche la sua nuova creatura Italia Viva e, di riflesso, lo stesso governo. Del resto ben potrebbe succedere che qualcuna di queste conversazioni finisca allegata nero su bianco agli atti dell’indagine, considerando che al vaglio della magistratura c’è proprio l’ipotesi che «la fondazione Open abbia agito come articolazione di partito politico». L’auspicio, allora, non può essere che il seguente: che i pm ( come non fu per l’altro processo che investì Renzi) scelgano in tutto e per tutto la strada delle garanzie processuali. La prima, quella della segretezza degli atti d’indagine e soprattutto la distruzione delle risultanze non rilevanti sotto il profilo penale. Sarebbe, questo, il modo per dare applicazione alle disposizioni del codice penale e di procedura penale, ma anche per riappacificare non tanto le parti in causa – Matteo Renzi che li ha sgradevolmente inseriti in un post rabbioso e i magistrati che su di lui stanno indagando quanto i soggetti costituzionalmente rilevanti che essi rappresentano: la politica e la magistratura.
Ecco perché Renzi ha denunciato i magistrati della procura di Firenze. Giovanni M. Jacobazzi il 30 Novembre 2019 su Il Dubbio. L’ex premier sostiene di non aver presentato alcun esposto contro i pm fiorentini ma la denuncia presentata a Genova dice il contrario. «Non faccio nessun esposto contro i magistrati, mi stupisco. I magistrati hanno dovere di indagare su tutti, c’è l’obbligatorietà dell’azione penale. Ho rivolto al procuratore capo di Firenze la richiesta di indagare sui fatti». Ha dichiarato ieri Matteo Renzi in una intervista, cercando, evidentemente, di smorzare le polemiche scatenatesi dopo alcune sue affermazioni del giorno prima. In particolare, come riportato sul suo profilo Fb, di aver presento due denunce «indirizzate al dottor Creazzo e – per competenza – al Procuratore capo di Genova per rivelazione di segreto bancario o istruttorio alla luce degli articoli della Verità e dell’Espresso». La Procura di Genova è competente sui procedimenti relativi ai reati commessi dai magistrati toscani. Aver presentato una denuncia alla Procura del capoluogo ligure è, dunque, un chiaro indizio che i reati citati da Renzi, la violazione del segreto bancario o istruttorio, con la pubblicazione di vari articoli stampa, sarebbero stati, per l’ex presidente del Consiglio, commessi dai magistrati fiorentini titolari del fascicolo. Se cosi non fosse, la Procura di Genova rispedirebbe al mittente le denunce, dichiarandosi incompetente a procedere. Con un particolare: la violazione del segreto istruttorio è un reato procedibile d’ufficio, non c’è bisogno di alcuna denuncia da parte del soggetto danneggiato, essendo un reato contro la pubblica amministrazione. Renzi non ha al momento reso noto il contenuto di queste denunce inviate alla Procura di Genova. Forse per non rendere il clima ancora più incandescente. Sulla fuga di notizie relativa all’indagine sulla Fondazione Open era intervenuto anche l’onorevole di Forza Italia, ed componente del Csm, Pierantonio Zanettin, con una interrogazione al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Le dichiarazioni di Renzi contro i magistrati fiorentini erano state duramente stigmatizzate dall’Associazione nazionale magistrati. Dichiarazione che suscitano “indignazione” avevano scritto i dirigenti dell’Anm, non citando mai il nome di Renzi. Lo stesso Csm aveva subito aperto una pratica a tutela nei confronti delle toghe fiorentine.
Matteo Renzi attacca i magistrati che indagano sulla Fondazione Open: «Io oggetto di attenzioni speciali da parte di qualche magistrato». Report Rai 28 novembre 2019. Report in questi mesi ha indagato sul mercato delle toghe che hanno visto coinvolto Luca Palamara, ex presidente dell’Anm, Luca Lotti e Cosimo Ferri, deputato di Italia Viva. Emergono conversazioni confidenziali in cui la politica cerca di influenzare la magistratura. Cinque consiglieri del Csm, Luca Lotti del Pd, l'ex magistrato Cosimo Ferri, oggi in Italia Viva e il magistrato Luca Palamara, vengono registrati dalla Guardia di Finanza mentre discutono di pilotare la nomina del capo della Procura di Roma. «L'operazione era quella di votare Viola», ci ha chiaramente spiegato Luca Palamara. Marcello Viola, è l'attuale procuratore generale di Firenze, ma in lizza per la poltrona di capo a Roma c'era anche Giuseppe Creazzo, capo della Procura di Firenze che ha indagato e portato ai domiciliari i genitori di Renzi per bancarotta fraudolenta ed emissione di fatture false e indagato la Fondazione Open di Matteo Renzi. Solo pochi giorni prima l'incontro del 9 maggio tra Palamara, Lotti e Ferri esce la notizia di un esposto a Genova contro Creazzo da parte di un altro collega. Ed è di questo che discutono ipotizzando di usare l'esposto contro l'attuale capo della procura di Firenze. Luca Lotti intercettato si spinge a dire: «Bisogna fa almeno guerra»” con riferimento al capo di Firenze, Giuseppe Creazzo.
Simone Di Meo per ''La Verità'' il 29 novembre 2019. Il cavallo di Trojan nella retromarcia di Matteo Renzi, il giorno dopo l'attacco ad alzo zero contro i magistrati fiorentini, è nelle pagine dell'inchiesta di Perugia sul pubblico ministero Luca Palamara, spiato da un virus informatico mentre manovrava uomini e voti attorno alla nomina del prossimo procuratore di Roma. Già a maggio, infatti, i brogliacci dell'indagine per corruzione (ancora in corso) sull'ex presidente dell' Anm tratteggiavano un clima di insofferenza di due deputati del Pd di stretto rito renziano, Luca Lotti e Cosimo Ferri, nei confronti del capo dell' ufficio giudiziario fiorentino, Giuseppe Creazzo. Lo stesso che, all' esplosione dell' inchiesta sulla fondazione Open, è stato accusato dall' ex premier di protagonismo. «Un tempo i magistrati della Procura di Firenze erano famosi perché davano la caccia al mostro di Scandicci, oggi l' attenzione è più sul senatore di Scandicci...», ha graffiato Renzi mercoledì scorso, salvo poi correggere il tiro 24 ore dopo («Credo nella giustizia e nei magistrati di Firenze») annunciando un bel po' di querele. Restano però - catturati dal virus Trojan - i giudizi e i tentativi di destabilizzare il lavoro del capo dei pm del capoluogo toscano durante le sedute carbonare tra un magistrato, ormai ex gran regista del Csm, Palamara appunto, e i due parlamentari del Partito democratico. «Gli va messa paura», suggerisce Palamara in una riunione notturna tra l' 8 e il 9 maggio scorsi, poco prima che le notizie sul suo procedimento iniziassero a inondare le pagine dei giornali. Il pubblico ministero romano, trasferito in via precauzionale al tribunale dell' Aquila, con tutta probabilità si riferiva all' esposto che un pm fiorentino aveva presentato, un annetto prima, a Genova contro i suoi superiori, Creazzo e Luca Turco. Quest' ultimo procuratore aggiunto che coordina i diversi filoni d' indagine sulla dinasty fiorentina. Perché tanta attenzione per quella denuncia da parte di Palamara? I «congiurati» speravano che quella contestazione potesse portare a una svalutazione di Creazzo in vista della gioco grande per la poltronissima di piazzale Clodio, a cui era candidato. La realtà è che Creazzo a Genova (sede competente per procedimenti penali che riguardano magistrati del distretto giudiziario di Firenze) non è mai stato indagato, a differenza di un pm fiorentino accusato di aver giustificato un diniego a una richiesta di intercettazioni adducendo motivazioni troppo personali e di tre finanzieri. È un fatto però che emerge dai verbali che i renziani erano interessati a ogni tipo di notizia in arrivo dal capoluogo ligure. La fortuna però non li ha assistiti. Non solo non si sono verificate fughe di notizie ma il procuratore genovese Francesco Cozzi ha «blindato» letteralmente il fascicolo inviando poche e generiche informazioni finanche al Consiglio superiore che aveva chiesto delucidazioni sull' esposto. E, probabilmente per la difficoltà di muoversi a tentoni, Lotti si confidava con Palamara: «...Però, roba di Firenze, Luca... davvero...per me è importante capì che succede... perché... se è seria... ovviamente io (inc.) cioè non si parla di Roma... si parla che se è serio va via da... Firenze... se non è serio, non va via da Firenze, a me guarda... nessuno cerca (inc) nulla... però bisogna fa' almeno la guerra...». Ecco l' obiettivo dei renziani quattro mesi prima che esplodessero i casi della fondazione Open e della supervilla pagata con un prestito di un amico-finanziatore: dichiarare battaglia alle toghe. E Creazzo non è una toga qualunque. Pur essendo arrivato, nel 2014, alla guida degli inquirenti fiorentini quando a Palazzo Chigi sedeva proprio Matteo Renzi, si è immediatamente dimostrato assai attento alle molteplici attività della famiglia del premier. Il suo ufficio, oltre ad aver ottenuto il 18 febbraio scorso l'arresto di Tiziano Renzi e Laura Bovoli, genitori di Matteo, ne ha messo sott' inchiesta anche il cognato, Andrea Conticini, e i fratelli nel fascicolo sui milioni dell' Unicef destinati ai bambini dell' Africa e dirottati invece su conti correnti personali. Sempre a Firenze sono aperti, come detto, pure l' inchiesta sulla fondazione Open e il procedimento penale numero 13966/2017 che raccoglie due segnalazioni dell' Unità antiriciclaggio della Banca d' Italia in relazione al prestito di 700.000 euro (restituito) che Renzi ha ottenuto dalla famiglia Maestrelli per l' acquisto della sua magione da 1,4 milioni di euro in via Tacca. Dalle intercettazioni, dunque, emerge chiaramente l' intenzione dei renziani non solo di cavalcare politicamente l' esposto (magari sfruttando giornali amici) ma anche di impedire che Creazzo potesse ambire a guidare i pm di Roma dove - coincidenza - si trova sotto processo, per l' affare Consip, proprio Luca Lotti. Al posto del procuratore Giuseppe Pignatone, andato in pensione, i «congiurati» avrebbero preferito il procuratore generale di Firenze, Marcello Viola (ovviamente ignaro delle macchinazioni ordite dai suoi sostenitori). «L' ha detto Creazzo mai...», sbottava Lotti in un' altra intercettazione ambientale. A chi si riferiva? E aggiungeva alludendo al relatore che avrebbe firmato la motivazione a favore di Viola: «Occhio a come (la) scrive... eh...quindi si vede che qualcuno gli ha detto che se scrive in un certo modo, Lo Voi (altro candidato alla carica di procuratore a Roma, viene da Palermo, ndr) fa appello».
Fondazione Open, Matteo Renzi e le due "magistrature interventiste": così i pm tengono in mano il paese. Libero Quotidiano il 29 Novembre 2019. Matteo Renzi è il principale protagonista delle chiacchiere della maggioranza dei parlamentari della Camera dei deputati. Davanti a una colazione dietetica alla buvette di Montecitorio, i politici si interrogano sulla nuova offensiva giudiziaria sulla politica. C'è chi parla di "politica debole". Lo dicono i leghisti, a cominciare da Matteo Salvini, che pure sono avversari di Renzi, scrive Augusto Minzolini sul Giornale in edicola il 29 novembre. Non lo dicono i grillini che sono il frutto del masochismo che da trent'anni ha contagiato la classe dirigente del Paese e che ha visto le stagioni cadenzate dalle inchieste giudiziarie: da Tangentopoli a Berlusconi, alla Lega, fino a quelle che sfiorano da tutte le parti Salvini (quella sui 49 milioni di finanziamento pubblico puntava a far fuori il Carroccio dal panorama politico) o hanno nel mirino Renzi (quella sulla Fondazione Open mira ad uccidere Italia Viva nella culla). La questione centrale resta il finanziamento della politica, ma non solo. La vittima del momento viene lasciata sola, anche se il meccanismo perverso poi può essere usato, a seconda del momento, contro tutti. E torniamo al racconto di questi trent'anni in cui la politica è stata cadenzata, condizionata dalle inchieste. Una magistratura che condanna la politica, ma che si autoassolve: dello scandalo del Csm, quello raccontato dal trojan nel telefono del giudice Palamara che ha svelato quanta politica c'è nel Consiglio Superiore, non si è saputo più nulla. A proposito il procuratore di Firenze, Creazzo, quello dell'inchiesta su Open, era uno dei candidati di Palamara per la procura di Roma. Ovviamente, non c'è nulla di male, solo che se non si vuol fare la parte degli struzzi, a questo punto si è portati a valutare pure le conseguenze politiche delle azioni dei magistrati. Per cui tra divisioni, diffidenze, paure, siamo allo stallo. Tutto è fermo. Non si riforma la giustizia e si va avanti per inerzia. Tutto è fermo. E la politica resta in balìa delle inchieste giudiziarie, come gli antichi del Fato.
Creazzo, il procuratore bocciato dal Csm che adesso ha in mano l’inchiesta dell’anno. Nella votazione per la procura di Roma l’uomo che ha puntato «la cassaforte renziana» prese soltanto un voto. Giovanni M. Jacobazzi il 29 Novembre 2019 su Il Dubbio. Giuseppe Creazzo, procuratore di Firenze dal mese di giugno del 2014, è il magistrato del momento. Le indagini condotte dal suo ufficio sulla Fondazione Open, «la cassaforte renziana», rischiano di mettere in seria difficoltà il governo giallorosso di cui l’ex premier è uno degli azionisti di maggioranza. Matteo Renzi non ha usato mezzi termini per commentare il procedimento penale aperto dai magistrati fiorentini nei confronti di alcuni suoi stretti collaboratori e finanziatori. Il nome di Creazzo era balzato alle cronache lo scorso maggio, quando la sua candidatura per prendere il posto di Giuseppe Pignatone al vertice della Procura di Roma aveva ricevuto un solo voto al Consiglio superiore della magistratura. La Quinta Commissione di Palazzo dei Marescialli, competente per i direttivi, aveva espresso quattro preferenze per Marcello Viola e uno ciascuno per Francesco Lo Voi e, appunto, Creazzo. Viola, procuratore generale di Firenze, era stato votato dal collega di Magistratura indipendente Antonio Lepre, da Piercamillo Davigo ( Autonomia& Indipendenza), da Emanuele Basile ( laico della Lega) e da Fulvio Gigliotti ( M5S). Per Lo Voi, procuratore di Palermo, e come Viola legato ad Mi, si era speso Mario Suriano ( togato di Area). Il voto per Creazzo era stato di Gianluigi Morlini, presidente della Commissione ed esponente, come lui, di Unicost. Lo scandalo che ha travolto il Csm prima dell’estate ha determinato un rimescolamento di tutti gli equilibri del Csm. Fra dimissioni e cambiamenti vari, la Quinta Commissione è ora presieduta da Suriano. Tranne Davigo, i suoi componenti sono tutti nuovi: Loredana Miccichè ( Mi), Alberto Maria Benedetti ( M5s), Marco Mancinetti ( Unicost), Michele Cerabona ( FI). Primo atto, l’azzeramento del voto su Roma. Creazzo era finito al centro delle discussioni fra i consiglieri del Csm, poi dimessisi, e i parlamentari Cosimo Ferri e Luca Lotti. Era stato quest’ultimo ad evidenziare la situazione “imbarazzante” creatasi a Firenze dopo l’arresto dei genitori di Renzi chiesto dall’ufficio diretto da Creazzo. Difficilmente però, anche in vista del nuovo voto, ci potranno essere chance per Creazzo.
Liberoquotidiano.it il 29 novembre 2019. "Il vero errore di Matteo Renzi è stato lasciare il Pd". Dietro l'inchiesta su Open, con copertura mediatica a tambur battente, forse c'è il solito vizietto di certa magistratura italiana, un po' troppo abituata a mescolare giustizia e politica. Con una punta d'ironia, ma non troppo, lo sottolinea anche Pietro Senaldi. Ospite di L'aria che tira su La7, il direttore di Libero commenta le indagini fiorentine: "Se Renzi fosse stato nel Pd avrebbe potuto fare tutto quello che voleva, con le case e le fondazioni". "Quando dice che i magistrati spesso fanno politica io sono d'accordo con Renzi. Ha fatto un po' tardi ad accorgersene". Perché, conclude Senaldi, "il Pd ti difende dalle Procure meglio di qualsiasi avvocato".
Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 29 novembre 2019. Tangentopoli cominciò nel 1992 e non è ancora finita. A vent' anni dall' inizio della inchiesta più devastante svoltasi nel nostro disgraziato Paese, si continua ancora con i metodi sbrigativi usati disinvoltamente dalla magistratura per incastrare politici più o meno in vista. Mi pare che Renzi sia l' ultimo della lista dei presunti reprobi, accusato (insieme ai suoi familiari) per questioni poco chiare ma non abbastanza oscure da meritare uno scandalo sostenuto soltanto da chiacchiere e non da fatti concreti e provati. Le vicende giudiziarie si giudicano al termine del loro corso, mentre i giornali spesso sparano notizie non accertate che ne sputtanano i protagonisti, e ciò produce un polverone difficile da controllare. Vari imputati messi alla gogna e prematuramente dipinti quali delinquenti poi si sono rivelati non colpevoli e hanno meritato assoluzioni piene. Ne abbiamo perso il conto. Eppure ciò non basta a indurre alla prudenza i miei colleghi. Oggi è la volta di Renzi, che, finito nel tritacarne mediatico, viene trattato in modo vergognoso e condannato prima ancora di essere processato, ma in passato è successo anche di peggio. È ora di dire basta a sistemi affrettati che mettono in difficoltà uomini fino a prova contraria innocenti. La politica inoltre è diventata una riserva di caccia per i pm in cerca di notorietà, e ciò deve finire se intendiamo ridare un minimo di dignità al potere giudiziario nonché al quarto potere della stampa. Prima di crocefiggere il Rottamatore aspettiamo almeno di leggere le carte. Che diranno, almeno si spera, la verità, la quale non è mai quella divulgata dissennatamente dalle gazzette, sempre dedite a gettare fango anche in assenza di pantano.
Craxi e Renzi, diaboliche coincidenze. Francesco Damato il 29 Novembre 2019 su Il Dubbio. Fra le vicende di Craxi e di Renzi c’è una coincidente, diabolica circostanza che dovrebbe lasciare l’amaro in bocca anche ai magistrati e a quanti ne difendono a priori scelte e decisioni. Con la solita cattiveria, che va ben oltre la malizia di una polemica politica, visto anche che Bettino Craxi è morto da quasi vent’anni e sarebbe pure ora che lo lasciassero in pace, un irriducibile avversario del defunto e del vivo di cui sto per scrivere ha invitato la vedova del leader socialista ad allestire una camera nella sua villa tunisina di Hammamet per Matteo Renzi. Il quale si sarebbe meritata la beffarda ospitalità, nonostante il rifiuto opposto da sindaco di Firenze a intestare una strada della città del giglio allo scomparso leader socialista definendone la memoria "diseducativa", perché ne ha imitato o ripetuto le reazioni ai magistrati impegnati a indagare sui finanziamenti della sua attività politica. Al netto delle disquisizioni giuridiche, dei metodi adottati dagli inquirenti, tradotti dalle cronache giudiziarie in perquisizioni, retate e quant’altro, e delle polemiche sulle conseguenze, lamentate con particolare vigore dal tesoriere del Pd Luigi Zanda, derivanti dall’affrettata e demagogica abolizione, secondo lui, del finanziamento pubblico dei partiti, che dovrebbe essere quindi ripristinato; al netto, dicevo, di tutto questo, fra le vicende di Craxi e di Renzi c’è una coincidente, diabolica circostanza, diciamo così. Che non piacerà probabilmente vedere sottolineata nè agli amici né agli avversari di entrambi, gelosi della diversità o unicità dei "loro" beniamini, ma è nelle cose dannatamente inconfutabile. Essa dovrebbe lasciare l’amaro in bocca anche ai magistrati e a quanti ne difendono sempre e a priori comportamenti, scelte, decisioni, ordinanze, sentenze e quant’altro. A Craxi capitò di essere coinvolto e infine travolto giudiziariamente, e sotto certi aspetti persino fisicamente, dal fenomeno non certo ignoto o poco diffuso del finanziamento illegale dei partiti, e loro derivati, proprio mentre le circostanze politiche gli fornivano spazi decisivi e legittimi d’azione. Caduto col muro di Berlino il comunismo che aveva confinato in Italia il socialismo in una posizione minoritaria a sinistra, il segretario e leader socialista poteva ben aspirare a ridisegnare la stessa sinistra, mentre il Pci cercava di sottrarsi alla resa dei conti con la sua storia cambiando nome e simbolo. In attesa o in funzione di questa prospettiva, che non poteva certamente avverarsi in tempi brevissimi per incrostazioni personali e politiche, Craxi poteva contare nella legislatura destinata a nascere dalle elezioni ordinarie del 1992 a tornare a Palazzo Chigi, come nel 1983, per una riedizione del "pentapartito" a guida socialista, avendo sostenuto in modo decisivo nei cinque anni precedenti ben tre presidenti democristiani del Consiglio: Giovanni Goria, Ciriaco De Mita e Giulio Andreotti, in ordine rigorosamente cronologico. Le circostanze giudiziarie, con annessi e connessi politici e mediatici, di piazza e di strada, comprese le famose monetine lanciategli contro, all’uscita dell’albergo romano dove abitava, da una folla inferocita promossasi a infame corte popolare di giustizia, risentita per gli ostacoli ai processi nei tribunali ancora derivanti dalle garanzie costituzionali dei parlamentari, impedirono a Craxi di perseguire i suoi disegni politici: disegni, ripeto, legittimi essendo egli stato eletto in libere votazioni, e non imposto di certo con la forza a nessuno da qualche generale o armata d’invasione. Matteo Renzi, peraltro neppure indagato allo stato delle cose, mentre scrivo, come Craxi nel 1992 quando si vide rifiutare la nomina a presidente del Consiglio dal presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, si trova coinvolto mediaticamente nella vicenda giudiziaria della disciolta “Fondazione Open”, dopo avere fondato un suo partito, uscendo dal Pd, e avere rivendicato una partecipazione autonoma, non defilata, ad una maggioranza di governo da lui stesso promossa dopo la crisi estiva della combinazione gialloverde, composta da grillini e leghisti. Si dirà che i finanziamenti, peraltro tutti tracciabili, come si dice in gergo tecnico, raccolti da quella fondazione, che non era peraltro un partito, e caduti sotto le lenti giudiziarie d’ingrandimento, risalgono non ai nostri giorni ma ai tempi dell’appartenenza di Renzi al Pd. Peggio mi sento, mi viene voglia di replicare pensando ai tempi d’esplosione dell’indagine, che hanno permesso all’ex presidente del Consiglio di gridare contro una specie di boicottaggio preventivo alla sua neonata formazione politica “Italia Viva”. A finanziare la quale si può ben sospettare, temere e quant’altro di rischiare chissà quali e quanti guai. Il bambino insomma può ben temere di morire soffocato in culla. E’ francamente una brutta, orrenda faccenda, per il solito intreccio fra cronache giudiziarie e politiche: una faccenda inseribile nella storia ormai tossica, a dir poco, dei rapporti fra la politica, la giustizia e l’informazione, ma soprattutto fra la politica e la giustizia, bastando e avanzando per l’informazione il sarcastico auspicio più volte espresso dal politico ed ex magistrato Luciano Violante di separare almeno le carriere dei pubblici ministeri e dei giornalisti, in attesa di separare quelle dei pubblici ministeri e dei giudici. Alla storia dei rapporti fra politica e giustizia, entrambe con la minuscola, visti i tempi che corrono, appartengono anche i propositi enunciati da Renzi, all’esordio ormai lontano della sua doppia funzione di segretario del Pd e presidente del Consiglio, di restituire alla Politica, con la maiuscola, il "primato" perduto forse ancor prima, più che per effetto, di quella che chiamiamo "Tangentopoli". Ma mi chiedo, francamente, se Renzi abbia davvero tenuto fede a quei suoi propositi, e non abbia invece gestito pure quelli in modo così discontinuo e contraddittorio da finire per diventarne vittima pure lui.
Fabio Martini per ''la Stampa'' l'1 dicembre 2019. Il Compagno G. sa di quel che parla e davanti al risorgere della questione morale propone una ricetta chiara: «Alla lunga, costa meno finanziare la politica che non finanziarla. Come per l' ambiente: un investimento pubblico consente di preservare e non deteriorare una risorsa che è di tutti. Se la politica si indebolisce, diventa subalterna ad altri interessi, che non sono quelli del Paese». Primo Greganti per generazioni intere di comunisti - e non solo - è un eroe, è passato alla storia come il compagno che pur «sapendo», negli anni di Mani pulite non parlò pagando personalmente e amaramente: col carcere. Lui, a distanza di anni, rifiuta quella veste mitica («era ingiusto pensare che io fossi un eroe, per copertura del Pci. Io ho avuto un atteggiamento di rispetto della verità») ma sicuramente pochi conoscono i meccanismi di finanziamento alla politica come lui, che è stato amministratore della Federazione torinese del Pci per 14 anni e poi collaboratore del suo partito ai tempi di Botteghe Oscure.
Ma perché soldi dei contribuenti ai partiti?
«Perché per far funzionare una moderna democrazia c' è un costo pubblico, che aiuterebbe a prevenire altri costi».
Immaginare di dare soldi pubblici a questi scalcagnati partiti non è popolare «Mettere mano al finanziamento e al funzionamento della democrazia in tempi come questi è molto difficile. Occorre misurarsi con un populismo che attraversa la società, far riflettere la gente è difficile». Un meccanismo trasparente e utile, Primo Greganti come lo disegnerebbe?
«Il finanziamento ai partiti dovrebbe rispondere a due criteri essenziali. Che sia un finanziamento alla democrazia, quindi a strutture che consentano un rapporto con i cittadini. Attività editoriali, sedi, scuole di partito. Tutto questo può essere parzialmente aiutato da un sostegno pubblico. Secondo: un partito deve avere le funzioni che prevede la Costituzione, tornare a essere anche una grande scuola civica e comportamentale. Con organismi dirigenti che si assumano le loro responsabilità. Che rispondano in proprio di quello che fanno, se no non si capisce cosa succede».
Una legge di finanziamento ai partiti, giusta in sé, diminuirebbe le corruzioni?
«Può diminuire la corruzione ma il finanziamento pubblico è solo un primo paletto. Servono una vita democratica interna ai partiti, organismi dirigenti che si eleggono e si responsabilizzano. Rispondendo in proprio di quello che fanno. Se si rubano 49 milioni, chi ne risponde? C' è una responsabilità collegiale che si deve imporre, se no è finita. E invece con i partiti personali si vede come finisce: nella confusione dei ruoli vero e falso sguazzano. Vediamo in questi giorni, la pateticità».
In questi giorni i donatori della Fondazione di Renzi sono nell' occhio del ciclone: ma il nesso tra contributo ed eventuale beneficio deve essere ben chiaro, altrimenti non diventa una caccia alle streghe?
«In generale, la giurisprudenza ha già risolto la questione: non si può fare un provvedimento ad hoc per Tizio. Un provvedimento o è valido per migliaia di tizi o è chiaro che c' è un problema ed è bene che la magistratura se ne occupi. Perché se il beneficio è di uno solo e guarda caso proprio per quello che due anni prima aveva versato dei soldi, è chiaro che possa esserci rivalsa. Su questo non ci possono essere dubbi».
Inchiesta Open: se anche i Pm rispettassero le leggi. Piero Sansonetti 29 Novembre 2019 su Il Riformista. Novità sul caso Renzi-Open. Ieri a Roma c’è stata una clamorosa operazione antidroga nel corso della quale sono state arrestate 51 persone. Gli inquirenti dicono che il mercato romano della cocaina porta al famoso Diabolik, il capo tifoso della Lazio ucciso chissà come e chissà perché da sconosciuti qualche mese fa. Voi dite: ma cosa c’entra l’operazione anti-droga con l’inchiesta Open? Alcuni esperti di cose della magistratura mi hanno detto che c’entra molto. Loro pensano che le due operazioni siano parte di un unico torneo, quello che ha in palio il posto di Procuratore di Roma. In corsa sarebbero rimasti due soli cavalli: il procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo e il Procuratore aggiunto di Roma Michele Prestipino. Uno di loro succederà a Giuseppe Pignatone, del quale Prestipino è un fedelissimo e Creazzo è un ex fedelissimo poi caduto in disgrazia. E così – dicono gli esperti – i due cercano di mettersi in evidenza alla vigilia della decisione del Csm. Creazzo punta su Open e su Renzi, che garantiscono la prima pagina per molti giorni; Prestipino arranca un po’ e recupera qualcosa col maxi-blitz che paralizza per molte ore Roma sud coi posti di blocco, ma difficilmente finirà in prima sui quotidiani nazionali.
Gli esperti di queste sofisticatissime materie spiegano anche che quasi sempre una fuga di notizia dai palazzi di Giustizia è l’effetto di una guerra interna alla magistratura. Tra correnti o cordate o singoli magistrati. Del resto quest’estate fu la fuga di notizie contro Luca Palamara che fece saltare la nomina ormai quasi certa di Marcello Viola, alla Procura di Roma. Un pezzo robusto della magistratura e dei giornali era contro Viola e lo impallinarono impallinando Palamara che era uno dei suoi sostenitori. Ora tra Creazzo e Prestipino si gioca la finale di quel torneo. Prestipino è in vantaggio. Il caso Open può aiutare Creazzo. Naturalmente tutto questo pone un problema (che in questo caso non sfiora Prestipino, ma Creazzo si). Ed è un problema che riguarda i vertici della magistratura e del ministero. Dal momento che ieri, sul Corriere della Sera, Fiorenza Sarzanini ha scritto chiaro chiaro che lei ha in mano da due giorni l’elenco delle persone che avrebbero dovuto essere perquisite su ordine della Procura di Firenze. Ma lei non potrebbe avere quell’elenco, che è segreto. E dunque è molto probabile che l’abbia avuto dalla Procura di Firenze: come mai non si apre una inchiesta per fuga di notizie sulla Procura di Firenze? Chi dovrebbe aprire questa inchiesta? Naturalmente la magistratura, per accertare se c’è o no il reato di fuga di notizie. Ma a parte la questione penale c’è anche una questione disciplinare. Esiste un decreto legge del 2006, è il decreto numero 109, che all’articolo 2 prevede misure disciplinari contro i magistrati responsabili di una fuga di notizie, anche se questa fuga non è stata dolosa. Ora lasciamo stare l’ipotesi che la fuga sia stata dolosa: perché il Csm non applica quel decreto dimostrando di essere interessato alla legalità? Non solo non lo applica, ma approva una mozione, proprio nel giorno della fuga di notizie, nella quale bacchetta Renzi (cioè la vittima della fuga di notizia) proprio per aver criticato la procura di Firenze (seppure in un’altra occasione, e cioè quando arrestarono i suoi genitori). Non vi pare un’enormità? C’è la forte probabilità che l’inchiesta sulla Open sia stata aperta pur nella totale assenza di reati; c’è la fortissima probabilità che l’unico reato vero sia la fuga di notizie e che esista una responsabilità della Procura; e il Csm invece di fare il suo dovere, e procedere all’accertamento disciplinare, se la prende con Renzi. Perdipiù il ministro non sente il dovere di intervenire. Poi dicono legalità, legalità, legalità. Ma a cosa pensano, quando dicono legalità? Ieri ci sono state anche delle altre novità. Travaglio ha accusato Renzi di malefatte compiute da presidente del Consiglio nel 2017. Ma Renzi non era più presidente da un anno. L’Espresso ha accusato un deputato del Pd di avere finanziato il Pd con dei soldi suoi privati. Il Fatto ha pubblicato in esclusiva, insieme a vari altri giornali ( è un nuovo tipo di esclusiva) la notiziona del giorno: c’erano le carte di credito della Open distribuite ai deputati, e il Fatto sa i nomi. poi ridimensiona: sa un solo nome: Lotti. Cioè l’amministratore di Open. Un po’ come se si scoprisse che Travaglio ha una carta di credito del Fatto. E magari a fine mese prende anche uno stipendio…
Da Corriere.it l'8 dicembre 2019. «Ai tempi del Governo Renzi, noi ministri lo prendevamo in giro da morire, continuamente. Però a bassa voce perché era piuttosto vendicativo»: così l’ex Ministro dello Sviluppo Economico e attuale leader di Azione Carlo Calenda nel corso della puntata de «Le Parole della Settimana», il programma condotto da Massimo Gramellini su Rai3, commendando il video diventato virale in cui Justin Trudeau, Emmanuel Macron e Boris Johnson, inconsapevoli di essere registrati, parlano male di Donald Trump.
"RENZI? GRAZIE, NO". Eugenio Scalfari per la Repubblica l'8 dicembre 2019. La personalità di Matteo Renzi è del tutto diversa e molto differente il suo obiettivo. Si occupò di politica che era ancora molto giovane. Non proveniva da incubazioni tipo Bossi-Lega Nord, che fu il viatico di Salvini. Renzi non ha alcun maestro, viene da una famiglia di buona borghesia, con parecchie virtù di mente sveglia in affarucci di provincia e in qualche affare un po' più consistente. Cultura vera e propria del tutto assente. Così è nato Renzi, già fornito di intelligenza politica e attrazione verso il potere assoluto: questo è il difetto fondamentale, accoppiato a caratteristiche peraltro notevoli: fiuto politico, spregiudicatezza morale, provenienza e carattere di media borghesia provinciale. Dopo le dimissioni da tutte le cariche che rivestiva all' epoca del referendum sonoramente perduto, Renzi ha sentito il richiamo della politica e della dittatura democratica. …. il potere di Renzi è tutto politico, non vuole altri partiti tra i piedi che detengano reali poteri. Quelli debbono essere tutti suoi ed infatti così fu per vari anni durante i quali Renzi fu leader democratico che governava da solo in quanto segretario del suo partito…...Oggi l' obiettivo di Renzi è sempre lo stesso: ha fondato un proprio partito che riscuote per il momento soltanto il 4 per cento circa ma si propone la riconquista della guida della maggioranza con la sua influenza, le sue richieste e i suoi veti. L' attuale segretario del Pd, Nicola Zingaretti, gli ha offerto una alleanza stretta, dignitosamente secondario, Renzi almeno finora è ben lontano dall' accettare una posizione subordinata. Fin da quando cominciò ad occuparsi di politica puntò sempre a un vertice solitario e questo è anche attualmente il suo fine. Sembra del tutto irraggiungibile ma questo è il suo divertimento. Riuscirà? Non riuscirà? Ci vuole del tempo per saperlo ma a lui piacciono queste imprese impossibili nelle quali è riuscito almeno una volta. Desidero a questo punto concludere dicendo di fronte ai voleri di Renzi un "grazie, no" che mi viene assolutamente e spontaneamente ultra-convinto.
Emanuele Fittipaldi e Giovanni Tizian per L’Espresso l'8 dicembre 2019. Per capire come mai Matteo Renzi, l' enfant prodige della politica italiana capace di portare solo cinque anni fa il Pd oltre il 40 per cento, è diventato il leader più divisivo e detestato d' Italia basta guardare la fotografia del comitato direttivo della Fondazione Open. Nell' organismo compaiono tutti i luogotenenti del renzismo. Che raccontano, con le loro storie e i loro inciampi, i motivi reali della crisi politica in cui s' è avvitato l' ex fenomeno di Rignano sull' Arno. Da Maria Elena Boschi che chiedeva all' ad di Unicredit di comprare Banca Etruria al presidente Alberto Bianchi incassatore di consulenze per conto di Consip e dei Gavio, fino al sussurratore Marco Carrai e a Luca Lotti detto "il Lampadina", imputato a Roma e intercettato con Luca Palamara. Le vicende del Giglio magico sono metafora del "rise and fall" della falange venuta dalla provincia. Dopo aver preso il Palazzo grazie alla forza carismatica del capo, si è trasformata nell' immaginario da banda di coraggiosi rottamatori a gruppo di sodali intenti - più che al bene pubblico - ai propri interessi. «Non sono un traffichino!», si giustificò Renzi a Matrix due anni fa, mostrando il suo estratto conto da 15 mila euro, per dimostrare che con la politica non s' era arricchito. «Open è la fondazione più trasparente del mondo, i magistrati di Firenze che stanno indagando sulle donazioni vogliono solo colpire Matteo e il suo nuovo partito», ripetono oggi gli onorevoli di Italia Viva, che temono il declino politico del senatore di Scandicci. La scorsa settimana ha visto la fiducia crollare, secondo l'ultimo sondaggio Ipsos che misura il consenso personale dei leader, a un misero 10 per cento, dietro pure a Silvio Berlusconi. «Non c' è nessun reato», urlano fan e cantori di Matteo. Che indicano giornalisti, i magistrati, poteri forti e nemici assortiti come i responsabili veri del complotto. Unici untori della "sindrome di Malaussène" che avrebbe infettato Renzi e i suoi uomini, diventati ingiustamente capri espiatori di ogni male del mondo come accade al protagonista dei romanzi di Daniel Pennac. Se pure è vero che Matteo si è fatto parecchi avversari, che i grillini e la Bestia di Matteo Salvini hanno usato i social e le fake news contro di lui come una clava, causa primaria della decadenza di Renzi non sono improbabili cospirazioni. Né presunti reati ancora non dimostrati. Piuttosto gli errori e i comportamenti del capo e dei devoti hanno allontanato le simpatie e i favori degli elettori. L' Espresso la scorsa settimana ha rivelato la vicenda del prestito da 700 mila euro che Renzi ha ottenuto dalla famiglia Maestrelli. Denaro che, come ricostruito dagli investigatori dell' antiriciclaggio di Banca d' Italia, è arrivato da una società dell' amico Riccardo specializzato nell' ortofrutta (nominato in Cassa Depositi e Prestiti Immobiliare nel 2015), e che è stata schermata dietro il conto corrente della madre Anna Picchioni. Al di là dei fascicoli giudiziari, è opportuno che un politico di primo piano compri una villa da 1,3 milioni di euro con un' operazione finanziaria che Bankitalia definisce «anomala»? Ha sorpreso il fatto che l' ex premier sia riuscito a restituire il prestito dopo cinque mesi grazie ai soldi ottenuti dal manager delle star tv Lucio Presta: attraverso una sua società ha liquidato il leader (per il documentario "Firenze secondo me" uscito su Discovery lo scorso dicembre con il 2 per cento di share) con quasi mezzo milione di euro. Una somma che appare agli esperti fuori mercato. Renzi non ama fare autocritica. Ma il consenso rischia di crollare anche a causa di notizie che, seppur prive di rilevanza giudiziaria, sono dense di convenienza etica. Come quella per esempio del "tariffario" per interloquire con il rottamatore: in una mail di Bianchi pubblicata da Repubblica si legge che investendo «100 mila euro per cinque anni» imprenditori e manager potevano parlare direttamente con l' ex premier o, in subordine, con Carrai e Bianchi. Per non parlare degli effetti mediatici delle donazioni a favore di Open effettuate da impresari (come Gianfranco Librandi, che ha girato 800 mila euro, e l' ex grande fratello Mattia Mor, che ha detto di non ricordare la cifra esatta bonificata) inseriti poi nelle liste elettorali per la Camera dei Deputati. «Renzi aveva il dovere di scegliere le persone più brave d' Italia, non le più fedeli di Rignano. C' è certamente in lui una confusione tra paese e Paese», spiegava Ezio Mauro ai tempi dello scandalo Consip, quando si scoprì che il babbo Tiziano Renzi (condannato in un altro procedimento qualche mese fa in primo grado a un anno e nove mesi di carcere per false fatture) era accusato di aver fatto pressioni per condizionare le gare della grande stazione appaltante dello Stato. Ecco: è stato lo spread tra annunci roboanti sulla meritocrazia e una selezione della classe dirigente fondata quasi esclusivamente sulla fedeltà e su interessi particolari, molto più delle inchieste giudiziarie, il detonatore dello scontento che sta affossando Matteo. Insieme a mosse e giravolte politiche spericolate (gli ammiccamenti con Denis Verdini, la nascita del Conte bis, una scissione con il Pd ancora dolorosa) e a un groviglio di bonifici e affari degno di una merchant bank.
Prendiamo la vicenda di Alberto Bianchi. Avvocato di Pistoia, vera testa pensante del Giglio fin dal principio, è indagato per traffico di influenze illecite e finanziamento ai partiti. La rilevanza penale è tutta da confermare, ma di certo il presidente di Open fu piazzato come fedelissimo nel cda Enel. Ed è un fatto che lo stesso Bianchi abbia ottenuto da Consip, anche quando era amministrata da un uomo messo dal governo Renzi, consulenze per centinaia di migliaia di euro. È acclarato che Bianchi abbia incassato dal Gruppo Toto, sul suo conto corrente personale, parte del compenso avuto dal suo studio legale per risolvere un contenzioso milionario tra Toto e Autostrade per l' Italia. Dei 750 mila euro ricevuti dagli imprenditori, quasi subito 400 mila sono stati inviati ad Open al Comitato referendario "Basta un sì". Anche Marco Carrai, amico intimo di Renzi da quand' erano ragazzi, è l'esempio perfetto di un' ambizione irrefrenabile. Il gemello diverso dell' ex presidente del Consiglio, una sorta di Gianni Letta in miniatura nato a Greve in Chianti 45 anni fa, è da sempre l' uomo del Giglio adibito ai rapporti con le lobby fulminate sulla via del renzismo. Dell' ipotesi di finanziamento illecito ipotizzata per lui dai pm di Firenze per adesso interessa poco o nulla. Né Renzi né Carrai possono però negare che Marchino, ex segretario di Renzi ai tempi della Provincia di Firenze e membro del direttivo di Open, negli anni sia riuscito ad ottenere incarichi di prestigio in alcune partecipate pubbliche nella renzianissima Toscana. Manager a Firenze Parcheggi, poi Presidente degli Aeroporti di Firenze, nel 2015 è stato sponsorizzato dalla presidenza del Consiglio per una poltrona a Palazzo Chigi. Nientemeno che per il delicatissimo compito di responsabile della cyber security. Curriculum insufficiente, si disse, mancando al nostro anche una laurea. Presto si scoprì pure che Carrai, già finito sui giornali per aver prestato gratuitamente la sua casa fiorentina all' allora sindaco, qualche mese prima aveva fondato la Cys4, una spa che avrebbe potuto mirare ai futuri appalti banditi dal governo dopo la creazione, voluta da Renzi, di un nucleo per la sicurezza cibernetica. A causa delle polemiche, la candidatura tramontò. Come insegna Jacques de La Palisse, non sarebbe stato più logico e deontologico puntare su un esperto in sicurezza proveniente dalle nostre forze dell' ordine, piuttosto che sul vecchio compagno di tante partite a Risiko in pieno conflitto d' interessi? «Carrai è indagato per concorso esterno in finanziamento illecito, una fattispecie incredibile», è l' appassionata difesa di Renzi qualche giorno fa. Ma non è solo questione di blitz e perquisizioni della finanza per entrare nei segreti di Open. A sollevare interrogativi di opportunità politica è anche la rete di società che Carrai ha costruito in Lussemburgo. O pure i contorni non ancora chiariti del «prestito infruttifero» da 20 mila euro, svelato da L' Espresso, che l' amico ha girato a Renzi ad aprile 2018. Senza dimenticare alcune curiose coincidenze: il boom dell' azienda di consulenza Cmc Labs avvenuto tra il 2013 e il 2015, quando Carrai e soci hanno quadruplicato il fatturato e aumentato l' utile di 30 volte. La trasparenza di cui vanno orgogliosi i renziani vacilla peraltro dopo la lettura di alcune mail che Marchino spedì all' ex ad di Unicredit Ghizzoni. «Ciao Federico», ha scritto il consigliere di Open al banchiere nel 2015. «Solo per dirti che su Etruria mi è stato chiesto di sollecitarti, se possibile e nel rispetto dei ruoli, per una risposta». A che titolo Carrai interloquiva con il capo di una delle più grandi banche del Paese su Etruria, l' istituto in cui lavorava il papà di Maria Elena Boschi? «Ero solo consulente di un cliente privato interessato a Banca del Vecchio, controllata da Etruria. Renzi non sapeva niente, e se in quella banca c' era il padre della Boschi a me non interessava nulla. Non sono un politico e non appartengo a nessun partito». Se Unicredit, un mese dopo la mail suddetta, sottoscrisse con un' altra società di Carrai un contratto per "profilare" al meglio i big data dell' istituto (una srl nata due mesi prima; Unicredit possiede Ubis, una delle più grandi realtà europee di information management), la Boschi ha provocato un terremoto politico chiedendo allo stesso Ghizzoni (come scoprì Ferruccio de Bortoli) se era ipotizzabile un' acquisizione o un intervento per aiutare la banca dove lavorava il padre. Una richiesta in pieno conflitto di interessi: a che titolo un ministro non competente in materia provava a salvare la banca così cara alla famiglia? Nulla di illecito, ma politicamente discutibile. Sappiamo, ancora, che Francesco Bonifazi è indagato dai magistrati romani per i 150 mila euro che la Fondazione Eyu, di cui il renziano tesoriere del Pd era numero uno, ha ricevuto nel 2018 da società riferibili al costruttore Luca Parnasi. Nella stessa inchiesta è coinvolto Giulio Centemero, il tesoriere della Lega di Matteo Salvini. Ora, eventuali reati andranno verificati dai giudici. Ma è possibile che il maxi-importo sia stato giustificato da Eyu come contropartita per uno studio di poche pagine intitolato "Case: il rapporto degli italiani con il concetto di proprietà"? Si può essere più trasparenti di così? Anche per l' ultimo petalo del Giglio che sedeva nel consiglio direttivo della Open deve valere il principio di innocenza. Luca Lotti è imputato per favoreggiamento nel filone d' inchiesta sulla fuga di notizie del caso Consip. Ha sempre respinto con vigore ogni accusa, e in dibattimento non sarà facile dimostrare per i magistrati romani che fu lui a rivelare l' esistenza dell' inchiesta dei carabinieri del Noe all' allora ad di Consip Luigi Marroni. Così come è probabile che la carta di credito di Open in sua dotazione sia stata usata solo per pochi rimborsi spese legate alla sua attività nel board. Lotti, che è rimasto nel Pd, è stato però travolto dalle intercettazioni della procura di Perugia e del Gico della Gdf, che ha ascoltato le sue conversazioni con l' amico pm Luca Palamara e il ras di Magistratura indipendente Cosimo Ferri, eletto deputato con il Pd e da poco passato a Italia Viva. Colloqui imbarazzanti che avevano al centro le nomine dei più delicati uffici giudiziari d' Italia, a partire da Roma. Lotti non risulta ad ora aver commesso reati, tuttavia un parlamentare che discetta di chi piazzare alla guida di una procura dove lui è imputato, e di come danneggiare il pm anticorruzione che l' ha rinviato a processo (Paolo Ielo), non aiuta la sua immagine. E quella del gruppo di potere a cui è appartenuto fino a tre mesi fa. La crisi di legittimazione di Renzi dipende dai troppi interrogativi a cui il senatore non vuole, o non può rispondere. Sulla caparra della villa di Firenze e il prestito del finanziatore della fondazione Open, sulle azioni dei fedelissimi, o sull' opportunità di avere tra i finanziatori di Open Alfredo Romeo, Vittorio Farina (ex socio di Luigi Bisignani) oppure altri imprenditori che, come scrivono gli investigatori della Uif «spesso sono coinvolti in vicende giudiziarie legate ad illeciti di natura fiscale-finanziaria». E poi c' è quel groviglio di relazioni e business di protagonisti che si muovono in provincia che gira intorno al cerchio magico.
Come Andrea Bacci, amico di Maestrelli e vicinissimo a Piero Amara, passando per Patrizio Donnini e il re degli outlet Luigi Dagostino, ex socio di Tiziano Renzi. Tutti implicati in scandali assortiti. «In merito alle perquisizioni su Open vorrei chiedere scusa non a Davide, ma a sua moglie Anna, perché hanno svegliato lei. Vorrei chiedere scusa anche a tutti gli altri amici e imprenditori» svegliati all' alba dalla finanza, ha detto Renzi qualche giorno fa applaudito dai suoi fan. Un gesto galante, che ha colpito i sostenitori. Renzi ha però dimenticato un dettaglio: l' amico finanziere Serra, attraverso la sua holding Algebris, come svelato da Repubblica, a fine 2018 avrebbe girato all' ex premier circa 100 mila euro per tre conferenze tenute tra Roma e Londra. Un mazzo di fiori era davvero il minimo: anche grazie a prestazioni di questo tipo Renzi, che nel 2017 dichiarava 29 mila euro, nel 2018 e 2019 sfiorerà e supererà il milione di euro di entrate.
Non male per il rottamatore di Rignano, che appena due anni fa ostentava davanti alle telecamere il suo conto corrente con soli 15 mila euro.
I segreti della Fondazione Open: due casseforti, viaggi e airbus in affitto. Pubblicato sabato, 14 dicembre 2019 su Corriere.it da Fiorenza Sarzanini. Un testimone racconta il ruolo del presidente Alberto Bianchi, fedelissimo di Renzi. Il sospetto dei pm è che gli onorari del legale fossero finanziamenti mascherati. Doppi incarichi per «mascherare» i finanziamenti, airbus affittati per le trasferte all’estero e due cassette di sicurezza che dovranno adesso essere ispezionate dai magistrati. Ci sono nuovi elementi nell’inchiesta sulla Fondazione Open della Procura di Firenze che si concentra sul doppio ruolo avuto dal presidente Alberto Bianchi nella gestione dei fondi elargiti per sostenere la «carriera politica di Matteo Renzi». Materiale ritrovato durante le perquisizioni, ma anche testimonianze. Come quella di Alessandro Bertolini, alto funzionario della British Tobacco che si occupò di gestire i contratti di Bianchi. Il sospetto degli inquirenti è che gli «onorari» del legale fossero in realtà finanziamenti «mascherati» e per questo illeciti. Non a caso nel decreto di perquisizione emesso contro Bianchi si sottolinea che «appare degna di nota la circostanza che nell’anno 2016 la “British American Tobacco” non effettua “contribuzioni volontarie” a favore della Fondazione Open ma riceve una fattura da parte dell’avvocato Bianchi il quale, in base all’accordo, avrebbe ricevuto un compenso di circa 80 mila euro, destinato in parte a Open». Uno schema seguito con il gruppo imprenditoriale Toto e che — questa è l’ipotesi dell’accusa — potrebbe essere stato applicato anche ad altri finanziatori che in cambio ne avrebbero ricevuto vantaggi grazie a emendamenti alle leggi che venivano approvate, ma anche progetti e concessioni portati avanti quando a Palazzo Chigi c’era Matteo Renzi. Bertolini viene convocato dalla Guardia di Finanza il 26 novembre scorso. È direttore relazioni esterne e affari legali della British Tobacco. Racconta di aver conosciuto Bianchi nel 2015 «che era già stato coinvolto da un collega nell’analisi di questioni giuridiche rilevanti per l’azienda e relative alla direttiva comunitaria sui prodotti del tabacco e in materia di fiscalità». Specifica di aver partecipato ad almeno quattro riunioni con Bianchi e poi afferma: «Per quanto riguarda i due incarichi dell’avvocato Bianchi, in ragione del mio ruolo in azienda ho fatto presente alla stessa che non avevo budget per l’anno 2015 quindi la formalizzazione del mandato (lettere di incarico con relativa parcellazione) sarebbe stata a valere nell’anno 2016. Dopo il perfezionamento di tali incarichi professionali non ne sono stati affidati di ulteriori all’avvocato. Preciso che le fatturazioni e i pagamenti sono coerenti con l’offerta ricevuta dall’avvocato Bianchi, ma non sono a conoscenza delle motivazioni per le quali ci ha inviato due offerte distinte, una come “Alberto Bianchi e associati studio legale” e un altro come avvocato Bianchi». In una mail trasmessa a Luca Lotti il 12 settembre 2016, Bianchi informava Lotti dei soldi ricevuti dall’azienda.
L’aerotaxi e le casseforti. Ci sono due cassette di sicurezza sequestrate a Bianchi — una presso una banca di Pistoia, l’altra a Firenze — che dovranno essere «ispezionate» per ordine dei magistrati. La documentazione già sequestrata nei suoi uffici dimostra che quando si trattava di finanziare le trasferte politiche di Renzi non si badava a spese. E così per gli incontri organizzati nel giugno 2018 a Washington è stato noleggiato un aerotaxi, mentre per la missione a San Francisco è stato trovato un appunto: «Cartellina bianca intestata Rimborsi Marco Carrai Bionic Hotel Fairmont contenente scheda denominata “Credito M.Carrai”, e-mail con allegata ricevuta di pagamento dell’hotel Fairmont di San Francisco a nome di Matteo Renzi del 21 febbraio 2017». Ci sono due cassette di sicurezza sequestrate a Bianchi — una presso una banca di Pistoia, l’altra a Firenze — che dovranno essere «ispezionate» per ordine dei magistrati. La documentazione già sequestrata nei suoi uffici dimostra che quando si trattava di finanziare le trasferte politiche di Renzi non si badava a spese. E così per gli incontri organizzati nel giugno 2018 a Washington è stato noleggiato un aerotaxi, mentre per la missione a San Francisco è stato trovato un appunto: «Cartellina bianca intestata Rimborsi Marco Carrai Bionic Hotel Fairmont contenente scheda denominata “Credito M.Carrai”, e-mail con allegata ricevuta di pagamento dell’hotel Fairmont di San Francisco a nome di Matteo Renzi del 21 febbraio 2017». I magistrati sono convinti che Bianchi e Marco Carrai — anche lui indagato per finanziamento illecito — rappresentino le due figure chiave per la gestione dei finanziamenti proprio per i rapporti con società italiane ed estere che si intrecciano con quelli avuti con alcuni dei principali finanziatori. E infatti scrivono: «Tenuto conto delle “iniziative economiche” d’interesse investigativo la posizione di Marco Carrai può essere vista come l’anello di congiunzione tra le “compagini societarie” e la Fondazione Open. In merito si evidenzia che Fabrizio Landi, Davide Serra e Michele Pizzarotti sono risultati sia quali finanziatori della Fondazione Open che essere parti attive (soci o cariche) in società italiane e lussemburghesi riconducibili a Carrai». Nelle prossime settimane dovranno essere tutti interrogati, ma intanto — con una nota — Carrai nega che «le risorse finanziarie della Società lussemburghese Wadi Ventures fossero utilizzate per acquisire partecipazioni in società allo stato non individuate perché ha investito in Start Up israeliane e nessuna ha mai avuto nulla a che fare né con il senatore Matteo Renzi né con la Fondazione Open».
Open, la sfida di Renzi a politica e procure: «Ora indagate tutti». Giulia Merlo il 3 Dicembre 2019 su Il Dubbio. Gli esposti. «Open ha I conti in regola, – ha ripetuto il senatore toscano -. ora vediamo s e tutte le altre fondazioni possono dire lo stesso». Che la miglior difesa secondo Matteo Renzi sia l’attacco è cosa nota. La regola vale anche per l’inchiesta Open: dopo aver passato i primi giorni dalla divulgazione della notizia a difendersi sui giornali e in television e dalle inchieste della magistratura fiorentina ( e della stampa), ora è il momento dell’offensiva. Dopo le querele per diffamazione ai giornalisti che han no riportato informazioni inesatte o coperte da segreto bancario ( sulla nomina a Cassa depositi e prestiti di un finanziatore di Open e sui passaggi di denaro sui suoi conti correnti), ora è il momento degli esposti a molte procure italiane. L’obiettivo è quello di far leva sull’obbligatorietà dell’azione penale per i magistrati che ricevano una notizia di reato: se sotto indagine è finita la fondazione Open e i suoi finanziatori sono stati svegliati all’alba per le perquisizioni, altrettanto deve succedere a tutte le fondazioni politiche italiane che operano nello stesso modo, è il ragionamento del leader di Italia Viva. Open ha i conti pubblici e tutti in regola, ha ripetuto, «ora vediamo se tutte le altre possono dire lo stesso» ha detto ai suoi. Ma il vero sottinteso è un altro: una sfida lanciata a tutte le procure italiane ad applicare indistintamente la stessa regola del sospetto che Renzi sente sia stata applicata per lui. «Io credo nella giustizia», ha continuato a dire, come del resto aveva fatto durante il caso Consip che ha investito la sua famiglia e suoi stretti collaboratori. E proprio perchè ci crede ha messo in cantiere una raffica di esposti firmati da deputati e senatori di Italia Viva, pronti per essere spediti ai pm di Milano, Roma e Napoli per indagare a tappeto su tutte le principali fondazioni politiche italiane per far luce – come è stato per Open – sulla provenienza dei fondi, la quantità di denaro incassata e il modo in cui viene spesa. L’iniziativa rischia di riuscire: se gli esposti venissero archiviati senza indagini ulteriori, sarebbe la dimostrazione implicita che quella dei pm fiorentini sia una iniziativa “ideologica”; se invece scattassero altre indagini, il faro giudiziario si sposterebbe su altre fondazioni e varrebbe la regola del mal comune mezzo gaudio. In ogni caso, sarebbe una via d’uscita sia politica che mediatica.
Inchiesta Open, il Csm contro Renzi: «Delegittima le toghe». Giulia Merlo il 5 Dicembre 2019 su Il Dubbio. Raccolta firme per aprire una pratica. L’iniziativa è partita dai togati di Area: «Il Consiglio intervenga a tutela dell’indipendenza ed autonomia della giurisdizione». I giudici togati del Csm ( insieme al laico 5 Stelle Fulvio Gigliotti) non hanno gradito le esternazioni del senatore Matteo Renzi in merito all’inchiesta sulla fondazione Open e chiedono di aprire una pratica a tutela dei magistrati della procura di Firenze e a «presidio dell’autonomia e indipendenza della giurisdizione». La richiesta è arrivata al Comitato di presidenza del Csm, che ora dovrà valutare la richiesta e decidere quali azioni intraprendere. Si legge nel documento: «Nei giorni scorsi, a seguito delle perquisizioni disposte dalla procura di Firenze, il senatore Matteo Renzi si è espresso in più occasioni con dichiarazioni del seguente tenore: “Penso che siamo in presenza di un vulnus al gioco democratico, di una ferita al gioco democratico”. Le predette dichiarazioni non si limitano ad una critica, sempre legittima, del merito del provvedimento, ma costituiscono commenti che alimentano un clima di delegittimazione nei confronti dei magistrati della Procura di Firenze. Per questo – concludono – si impone l’esigenza dell’intervento del Consiglio a tutela dell’indipende nza ed autonomia della giurisdizione». L’iniziativa è stata avviata dalle toghe progressiste del gruppo di Area e rischia di inasprire ancora di più il clima già infuocato intorno all’inchiesta sulla Fondazione Open, che faceva capo alla corrente politica dell’attuale senatore Renzi.
Toghe scatenate: Renzi deve tacere. Piero Sansonetti il 5 Dicembre 2019 su Il Riformista. I membri togati del Csm, cioè i magistrati che fanno parte del Consiglio superiore della magistratura, hanno approvato un documento di censura a Matteo Renzi, che è un senatore della Repubblica ed è anche il capo di uno dei partiti di governo. La censura a Renzi è dovuta al fatto che Renzi, giorni fa, aveva criticato i magistrati della procura di Firenze. I togati del Csm dichiarano che ciò non deve essere consentito. Al momento non si sono sentite reazioni significative dal mondo politico. La politica sembra ormai seppellita, o rincantucciata in piccoli nascondigli, tremante, in fuga dalla strapotenza giudiziaria. Ci sono precedenti nella storia della Repubblica a questa sedizione dei magistrati? Beh, ce n’è uno, che da un certo punto di vista è ancora più grave: siamo nel 1985 e il Csm si riunisce per censurare alcune frasi di Bettino Craxi, presidente del Consiglio, il quale aveva criticato i magistrati della Procura di Milano che, secondo lui, avevano indagato poco e male sull’uccisione del giornalista del Corriere della Sera Walter Tobagi. In quel caso l’attacco del Csm era addirittura al presidente del consiglio in carica, e per questo l’attacco può essere considerato maggiormente eversivo, rispetto a quello di oggi: eversivo lo giudicò il Presidente della Repubblica che interviene per fermarlo. Tuttavia, in quell’occasione, era il plenum del Csm che era riunito per discutere, in questo caso invece è una frazione di quel plenum, e cioè la componente togata, che assume l’iniziativa in contrasto aperto con la politica, e, in definitiva, con le istituzioni della democrazia. Non solo: in questo caso c’è un problema in più. Che i magistrati di Firenze difesi dai togati dovrebbero in realtà essere messi sotto accusa dai togati. Perché? Perché questi magistrati della procura di Firenze sono quelli ai quali sono sfuggite di mano carte coperte dal segreto istruttorio (sull’inchiesta Open, cioè sull’inchiesta contro Renzi e i finanziamenti alla sua corrente), che sono finite nelle mani dei giornalisti. Dunque possono essere indiziati, forse, per il reato di violazione del segreto di ufficio (da uno a tre anni di carcere) e certamente possono, anzi devono essere considerati probabili responsabili di violazione del codice di disciplina che prevede che sia sottoposto a procedimento chiunque, anche se non dolosamente, permetta la fuga di notizie. Il Csm, se non si deciderà a procedere all’indagine disciplinare e a sollecitare la Procura di Genova (competente su Firenze) perché proceda all’indagine giudiziaria, si troverà evidentemente in una situazione di illegalità. Per capire la gravità della situazione che si sta creando, nel silenzio di politica e giornali (ormai è difficile, nel campo giudiziario, rintracciare un giornalista che non sia abile e arruolato nel reggimento guidato dai Pm) basta ricordarsi di come reagì il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, quando seppe che il Csm voleva riunirsi per condannare una presa di posizione del Presidente del Consiglio. Mandò i carabinieri, guidati da un generale, per impedire la riunione. Per completezza di informazione, riportiamo il testo integrale del documento sottoscritto dai togati. Eccolo qui: “I sottoscritti Consiglieri chiedono l’apertura di una pratica ex art. 36 reg. interno a tutela dei magistrati della Procura di Firenze, ed a presidio dell’autonomia e indipendenza della giurisdizione. Nei giorni scorsi, a seguito delle perquisizioni disposte dalla Procura di Firenze, il senatore Matteo Renzi si è espresso in più occasioni con dichiarazioni del seguente tenore: “Penso che siamo in presenza di un vulnus al gioco democratico, di una ferita al gioco democratico”. Le predette dichiarazioni non si limitano ad una critica, sempre legittima, del merito del provvedimento, ma costituiscono commenti che alimentano un clima di delegittimazione nei confronti dei magistrati della Procura di Firenze, come si evince dal contenuto dei numerosi post pubblicati sui social e delle dichiarazioni rilasciate agli organi di informazione nelle ultime ore. Per questo si impone l’esigenza dell’intervento del Consiglio a tutela dell’indipendenza ed autonomia della giurisdizione”. Il comunicato propone di negare a un senatore della repubblica (ma se non fosse un senatore non cambierebbe molto) la libertà di opinione e di parola. Poi dice che uno fa demagogia se cerca precedenti negli anni del fascismo…
Cinque domande sul caso Open. Il Riformista il 7 Dicembre 2019. Nell’inchiesta sui finanziamenti alla Fondazione Open, amica di Renzi, forse sono stati commessi degli errori di valutazione da parte degli inquirenti o forse no. Al momento non si capisce bene quali siano i reati e di chi. Lo stabiliranno i giudici. Sicuramente però è stato commesso un reato, non da parte degli indiziati ma degli inquirenti: è la diffusione della lista delle persone da perquisire. Il reato è violazione di segreto d’ufficio, articolo 326 del codice penale (e forse persino favoreggiamento). Le autorità dovranno stabilire chi ha commesso questo reato e procedere d’ufficio. Visto che in Italia c’è l’obbligo dell’azione penale non possono evitare di indagare. Allora noi poniamo cinque domande, sicuri di ricevere risposte soddisfacenti.
1) Alla Procura di Firenze. È stata avviata una indagine interna sulla fuga di notizie?
2) Alla Procura generale di Firenze. È stata avviata una inchiesta sulla fuga di notizie partita dalla Procura di Firenze?
3) Alla Procura Generale della Cassazione. Sono stati avviati gli accertamenti di competenza?
4) Al ministro della Giustizia Bonafede. Sono stati inviati gli ispettori a Firenze per accertare come è stata possibile la fuga di notizie?
5) Ai membri togati del Csm. Perché avete scritto un documento di solidarietà con la procura di Firenze pur sapendo che quella Procura è teatro di una fuga di notizie?
Ecco perché Renzi ha denunciato i magistrati della procura di Firenze. Giovanni M. Jacobazzi il 30 Novembre 2019 su Il Dubbio. L’ex premier sostiene di non aver presentato alcun esposto contro i pm fiorentini ma la denuncia presentata a Genova dice il contrario. «Non faccio nessun esposto contro i magistrati, mi stupisco. I magistrati hanno dovere di indagare su tutti, c’è l’obbligatorietà dell’azione penale. Ho rivolto al procuratore capo di Firenze la richiesta di indagare sui fatti». Ha dichiarato ieri Matteo Renzi in una intervista, cercando, evidentemente, di smorzare le polemiche scatenatesi dopo alcune sue affermazioni del giorno prima. In particolare, come riportato sul suo profilo Fb, di aver presento due denunce «indirizzate al dottor Creazzo e – per competenza – al Procuratore capo di Genova per rivelazione di segreto bancario o istruttorio alla luce degli articoli della Verità e dell’Espresso». La Procura di Genova è competente sui procedimenti relativi ai reati commessi dai magistrati toscani. Aver presentato una denuncia alla Procura del capoluogo ligure è, dunque, un chiaro indizio che i reati citati da Renzi, la violazione del segreto bancario o istruttorio, con la pubblicazione di vari articoli stampa, sarebbero stati, per l’ex presidente del Consiglio, commessi dai magistrati fiorentini titolari del fascicolo. Se cosi non fosse, la Procura di Genova rispedirebbe al mittente le denunce, dichiarandosi incompetente a procedere. Con un particolare: la violazione del segreto istruttorio è un reato procedibile d’ufficio, non c’è bisogno di alcuna denuncia da parte del soggetto danneggiato, essendo un reato contro la pubblica amministrazione. Renzi non ha al momento reso noto il contenuto di queste denunce inviate alla Procura di Genova. Forse per non rendere il clima ancora più incandescente. Sulla fuga di notizie relativa all’indagine sulla Fondazione Open era intervenuto anche l’onorevole di Forza Italia, ed componente del Csm, Pierantonio Zanettin, con una interrogazione al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Le dichiarazioni di Renzi contro i magistrati fiorentini erano state duramente stigmatizzate dall’Associazione nazionale magistrati. Dichiarazione che suscitano “indignazione” avevano scritto i dirigenti dell’Anm, non citando mai il nome di Renzi. Lo stesso Csm aveva subito aperto una pratica a tutela nei confronti delle toghe fiorentine.
R. E. per ''La Stampa'' il 5 dicembre 2019. Le dichiarazioni fatte da Matteo Renzi dopo le perquisizioni disposte dai pm di Firenze, scrivono, «alimentano un clima di delegittimazione nei confronti dei magistrati». Per questo «si impone l' esigenza dell' intervento del Consiglio a tutela dell' indipendenza e dell' autonomia della giurisdizione». I togati del Csm intervengono in difesa dei magistrati della procura di Firenze dopo le dichiarazioni di Matteo Renzi sull' inchiesta che riguarda Open, la fondazione nata nel 2012 per sostenere le sue iniziative politiche, e scrivono al Comitato di presidenza, insieme al laico del M5S Fulvio Gigliotti, per chiedere l' apertura di una pratica a tutela dei pm fiorentini. «Penso che siamo in presenza di un vulnus, di una ferita al gioco democratico» aveva detto Renzi all' indomani delle perquisizioni. La frase è riportata nel documento presentato al Comitato di presidenza. Queste dichiarazioni «costituiscono commenti che alimentano un clima di delegittimazione nei confronti dei magistrati di Firenze». Sulla vicenda dell' indagine sulla Fondazione Open è intervenuto ieri anche Marco Carrai, per replicare agli articoli che riportavano di una segnalazione di operazione sospetta in merito ad un suo prestito a Renzi da 20 mila euro e relativamente all' indagine sulle sue attività in Lussemburgo. «Quanto al prestito infruttifero di 20 mila euro fatto a Matteo Renzi, si precisa che fu fatto per sue esigenze personali il 20 aprile 2018 e che l' intera somma fu restituita, sempre tramite bonifico, il 19 giugno 2018. In relazione a quanto viene scritto al riguardo della Società Wadi Venture Sca, (si tratta di) un veicolo societario che ha investito in modo del tutto tracciato in Start Up, nessuna della quale ha mai avuto nulla a che fare né con il Senatore Matteo Renzi né con la Fondazione Open. Non conosco personalmente il dottor Valli né conosco la Società di Dubai citata dai giornali come investitore di Wadi. Non ho curato io questi investimenti». «Verrà il giorno in cui - scrive ancora Carrai -, finalmente terminata la caccia alle streghe, si potrà chiarire tutta la vicenda di una indagine rispetto alla quale mantengo la fiducia nella giustizia e nei magistrati. Mi auguro che i tempi siano rapidi e chi indagato possa difendersi nelle sedi opportune e non sui media".
Notizie in fuga: toc toc toc, c’è nessuno al Csm? Silenzio…Piero Sansonetti il 4 Dicembre 2019 su Il Riformista. Repubblica ieri mattina ha lanciato sull’online uno scoop clamoroso. Ha pubblicato l’elenco delle ditte che hanno versato soldi alla fondazione Open, che poi ha finanziato Matteo Renzi. Questo elenco per la verità è piuttosto noioso, ma soprattutto non nuovissimo. Il Corriere della Sera ha ammesso di averlo quasi una settimana fa. E aveva già pubblicato tutti i nomi che piacciono alla piazza. Repubblica ha arrancato un po’, ma ora è arrivata. Meno male. Domanda: quali sono i delitti che queste ditte, o i loro proprietari, hanno commesso? E proprio questo è il problema: finora pare che non si sia trovato nessun reato da attribuire ai finanziatori di Open, perché i versamenti erano a norma di legge; non è proibito finanziare una fondazione. Risulta tuttavia, in questa vicenda, un reato che è stato commesso all’interno della procura di Firenze: la fuga illegale di notizie verso le redazioni dei giornali. Cosa è successo? Che qualche magistrato, o qualche cancelliere o qualche agente o ufficiale della Guardia di Finanza, alle dipendenze della Procura, ha fatto recapitare alle redazioni di alcuni giornali gli elenchi delle ditte sotto osservazione o destinatarie di un ordine di perquisizione. Questo è un reato piuttosto grave, sancito dal codice penale. E precisamente dall’articolo 326, che dice così: «Il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio, che, violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della sua qualità, rivela notizie d’ufficio, le quali debbano rimanere segrete, o ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. Se l’agevolazione è soltanto colposa, si applica la reclusione fino a un anno». Toccherebbe alla Procura di Genova, che ha la competenza per indagare sui magistrati toscani, di indagare su questo reato. E l’azione penale è obbligatoria, a norma di Costituzione. Però, finora, la Procura di Genova non si è mossa. Del resto, per esempio, non risulta che nessuna Procura si mosse quando dilagarono le fughe di notizie che rasero al suolo Luca Palamara (procuratore aggiunto di Roma, non molto amato da parecchi suoi colleghi). Poi c’è da dire che oltre al codice penale c’è anche il testo unico sull’ordinamento giudiziario che prevede misure disciplinari (che deve adottare il Csm) a carico delle Procure che, anche senza dolo, siano considerate responsabili della fuga di notizie. È un po’ difficile non sospettare – almeno sospettare – che qualche responsabilità nella fuga di notizie dalla procura di Firenze spetti alla procura di Firenze. No? Si può arrivare a questa conclusione anche senza avere le doti professionali dell’investigatore esperto. Eppure non risulta ancora, fino adesso, che il Csm abbia deciso di prendere qualche contromisura, anche per impedire che la fuga di notizie continui, anche a favore di giornali ritardatari come Repubblica. Toc toc: c’è qualcuno al Csm? Silenzio…Devono essere usciti tutti. Nell’elenco delle ditte responsabili di aver finanziato Renzi – l’elenco pubblicato da Repubblica – c’è anche quella dell’editore di questo giornale. La Romeo, cioè il gruppo di società che fanno capo a Alfredo Romeo. Repubblica definisce queste società la galassia Romeo, dando, forse, alla parola galassia, un valore negativo. Almeno come suggestione. Se uno controlla una galassia – è il ragionamento che induce – deve avere qualcosa da nascondere, no? Sennò perché dovrebbe avere messo su una galassia? Il nome di Romeo era già uscito sul Corriere della Sera e su altri giornali. Era stato scritto che le sedi delle sue società erano state perquisite. Notizia falsa. Nessuno ha perquisito Romeo. Ma allora è vero o no che Romeo ha finanziato la Open e quindi Matteo Renzi? No, in realtà non è vero, perché Romeo ha finanziato effettivamente la campagna delle primarie di Matteo Renzi nel 2012 (quando Renzi perse e quando non aveva alcuna possibilità di vincere ) ma non attraverso la Open, fondazione che allora ancora non esisteva, bensì attraverso una società che si chiamava Big Bang. Il finanziamento, di 60mila euro, era legittimo, libero e trasparente. Renzi non poteva dare niente in cambio, perché era ancora semplicemente il sindaco di Firenze, e niente lasciava presagire il fallimento di Bersani e la rapida ascesa del giovane Matteo (nel 2012 non c’era scommettitore che non scommettesse sul trionfo elettorale di Bersani). E allora? Beh, una considerazione da fare è che Romeo è stato usato come bersaglio con l’obiettivo di colpire Renzi. Questo lo hanno capito tutti. Anche se le relazioni tra Romeo e Renzi sono molto, molto flebili, e dopo quel finanziamento non ci fu più neppure lo scambio di un euro. L’altra considerazione da fare è che il nostro giornalismo è a un livello basso basso basso. Come, più o meno, ha scritto su Twitter qualche giorno fa un giornalista abbastanza attendibile e molto serio come Gianni Riotta. Prova di questo giornalismo poco serio, poco veritiero e molto pettegolo, è l’invasione, proprio ieri, di un paio di giornalisti, che hanno detto di esser di La7, nella redazione del nostro giornale. Volevano sapere da Romeo se aveva dato i soldi a Renzi per avere un vantaggio su Consip. Consip? Si Consip. Ma cosa c’entra Renzi, nel 2012, con Consip? Ovviamente meno di niente. E l’intera vicenda Consip inizia cinque anni dopo. Ci sono anche dei giornalisti che viaggiano con la macchina del tempo. Tanto qual è il problema? Nel giornalismo, in Italia, che una notizia sia vera o falsa non ha più nessunissima importanza. P.S. Ma almeno – chiedevano i due di La7, è vero che Romeo è amico di Bianchi, il patron della Open? O perlomeno lo conosce? Sì, lo conosce: se l’è trovato contro, come avvocato, in diversi contenziosi amministrativi.
Inchiesta Open, Sansonetti "minacciato" da giornalista del Fatto: “I magistrati si occuperanno di te”. Il Riformista il 3 Dicembre 2019. Il direttore de Il Riformista Piero Sansonetti è stato ospite di Quarta Repubblica, il programma condotto da Nicola Porro su Rete4. Con Sansonetti c’erano, in studio, Maurizio Lupi, Luca Telese, Guido Crosetto. Nel corso della trasmissione c’è stato un acceso dibattito tra Sansonetti e il giornalista de “Il Fatto Quotidiano” Ferruccio Sansa. Quest’ultimo ha auspicato un’inchiesta della magistratura per far luce sulle accuse mosse dal direttore de Il Riformista: “Voglio rispondere a Sansonetti, poi magari saranno i magistrati che gli risponderanno quando lui dice che sono disonesti, che fanno inchieste per essere promossi. Secondo me gli attribuisce un reato ed è una cosa di cui risponderà lui”. Secca la replica di Sansonetti: “Sono un po’ preoccupato perché Sansa, un giornalista de Il Fatto Quotidiano, quindi uno che conta, ha chiesto ai magistrati di occuparsi di me. In genere quando glielo chiedono quelli de Il Fatto i magistrati lo fanno. Sono preoccupato anche perché a chiederlo è un collega giornalista. Credo che il sindacato non mi difenderà in questa vicende. “In tre giorni – aggiunge Sansonetti – è partita una campagna di stampa contro Renzi organizzata da due giornali e da una procura, quella di Firenze che ha commesso anche un reato: la fuga di notizie sui conti correnti bancari.
Ignazio Mangrano per “la Verità” l'11 dicembre 2019. Matteo Renzi appoggiava il premier maltese Joseph Muscat, costretto a dimettersi dopo il coinvolgimento di alcune figure a lui vicine nell' inchiesta sull' omicidio della giornalista Daphne Caruana Galizia. Panorama, nel numero da oggi in edicola, ricostruisce in un ampio reportage firmato da Fausto Biloslavo cui è dedicata la copertina, la rete di relazioni del Bullo sull' isola. Si comincia dal 29 maggio 2017: cinque mesi prima di venire uccisa, la giornalista investigativa postava sul suo blog una foto simbolica. L' ex premier italiano figura assieme al primo ministro maltese Muscat e a Chris Cardona, numero due del partito laburista nell' isola. Muscat e Cardona, ministro di lungo corso, sono oggi nei guai per le rivelazioni delle ultime settimane e l' arresto dell' imprenditore Yorgen Fenech, che avrebbe pagato circa 350.000 euro per l' omicidio della giornalista, fatta saltare in aria il 16 ottobre 2017. Il premier ha promesso di dimettersi il prossimo 12 gennaio 2020. Cardona, autosospeso dalla carica di ministro dell' Economia, è stato poi riconfermato. Il 29 maggio 2017, Daphne postava un titolo sul suo blog: «Il fattore comune fra Blair, Renzi e Muscat: il gasdotto dell' Azerbaigian». L' ex premier inglese Tony Blair ha lavorato come consulente di Baku su un grande progetto: quello delle «pipeline» che porteranno il gas azero in Puglia. A Renzi e Muscat starebbe poi a cuore un altro gasdotto fra la Sicilia e Malta. Lo stesso servizio di Panorama indaga poi le amicizie di Renzi sull' isola, ancora più evidenti nel video di Palazzo Chigi sulla visita a Palazzo Vecchio a Firenze del 6 maggio 2016. L' allora premier italiano fece da cicerone a Muscat nella città di cui fu sindaco, accompagnato da un codazzo di maltesi. Fra i presenti, un po' defilato, c' è Keith Schembri, il capo di gabinetto dal 2013 di Muscat su cui pende l' accusa di essere sodale dell' imprenditore che avrebbe pagato i killer di Daphne. «Daphne è stata uccisa per impedirle di rivelare la corruzione che coinvolge l' ufficio di Joseph Muscat. Ora si scopre che il suo ufficio è implicato nell' omicidio e negli sforzi intrinsecamente collegati per insabbiare il caso e ostacolare la giustizia», denuncia poi a Panorama David Casa, veterano maltese dell' Europarlamento, che conosce bene i rapporti con l' Italia. Sulle relazioni molto strette con Renzi non ha dubbi neppure Corinne Vella, sorella della giornalista uccisa, che nel servizio di Biloslavo sostiene che sui rapporti con il nostro Paese ci sia «qualcosa che ancora non conosciamo. Perché l' Italia ha accettato più volte l' arrivo dei migranti anche quando si trovavano nella zona di ricerca e soccorso maltesi? Chiaramente esisteva un accordo fra Muscat e Renzi, ma era segreto». Renzi e Muscat hanno smentito ripetutamente qualsiasi patto sui migranti, ma il rapporto fra i due è sempre stato d' acciaio. Antonio Tajani, numero due di Forza Italia e già presidente del Parlamento europeo, ha infatti dichiarato che «Renzi ha sempre spinto Muscat verso la presidenza del Consiglio europeo». Il rottamatore risulta insomma l' alleato internazionale che più si è speso per Muscat. In un tweet del 10 gennaio cinguettava: «L' uomo che ha risolto la vicenda dei migranti è un premier, ma non è Conte. Tifa Milan, ma non è Salvini. Parla italiano, infatti non è Di Maio. Si chiama Joseph Muscat ed è il premier di Malta. Non a caso Salvini lo attacca: perché sa che Muscat è un leader, non come lui». L' ex premier avrebbe forse potuto mostrare maggior prudenza, visti i gravi fatti di cronaca su cui si indaga ora sull' isola. L' uomo di Renzi che ha continuato a lavorare per Muscat è Sandro Gozi, assunto come consulente, non meglio specificato, nell' ufficio del premier maltese. Ma che cosa faceva a Malta e a quali condizioni economiche? Il 9 aprile 2015, poco più di un anno dopo l' insediamento a Palazzo Chigi, Renzi volava a Malta a inaugurare l' elettrodotto che collega l' isola alla Sicilia. «È costato 200 milioni di euro e 100 milioni erano a carico del bilancio europeo. Dal punto di vista energetico un chiaro favore ai maltesi» spiega una fonte al cronista di Panorama in edicola da oggi. All' inaugurazione Muscat e Mizzi, ministro dell' Energia, annunciavano che la cooperazione con l' Italia prevedeva un progetto di 159 chilometri di tubi sottomarini da 400 milioni di euro, in parte finanziati dall' Unione europea, da Delimara, l' hub energetico maltese, a Gela in Sicilia. Nel luglio di quest' anno, infine, è stato siglato l' accordo per il gasdotto che verrà completato nel 2024. «L' intera operazione non nasce sul mercato, ma è stata organizzata a livello politico e vale 1 miliardo e 200 milioni di euro» spiega ancora il servizio del settimanale diretto da Maurizio Belpietro.
I giornalisti? Chiamateli Grandi Inquisitori. Angela Azzaro il 7 Dicembre 2019 su Il Riformista. Ernest Hemingway, premio Nobel nel 1954 con Il vecchio e il mare, era un grande scrittore perché, prima ancora, era un grande giornalista. Un reporter. Il suo primo scritto è un articolo per il giornale della sua città natale, sobborgo di Chicago. Era uno di quelli che prima di scrivere andava a vedere, toccare con mano, annusare. Una curiosità che lo ha portato in Spagna, in Francia, in Italia, in Africa, nella sua amatissima Cuba, quella della pesca, dei sigari, del mojito. Quando toccava una realtà se ne innamorava, cercava di capire entrando in sintonia con quello che raccontava. Si chiamava e si chiama: pathos, pietà, intelligenza. E da quella intelligenza, poi, nasceva il testo: racconto o reportage che fosse. Negli ultimi anni della sua vita, già gravemente dolorante per un incidente aereo, non smise di viaggiare, voleva ancora conoscere, innamorarsi. Scrivere. Oggi invece trionfa un altro modo di fare giornalismo, in cui la pietas è stata sostituita dalla crudeltà. Importante non è conoscere, non è aiutare a capire chi legge, ma fare audience. È il giornalismo che sembra fatto a immagine e somiglianza di un Savonarola per il moralismo, a un Davigo per la “presunzione di colpevolezza”, ma ancora più esattamente il modello è Andrej Vyšinskij, il pubblico ministero che interrogava gli accusati di tradimento durante il Grande terrore staliniano. Per lui tutti erano colpevoli, tutti avevano qualcosa da nascondere e da confessare, tutti dovevano essere messi sotto torchio perché sicuramente avevano minato la causa rivoluzionaria. Spesso venivano mandati a morire. Oggi il terrore (la storia si ripete in forma di farsa…) è quello di un giornalismo che invece di informare, processa, invece di capire condanna, invece di verificare le notizie, cerca il clamore. C’è anche la versione light: quella del giornalista che ti insegue per strada e ti fa la domanda sperando che tu non risponda e così possa dire: «Ah che infingardo, non ha risposto. Quindi è colpevole». Come la metti la metti, sembrano tanti figlioletti di Andrej Vyšinskij, non più ispirati dal sacro fuoco del comunismo, ma da quello della Verità, rigorosamente con la V maiuscola, che però di fatti, date, documenti se ne frega altamente. Il retropensiero è sempre lo stesso: «Non c’è ipotesi di reato? Va beh, qualcosa deve per forza aver fatto». Gli esempi si sprecano e ci sono intere trasmissioni che seguono il metodo Vyšinskij come se fosse il manuale del buon giornalismo. L’altro ieri, a Piazza Pulita, Corrado Formigli non ha intervistato il leader di Italia Viva Matteo Renzi: gli ha puntato la lampada e lo ha interrogato sul caso Open. Il volto contratto, la postura e il ghigno da pm, le domande di chi non ha alcun interesse a sapere cosa pensi o sappia l’altro, ma volte esclusivamente a incastrarlo, metterlo in cattiva luce, se possibile umiliarlo. Per sfortuna di Formigli, Renzi è bravino: si è sottratto abbastanza facilmente a questo gioco al massacro rispondendo per filo e per segno sul caso Open, e respingendo il metodo inquisitorio al mittente. Quasi tutta la tv oggi è costruita sul modello del processo: giornalisti-pm, opinionisti-giudici, spettatori-giuria popolare. È il cuore del populismo televisivo che in questi anni ha prodotto trasmissioni come Le Iene. I suoi giornalisti sono i migliori nel perseguitare l’obiettivo, nell’incalzarlo e nel creare casi che spesso si risolvono nel linciaggio della persona coinvolta. Ci stanno provando anche con il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che giovedì sera si è infuriato con la Iena Antonino Monteleone. «Lei – gli ha detto il premier – è fuori di testa». Conte, ormai celebre per il suo aplomb, ha perso la pazienza perché la Iena lo ha accusato di aver lavorato gratis per una consulenza ma di essersi poi fatto versare i soldi sul conto dell’avvocato Alpa: «Continuate a scrivere menzogne su menzogne. Non dovete approfittare del fatto che io da quando sono presidente del Consiglio non ho querelato nessuno». Normale che se si viene diffamati, incalzati con accuse false, ripetute in tutte le circostanze, ci si arrabbi. È quello che è accaduto anche al nostro editore, Alfredo Romeo, che per gentilezza ha accolto due giornalisti di Piazza pulita, rimasti fuori dalla sede per quasi tutto il giorno. Li ha fatti entrare, ha risposto alle loro domande, ma davanti alle inesattezze e alle insinuazioni ha perso la pazienza. I due giornalisti non avevano nessuna intenzione di conoscere i fatti, di sapere la versione dell’interlocutore, di verificare i dati in loro possesso. Erano lì per affermare la loro versione, per renderla più veritiera provando a mettere in difficoltà l’intervistato. Ma i fatti sono i fatti, le date sono le date e se si dice il falso, non è buon giornalismo, perché si nasconde la telecamera che riprende e registra, è – per citare Conte – una menzogna.
Matteo Renzi a PiazzaPulita contro Marco Travaglio: "Con i suoi soldi mi ci faccio una villa". Libero Quotidiano il 6 Dicembre 2019. La querelle tra Matteo Renzi e Marco Travaglio è lunga, anzi lunghissima. Il fu rottamatore è infatti l'ossessione principale - insieme a Matteo Salvini - del direttore del Fatto Quotidiano, house organ grillino (dopo il tramonto politico di Silvio Berlusconi, Travaglio ha dovuto cercare nuovi bersagli prediletti). E di questa "rivalità", ospite in studio a PiazzaPulita, ne parla direttamente il leader di Italia Viva, il quale ha a più riprese querelato il direttore grillino: "Con le cause civili contro Travaglio - spiega a Corrado Formigli su La7 - conto di pagare tre o quattro rate del mutuo". E ancora, aggiunge: "La chiamerò villa Travaglio. Anzi no, porta un po’ sfiga", conclude Matteo Renzi picchiando durissimo.
Renzi attacca Travaglio: “Con i soldi delle cause ci pago il mutuo della casa“. Nel corso della trasmissione Piazzapulita, Matteo Renzi ha attaccato Marco Travaglio: “Con i soldi delle cause civili mi pago almeno tre o quattro rate del mutuo”. Federico Giuliani, Venerdì 06/12/2019, su Il Giornale. Matteo Renzi ha sparato a zero contro chi lo accusa di essere “un disonesto”, facendo un esplicito riferimento a Marco Travaglio. Il fondatore di Italia Viva, intervistato da Claudio Formigli nel corso della trasmissione Piazzapulita su La7, non ha usato mezzi termini quando è stato incalzato sul fatto di non parlare della querela presentata all’indirizzo della giornalista de Il Corriere della Sera, Fiorenza Sarzanini. Da qui si è passati al nome di Travaglio, con il quale il senatore toscano ha uno “scontro aperto” da tempo. “Chi pensa che di me che sono un disonesto lo porto in Tribunale fino al terzo grado di giudizio. E con i soldi delle cause civili con Travaglio mi pago almeno tre o quattro rate del mutuo della casa. La chiamerò Villa Travaglio” ha detto Renzi riferendosi alle querele che ha sporto nei confronti del direttore de Il Fatto Quotidiano. A rispondere a Renzi è stato Antonio Padellaro, ex direttore del giornale amministrato dallo stesso Travaglio: “L’ho trovato molto simpatico e garbato, come al solito. Ha tirato in ballo il nostro giornale. Molto bene. Gli vorrei annunciare che con il denaro delle sue querele temerarie istituiremo il “premio Renzi” per i giornalisti più meritevoli”.
Una settimana infuocata. Quella appena conclusa, per Renzi è stata una settimana di fuoco. Come riporta Adnkronos, il senatore fiorentino ha dato mandato ai propri legali di agire in giudizio contro giornali e giornalisti che si sono cimentati ad approfondire l’inchiesta sulla Fondazione Open. In merito alla Sarzanini, Renzi ha spiegato su Twitter il motivo della sua azione: “Il Corriere scrive che io avrei ricevuto 'incassi della Fondazione', mescolando “interessi personali” e si domanda 'cosa ci fosse davvero dietro il regalo (!) fatto a Renzi'. Ovviamente tutto falso. Agisco in sede civile #ColpoSuColpo". Un chiaro avvertimento di Renzi era arrivato già lo scorso 28 novembre, dopo le perquisizioni legate alla medesima inchiesta: “Nessun polemica contro i magistrati ma chi mente sarà chiamato a risarcire, e conto di fare parecchi soldini". In seguito, Renzi ha fatto scattare “tre denunce penali”, la prima delle quali all’indirizzo di Travaglio “per aver detto che il Governo Renzi ha 'beneficato il gruppo Toto nel 2017'. Non so di cosa parli Travaglio. Ma so che il governo Renzi termina la propria esperienza nel 2016. Notizia falsa e diffamatoria, reato certo”. Le altre due denunce riguardano invece “la rivelazione di segreto bancario o istruttorio alla luce degli articoli della Verità e dell’Espresso". Per quanto riguarda Travaglio, Renzi ha così sottolineato così il motivo della denuncia: “Ho avviato azioni civili per un risarcimento danni per il video con la carta igienica, il titolo sulla Legge Ad Cognatum, gli editoriali contro Italia Viva, sulle mie attività 'in barba alla trasparenza', sulle mie frequentazioni all’Aniene 'per soldi e consulenze', sull’equiparazione con la P2 e anche quelli odierni sull’acquisto della mia casa e sui soldi di Open per 'comprare tessere e voti'. La richiesta del leader di Italia Viva ammonta a poco meno di un milione di euro di danni.
Luca Telese per “la Verità” il 5 dicembre 2019. Minacce e trucchi, diversioni spettacolari, e poi naturalmente, annuncio di querele come se piovesse. Chiamatela pure, se volete un nome appropriato per tutto questo, geniale disinformatja renziana. Perché da sette giorni Matteo Renzi e i suoi alter ego di Italia viva stanno seguendo uno spartito perfetto: una strategia finalizzata a ribaltare le accuse, a limitare la discussione sgradita, a rimuovere gli elementi compromettenti. Ma loro non guardano in faccia a nessuno: in ogni ospitata tv, in ogni intervista Renzi e i suoi leopoldini seguono un copione. È successo con Ettore Rosato a Piazza Pulita, poi il cliché si è ripetuto con Luigi Marattin ad Agorà, e lo spartito ha toccato acuti straordinari a L' Aria che tira dove un agguerrito Lucianone Nobili è riuscito a stabilire uno straordinario primato: parlare per dieci minuti all' insegna del «mi faccia rispondere per cortesia!», lasciando poi inevasa la domanda posta da Francesco Magnani. E questa è la carota. Poi, ovviamente, c' è il bastone: le minacce di querela agitate dal capo, come strumento dissuasivo e come pressione psicologica: a farne le spese - tra gli altri - Fiorenza Sarzanini del Corriere della Sera e prima di lei i colleghi Marco Imarisio del Corriere, e Simone Spetia di Radio 24, che (per due imprecisioni veniali, peraltro poi corrette) prima sono stati aggrediti da Renzi e poi investiti da un potentissimo shitstorm (campagna di attacchi online) dei suoi fan. Un bombardamento protrattosi per giorni. Anche dopo le tempestive (e forse persino non necessarie, scuse). Cosa avevano detto, entrambi? Che la nomina di Riccardo Maestrelli in Cassa depositi e prestiti aveva seguito un prestito da 700.000 euro per la la casa. Anche ieri, l'uomo di Rignano ha iniziato la giornata dando la linea alle truppe: «Oggi», ha scritto Renzi, «il Corriere scrive che io avrei ricevuto "incassi della Fondazione", mescolando "interessi personali" e si domanda "cosa ci fosse davvero dietro il regalo (!) fatto a Renzi". Ovviamente tutto falso. Agisco in sede civile #ColpoSuColpo». Non è una novità: Renzi aveva provato a comportarsi così quando il padre si era ritrovato impelagato nelle inchieste. Aveva annunciato decine di querele e cause civili, molte delle quali non sono state presentate. Alcune sono cadute solo dopo la condanna in primo grado. Ma questo all' ex premier non importa: il suo primo obiettivo è impedire che se ne scriva. Un risultato che talvolta riesce persino a raggiungere. #Colposucolpo, l' hashtag che contrassegna la sua campagna, vuol dire ai giornalisti - soprattutto ai giovani e ai precari - guardate che chi tocca Renzi paga (o perlomeno si deve difendere legalmente). È accaduto persino che qualche collega, prontamente glorificato dal leader di Italia viva, abbia colto lo spunto per attaccare i giornalisti e non il potente. È accaduto, per esempio, con Gianni Riotta, che ha scritto su Twitter: «Nel giornalismo si sbaglia ogni giorno. Ma gli errori nel ricostruire caso @matteorenzi non son refusi in buona fede. Sono conseguenza - ha sostenuto l' ex direttore del Sole - della corsa a piantare per primi i chiodi al condannato che dilaga da anni. Un livore che reca danni alle sue vittime e alla nostra professione». Il copione della campagna di disinformatja, nella sua semplicità, è disarmante:
1Che male c' è a chiedere un prestito?
2 I magistrati che indagano su Open sono gli stessi che hanno chiesto l' arresto dei genitori di Renzi.
3 «Questa vicenda nasce dalla Procura e viene riverberata sui giornali!». Infine, ciliegina sulla torta, «Non sta a un magistrato decidere cosa sia un partito o cosa una fondazione!». Come se questa inchiesta mettesse in discussione prerogative costituzionali!
Peccato che non sia vero nulla, che i magistrati non lo abbiano mai detto. Si interrogano, piuttosto se Open abbia funzionato come «una articolazione di partito». La fondazione, con i suoi obblighi di trasparenza infinitamente inferiori a quelli di un partito, diventa - secondo l' accusa - un contenitore meno trasparente. E tutti i leopoldini gridano in coro l' argomento due del loro copione: «Open era la fondazione più trasparente, con tutti i bilanci i chiaro!». Omettono di dire che, in nome del diritto alla privacy, molti dei suoi finanziatori (cosa che non può accadere con i partiti) possono scegliere di non comparire nelle liste pubbliche. Ed ecco invece un punto che la campagna cerca di negare. Come ben sanno i lettori della Verità la vicenda della casa:
1. Non nasce da un' indagine dei magistrati, ma da una segnalazione antiriciclaggio successiva a un' inchiesta pubblicata dalla Verità.
2. Il segreto bancario lo avrebbe dovuto «violare» lo stesso Renzi, se avesse mantenuto la sua promessa di mostrare «tutte le carte» quando l' acquisto fosse stato concluso (non è accaduto).
Ma il capolavoro è la madre di tutte le argomentazioni: il «prestito restituito» non è il problema. In Germania solo per aver ricevuto un prestito si è dimesso un presidente della Repubblica (Christian Wulff, aveva ottenuto da un imprenditore 500.000 euro). Il problema (di opportunità politica e di deontologia, prima che legale) è che per ben due volte (e questo non lo contesta) Renzi ha ricevuto soldi da persone che ha nominato in incarichi pubblici. È noto da anni che aveva un affitto pagato da Marco Carrai (designato alla società aeroporti di Firenze) e poi - l' ultima scoperta - dall' uomo che ha nominato in Cdp, Riccardo Maestrelli. C' è infine il problema politico, enorme come una casa, di un leader del Pd e dei suoi tesorieri che chiedono agli imprenditori (lo ha detto lo stesso Francesco Bonifazi per difendersi!) di finanziare una fondazione e non il loro partito. E del presidente di Open - Alberto Bianchi - che prende una parcella di 800.000 euro da una società e ne versa una parte nelle casse della fondazione. Ma le querele e le diversioni servono proprio a questo: cambiare l' agenda, impedire che se ne parli. Basta leggere questo giornale per capire che il trucco non funziona.
Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della sera” il 4 dicembre 2019. Prestiti «infruttiferi» con provviste sospette, carte prepagate utilizzate per oltre 200mila euro, fondi di cassa spariti dopo la chiusura della Fondazione: nell' inchiesta sulla Open emergono decine di movimentazioni segnalate dall' Unità antiriciclaggio negli ultimi tre anni. E così si scopre che i 20mila euro dati da Marco Carrai a Matteo Renzi nel 2018 provenivano da un «giroconto» di cui si sta cercando di individuare l' origine. Ma emerge anche che il presidente Alberto Bianchi sarebbe riuscito a occultare 190mila euro prima della liquidazione finale - disposta dal cda in cui c' erano anche Maria Elena Boschi e Luca Lotti - utilizzandoli in parte per «spese personali». Bianchi e Carrai sono indagati per finanziamento illecito proprio perché sospettati di aver versato gli incassi della Fondazione a Renzi e ad altri componenti del «giglio magico». Ma gli atti contenuti nel fascicolo processuale e soprattutto i documenti contabili dimostrano come si siano mescolati negli anni gli interessi della Fondazione e quelli personali in una girandola di bonifici e prelevamenti che si sta cercando adesso di ricostruire. La segnalazione relativa al 2018 riguarda Marco Carrai e viene ritenuta di «particolare rilievo». Scrivono gli specialisti dell' Uif: «Si evidenziano due operazioni transitate sul conto corrente di Carrai alimentato solitamente da competenze professionali e incarichi». La prima è del «5 aprile 2018 quando Carrai dispone un giroconto di 50mila euro». Quindici giorni dopo, esattamente il 20 aprile, ordina un bonifico di 20mila euro con causale «prestito una tantum infruttifero». Nella segnalazione si sottolinea come «quest' ultima operazione, inserita in home banking , fu segnalata dall' ufficio sicurezza per sospetta operazione fraudolenta, Carrai fu contattato ma confermò la correttezza della disposizione». Il documento è stato trasmesso alla Guardia di Finanza di Firenze specificando che «il sospetto riguarda la dinamica delle due operazioni descritte e le modalità e finalità del bonifico in uscita». Ecco perché le verifiche disposte dai magistrati coordinati dal procuratore Giuseppe Creazzo si concentrano sull'origine dei 50mila euro. Ma mirano anche a stabilire che cosa ci fosse davvero dietro il regalo fatto a Renzi. I controlli relativi a due anni fa hanno fatto emergere «nel periodo marzo-settembre 2017 sul conto della Fondazione Open un' operatività anomala caratterizzata da accrediti di bonifici per donazioni nonché una consistente movimentazione della carta prepagata aziendale per oltre 200mila euro. Quest' ultima risulta alimentata da ricariche effettuate sia dal conto corrente intestato alla Fondazione, che dal conto intestato al presidente del consiglio direttivo Alberto Bianchi e utilizzata per pagamenti di difficile tracciabilità i cui principali beneficiari sono Google, Paypal e Facebook». «Uscite» che adesso Bianchi dovrà giustificare. E non sono le uniche. L' esame dei conti correnti di Bianchi ha evidenziato come nel 2018 abbia ricevuto «bonifici da Open per 190mila euro con causale "restituzione parziale prestito" mentre egli aveva effettuato in favore della Fondazione bonifici di somme a titolo di "contributo volontario"». In realtà lo statuto di Open impone che al momento dello scioglimento «il patrimonio residuo venga devoluto a fini di pubblica utilità, quindi in beneficenza». In realtà le segnalazioni di operazioni sospette alimentano il dubbio che li abbia tenuti per sé: «Parte dei fondi ricevuti sono stati utilizzati per effettuare trasferimenti verso il rapporto personale di Bianchi il quale da febbraio 2017 a febbraio 2018 ha prestato alla Open circa 24mila euro ricevendone circa 197mila a titolo di rimborso o restituzione. Con le somme ricevute sul conto corrente Bianchi ha sostenuto spese per conto della Fondazione per 41700 euro mentre la restante quota dei fondi è stata utilizzata per sostenere spese correnti personali (carta di credito, pagamenti a collaboratori, utenze) mentre al 30 giugno 2018 sul suo conto risultavano ancora 61mila euro».
Simone Di Meo per “la Verità” il 4 dicembre 2019. E poi dicono che non c'è più fiducia nel prossimo. Prendete il caso della signora Anna Picchioni, vedova dell' imprenditore Egiziano Maestrelli e mamma dei tre fratelli Giulio, Elena e Riccardo. Finora si sapeva che aveva prestato 700.000 euro a Matteo Renzi per l'acquisto della supervilla di Firenze. Oggi, però, con le nuove carte che il nostro giornale ha potuto consultare, emerge una differente versione dei fatti. A cui lo stesso ex premier, nelle arringhe difensive (ieri l' ultima: «Il mutuo me lo pagheranno i giornalisti»), non ha dato spazio. E cioè che il destinatario del prestito non era lui ma sua moglie, Agnese Landini. L' ex Rottamatore ha sempre parlato, infatti, di una scrittura privata con la famiglia Maestrelli facendo intendere di esserne la controparte garante. Invece, la signora Picchioni ha prestato quei denari alla Landini. Un bel gesto di solidarietà femminile considerato che, con lo stipendio di insegnante di circa 1.500 euro al mese, la signora Renzi avrebbe impiegato 466 anni per estinguere il debito. Invece, come i nostri lettori ricorderanno, la cifra - bonificata sul conto cointestato dei coniugi Renzi - è stata resa con il gruzzolo guadagnato da Matteo con conferenze in giro per il mondo e coi diritti per il suo docufilm su Firenze. L'alert bancario si sofferma peraltro sulla provvista della matriarca Maestrelli. I 700.000 euro a lei sono arrivati con un bonifico «urgente» dalla Pi.Da spa (di cui è amministratore Riccardo, nominato con Renzi premier nel Cda di Cassa depositi e prestiti immobiliare) con causale riferita alla cessione di quote della partecipata Mega srl avvenuta, però, nel 2015. Un dettaglio tra i tanti che, per gli analisti di Bankitalia, solleva «dubbi sul presunto carattere fittizio della causale». Nella segnalazione, l' Antiriciclaggio si sofferma sul «sospetto che il passaggio della cospicua somma sul conto dell' anziana, in uno con l' indicazione del destinatario nella moglie dell' ex primo ministro ora senatore, sia stato compiuto al fine di impedire la riconducibilità dell' operazione agli effettivi titolari, disponente e destinatario e alle sue possibili motivazioni». Nella comunicazione si citano, poi, i rapporti bancari della Pi.Da spa con altri soggetti legati all' universo renziano. In particolare i 3 milioni di euro pagati dalla società alla Egan Immobiliare trasferiti subito dopo al socio Andrea Bacci, renziano di rito ortodosso, e le operazioni dare/avere per milioni di euro con società del Gruppo Orsero, alcune delle quali indicate come «entità di comodo». E, a proposito di finanziatori, dalle carte dell' inchiesta di Firenze sulla fondazione Open spuntano i nomi delle società finite nel mirino dei pm. Sarebbero una quarantina, secondo quanto riportato dal quotidiano Repubblica. Alcune sono vecchie conoscenze del renzismo. Come la Corporation America Italia che controlla 62 per cento di Toscana Aeroporti nel cui cda ci sono Marco Carrai (indagato nel filone Open) e Jacopo Mazzei. O come la Lagfin, l'accomandita lussemburghese che fa riferimento alla famiglia Garavoglia (gruppo Campari). Ci sono ancora l' Aurelia spa, la holding dei Gavio; la Golden Production srl, di cui un tempo era socio il cognato di Flavio Briatore, destinataria di una segnalazione di operazione sospetta per un finanziamento di 100.000 euro a Open malgrado i magri bilanci. E ancora la Irbm, azienda farmaceutica che ha ottenuto 52 milioni di finanziamenti pubblici di cui 12 dalla Regione Lazio e dal Cnr e altri 40 e da Miur e Cipe, ai tempi di Luca Lotti sottosegretario, e la sua partecipata Irbm. Tra le sigle all'attenzione dell'autorità giudiziaria la Kairos investment management che si rese protagonista, nel 2015, di operazioni di vendita allo scoperto sul titolo di Banca Etruria, quando vicepresidente era il papà del ministro Maria Elena Boschi. Ma l' elenco è ancora lungo: Telecomunicazioni Italia srl, l' Nh Group di Vittorio Farina, British American Tobacco, Chiantishire Società Agricola, Sanavir srl, Chiti Alessandro, Rtv38, Gruppo Menarini, Gruppo Garofalo, il Gruppo Moby di Vincenzo Onorato, Algebris investment di Davide Serra, la galassia societaria di Alfredo Romeo, e Vito Pertosa. A questi vanno aggiunti: Airlines handling agents spa, Alicross, Big space, Begin, G.F. Uno, Getra power, Mossi e Ghisolfi spa, Associazione Azimut, Associazione comunicazione reale, Mercante dei sogni, Intek group, Karat srl, Impresa Pizzarotti, e Intesa Aretina scarl. Fari accesi inoltre sulla Fingen dei fratelli Fratini (ex soci di Alitalia-Cai nel 2011) che risultò avere un'esposizione bancaria con Mps per 37 milioni. Sempre dalle carte fiorentine emerge una sorta di tariffario per poter incontrare e parlare con Matteo Renzi. In una mail del 23 maggio 2013, recuperata durante le perquisizioni dei giorni scorsi, Alberto Bianchi e Marco Carrai scrivono a potenziali investitori proponendo loro una sorta di offerta «speciale». Che i pm Antonino Nastasi e Luca Turco descrivono così: «La fondazione (Big Bang, ndr) ha necessità di reperire risorse e offre la possibilità di periodiche interlocuzioni con Renzi Matteo». In cambio di un «supporto di 100.000 euro all' anno per cinque anni, sostegno di idee, suggerimenti, proposte per Matteo e per la Fondazione, interlocuzioni con Matteo sia dirette, sia tramite Alberto e Marco». Bianchi è pure accusato di «intromissione», a favore della famiglia Toto, in tre dossier governativi relativi a canoni e tariffe autostradali. E, riguardo ai suoi rapporti con la dinastia imprenditoriale abruzzese, i pm stanno studiando la mail - già rivelata dalla Verità, nei giorni scorsi - in cui Bianchi annuncia a Luca Lotti di «aver avuto 750.000 sulla base dell' accordo con Toto» e che riceverà «altri 80.000 per l' accordo con la British American Tobacco». Informazioni che a Lotti dovrebbero essere estranee essendo quei soldi - è la difesa di Bianchi - provento delle sue parcelle professionali.
DAGONEWS il 5 dicembre 2019. C'è una grande assente dal polverone che investito l'universo che ha accompagnato Renzi nella sua scalata al potere, dal 2011 a oggi: Maria Elena Boschi. Pur essendo stata nel cda della fondazione Open insieme a Luca Lotti e Alberto Bianchi, non una riga è stata scritta sulla deputata di Laterina, già ministro per le riforme e sottosegretario di Palazzo Chigi. Non una carta dell'indagine in corso che citi la cosiddetta ''MEB''. Si è parlato delle carte di credito di Lotti, dei movimenti di denaro dell'avvocato Bianchi, delle società lussemburghesi di Carrai, dei finanziamenti di Serra, delle scelte politiche di Delrio, via via sfogliando i petali del Giglio Tragico. Delle perquisizioni subite dagli imprenditori-finanziatori, delle segnalazioni all'Antiriciclaggio sui prestiti e sui bonifici che venivano dalla Fondazione EYU guidata da Bonifazi, peraltro suo ex fidanzato ed ex collega di studio, tuttora socio del fratello. Ma zero carbonella su colei che fu ribattezzata ''Maria Etruria'' e che non pochi grattacapi diede al governo Renzi quando finì per aria la banca di Arezzo. Si è spesso parlato del rapporto non idilliaco (eufemismo) tra Boschi e Lotti, i due più antichi e fedeli collaboratori di Renzi, e il silenzio assordante di Maria Elena in questi giorni conferma questo retroscena: i due, pur essendo nominalmente parte integrante della Fondazione, non avevano gli stessi compiti, anzi. Se Luca era l'emissario che trattava con finanziatori o magistrati quando si parlava di nomine, Maria Elena non appare mai. È apparsa, ma per tutt'altro motivo, sulle pagine patinate di ''Chi'', dove ha parlato - senza che ce ne fosse un vero motivo - anche della sua vita sentimentale, raccontando di un amore durato anni e rimasto segreto, ''pure se entrambi eravamo liberi''. Questi servizi in genere vengono organizzati dagli spin doctor dei politici durante le campagne elettorali (o i mandati governativi) per avvicinarli agli elettori, umanizzarli, e in generale mettere il loro faccione davanti a (e)lettori che altrimenti li vedrebbero solo nei tg (o neanche lì). Non è questo il caso. Allora perché? L'intervista alla Boschi dà l'idea di una donna che vuole liberarsi da certe etichette, che dice al mondo ''la mia vita non si esaurisce nei palazzi romani, nel Giglio Magico fiorentino, nel Pd o in Italia Viva: ho avuto rapporti e amori di cui non sapete nulla, ho una mia indipendenza, identità e autonomia''. Dagospia ha indagato e scoperto che il suo amore (finito da un po') era il sindaco Nicola Cesari di Sorbolo-Mezzani, 12.500 abitanti alle porte di Parma. Certo, un renziano, un bel ragazzo smart e autoironico, con una discreta presenza social, ma di sicuro non un uomo di potere, come quelli che con un battito di ciglia avrebbe potuto conquistare Maria Elena nei suoi anni romani. Che ne sarà della sua carriera politica? Maria Elena arrivò da Firenze per diventare Presidente del Consiglio. Questi erano i piani originari di Renzi, il patto fondativo del Giglio Magico. Nei suoi progetti di grandeur immaginava una staffetta dopo il suo mandato a Palazzo Chigi, e dopo il titolo di premier più giovane si sarebbe intestato anche la prima donna premier della storia italiana, una Boschi che dopo un mandato parlamentare e un turno da ministra sarebbe stata pronta a guidare tutta la baracca. Invece poi arrivò la tempesta Etruria, l'immagine della Madonna di Laterina fu travolta dal crac della banca di cui aveva solo 1.500 euro in azioni (ma ci lavoravano padre e fratello, entrambi in un ruolo non secondario), la campagna soprattutto grillina fu inarrestabile ed ebbe successo nel tagliare le gambe a una ragazza inseguita dai paparazzi ma che voleva dare l'impressione di essere soprattutto una sgobbona. Passata la buriana delle banche, esattamente tre anni fa ecco il naufragio referendario della riforma costituzionale che portava il suo nome, un compito forse al di sopra delle possibilità di un giovane avvocato di provincia, con alle spalle una breve pratica in uno studio tributario. Aggravato dalla sciocca promessa di lasciare la politica in caso di sconfitta, non mantenuta. Due mesi dopo, febbraio 2017, la Consulta boccia la legge elettorale detta italicum. Dunque oltre al danno reputazionale legato a Etruria arrivò anche quello propriamente politico: un ministro delle Riforme che vede due leggi-manifesto bocciate senza appello. Non roba da mettere nel curriculum. In mezzo a questi due passaggi, l'impuntatura di restare nel governo Gentiloni come sottosegretario-badante del nuovo premier, una vedetta renziana nell'esecutivo che doveva far dimenticare le spacconate di Matteo. Un ruolo molto importante, forse anche questo prematuro, di custode del Consiglio dei Ministri. Ultimo step, in ordine di tempo, la candidatura a Bolzano, seggio blindato ben lontano dalla sua regione ormai ostile e dal territorio aretino incattivito. Dicevamo, che ne sarà della sua carriera politica? Potrebbe forse concludersi con questa legislatura mollando baracca e burattini?
Giacomo Amadori e Giuseppe China per ''la Verità'' il 2 dicembre 2019. In questi giorni in Parlamento girava voce che l'affitto della dimora romana di Matteo Renzi sia stato pagato dalla fondazione Open, almeno sino alla chiusura di quest'ultima. Ma il padrone di casa ha negato con forza: «Lei sta dicendo il falso e se lo scriverà ne risponderà». L'affittacamere dell'ex premier è un personaggio autorevole, essendo il capo del private banking di Unicredit Spa, Salvatore Pisconti, 57 anni, tarantino. È stato impossibile scucirgli il prezzo della pigione, visto che il banchiere si è indispettito già alla prima domanda: «Lei non è autorizzato a chiamarmi su questo numero. Inoltre si tratta di informazioni privilegiate protette dalla privacy e io e lei non ci conosciamo». Abbiamo sommessamente fatto presente che stavamo solo cercando di verificare una presunta notizia, ma è stato impossibile convincere l' interlocutore della legittimità dei nostri quesiti. Anche se qualcosa siamo riusciti a sapere. «Lei mi chiede se a pagare un determinato ammontare sia una fondazione e la risposta è no», ci ha detto Pisconti. Poi ha aggiunto: «L' appartamento di cui parla è di mia proprietà non esclusiva, visto che è anche di mia moglie, a riscuotere l' affitto è lei e sono ben sicuro, perché i conti di mia moglie li vedo, che a pagare non è quella fondazione che lei dice». Avere altre informazioni è stato impossibile. Nel frattempo avevamo scritto (visto che non ci rispondeva al telefono) anche a Bonifazi e lui, dopo un' ora, ci ha inviato un messaggino con la risposta ai nostri tre quesiti. Primo: una fonte ci ha riferito che l' affitto della casa di via [] sarebbe stato pagato dalla fondazione Open. È vero? Replica: «No, no è falso. Open non paga e non ha mai pagato la casa di Renzi». Secondo: se non è vero chi versa l' affitto, lei, Renzi oppure fate a metà? «Il contratto e intestato a me per motivi di riservatezza, ma Renzi paga tramite bonifico mensile tracciato e riscontrabile la parte di sua competenza compreso condominio e utenze». Terzo quesito: come avete individuato l' appartamento del signor Pisconti? Tramite agenzia? «Confermo, agenzia, almeno mi pare». A questo punto ci siamo lanciati e abbiamo proposto una quarta domanda: è possibile sapere quanto paghiate? «Eh no, così è troppo. Buonasera». Quindi per sapere qualche cosa in più sulla convivenza dei due senatori di Italia viva, abbiamo provato senza soddisfazione a rivolgerci a Sonia, la portiera indiana del condominio. La signora ha difeso la privacy dei due politici con la grinta di un Claudio Gentile ai Mondiali del 1982. In compenso un vicino ci ha confidato che i due sarebbero arrivati «più o meno contemporaneamente», quando il fu Rottamatore era ancora premier. «Avevamo scorte dappertutto, gente sui pianerottoli», ricorda chi c' era. Dunque i due senatori vivono come vitelloni o universitari sotto lo stesso tetto, in un piccolo appartamento (pare sui 50 metri quadri), e qui condividono gioie e dolori della loro vita capitolina. Negli ultimi giorni è stato travolto dalle polemiche Renzi per presunti finanziamenti anomali intorno a Open, ma anche per le segnalazioni dell' Unità di informazione finanziaria (l' antiriciclaggio) sul giro di denari che ha portato all' acquisto della lussuosa villa di via Tacca a Firenze, una dimora da 1,3 milioni. Quasi contemporaneamente anche Bonifazi deve far fronte a qualche grattacapo. Per esempio a inizio novembre ha ricevuto l' avviso di chiusura indagini per l' inchiesta su un' altra fondazione, Eyu, di cui era presidente. Il senatore è accusato di finanziamento illecito e false fatturazioni per i soldi che ha versato nelle casse dell' associazione Luca Parnasi, l' imprenditore che si vantava di pagare tutti i partiti e che adesso è finito a processo. Chissà se nel loro appartamento non distante dalla stazione Termini Renzi e Bonifazi dimenticheranno le angustie delle inchieste giudiziarie e si spensiereranno giocando alla Playstation. Quel che possiamo testimoniare è che Bonifazi entra ed esce a piedi. Renzi, invece, preferisce fare il suo ingresso su auto dai vetri oscurati della scorta (otto uomini a rotazione). A volte su una Audi A6 nera, a volte su un Grand Cherokee, a volte su una Passat grigia. Un parco macchine ancora di tutto rispetto, non molto diverso dai tempi in cui il nostro era premier. Ieri abbiamo visto entrare la macchina dei servizi segreti in retromarcia dentro al portone, prima di sparire inghiottita nel cortile del condominio. Sul campanello dell' appartamento dei due senatori non è scritto nessun nome e quando abbiamo suonato, in diversi momenti della giornata, non ci ha risposto nessuno. La convivenza di Renzi con Bonifazi ricorda i tempi in cui l' ex sindaco di Firenze abbandonò una mansardina di 80 metri quadri da 1.000 euro al mese dietro a Palazzo Vecchio per trovare ricovero sotto il tetto dell' amico imprenditore Marco Carrai (pure lui indagato a Firenze per finanziamento illecito). Era il 2011 e all' epoca il fu Rottamatore non riusciva a pagare un affitto da solo (incassava uno stipendio di circa 4.000 euro, mica come oggi che viaggia su redditi annuali a sei zeri). Nel piccolo attico di via degli Alfani 8 l' affitto salì a 1.200 euro, ma a pagarlo era Carrai. Matteo stabilì la residenza in quell' appartamento dal 14 marzo 2011 al 22 gennaio 2014 e l' amico pagò in sua vece quasi 37.000 euro. Certo Bonifazi come coinquilino ha la fama di essere più spassoso di Marchino (tutto lavoro e famiglia). L' avvocato senatore ama la movida com' è e le belle donne (in passato gli è stato attribuito un invidiato flirt con Maria Elena Boschi) e chissà se Agnese, la moglie dell' ex segretario Pd, è contenta di sapere il suo Matteo in tale compagnia. Va ricordato, a onor del vero, che Renzi ha fama di marito innamorato e premuroso e che lui e la consorte, genitori di tre magnifici ragazzi, hanno festeggiato il ventesimo anno di matrimonio il 4 settembre. Ma il nuovo progetto di Italia viva, il governo e il bene del Paese valgono ben qualche serata lontano da casa e in compagnia del barbuto coinquilino.
Open, ecco le quaranta società nel mirino dei pm. Gli inquirenti fiorentini sulle tracce dello "schema Bianchi", ma i legali dell'ex presidente della Fondazione frenano: "Quasi nessuna consulenza". Marco Mensurati e Fabio Tonacci il 03 dicembre 2019 su La Repubblica. E' caccia allo “schema Bianchi”. Repubblica è in grado di rivelare l'elenco completo delle società italiane e straniere sottoposte al vaglio dei pm fiorentini, che in queste ore stanno cercando di districare “l'intreccio tra prestazioni professionali rese da Alberto Bianchi e i finanziamenti alla Fondazione Open”, come scrivono nel decreto di perquisizione dell'avvocato Bianchi. Una prima lista è composta da una ventina di soggetti tra società e imprenditori, individuati lo scorso ottobre dagli investigatori del Nucleo di polizia economico-finanziaria di Firenze: British American Tobacco, Fingen spa, Chiantishire Società Agricola, Sanavir srl, Chiti Alessandro, Rtv38, Gruppo Menarini, Gruppo Garofalo, Gruppo Maestrelli Pida, Telecomunicazioni Italia srl, Gruppo Golden Production, l'Nh Group di Vittorio Farina, il Gruppo Moby di Vincenzo Onorato, Algebris Investment di Davide Serra, la galassia societaria di Alfredo Romeo, e Vito Pertosa. C'è poi un secondo elenco di persone fisiche o persone giuridiche “collegate ai soggetti predetti”: Airlines Handling Agents spa, Corporation America Italia, Alicross, Lagfin, Aurelia srl, Big Space, Begin, G.F. Uno, Getra Power, Mossi e Ghisolfi spa, Golden Production, Associazione Azimut, Associazione Comunicazione Reale, Il Mercante dei Sogni, Intek Group, Promidis, Irbm spa, Karat srl, Impresa Pizzarotti, Intesa Aretina scarl. Gli ultimi ad essere stati individuati dai finanzieri, a novembre, sono stati Kairos Investment Management spa e Kairos Partners Sgr. Cosa cercano gli inquirenti? Tracce di quello che sempre di più si va delineando come lo “schema Bianchi”, e che i pm ritengono di aver fotografato nell'affaire Toto. In sintesi: l'avvocato Bianchi, già legale rappresentante della Fondazione Open (“cassaforte” che ha finanziato l'ascesa politica di Matteo Renzi) ottiene dal Gruppo Toto un incarico per risolvere un contenzioso con Autostrade per l'Italia e per cui viene pagato 2 milioni e 250 mila euro; parte di quel denaro, 750 mila, se lo fa accreditare sul proprio conto personale; bonifica poi ad Open 200 mila euro, e altri 200 mila li gira al Comitato per il Sì al referendum del 2016. Non irrilevante, ai fini della dimostrazione dello schema, l'appunto datato 12/9/2016, in cui Bianchi riferisce all'allora sottosegretario Luca Lotti “di aver ricevuto 750 k sulla base dell'accordo con Toto” e lo informa di aver fatto il bonifico ad Open. Un'impostazione rigettata completamente dall'avvocato difensore di Bianchi, Nino D'Avirro, il quale sostiene che il suo assistito non ha avuto consulenze con quasi nessuno delle società indicate dagli inquirenti. E che anche nel caso di Toto si trattava di una regolare parcella.
Fabio Amendolara e Alessandro Da Rold per “la Verità” il 4 dicembre 2019. Se i benefattori di fondazione Open sono stati spesso inseriti in consigli di amministrazione di società pubbliche o hanno spesso lavorato nella pubblica amministrazione, quelli di fondazione Eyu, creata per tutelare i media vicini al Partito democratico (Europa, Youdem e L' Unità) non sono da meno. Basta spulciare tra le segnalazioni che la Guardia di finanza ha depositato il 9 luglio scorso nel procedimento a carico dell' ex tesoriere del Pd, Francesco Bonifazi, e dell'immobiliarista Luca Parnasi (accusati di finanziamento illecito e false fatturazioni). Nelle 17 pagine, come già anticipato dalla Verità, vengono messe nero su bianco le entrate e le uscite di Eyu, in particolare nel periodo che va dal 2017 al 2018. Ma sempre da quelle pagine emergono le relazioni strettissime tra i finanziatori della Fondazione e la compagine renziana a vari livelli. E non ci sono soltanto ingressi in cda di società partecipate o incarichi. Scorrendo la lista dei finanziamenti saltano fuori connessioni, rapporti di rete e relazioni. Oltre ai 150.000 euro di Parnasi tramite la Pentapigna immobiliare, oggetto del procedimento penale, gli investigatori segnalano ben 100.000 euro bonificati sui conti di Eyu da Msc Crociere. Qualche anno prima Renzi battezzò, alla vigilia delle elezioni europee del 2014, l' intesa tra Msc e Fincantieri (2,1 miliardi per la costruzione di due navi da crociera). Coincidenza, a gennaio 2017, Msc Group annuncia la nomina di Luigi Merlo, già presidente per sette anni del porto di Genova (dal 2008 al 2015) e prima ancora assessore ai Trasporti della Regione Liguria (dal 2005 al 2008), già consigliere per la Portualità e la Logistica del ministro alle Infrastrutture Graziano Delrio, nonché marito della comunistissima deputata dem Raffaella Paita (candidata renziana bocciata alle scorse elezioni per la presidenza della Regione Liguria), a direttore dei rapporti istituzionali per l' Italia. Un rapporto che, però, si è interrotto poco dopo. Giusto il tempo di finire in un fascicolo dell' Anac, l' authority anticorruzione, per pantouflage, ovvero il passaggio di funzionari pubblici in aziende private con cui avevano intrattenuto in precedenza rapporti negoziali. Il divieto di pantouflage, inserito tra le riforme anticorruzione del 2012, vieta infatti ai dipendenti della Pubblica amministrazione che negli ultimi tre anni di servizio hanno esercitato poteri per conto della Pubblica amministrazione di svolgere, nei tre anni successivi alla cessazione del rapporto di pubblico impiego, attività lavorativa o professionale con i privati destinatari dell' attività del loro ufficio. Ne è nato anche un procedimento al Consiglio di Stato sulla titolarità del fascicolo che, a luglio, ha dato ragione all' Anac. Merlo, che aveva lasciato l' incarico di presidente del porto di Genova il 20 novembre del 2015 era stato assunto nel gennaio del 2017 da Msc Cruises che era in quel momento il primo cliente crocieristico del porto di Genova. I tre anni, insomma, non erano passati. Ma nel conto economico di Eyu sono entrati anche i 109.991 euro versati da Feps, la Fondazione degli studi progressisti europei che riunisce una cinquantina di fondazioni socialiste e socialdemocratiche dei Paesi dell' Unione europea. Viene finanziata dall' Ue con 4,5 milioni di euro ogni anno.
Qui bisogna fare un inciso. Perché la presidenza di Feps, dove solo nel 2016 era entrata Eyu, fu un campo di battaglia tra l' ex premier Massimo D' Alema, fra i titolari della vecchia ditta Pci/Ds e il Bullo. A perdere, nell' estate del 2017, fu proprio Baffetto, che non fu confermato alla presidenza, mentre nel board entrò Adrio de Carolis, renziano di ferro, già amministratore delegato di Swg, l'azienda di sondaggi che regola gli umori della politica in Italia. Oltre ai 40.000 euro di Emanuele Boschi, socio dello studio legale di Bonifazi e Federico Lovadina, quest' ultimo nominato in Ferrovie dello Stato e ora in Sia, ci sono anche i 12.200 euro della Zucchetti centro sistemi. Questa società ha ricevuto nel 2014 un appalto per affidamento diretto da Mercafir (società consortile che dal 1989 gestisce il Centro alimentare polivalente di Firenze) del valore di 37.500 euro. Mercafir, dove Lovadina è stato presidente fino al 2013, è partecipata dal Comune fiorentino con il 59,59 per cento. Poi ci sono i 115.000 euro nel 2018 versati dalla Octo Telematics Spa, produttrice di scatole nere per auto e altri servizi di geolocalizzazione, nella quale aveva investito a suo tempo Luca Cordero di Montezemolo, ex presidente Ferrari che ha introdotto Renzi nel mondo del business degli Emirati Arabi: grazie ai suoi consigli sono arrivate in Italia Etihad e il fondo Mubadala con il tentativo di salvataggio di Alitalia e Piaggio Aerospace. Ci sono poi 10.000 euro versati dal fiorentino Francesco Rossi Ferrini, ai vertici di Jp Morgan, nominato quest'anno in fondazione Cassa di risparmio di Firenze, azionista di Intesa San Paolo e guidata negli ultimi cinque anni dall'avvocato Umberto Tombari, il «maestro» di Bonifazi e dell' ex ministro per le Riforme, Maria Elena Boschi. Su Jp Morgan alla vigilia del referendum costituzionale i pentastellati lanciarono un sospetto: dietro alle modifiche renziane alla Costituzione italiana e al Parlamento che avrebbero reso l' Italia più flessibile alle esigenze delle grandi potenze finanziarie mondiali ci sarebbe stata proprio Jp Morgan. Nessuno era mai riuscito però a collegare il colosso statunitense a Renzi o al Pd. Il finanziamento a Eyu by Rossi Ferrini potrebbe ora riaccendere sentimenti di rivolta verso l' alleato di governo nella base integralista grillina. Altri 10.000 euro a Eyu arrivano dalla Pellegrini Spa di Ernesto Pellegrini, ex patron dell' Inter. Nell' estate del 2019 la Pellegrini si è aggiudicata in un unico affidamento, l' appalto per le pulizie civili e industriali e per i servizi mense di Arcelor Mittal dell' Ilva di Taranto, che veniva effettuato da tre diverse aziende, scatenando le proteste della Uiltrasporti. E poi, ancora, a Eyu arrivano 36.600 euro di Manutencoop facility, collezionista di appalti in Expo 2015 ma, soprattutto, multata dall' Antitrust per la maxi gara di Consip, quando fece cartello con altre aziende tra cui la Romeo Gestioni. Romeo, invece, scelse Open, versando 60.000 euro con la sua Isvafim, prima di finire nel caso Consip con Luca Lotti e babbo Tiziano Renzi. C' è anche Fastweb, con 40.000 euro. Nell' azienda telefonica il direttore relazioni esterne e istituzionali è Sergio Scalpelli, già fondatore del quotidiano Il Foglio nel 1996, anima politica a Milano, tra i sostenitori di Renzi durante il referendum costituzionale del 2016. Scalpelli condivide il comitato strategico del centro studi Grande Milano, associazione molto importante nel capoluogo lombardo. Tra gli animatori c' è anche l'avvocato amministrativista Carlo Cerami, anche lui del circolo renziano della Pallacorda in corso Magenta. Cerami, molto vicino al sindaco Beppe Sala, fu nominato dal governo Renzi in Terna e poi ha trovato posto in Poste Italiane dove l' amministratore delegato è un renziano doc, Matteo Del Fante.
Marco Mensurati e Fabio Tonacci per ''la Repubblica'' il 3 dicembre 2019. Centomila euro per incontrare Matteo Renzi. Era la "tariffa" che l'avvocato Alberto Bianchi, già capo della fondazione Open e amico personale dell'ex premier, chiedeva durante cene riservate, a cui partecipavano imprenditori e petali pregiati del Giglio Magico. E' una delle circostanze che emerge da carte giudiziarie, finora inedite, dell'inchiesta della procura di Firenze, e che raccontano come funzionavano le cose attorno a Open, nonché quale fosse il vero ruolo di Bianchi. Un uomo capace, nella sua doppia veste di avvocato e braccio destro di Renzi, di intromettersi in tre diversi dossier del ministero delle Infrastrutture, cercando di indirizzarli verso gli interessi del Gruppo Toto. Suo cliente, e, "incidentalmente", tra i maggiori finanziatori di Open.
La mail col tariffario. Nel computer di Bianchi gli investigatori del Nucleo di polizia economico-finanziaria hanno trovato una mail, datata 23 novembre 2013, avente oggetto "fondazione Big Bang". Big Bang era l'embrione di Open. E' firmata "Alberto" e "Marco", cioè Alberto Bianchi e Marco Carrai, ed è inviata a potenziali finanziatori: Davide Serra, Vito Pertosa, Beniamino Gavio, Luigi Scordamaglia. Tutti facoltosi imprenditori. "La fondazione - scrivono i pm Luca Turco e Antonino Nastasi - ha necessità di reperire risorse e offre la possibilità di periodiche interlocuzioni con Renzi Matteo". La comunicazione aveva lo scopo di definire "presupposti" e "impegni reciproci", che i magistrati sintetizzano così: "Supporto di 100 mila euro all'anno per cinque anni, sostegno di idee, suggerimenti, proposte per Matteo e per la Fondazione, interlocuzioni con Matteo sia dirette, sia tramite Alberto e Marco". Terminali delle comunicazioni a Renzi, quando non fosse stato possibile parlare direttamente con lui, erano Bianchi e Carrai. La mail è stata scritta il giorno dopo una cena di supporto all'allora sindaco di Firenze, che di lì a due settimane sarebbe diventato segretario del Pd.
Toto e il Giglio Magico. Sin qui, per quanto esosa, si tratta di attività di fundraising. Ma il ruolo di Bianchi, vedremo, va ben oltre, sconfinando, secondo gli inquirenti, nel finanziamento illecito ai partiti e nel traffico di influenze. E' il caso dell'affaire Toto, che viene ricostruito nel decreto in tutti i suoi passaggi, e il cui esito, sappiamo, sono i 400 mila euro che Bianchi bonifica metà a Open e metà al Comitato per il Sì al referendum sulla riforma della Costituzione. Con ordine. Nel 2016 Bianchi viene ingaggiato dalla Toto Costruzioni, nonostante avesse già un altro avvocato, per risolvere un contenzioso con Autostrade per l'Italia. E' la storia dei due lotti della variante di Valico, il cui costo si era rivelato superiore a quanto preventivato e per cui Toto Costruzioni batteva cassa. La prima mossa di Bianchi è apparentemente incomprensibile: scrive, infatti, a Patrizio Donnini, imprenditore del settore Comunicazione e membro ad honorem del Giglio Magico per conto del quale organizza la Leopolda. A Donnini Bianchi parla non solo del contenzioso, ma anche di altre "pratiche concernenti i Toto", un Gruppo che Donnini conosce bene visto che da questi ha incassato, negli ultimi anni, 4,3 milioni di euro.
L'appunto per Lotti. Donnini non è l'unico petalo del Giglio compulsato da Bianchi: "Nell'adempimento dell'incarico si rivolge anche a Carrai, il quale, a sua volta, interagisce con l'amministratore delegato di Autostrade per l'Italia (Giovanni Castellucci, ndr)". L'avvocato tiene costantemente informato pure Luca Lotti, che in quel momento è sottosegretario alla Presidenza del consiglio e segretario del Comitato interministeriale per la programmazione economica. Ancor più strano, e del tutto incompatibile col concetto di trasparenza invocato in queste ore da Renzi per difendere la reputazione di Open, è ciò che Bianchi fa una volta raggiunta l'intesa tra Toto e Autostrade per l'Italia: "I soci del suo studio legale - si legge nel mandato di perquisizione - si sono accordati, in via eccezionale, affinché un terzo del compenso (750 mila euro) fosse corrisposto non alla associazione professionale, bensì all'avvocato Bianchi in proprio". Gli affari del Gruppo Toto sono vissuti come di primaria importanza dal Giglio Magico, e lo si deduce da un appunto riservato, recuperato durante le perquisizioni. Bianchi comunica a Lotti di "aver avuto 750k sulla base dell'accordo con Toto e che riceverà altri 80k per l'accordo con la British American Tobacco (altro finanziatore di Open, ndr)". Quindi lo informa di aver determinato "con l'aiuto di un commercialista" una cifra netta: i famosi 400 mila euro.
Le tre "intromissioni" di Bianchi. Il sospetto dei pm è che, stavolta, non si tratti di semplice fundraising. Sospetto alimentato dai fatti accaduti successivamente a quella dazione, e che i pm qualificano come "un'intromissione dell'avvocato Bianchi" nei percorsi normativi di tre importanti dossier sui tavoli del governo, tutti di grande interesse per il Gruppo "amico", chiamato, dopo i terremoti dell'Aquila (2009) e di Amatrice (2016), a mettere in sicurezza antisismica le due autostrade A24 e A25. Un'operazione da 265 milioni di euro. Centododici i Toto li trovano con la sospensione del pagamento dovuto ad Anas per il canone di concessione, misura ottenuta con un emendamento alla cosiddetta "Manovrina" del maggio 2017, sotto il governo Gentiloni. Questo è il primo dossier su cui Bianchi è accusato di indebita "intromissione". Il secondo è il decreto Sud (giugno 2017), che vale, per i Toto, un contributo statale da 50 milioni di euro per quattro anni, dal 2021 al 2025. Sul terzo dossier i pm, nell'atto con cui dispongono la perquisizione dello studio di Bianchi, rimangono vaghi, sottolineando solo che riguarda "corrispettivi derivanti dai rapporti con i concessionari autostradali". A quel che si capisce, i canoni e le tariffe.
Il triangolo. Tutto l'affaire Toto viene così interpretato dai pm, in un passaggio cruciale del documento, che rappresenta la base su cui poggia l'intera inchiesta. "Le operazioni di trasferimento di denaro dal Gruppo Toto a Bianchi, e quindi da Bianchi ad Open (articolazione di partito) risultano in effetti dissimulare un trasferimento diretto dal Gruppo ad Open, laddove una pluralità di soggetti della fondazione (Bianchi, Carrai e Lotti) si sono interessati all'accordo transattivo Toto-Autostrade e, taluni (Bianchi), anche a modifiche normative inerenti il settore delle infrastrutture autostradali". Lo schema Bianchi, appunto.
Open, nel Pd sono sicuri: "Ricordate Di Pietro?", perché Renzi rischia una fine tragica. Libero Quotidiano il 7 Dicembre 2019. Nel Pd gira una voce: l'indagine sui finanziamenti alla fondazione Open sarà la fine politica di Matteo Renzi. Al Nazareno e dintorni, si sussurra che l'escalation del leader di Italia Viva sulla manovra, con il pressing per eliminare a tutti i costi micro-tasse e soprattutto plastic tax abbia un chiaro sapore elettorale. "Alza i toni perché è precipitato al 10% di gradimento - sussurrano con perfida ironia fonti dem al Corriere della Sera -. E ricordiamoci che Di Pietro cadde dopo un'inchiesta sulle sue case". Il riferimento, è alle carte su prestito e mutuo per la villa fiorentina dell'ex premier, ovviamente. L'unico per ora a gettare acqua sul fuoco della crisi è il diretto interessato, Giuseppe Conte, che anzi giura: "I partiti, a cominciare da M5s e Italia viva, non hanno interesse ad andare al voto". Sereno lui, sereni tutti.
Da ilfoglio.it il 6 dicembre 2019. “Non ho ancora capito quale sia la violazione della legge da parte di Renzi”. L'ex magistrato Antonio Di Pietro, intervistato a “L'Italia s'è desta” di Radio Cusano Campus, ha difeso il leader di Italia viva coinvolto nell'indagine sulla Fondazione Open. Secondo Di Pietro, ''il sistema delle fondazioni così come è strutturato attualmente ha dei buchi enormi. Alcune fondazioni vengono utilizzate per occultare patrimoni o utilizzare patrimoni non trasparenti. Non sono certo amico di Renzi, però bisogna essere obiettivi”. Il pm emerito poi ha ricordato che “il magistrato si deve occupare del reato solo dopo che è stato commesso”, se no “si corre il rischio di affidarsi ai magistrati per risolvere i problemi che dovrebbe risolvere la politica”. Infine Di Pietro ha invitato i partiti a prendere posizione, facendo “una legge di trasparenza sulle fondazioni”. Le parole di Di Pietro arrivano il giorno dopo che i membri del Consiglio Superiore della Magistratura si erano esposti dicendo che la forte reazione di Renzi, veicolata tra social e interviste, all'inchiesta su Open “alimenta un clima di delegittimazione nei confronti dei magistrati della procura di Firenze”. Intanto, la pressione mediatica suscitata dall'inchiesta ha fatto calare il partito Italia viva di quasi un punto percentuale in una settimana, passando dal 4,5 per cento del 26 novembre al 3,6 per cento del 3 dicembre, secondo una rilevazione di Ixè.
Analisi. La villa, il prestito, la fondazione: ecco perché Matteo Renzi è il politico più detestato d'Italia. Poltrone d’oro, parcelle milionarie, prestiti da imprenditori, favori reciproci: giunti al potere, i rottamatori del Giglio magico sono finiti in scandali di ogni tipo. Al netto della rilevanza penale, il comportamento del capo e dei suoi fedelissimi ha bruciato in pochi anni un consenso che era gigantesco. Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian il 9 dicembre 2019 su L'Espresso. Per capire come mai Matteo Renzi, l’enfant prodige della politica italiana capace di portare solo cinque anni fa il Pd oltre il 40 per cento, è diventato il leader più divisivo e detestato d’Italia basta guardare la fotografia del comitato direttivo della Fondazione Open. Nell’organismo compaiono tutti i luogotenenti del renzismo. Che raccontano, con le loro storie e i loro inciampi, i motivi reali della crisi politica in cui s’è avvitato l’ex fenomeno di Rignano sull’Arno. Da Maria Elena Boschi che chiedeva all’ad di Unicredit di comprare Banca Etruria al presidente Alberto Bianchi incassatore di consulenze per conto di Consip e dei Gavio, fino al sussurratore Marco Carrai e a Luca Lotti detto “il Lampadina”, imputato a Roma e intercettato con Luca Palamara. Le vicende del Giglio magico sono metafora del “rise and fall” della falange venuta dalla provincia. Dopo aver preso il Palazzo grazie alla forza carismatica del capo, si è trasformata nell’immaginario da banda di coraggiosi rottamatori a gruppo di sodali intenti – più che al bene pubblico – ai propri interessi. «Non sono un traffichino!», si giustificò Renzi a Matrix due anni fa, mostrando il suo estratto conto da 15 mila euro, per dimostrare che con la politica non s’era arricchito. «Open è la fondazione più trasparente del mondo, i magistrati di Firenze che stanno indagando sulle donazioni vogliono solo colpire Matteo e il suo nuovo partito», ripetono oggi gli onorevoli di Italia Viva, che temono il declino politico del senatore di Scandicci. La scorsa settimana ha visto la fiducia crollare, secondo l’ultimo sondaggio Ipsos che misura il consenso personale dei leader, a un misero 10 per cento, dietro pure a Silvio Berlusconi. «Non c’è nessun reato», urlano fan e cantori di Matteo. Che indicano giornalisti, i magistrati, poteri forti e nemici assortiti come i responsabili veri del complotto. Unici untori della “sindrome di Malaussène” che avrebbe infettato Renzi e i suoi uomini, diventati ingiustamente capri espiatori di ogni male del mondo come accade al protagonista dei romanzi di Daniel Pennac. Se pure è vero che Matteo si è fatto parecchi avversari, che i grillini e la Bestia di Matteo Salvini hanno usato i social e le fake news contro di lui come una clava, causa primaria della decadenza di Renzi non sono improbabili cospirazioni. Né presunti reati ancora non dimostrati. Piuttosto gli errori e i comportamenti del capo e dei devoti hanno allontanato le simpatie e i favori degli elettori. L’Espresso la scorsa settimana ha rivelato la vicenda del prestito da 700 mila euro che Renzi ha ottenuto dalla famiglia Maestrelli. Denaro che, come ricostruito dagli investigatori dell’antiriciclaggio di Banca d’Italia, è arrivato da una società dell’amico Riccardo specializzato nell’ortofrutta (nominato in Cassa Depositi e Prestiti Immobiliare nel 2015), e che è stata schermata dietro il conto corrente della madre Anna Picchioni. Al di là dei fascicoli giudiziari, è opportuno che un politico di primo piano compri una villa da 1,3 milioni di euro con un’operazione finanziaria che Bankitalia definisce «anomala»? Ha sorpreso il fatto che l’ex premier sia riuscito a restituire il prestito dopo cinque mesi grazie ai soldi ottenuti dal manager delle star tv Lucio Presta: attraverso una sua società ha liquidato il leader (per il documentario “Firenze secondo me” uscito su Discovery lo scorso dicembre con il 2 per cento di share) con quasi mezzo milione di euro. Una somma che appare agli esperti fuori mercato. Renzi non ama fare autocritica. Ma il consenso rischia di crollare anche a causa di notizie che, seppur prive di rilevanza giudiziaria, sono dense di convenienza etica. Come quella per esempio del “tariffario” per interloquire con il rottamatore: in una mail di Bianchi pubblicata da Repubblica si legge che investendo «100 mila euro per cinque anni» imprenditori e manager potevano parlare direttamente con l’ex premier o, in subordine, con Carrai e Bianchi. Per non parlare degli effetti mediatici delle donazioni a favore di Open effettuate da impresari (come Gianfranco Librandi, che ha girato 800 mila euro, e l’ex grande fratello Mattia Mor, che ha detto di non ricordare la cifra esatta bonificata) inseriti poi nelle liste elettorali per la Camera dei Deputati. «Renzi aveva il dovere di scegliere le persone più brave d’Italia, non le più fedeli di Rignano. C’è certamente in lui una confusione tra paese e Paese», spiegava Ezio Mauro ai tempi dello scandalo Consip, quando si scoprì che il babbo Tiziano Renzi (condannato in un altro procedimento qualche mese fa in primo grado a un anno e nove mesi di carcere per false fatture) era accusato di aver fatto pressioni per condizionare le gare della grande stazione appaltante dello Stato. Ecco: è stato lo spread tra annunci roboanti sulla meritocrazia e una selezione della classe dirigente fondata quasi esclusivamente sulla fedeltà e su interessi particolari, molto più delle inchieste giudiziarie, il detonatore dello scontento che sta affossando Matteo. Insieme a mosse e giravolte politiche spericolate (gli ammiccamenti con Denis Verdini, la nascita del Conte bis, una scissione con il Pd ancora dolorosa) e a un groviglio di bonifici e affari degno di una merchant bank. Prendiamo la vicenda di Alberto Bianchi. Avvocato di Pistoia, vera testa pensante del Giglio fin dal principio, è indagato per traffico di influenze illecite e finanziamento ai partiti. La rilevanza penale è tutta da confermare, ma di certo il presidente di Open fu piazzato come fedelissimo nel cda Enel. Ed è un fatto che lo stesso Bianchi abbia ottenuto da Consip, anche quando era amministrata da un uomo messo dal governo Renzi, consulenze per centinaia di migliaia di euro. È acclarato che Bianchi abbia incassato dal Gruppo Toto, sul suo conto corrente personale, parte del compenso avuto dal suo studio legale per risolvere un contenzioso milionario tra Toto e Autostrade per l’Italia. Dei 750 mila euro ricevuti dagli imprenditori, quasi subito 400 mila sono stati inviati ad Open al Comitato referendario “Basta un sì”. Anche Marco Carrai, amico intimo di Renzi da quand’erano ragazzi, è l’esempio perfetto di un’ambizione irrefrenabile. Il gemello diverso dell’ex presidente del Consiglio, una sorta di Gianni Letta in miniatura nato a Greve in Chianti 45 anni fa, è da sempre l’uomo del Giglio adibito ai rapporti con le lobby fulminate sulla via del renzismo. Dell’ipotesi di finanziamento illecito ipotizzata per lui dai pm di Firenze per adesso interessa poco o nulla. Né Renzi né Carrai possono però negare che Marchino, ex segretario di Renzi ai tempi della Provincia di Firenze e membro del direttivo di Open, negli anni sia riuscito ad ottenere incarichi di prestigio in alcune partecipate pubbliche nella renzianissima Toscana. Manager a Firenze Parcheggi, poi Presidente degli Aeroporti di Firenze, nel 2015 è stato sponsorizzato dalla presidenza del Consiglio per una poltrona a Palazzo Chigi. Nientemeno che per il delicatissimo compito di responsabile della cyber security. Curriculum insufficiente, si disse, mancando al nostro anche una laurea. Presto si scoprì pure che Carrai, già finito sui giornali per aver prestato gratuitamente la sua casa fiorentina all’allora sindaco, qualche mese prima aveva fondato la Cys4, una spa che avrebbe potuto mirare ai futuri appalti banditi dal governo dopo la creazione, voluta da Renzi, di un nucleo per la sicurezza cibernetica. A causa delle polemiche, la candidatura tramontò. Come insegna Jacques de La Palisse, non sarebbe stato più logico e deontologico puntare su un esperto in sicurezza proveniente dalle nostre forze dell’ordine, piuttosto che sul vecchio compagno di tante partite a Risiko in pieno conflitto d’interessi? «Carrai è indagato per concorso esterno in finanziamento illecito, una fattispecie incredibile», è l’appassionata difesa di Renzi qualche giorno fa. Ma non è solo questione di blitz e perquisizioni della finanza per entrare nei segreti di Open. A sollevare interrogativi di opportunità politica è anche la rete di società che Carrai ha costruito in Lussemburgo. O pure i contorni non ancora chiariti del «prestito infruttifero» da 20 mila euro, svelato da L’Espresso, che l’amico ha girato a Renzi ad aprile 2018. Senza dimenticare alcune curiose coincidenze: il boom dell’azienda di consulenza Cmc Labs avvenuto tra il 2013 e il 2015, quando Carrai e soci hanno quadruplicato il fatturato e aumentato l’utile di 30 volte. La trasparenza di cui vanno orgogliosi i renziani vacilla peraltro dopo la lettura di alcune mail che Marchino spedì all’ex ad di Unicredit Ghizzoni. «Ciao Federico», ha scritto il consigliere di Open al banchiere nel 2015. «Solo per dirti che su Etruria mi è stato chiesto di sollecitarti, se possibile e nel rispetto dei ruoli, per una risposta». A che titolo Carrai interloquiva con il capo di una delle più grandi banche del Paese su Etruria, l’istituto in cui lavorava il papà di Maria Elena Boschi? «Ero solo consulente di un cliente privato interessato a Banca del Vecchio, controllata da Etruria. Renzi non sapeva niente, e se in quella banca c’era il padre della Boschi a me non interessava nulla. Non sono un politico e non appartengo a nessun partito». Se Unicredit, un mese dopo la mail suddetta, sottoscrisse con un’altra società di Carrai un contratto per “profilare” al meglio i big data dell’istituto (una srl nata due mesi prima; Unicredit possiede Ubis, una delle più grandi realtà europee di information management), la Boschi ha provocato un terremoto politico chiedendo allo stesso Ghizzoni (come scoprì Ferruccio de Bortoli) se era ipotizzabile un’acquisizione o un intervento per aiutare la banca dove lavorava il padre. Una richiesta in pieno conflitto di interessi: a che titolo un ministro non competente in materia provava a salvare la banca così cara alla famiglia? Nulla di illecito, ma politicamente discutibile. Sappiamo, ancora, che Francesco Bonifazi è indagato dai magistrati romani per i 150 mila euro che la Fondazione Eyu, di cui il renziano tesoriere del Pd era numero uno, ha ricevuto nel 2018 da società riferibili al costruttore Luca Parnasi. Nella stessa inchiesta è coinvolto Giulio Centemero, il tesoriere della Lega di Matteo Salvini. Ora, eventuali reati andranno verificati dai giudici. Ma è possibile che il maxi-importo sia stato giustificato da Eyu come contropartita per uno studio di poche pagine intitolato “Case: il rapporto degli italiani con il concetto di proprietà”? Si può essere più trasparenti di così? Anche per l’ultimo petalo del Giglio che sedeva nel consiglio direttivo della Open deve valere il principio di innocenza. Luca Lotti è imputato per favoreggiamento nel filone d’inchiesta sulla fuga di notizie del caso Consip. Ha sempre respinto con vigore ogni accusa, e in dibattimento non sarà facile dimostrare per i magistrati romani che fu lui a rivelare l’esistenza dell’inchiesta dei carabinieri del Noe all’allora ad di Consip Luigi Marroni. Così come è probabile che la carta di credito di Open in sua dotazione sia stata usata solo per pochi rimborsi spese legate alla sua attività nel board. Lotti, che è rimasto nel Pd, è stato però travolto dalle intercettazioni della procura di Perugia e del Gico della Gdf, che ha ascoltato le sue conversazioni con l’amico pm Luca Palamara e il ras di Magistratura indipendente Cosimo Ferri, eletto deputato con il Pd e da poco passato a Italia Viva. Colloqui imbarazzanti che avevano al centro le nomine dei più delicati uffici giudiziari d’Italia, a partire da Roma. Lotti non risulta ad ora aver commesso reati, tuttavia un parlamentare che discetta di chi piazzare alla guida di una procura dove lui è imputato, e di come danneggiare il pm anticorruzione che l’ha rinviato a processo (Paolo Ielo), non aiuta la sua immagine. E quella del gruppo di potere a cui è appartenuto fino a tre mesi fa. La crisi di legittimazione di Renzi dipende dai troppi interrogativi a cui il senatore non vuole, o non può rispondere. Sulla caparra della villa di Firenze e il prestito del finanziatore della fondazione Open, sulle azioni dei fedelissimi, o sull’opportunità di avere tra i finanziatori di Open Alfredo Romeo, Vittorio Farina (ex socio di Luigi Bisignani) oppure altri imprenditori che, come scrivono gli investigatori della Uif «spesso sono coinvolti in vicende giudiziarie legate ad illeciti di natura fiscale-finanziaria». E poi c’è quel groviglio di relazioni e business di protagonisti che si muovono in provincia che gira intorno al cerchio magico. Come Andrea Bacci, amico di Maestrelli e vicinissimo a Piero Amara, passando per Patrizio Donnini e il re degli outlet Luigi Dagostino, ex socio di Tiziano Renzi. Tutti implicati in scandali assortiti. «In merito alle perquisizioni su Open vorrei chiedere scusa non a Davide, ma a sua moglie Anna, perché hanno svegliato lei. Vorrei chiedere scusa anche a tutti gli altri amici e imprenditori» svegliati all’alba dalla finanza, ha detto Renzi qualche giorno fa applaudito dai suoi fan. Un gesto galante, che ha colpito i sostenitori. Renzi ha però dimenticato un dettaglio: l’amico finanziere Serra, attraverso la sua holding Algebris, come svelato da Repubblica, a fine 2018 avrebbe girato all’ex premier circa 100 mila euro per tre conferenze tenute tra Roma e Londra. Un mazzo di fiori era davvero il minimo: anche grazie a prestazioni di questo tipo Renzi, che nel 2017 dichiarava 29 mila euro, nel 2018 e 2019 sfiorerà e supererà il milione di euro di entrate. Non male per il rottamatore di Rignano, che appena due anni fa ostentava davanti alle telecamere il suo conto corrente con soli 15 mila euro.
L'affaire Csm. Luca Chianca su Report Rai puntata del 9 dicembre 2019. Collaborazione di Alessia Marzi. A Report il caso Csm: quando la politica cerca di influenzare le toghe. Il magistrato Luca Palamara, cinque componenti del Consiglio superiore della magistratura e i deputati Luca Lotti (Pd) e Cosimo Ferri (Iv) vengono registrati mentre discutono le nomine ai vertici delle procure. Per quella di Roma, in particolare, puntano su Marcello Viola, attuale procuratore generale di Firenze. In lizza c'era anche Giuseppe Creazzo, capo della Procura di Firenze che ha indagato sia i genitori del segretario di Italia Viva Matteo Renzi sia la Fondazione Open.
CONFERENZA STAMPA DEL 27/11/2019 MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA Mi sembra di essere divenuto, l'oggetto di attenzioni speciali da parte di qualche magistrato che addirittura ha deciso che io ho fatto un partito. Un tempo i magistrati della procura di Firenze era famosi perché davano la caccia al mostro di Scandicci, oggi mi sembra che l'attenzione sia più sul senatore di Scandicci, non vorrei che sbagliassero fascicolo.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO È quello aperto dal capo della procura di Firenze Giuseppe Creazzo sui conti e i finanziamenti della Fondazione Open, che fa riferimento a Matteo Renzi. Quella che ha raccolto oltre 6 milioni euro.
LUCA CHIANCA Buongiorno.
DONNA Ah, giornalisti.
LUCA CHIANCA Dice, lei chiude?
DONNA Per forza.
LUCA CHIANCA Qui era la fondazione Open, no?
DONNA Non lo so.
LUCA CHIANCA Alberto Bianchi era il presidente della Fondazione?
UOMO Sì, quello sì. C'ha lo studio qui.
LUCA CHIANCA Senta, mi conferma la raccolta fondi di oltre 6 milioni di euro, quasi 7 milioni di euro, in tutti questi anni?
ALBERTO BIANCHI – EX PRESIDENTE FONDAZIONE OPEN È morta da molto tempo.
LUCA CHIANCA Perché non ci sono più i nomi online dei finanziatori?
ALBERTO BIANCHI – EX PRESIDENTE FONDAZIONE OPEN Open ha chiuso, eh.
LUCA CHIANCA Sì, però essendo stata una fondazione così importante per il candidato.
ALBERTO BIANCHI – EX PRESIDENTE FONDAZIONE Non così importante da tenere su il sito anche dopo 9 mesi dalla chiusura. LUCA CHIANCA Vabeh, l’ex premier ha sempre parlato di trasparenza, di massima trasparenza.
ALBERTO BIANCHI – EX PRESIDENTE FONDAZIONE Quello che dice l'ex premier lo chiedete all'ex premier.
LUCA CHIANCA Qua l'ha mai visto Matteo Renzi, entrare e uscire?
UOMO No.
LUCA CHIANCA Nessuno del partito veniva qua?
UOMO Sì, qualcuno sì.
LUCA CHIANCA Chi?
UOMO Mi sembra il Lotti.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Tra il 2017 e il 2018, tra i principali finanziatori della Fondazione con circa 300mila euro, c'è una nota famiglia Toscana, i Maestrelli. Lavorano nel settore dell'ortofrutta. E il legame tra Renzi e la famiglia è forte. Riccardo, uno dei rampolli, nel 2015, era stato nominato durante il governo Renzi nel consiglio di amministrazione di una società di Cassa depositi e prestiti. La mamma di Riccardo, lo scorso anno ha prestato 700mila euro a Matteo Renzi.
RECEPTIONIST Senti, Silvia ci sono dei giornalisti di Report di Rai3 e volevano parlar con Riccardo. Eh, no, infatti gli ho detto che non c'è. Niente.
LUCA CHIANCA Dico, ‘sta storia della signora… Quanti anni ha la mamma?
RECEPTIONIST Non lo so avrà boh, una settantina.
LUCA CHIANCA Che un giorno le arrivano 700mila euro dai figli e il giorno stesso li bonifica a Renzi altri 700. RECEPTIONIST Io non lo sapevo neanche il discorso della mamma.
LUCA CHIANCA No: loro danno dei soldi, 700mila euro, alla mamma e lei il giorno stesso bonifica quei soldi su un conto di Renzi e della moglie, con cui poi anticipano la caparra di questa villa.
RECEPTIONIST Sì, sì, sì.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO La villa viene acquistata a giugno del 2018 per 1,3 milioni di euro e si trova in una delle zone più incantevoli e romantiche di Firenze. Ma dei 700 mila euro prestati da mamma Maestrelli, Renzi ne ha usati solo 400 per la caparra.
LUCA CHIANCA Glieli avrebbero dati questi soldi se non fosse stato Matteo Renzi, ex premier, ex segretario del Pd? A me 700 mila euro difficilmente me li possono prestare.
MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA Ma se li può permettere di riportarglieli 700mila euro?
LUCA CHIANCA È ma, difficilmente, avrei difficoltà a farmi prestare anche 50mila, 30mila, 10mila euro.
MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA Ma se uno guadagna 1 milione l'anno, se uno fattura 1 milione l'anno e paga mezzo milione di tasse e restituisce e si impegna a restituire in 5 mesi, che siano 7 euro che siano 7 milioni, dipende da quanto uno guadagna.
LUCA CHIANCA È vero che parte dei soldi che poi ha restituito arrivano da Davide Serra?
MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA Anche qui, tra gli speech, i miei discorsi fatti, c'è ne sono alcuni fatti per la Fondazione Algebris che è una realtà creata da Davide Serra. Io le dico: con questo mio introito pago io 500 mila euro di tasse che consentono a tanti parlamentari – tanti… 3, 4 parlamentari - di avere uno stipendio annuale, o se vuole a qualche giornalista della Rai o se vuole a qualche un medico, perché è giusto. Se tu guadagni di più, se io non guadagnassi lo Stato ci perderebbe.
LUCA CHIANCA Fa un opera di distribuzione di reddito.
MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA È un'opera nella quale io vengo pagato, spero anche a lei che arrivi un giorno in cui qualcuno la paghi per poter fare dei discorsi interessanti all'estero, magari succederà, sarà molto piacevole stare ad ascoltarla. Però vede, i miei denari sono denari che io guadagno onestamente e lecitamente e regolarmente. Il fatto che si possa entrare nel mio conto corrente. Come si possa entrare nella chat Whatsapp di un imprenditore perquisito solo perché ha dato un piccolo contributo o grande contributo, non a Matteo Renzi persona fisica, ma alla fondazione, alla Fondazione che organizza degli eventi politici, è il segno di un Paese che perde il confine della libertà.
LUCA CHIANCA Stiamo parlando dell’indagine, no?
MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA No: non stiamo parlando dell’indagine. Sono persone che non c'entrano niente con le indagini, che sono persone che hanno fatto finanziamenti regolari; non sono inquisite, non sono indagate. Non hanno niente.
LUCA CHIANCA “Articolazione di partito” viene definita la fondazione dai magistrati, dissimulare un finanziamento alla politica.
ALBERTO BIANCHI – EX PRESIDENTE FONDAZIONE Parole dei magistrati, chiedetene il significato ai magistrati, se son parole dei magistrati.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Alberto Bianchi, l’ex presidente di Open, è indagato per finanziamento illecito. Avrebbe versato 200 mila euro nella fondazione dopo aver ottenuto consulenze dal gruppo Toto Costruzioni, società della holding che ha anche le concessioni autostradali.
LUCA CHIANCA Queste consulenze con Toto... Lei ha preso quasi 2 milioni di euro, no?
ALBERTO BIANCHI – EX PRESIDENTE FONDAZIONE OPEN Non ho dichiarazioni da fare. Quello che avevo da dire è uscito adesso sulle agenzie.
LUCA CHIANCA Renzi è stato molto duro con l'attacco ai giudici, ai magistrati.
ALBERTO BIANCHI – EX PRESIDENTE FONDAZIONE OPEN Chiedete a Renzi.
CONFERENZA STAMPA DEL 27/11/2019 MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA Questa fondazione per due magistrati di Firenze, i dottori Creazzo e Turco, è un partito politico. La domanda è? Fare un partito politico è una scelta che fa un leader politico o un magistrato? Amici questo punto è enorme è l'elefante nella stanza, perché se assegniamo ai magistrati il compito di decidere che cosa è un partito e cosa no, abbiamo messo in discussione la separazione dei poteri.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Va riconosciuto all’ex premier Matteo Renzi il fatto che è stato l’unico leader politico di un certo peso, ad aver accettato per cinque volte le interviste di Report. Chapeau. Insomma, la separazione dei poteri è cosa sacra perché significa il funzionamento della macchina democratica di un Paese. Tuttavia andrebbe evocata anche quando intorno a un tavolo si siedono dei politici con dei magistrati per condizionare le nomine delle procure più importanti d’Italia. Sono il suo ex braccio destro Luca Lotti, ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, ex ministro dello sport. Con lui poi c’è Cosimo Ferri, magistrato, ex Csm, anche lui ex sottosegretario al ministero della Giustizia in vari governi, deputato ex Pd, oggi in Italia Viva. Parlano con 5 membri del Csm su come condizionare la nomina delle procure più importanti d’Italia: c’è Roma, che è molto delicata perché svolge indagini sulla politica e la pubblica amministrazione; poi c’è Perugia, competente sui magistrati di Roma; Firenze che è competente sui magistrati di Perugia; Genova, competente a sua volta su quelli di Firenze. Ecco, quella di Roma è particolarmente delicata perché è un’inchiesta bollente, quella su Consip. I magistrati hanno chiesto l’archiviazione per la posizione del papà di Renzi, Tiziano; hanno rinviato a giudizio invece Luca Lotti con l’accusa di favoreggiamento. Pignatone sta per lasciare la Procura di Roma all’epoca per raggiunti limiti di età. Al suo posto potrebbe arrivare Giuseppe Creazzo, che è il capo della Procura di Firenze, l’uomo che ha indagato i genitori di Renzi con l’accusa di bancarotta fraudolenta. Oggi ha aperto anche le indagini su Open. L’ipotesi di reato è finanziamento illecito e ha indagato il Presidente Bianchi e il braccio destro di Matteo Renzi Carrai. Ecco, insomma, parlano i due parlamentari con i membri del Csm, ma ne parlano anche con l’ex Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Luca Palamara, che è indagato anche lui alla Procura di Perugia per corruzione. Ha passato, dice in un’intercettazione, sette anni di lusso tra cene e viaggi pagati da un “piccoletto”. Chi è il piccoletto? Lo vedremo più tardi. Insomma, Palamara però è considerato il regista di questo condizionamento delle nomine delle procure più importanti: il capitano, l’uomo che ha una grande visione di gioco, ha dei piedi buoni e sfiora il suo goal. Solo che a difesa della porta c’erano degli investigatori bravi e gli anticorpi del sistema giudiziario. Il nostro Luca Chianca.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO San Luca è un paesino di 4 mila abitanti alla falde dell'Aspromonte. Nel mondo è diventato famoso per la lunga faida di ‘ndrangheta tra due cosche, culminata qualche anno fa con la strage di Duisburg in Germania. Dopo anni di commissariamento, in primavera ci sono state finalmente nuove elezioni. A sorpresa, Klaus Davi, massmediologo, giornalista da sempre impegnato contro le mafie e candidato sindaco non eletto, è diventato consigliere comunale.
LUCA CHIANCA Giugno scorso ci sarebbe dovuta essere…
KLAUS DAVI - CONSIGLIERE COMUNALE DI SAN LUCA (RC) La partita del cuore.
LUCA CHIANCA Tra chi?
KLAUS DAVI - CONSIGLIERE COMUNALE DI SAN LUCA (RC) Cantanti, la squadra delle poste, magistrati.
LUCA CHIANCA Un bell'evento.
KLAUS DAVI - CONSIGLIERE COMUNALE DI SAN LUCA (RC) Un bellissimo evento che tutta la comunità di San Luca aspettava e che a pochi giorni dall'elezione del nuovo consiglio comunale è saltato misteriosamente senza spiegazioni. Mai, mai, mai. stata una spiegazione ufficiale.
LUCA CHIANCA Però c'è una persona che potrebbe spiegare la mancata occasione e la mancata partita: il capitano della squadra dei magistrati. Chi era?
KLAUS DAVI - CONSIGLIERE COMUNALE DI SAN LUCA (RC) Luca Palamara.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Luca Palamara è l’ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, uno dei promotori di questa iniziativa, realizzata per la prima volta due anni fa.
FRANCESCO GIAMPAOLO – PRESIDENTE ASD SAN LUCA Palamara giocava pure bene, si sapeva muovere molto bene a centrocampo, era un regista tutto tondo diciamo.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Sarebbe il regista anche per i magistrati di Perugia del più grande scandalo che abbia mai colpito il Consiglio Superiore della Magistratura che esplode pochi giorni prima la partita del cuore. Per questo l’atteso incontro di calcio salta. L’indagine punta il dito su un incontro avvenuto in questo albergo di Roma. Il 9 maggio Palamara, 5 consiglieri del Csm e due parlamentari, Luca Lotti del Pd e l'ex magistrato Cosimo Ferri oggi in Italia Viva, brigano per pilotare le nomine di alcune procure italiane. A farne subito le spese è Pasquale Grasso, presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati, in quota di Magistratura Indipendente, la corrente vicina a Cosimo Ferri.
PASQUALE GRASSO – EX PRESIDENTE ASSOCIAZIONE NAZIONALE MAGISTRATI Vi ho ascoltato e compreso; ovviamente rassegno le mie dimissioni. Lo faccio serenamente dicendo “no” a me stesso in ricordo di un grande intellettuale italiano del passato che ricordava che i moralisti dicono “no” agli altri, mentre l'uomo morale dice “no” a se stesso. Grazie.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Lo scandalo coinvolge 5 membri del Csm: 2 facevano capo a Unicost, la corrente di Luca Palamara, 3 di MI, Magistratura Indipendente, di cui è stato presidente per anni il parlamentare Cosimo Ferri. Mentre Unicost fa subito fuori i due consiglieri, MI si riunisce a porte chiuse sostenendo i suoi tre consiglieri.
LUCA CHIANCA Durante quell'assemblea lei è in disaccordo.
PASQUALE GRASSO – EX PRESIDENTE ASSOCIAZIONE NAZIONALE MAGISTRATI Nettissimo.
LUCA CHIANCA Fa un discorso, fa riferimento a Ferri.
PASQUALE GRASSO – EX PRESIDENTE ASSOCIAZIONE NAZIONALE MAGISTRATI Sì.
LUCA CHIANCA Il drago che sta mangiando la nostra casa.
PASQUALE GRASSO – EX PRESIDENTE ASSOCIAZIONE NAZIONALE MAGISTRATI Ho detto che era del tutto inopportuno continuare ad avere rapporti con Cosimo Ferri che, anche fosse stato un amico d'infanzia, una volta scelto di fare il politico non poteva più avere interlocuzioni e interferenze con l'attività di Magistratura Indipendente.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO In quel dopo cena però, si discute a lungo della strategia da tenere per nominare il nuovo Procuratore Capo di Roma che a maggio avrebbe sostituito il pensionato Giuseppe Pignatone. Puntano su Marcello Viola, procuratore generale di Firenze, ma in lizza ci sono anche Giuseppe Creazzo, il capo della Procura di Firenze che ha indagato i genitori di Renzi e il pm Lo Voi della procura di Palermo, vicino a Pignatone.
ANGELANTONIO RACANELLI – EX SEGRETARIO MAGISTRATURA INDIPENDENTE È anche un mio personale amico Cosimo Ferri; lo conosco da tanti anni, Cosimo Ferri.
LUCA CHIANCA Insieme a Lotti, si vedono con Palamara e alcuni consiglieri del Consiglio Superiore della Magistratura per decidere le nomine.
ANGELANTONIO RACANELLI – EX SEGRETARIO MAGISTRATURA INDIPENDENTE Ma non è che se Cosimo Ferri parla con qualche consigliere, i consiglieri fanno quello che dice Cosimo Ferri.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Anche Racanelli, magistrato della procura di Roma, suo malgrado, si ritrova intercettato dal trojan messo nel cellulare di Palamara con cui parla nel suo ufficio.
LUCA CHIANCA Lei sempre su Roma dice “mettere un cappello su Roma è sempre un vantaggio”.
ANGELANTONIO RACANELLI – EX SEGRETARIO MAGISTRATURA INDIPENDENTE Sì, questo se non sbaglio in una conversazione con Palamara a proposito del rapporto con Unicost, perché Unicost aveva difficoltà di appoggiare credo il candidato Viola. LUCA CHIANCA Eh, ma mettere il cappello su Roma, che significa?
ANGELANTONIO RACANELLI – EX SEGRETARIO MAGISTRATURA INDIPENDENTE Ma no, ma guardi, ma scusi, bisogna anche stare attenti quando si parla in una conversazione diciamo così privata, si usano anche termini informali. Significava secondo me per Magistratura Indipendente un buon risultato anche dal punto di vista anche dell'immagine. Anche all’interno della magistratura.
LUCA CHIANCA Però leggendo quello che è uscito fuori, sembra una guerra tra bande, eh. Sarà anche l'intimità della chiacchiera in privato, ma i termini utilizzati sembra appunto “metto il mio, puntiamo su quello, facciamo fuori l'altro”.
ANGELANTONIO RACANELLI – EX SEGRETARIO MAGISTRATURA INDIPENDENTE A prescindere dai termini che sono usati, sicuramente io posso dire che questa vicenda è stata utilizzata quasi come un regolamento di conti.
LUCA CHIANCA Onorevole salve. Chianca di Report, come sta?
COSIMO FERRI – DEPUTATO ITALIA VIVA Ciao carissimo, tutto bene.
LUCA CHIANCA Ci possiamo mettere qui un secondo? Senta io mi sto occupando come lei sa di CSM, Palamara e dei vostri incontri con Lotti, la famosa sera del 9 maggio.
COSIMO FERRI – DEPUTATO ITALIA VIVA Vieni dentro.
LUCA CHIANCA Un attimo, un attimo non mi vada dentro, mi spieghi almeno…Però aspetti che c'ho l'operatore fuori però. Rimaniamo qui. Onorevole scusi, però non mi fugga, parliamo.
COSIMO FERRI – DEPUTATO ITALIA VIVA Lei sa che sia io che Lotti siamo parlamentari, c'è un problema di utilizzabilità del trojan per quanto riguarda conversazioni, incontri dove c'era il Trojan, sono inutilizzabili processualmente.
LUCA CHIANCA Quello è il ruolo dei magistrati, io faccio il giornalista quindi, con la scusa del trojan, qui non si parla del contenuto di quello che è emerso, no?
COSIMO FERRI – DEPUTATO ITALIA VIVA Allora ci sono delle regole giuridiche. C'è la massima disponibilità a fare esercitare il suo diritto di cronaca, però su questioni fondate.
LUCA CHIANCA Se lei mi risponde riusciamo a esercitarlo il diritto di cronaca perché altrimenti è impossibile. Lei è ex magistrato, consigliere del CSM e poi diventa politico e continua ad aver rapporti...
COSIMO FERRI – DEPUTATO ITALIA VIVA Già le ho detto, ho già risposto. Penso che di giustizia uno si possa occupare. LUCA CHIANCA Dì. ma non si può discutere sui voti che vengono dati per la Procura di Roma, no? Quando sappiamo bene…
COSIMO FERRI – DEPUTATO ITALIA VIVA Ma lei, ma lei allora sa bene che lei quando...
LUCA CHIANCA No lì fate i conti, lì conteggiate proprio: Viola prende questo, Creazzo prende quello e tra l'altro tentate di mettere in difficoltà Creazzo che è il pm. Ascolti, Creazzo è il pm che si è occupato dei genitori di Renzi, non lo volete fare a Roma e parlate anche di problemi che potrebbero uscire dall'esposto che è andato a Genova su Creazzo. COSIMO FERRI – DEPUTATO ITALIA VIVA No, no...
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Perché Giuseppe Creazzo non è ben visto come capo della Procura di Roma? Creazzo, A febbraio aveva fatto arrestare i genitori di Matteo Renzi per bancarotta fraudolenta ed emissione di fatture false. Una storia in cui viene coinvolto, senza volerlo, anche Carlo Fontanelli, giornalista ed editore di Empoli, una delle memorie storiche del calcio italiano.
CARLO FONTANELLI - GIORNALISTA Qui c’è Tutto Sport dal ’45 in originale. Qui abbiamo il Corriere dello Sport dal ’48. Questa è un’altra Gazzetta dello Sport dal ’47.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO 10 anni fa lo chiamano dalla lontana Sicilia. Lo accusano di non aver pagato alcune fatture della Delivery Service, una società che secondo i magistrati faceva riferimento a mamma e papà Renzi.
CARLO FONTANELLI - GIORNALISTA Abbiamo scoperto che facevo parte della compagine amministrativa di questa azienda. LUCA CHIANCA Qualcuno ti aveva nominato consigliere d'amministrazione a tua insaputa?
CARLO FONTANELLI - GIORNALISTA A mia insaputa.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Carlo denuncia, ma viene tutto archiviato. I suoi rapporti con la società, riconducibile secondo i magistrati ai coniugi Renzi, iniziano un bel po' di tempo fa, quando gli propongono di diventare responsabile degli automezzi della Delivery Service.
CARLO FONTANELLI - GIORNALISTA Tale Signor Bargilli che mi propone appunto di entrare nel ruolo e le mansioni di preposto agli automezzi. LUCA CHIANCA Bargilli diventerà persona nota quando Matteo Renzi scala il partito, perché che cosa faceva per Matteo Renzi?
CARLO FONTANELLI - GIORNALISTA Era l'autista del camper di Renzi, ma questo l'ho appreso anche io anni dopo quando ha svolto queste mansioni.
LUCA CHIANCA Finché ti arriva una telefonata.
CARLO FONTANELLI - GIORNALISTA Sì, una telefonata da una sedicente signora Laura Bovoli.
LUCA CHIANCA Mamma di Matteo Renzi, che ti dice che cosa?
CARLO FONTANELLI - GIORNALISTA Che la vecchia proprietà avrebbe ceduto a una nuova proprietà che aveva intenzione di confermarmi come preposto agli automezzi.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Si è trovato indagato con l’accusa di bancarotta semplice per una società che farebbe riferimento ai coniugi Renzi. Questo almeno secondo i magistrati fiorentini, che hanno prima indagato, poi hanno chiesto l’arresto, poi c’è stata la scarcerazione immediata da parte del Tribunale di Firenze. Ecco, il Procuratore che ha condotto le indagini è Giuseppe Creazzo, che è colui anche che è in corsa per coprire il posto lasciato vacante da Giuseppe Pignatone presso la Procura di Roma. Solo che i parlamentari Luca Lotti, Cosimo Ferri, i cinque membri del Csm, Luca Palamara puntano su un altro nome: Marcello Viola, che è Procuratore Generale della Corte d’Appello di Firenze. Nel frattempo Giuseppe Creazzo è anche oggetto di un esposto presentato presso la Procura di Genova. Questo esposto potrebbe pregiudicare la sua corsa alla Procura di Roma, ma soprattutto alimenta l’istinto bellicoso di Luca Lotti. Questo è quello che emergerebbe dalle intercettazioni, però Cosimo Ferri ci avverte: “attenzione, quello che è stato captato dai trojan sui nostri discorsi, non può essere oggetto di un procedimento penale, di un processo, perché è vietato dalla legge”. Tutto vero. Ma dal punto di vista morale? Tutti si appellano alla forma, nessuno guarda dentro i contenuti. Ecco, non siamo certo dei verginelli. Non è la prima volta che la politica cerca di condizionare la magistratura e la magistratura è stata spesso accusata del contrario. Questo perché chi detiene un potere non ama essere sottoposto a giudizio. Qui il corto circuito avviene perché ci troviamo di fronte non a una separazione di poteri ma a una convergenza di interessi di chi si sente caduto nel fango, ha reazioni scomposte e rischia anche di sporcare chi gli è vicino.
MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA I politici perché mettono bocca? Attenzione. Perché i politici fanno parte del CSM? Perché lo prevede la Costituzione.
LUCA CHIANCA La Costituzione non prevede che ci siano incontri fuori il CSM per decidere i capi delle procure tra politici magistrati e consiglieri del CSM, questo è il punto.
MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA Io non le faccio certe cose.
LUCA CHIANCA Però le ha fatte il suo braccio destro, è quello il punto, no?
MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA Discutere e mettere in croce una persona che si chiama Luca Lotti…
LUCA CHIANCA Che però è l'uomo più vicino a lei fino a pochi mesi fa.
MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA Guardi, io di Luca Lotti penso tutto il bene possibile, punto.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Riavvolgendo il nastro delle conversazioni il 9 maggio 2019, pochi mesi prima, Lotti e Palamara rimangono soli e Lotti sembra anticipare in parte il piano di allargare ai moderati. Poi parlano di Matteo.
LUCA CHIANCA Lotti si sfoga con te, in questo caso, parlate di come sta Matteo, Matteo da quando hanno arrestato la mamma e il papà…
LUCA PALAMARA – EX CONSIGLIERE CSM Il commento sull'indagine è umano certo, no?
LUCA CHIANCA Perfetto. Sembra un po' risentito di questa cosa. Lotti dice che lei è amareggiato da questa storia. Le ha rovinato l’immagine, ed è “fermo lì a guardare”. Questo lo dice lui a prescindere dal fatto che sono stati…
MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA Io non ho letto le intercettazioni di Luca su questa cosa qua.
LUCA CHIANCA Però mi faccia…
MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA Considero che sia vergognoso che su delle intercettazioni illegittime, perché stiamo intercettando in modo illegittimo…
LUCA CHIANCA Questo lo decideranno i magistrati, i giudici…
MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA Questo lo dice la Costituzione che dice che non si può intercettare un parlamentare. LUCA CHIANCA Ma le abbiamo lette su tutti i giornali. Una volta…
MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA E questo le volevo dire.
LUCA CHIANCA …le pongo la questione.
MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA Si sappia che il reato lo fa chi passa quelle cose. Bene.
LUCA CHIANCA Sono uscite su tutti i giornali, quindi io, letti i giornali, le pongo la questione.
MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA Frutto di un reato. C’è una bellissima frase di un grande scrittore francese, quando non c’erano le intercettazioni, che diceva “datemi un paio di forbici e ghigliottinerò chiunque”. Perché? Perché è normale che tagliando e cucendo, puoi costruire quello che ti pare. Lei sta facendo un’opera di mistificazione.
LUCA CHIANCA Lotti dice “bisogna fare almeno la guerra contro Creazzo” per non farlo nominare a Roma.
LUCA PALAMARA – EX CONSIGLIERE CSM L’accordo era che, l'operazione era quella di votare Viola perché c'era il discorso che Creazzo poteva andare a Reggio Calabria. Creazzo non viene a Roma, ma a Reggio Calabria. Non lo si voleva segare brutalmente come può sembrare, no?
LUCA CHIANCA Lui parla che se la cosa è seria, bisogna andare avanti.
LUCA PALAMARA – EX CONSIGLIERE CSM Se l’esposto è serio.
LUCA CHIANCA Bisogna almeno fare la guerra come dire?
LUCA PALAMARA – EX CONSIGLIERE CSM Se l'esposto è serio, questo è.
LUCA CHIANCA Bisogna almeno fare la guerra.
LUCA PALAMARA – EX CONSIGLIERE CSM Se l'esposto è serio.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Lasciamo giudicare i magistrati di Genova, quello che abbiamo cercato di capire con Luca Lotti è se invece volevano utilizzarlo per altri scopi.
LUCA LOTTI – DEPUTATO PD Buona giornata.
LUCA CHIANCA Lei su Creazzo dice bisogna almeno fare la guerra.
LUCA LOTTI – DEPUTATO PD Ora le auguro buona giornata.
LUCA CHIANCA Bisogna almeno fare la guerra, onorevole. C’è un esposto di Creazzo a Genova…
LUCA LOTTI – DEPUTATO PD Ma questo guardi, c’è un punto di fondo diverso tra me e lei.
LUCA CHIANCA …che voi volete utilizzare per i vostri scopi.
LUCA LOTTI – DEPUTATO PD No. Ma lei sbaglia. Ma quali scopi? Ma lei sta costruendo..
LUCA CHIANCA Vorrei chiedere quale era il vostro scopo?
LUCA LOTTI – DEPUTATO PD Ma non è così, non ci sono scopi.
LUCA CHIANCA Era perché il pm in questione…
LUCA LOTTI – DEPUTATO PD Buona giornata.
LUCA CHIANCA …aveva fatto le indagini sul papà e la mamma di Renzi?
LUCA LOTTI – DEPUTATO PD Però si deve anche fermare, perché senno non rispetta neanche il lavoro degli altri. Io rispetto il suo lavoro lei deve rispettare anche noi.
LUCA CHIANCA Ma se lo rispettasse risponderebbe alle domande.
LUCA CHIANCA Lotti, facendo riferimento a Creazzo che ha voluto quegli arresti, “bisogna” dice “bisogna almeno fare la guerra”.
MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA Lei mette insieme dei puntini e dice “Lotti fa la guerra a Creazzo perché serve a Renzi o meglio, ai genitori di Renzi”.
LUCA CHIANCA Infatti la domanda che poi le avrei fatto è: lei sapeva?
MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA Io sono un ragazzo… No, non sapevo, ma sono…
LUCA CHIANCA Sembra quasi una resa dei conti, no?
MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA Bravissimo...
LUCA CHIANCA È vero o no?
MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA Non è vero, non lo è, ma sono un ragazzo intelligente e ho capito dove lei vuole andare a parare. Lei sta facendo un'opera di mistificazione perché non sappiamo davvero se questo fosse il disegno. Se un magistrato che si chiama Mario…
LUCA CHIANCA Quando si candidano, se c’è un esposto, la candidatura decade, no?
MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA …attacca un altro magistrato che si chiama Paolo, lei sta forse dicendo che questo esposto lo ha scritto Lotti?
LUCA CHIANCA No, assolutamente.
MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA Benissimo. Lei sta forse dicendo che questo esposto lo ha scritto Ferri?
LUCA CHIANCA No, assolutamente…
MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA Benissimo. Figuriamoci se io sto dentro alle vicende dei magistrati.
LUCA CHIANCA Sto dicendo, c’è un esposto a Genova contro Creazzo e loro ne parlano e ne discutono per capire se può essere utilizzabile per minare la credibilità del magistrato per la nomina a Roma.
MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA Qual è la domanda? Se c'è un esposto di un magistrato contro un magistrato, ma saranno fatti loro?
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Quello è certo, è che qualcosa nei rapporti consolidati da un decennio tra Palamara e il capo della Procura di Roma, Giuseppe Pignatone, si è rotto. E tutto avrebbe inizio con l’indagine su Consip che ha visto da poco rinviato a giudizio Luca Lotti e l’archiviazione per Tiziano Renzi. L'indagine nasce a Napoli e vede protagonista il noto imprenditore Alfredo Romeo e gli appalti della Consip. Nel 2016 l'indagine viene trasferita a Roma dove l'ex braccio destro di Matteo Renzi, Luca Lotti, avrebbe rivelato dell’inchiesta in corso l’allora amministratore delegato della Consip, Luigi Marroni.
LUIGI LI GOTTI – AVVOCATO LUIGI MARRONI Lotti avrebbe avvisato Marroni che c'era un indagine in corso con intercettazioni. Marroni capì ambientali perché Lotti fece un gesto con la mano e con il dito girando, girandolo, come per indicare che c'erano delle cimici ed altro. Il gesto fu questo.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Le cimici erano nell'ufficio di Marroni che a dicembre 2016 interrogato, fa il nome di Luca Lotti. A marzo Marroni viene confermato dal governo a guida Pd a capo della Consip. A Giugno però salta la sua poltrona e viene di fatto messo alla porta.
LUIGI LI GOTTI – AVVOCATO LUIGI MARRONI Allora tra marzo e giugno che cosa avviene di nuovo e perché cambia tutto?
LUCA CHIANCA Che cosa è cambiato?
LUIGI LI GOTTI – AVVOCATO LUIGI MARRONI É cambiato che Marroni è stato risentito e ha confermato tutte le accuse. Evidentemente le persone accusate da Marroni speravano che facesse marcia indietro e ritrattasse, qualche segnalino anche a noi era arrivato. Proprio il giorno in cui Marroni va e conferma, qualcuno disse che i magistrati si attendevano e gradivano una ritrattazione, ma questo accadeva lo stesso giorno.
LUCA CHIANCA Avvocato ci dica chi è però. Sennò mandiamo messaggi ambigui
LUIGI LI GOTTI – AVVOCATO LUIGI MARRONI Ne ho parlato con i magistrati, proprio con il procuratore Pignatone e Pignatone fece un sorriso di quelli che io capivo, fece un sorriso che per me ebbe un solo significato: “lo sappiamo già che c'è stata questa manovra”.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO A ottobre Lotti viene rinviato a giudizio per favoreggiamento. Era indagato per traffico di influenze anche Tiziano Renzi, ma il pm Paolo Ielo chiede l'archiviazione. Ed è di questo che Luca Palamara e Luca Lotti parlano la sera del 9 maggio 2019 mentre il trojan registra la loro conversazione. Sembra che qualcosa sia andato storto.
LUCA CHIANCA Qui tu sei molto chiaro, no? E dici: “vicenda Consip”. Fai riferimento a Pignatone e gli dici a Lotti, “tu ti sei seduto a tavola con lui, lui ha voluto parlare con Matteo, lui ha voluto fa quelle cose. Lui crea l'affidamento, mi lascia col cerino in mano, io mi brucio e loro si divertono”.
LUCA PALAMARA – EX CONSIGLIERE CSM Te l'ho detto.
LUCA CHIANCA E dai spiegamela però questa.
LUCA PALAMARA – EX CONSIGLIERE CSM Quello che ho detto: che si erano visti, c'erano stati.
LUCA CHIANCA Ma per accordarsi sull'indagine?
LUCA PALAMARA – EX CONSIGLIERE CSM Sull’indagine no, questo non l'ho detto io che si sono accordati sull'indagine, dico che c'era stato un incontro, più incontri tra di loro.
LUCA CHIANCA Tra chi?
LUCA PALAMARA – EX CONSIGLIERE CSM Pignatone e Lotti, Pignatone e Renzi.
LUCA CHIANCA Tutti e tre insieme? O solo…
LUCA PALAMARA – EX CONSIGLIERE CSM Questo non te lo so dire. Io ti posso dire quello che ho visto io.
LUCA CHIANCA C’eri pure tu?
LUCA PALAMARA – EX CONSIGLIERE CSM In certe occasioni c'ero pure io.
LUCA CHIANCA In quali occasioni? LUCA PALAMARA – EX CONSIGLIERE CSM Pignatone - Lotti c'ero, sì.
LUCA CHIANCA Si incontrano e parlano di Consip?
LUCA PALAMARA – EX CONSIGLIERE CSM No, però si crea come dire, no?
LUCA CHIANCA Un rapporto che prima non c'era.
LUCA CHIANCA Palamara parla con Lotti e dice che Pignatone si è seduto a tavola con Lotti e poi ha parlato anche con lei. Questo dice.
MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA Il dottor Pignatone più volte io l'ho incontrato, ma le svelo un segreto - non vorrei che lei rimanesse sorpreso - io ho fatto il Presidente del Consiglio dei Ministri.
LUCA CHIANCA Sì ce lo ricordiamo.
MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA E la sede di Palazzo Chigi e la città di Roma, quindi mi è capitato di incontrare il dottor Pignatone.
LUCA CHIANCA Avete mai parlato di Consip?
MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA I casi in cui io ho parlato con il dottor Pignatone di vicende di giustizia sono stati casi in cui mi ha interrogato come testimone. Quindi “lei si è seduto con Pigantone”? Sì mi ha interrogato.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO In questa vicenda sono importanti le date delle indagini a carico di Lotti e Palamara coordinate dal pm di Roma Paolo Ielo. A settembre 2018, Ielo chiede il rinvio a giudizio per Lotti per la vicenda Consip. A maggio, invece, aveva inviato le carte dell'indagine su Palamara a Perugia, che è competente sui magistrati romani. A dicembre Palamara viene a sapere che c'è un'indagine a suo carico. La Finanza lo ascolta mentre parla con il collega Cesare Sirignano per favorire la nomina a capo della Procura di Perugia di un magistrato che possa aprire un fascicolo contro Paolo Ielo. Sirignano si spinge a dire che “uccidere” questa gente significa andare a mettere le pedine nei posti giusti.
LUCA CHIANCA Con Sirignano vai giù pesante, eh. A Sirignano gli dici “mettiamo uno a Perugia che apra un fascicolo su Ielo”. Lì vai giù pesante, eh. Però parli di aprire un'indagine contro Ielo.
LUCA PALAMARA – EX CONSIGLIERE CSM Valutassero quello, come lo fanno per me…
LUCA CHIANCA “Come facciamo ad aprire un'indagine su Ielo”?
LUCA PALAMARA – EX CONSIGLIERE CSM Come fanno con me, come poi è successo, come mi stai vivisezionando i capelli, giusto? Allora vale per tutti.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Il riferimento è all'avvocato Domenico Ielo, il fratello del magistrato Paolo Ielo che lavora da 20 anni come consulente anche per l'Eni. Il magistrato quando viene a sapere delle consulenze del fratello, chiede di astenersi dai procedimenti in corso che lo legano all'ex avvocato dell'Eni Piero Amara. In Procura a Roma inizia un conflitto insanabile sulla gestione degli indagati tra il capo Pignatone e Stefano Rocco Fava, uno dei magistrati che lavorano con Ielo sull'inchiesta Amara. Fava ne parla con Palamara, e Palamara ne parla con Ferri e Lotti. Il 21 maggio l’ex braccio destro di Renzi, Lotti, sostiene di aver ricevuto dal top manager di Eni, De Scalzi, carte sul fratello di Ielo che potrebbero tornare utili per delegittimare il magistrato.
LUCA CHIANCA Lei dice “la carta dell'Eni, De Scalzi me l'ha consegnata la settimana scorsa”.
LUCA LOTTI – DEPUTATO DEL PD Ci risiamo? Ancora un’altra volta? Abbiamo già risposto su questo.
LUCA CHIANCA Risponda a me, non risponda agli altri, risponda a me, la prego dobbiamo fare un'operazione trasparenza con lei.
LUCA LOTTI – DEPUTATO DEL PD E la facciamo scrivendogli punto su punto, quello che lei ci ha chiesto. Oggi le rispondiamo.
LUCA CHIANCA Ma risponda qui davanti alla telecamera, siamo io e lei.
LUCA LOTTI – DEPUTATO DEL PD Sta citando cose che sono in corso sulle quali non le voglio rispondere. Basta, non c’è altro. LUCA CHIANCA Mi spieghi perché lei chiedeva informazioni sul fratello di Paolo Ielo….
LUCA LOTTI – DEPUTATO DEL PD Ma non è così, lo dice lei. Ma lo dice lei.
LUCA CHIANCA …magistrato che l'ha indagata e l’ha rinviata a giudizio a Roma.
LUCA LOTTI – DEPUTATO DEL PD Sta sbagliando.
LUCA CHIANCA Le dice lei queste cose, le dice lei. “La carta dell’Eni”…
LUCA LOTTI – DEPUTATO DEL PD I processi si fanno nelle aule non per strada provando a raccontare qualcosa che non è vero.
LUCA CHIANCA Palamara mi conferma la stessa identica cosa, che lei ha detto a Palamara la stessa cosa che le sto riportando.
LUCA LOTTI – DEPUTATO DEL PD Io non so se ha parlato con Palamara, le auguro di averlo fatto però non funziona così. Lei non può costruire una cosa…
LUCA CHIANCA Ma non è che costruisco: faccio le mie verifiche.
LUCA LOTTI – DEPUTATO DEL PD …sulla base delle intercettazioni, che non so nemmeno quanto siano legittime o meno. LUCA CHIANCA E che vengono confermate da Palamara.
LUCA LOTTI – DEPUTATO DEL PD E farete un bel servizio con Palamara e l'intervista di Palamara”.
LUCA CHIANCA Lui dice “Descalzi mi ha dato le carte, me l'ha consegnata la settimana scorsa.
LUCA PALAMARA – EX CONSIGLIERE CSM Quello che ha detto nell'intercettazione c'è, è proprio quella, c'è l'audio lì basta richiedere l'audio quello che ha detto, ha detto, non è che…
LUCA CHIANCA Tu non sapevi se millantasse se era accreditato.
LUCA PALAMARA Questo è come le cose che ci siamo detti in tutte le cene. Non mettevo in dubbio dati i rapporti che si erano creati,che uno dicesse cazzate all'altro.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO “Dati i rapporti che si erano creati non avevo motivo di pensare che ci dicessimo delle bugie”, per usare un eufemismo. Palamara è convinto della sincerità dei discorsi, dei dialoghi, perché non c’è miglior amico di chi hai reso tuo complice. Sono tutti sulla stessa barca, il salvataggio di uno implica quello dell’altro. In alternativa “Muoia Sansone con tutti i filistei”. Sono anche benvenuti degli schizzi di fango che possono colpire chi sta indagando su di te. Qualcuno, a detta delle intercettazioni che sono state pubblicate e confermate anche da Palamara, quei dialoghi che ha riportato, quelli con Lotti, sarebbero state le carte che l’Amministratore Delegato di Eni, Claudio Descalzi, avrebbe fornito a Lotti riguardanti il fratello avvocato, il pm Paolo Ielo. Eni ci ha scritto e smentisce in modo categorico che Descalzi abbia consegnato al dottor Lotti documentazione relativa all’avvocato Domenico Ielo, fratello di Paolo. Lo stesso Lotti poi ha smentito i suoi dialoghi intercettati. Insomma, delle due l’una. O Lotti millantava o le carte gliele potrebbe aver fornite qualcun altro. Insomma, comunque il procuratore aggiunto Paolo Ielo aveva informato il suo ufficio responsabile sull’eventuale incompatibilità, che non è stata poi rilevata. E anche il Procuratore Capo Giuseppe Pignatone è finito oggetto di un esposto. L’ha presentato un suo sostituto, Stefano Fava. Aveva sollevato un problema di incompatibilità per quello che riguardava un indagato dalla Procura di Roma: l’inchiesta su Piero Amara, ex avvocato dell’Eni. Secondo Fava Piero Amara avrebbe offerto un contratto di consulenza al fratello avvocato di Pignatone, Roberto. Ecco, abbiamo verificato. È stato veramente offerto questo contratto di consulenza, ma nel 2014 e, particolare non trascurabile, è stato rifiutato. E quindi non esisteva la possibilità di una incompatibilità, anche perché l’inchiesta su Amara Ielo e Pignatone l’hanno aperta ben tre anni dopo. Tuttavia quell'esposto poteva diventare un’arma, benché spuntata, nelle mani di chi voleva cambiare l’equilibrio all’interno della Procura di Roma. Finisce la patata bollente nelle mani del membro laico del Csm Lanzi, che è anche il Presidente della commissione che deve giudicare sulla bontà dell'esposto.
LUCA CHIANCA A leggere quello che si dicono fra loro i protagonisti della storia, enormi ritardi, l’esposto non va avanti, qui la bloccano sta cosa, se uscisse fuori Palamara sarebbe quasi salvo.
ALESSIO LANZI – CONSIGLIERE CSM MEMBRO LAICO No, aspetti, aspetti. Allora. Questo è il desideratum di uno che confidava molto che l'esposto gli salvasse la situazione, chi se ne importa insomma, ma non esistono pratiche, esposti risolti in un mese. LUCA CHIANCA Mi perdoni dottore, proprio se insisto su questa cosa. Io non capisco il vostro interesse a velocizzare un procedimento, un esposto contro il capo di una procura quella romana che andrà in pensione da lì a qualche mese. Qual è l'interesse?
ANGELANTONIO RACANELLI – EX SEGRETARIO MAGISTRATURA INDIPENDENTE Non si trattava di velocizzare, si trattava di fare in modo che il Csm rispettasse le regole. Quando arriva un esposto in prima Commissione… LUCA CHIANCA Però la domanda è: ma a lei che interessa sta roba?
ANGELANTONIO RACANELLI – EX SEGRETARIO MAGISTRATURA INDIPENDENTE Se c’è praticamente un qualcosa che riguarda l’ufficio è anche interesse di un magistrato che fa parte dell'ufficio che sia fatta piena luce e che la procura ne esca con l'immagine tranquilla e pulita all'esterno.
LUCA CHIANCA Lotti, Palamara, Ferri parlano e ad un certo punto dicono che al posto di Ielo ci vorrebbe una persona di fiducia e individuano lei.
ANGELANTONIO RACANELLI – EX SEGRETARIO MAGISTRATURA INDIPENDENTE Ah, questo non lo so non so. Non so da dove risulta questa intercettazione, non sono in grado di dirle perché non conosco questo tipo di intercettazione.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Sono passati 4 mesi dallo scandalo che ha coinvolto il CSM. Vengono eletti due nuovi membri al posto di quelli sospesi; il vice presidente del Csm David Ermini dà il benvenuto ai nuovi colleghi.
ROMA 10 OTTOBRE 2019 PLENUM CSM DAVID ERMINI – VICEPRESIDENTE CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA Io mi voglio ricordare, ma voglio ricordare, il Consiglio Superiore non è un piccolo parlamento. I consiglieri eletti non hanno e non devono avere un rapporto fiduciario con le correnti o con i gruppi parlamentari - parlo per i non togati - che li hanno espressi. Nel momento in cui noi entriamo a far parte del Consiglio Superiore non ci sono più le casacche di appartenenza.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Di diverso avviso Luca Lotti. Si lamenta con Palamara del fatto che Ermini, forse temendo di finire nelle intercettazioni, non gli risponde più. Lotti scrive al vice presidente del CSM un sms che sa di rivendicazione: “Davide io non sono un senatore qualunque che ti scrive messaggi senza di me non eri lì punto …rispondi punto!” Sui rapporti tra politica e Csm spunta anche il nome di Lanzi, membro laico in quota Forza Italia che secondo Palamara dovrebbe essere avvicinato dalla Casellati, la presidente del Senato, per votare il loro nome a capo della procura di Roma.
LUCA CHIANCA Avete mai parlato delle nomine della Procura di Roma?
ALESSIO LANZI - CONSIGLIERE CSM MEMBRO LAICO No, assolutamente no.
LUCA CHIANCA Ne parlano sempre Lotti e Palamara.
ALESSIO LANZI - CONSIGLIERE CSM MEMBRO LAICO Della Casellati?
LUCA CHIANCA Sì, deve lavorare su di lei.
ALESSIO LANZI - CONSIGLIERE CSM MEMBRO LAICO Se questa fosse un'indicazione è destituita da ogni fondamento. LUCA CHIANCA Tra l’altro dicono anche lei è già stato fregato dal gruppo.
ALESSIO LANZI - CONSIGLIERE CSM MEMBRO LAICO E allora vede quando ci fu la nomina del vicepresidente per curriculum avevo tutte le caratteristiche per poterlo diventare e poi sembra che gli accordi fra Palamara, Ferri e Lotti abbiamo portato ad un'altra designazione.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Quella di David Ermini, ex Responsabile nazionale della Giustizia del Pd, al posto di un altro big del partito Giovanni Legnini e definita dallo stesso Palamara “la vittoria più bella del renzismo”.
LUCA CHIANCA Non è un po' esagerato? Aprire una porta e trovarsi dall'altra parte.
ALESSIO LANZI - CONSIGLIERE CSM MEMBRO LAICO È stata fatta un'altra scelta, evidentemente sono state scelte… LUCA CHIANCA ..politiche. Politiche nel senso proprio di mettere un politico, un proprio uomo lì dentro.
ALESSIO LANZI - CONSIGLIERE LAICO CSM Può essere. Come è sempre stato nel Csm negli anni passati, eh. Intendiamoci.
ROMA 21 GIUGNO 2019 PLENUM CSM SERGIO MATTARELLA - PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA Quel che è emerso nell’incontro di un’inchiesta giudiziaria ha disvelato un quadro sconcertante e inaccettabile. Quanto avvenuto ha prodotto conseguenze gravemente negative per il prestigio e per l'autorevolezza non soltanto di questo Consiglio, ma anche il prestigio e l'autorevolezza dell'intero Ordine Giudiziario.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Il Presidente Mattarella è il primo capo dello Stato che si trova costretto a condannare uno scandalo senza precedenti durante il plenum al Csm. Poco più in là, alla sua sinistra c'è il procuratore generale della Corte di Cassazione, Riccardo Fuzio, amico di Palamara. Ironia della sorte, firma le carte per i procedimenti contro i consiglieri coinvolti nello scandalo, ma lascia l’incarico solo a luglio quando si apprende che era indagato anche lui per rivelazione di segreto d’ufficio.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Rivelazione di segreto d’ufficio. Ecco, di questo è stato accusato Fuzio, il quale avrebbe rivelato particolari sullo stato dell’indagine a Palamara. Però il Procuratore generale della Cassazione dice, si difende: “ma io non ho detto nulla di nuovo a Palamara, nulla che già non sapesse”. Ecco, a completare il quadro, sconcertante, così l’ha definito Mattarella, il Presidente della Repubblica, c’è anche il fatto che cinque membri del Csm si sono dovuti dimettere. Uno, Luigi Spina, è anche indagato per rivelazione, anche lui, di segreto d’ufficio. Poi c’è anche l’accusa di favoreggiamento per il sostituto Stefano Fava. Poi c’è l’accusa di corruzione, sempre presso la Procura di Perugia, nei confronti dell’ex Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati Luca Palamara. Gli sarebbero state pagate delle cene, dei viaggi anche all’interno di una spa. Avrebbero vissuto sette anni nel lusso pagati da un “piccoletto”. Questo emergerebbe dalle intercettazioni. Chi è il piccoletto? È Fabrizio Centofanti, responsabile delle relazioni istituzionali, ex responsabile di Francesco Bellavista Caltagirone. È stato soprattutto anche il titolare della Cosmec, una società che organizzava eventi per la magistratura. Questo nella facciata nobile. Poi in quella promiscua, invece, serviva a fare lobby. Perché Centofanti è soprattutto l’uomo, l’anello di congiunzione tra magistrati e il sistema di Piero Amara, ex avvocato dell’Eni, che è accusato di essere al centro di un sistema di corruzione per condizionare le sentenze e i processi. Ma per fortuna ci sono gli anticorpi. Luca è sceso giù, là dove tutto è cominciato.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Bisogna tornare in Sicilia da dove siamo partiti lo scorso anno per raccontare il “sistema Amara”, dal nome dell'avvocato che l'ha di fatto messo in piedi insieme al suo collega Giuseppe Calafiore con il pm Longo di Siracusa. Un sistema corruttivo per aggiustare processi e sentenze che ha minato le fondamenta della magistratura italiana. Indagini che hanno coinvolto diverse procure, ma che partono da quella di Siracusa dove 8 giovani magistrati hanno avuto il coraggio di denunciare.
MARCO BISOGNI – MAGISTRATO Ci sono stati magistrati che si sono fatti avvicinare si può dire ormai, anche corrompere, da alcuni faccendieri e colletti bianchi e magistrati che hanno provato a resistere a questa attività. LUCA CHIANCA Ed è proprio a causa del sistema Amara che iniziano i suoi problemi.
MARCO BISOGNI – MAGISTRATO Io ho ricevuto 12 esposti dall'avvocato Amara e dall'avvocato Calafiore rivolti alle più varie autorità. Mi hanno citato per danni per 8 milioni di euro e hanno prodotto nel corso del giudizio una consulenza che poi si è scoperta con le indagini di Messina essere stata pagata 30 mila al collega Longo.
PIERO AMARA – EX AVVOCATO ENI Quando mi hanno arrestato nel corso dell’indagine io ero convinto che avrei fermato questa indagine dato il mio livello relazionale così importante.
LUCA CHIANCA Lei avverte Calafiore qualche giorno prima degli arresti, “game over” gli scrive un messaggino no? PIERO AMARA – EX AVVOCATO ENI Io gli scrivo game over, sì.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Amara e Centofanti prima del loro arresto, condividono alcune società e lo studio a Roma in Via Puglia 23. Mentre i magistrati romani stanno indagando su di loro, spuntano viaggi, pagamenti e prenotazioni nella spa di Fonteverde in Toscana, Madonna di Campiglio, Favignana e Dubai, tra Centofanti e Luca Palamara. Ad avvisarlo, secondo la ricostruzione di Palamara, è proprio l'ex capo della Procura di Roma Giuseppe Pignatone con il quale fino a poco tempo prima, condivideva un intenso rapporto d'amicizia.
LUCA PALAMARA – EX CONSIGLIERE CSM Pignatone mi dice: con chi sei stato a dormire a Fonteverde, fuori? L'accertamento riguarda due notti, una a febbraio dove c'è scritto “ognuno paga per sé”, una a marzo, una notte, 350 euro, dove la Finanza dice che “la ricevuta di quella notte viene rilasciata a Centofanti”. Poi Madonna di Campiglio. Madonna di Campiglio è nel 2011 mi contestano che mia sorella è andata con Centofanti; poi una mia vacanza del 2014 con la mia famiglia, io bonifico 4700, ho bonificato, sconto del 30%, la Finanza dice che l’albergatore dice che il residuo l'ha messo Centofanti.
LUCA CHIANCA Poi c'è Favignana.
LUCA PALAMARA Favignana 400 euro, 400.
LUCA CHIANCA E Dubai. LUCA PALAMARA E Dubai, pagamento del biglietto con la mia carta di credito, mia. E l'albergo gli dico “non me la caricare a me, caricatela te poi dopo facciamo i conti”.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Fabrizio Centofanti è stato un brillante funzionario dell'Ufficio Stampa dell'Esercito Italiano, poi in Croce Rossa e fino a pochi anni, fa nelle relazioni istituzionali di Acquamarcia di Francesco Bellavista Caltagirone. Poi, si mette in proprio e con la società Cosmec ,inizia a organizzare convegni per la magistratura. Umberto Croppi, accusato nell'inchiesta romana di associazione a delinquere finalizzata alle frode fiscale, era a capo della società di eventi.
UMBERTO CROPPI – EX PRESIDENTE COSMEC L'ultima cosa che abbiamo fatto proprio la settimana dopo l'avvenuto arresto di Centofanti, era un convegno al Plaza con tutti i vertici di tutte le magistrature con la partecipazione del ministro della Giustizia e con il patronato della Presidenza della Repubblica.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO La società Cosmec è controllata da un'omonima associazione presieduta da una ex consigliera di Stato e un comitato scientifico composto da un giurista e altri due magistrati.
UMBERTO CROPPI – EX PRESIDENTE COSMEC La società organizzava come service congressi per conto di alcuni organi della magistratura. LUCA CHIANCA Per esempio?
UMBERTO CROPPI – EX PRESIDENTE COSMEC Per esempio il consiglio superiore della magistratura, quello della magistratura contabile.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Dalle carte dell'indagine risultano viaggi a Dubai anche con il pm Longo di Siracusa amico di Calafiore e Amara, rapporti strettissimi con Luca Palamara, ma anche con il capo della procura di Roma, Giuseppe Pignatone.
LUCA PALAMARA – EX CONSIGLIERE CSM La frequentazione con Centofanti è una frequentazione che io faccio normalmente con altri miei colleghi e quando c'è il periodo dell'arrivo di Pignatone a Roma nel 2012 per un periodo c'era una frequentazione anche con le mogli con Pignatone e il presidente della Corte dei Conti Squitieri. LUCA CHIANCA FUORI CAMPO La Cosmec di Centofanti compra un quadro per 312 mila euro. E Secondo questo documento dell'unità informativa di Banca d'Italia ben 262mila finiscono nelle tasche di un giudice civile del tribunale di Roma, Massimiliana Battagliese.
UMBERTO CROPPI – EX PRESIDENTE COSMEC Io non ne so nulla. Io non me lo sono trovato neanche nel patrimonio della società, quindi non glielo so dire.
LUCA CHIANCA Però è anomalo no? Strano quanto meno.
UMBERTO CROPPI – EX PRESIDENTE COSMEC Come è entrato dev'essere anche uscito.
LUCA CHIANCA Lei non...
UMBERTO CROPPI – EX PRESIDENTE COSMEC Proprio non ne so nulla.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Beatrice Sciarra, figlia del proprietario delle storiche vetrerie di San Lorenzo a Roma, entra nel mondo di Fabrizio Centofanti attraverso il suo ex compagno, già consigliere di Stato e a Catania inaugurerà una mostra di pittura.
BEATRICE SCIARRA Qui ho avuto l'incarico di organizzare le mostre itineranti nei quattro alberghi Acquamarcia in Sicilia, tra i più belli d'Italia e penso di Europa.
LUCA CHIANCA Caratteristica di questi eventi è proprio la partecipazione di magistrati.
BEATRICE SCIARRA E c'erano moltissimi giudici, consiglieri, presidenti, un livello altissimo.
LUCA CHIANCA Quello che mi è meno chiaro è il ruolo di Centofanti.
BEATRICE SCIARRA Probabilmente per un'amicizia molto forte che aveva con molti di loro. Una volta ci ospitò anche casa sua ad Artena e c'erano solo alti magistrati.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Centofanti nel 2013 dà una mano per la prima campagna elettorale alla presidenza della regione Lazio di Nicola Zingaretti in questo palazzo in via delle Botteghe Oscure.
LUCA CHIANCA I rapporti tra Centofanti e Zingaretti?
BEATRICE SCIARRA Si conoscevano.
LUCA CHIANCA Cioè ha sostenuto pubblicamente la campagna elettorale?
BEATRICE SCIARRA Lui c'ha invitato sicuramente quella sera eravamo invitati da lui.
LUCA CHIANCA Da Centofanti?
BEATRICE SCIARRA Sì.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Centofanti, mille rapporti. A causa di alcune consulenze che avrebbe pagato Centofanti ad uomini vicini al governatore del Lazio Nicola Zingaretti, è finito anche lui sotto indagine. L’accusa, l’ipotesi è finanziamento illecito, ma gli stessi pm hanno chiesto l’archiviazione. Vedremo come va a finire. Invece per quello che riguarda i rapporti di cui parla Palamara tra Centofanti e l’ex Procuratore Capo Pignatone, Pignatone ci scrive: «se ci sono fatti di reato, la sede competente a esaminarli è l’Autorità Giudiziaria di Perugia. Se invece c'è la volontà di confondere tutto e tutti in una nuvola di polvere e fango, io sono del tutto estraneo a questo gioco, anzi ne sono la vittima». Del resto Pignatone aveva informato sulla natura dei suoi rapporti con Centofanti il Procuratore Generale della Corte d’Appello di Roma, come vuole la legge, e aveva ritenuto, il Procuratore, con un provvedimento formale, che non esistevano motivi di incompatibilità, di astensione. Ecco, e poi del resto alla fine della partita, con Pignatone a capo della Procura di Roma, a testimonianza che al di là delle frequentazioni, delle amicizie, delle correnti, la qualità e l’indipendenza delle istituzioni vengono determinate dalla qualità, l’indipendenza degli uomini: Fabrizio Centofanti è stato indagato per corruzione, bancarotta e frode fiscale e, per lo stesso reato, in un altro procedimento, è stato chiesto il rinvio a giudizio. Lotti invece è stato rinviato a giudizio con l’accusa di favoreggiamento per l’affaire Consip. Lotti, ci perdoni un po’ la frase, è un po’ come il prezzemolino.
ANDREA BACCI - IMPRENDITORE Io avevo rapporti ottimi con Lotti.
LUCA CHIANCA Lei è stato anche un sostenitore anche al livello economico del Partito Democratico, di Renzi, di Lotti.
ANDREA BACCI - IMPRENDITORE Ho fatto tutta una serie di iniziative, erano legate alle cene, a queste cose qua. LUCA CHIANCA Cioè, non ha dato soldi, ma dava una mano?
ANDREA BACCI - IMPRENDITORE Tanta mano, spendevo tante ore del mio tempo dietro le loro cose.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Delle amicizie di Andrea Bacci con la famiglia Renzi e Luca Lotti, ci aveva parlato Piero Amara, che con l'imprenditore fiorentino tenta alcune operazioni commerciali con l'Eni per rifornire con l’olio di palma le raffinerie green.
PIERO AMARA Quindi lei capisce che se riesce a rifornire tutte le raffinerie in Italia è una cosa molto molto importante; una cosa a cui teneva molto Bacci, a cui teneva Luca Lotti.
ANDREA BACCI - IMPRENDITORE L’olio di palma era una cosa meravigliosa. Questo me ne parlò coso, me ne parlò Amara. LUCA CHIANCA Però ha fatto riunioni con l’Eni, con qualcuno dell'Eni?
ANDREA BACCI - IMPRENDITORE Ho fatto riunione con uno dell'Eni perché c'era questa ditta di Prato che voleva comprare delle palline di polistirolo che venivano dai residui del petrolio.
LUCA CHIANCA Con Versalis? ANDREA BACCI - IMPRENDITORE Esatto.
LUCA CHIANCA Dove si è un po’ anche scaldato, no?
ANDREA BACCI - IMPRENDITORE Li ho mandati a fanculo, mi prendevano in giro, scusi.
LUCA CHIANCA Però lì non c'era appunto stato un interesse da parte di Lotti, di Amara.
ANDREA BACCI - IMPRENDITORE Io ho chiesto a Lotti se c'era verso di parlare con l'Eni, per comprare questa materia prima, mi segui? Per comprare - Mi segui? - ma non a un prezzo di favore; per comprare. E lui mi disse “boh, non lo so”. Dice “io con l'Eni parlo sempre con Granata”. Lotti, io sono andato a chiedere mi disse io parlo sempre con un certo Granata.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Claudio Granata è il responsabile Relazioni Istituzionali di Eni, braccio destro di Claudio Descalzi ed è l'uomo di riferimento di Amara in Eni. Oltre all'olio di palma, quindi tentano anche un'altra operazione con la società di Eni Versalis, per l'acquisto di polipropilene.
PIERO AMARA – EX AVVOCATO ENI Granata parlava con me, io riferivo a Lotti e rappresentai l’opportunità che si assecondassero i desiderata dei fiorentini; c’era il problema di una certificazione che il Granata promise a Lotti di risolvere, vi fu - così almeno mi fu riferito -, una riunione tra l’altro anche drammatica in Versalis, in cui Bacci disse “il governo vi impone di fare questa cosa qui”, poi Claudio mi scrisse un messaggio “no, questi sono pazzi, io non posso passare i guai, insomma…”
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Gli affari di Bacci con Eni non vanno in porto. Lotti ha detto ai magistrati di aver incontrato Amara solo una volta intorno al 2015. La versione di Amara è diversa: parla di più incontri e di comunicazioni riservate attraverso app di messaggistica criptate.
PIERO AMARA – EX AVVOCATO ENI Tipo Silent, Wickr, Telegram attraverso cui noi comunicavamo anche in tempo reale, cioè non c’è l’esigenza di... LUCA CHIANCA Sempre con Lotti?
PIERO AMARA – EX AVVOCATO ENI No, questo con tutti: Lotti, Granata, Bacci.
LUCA CHIANCA Senta, ma è normale che lei avesse questi rapporti con Lotti che era un sottosegretario alla Presidenza del Consiglio?
PIERO AMARA Avevo un rapporto prefere… confidenziale, avevo titolo per poter parlare con loro.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Eni ci scrive e conferma che “Andrea Bacci chiese un incontro preliminare con la direzione dell’azienda chimica Versalis, che peraltro fu interrotto su iniziativa dello stesso Claudio Granata”. Ma dice anche che “l’incontro non ebbe origine da Amara.” Con la Procura di Roma l’avvocato Amara ha patteggiato una pena di 3 anni per l’accusa di corruzione e frode fiscale. A Messina ha patteggiato un anno e due mesi sempre per corruzione, a Milano invece è indagato nei panni di ex avvocato Eni per aver costituito, inventato, un falso complotto ai danni di Descalzi, per schermarlo dalle accuse ben più gravi di presunte tangenti in Nigeria. Amara, che è al centro di un sistema corruttivo teso a condizionare l’esito delle sentenze, è potuto penetrare nel ventre molle della giustizia perché è stato fiaccato da decenni di correnti e dall’avidità. Ma è possibile immaginare un mondo, una magistratura indipendente, senza le correnti? Oggi sono diventate la cruna dell’ago dove un magistrato deve passare per fare carriera. Hanno mortificato la meritocrazia, l’indipendenza da dentro. Insomma, noi siamo concreti e pensiamo che è impossibile la magistratura senza correnti perché appartiene alla debolezza umana, quella di cercare di aggregarsi e di gestire il potere. Se correnti devono essere, che almeno servano a pulire dalle mele marce, non che diventino lo strumento di qualche mela marcia. Altrimenti assistiamo allo spettacolo indecente che abbiamo visto, quello dove la giustizia viene considerata roba loro. Ora, al di là del tono che trapela dalle intercettazioni, intercettazioni che i politici dicono “non potete usare per rispetto della legge”, che poi invece quella è la stessa legge che chiedono di rispettare, la mortificano dall’interno, mortificando un istituto, la giustizia, mortificando anche il valore della toga che i cittadini idealizzano come fosse un saio di un sacerdozio civile. Secondo Giovanni Falcone, che ha lanciato un monito prima di morire, «confondere la politica con la giustizia penale in un Paese che pretende di essere la culla del diritto, si rischia invece di farla diventare la tomba».
Formigli a Renzi: «Le foto della mia casa in rete? Squadrismo». Pubblicato lunedì, 09 dicembre 2019 su Corriere.it da Virginia Piccolillo. Duro scontro tra il fondatore di Italia Viva, Matteo Renzi, e il giornalista di La7 Corrado Formigli. Dopo la puntata di PiazzaPulita dedicata all’abitazione dell’ex premier, infatti, in Rete sono apparse delle immagini della casa del conduttore del programma. Formigli parla di «odio social» contro di lui «dopo l’intervista. Questo somiglia a squadrismo, denuncerò i responsabili». Renzi ha espresso, sui social, solidarietà al conduttore, che però lo accusa di averlo «usato per continuare la sua battaglia politica. Fai una intervista sgradita e il giorno dopo ti ritrovi casa su Facebook...». A mostrare le immagini della casa di Formigli sui social sarebbero stati, secondo il direttore di La7 Andrea Salerno, «supporter organizzati di un partito politico», e questo «rimanda a pagine orrende della nostra storia. Visto che Italia viva nasce anche con l’idea di combattere l’odio in rete, su questo deve fare chiarezza e pulizia. Subito». In un post su Facebook , intitolato «La casa privata di Corrado Formigli, il sacrosanto diritto alla privacy e un pensiero che voglio condividere con voi», Renzi ha scritto che «Dopo Piazza Pulita di giovedì sono apparse sui social notizie su Corrado Formigli e sulla sua abitazione privata. Con dettagli, commenti, critiche. Formigli stesso mi ha scritto stanotte per “sensibilizzare” su quella che lui definisce “una porcheria”: la sua casa “messa in mostra con foto, indirizzo e dettagli”. Sono d’accordo con lui. È davvero “una porcheria” e invito tutti quelli che hanno voglia di ascoltarmi a non rilanciare messaggi sulle case private di un personaggio pubblico». «Certo», aggiunge però Renzi, «rimane il fatto che le porcherie sono sempre tali. Sia quando si fanno ai giornalisti, sia quando si fanno ai politici. Le foto della mia casa, fatte entrando in una strada privata e violando il domicilio, la pubblicazione dei miei conti correnti, la fuga di notizie su cui nessuno indaga costituiscono per me fatti altrettanto gravi. Ma anche se su questo non ho avuto solidarietà da Formigli o da altri penso che noi dobbiamo essere fieri della nostra serietà. Pubblicare materiale sulla casa privata di un giornalista o di un politico è, davvero, “una porcheria”. Vi prego di non farlo. E di rispettare la privacy delle persone. Noi siamo diversi dagli altri, noi».
Da liberoquotidiano.it il 9 dicembre 2019. Corrado Formigli minacciato. Addirittura, la foto di casa sua finisce sui social. Dopo Piazza Pulita di giovedì sono apparse sui social notizie su Corrado Formigli e sulla sua abitazione privata. "Con dettagli, commenti, critiche. Formigli stesso mi ha scritto stanotte per 'sensibilizzare' su quella che lui definisce 'una porcheria'": chi lo scrive è Matteo Renzi, che in un post su Facebook rende nota la vicenda. La casa del giornalista tv è stata messa in mostra con foto, indirizzo e dettagli. "Sono d’accordo con lui. È davvero 'una porcheria' e invito tutti quelli che hanno voglia di ascoltarmi a non rilanciare messaggi sulle case private di un personaggio pubblico. Certo: rimane il fatto che le porcherie sono sempre tali". Renzi ne approfitta per vendicarsi. E infatti scrive: "Sia quando si fanno ai giornalisti, sia quando si fanno ai politici. Le foto della mia casa, fatte entrando in una strada privata e violando il domicilio, la pubblicazione dei miei conti correnti, la fuga di notizie su cui nessuno indaga costituiscono per me fatti altrettanto gravi. Ma anche se su questo non ho avuto solidarietà da Formigli o da altri penso che noi dobbiamo essere fieri della nostra serietà". La scorsa settimana, a Piazzapulita, Renzi e Formigli sono stati protagonisti di una intervista molto serrata, senza esclusione di colpi. Dopo Piazza Pulita di giovedì sono apparse sui social notizie su Corrado Formigli e sulla sua abitazione privata. Con dettagli, commenti, critiche. Formigli stesso mi ha scritto stanotte per “sensibilizzare” su quella che lui definisce “una porcheria”: la sua casa “messa in mostra con foto, indirizzo e dettagli”. Sono d’accordo con lui. È davvero “una porcheria” e invito tutti quelli che hanno voglia di ascoltarmi a non rilanciare messaggi sulle case private di un personaggio pubblico. Certo: rimane il fatto che le porcherie sono sempre tali. Sia quando si fanno ai giornalisti, sia quando si fanno ai politici. Le foto della mia casa, fatte entrando in una strada privata e violando il domicilio, la pubblicazione dei miei conti correnti, la fuga di notizie su cui nessuno indaga costituiscono per me fatti altrettanto gravi. Ma anche se su questo non ho avuto solidarietà da Formigli o da altri penso che noi dobbiamo essere fieri della nostra serietà. Pubblicare materiale sulla casa privata di un giornalista o di un politico è, davvero, “una porcheria”. Vi prego di non farlo. E di rispettare la privacy delle persone. Noi siamo diversi dagli altri, noi.
Corrado Formigli, il dietro le quinte dell'intervista a Matteo Renzi: "Non ci siamo nemmeno salutati, lui..." Libero Quotidiano il 10 Dicembre 2019. Corrado Formigli rivela un dietro le quinte clamoroso dell'intervista a Matteo Renzi a Piazzapulita. Ospite di Tiziana Panella a Tagadà, su La7, il giornalista racconta questo retroscena del colloquio con l'ex premier e leader di Italia Viva dal quale è poi scaturita una polemica sui social dove i sostenitori di Renzi hanno insultato Formigli e hanno addirittura rivelato il suo indirizzo di casa: "Non ci siamo salutati perché lui era andato via. Lui quella sera non era contento di come era andata l'intervista. Era un po' nervoso ma questo ci sta e penso anche questo senso di sfida sia meglio per tutti, i politici ne escono meglio se sono bravi ad argomentare e i giornalisti fanno i giornalisti", ha concluso Corrado Formigli.
Corrado Formigli contro Matteo Renzi: "Foto di casa online? Cosa ha omesso, ora denuncio". Libero Quotidiano il 10 Dicembre 2019. No, Corrado Formigli proprio non ha digerito quanto fatto da Matteo Renzi. Dopo la puntata di giovedì scorso di PiazzaPulita, dove si è parlato della fondazione Open e dei 700mila euro ricevuti dalla famiglia di Riccardo Maestrelli (argomenti trattati anche dallo stesso Renzi, che era ospite in studio), sui social è apparsa la foto della casa del conduttore, con tanto di indirizzo e descrizione "minuziosa - spiega Formigli in un'intervista al Corriere della Sera -: quanti vani, bagni, rivestimenti, il valore. E a pubblicarla sono tutte pagine Facebook di supporter di Italia Viva". A quel punto, il conduttore de La7 ha avvisato Renzi, "ma riservatamente perché volevo mantenere la cosa privata. In un messaggio l'ho avvertito di fare attenzione a cosa stavano postando i suoi sostenitori. E lui per tutta risposta - la vicenda è di ieri, lunedì 9 dicembre - ha reso pubblico il mio messaggio". Dunque il Corsera ricorda che nel post con cui il leader di IV ha reso pubblica la vicenda, quest'ultimo ha parlato di "porcheria". Durissima la replica di Formigli: "Finta. Perché non lo avevo autorizzato a diffondere la cosa, divenuta subito oggetto di curiosità. E perché omette di dire che a pubblicare i dettagli su casa mia sono stati tutti gruppi a sostegno di Italia Viva". Parole pesantissime, quelle del conduttore di PiazzaPulita, al quale il Corsera ricorda come Renzi abbia poi ricordato di non aver ricevuto solidarietà circa la fuga di notizie sui suoi conti: "Se la mettiamo sul piano del chi la fa l'aspetti - riprende Formigli - è pericoloso. Renzi è un senatore e gli ho chiesto della sua casa perché c'è un'indagine aperta per riciclaggio. Io sono un privato cittadino pagato da un'azienda privata". E ancora, sulla vicenda della casa conclude ricordando: "Lì ci vivo con la mia famiglia. Mia moglie si è allarmata. Tanto che ho deciso di denunciare". Infine chiosa: "Il punto è che all'indomani di domande sgradite si è scatenato qualcosa che ricorda molto da vicino la Bestia di Salvini", conclude Formigli tirando in ballo anche il leader della Lega.
(Adnkronos il 9 dicembre 2019) - "Ho fatto un'intervista a Renzi e il giorno dopo ho visto la fotografia di casa mia pubblicata sui social, con una descrizione minuziosa dell'appartamento e tanto di dettagli degli interni, oltre a decine e decine di insulti, richieste di chiarire quanto l'ho pagata e come. Tutto questo su pagine Fb riconducibili a Iv. Alcune "unofficial", ma che sono comunque di iscritti alla pagina nazionale, e due pagine locali del partito. Mi limito a osservare che da una parte c'è un'intervista fatta a Renzi che evidentemente non è piaciuta a esponenti di Iv e il giorno dopo mi sono ritrovato la mia casa pubblicata su delle pagine di Iv. Poi ognuno tragga le sue conclusioni". A parlare all'Adnkronos è Corrado Formigli, dopo che, come ha spiegato su Facebook Matteo Renzi (che ha bollato l'accaduto come una "porcheria") "sono apparse sui social notizie sulla sua abitazione privata", a seguito dell'intervista fatta al leader di Iv nella puntata di Piazza Pulita di giovedì scorso. Formigli si rivolge a Renzi: "Il mio invito è fare pulizia di queste pagine: indicare l'abitazione di un giornalista da parte di sostenitori di un partito politico è qualcosa che ha a che fare con lo squadrismo", rimarca. Poi il giornalista spiega di aver raccontato i fatti lui stesso a Renzi via whatsapp. "Ho scritto a Renzi quello che era successo, segnalandogli e mandandogli anche i link delle pagine dove c'era la foto della mia casa, per invitarlo a controllare le pagine del suo partito: mi sembrava un fatto grave quello che era successo. Un messaggio inviato privatamente su whatsapp a Renzi, dopo il quale mi sono ritrovato la questione della mia casa pubblicata da lui senza il mio consenso". "Un'operazione scorretta" da parte del leader di Iv, secondo FORMIGLI: "Io ho molti messaggi di Renzi ma non mi sono mai permesso di pubblicarli così, senza chiedere un suo consenso. Invece Renzi ha sostanzialmente pubblicato il contenuto della nostra conversazione in un post per continuare la sua battaglia politica, anche se io, da padre di famiglia, non volevo dare rilievo pubblico alla questione". Il conduttore di Piazza Pulita, che annuncia di essere già andato dall'avvocato ("denuncerò i responsabili della pubblicazione"), ancora rivolto al leader di Italia Viva, aggiunge: "Non capisco perché equipari la sua situazione alla mia. C'è una dimensione pubblica della vicenda della sua casa: cosa c'entra la mia casa? Io non sono un senatore, non sono stato presidente del Consiglio, non ho avuto soldi dentro Open... Morale della favola: tu fai l'intervista che evidentemente è sgradita nella domande e il giorno dopo ti ritrovi la casa pubblicata su Facebook dai sostenitori del partito di Renzi. Ognuno tragga le sue conclusioni".
Formigli e le foto della sua casa sul web, Renzi attacca ancora: «Privacy invocata solo per gli amici». Pubblicato martedì, 10 dicembre 2019 da Corriere.it. «Chi difende le nostre idee in rete è stato massacrato per anni dalle #FakeNews. E oggi dalla doppia morale di chi invoca sui giornali la privacy solo per gli amici. Ne parliamo giovedì in Senato, abbiamo molto da dire». Matteo Renzi, via social network, torna ancora all’attacco per replicare alle accuse ai suoi sostenitori per la diffusione su internet delle foto della casa del giornalista Corrado Formigli. Ma come si è innescato questo durissimo scontro? Tutto è iniziato giovedì scorso, a Piazza pulita, su La7. Il conduttore Corrado Formigli, intervistando l’ex premier, lo aveva incalzato sull’inchiesta sulla fondazione Open e sul prestito da 700 mila euro ricevuto dalla famiglia di Riccardo Maestrelli per comprare la sua nuova villa sulle colline di Firenze. Una serie di domande incalzanti, quelle del giornalista, alle quali il leader di Italia viva aveva risposto in modo serrato. Sui social, però, poco dopo si è innescata una serie di circostanze «da squadristi», così come le ha definite lo stesso Formigli. Su Facebook e non solo, da parte di alcuni sostenitori del partito di Renzi, sono state pubblicate le foto dell’abitazione del giornalista, con numerosi dettagli immobiliari e catastali. Formigli ha così inviato un sms a Renzi per segnalargli queste circostanze, invitandolo a sensibilizzare chi di dovere. «Era un messaggio privato, che doveva rimanere tale», ha spiegato il giornalista in una intervista al Corriere. E poi: «Ma Renzi ha invece sfruttato la vicenda a pro suo. La sua solidarietà è stata finta».
Virginia Piccolillo per il “Corriere della Sera” il 10 dicembre 2019. Parla di «squadrismo» e respinge al mittente la «solidarietà pelosetta » di Matteo Renzi e, accusa: «Per certi versi ha lo stile di Matteo Salvini».
Corrado Formigli, cosa è accaduto?
«Giovedì scorso a Piazza pulita (La7) intervistiamo Renzi anche sulla fondazione Open e sul prestito di 700 mila euro ricevuto dalla famiglia di Riccardo Maestrelli, finanziatore di Open, nominato nel cda di Cassa depositi e prestiti quando lui era premier. E 24 ore dopo sui social...».
Cosa c'è?
«Insulti. Ma in più trovo la foto di casa mia, l'indirizzo e la sua descrizione minuziosa: quanti vani, bagni, rivestimenti, il valore. E a pubblicarla sono tutte pagine Facebook di supporter di Italia viva».
E lei lo ha detto a Renzi?
«Sì, ma riservatamente perché volevo mantenere la cosa privata. In un messaggio l'ho avvertito di fare attenzione a cosa stavano postando i suoi sostenitori. E lui per tutta risposta ha reso pubblico il mio messaggio».
Nel post Renzi definisce «porcherie» «i messaggi sulle case private sia quando si tratta di un giornalista che di un politico». Non è solidarietà?
«Finta. Perché non lo avevo autorizzato a diffondere la cosa, divenuta subito oggetto di curiosità. E perché omette di dire che a pubblicare i dettagli su casa mia sono stati tutti gruppi a sostegno di Italia viva».
Renzi dice di non aver avuto solidarietà sulla fuga di notizie dei suoi conti.
«Se la mettiamo sul piano del "chi la fa l' aspetti" è pericoloso. Renzi è un senatore e gli ho chiesto della sua casa perché c' è un' indagine aperta per riciclaggio. Io sono un privato cittadino pagato da un' azienda privata. Il giornalista deve controllare il potere, il contrario è squadrismo. Lì ci vivo con la mia famiglia. Mia moglie si è allarmata. Tanto che ho deciso di denunciare».
Lui ha sempre denunciato che i cronisti fossero sotto casa della sua famiglia.
«Babbo Renzi era indagato ed era il padre del premier indagato. Non siamo sullo stesso piano. Il punto è che all' indomani di domande sgradite si è scatenato qualcosa che ricorda molto da vicino la Bestia di Salvini».
Luca Bottura per “la Repubblica” il 9 dicembre 2019. L’antefatto: Matteo Renzi va ospite da Formigli a Piazza Pulita e si infastidisce per toni e modi dell' intervista. Successivamente, suoi sostenitori cercano di intimidire Formigli rendendone noto in rete l' indirizzo di casa. Il cronista chiama l' ex Pdc e gli chiede di fermare i fan. Renzi allora pubblica su Facebook un messaggio nel quale rivela la telefonata, gli "esprime solidarietà" e invita a non imitare quel che Formigli ha fatto a lui, perché "noi siamo diversi, noi". Seguono commenti come questi (punteggiatura originale): "I furbetti imparino cosa comporta utilizzare il livore". "Era logico che qualcuno gli rendesse pan x focaccia". "Spero che abbia imparato la lezione". "Quello che è stato fatto è reso e con gli interessi !!"."Torna al tuo posto, Corrado, e smettila di fare le boccacce a Matteo". "Chi la fa l' aspetti...". "Formigli è una gran faccia di... bronzo. Senta anche lui come sono amare alcune medicine". "Noi siamo diversi. Ma non si può sempre essere corretti e buoni con chi non se lo merita". Un consiglio: se mai Renzi vi offrisse la sua solidarietà, per un qualunque motivo, consiglio di rispondere "a posto così, grazie".
Il tweet di Renzi su Corrado Formigli: "Sui giornali invocano la privacy solo per i loro amici. E' doppia morale". Il leader di Italia Viva torna sul caso della pubblicazione in rete, da parte di suoi sostenitori, di foto dell'abitazione del giornalista. Nell'ultima puntata di Piazzapulita Formigli aveva intervistato l'ex presidente del Consiglio in merito alle indagini sulla Fondazione Open che coinvolgono anche l'acquisto della sua casa di Firenze. La Repubblica il 10 dicembre 2019. Un tweet alle 7:17 del mattino e riparte la polemica. Caso Renzi-Formigli, lo scontro continua. Il leader di Italia Viva ed ex presidente del Consiglio ritorna sul caso degli attacchi social alla privacy del giornalista con un post su twitter: "Chi difende le nostre idee in rete è stato massacrato per anni dalle Fake News. E oggi dalla doppia morale di chi invoca la privacy solo per gli amici. Ne parliamo giovedì in Senato, abbiamo molto da dire". "Vorrei mandare un abbraccio a tutti coloro che lottano sulla rete per difendere le nostre idee", ha anche scritto il leader di Italia Viva in un post su Fb. "Il colmo è che siete stati massacrati da troll per anni con FakeNews e adesso vi attaccano persino sui giornali, solo perché difendete la verità e le vostre idee. Vi abbraccio forte forte. E vi garantisco che non ci fermeremo. Anzi: vi do appuntamento a giovedì quando interverrò in Senato su questa incredibile vicenda, facendo sentire la vostra voce. Orgoglioso di essere accompagnato in questa battaglia da persone appassionate come voi. Grazie" Il caso era iniziato dopo Piazza Pulita di giovedì - in cui aveva intervistato Renzi sulle indagini che coinvolgono anche l'acquisto della sua casa a Firenze - quando sono apparse sui social notizie sull'abitazione privata di Formigli. "Non può paragonare l'episodio della pubblicazione su i social della mia abitazione al suo caso, perchè se è vero che io ho fatto una domanda durante la mia intervista in trasmissione su caso che da giorni riempie le pagine di giornali, lui è un senatore della Repubblica, un ex presidente del Consiglio", il commento del giornalista dopo il post di solidarietà scritto da Renzi
Caso Open, Formigli scopre la privacy: ma solo la sua. Angela Azzaro il 10 Dicembre 2019 su Il Riformista. L’odio social questa volta ha colpito il conduttore di Piazza Pulita, Corrado Formigli. Dopo l’intervista-interrogatorio al leader di Italia viva, Matteo Renzi, è stato preso d’assalto sui social. «Il giorno dopo – ha detto Formigli all’Adnkronos – ho visto la fotografia di casa mia pubblicata sui social, con una descrizione minuziosa dell’appartamento e tanto di dettagli interni, oltre a decine e decine di insulti, richieste di chiarire quanto la ho pagata». Formigli si è rivolto direttamente a Renzi, con cui c’è stato anche uno scambio su whatsapp per chiedere di fare “piazza pulita” di questi messaggi: «Indicare l’abitazione di un giornalista da parte di sostenitori di un partito politico è qualcosa che ha a che fare con lo squadrismo». Forse parlare di squadrismo è eccessivo, ma il ragionamento fila. È giusto, giustissimo. Non bisogna mai violare la privacy di una persona, pubblicare la sua casa, sbattere la sua vita privata in prima pagina o all’interno di un talk show. Esattamente però quello che proprio Formigli ha fatto nei confronti di Renzi, senza peraltro chiedere scusa. Il leader di Iv ha invece denunciato quanto accaduto al giornalista di La7, anche se lui non è direttamente responsabile, né lo sono i vertici del partito da lui guidato. «Stanotte – ha scritto Renzi su Fb – Formigli mi ha scritto per sensibilizzarmi su quella che lui definisce una porcheria: la sua casa messa in mostra con foto, indirizzo e dettagli. Sono d’accordo con lui. È davvero una porcheria e invito tutti quelli che hanno voglia di ascoltarmi a non rilanciare messaggi sulle case private di un personaggio pubblico. Certo: rimane il fatto che le porcherie sono sempre tali. Sia quando le fanno ai giornalisti, sia quando le fanno ai politici. Le foto della mia casa, fatte entrando in una strada privata e violando il domicilio, la pubblicazione dei miei conti correnti, la fuga di notizie su cui nessuno indaga costituiscono fatti altrettanto gravi». Il riferimento ai messaggi privati ha fatto arrabbiare il conduttore, ma quanto detto da Renzi non è solo il post di un politico che si leva qualche sassolino dalla scarpa. È un messaggio a tutti: vogliamo deciderci a prendere le distanze dal linguaggio dell’odio, dall’incitamento al linciaggio, dalla messa alla gogna dei personaggi pubblici? Questo vale per i politici e vale, logicamente, per chi fa informazione e in questi anni ha usato il proprio potere non per dare le notizie, ma per spingere la folla contro i politici. Non c’è nessuna inchiesta sulla casa di Renzi, eppure per lui non vale la regola della privacy, non c’è riguardo nei confronti della sua famiglia. Da settimane l’acquisto della villa a Firenze è diventato di dominio pubblico. Si mette tra parentesi che non c’è nessun rilievo penale, ma poi si va avanti in quello che appare sempre di più un atto di killeraggio. Ma ha ragione Formigli. È sbagliato incitare gli animi, accettare l’odio social. Ma l’odio va bloccato sul nascere, non solo quando colpisce noi, quando ci fa comodo. L’intervista a Renzi di giovedì scorso, non aveva lo scopo di aiutare a capire, ma di condannare. Non voleva aiutare lo spettatore a farsi una idea, ma aveva lo scopo di convincere chi ascoltava della colpevolezza dell”imputato”. Anche se non era imputato.
Formigli: "Cosa aspetta Renzi a far rimuovere le foto di casa mia?". Dopo il caso delle foto dell'abitazione di Corrado Formigli pubblicate (e ancora presenti) sui profili social di Italia Viva, il conduttore di Piazza Pulita rivolge un appello a Matteo Renzi: "Cosa aspetta per attivarsi a rimuoverle?". Gianni Carotenuto, Martedì 10/12/2019, su Il Giornale. Nuova puntata della polemica che contrappone da qualche giorno Corrado Formigli e Matteo Renzi. Dopo che alcuni fan di Italia Viva, su Twitter, hanno pubblicato le foto della casa del conduttore per "rendergli pan per focaccia" a causa delle domande scomode rivolte all'ex premier per il caso della sua abitazione di Firenze pagata in parte con i 700mila euro di prestito dell'ex finanziatore della Fondazione Open, Riccardo Maestrelli, Formigli passa al contrattacco. E in un'intervista all'Huffington Post si rivolge indirettamente a Renzi: "Le foto sono ancora presenti sulle pagine di Italia Viva. Cosa aspettano per attivarsi a rimuoverle?". Formigli, nella sua domanda retorica, usa la terza persona plurale. Ma è evidente il riferimento a Renzi, leader del partito sulle cui pagine social è partita la "shitstorming" ai suoi danni. "È legittimo porsi la domanda se ci sia stato uno scambio o è lesa maestà?", si chiede il giornalista riguardo all'intervista fatta a Renzi negli studi di Piazza Pulita, prima di scagliarsi contro l'ex premier, che "pubblica il suo post senza avvisarmi, rende di pubblico dominio la questione della casa, vìola il patto di riservatezza dei messaggi personali che ci siamo scambiati, omette che la porcheria della pubblicazione è legata a suoi sostenitori, equipara in sostanza la vicenda delle due case", spiega Formigli, per "difendere se stesso, non me". Quindi l'affondo: "O sono capaci di autocritica o sono complici. O, peggio, hanno partecipato attivamente, ma questo non lo voglio credere".
Formigli: "Renzi era molto nervoso". Formigli, nel suo dialogo con l'Huffington Post, contestualizza tutta la vicenda partendo dal principio. "Avevamo fissato un’intervista dopo due anni che non si sedeva nel nostro studio. Era molto nervoso - svela Formigli - Siamo partiti dalla politica, per poi passare alla fondazione Open, quindi alla casa e infine sul suo ruolo di conferenziere. È stato un colpo su colpo, lui se ne è andato visibilmente non felice per come era andata, ma nulla di straordinario".
Una regia dietro agli attacchi social a Formigli? Questo per quanto riguarda l'intervista vera e propria. Quindi la seconda fase, quella degli attacchi personali. "Il giorno dopo scopro che su alcune profili di persone che si dichiarano sostenitori di Renzi c’è una foto di casa mia, e post che la descrivono dettagliatamente, il corridoio, il salotto, le camere, le scalette per arrivare al terrazzo. Ma soprattutto l’indirizzo di casa". Un tono che il conduttore definisce "impressionante, ovviamente con mille insulti sotto. In breve la foto viene condivisa su tre pagine locali con intestazione e logo di Italia Viva". Chi l'ha fatto? Impossibile, per Formigli, non pensare a una regia occulta. "La sensazione è che si siano messi in moto una serie di squadristi digitali, tutti insieme".
"Cosa aspettano a togliere le foto di casa mia?"E adesso? Il giornalista cresciuto alla scuola di Michele Santoro annuncia di avere fatto causa ai responsabili. "C'è in gioco la mia privacy e la serenità della mia famiglia". Dopo la diffusione delle foto di casa Formigli, tra lui e Renzi c'è stato uno scambio di messaggi in cui l'ex premier promette che "avrebbe provato a sensibilizzare", cosa che l'ex premier ha puntualmente fatto pur senza nascondere un certo risentimento nei confronti di Formigli. Che si chiede "due cose: la prima se sia possibile o meno fare domande a un leader senza essere devastato sui social dai suoi supporter", la seconda, "cosa aspettano per attivarsi a rimuovere le foto presenti sulle pagine di Italia Viva?".
"Se non fanno autocritica sono complici". Infine, Formigli racconta di avere già contattato il responsabile social del partito di Renzi, Alessio De Giorgi, che si rifiuta però di cancellare le foto in quanto "il mio indirizzo non è desumibile da quei post. Lo sfido quando vuole a dimostrarlo, gli dimostrerò il contrario. Si informasse meglio. O sono capaci di autocritica, o sono complici. O, peggio, hanno partecipato attivamente, ma questo non lo voglio credere", tuona Formigli, prima di aprire all'ipotesi di invitare di nuovo Renzi in trasmissione. "Ma non ci asterremo, come sempre, dalle domande scomode", conclude il conduttore di Piazza Pulita.
Dagospia il 10 dicembre 2019. Matteo Renzi su Facebook oggi: Vorrei mandare un abbraccio a tutti coloro che lottano sulla rete per difendere le nostre idee. Il colmo è che siete stati massacrati da troll per anni con FakeNews e adesso vi attaccano persino sui giornali, solo perché difendete la verità e le vostre idee. Vi abbraccio forte forte. E vi garantisco che non ci fermeremo. Anzi: vi do appuntamento a giovedì quando interverrò in Senato su questa incredibile vicenda, facendo sentire la vostra voce. Orgoglioso di essere accompagnato in questa battaglia da persone appassionate come voi. Grazie!
L'antefatto: Renzi su Facebook. Dopo Piazza Pulita di giovedì sono apparse sui social notizie su Corrado Formigli e sulla sua abitazione privata. Con dettagli, commenti, critiche. Formigli stesso mi ha scritto stanotte per “sensibilizzare” su quella che lui definisce “una porcheria”: la sua casa “messa in mostra con foto, indirizzo e dettagli”. Sono d’accordo con lui. È davvero “una porcheria” e invito tutti quelli che hanno voglia di ascoltarmi a non rilanciare messaggi sulle case private di un personaggio pubblico. Certo: rimane il fatto che le porcherie sono sempre tali. Sia quando si fanno ai giornalisti, sia quando si fanno ai politici. Le foto della mia casa, fatte entrando in una strada privata e violando il domicilio, la pubblicazione dei miei conti correnti, la fuga di notizie su cui nessuno indaga costituiscono per me fatti altrettanto gravi. Ma anche se su questo non ho avuto solidarietà da Formigli o da altri penso che noi dobbiamo essere fieri della nostra serietà. Pubblicare materiale sulla casa privata di un giornalista o di un politico è, davvero, “una porcheria”. Vi prego di non farlo. E di rispettare la privacy delle persone. Noi siamo diversi dagli altri, noi.
Matteo Renzi e Italia Viva stanno spendendo più di mille euro al giorno su Facebook. Il nuovo partito dell'ex premier è quello che più investe in pubblicità sul social network. Nell'ultimo mese boom anche di Calenda (oltre 20mila euro). Mauro Munafò il 18 dicembre 2019 su L'Espresso. Italia Viva è il partito che più sta spendendo su Facebook. Negli ultimi trenta giorni la nuova formazione di Matteo Renzi ha investito in sponsorizzazioni sul social network più utilizzato in Italia poco più di 35mila euro, pari a oltre mille euro al giorno. Una spesa sensibilmente superiore a quella degli altri politici e delle altre formazioni, persino più alta delle cifre già significative investite per il lancio di Italia Viva dall'ultima Leopolda. Le somme più importanti sono state utilizzate sulla pagina di Matteo Renzi: per lui quasi 27mila euro di sponsorizzazioni in un mese, seguito dalla pagina ufficiale del partito con quattromila euro e da budget decisamente più ridotti per gli altri principali esponenti di IV: tremila euro per Teresa Bellanova, 700 euro per Davide Faraone, 600 per Ettore Rosato, 300 per Luigi Marattin e la ministra Elena Bonetti. Meno di cento euro invece per Maria Elena Boschi. A pagare queste inserzioni è sempre il partito, spiega il report sulla trasparenza di Facebook. Ha pagato invece di tasca sua circa duemila euro Mattia Mor, deputato di Italia Viva, che ha voluto promuovere il suo ultimo libro dedicato proprio al partito appena nato. L'incremento della spesa sui social da parte di Italia Viva e dei suoi esponenti sembra essere una risposta alle inchieste sulla Fondazione Open e al caso, rivelato dall'Espresso, de prestito ottenuto da Matteo Renzi per acquistare la sua villa a Firenze . I post su cui lo staff di Italia Viva ha investito più soldi, in modo da ottenere una maggiore visibilità su Facebook, sono infatti in gran parte quelli legati a casi citati poco fa. Una cifra tra i mille e i millecinquecento euro è stata spesa per il lungo messaggio con cui Renzi ha difeso l'operato della fondazione Open e altri 600 per quello in cui annuncia querele contro giornalisti e organi di stampa. L'impegno del partito nel cercare di diffondere a macchia d'olio la propria difesa sulle inchieste emerge anche dal numero di inserzioni prodotte: anche 12 per lo stesso messaggio, mirato a target di pubblico diversi. Dietro il mondo di Italia Viva, nell'ultimo mese la spesa più significativa su Facebook l'ha affrontata un altro partito appena nato, Azione di Carlo Calenda. L'ex ministro ha speso 17mila euro sulla propria pagina, a cui ne vanno aggiunti altri sette per quella della nuova formazione. Il video di lancio del nuovo partito, un trailer di 30 secondi, è stato sponsorizzato con una cifra tra i 10 e i 15mila euro per raggiungere poco meno di un milione di impression, dicono i dati di Facebook. Assai più indietro rispetto a Renzi e Calenda ci sono tutti gli altri. Il presidente dell'Emilia-Romagna Stefano Bonaccini del Pd, chiaramente in vista delle prossime elezioni, ha speso ottomila euro. Matteo Salvini ha investito circa tremila euro in sponsorizzazioni, il gruppo al Senato di Fratelli d'Italia 2.600, Anna Maria Bernini di Forza Italia duemila e Gianluigi Paragone dei 5 Stelle mille e settecento. Appena seicento euro per Giorgia Meloni, superata anche dal compagno di partito Raffaele Fitto (900 euro). Non pervenuto Nicola Zingaretti, mentre il Pd spende 600 euro a cui vanno aggiunti i milleduecento euro del gruppo del Pd al Senato.
Ecco la «Bestia» di Renzi: spin doctor, toni forti, supporter. Così nasce la guerriglia social. Pubblicato martedì, 10 dicembre 2019 su Corriere.it da Claudio Bozza. La metamorfosi comunicativa del leader di Italia viva e la polemica dopo i pesanti attacchi al giornalista di La7 Formigli. Attacchi frontali all’avversario del giorno. Sui social «meme» e video con parole forti. Per poi arrivare alla battaglia campale di Renzi con #colposucolpo, hashtag lanciato per ribattere alle accuse emerse dall’inchiesta sulla fondazione Open e il prestito ricevuto per l’acquisto della casa fiorentina. Proprio dopo un’intervista su questo tema il giornalista Corrado Formigli è stato pesantemente attaccato da supporter renziani che hanno anche pubblicato in Rete foto e indirizzo della casa del conduttore di La7. La metamorfosi comunicativa di Matteo Renzi coincide con il lancio di Italia viva: a guidare la «Bestia» renziana c’è Alessio De Giorgi, già fondatore di Gay.it e oggi assunto nello staff della ministra Teresa Bellanova. Al fianco di De Giorgi, 48 anni, una lunga esperienza sul web ed ex capo del team digitale del Pd, c’è suo marito Nicolae Galea, poco più che ventenne, assunto nello staff dell’altra ministra renziana: Elena Bonetti. Ma come e perché nasce l’anti «Bestia»? La prima versione strutturata per la «guerriglia digitale», sempre con De Giorgi a capo e ai tempi anche con il sostegno economico di Open, viene costituita quando Renzi si sta giocando la carriera con il referendum costituzionale, e in un ufficio a Firenze c’è una squadra di una ventina di giovani «smanettoni» impegnati nella propaganda digitale. È da quel fallimento che nasce la svolta: Renzi ritiene che il profilo «troppo soft» sui social durante la campagna sia costato almeno il 10% dei consensi. «Salvini e i Cinque Stelle ci hanno fatto un mazzo così sui social», ripete. Così cambiano i toni, diventati progressivamente più forti, fino ad arrivare all’addio al Pd. Messi in soffitta i vecchi attrezzi come la piattaforma Bob, grande insuccesso dei dem, c’è bisogno di strumenti nuovi. E il primo di cui Renzi decide di dotarsi si chiama Nation builder: software utilizzato da Donald Trump nella battaglia verso la Casa Bianca. La piattaforma digitale, il cui costo varia da 19,90 fino a migliaia di euro mensili a seconda della potenza di fuoco richiesta, è stata utilizzata per il lancio di Italia viva. Con la nuova formazione, la presenza di Renzi sui social è diventata più imponente, anche se ancora lontana dai livelli di M5S o Lega (Salvini ad esempio ha 3,8 milioni di like su Facebook, Renzi poco più di un milione). Il team del social strategist De Giorgi, oltre al profilo ufficiale di Italia viva e a quelli di alcuni parlamentari di primo piano, gestisce anche numerose maxi chat via WhatsApp e Messenger costituite da migliaia di sostenitori renziani, attraverso cui viene veicolato in rete lo spin, il messaggio del momento da «viralizzare» a seconda delle circostanze. De Giorgi digitalizza e mette in atto la linea dettata dallo stesso ex premier. È questo il contesto in cui è scaturito il caso Formigli. Il giornalista de La7, durante la trasmissione Piazzapulita, aveva assai incalzato Renzi sui 700 mila euro ricevuti in prestito da un imprenditore per acquistare la nuova villa sulle colline di Firenze. Ma il sentiment, l’umore instillato nella Rete, talvolta può sfuggire di mano. E poco dopo la trasmissione, sui social, alcuni sostenitori-ultras di Italia viva hanno pubblicato la foto della casa del giornalista, con dettagli immobiliari e offese.
Andrea Giacobino il 10 dicembre 2019. E’ durata poco più di sei mesi Digistart srl, la società costituita lo scorso 11 maggio da Matteo Renzi. Lo scorso 23 novembre, infatti, l’ex premier e oggi leader di Italia Viva, si è presentato nel capoluogo fiorentino davanti al notaio Filippo Russo nella sua qualità di amministratore e socio unico per deliberare lo scioglimento anticipato e la messa in liquidazione. Renzi, che ha assunto la carica di liquidatore della società, aveva lasciato a settembre scorso la carica di amministratore unico al fido Marco Carrai, che s’era dimesso pochi giorni dopo, per essere rimpiazzato dall’amico. Digistart Srl con capitale di 10 mila euro, versato da Renzi con due assegni emessi da Cariparma Crédit Agricole e Bnl Bnp Paribas, doveva occuparsi anzitutto di “analisi dei processi comunicativi che collegano cittadini e imprese, anche mediante l’organizzazione e/o partecipazione a convegni, seminari, incontri sia in Italia che all’estero” e di “consulenza aziendale e di marketing strategico”.
Claudio Bozza per il “Corriere della Sera” il 12 dicembre 2019. «Penso che ogni violazione della privacy sia un atto barbaro. L' ho detto e lo ribadisco. Mi fermo qui perché non voglio alimentare ulteriori tensioni». Ora frena Matteo Renzi, dopo che alcuni sostenitori di Italia viva avevano pubblicato sui social la foto della casa del giornalista Corrado Formigli, «reo» di una intervista piuttosto incalzante riguardo gli intrecci tra la Fondazione Open e il maxi prestito ricevuto dall' ex premier per acquistare la sua villa a Firenze. Un cambio di rotta netto, dopo che la mancata forte condanna dell' episodio gli aveva causato forti critiche. «Sono tra i pochi politici - ha aggiunto l' ex premier - che va in trasmissioni dove gli altri non hanno coraggio di andare: quindi ho profondo rispetto per il giornalismo e per i giornalisti. Mi dispiace che qualcuno abbia dipinto i "renziani del web" come squadristi. Se uno fa questo paragone significa che non conosce i renziani». Il Corriere , proprio ieri, aveva raccontato come funziona nel dettaglio la macchina della propaganda di Italia viva sui social. Un apparato simile, nei meccanismi e talvolta pure nei toni, a quella della «Bestia» di Matteo Salvini. Una definizione, quest' ultima, che Alessio De Giorgi, capo del team social di Iv, respinge al mittente: «Chiamateci come più vi aggrada, ma la "Bestia" no - scrive su Facebook -. Perché ci guida un sistema valoriale ben diverso da quello di Salvini: un sistema molto solido, che magari non tutti condividete ma che non è certo dettato dai likes. Perché non usiamo troll, ma i nostri sono soltanto utenti reali, che firmano con nome e cognome». De Giorgi, che abbiamo contattato, preferisce non andare oltre le parole affidate a Facebook, ma condanna fermamente gli ultras renziani che hanno superato il segno con Formigli: «Capiamo l' importanza di una presenza forte sulla comunicazione digitale, e perciò siamo organizzati e attrezzati. Poi, certo, ad alcuni ogni tanto manca il freno a mano e, per quanto possibile, cerchiamo di fermarli».
Virginia Della Sala per il “Fatto quotidiano” l'11 dicembre 2019. "Forse c'è una bestia forse siamo soltanto noi": il dialogo è dal romanzo Il Signore delle Mosche di Golding, ma si addice molto a quanto accade sui social in queste ore, a cavallo tra politica, cronaca e digitale. Da un lato c' è Matteo Renzi, ex premier e oggi leader di Italia Viva: è stato paladino del contrasto all' odio sui social, promotore diretto e indiretto di leggi bavaglio contro l' anonimato online, in prima linea nella battaglia per identificare pagine, gruppi, profili che dalla Lega ai Cinque Stelle risultassero collegati alla Russia anche solo tramite lontani parenti. L' uomo anti fake news, anti odio, del politically correct online, con lo sguardo traverso di chi su questi temi sembra sempre di saperne più degli altri. Dall' altro c' è Corrado Formigli, giornalista e conduttore su La7 di Piazza Pulita, reo di aver intervistato Renzi il 5 dicembre in trasmissione e di avergli chiesto conto della cronaca di questi giorni, ovvero dell' indagine dei pm toscani sulla Fondazione Open e sulla questione del prestito di 700mila euro da parte di un finanziatore per la villa di Firenze: una notizia, insomma, trattata da una persona che faceva il suo lavoro e che solo così avrebbe potuto e dovuto farlo. Ci si può quindi immaginare la sorpresa nello scoprire che l' ondata denigratoria e violenta nei confronti del giornalista non arriva né dalla addestrata Bestia di Salvini, tantomeno dalla macchina web della Casaleggio, ma dalle pagine e dai gruppi sostenitori proprio di Italia Viva: basta una breve ricerca per risalire all' origine e capire attraverso chi si propaga. A condividere il primo commento contro Formigli è un utente in un gruppo che si chiama ITALIA VIVA (in maiuscolo) poco dopo l'intervista. "Ma a questo pezzetto di cacca secca nessuno chiede come ha trovato LUI i soldi per comprarsi tre anni fa la casa dei miei in Prati, che gli è costata più di quella di Matteo Renzi? Ma ci rendiamo conto a cosa abbiamo assistito stasera?", si legge in un post. Si definisce un renziano sin dalla seconda Leopolda, è un attivista dei diritti Lgbt, la sua immagine di copertina ha ritrae un "I love Matteo" con l' immagine di Renzi. La reazione è immediata: c' è chi chiede più informazioni (che arrivano, con descrizione dettagliata di metratura, indirizzo, vicini di casa e finanche la fotografia: insomma, oltre ad essere identificabile l' arredo lo è anche la posizione) e in pochissimo si crea l'ondata di vendetta digitale per difendere l' onore violato del leader di Italia Viva. Il post e la foto iniziano a rimbalzare in tutti i gruppi di sostegno a Italia Viva: li condividono soprattutto uomini e donne ultracinquantenni, scrivono in maiuscolo, un commento dopo l' altro, istigano altri a diffonderlo. "Sei un PORCO e sarai trattato da PORCO " è una delle espressioni più gentili rivolte a Formigli. Chi le scrive anima pagine locali di Italia Viva, gruppi, ha nelle immagini di copertina e del profilo riferimenti al simbolo o anche al movimento delle sardine. "Italia Viva partito della nazione", "Simpatizzanti liberi con Matteo Renzi e Italia Viva" o "Siamo renziani di Italia Viva" sono i nomi di alcune delle pagine. E cosa fa Renzi per distendere i toni? Un furbo tweet con tre cose: dice che è "inaccettabile" fotografare la casa di un giornalista, poi informa di aver ricevuto degli sms dal giornalista (informazione che non era comunque autorizzato a diffondere perché, spiega Formigli al Fatto, "non volevo rendere pubblica la vicenda per evitare l'eco mediatica, ma solo adire vie legali e con denunce, come ho fatto" e poi istiga, volente o nolente, il pubblico social. "Violare il segreto d' ufficio o la proprietà privata per far foto dentro casa mia invece è ok?" conclude. Così si nutre la Bestia. "Vorrei mandare un abbraccio a tutti coloro che lottano sulla rete per difendere le nostre idee - ha scritto ieri su Facebook -. Siete stati massacrati da troll per anni con Fake News e adesso vi attaccano persino sui giornali, solo perché difendete la verità e le vostre idee. Vi abbraccio forte forte".
Luca Telese per “la Verità” l'11 dicembre 2019. Incredibile ma vero. Dopo i titoloni e le polemiche per la pioggia di insulti nel Web di tanti fan renziani contro Corrado Formigli, invece di chiedere scusa per gli eccessi dei suoi supporter, Matteo Renzi ha deciso di pubblicare in rete un messaggio di «ringraziamento» ai suoi combattenti. Una scelta chiara, fatta di parole scelte una ad una, da leggere in filigrana, e pronunciate proprio quando sul banco di accusa ci sono finiti gli odiatori più accesi, quelli che rimproveravano al conduttore di La7 le sue domande a Renzi sulla villa di Firenze e sulle conferenze retribuite all' estero. Ma il tono dell' ex premier è celebrativo, inequivocabile: «Vorrei mandare un abbraccio», scrive Matteo Renzi, «a tutti coloro che lottano sulla rete per difendere le nostre idee». Dopo due giorni di polemiche furibonde, il leader di Italia viva sceglie di non citare nemmeno l' assalto al conduttore di La7, si dimentica anche delle analoghe campagne su Simone Spetia e Marco Imarisio (due giornalisti oggetto di «bombardamento» per piccole imprecisioni, subito corrette, sulla vicenda della sua villa). Oppure gli attacchi ad un' altra giornalista, Chiara Geloni (ex direttrice della sua Youdem tv, ma bersaniana), che è arrivata addirittura a denunciare, dopo la pioggia di insulti concentrici e - addirittura - la pubblicazione della sua busta paga (di cui i supporter contestavano l' importo). Con due paradossi curiosi: che la busta paga di Youdem quando questi messaggi venivano scritti era vecchia di sei anni, e che non si capisce come potesse essere arrivata ai supporter di Italia viva. Peraltro la Geloni non era stata «licenziata», come scrivevano i suoi detrattori, ma se ne era andata lei. L' interessata sorride: «Il bello è che io me ne sono andata in maniera molto civile. Ma dopo la vittoria di Renzi non sarei rimasta neanche a pagamento». Ecco perché è interessante notare che questo messaggio del leader di Italia viva evita con cura di citare quel faccia a faccia tv che - preso dall' ira - giovedì sera aveva definito una questione «di gossip». Ieri, dopo tutto questo, con una curiosa inversione di parti, Renzi ha scelto di celebrare senza distinzione alcuna i suoi supporter, molti dei quali si sono distinti in questi attacchi: «Il colmo», dice rivolgendosi ai suoi fan il leader di Italia viva, «è che siete stati massacrati da troll per anni con fake news e adesso vi attaccano persino sui giornali, solo perché difendete la verità e le vostre idee». E questo è un altro passaggio curioso: gli unici soggetti di cui si è parlato «sui giornali» (a partire dalla a Verità) sono quelli denunciati da Formigli per la pubblicazione di foto e dati sensibili sulla sua casa. A costoro, dunque, l' ex premier scrive: «Vi abbraccio forte forte. E vi garantisco che non ci fermeremo. Anzi: vi do appuntamento a giovedì, quando interverrò in Senato su questa incredibile vicenda, facendo sentire la vostra voce. Orgoglioso di essere accompagnato in questa battaglia da persone appassionate come voi. Grazie!». Insomma, un vero e proprio appello. Dopo il giorno delle non-scuse, dunque, ecco quello dell' orgoglio, della difesa, della rivendicazione delle campagne dure. Tra i «combattenti della rete» a cui Renzi si è idealmente rivolto ci sono evidentemente persone come Luciano Scalia, sostenitore acceso che mette il simbolo del partito nel suo profilo e ancora ieri si distingueva nell' attacco a Formigli: «Una mia amica carissima si è molto incazzata», scrive Scalia, «per un mio post che descrive la casa di Formigli: non ho chiesto dove avesse preso i soldi», attacca Scalia, «se qualcuno lo aiuta a pagare il mutuo, né ho chiesto di sapere quanto guadagna, né di vedere il conto corrente». Il tono e le argomentazioni di Scalia sono interessanti perché si sono ripetute a raffica, da profilo a profilo, come se fossero oggetto di taglia-e-incolla: «Ho voluto solamente far provare a questo intellettualmente disonesto giornalista l' ebbrezza di sapere che chiunque può entrare nella sua intimità, magari aiutato da qualche pm». Altro profilo di un supporter di Italia viva, quello di Enzo Martini, altra raffica di post (composti anche con meme fosforescenti) in difesa di Renzi sulla questione della villa, e altra pioggia di attacchi a Formigli e agli altri giornalisti classificati come odiatori dell' ex premier (addirittura con foto e suddivisi per gruppi editoriali). Ma la cosa più interessante, anche nel caso di Martini, è la rivendicazione orgogliosa della shitstorm contro i giornalisti: «Signori, con i post di Formigli sulla sua casa abbiamo sollevato un bel polverone! Tutti i giornali ne parlano, #colposucolpo». A chi parla Martini? Agli stessi a cui si rivolge Renzi. Poi un altro supporter, Enzo Puro, torna ad attaccare Il conduttore: «Formigli, tu a me squadrista non mi ci chiami. Né a me né ai miei compagni». Se avevate un dubbio, provate a indovinare chi commenta anche questo post? Renzi. Che conclude la giornata così: «Uno di noi scrive queste parole. E dice: a me squadrista non mi chiama nessuno. Io sono con lui». Dal leader maximo all' ultimo dei profili, la guerra ai giornalisti viene rivendicata come una eroica battaglia vinta. Auguri.
DAGONOTA l'11 dicembre 2019. A Matteo Renzi è partita la frizione. Rilanciando il post di Enzo Puro sui suoi social, abbracciandone toni e contenuti, ha dato la stura a tutti quei personaggi bizzarri che occupano Twitter come la panchina di un parco pubblico. Dicono quello che gli pare, e sono liberi di farlo. Ma quando un leader di partito per combattere gli odiatori si fa dare la linea da un odiatore (certificato) che ha cambiato 5 fazioni a sinistra in 5 anni, e che poi ha ricoperto di improperi i politici che aveva sostenuto fino a pochi giorni prima, allora vuol dire che ha perso il controllo della sua traiettoria politica. Destinata a un finale davvero inglorioso. Forse è meglio che parta il prima possibile per l'Arabia Saudita. Lì.
Il post di Enzo Puro su Facebook rilanciato da Renzi: Più ci penso e più mi sale la rabbia. Formigli tu a me squadrista non mi ci chiami. Nè a me nè ai miei compagni. Mi sale la rabbia perchè per anni ed anni abbiamo sopportato la valanga di fake news che ci avete sparato addosso, il fango che trasmissioni come le tue hanno spalmato abbondamentemente sui nostri leader, allora del PD oggi di Italia Viva. Chi pelosamente oggi prende le tue parti dice che sei un bravo giornalista. Io non lo credo. Anche le tue trasmissioni hanno pompato, dedicandoci ore ed ore di trasmissione con la stessa cattiveria con cui oggi le dedicate ad Open, inchieste finite in un nulla di fatto; avete usato anche voi le veline di certe procure, avete costruito una character assassination perfetta scatenandovi come i cani da tartufo senza mai trovare il tartufo e, caratteristica dei "bravi" giornalisti come te è quella di non chiedere scusa, di non fare trasmissioni riparatrici. Io il fascismo squadrista l'ho combattuto nelle strade di Roma, non mi sono mai tirato indietro, ho un età che mi ha fatto vedere tante cose, la violenza nera e la violenza rossa e tu, dall'alto della tua vita da nababbo e del tuo attico milionario a me squadrista non mi ci chiami. Noi siamo brave persone. Ci mettiamo la faccia. Non siamo troll. Siamo attivisti appassionati. Chi come me viene da una lunga esperienza politica (FGCI-PCI-PDS-DS-PD) e chi, grazie a Renzi, venendo dal mondo delle professioni, si trova impegnato per la prima volta. Chi viene da altre storie, socialiste, verdi, cattoliche democratiche, liberali, radicali e chi è alla sua esperienza politica.
La sua replica quando in molti gli hanno fatto vedere i messaggi (tremendi) che scriveva contro Renzi: - E' vero, prima di capire che Matteo Renzi fosse il leader che da tempo andavo cercando ci ho messo un bel po di tempo, vagando da una parte all'altra. Avevo la consapevolezza che bisognava cambiare tutto e votai per Ignazio Marino prima e per Pippo Civati per ultimo con un breve intermezzo di sostegno alla segreteria di Bersani. Quindi inutile che pubblicate mie vecchie cose, le riconosco tutte, fanno parte di un percorso politico comune a tanti in una epoca difficile nella quale per individuare la strada non hai segnali stradali adeguati e quelli che ci sono cambiano in continuazione.
DAGONOTA l'11 dicembre 2019. - Ma come?? Ha votato Marino e Civati?? Ecco cosa scriveva di Civati e dei civatiani nel 2016: ''coglioni, tristi, levati dal cazzo''. E sul povero sindaco? ''E' stato mandato via perché incapace e perché se avesse continuato a sgovernare nel 2018 non avremmo preso neanche il 32% di Giachetti'', ''uno uomo piccolo e livoroso oltre che un gran pezzo di merda''. Vi risparmiamo quello che ha scritto di Bersani dopo ''il breve intermezzo di sostegno''…. La giustificazione sullo svelare l'indirizzo e i dettagli di casa Formigli: la fonte che ha dato le informazioni è benestante quindi non è invidia sociale. - Bisogna essere obiettivi e bisogna dire che tutto il casino della vicenda della casa da nababbo di Formigli non nasce da un caso di invidia sociale. Perchè a rendere pubblico il fatto per primo è stato un parente stretto di quelli che la casa gliel'hanno venduta a peso d'oro e quindi quale invidia? hanno fatto un affare che ha soddisfatto la ricerca di status del giornalista.
«Io, messo alla gogna solo per aver difeso Renzi. Ma la privacy vale per tutti». Giulia Merlo il 12 Dicembre 2019 su Il Dubbio. Enzo Puro è finito nel mirino dopo aver sostenuto l’ex premier: «Non mi faccio chiamare squadrista da chi fomenta il populismo». Matteo Renzi ha retwittato il suo lungo post di commento alla polemica con il giornalista Corrado Formigli ed è scoppiato il putiferio. E’ così che, con la stessa forza dei social che hanno amplificato la polemica, Enzo Puro si è trovato ad essere il terzo attore in campo, citato da buona parte dei giornali che hanno seguito il caso e bollato dalla Verità come ‘ manganellatore mediatico’. Facendo un passo indietro, la vicenda si riassume in questi termini: Renzi, invitato alla trasmissione di Formigli, viene sottoposto a un fuoco di domande sulla sua villa e sui 700 mila euro in prestito; come risposta, sui profili di alcuni sostenitori di Italia Viva compare la fotografia della casa di Formigli. Renzi offre solidarietà al giornalista, ma di fronte alle sue parole (Formigli definisce "squadrismo" l’attacco ricevuto), il senatore condivide il commento di Puro ( che non ha mai condiviso la foto), dal titolo "Tu a me squadrista non mi ci chiami". Lui, storico militante del centrosinistra romano di scuola comunista poi confluito nel Pds e nei Ds, è stato presidente dell’ex Sesto Municipio della Capitale, un colosso da 100mila abitanti nel quadrante est della capitale, veltroniano nel Pd e infine elettore di Pippo Civati alle primarie alle quali si candidò lo stesso Renzi. Oggi, invece, ha scelto di lasciare i dem ed è un attivista di Italia Viva e animatore di una delle pagine più seguite della galassia renziana come "Flussi Connessi" (con 60mila follower).
Partiamo dall’inizio, come è nata la polemica?
«Da una casualità. Nessuno di Italia Viva ha chiesto di pubblicare la foto della casa di Formigli, ma è stata l’iniziativa del figlio di colui che gli ha venduto la casa. E non ho difficoltà a dire che pubblicare quella foto è stato un errore, io non la avrei mai condivisa».
Poi è arrivato il suo post di attacco a Formigli.
«Sì, perchè da sostenitore di Italia Viva non ci sto a sentirmi accusare di essere uno squadrista. Soprattutto se questo lo dice un giornalista che, in questi anni, è stato uno dei principali fomentatori del populismo mediatico- giudiziario. Allora ho scritto quel post, per altro di getto. E da lì apriti cielo…»
Sapeva che Matteo Renzi lo avrebbe rilanciato?
«Assolutamente no».
C’è qualcosa di studiato a tavolino dietro questa polemica?
«Le rispondo con sicurezza di no. Noi, con "Flussi Connessi" ci sentiamo quotidianamente con la struttura comunicativa centrale di Italia Viva e nessuno ha chiesto di pubblicare la foto della casa di Formigli o, peggio, di condividerla. Nessuno dei gruppi ufficiali di Italia Viva lo ha fatto».
Nessuna eterodirezione, dunque?
«Magari avessimo una macchina di coordinamento così strutturata… Esiste un mondo vasto e anche eterogeneo di supporter renziani, soprattutto sul web, che non sono in alcun modo dirigibili, come ha mostrato questa spiacevole vicenda della casa di Formigli».
Ora al centro della tempesta c’è lei, a sua volta sottoposto della gogna mediatica.
«È così, ma non sono sorpreso. Più amareggiato, direi. Ho risposto colpo su colpo ai tweet di attacco contro di me, ma ho fatto politica per una vita intera e so bene che, quando si decide di fare una battaglia, si può andare incontro a situazioni di questo tipo. Sa cosa mi fa arrabbiare di più?»
Che cosa?
«Che chi oggi si indigna tanto per Formigli sono le stesse persone che invece tacevano quando accadevano cose molto più gravi. Quegli stessi giornalisti e politici del Pd che sono stati silenziosi quando si ometteva di dire che un Capitano dei Carabinieri aveva falsificato le prove su Consip, oppure quando si è dimessa la ministra Guidi per colpa di un’inchiesta finita nel nulla, oppure ancora quando si è massacrata Maria Elena Boschi sul caso Etruria e poi il padre è stato assolto».
La tesi, però, in questo caso è che un giornalista non può essere messo sullo stesso piano di un politico.
«Io non sono per nulla d’accordo e anzi penso il contrario: politici, giornalisti e privati cittadini devono essere tutti sullo stesso piano perchè il diritto alla privacy vale per tutti, poi sarà la legge a stabilire eventuali deroghe per chi ricopre cariche politiche. Non lo dico solo io, lo stesso Andrea Orlando ha sostenuto la stessa cosa e io gliene rendo merito, anche se non faccio più parte del Pd».
Lei ha ammesso di essersi ricreduto proprio su Renzi. Oggi si sente nel posto giusto?
«Non sono mai stato così convinto della mia scelta. Non so cosa diventerà Italia Viva o se il progetto fallirà, ma sono certo che dall’altra parte, dal Pd, non c’è futuro. Quello che mi sorprende è che, sotto i miei post di Facebook, ritrovo centinaia di persone come me, con la mia stessa storia politica alle spalle, dunque provenienti dal Pd e inizialmente molto diffidenti nei confronti di Renzi, che invece oggi si sono ricreduti».
Taci, scemo: io sono un giornalista. Piero Sansonetti il 12 Dicembre 2019 su Il Riformista. Matteo Renzi parlerà oggi al Senato del caso Open. Cioè dell’inchiesta della Procura di Firenze sulla Fondazione (la Open) che era nata dichiaratamente per finanziare la Leopolda di Matteo Renzi e che dichiaratamente la finanziò. L’inchiesta servirà a capire se la finanziò. I Pm di Firenze sospettano che la finanziò. E sospettano anche che la Fondazione, per finanziare la Leopolda, chiese soldi a parecchi imprenditori: alcuni dissero di no, altri dissero di sì, versarono degli assegni e dichiararono di averli versati. A norma di legge. L’inchiesta di Firenze vuole accertare se versarono quei soldi, e per questa ragione la Procura ha disposto centinaia di perquisizioni in tutt’Italia. L’elenco dei perquisendi è stato da qualcuno fornito ad alcuni giornali che lo hanno pubblicato, almeno in parte, con titoli e commenti che davano un po’ l’impressione che finalmente fosse venuto allo scoperto un elenco di malfattori. Sembra però che i malfattori non abbiano commesso nessuna malefatta e che l’inchiesta sia su un non reato. Il reato ipotizzato è finanziamento di un partito, ma la Fondazione Open non era un partito. I Pm dicono però che secondo loro era quasi un partito, e quindi, forse, c’è quasi un reato. Il reato sarebbe, più o meno, concorso esterno in finanziamento legittimo di un quasi partito. Almeno, così sembra di capire dagli atti dell’inchiesta. Resta però il fatto che un reato è stato commesso. Violazione di segreto d’ufficio. Perché quell’elenco di nomi di perquisendi, seppure innocentissimo, è stato evidentemente fornito ai giornali. Una giornalista del Corriere della Sera ha detto di aver visto l’elenco. I giornalisti di Repubblica anche lo hanno pubblicato, seppure con tre o quattro giorni di ritardo. E infatti, nel loro caso, non si tratterebbe di scoop (come nel caso del Corriere) ma di quasi scoop. Quasi scoop su un quasi reato. Sulla violazione del segreto di ufficio, invece – che è un reato pieno e indiscutibile – non pare che ci sia nessuna indagine. Si tratterebbe di capire chi l’ha commesso. I casi, a occhio, sono due: o qualcuno della Procura o qualcuno della Guardia di Finanza. Gli avvocati stavolta no, perché non sapevano niente. Naturalmente in queste occasioni non sono mai gli avvocati a far filtrare le notizie, perché facendole filtrare danneggerebbero i propri clienti esponendoli alla gogna mediatica: però in genere la magistratura dice di non poter escludere che siano stati gli avvocati, e di conseguenza non apre mai un’indagine sulla Procura dalla quale è partita la fuga di notizie. Stavolta, almeno per alcuni dei nomi dei perquisendi (e cioè i nomi di quelli che poi non sono stati perquisiti) gli avvocati non possono entrarci niente perché non sapevano niente. Lì non si scappa: o Procura o Finanzieri. I maggiori sospettati non sono i finanzieri… Da sabato scorso su questo giornale pubblichiamo cinque domande ai vertici della magistratura italiana. Facili facili. Le trovate qui sopra. Contiamo di avere delle risposte. Domani Matteo Renzi parlerà di queste cose in Senato. Magari sarà l’occasione per chiarire alcuni aspetti di questa vicenda. E magari si potrà mettere sul tappeto la questione decisiva: quella del rapporto direttissimo tra alcuni Pm e alcuni giornali, e del modo nel quale questo rapporto – questa connessione – riesce a mettere in moto vere e proprie campagne di linciaggio morale, che hanno un peso fortissimo, in genere sulla politica ma spesso anche sull’economia, sull’imprenditoria. La vicenda di Renzi è esemplare. L’ondata di perquisizioni alla ricerca di niente ha prodotto una campagna di stampa contro di lui. Renzi non è neppure indiziato di alcun reato, però è stato processato sui giornali e in Tv. In televisione non solo è stato sottoposto a un interrogatorio di tipo stalinista. Ma è stata mostrata la sua casa, quella nella quale abita con i figli e la moglie, e sono stati passati al setaccio i suoi conti correnti. Perché dico interrogatorio stalinista? Perché i magistrati, quando ti interrogano come imputato, devono contestarti un reato. In Tv invece ti dicono subito: «D’accordo, nelle tue azioni non c’è nulla di penalmente rilevante», però ora ti friggo. È questa la formula che annuncia l’interrogatorio stalinista (o fascista, o della Santa Inquisizione, fate voi…) perché da quel momento chi accusa non ha più bisogno di contestare un reato, può contestarti quel che vuole: buon gusto, senso dell’opportunità, simpatia, eventualmente ricchezza o povertà eccessive, scarso senso estetico, poco rispetto per le autorità… assolutamente quello che vuole. Renzi non solo è stato sottoposto a un interrogatorio stalinista, a “Piazza Pulita”; ma dopo l’interrogatorio (che lui ha superato, perché è piuttosto bravo; ma molti altri, in quelle condizioni di palese inferiorità rispetto allo strapotere mediatico del Pm-giudice-giornalista, avrebbero finito per essere asfaltati) c’è stata la seconda parte del linciaggio: siccome nei giorni successivi alla trasmissione alcuni simpatizzanti di Renzi hanno messo sui social commenti duri verso Formigli, e hanno descritto la sua casa, Renzi è stato processato di nuovo come capo di “squadristi”. Squadristi? Sì, Formigli li ha definiti così, perché se l’erano presa con lui, cioè con un giornalista. Qual è la regola? Semplice, imparatela una buona volta: se critichi un giornalista stai criticando la democrazia, e sei fascista. Se critichi un politico stai facendo il tuo lavoro. Santo lavoro. Perciò se manganelli (mediaticamente) un politico – peraltro senza motivo, ma perché così vogliono i Pm, o così vogliono i lettori, o così vuole qualche editore – sempre “santo lavoro” stai svolgendo, con quello che le canzoni di una volta chiamavano “il santo manganello”. E infatti tutti a difendere Formigli. Nessuno tra i suoi colleghi gli ha fatto notare che più che il giornalista stava facendo l’inquisitore. E che protestare perché qualcuno viola la tua privacy è un po’ ridicolo se sei tu che hai clamorosamente violato la sua. Tra l’altro, personalmente devo dire di essere particolarmente stupito. Formigli ha spedito due suoi giornalisti nel mio ufficio, qualche giorno fa, a fare domande all’editore del mio giornale, sostenendo di avere spento la telecamera che invece era accesa. Il mio editore – che stava nel mio ufficio per discutere, con me e con i vicedirettori, alcune piccole modifiche grafiche alla prima pagina del giornale – è un privato cittadino, e aveva detto: spegni la telecamera, dimmi cosa vuoi sapere, poi eventualmente accendi la telecamera e facciamo l’intervista. Non è andata così: la telecamera è stata accesa a tradimento. Sono stato ripreso anche io che ero lì, e alcuni miei colleghi. Formigli ha mandato in onda il tutto, anche se non c’era neanche un filo di notizia nel servizio. Il giorno dopo “Il Fatto di Travaglio” mi ha bastonato perché dice che io interloquivo e disturbavo l’uomo di Formigli. In effetti un giornalista del Fatto mi aveva telefonato il giorno prima per chiedermi perché ero rimasto lì nella stanza durante l’intervista. Gli avevo spiegato che non era un’intervista e che io stavo lì semplicemente perché quello era il mio ufficio, e che quei due erano entrati nel mio ufficio. Magari avrò il diritto di restare nel mio ufficio, anche se entra un inviato di Formigli, e avrò diritto di dire quel che mi pare? O no? O devo chiedere prima il permesso a Travaglio o a Formigli? Cercando di essere il più educati possibile, mi limito a porre una domanda: ma è logico, ha una qualche spiegazione razionale, che uno che della privacy delle persone (e persino dei colleghi) si fa beffe in questo modo, poi dia dello squadrista a qualcun altro perché ha violato la sua privacy? E se la prenda con Renzi che con i post sui social contro Formigli non c’entra nulla? Qual è il “logos” (uso pure il greco per cercare di non essere volgare…) del formiglismo (molto simile al travaglismo)? Forse l’idea del santo giornalista e del santo manganello. Cos’è il santo manganello? Era il protagonista di una canzoncina degli anni Venti che diceva così: Oh tu santo Manganello / tu patrono saggio e austero / più che bomba e che coltello / coi nemici sei severo / Manganello, Manganello,/ che rischiari ogni cervello / sempre tu, sarai sol quello / che il Fascista adorerà.
Da liberoquotidiano.it il 13 dicembre 2019. Sedici minuti di replica a Matteo Renzi. durissima. Corrado Formigli apre così l'ultima puntata di Piazzapulita, in risposta alla polemica con il leader di Italia Viva. Ospite settimana scorsa di Formigli, Renzi era stato "oggetto" di una intervista spietata, con strascichi velenosissimi. Viste le accuse sul caso Open e il prestito sospetto per la villa fiorentina dell'ex premier, alcuni pasdaran renziani hanno pubblicato sui social le foto della casa di Formigli. "Un atto squadrista", ha accusato il giornalista, mentre Renzi sui social ha appoggiato i suoi paladini. Dopo varie schermaglie in settimana, ecco "alcune considerazioni" di Formigli, in diretta, sul "mestiere di fare le domande" e "la violenza social dei partiti". E dopo qualche minuto, in studio arriva Luigi Di Maio, che di Renzi sarebbe alleato di governo ma che picchia senza pietà: "Lei è un professionista che ha fatto una domanda legittima a Renzi e viene ripagato con una foto della sua casa online - è la solidarietà del leader M5s -. Non farei un paragone tra lei e me, noi siamo pagati dal popolo".
Giacomo Salvini per “il Fatto Quotidiano”. Insulti, linciaggio con tanto di nomi e facce dei giornalisti sgraditi fino a consigli non richiesti ai finanzieri che dovrebbero andare vedere "come può un giornalista comprarsi una casa da almeno 2,5 milioni di euro", riferimento diretto all' abitazione di Corrado Formigli nel quartiere Prati. In questi giorni - dopo l' inchiesta sulla fondazione Open, la villa dei Renzi sulle colline fiorentine e l' intervista all' ex premier a Piazza Pulita - la costellazione dei gruppi social di Italia Viva ribolle di rabbia e livore nei confronti di cronisti e magistrati. Uno di questi è il gruppo " ITALIA VIVA " (sì, tutto maiuscolo) dove è stato pubblicato il primo post con i dettagli sull'abitazione romana di Formigli. Qui, il bersaglio preferito dei sostenitori renziani sono proprio i cronisti: ieri è stato pubblicato un post con le facce dei "giornalisti" (Biagi, Montanelli, Bocca, Mentana) e "altri" tra cui il direttore del Fatto Marco Travaglio, Andrea Scanzi, Lilli Gruber, Lucia Annunziata, lo stesso Formigli, Giovanni Floris e Bianca Berlinguer. E giù insulti: "giornalai", "pennivendoli mercenari", "venduti", "leccaculi" solo per citare i più leggeri. Eppure, di fronte a tutta questa bile, c' è qualche elettore renziano che non ci sta e prova a dissentire: "Post di pessimo gusto non va bene per niente, se non vi piacciono le domande che fanno non è un motivo per fare certi post" commenta Emanuele che, di fronte a chi gli dà del leghista, risponde proprio di essere "Pro Renzi e Italia Viva". "Io penso che tutti i simpatizzanti ed iscritti ad Italia Viva, dovrebbero assumere, sempre un atteggiamento educato e rispettoso" scrive un altro sostenitore renziano tentando di dissentire. Siamo arrivati alle liste di proscrizione, io saluto il gruppo" commenta Maurizio. E giù offese. Tra i post più commentati ce n' è anche uno che invita i finanzieri a fare un controllo proprio sui giornalisti scomodi: "Scandagliamo parenti e amicizie per vedere se qualcuno che lo ha aiutato ha qualche scheletro nell' armadio - si legge - una tassa non pagata, una colf in nero, una multa tolta dal vigile urbano? Vuoi che qualcosa, pescando a strascico, non si trova (il congiuntivo è un optional, ndr)?". Commenti: "Vergogna", "bravoo" e via così. La fonte più citata è Il Riformista di Piero Sansonetti ("Leggete lui" scrive Paolina) ma anche il sito di Italia Viva che rilancia continuamente i post e i video dell' ex premier. A questo proposito ieri è stata la giornata del discorso in Senato di Renzi contro i magistrati sul modello di Bettino Craxi nel 1993: "Oggi, Renzi in aula, non ha fatto un discorso da Senatore, ma da vero Statista, spiegando semplicemente la divisione dei poteri in una democrazia" posta Fabio Ferrantino. "Io lo farei ascoltare a scuola" gli va dietro Bianca. Poi c'è chi va oltre: "Ho ascoltato Renzi in Senato mi sono emozionata al punto, non mi vergogno, di piangere".
Lilli Gruber, dopo Corrado Formigli ci finisce lei nel mirino dei renziani: durissimi attacchi su Facebook. Libero Quotidiano il 13 Dicembre 2019. All'indomani della polemica tra Corrado Formigli e Matteo Renzi, il Fatto Quotidiano pubblica un retroscena in cui si esaminano le pagine Facebook supporter di Italia Viva in cui si predica odio contro i giornalisti. Una di queste pagine è del gruppo “ITALIA VIVA” (tutto maiuscolo) dove è stato pubblicato il primo post con i dettagli sulla casa romana del conduttore di PiazzaPulita. Qui, il bersaglio preferito dei sostenitori renziani sono proprio i cronisti: ieri è stato pubblicato un post con le facce dei “giornalisti” (Biagi, Montanelli, Bocca, Mentana) e “altri” tra cui il direttore del Fatto Marco Travaglio, Andrea Scanzi, la conduttrice di Otto e Mezzo Lilli Gruber, Lucia Annunziata, lo stesso Formigli, Giovanni Floris e Bianca Berlinguer. Sembra una lista nera. Tanti gli insulti a costoro: "giornalai”, “pennivendoli mercenari”, “venduti”, “leccaculo” solo per citare i più leggeri. Qualcuno non ci sta e scrive: “Post di pessimo gusto non va bene per niente, se non vi piacciono le domande che fanno non è un motivo per fare certi post". E via con altri insulti. Insomma, sembrano quasi dei grillini. E anche i bersagli, da Lilli Gruber in giù, sembrano molto simili a quelli dei fan pentastellati (o della Lega).
Travaglio e Formigli, che brutta gaffe! Redazione de Il Riformista il 14 Dicembre 2019. Innanzitutto una notizia. Molti credono che Marco Travaglio e Corrado Formigli siano due persone diverse. Non è vero. Abbiamo accertato che sono una persona sola. Lo dimostra il ghigno unico del quale dispongono. Comunque faremo finta di pensare anche noi che siano due persone. Formaglio e Travigli. Oggi parliamo di Formaglio. Il direttore del Fatto ieri ha scritto un editoriale per contestare a Renzi dieci bugie. Ha usato un metodo semplice: ha scritto dieci bugie su Renzi. Lo usa spesso. Non possiamo trascriverle tutte. Ci ha colpito la nona. Che non è proprio una bugia, è un autogol. Per sostenere che il suo amico Travigli ha il diritto di violare la privacy di Renzi e che i sostenitori di Renzi non possono violare quella di Travigli, ha citato un passaggio del codice deontologico dei giornalisti che dice così: «La sfera privata delle persone note, o che esercitano funzioni pubbliche, deve essere rispettata se le notizie o i dati non hanno alcun rilievo sulla loro vita pubblica». Benissimo. Poi ognuno interpreta come vuole questa frase, un fatto però è indiscutibile: Renzi e Travigli sono entrambi persone note, e dunque hanno gli stessi diritti di privacy. Diciamo che la citazione di Formaglio equivale a una zappata sui piedi. Più avanti scrive: «Se il giornalista accerta che un signore con un ruolo pubblico incontra un mafioso…». Ohi Ohi Ohi.. Qui altro che zappata. È un colpo di bazooka autoinferto. Renzi non ha mai incontrato e non è mai stato in vacanza né con un mafioso né con qualcuno che poi sia stato condannato per favoreggiamento a Cosa Nostra. Quale personaggio noto è stato in vacanza con qualcuno condannato per favoreggiamento a Cosa Nostra? Indovinate. …Ohi Ohi Ohi, che gaffe Formaglio!
Matteo Renzi ha ragione: i settimanali restano. Il senatore attacca il giornalismo d'inchiesta. Vede congiure. Ma non risponde alle domande che lo riguardano. E non parla del vuoto di politica di cui il finanziamento è solo un capitolo. Marco Damilano il 12 dicembre 2019 su L'Espresso. C'è una storia che riguarda la stesura dell'intervento di Aldo Moro nell'aula della Camera il 9 marzo 1977, citato dal senatore Matteo Renzi di Italia Viva al Senato. Il presidente della Dc scrisse il suo intervento, in difesa dell'ex ministro Dc Luigi Gui accusato per lo scandalo Lockheed, e lo fece leggere ai suoi collaboratori. Una lunga arringa difensiva in cui si voleva dimostrare l'infondatezza delle accuse. Il portavoce Corrado Guerzoni, dopo averlo letto, fece notare che andava tutto bene ma che mancava qualcosa: «Presidente, manca la politica». Moro rimase sorpreso della critica. Si ritirò tra le sue carte e per qualche giorno non tornò sull'argomento. Poi rimise mano al discorso e aggiunse quattordici cartelle. Ecco, nel discorso di Renzi al Senato in difesa della fondazione Open e della legittimità dei finanziamenti privati alle sue attività, nonostante le buone intenzioni, manca la politica. Ovvero un'analisi spietata delle motivazioni per cui il sistema è arrivato a questo punto. Renzi ha citato Moro e poi Bettino Craxi, suoi predecessori. Nei loro discorsi, del 1977 e del 1992, si legge la crisi della Repubblica dei partiti, che si concepivano invincibili, eterni e si riscoprirono all'improvviso fragili. Moro parla di «diffidenza, malcontento, ostilità» di un «paese inquieto e impaziente», desideroso di rovesciare addosso alla classe politica tutte le colpe di un sistema guasto: «Dobbiamo riconoscere che oggi il tessuto sociale è largamente lacerato, le istituzioni sono squilibrate, non coordinate e sovente impotenti, la violenza è così paurosamente presente da mettere a repentaglio l'ordinato svolgimento della vita di relazione.... C'è dunque la realtà del paese che esige la nostra coraggiosa iniziativa». Solo all'interno di questa denuncia drammatica arriva la frase «non ci lasceremo processare nelle piazze» citata da Renzi. Craxi, quindici anni dopo, si assume la responsabilità dell'intero sistema coinvolto in Tangentopoli, ma premette che «nella vita democratica non c’è niente di peggio del vuoto politico... Da un mio vecchio compagno ed amico che aveva visto nella sua vita i drammi delle democrazie, ho imparato ad avere orrore del vuoto politico. Nel vuoto tutto si logora, si disgrega e si decompone...». In quale condizione si trova oggi il nostro sistema democratico? Proviamo a riassumerlo. Mancanza di rappresentanza. Partiti ridotti a simulacro. Liste personali. Parlamentari scelti da oligarchie ridotte (nei progetti di riforma elettorale si discute di eliminare anche quella parvenza di collegio uninominale che resta: tutti a guardare con invidia lo spettacolo del voto inglese). Selezione della classe dirigente per fedeltà. Trasformismo sfrenato, perché non c'è più nessuno cui rendere conto. Iscritti e militanti trasformati in followers, una muta di cani rabbiosi aizzati contro la preda, che sia un avversario politico o un giornalista critico. Leader che si intestano i simboli, la comunicazione e le risorse. Dal finanziamento pubblico ai partiti siamo passati al finanziamento privato a un Capo che può spostare le risorse di qua o di là, da un progetto politico all'altro, senza spiegare nulla. Al vuoto della politica provocato decenni fa dall'esaurirsi della presenza dei partiti nella società si è risposto nel corso degli anni con gli imprenditori e i loro conflitti di interessi, i magistrati, gli avvocati, i giornalisti, i cittadini pescati sulla Rete, la rottamazione. Ecco, per parlare di politica, il senatore Renzi dovrebbe chiedersi in quali condizioni sia avvenuta la sua formidabile e rapidissima scalata al potere politico nazionale. Non è la magistratura che indaga sulle attività della fondazione Open, per restare al tema posto da Renzi, a stabilire che la Leopolda è un partito politico, ma il peso che quell'evento ha avuto nel corso degli anni per condizionare dall'esterno la politica del partito e del governo che pure era guidato dallo stesso leader, cioè l'ex premier e ex segretario del Pd, oggi leader di Italia Viva. Tutto questo non può essere ricondotto alle ultime inchieste della magistratura di Firenze sulla fondazione Open, come è stato fatto da Renzi al Senato. Né, tantomeno, sul giornalismo che da molti anni fa un lavoro di inchiesta e di denuncia. Sulle pagine dell'Espresso, solo nell'ultimo anno, abbiamo svelato l'esistenza dell'associazione Più voci, appartenente alla galassia leghista, per cui il tesoriere della Lega Giulio Centemero è sotto inchiesta, abbiamo raccontato il viaggio di Salvini e di Gianluca Savoini a Mosca dell'ottobre 2018, su cui ora indaga la procura di Milano con l'ipotesi di corruzione internazionale, ci siamo interessati delle frequentazioni di Davide Casaleggio con le lobby e con le aziende di Stato o della sindaca Virginia Raggi e del suo cerchio magico, dalla casa dell' ex braccio destro Raffaele Marra, condannato in primo grado per corruzione, ai rapporti tormentati con i manager dell'Ama. Abbiamo anche scritto di un'indagine per finanziamento illecito a carico di Nicola Zingaretti. E, da ultimo in ordine di tempo, l'inchiesta sui soldi di Fratelli d'Italia e di Giorgia Meloni. In ognuno di questi casi c'è una parte politica che esulta e una che grida al complotto. Ecco un esempio. «Non sono un fan dell’Espresso, ma trovo assurdo che per la vicenda dei rubli alla Lega si voglia fare il processo ai giornalisti. Parliamoci chiaro: il problema non è sapere come Tizian e Vergine abbiano avuto l’audio del dialogo tra leghisti e russi, ma verificare se l’audio è vero, se il dialogo c’è stato... Se la risposta è: “E voi come avete fatto a scoprirlo?” ho l’impressione che i leghisti non siano messi benissimo. Il problema sono le tangenti russe, non i giornalisti italiani. Sbaglio?» No, non sbagliava il senatore Renzi a porsi questa domanda, il 6 agosto. Sbaglia oggi a accusare, cercare congiure e a non rispondere alle domande che lo riguardano. Siamo giornalismo a richiesta, sì: nel senso richiediamo una politica trasparente, rispettosa del suo ruolo, non ossessivamente in difesa. Il presidente Renzi ha ricordato le dimissioni del presidente Giovanni Leone nel 1978, io ricordo quelle di Maurizio Lupi e di Federica Guidi, costretti a dimettersi mentre erano ministri del suo governo. Con Leone hanno in comune una sola cosa: non furono le inchieste giudiziarie a farli dimettere (nessuno era indagato) e neppure le campagne stampa. Nel caso di Leone fu la Dc a salire al Colle per chiedere al suo presidente di lasciare l'incarico. Nel caso dei ministri del suo governo Renzi chiese e ottenne che mollassero in pochi giorni o in poche ore, con una giustificazione sorprendente. «Le dimissioni si danno per una motivazione politica o morale, non per un avviso di garanzia», disse a Repubblica, il 22 marzo 2015. Ma i criteri di inopportunità politica o morale dovrebbero essere più esigenti perfino di quelli di un'indagine giudiziaria. Per distruggere una reputazione non basta una copertina di un settimanale, come sostiene Renzi. È la politica con le sue spietatezze e le sue convenienze di comodo a farlo e di questo si dovrebbe parlare. Ma, in questo ha ragione il senatore di Italia Viva, i tempi cambiano. E i settimanali restano.
Fondazione Open, nelle mail a Palazzo Chigi le norme «gradite» ai finanziatori. Pubblicato venerdì, 13 dicembre 2019 su Corriere.it da Fiorenza Sarzanini. Anche Renzi e Manzione nei messaggi inviati da Bianchi e sequestrati dalla Finanza. Emendamenti e progetti di investimento inviati dal presidente di Open Alberto Bianchi direttamente a Palazzo Chigi quando era premier Matteo Renzi. Mail sugli interventi sollecitati dagli imprenditori che avevano accettato di finanziare la Fondazione. Sono state sequestrate dalla Guardia di Finanza durante le perquisizioni ordinate dalla Procura di Firenze. E rappresentano uno degli elementi di accusa contro lo stesso Bianchi, ma anche contro Marco Carrai, l’altro componente del «giglio magico», entrambi indagati per finanziamento illecito. Gli atti depositati al tribunale del Riesame svelano il contenuto di migliaia di documenti acquisiti sull’attività di Open, ma soprattutto il ruolo avuto dai suoi protagonisti, compreso Luca Lotti che faceva parte del consiglio di amministrazione. Secondo i magistrati la Fondazione nata per sostenere l’attività politica di Renzi, agiva in realtà come «articolazione di un partito politico» e avrebbe favorito gli interessi di chi — tra il 2012 e il 2018 — accettò di versare contributi economici. È il decreto di sequestro eseguito dalla Guardia di Finanza il 26 novembre scorso a dare conto di quanto trovato negli uffici di Bianchi. Al «punto 24, fascicolo rosso» è allegata la descrizione dei documenti. E tra l’altro è annotato: «Cartellina bianca intestata “Sblocca Italia emendam” contenente una mail del 25 settembre 2014 inviata dalla segreteria studio Alberto Bianchi e diretta a a.manzione@governo.it avente ad oggetto “emendamento” e come allegato “proposta di emendamento dl sblocca Italia” e lo schema decreto legge misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico per la ripresa delle attività produttive». La destinataria è Antonella Manzione, capo dei vigili urbani di Firenze che Renzi decise di portare a Palazzo Chigi e nominò responsabile dell’ufficio Affari legislativi. Nello stesso faldone è stata rinvenuta copia di un’altra mail «del 14 aprile 2014 inviata da segreteria studio Alberto Bianchi a luca@matteorenzi.it avente ad oggetto F&B Italiano, dal cui testo si evince che Alberto Bianchi gira una mail di Scordamaglia». Il riferimento è a Luigi Scordamaglia, uno degli imprenditori diventati finanziatori della Fondazione. Gli investigatori stanno adesso esaminando le agende, i bilanci e tutti gli altri allegati alla posta elettronica — alcuni contrassegnati dalla dicitura «Riservato» — proprio per ricostruire i flussi finanziari e le eventuali contropartite. Uno dei capitoli d’inchiesta riguarda i contatti tra Bianchi e Luca Lotti. Secondo la difesa di Bianchi si trattava di normali interlocuzioni visto che entrambi erano nel cda, ma ci sono numerosi messaggi sui quali i magistrati hanno chiesto ulteriori verifiche perché riguardano presunti interventi legislativi in favore dei finanziatori. Scrive la Guardia di Finanza: «Particolarmente significativo è l’appunto indirizzato da Bianchi a Lotti, datato 12 settembre 2016; in tale appunto Bianchi riferisce di aver avuto 750K “sulla base dell’accordo con Toto” e che riceverà 80K “sulla base dell’accordo con British American Tobacco”; quindi, informa di aver determinato, con l’aiuto del commercialista il netto di 830K (750 + 80) in euro 400.838, somma che dichiara di aver versato per intero alla “Fondazione Open” ed al “Comitato nazionale per il sì”». Il motivo dell’interesse è spiegato nei provvedimenti di perquisizione. «La citata “British American Tobacco” risulta tra i finanziatori della Fondazione Open e tra i clienti sia dell’avvocato Alberto Bianchi, sia dell’associazione professionale. Bianchi ha tenuto costantemente informato Luca Lotti dell’evolversi della pratica, ma anche di altre pratiche afferenti il gruppo Toto». Controlli e nuove indagini sono stati disposti anche nei confronti di Carrai e in particolare sulle due società in Lussemburgo Wadi Ventures Management, e della Wadi Ventures sea. Scrivono i finanzieri: «Va evidenziato come tali iniziative imprenditoriali (sia quelle lussemburghesi che quelle italiane) sono state avviate e portate avanti in concomitanza temporale con le attività della Fondazione. Le acquisizioni investigative evidenziano l’intreccio tra iniziative imprenditoriali e finanziamenti alla Open». E ancora: «Wadi Ventures risulta destinataria di somme di denaro provenienti, fra gli altri, da investitori italiani gia finanziatori della “Fondazione Open”. Le risorse finanziarie appaiono essere state utilizzate per acquisire partecipazioni in società ancora non individuate».
Inchiesta sulla fondazione Open, Renzi: "Non ci faremo processare nelle piazze". Pubblicato giovedì, 12 dicembre 2019 da Laura Martellini su Corriere.it. «Non ci faremo processare nelle piazze». Così, citando Aldo Moro, Matteo Renzi interviene al Senato nel dibattito sul finanziamento ai partiti. Un attacco durissimo che ha come fulcro l’inchiesta della procura di Firenze sulla fondazione Open dove sono indagati i suoi amici Alberto Bianchi e Marco Carrai per finanziamento illecito. «La magistratura - dice l’ex premier - pretende di decidere cosa è un partito e cosa no. E se al Pm affidiamo non già la titolarità dell’azione penale ma dell’azione politica, quest’Aula fa un passo indietro per pavidità e lascia alla magistratura la scelta di cosa è politica e cosa non lo è». Poi Renzi fa un richiamo al passato: «Non è la prima volta che un ex premier affronta questo tema, era accaduto nel 1977 quando Aldo Moro utilizzò parole notevoli nei confronti di altre forze politiche e di chi voleva processare nelle piazze un altro partito: “non ci faremo processare nelle piazze”. Quella vicenda ha segnato la storia istituzionale del paese per la sua conseguenza più alta, le dimissioni di Giovanni Leone costretto a lasciare il Quirinale, non perché coinvolto ma in ragione di uno scandalo montato ad arte e che trovo doveroso che venga ricordato qui». E ancora: «Contestateci per le nostre idee ma per chi volesse contestarci per via giudiziaria sappia che abbiamo il coraggio di dire che diritto e giustizia sono diversi da giustizialismo. Per distruggere la reputazione di un uomo può bastare una copertina di qualche settimanale, quello che serve per ricostruire la reputazione sono anni e anni».
Caselli: da Renzi un attacco alla magistratura e un pessimo esempio. Da repubblica.it il 12 dicembre 2019. “Qualcuno ha iniziato a usare la parola Giustizialismo per colpire il magistrato che faceva cose scomode, ha detto Giancarlo Caselli a Radio Capital, ma questo non è giustizialismo, questo è uso della Giustizia in maniera corretta e uguale per tutti che a qualcuno non piace”. Replicando alle parole di Renzi in merito all’inchiesta della Procura di Firenze sulla Fondazione Open, Caselli è netto, “Questo è un attacco alla magistratura, ha detto l’ex magistrato, e denuncia un atteggiamento ostile. Denunciare la magistratura in Senato fa sembrare che Renzi dimentichi la separazione dei poteri”. Renzi cita Craxi per riabilitarlo? “Non faccio il processo alle intenzioni, spiega Caselli, qui invece la questione riguarda Politica e Giustizia e se è un uomo politico di primo livello che avvalora questa opinione, ogni cittadino soccombente in una causa civile o condannato in un processo penale si sentirà autorizzato a crede nella prevenzione, se non peggio, del giudice nei suoi confronti con effetti devastanti sul sistema”. “Renzi parla di Barbarie, conclude Caselli, ma è un linguaggio muscolare, bellicoso, che non si confà alla sede prestigiosa del Senato. Non c’è barbarie.”
Caso Open, Caselli contro Renzi: “Non si criticano i Pm”. Iuri Maria Prado il 17 Dicembre 2019 su Il Riformista. Al dottore Gian Carlo Caselli il discorso di Matteo Renzi non è piaciuto. Gli dispiace, tra l’altro, il fatto che «ogni cittadino che abbia qualche problema con la giustizia» potrebbe essere d’accordo con le considerazioni del senatore su certo modo di intendere e di esercitare il potere di giurisdizione. Caselli se ne è lagnato giusto l’altro giorno con un suo articolo pubblicato su Il Fatto Quotidiano, e tra le tante censure che ha rivolto al discorso tenuto da Renzi in Senato c’era appunto questa: che i cittadini con “problemi di giustizia” potrebbero condividerne le ragioni. E il fatto che possano condividerle, scrive Caselli, così pericolosamente autorizzati da un parlamentare che li istiga a pensarla in modo tanto irrispettoso, rischia poi di contaminare i sentimenti degli stessi politici adunandoli in una cospirazione che determina il danno capitale: l’«insofferenza verso i magistrati indipendenti». È difficile che lo si faccia sui giornali e dagli studi tv che ospitano i suoi interventi, ma qualcuno dovrebbe spiegare al dottore Caselli un paio di cose. Innanzitutto, che ad avere e a sperare di poter manifestare idee diverse dalle sue, forse, non sono soltanto i cittadini con “problemi di giustizia” ma anche altri. Altri che percepiscono come un salutare diritto, e non come un pericolo, la possibilità di avere e manifestare idee contrarie rispetto alle uniche che certi esponenti della magistratura ritengono ammissibili. Non sappiamo peraltro se si tratti addirittura di insofferenza. Se pure fosse, certamente sarebbe imparagonabile a quella che certi magistrati dimostrano verso chiunque si azzardi a sottoporre a qualsiasi critica i loro comportamenti. E altrettanto certamente non si tratta di insofferenza verso “i magistrati” ma verso alcuni di essi. In particolare quelli per i quali essere “indipendenti” significa sottrarsi al diritto altrui di denunciare gli errori di chi amministra la giustizia, e il mantenimento di una signoria indiscutibile non solo nel processo ma nel dibattito pubblico in argomento di giustizia. Infine (Caselli gli rimprovera anche questo) può pur darsi che il discorso di Renzi trovi causa nella sua vicenda personale piuttosto che in preoccupazioni di profilo istituzionale: ma una stortura non si raddrizza obiettando che chi la denuncia lo fa per interesse personale. A qualcuno non piacerà sentirselo dire, ma i problemi con la giustizia li abbiamo tutti, e non perché siamo tutti delinquenti ma perché questa giustizia è un problema per tutti. Se anziché solo in Senato si cominciasse a denunciare quel problema ovunque altrove, magari con qualche corteo finalmente composto, non sarebbe un pericolo: sarebbe un indizio di reviviscenza civile. Una bella cosa pubblica rivolta all’affermazione del diritto.
La sfida audace di Renzi che fa infuriare i Pm. Piero Sansonetti il 13 Dicembre 2019 su Il Riformista. E adesso? Matteo Renzi ieri ha picchiato duro in Senato. Ha messo la magistratura in stato di accusa nel modo più clamoroso. Non ha contestato una iniziativa o due dei magistrati, un atto, uno sconfinamento, un errore. Ha denunciato l’invasione di campo che sta mettendo in discussione la democrazia liberale. Niente giri di parole: la democrazia liberale. Ha detto che la separazione dei poteri è stata messa in discussione da uno dei poteri, e cioè da quello giudiziario, che ha deciso – e gli è stato permesso – di assumere il comando della politica, e decidere gli indirizzi, le regole, i confini, lo spirito delle decisioni che la politica deve prendere. Renzi ha parlato di Stato Etico, di rischio di Stato Etico, cioè della più atroce delle sciagure che possano capitare a una grande civiltà moderna. Sapete cos’è lo Stato Etico? Beh, gli ultimi esempi, qui in Europa, sono il fascismo italiano, il nazismo tedesco e il bolscevismo in Russia. Stato etico vuol dire civiltà nel congelatore. Vuol dire disprezzo e cancellazione della libertà. Furore, sopraffazione, arbitrio.
Quanto vale questo discorso di Renzi? Non lo si può dire oggi. Dipende da questo: la farà franca? Non è mica una battuta, pensateci bene: finora nessuno dei dirigenti politici che si sono alzati dal loro seggiolino del Parlamento e hanno denunciato la magistratura e il suo strapotere se l’è cavata. Craxi? È dovuto fuggire in Tunisia per evitare di essere arrestato dai giudici, come a un capo politico della sua statura era successo solo ai tempi di Mussolini. Non lo fecero rientrare neppure per curarsi, in punto di morte. Il Procuratore di Milano disse: se vuole rientrare ci sono le manette pronte. Recentemente quel Procuratore, così giusto, così umano, è stato premiato con l’Ambrogino d’oro. Berlusconi? Ha combattuto, è ancora lì a combattere, ma ha dovuto scontare una condanna al carcere, e ha ancora addosso diversi giudici che vogliono processarlo, e ha speso forse un miliardo per pagare gli avvocati che da 25 anni cercano di frenare l’offensiva giudiziaria, e ha visto il suo partito fatto a pezzi, spolpato. Vogliamo parlare anche dei personaggi politici un pochino meno famosi, quelli massacrati dalle inchieste spesso finite nel nulla, centinaia, o vogliamo fare l’elenco dei governatori delle regioni messi in trappola dai Pm? Beh, facciamo prima a fare l’elenco delle Regioni che fin qui non hanno avuto il presidente indagato. Eccolo l’elenco: Toscana. Punto. È l’unica. Renzi è stato molto coraggioso a pronunciare il discorso che ha pronunciato ieri mattina. Lui lo sa benissimo che c’è un piccolo plotone di magistrati che sta lavorando per prenderlo nella rete. E poi per annientarlo. Sì, è un plotone piccolo, ma per come è organizzato ora il potere della magistratura, per come è incontrollabile e potente, per come funziona in assenza di freni e di contromisure, basta un plotone piccolo piccolo di magistrati per annientare un leader o anche radere al suolo un partito. Quanti credete che fossero i Pm e i giudici che hanno abbattuto Bettino Craxi? In tutto una quindicina. Quelli di Berlusconi forse un po’ di più, forse venti o trenta, dei quali, diversi, erano gli stessi che hanno fatto la guerra a Craxi. E la magistratura conta al suo interno circa 8mila professionisti, la maggior parte dei quali non si occupa di andare in giro ad azzoppare leader politici, o anche capitani d’industria, ma svolge il suo lavoro con serietà, con competenza, con senso dell’umanità. Ma la maggior parte non vuol dire tutti. E bastano pochissimi, con quei poteri sconfinati, a fare un inferno. Per questo il mondo politico da tanti anni se ne sta acquattato, non fiata, accetta silenzioso tutte le prepotenze che vengono dai Pm. Ha paura. In passato anche Renzi ha commesso dei gesti opportunisti e ha lasciato, ad esempio, che alcuni suoi ministri (per altro del tutto innocenti) fossero massacrati dai Pm, e soprattutto dai loro bazooka, che sono i giornalisti e i giornali amici. Forse è questo il punto debole del discorso dell’ex presidente del Consiglio. Ineccepibile nell’attacco alla magistratura, debole nell’attacco alla politica. E invece il punto è quello. Se la politica non si smuove, se non si difende, se non pretende di mantenere la propria autonomia, se non rinuncia alla vigliaccheria, la battaglia garantista e quella per la difesa dello Stato liberale è persa. Vinceranno loro, cioè gli estremisti del partito di Pm. Il rischio è che Renzi ora resti solo. Che lo lascino a combattere lì in prima fila e restino a guardare. Chi? Beh, gli unici due partiti, in Parlamento, che hanno una vocazione democratica sicura, e che non possono essere accomunati ai populisti, e cioè Forza Italia e il Pd. Si schiereranno al fianco di Renzi, senza tentennare e senza calcoli di partito, o faranno finta di non aver sentito, per esempio, i discorsi di personaggi di punta del partito dei Pm, come Gian Carlo Caselli, che ieri ha accusato Renzi di avere attaccato la magistratura (come se questo fosse un sacrilegio) e di aver calpestato la separazione dei poteri. Perché calpestato? Per la semplice ragione che una parte consistente della magistratura, anche in buona fede, è convinta che la separazione dei poteri vuol dire che la magistratura è un corpo separato e sacro dello Stato, che per difendere la propria indipendenza ha il diritto e il dovere di schiacciare le istituzioni democratiche, se lo ritiene opportuno. I togati del Csm possono riunirsi per condannare le dichiarazioni di Renzi. Ma lui non può rispondere, deve solo chinare il capo: signorsì, vostro onore. Già, conoscono questa formula e quella vogliono sentire. Renzi ieri ha detto che la battaglia è aperta. Di qua il diritto, di là l’etica e l’autoritarismo. Se resterà solo a combatterla, perderà. Si fidi di questa previsione: noi ne sappiamo qualcosa…
RENZI IN MODALITÀ ''CRAXI '93'' FA UN DISCORSO IN SENATO SUI SOLDI AI PARTITI: ECCO IL TESTO INTEGRALE.
Dagospia il 12 dicembre 2019
GUIDO CROSETTO:
Ho appena ascoltato il discorso di Renzi al Senato. Invito tutte le persone serie, che amano questa nazione, di qualunque parte politica o movimentista siano, ad ascoltarlo. Slegando le parole dalla persona che le pronuncia: parla di Democrazia, di Istituzioni, di Giustizia.
GIANCARLO LOQUENZI: Vale la pena ascoltare l'intervento di @matteorenzi oggi in Senato, potete pensarne quello che volete ma ci riguarda tutti.
GIULIANO FERRARA: Ha parlato in stato di grazia, discorso perfetto.
CLAUDIO VELARDI: Ho ascoltato il discorso di matteorenzi. Dovrei scendere in piazza anche da solo per difendere basilari principi della libertà di tutti, e invece aspetto, come i miei connazionali, che Renzi faccia la fine di Craxi. Sono un po' una merda.
Il discorso integrale di Renzi pubblicato da linkiesta.it il 12 dicembre 2019.
Signor Presidente, onorevoli colleghi, non stiamo discutendo di una singola inchiesta della magistratura, alla quale rinnoviamo un rispetto non formale, ma sostanziale in quest'Assemblea. Non stiamo neanche parlando, a mio avviso, semplicemente del finanziamento ai partiti e meno che mai stiamo discutendo in quest'Assemblea di una polemica mediatica. A mio avviso questo dibattito, del quale ringrazio la Presidenza del Senato e i Capigruppo, affronta la grande questione della democrazia liberale oggi e parte dal principio della separazione dei poteri tra il legislativo, l'esecutivo e il giudiziario. In tempi di Facebook parlare di Montesquieu non va di moda, ma è un dovere particolarmente vero farlo quando alcuni tra i più autorevoli leader politici del mondo utilizzano, dalle colonne del «Financial Times», la visibilità della democrazia liberale per contestarne l'imminente fine. Insomma, non stiamo discutendo di una piccola questione bagatellare, ma stiamo riflettendo sulla questione se secoli di civiltà giuridica e politica abbiano ancora un senso o no. Discutiamo qui oggi della separazione dei poteri. Tutti noi siamo potere legislativo, tutti, nessuno escluso. Chi tra di noi ha avuto l'altissimo onore di guidare pro tempore anche il potere esecutivo ha una responsabilità in più, che vorrei assolvere in quest'Aula innanzitutto prendendo spunto da precedenti discorsi parlamentari. Non è la prima volta in cui un ex presidente del Consiglio in un'Aula del Parlamento affronta questo tema; era accaduto nel 1977, quando il presidente Aldo Moro alla Camera dei Deputati utilizzò parole notevoli nei confronti di altre forze politiche e di chi voleva processare nelle piazze il suo partito: «Non ci lasceremo processare nelle piazze». Andò così? Andò così? Impariamo dalla storia: andò così?
Le parole di Aldo Moro le ripetiamo costantemente; ce le diciamo, ma in realtà quella vicenda - lo scandalo Lockheed - ha segnato la storia istituzionale del Paese, non già per il processo che venne fatto ad alcuni Ministri, ma per la conseguenza più alta: le dimissioni del presidente della Repubblica. Giovanni Leone fu infatti costretto a lasciare il Quirinale anzitempo non perché coinvolto - paradosso dei paradossi - egli, professore di procedura penale, ma in ragione di uno scandalo montato ad arte da una parte dei media e da una parte della politica, che trovo doveroso che venga ricordato qui. Proprio qui, infatti, vi è chi ebbe il coraggio e l'onestà intellettuale, la senatrice Emma Bonino, vent'anni dopo, di scrivere una lettera di scuse, assieme al compianto onorevole Marco Pannella, proprio a Giovanni Leone in occasione dei suoi novant'anni. Onorevoli colleghi, per distruggere la reputazione di un uomo, di un esponente delle istituzioni, può bastare una copertina di qualche settimanale (che poi, i tempi cambiano ma i settimanali rimangono!); quello che serve per ricostruire quella reputazione sono anni e anni. Forse - lo dico con il rispetto che ella conosce - neanche la lettera della senatrice Bonino e dell'onorevole Pannella riuscì a recuperare fino in fondo il prestigio e l'onore che il presidente Leone aveva il dovere di vedersi riconosciuto.
Nel 1992, il presidente Bettino Craxi parlò a Montecitorio. So già che basta pronunciare questo nome - per le note vicende giudiziarie - per aprire subito un dibattito reso particolarmente attuale dal fatto che siamo nell'imminenza del ventennale della tragica scomparsa di Craxi. Non voglio, tuttavia, aprire adesso qui un dibattito su un argomento che non riguarda l'oggetto della nostra discussione, vale a dire la figura politica di Bettino Craxi.
Mi limito a dire che il 3 luglio del 1992, intervenendo per la fiducia al Governo guidato da Giuliano Amato, Bettino Craxi pronunciò un discorso anche in questo caso molto citato e poco letto, come spesso accade ai discorsi dei politici. Egli, infatti, chiamò in causa tutto l'arco costituzionale, compresi i partiti di recente formazione allora, quei partiti che esibivano il cappio, ma che erano stati già coinvolti in vicende di finanziamento illecito, e disse che larga parte del finanziamento ai partiti era - parole testuali di Craxi - illecito o irregolare. Un'assunzione di responsabilità per tutto il sistema costituzionale, non soltanto per qualcuno. Ebbene, di quel discorso di Craxi pochi ricordano l'incipit. Craxi disse: «Ho imparato ad avere orrore del vuoto politico».
Di questo discutiamo, signor Presidente, non del finanziamento illecito semplicemente; stiamo discutendo della debolezza della politica davanti a una oggettiva necessità: quella di porre il sistema in condizioni di essere un sistema efficace. Voglio essere molto chiaro: non mi sento minimamente paragonabile alla statura di due leader quali quelli che ho appena citato. Condivido con loro soltanto l'altissimo onore rivestito, ma non ho alcun dubbio sul fatto che tra me e loro c'è una differenza profonda di levatura, indipendentemente dal giudizio che si possa avere sulle singole persone. Contemporaneamente, non vi è chi in quest'Aula non riconosca che anche nel merito delle contestazioni delle recenti vicende c'è una profonda diversità. Nello scandalo Lockheed si parlava di una tangente, vera o presunta, milionaria; nel 1992 si poneva in discussione il finanziamento di tutto il sistema dei partiti. È bene dire con forza qui che la vicenda dalla quale abbiamo preso spunto, e che certo non può essere esaustiva nella nostra discussione, è un'ipotesi di reato totalmente diversa. Qui non si parla di dazioni di denaro nascoste o illecite, si parla di contributi regolarmente registrati, bonificati e, come tali, tracciabili, evidenti e trasparenti, per la presenza di un bilancio che viene reso pubblico. Le fondazioni non sono infatti tutte uguali. Mi rivolgo ai colleghi che lo sanno meglio di me: ci sono fondazioni che rendono pubblico il proprio bilancio e fondazioni che non lo fanno o perlomeno non lo facevano prima dell'entrata in vigore della nuova normativa. Questa fondazione di cui si parla aveva il bilancio totalmente pubblico e cosa è accaduto? È accaduta una cosa molto semplice e, se volete, molto complicata. Questi contributi regolari dati alla fondazione sono stati improvvisamente trasformati in potenziali contributi irregolari non perché si è discusso della definizione del contributo medesimo, ma perché si è cambiata la definizione della fondazione. Si è in altri termini deciso che quella fondazione non era più una fondazione, ma un partito. Il punto di discussione, per il quale io ritengo che vi sia un'invasione di campo, è che la magistratura ha deciso autonomamente non già cosa è un finanziamento illecito. Questo è il suo lavoro; la magistratura deve capire, studiare e verificare cosa è illecito. Ha preteso invece di comprendere cosa è un partito e cosa non lo è. Questo è il punto fondamentale che vorrei fosse chiaro al Parlamento perché ciascuno faccia le proprie valutazioni e non perché cambi qualcosa a noi. Noi non abbiamo alcun tipo di problema. Deve però essere chiaro che se al pubblico Ministero affidiamo non già la titolarità dell'azione penale, ma la titolarità dell'azione politica, decidendo cosa è partito e cosa non lo è, quest'Aula, insieme alla Camera e alla politica, fanno un passo indietro per pavidità, per paura, per mediocrità, e lascia l'azione giudiziaria responsabile di ciò che è politica e ciò che non lo è.
Onorevoli colleghi, è di questo che stiamo discutendo. Se su questo non è chiaro il punto, sappiate che non riguarda la vicenda specifica dei contributi trasparenti e regolari; no, riguarda quello che può avvenire a ciascuno di voi. Ciascuna cosa può infatti diventare finanziamento illecito alla politica, non soltanto una Srl, come provocatoriamente ha detto il senatore Saccone nell'intervento introduttivo. Anche, ma è qualsiasi atto che ha a che fare con la politica che diventa potenzialmente sanzionabile. Penso che questo sia il punto di cui stiamo discutendo. Dopo di che, signor Presidente, la magistratura decide cosa è partito e cosa non lo è e, di conseguenza, manda circa 300 finanzieri la mattina, all'alba, a casa di cittadini non indagati, la cui fedina penale è intonsa, con strumenti tipici più di una retata che non di una richiesta. Per sapere infatti se il bonifico è stato fatto o meno c'è un meccanismo molto più semplice della perquisizione mattutina alle sei e mezzo di fronte ai figli sconvolti; c'è l'ordine di esibizione. Mi volete raccontare che questo tipo di intervento è fatto a tutela degli indagati? No. Abbiate il coraggio di dire che questo tipo di intervento è finalizzato a descrivere come criminale non già il comportamento dei singoli, ma qualsiasi tipo di finanziamento privato che venga fatto attraverso le forme regolari e lecite previste dalla legge sulla fondazione, dalla legge sui partiti e da tutto il resto. È questo il punto ed è su di esso che si discute. Le conseguenze quali sono?
Anzitutto se 300 finanzieri vanno nelle case di persone che hanno finanziato la politica o, perlomeno, che hanno finanziato una fondazione, e si arriva al presupposto che il processo sarà per capire se la Leopolda era un'iniziativa di partito o meglio un'articolazione di partito o, come dicevano gli organizzatori, un'iniziativa slegata alla singola vita di partito, se il processo penale si fa su che cosa sia la Leopolda, noi abbiamo evidentemente un dato di fatto: quei 300 finanzieri prendono dei telefonini, alcuni dei quali ancora non sono stati restituiti - ancora non restituiti - prendono dei dati e vanno a strascico, come si dice per quelle indagini nelle quali si parte da un reato cosiddetto presupposto, per poi andare a verificare se c'è dell'altro. Chi si permette di dire che questo atteggiamento affronta la vita politica delle persone viene censurato dai togati del CSM. Vorrei sommessamente dire che, nella mia esperienza personale, ho avuto elementi di discussione con l'autorità giudiziaria, per la quale provo rispetto sostanziale, non solo formale. Ho avuto discussioni per le ferie dei magistrati: sono stato criticato per aver proposto la riduzione delle ferie dei magistrati; ho avuto discussioni con larga parte della magistratura per il referendum costituzionale (non solo con larga parte della magistratura), ma rispetto sia la posizione sul referendum che quella sulle ferie, perché sono due posizioni che, a mio giudizio, in un Paese democratico, sono totalmente libere e legittime.
Dico tuttavia ai membri togati del Consiglio superiore della magistratura, che censurano un senatore - quale esso sia - per l'espressione delle sue idee politiche, che non mi risulta che sia stato abrogato dall'articolo 68 della Costituzione, che, al comma primo, recita testualmente: «I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse». Spero che il CSM - o meglio i componenti togati - non dimentichino che questo articolo della Costituzione non è stato cancellato da nessuno. Le altre conseguenze sono che, in un Paese nel quale la politica costa, una perquisizione a tappeto di tutte le persone che in passato hanno concorso alle iniziative politiche e culturali di una determinata fondazione reca un dato di fatto evidente: nessuno finanzierà più un centesimo di quella parte culturale o politica. Aggiungo io - mi sia consentito dire - che fanno anche bene. Infatti, se un cittadino perbene finanzia la politica (perché io rivendico l'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti e penso di essere ormai minoranza in quest'Assemblea) ma, accanto all'abolizione del finanziamento pubblico, il finanziamento privato viene criminalizzato, è evidente che quel cittadino, quell'imprenditore non finanzierà più la cosa pubblica.
Guardate che quando Kamala Harris (nome sconosciuto ai più, ma uno dei più interessanti del panorama democratico americano degli ultimi dieci anni) è costretta a ritirarsi perché non ha più risorse si dimostra che è soltanto un ipocrita chi dice che non servono i soldi per fare la politica. Servono soldi regolari, legittimi, puliti, trasparenti. Ma servono. Secondo punto. In questa vicenda c'è un reato di cui nessuno vuole occuparsi, signor Presidente: è il reato ex articolo 326 del codice penale, vale a dire la violazione sistematica del segreto d'ufficio. Riguarda, in particolar modo, vicende personali del sottoscritto, per le quali non ho alcuna difficoltà a dire che noi utilizziamo il noto principio giuridico «male non fare, paura non avere». Quindi non è un problema personale, ma se nelle stesse ore della perquisizione, del tutto casualmente, la violazione del segreto d'ufficio porta a pubblicare, non con un giornalismo di inchiesta, ma con un giornalismo a richiesta, i dati sensibili, che soltanto Banca d'Italia o la procura o la Guardia di Finanza hanno, siamo consapevoli che le casualità e le coincidenze esistono, ma c'è un corto circuito tra gli strumenti della comunicazione e gli strumenti della battaglia giuridica?
Siamo consapevoli che la violazione del segreto d'ufficio, ex articolo 326, non può essere derubricata a reato minore? Si perquisiscono quelli non indagati e non si perquisisce il potenziale autore del reato, perché si dà per scontato, come ha detto qualcuno, che la privacy per un politico non esista. Guardate che questa affermazione è molto importante. Io credo che ci siano delle regole di trasparenza doverose ed è sacrosanto che noi presentiamo tutti i dati relativi alla nostra attività: è uno dei principi cardine della democrazia liberale. Ciò che non è sacrosanto, perché corrisponde ai dettami dello Stato etico, è sostenere che tutto possa essere totalmente privo di qualsiasi limite. Io non ci sto nello Stato etico di chi vuole trasformare in un processo principi di opportunità politica. Si può dire che si è d'accordo o no, ma non si può trasformare in processo ciò che è elemento di opportunità politica perché, nel processo alle intenzioni, anche se vi credete assolti, siete comunque coinvolti, per utilizzare le espressioni del poeta. Non è soltanto Stato etico, ma diventa addirittura Stato etilico quello di chi dice che i figli del politico non possono avere diritto alla privacy, per cui si fanno le foto dentro le case, dentro le camerette e si sta tutti zitti per mediocrità, paura e pavidità. Non è uno Stato di diritto questo. Chi dice poi che la privacy vale soltanto per qualcuno e non per altri, abbia il coraggio di dire che siamo alla barbarie.
Signor Presidente, non parlo per me, non parlo per noi. Penso che avere rispetto per la magistratura in questo Paese significhi innanzitutto riconoscere che ci sono donne e uomini che hanno perso la vita per fare i giudici e i magistrati: a loro, a tutti loro, va il sentimento di riconoscenza più grande che la massima espressione della volontà popolare, il Parlamento, deve avere. Noi ci inchiniamo davanti a queste storie e davanti al lavoro straordinariamente perbene di migliaia e migliaia di magistrati e di giudici. A chi però oggi volesse immaginare che questo inchino diventa una debolezza del potere legislativo davanti al potere giudiziario, si abbia la forza e il coraggio di dire che dovrà contestarci per le nostre idee, per ciò che abbiamo fatto quando governavamo da soli, per ciò che stiamo facendo governando ora: contestateci per il jobs act e per la battaglia sulle tasse. Ma a chi volesse contestarci o, peggio ancora, eliminarci per via giudiziaria, sappia che dalla nostra parte abbiamo il coraggio e la voglia di dire che il diritto e la giustizia sono cosa diversa dal peloso giustizialismo e dalla connessione con certi strumenti di comunicazione e di stampa. Italia Viva riconosce il profondo rispetto per la magistratura. Italia Viva crede che il potere legislativo di questo Paese debba essere difeso innanzitutto da se stesso.
RENZI ERA PER ''MOSTRARE I CONTI CORRENTI E LE PROPRIETÀ DEI POLITICI''. POI È DIVENTATO RICCO. Dagospia il 13 dicembre 2019.
Guido Crosetto: Ho appena ascoltato il discorso di Renzi al Senato. Invito tutte le persone serie, che amano questa nazione, di qualunque parte politica o movimentista siano, ad ascoltarlo. Slegando le parole dalla persona che le pronuncia: parla di Democrazia, di Istituzioni, di Giustizia.
Onofrio Di Cillo: Giuste considerazioni, ma sarebbe opportuno ricordare l’atteggiamento certo non garantista di @matteorenzi nei casi Lupi, Guidi, Idem, Cancellieri, e altri. In quei giorni ne chiese, e spesso ne ottenne, l’allontanamento. L’indignazione a fasi alterne è capziosa, poco credibile.
Alberto Infelise: Perdonate, ma questa cosa del "togliamo la persona e sentite che belle parole" è totalmente priva di senso. Specialmente in politica. La politica è fatta di parole e azioni. E di contesto. "L'ora delle decisioni irrevocabili" è una frase bellina, ma va messa nel suo contesto.
Daniela Ranieri: Ho visto che Renzi retwitta le lodi in copia carbone di chi dice “slegate le parole dalla persona che le pronuncia”. Evidentemente ritiene lusinghiero che per risultare credibile è necessario fare finta che sia un altro.
Francesco Damato per startmag.it il 13 dicembre 2019. La partecipazione alla maggioranza ha sicuramente aiutato Matteo Renzi a ottenere in tempi abbastanza brevi una discussione al Senato sulla vicenda giudiziaria e mediatica del finanziamento della sua attività politica, avvenuta attraverso la ormai disciolta Fondazione Open quando lui apparteneva al Pd scalandone con successo il vertice, e con esso anche quello del governo. Che l’uomo di Rignano non guidò certamente in sordina, purtroppo contribuendo, come vedremo, e a dispetto del suo linguaggio combattivo, alla situazione di cui ora si lamenta. Pur legittimamente promossa alla questione dei rapporti fra i poteri dello Stato, per non dire papale papale fra la magistratura e la politica, o viceversa, la discussione fortemente voluta da Renzi, che vi ha partecipato da protagonista, circondato dai suoi nei banchi della nuova Italia Viva, ha pagato pegno, diciamo così. La presidenza della seduta, nonostante la sontuosità del tema, é stata assunta non dalla presidente stessa del Senato ma dalla vice grillina Paola Taverna: obiettivamente la più lontana, per stile e convinzioni, dallo spirito col quale il dibattito era stato voluto da Renzi, per quanto egli sia da qualche mese partecipe, come ho accennato, della stessa maggioranza in cui si riconosce l’esponente pentastellata. La quale è incline più al giustizialismo che al garantismo, almeno per il significato corrente attribuito, a torto o a ragione, ai due fenomeni o sentimenti. Ai banchi del governo non si è presentato nessuno, neppure uno straccio di sottosegretario, perché risultasse con la massima evidenza possibile l’estraneità, a dir poco, dell’esecutivo alla materia in esame. Già prima della discussione peraltro il ministro grillino della Giustizia Alfonso Bonafede aveva tenuto a dissentire dalle critiche di Renzi agli inquirenti, e a condividere invece le proteste levatesi con la consueta solerzia dal Consiglio Superiore della Magistratura. Non hanno brillato di presenze neppure i banchi parlamentari diversi da quelli renziani, dei cui vuoti diffusi si è compiaciuto in rete, con tanto di foto, il più antirenziano forse dei giornali, Il Fatto Quotidiano, per dimostrare quanto poco ormai conti l’ex presidente del Consiglio. Un po’ troppo avari di applausi o altri segni di consenso sono stati durante l’intervento di Renzi i suoi ex compagni di partito, il cui tesoriere Luigi Zanda d’altronde, già prima della discussione, aveva rimproverato al suo ex segretario di avere usato i pur legittimi finanziamenti della Fondazione Open più per la sua personale attività politica che per le esigenze più generali e costose del Pd, in crisi anche nei rapporti con i suoi dipendenti. Renzi, dal canto suo, smettendola finalmente di parlarne come di un personaggio diseducativo, o qualcosa del genere, e guadagnandosi per una volta un apprezzamento del figlio Bobo, ha dovuto per una inesorabile nemesi storica richiamarsi al famoso discorso di Bettino Craxi alla Camera contro il “vuoto” orrendo e pericoloso che la magistratura stava creando già nel 1992. Allora il finanziamento della politica fu liquidato sommariamente come una questione giudiziaria, e di malavita. Sarebbe stato forse più saggio da parte di Renzi ricordarsi di Craxi e delle sue preoccupazioni per la discrezionalità della magistratura quando contribuì da Palazzo Chigi alla diffusione giurisdizionale di quella curiosa fattispecie del traffico d’influenze che potrebbe adesso creare problemi anche ai suoi passati, presenti e futuri finanziatori. Le leggi vanno maneggiate con cura già quando si fanno e si lasciano applicare in modo distorto. Scontato ed efficace, anche nella sua drammaticità, é stato il richiamo renziano al monito lanciato da Aldo Moro l’anno prima del suo tragico sequestro contro la pretesa di processare “sulle piazze” gli avversari politici di turno. Meno scontato e pertinente mi è apparso invece il richiamo di Renzi alla pur dolorosa e ingiusta avventura di Giovanni Leone. Che il senatore di Scandicci crede sia stato davvero costretto alle dimissioni da presidente della Repubblica nel 1978 per la campagna scandalistica cavalcata persino dai radicali, scusatisi vent’anni dopo, sugli apparecchi militari di trasporto dell’americana Loocheed venduti con mazzette o simili all’Italia. Davvero Renzi crede ancora che quella pur inconsistenza campagna contro Leone, per i cui uffici non aveva potuto transitare nessuna pratica di quella fornitura di aerei, pur essendo lui amico del suo ex collega universitario e rappresentante della Loockheed in Italia, il professore di diritto della navigazione Antonio Lefebvre d’Ovidio, fu l’origine, la causa e quant’altro dello sputtanamento – consentitemi la franchezza – procurato all’allora presidente della Repubblica costringendolo alle dimissioni? Via, qualcuno si decida a raccontare e spiegare finalmente a Renzi, allora bimbo di soli tre anni, che Leone fu messo in croce e costretto alla ritirata semplicemente per essersi messo di traverso sulla strada della cosiddetta linea della fermezza durante il sequestro di Aldo Moro. Per il cui salvataggio, o tentativo di salvataggio, il capo dello Stato aveva predisposto, con l’appoggio – guarda caso – solo o soprattutto di Craxi, a concedere la grazia a Paola Besuschio. Che era nell’elenco dei 13 “prigionieri”, cioè detenuti per reati di terrorismo, con i quali le brigate rosse avevano reclamato di scambiare il povero Moro, condannato a morte dal loro presunto “tribunale del popolo”.
Mani pulite, 1993: Craxi contro la fine della politica. Redazione de Il Riformista il 13 Dicembre 2019. 29 aprile 1993. L’inchiesta “Mani Pulite”, quella di Di Pietro, è iniziata circa un anno prima. Sta travolgendo tutti i partiti, in particolare il Psi. Bettino Craxi, che fino a un mese prima era stato il segretario del partito, si alza alla Camera e pronuncia un discorso che diventerà celeberrimo a difesa dell’autonomia della politica e di denuncia della corruzione del sistema. Dice che il finanziamento dei partiti, tutti lo sanno, è in gran parte illecito, e aggiunge: «Non credo che ci sia nessuno in quest’aula, responsabile politico di organizzazioni importanti che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro». Nessuno si alza.
Caso Lockheed, 1977: Moro a difesa di Gui. Redazione de Il Riformista il 13 Dicembre 2019. 9 marzo del 1977, il caso Lokheed (una storia di tangenti sull’acquisto di aeroplani americani) arriva alla Camera. Si tratta di decidere se processare due ex ministri: Luigi Gui, dc, e Mario Tanassi, Psdi. Aldo Moro, giusto un anno prima del suo rapimento, interviene con un discorso formidabile, di impronta davvero garantista, a difesa di Gui, soprattutto, ma anche di Tanassi. Rivendica l’autonomia e l’unicità della politica e il valore dell’impegno politico e dei partiti. Grida: «Non ci faremo processare nelle piazze». Però va in minoranza. I più duri contro di lui sono i comunisti e i radicali. Tanassi e Gui sono rinviati a giudizio davanti alla Corte Costituzionale. Che assolverà Gui e condannerà a 2 anni e 4 mesi di carcere Tanassi.
Caso Lockheed, 1978: Leone si dimette. Redazione de Il Riformista il 13 Dicembre 2019. 15 giugno del 1978. Aldo Moro è stato ucciso poco più di un mese prima. Al governo c’è Andreotti, sostenuto dai comunisti. La sera, alle 20, compare in Tv il presidente della Repubblica Giovanni Leone, napoletano, 70 anni, e annuncia le sue dimissioni. Il motivo? Una feroce campagna di stampa contro di lui, alimentata dai servizi segreti, con vari dossier, e da alcuni partiti politici di opposizione. Leone non ha nessuna colpa. Il suo coinvolgimento nel caso Lockhe è da escludere. L’Espresso lo massacra. Lui non ne può più, lascia. Perché lascia? Leone è uno degli ultimi statisti, uno di quelli che hanno fatto grande l’Italia. Sa sacrificarsi e si sacrifica.
Matteo Renzi e Roberto Maroni, il sospetto di Minzolini: due inchieste perché sono nemici di Giuseppe Conte? Libero Quotidiano il 12 Dicembre 2019. Giuseppe Conte fa terra bruciata intorno a sé. A rilevare due coincidenze, che poi fatalità potrebbero non essere, è Augusto Minzolini. Sulle colonne del Giornale il retroscenista riporta due fatti avvenuti entrambi in un solo mese: "Sarà un caso o siamo di fronte a possibili esempi di giustizia ad orologeria", ma nel giro di breve tempo "due inchieste hanno investito chi rompe le scatole all'attuale equilibrio dentro e fuori il governo". Ad essere finito nel mirino del premier bis è Matteo Renzi e Italia Viva con le indagini e le perquisizioni sulla Fondazione Open. Non solo perché "i riflettori dei magistrati sono tornati su Matteo Salvini e la Lega con l'iniziativa giudiziaria contro l'associazione 'Maroni Presidente'". Risoluzione, questa, a discapito del presunto riciclaggio di una parte dei famosi 49 milioni di euro dei finanziamenti del Carroccio. Fin qui nulla di così eclatante se non fosse, come spiega Minzolini, che "Conte può godere, soprattutto, della protezione di due pezzi di magistratura, pardon di sindacati, che hanno un'indole spiccatamente interventista sulla politica". Si tratta "delle toghe rosse di un tempo, eredi di magistratura democratica e l'area che si rifà alla filosofia di Piercamillo Davigo, già protagonista di Tangentopoli e ora riferimento della magistratura più vicina all'anima grillina". Entrambe, per la firma del quotidiano di Sallusti, dalla stessa parte tanto da essere "quasi considerate due gendarmi a guardia del Conte Due". Ma sarà sicuramente un caso.
Da "Di Martedì" il 14 dicembre 2019. “Ho sentito quello che diceva il senatore Renzi a proposito del prestito. In Germania per molto meno, cioè solo per aver ricevuto un prestito da un amico a un tasso di intesse lievemente inferiore a quello bancario, il presidente della Repubblica si è dovuto dimettere - ha tuonato Percamillo Davigo, ospite da Di Martedì, riferendosi al caso del presidente Christian Wulff – Ma la Germania è un Paese serio».
Carlo Tecce e Valeria Pacelli per il “Fatto quotidiano” il 15 dicembre 2019. Ci sono tracce degli avvenimenti politici degli ultimi anni nei documenti dell' inchiesta dei magistrati di Firenze. Oltre il valore giudiziario, c' è un intrinseco valore storico. Il 23 ottobre 2013 l' avvocato Alberto Bianchi, che da lì a poco sarà presidente della fondazione Open, scrive ai principali sostenitori del sindaco Matteo Renzi, che non s' arrende nonostante la sconfitta già patita da Pier Luigi Bersani nel duello interno al Pd per guidare il centrosinistra alle elezioni (a cui segue la non-vittoria di Bersani). Il toscano con radici pistoiesi e non fiorentine Bianchi, che in calce abbraccia i destinatari con Marco, si presume Carrai, cerca di pianificare il contributo economico degli imprenditori per il sostentamento di Open, il nome viene rivelato per l' occasione: al momento della missiva si chiamava Big Bang. Bianchi segue uno schema, fa riferimento a due "presupposti" e alcuni "impegni" reciproci, parole evidenziate in grassetto che giustificano la richiesta di 100.000 euro annui per cinque anni, da recapitare con bonifici trimestrali di 25.000 euro e che permettono di incontrare Renzi tre volte all' anno, con una particolare predilezione per il fine settimana, non si conteggiano i contatti diretti. Bianchi coinvolge il finanziere Serra, poi Gavio, Pertosa, Scordamaglia. Un gruppo ristretto che il giorno prima ha partecipato a una cena a Firenze. L'ottobre del 2013 è un mese che introduce a una svolta per il giovane sindaco di Firenze. A sette giorni dall' evento alla stazione Leopolda, a un mese e mezzo dalle primarie per il Nazareno, un plebiscito contro gli sfidanti Gianni Cuperlo e Pippo Civati, un 67,5 per cento dei votanti che gli consegna la segreteria del Pd e fa perdere la serenità a Enrico Letta. Il premier si regge con i voti di Angelino Alfano e colleghi ministri, dopo il ritiro delle truppe di Berlusconi per la decadenza da senatore. Letta è sempre esposto, fragile, ai venti della politica e dall' autunno cominciano a soffiare forti dal Pd, ormai conquistato da Renzi. E dunque Bianchi illustra uno scenario più ampio, non lo cita, ma Palazzo Chigi non è più un miraggio: "Presupposti. Il primo è un impegno non esclusivamente per la campagna di segretario Pd 2013, ma più lungo e più ampio, ispirato (a) dalla certezza che Matteo è l'unico che ha la convinzione radicale di cambiare verso a questo Paese (che è ciò di cui il Paese ha bisogno) e una voglia all' altezza di quella convinzione, (b) dalla consapevolezza che ha bisogno di gente motivata e perbene e di avere occasioni di scambiare idee, pensieri, suggerimenti con amici che ci credono e che vogliono fare qualcosa per il loro Paese, e non perché hanno da chiedergli qualcosa in cambio di quanto sono disposte a dargli. Il secondo è che l' impegno di Matteo e della fondazione costa, che abbiamo bisogno di risorse, che non vogliamo finanziamenti pubblici, che vogliamo fare le cose con trasparenza". Il testo si può interpretare liberamente, ma la funzione politica, che coincide con la carriera di Renzi, è più che evidente. Bianchi passa agli "impegni" reciproci accennati all' inizio: "Il supporto di ciascuno di voi alla fondazione è configurato in 100 mila euro all' anno per 5 anni". E aggiunge: "Matteo assicura tre incontri all' anno tra noi e voi". Perché l'esigenza di somme così ingenti e per un intero lustro? "Dal punto di vista non finanziario, il vostro supporto è di idee, suggerimenti, proposte, osservazioni, per Matteo e per la Fondazione. La quale finora ha vissuto praticamente in campagna elettorale continua, ma chiusa quella per il segretario dovrà fare il suo lavoro culturale: convegni, iniziative, papers". Rileggiamo: "Campagna elettorale continua". Per difendere Open, anche giovedì in Senato, Renzi ha ricordato la differenza tra fondazioni e partiti: "Questi contributi regolari sono stati improvvisamente trasformati in contributi irregolari perché si è cambiata la definizione della fondazione: qualcuno ha deciso non era più fondazione ma partito". Il 23 ottobre 2013, all' alba di tutto, Bianchi ha spiegato cos' era Open. Il 22 febbraio 2014 Matteo Renzi diventa presidente del Consiglio.
Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” il 15 dicembre 2019. Doppi incarichi per «mascherare» i finanziamenti, airbus affittati per le trasferte all' estero e due cassette di sicurezza che dovranno adesso essere ispezionate dai magistrati. Ci sono nuovi elementi nell' inchiesta sulla Fondazione Open della Procura di Firenze che si concentra sul doppio ruolo avuto dal presidente Alberto Bianchi nella gestione dei fondi elargiti per sostenere la «carriera politica di Matteo Renzi». Materiale ritrovato durante le perquisizioni, ma anche testimonianze. Come quella di Alessandro Bertolini, alto funzionario della British Tobacco che si occupò di gestire i contratti di Bianchi. Il sospetto degli inquirenti è che gli «onorari» del legale fossero in realtà finanziamenti «mascherati» e per questo illeciti. Non a caso nel decreto di perquisizione emesso contro Bianchi si sottolinea che «appare degna di nota la circostanza che nell' anno 2016 la "British American Tobacco" non effettua "contribuzioni volontarie" a favore della Fondazione Open ma riceve una fattura da parte dell' avvocato Bianchi il quale, in base all'accordo, avrebbe ricevuto un compenso di circa 80 mila euro, destinato in parte a Open». Uno schema seguito con il gruppo imprenditoriale Toto e che - questa è l' ipotesi dell' accusa - potrebbe essere stato applicato anche ad altri finanziatori che in cambio ne avrebbero ricevuto vantaggi grazie a emendamenti alle leggi che venivano approvate, ma anche progetti e concessioni portati avanti quando a Palazzo Chigi c' era Matteo Renzi. Bertolini viene convocato dalla Guardia di Finanza il 26 novembre scorso. È direttore relazioni esterne e affari legali della British Tobacco. Racconta di aver conosciuto Bianchi nel 2015 «che era già stato coinvolto da un collega nell' analisi di questioni giuridiche rilevanti per l'azienda e relative alla direttiva comunitaria sui prodotti del tabacco e in materia di fiscalità». Specifica di aver partecipato ad almeno quattro riunioni con Bianchi e poi afferma: «Per quanto riguarda i due incarichi dell' avvocato Bianchi, in ragione del mio ruolo in azienda ho fatto presente alla stessa che non avevo budget per l' anno 2015 quindi la formalizzazione del mandato (lettere di incarico con relativa parcellazione) sarebbe stata a valere nell' anno 2016. Dopo il perfezionamento di tali incarichi professionali non ne sono stati affidati di ulteriori all' avvocato. Preciso che le fatturazioni e i pagamenti sono coerenti con l' offerta ricevuta dall' avvocato Bianchi, ma non sono a conoscenza delle motivazioni per le quali ci ha inviato due offerte distinte, una come "Alberto Bianchi e associati studio legale" e un altro come avvocato Bianchi». In una mail trasmessa a Luca Lotti il 12 settembre 2016, Bianchi informava Lotti dei soldi ricevuti dall' azienda. Ci sono due cassette di sicurezza sequestrate a Bianchi - una presso una banca di Pistoia, l' altra a Firenze - che dovranno essere «ispezionate» per ordine dei magistrati. La documentazione già sequestrata nei suoi uffici dimostra che quando si trattava di finanziare le trasferte politiche di Renzi non si badava a spese. E così per gli incontri organizzati nel giugno 2018 a Washington è stato noleggiato un aerotaxi, mentre per la missione a San Francisco è stato trovato un appunto: «Cartellina bianca intestata Rimborsi Marco Carrai Bionic Hotel Fairmont contenente scheda denominata "Credito M.Carrai", e-mail con allegata ricevuta di pagamento dell' hotel Fairmont di San Francisco a nome di Matteo RENZI del 21 febbraio 2017». I magistrati sono convinti che Bianchi e Marco Carrai - anche lui indagato per finanziamento illecito - rappresentino le due figure chiave per la gestione dei finanziamenti proprio per i rapporti con società italiane ed estere che si intrecciano con quelli avuti con alcuni dei principali finanziatori. E infatti scrivono: «Tenuto conto delle "iniziative economiche" d' interesse investigativo la posizione di Marco Carrai può essere vista come l' anello di congiunzione tra le "compagini societarie" e la Fondazione Open. In merito si evidenzia che Fabrizio Landi, Davide Serra e Michele Pizzarotti sono risultati sia quali finanziatori della Fondazione Open che essere parti attive (soci o cariche) in societa italiane e lussemburghesi riconducibili a Carrai». Nelle prossime settimane dovranno essere tutti interrogati, ma intanto - con una nota - Carrai nega che «le risorse finanziarie della Società lussemburghese Wadi Ventures fossero utilizzate per acquisire partecipazioni in società allo stato non individuate perché ha investito in Start Up israeliane e nessuna ha mai avuto nulla a che fare né con il senatore Matteo Renzi né con la Fondazione Open».
Marco Lillo e Valeria Pacelli per il “Fatto quotidiano” il 14 dicembre 2019. Riccardo Maestrelli l'imprenditore amico di Matteo Renzi, erede della ricca famiglia fiorentina che ha prestato 700 mila euro nel giugno del 2018 all' ex premier e Agnese Landini alla vigilia dell' acquisto della loro villa di Firenze, è stato perquisito il 20 novembre 2019, su ordine dei pm fiorentini. Non per il prestito (restituito) bensì per i finanziamenti alla Fondazione Open, presieduta in passato da Alberto Bianchi. Maestrelli non è indagato ma le Fiamme Gialle lo hanno disturbato per "ricostruire i rapporti" tra Alberto Bianchi indagato per traffico di influenze e finanziamento illecito e "i finanziatori della Open". Nell' informativa della Finanza depositata il 13 novembre, una settimana prima della perquisizione, si legge che il 16 marzo 2017 a Open arrivano 150 mila euro da Egiziano Maestrelli, il patriarca morto il 10 febbraio 2018. Altri 150 mila euro sono arrivati alla Fondazione con tre bonifici il 22 e 23 febbraio 2018, alla vigilia quindi delle ultime elezioni politiche, da: "Tirrenofruit, Fondiaria Mape Srl, Framafruit Spa, società tutte riferibili a Maestrelli Riccardo", secondo i pm. I rapporti di Maestrelli con Renzi e il "Giglio magico" risalgono ad almeno una dozzina di anni fa. Nel 2008 Maestrelli organizzò una cena di finanziamento lecito per Renzi, candidato sindaco: mille euro per ogni imprenditore. I finanzieri hanno trovato nelle perquisizioni a Bianchi una piantina dei partecipanti a una cena del 15 gennaio 2016 all'Harry' s Bar, 1.610 euro di conto per una ventina di commensali, compresi i consiglieri della Open Marco Carrai, Alberto Bianchi e Maria Elena Boschi, più Luca Lotti e con loro i 'contributori' tra cui appunto il munifico Maestrelli. Nell'informativa le Fiamme Gialle raccontano anche che Maestrelli e Bianchi hanno creato a novembre del 2018 (per avere un' idea del momento storico, nel periodo in cui Renzi ha terminato la restituzione del prestito della casa) anche una società di lobby con persone del “Giglio magico” come Eleonora Chierichetti, 37 anni, già collaboratrice di Matteo Renzi ai tempi in cui era sindaco a Firenze e poi capo della segreteria particolare di Luca Lotti fino al giugno del 2018. Il 22 novembre del 2018 è stata costituita infatti la "Mediceo SAS di Eleonora Chierichetti", ora cessata. La ex segretaria di Lotti è socio accomandatario. Gli altri soci accomandanti sono appunto Alberto Bianchi e Riccardo Maestrelli più Alberto Maria Bruni, un avvocato amministrativista tra i più importanti di Firenze che fu scelto nel 2014 dal Comune di Firenze come consulente per la questione dello stadio dei terreni Mercafir. La società ha un capitale di 2 mila euro e ha sede in via Palestro 3 "presso lo studio legale Alberto Bianchi e Associati". Fonti vicine a Alberto Bianchi fanno sapere "Mediceo Sas avrebbe dovuto fare attività di consulenza e advocacy ma non ha mai operato ed è stata chiusa". Nell' oggetto sociale della Mediceo oltre a numerose attività di consulenza, "advocacy" e "servizi" anche "relazioni istituzionali per la rappresentanza di interessi particolari anche dei processi decisionali pubblici". Lobby, insomma.
Da liberoquotidiano.it il 14 dicembre 2019. Un clamoroso fuorionda di Matteo Renzi al Tg5. Un fuorionda di cui dà conto Striscia la Notizia, sottolineando come si tratti di un video vero, non di uno dei deepfake a cui il tg satirico ci ha ormai abituato. Le immagini sono state trasmesse nel corso della trasmissione di giovedì 12 dicembre. Il leader di Italia Viva si difende dalle accuse piovute per l'inchiesta sulla fondazione Open e annuncia battaglia legale contro chi, a suo giudizio, lo ha diffamato. Per esempio Marco Travaglio, direttore del Fatto Quotidiano: "Siccome sono un cittadino che ha deciso di denunciare delle persone, a cominciare da Travaglio del Fatto, mi sono rivolto proprio a quei giudici, al dottor Creazzo, chiedendo in primis perché non mi state...". Dunque Renzi si interrompe e afferma: "Stavo per dire la verità, ma non si può dire". Frase assai sospetta, soprattutto alla luce di quello che poi è andato in onda, ovvero: "Io mi fido del dottor Creazzo. A lui il compito di aprire o no una procedura per diffamazione nei confronti dI Travaglio. Figuriamoci se non mi fido di lui, aprirà sicuramente un procedimento". Ma non è tutto: nelle battute finali del servizio, ecco che arrivano da parte di Renzi giudizi assai poco lusinghieri su Alfonso Bonafede, il ministro della Giustizia, il quale "spesso quando parla non capisce di cosa sta parlando".
Ri-fuga di notizie: documenti segreti distribuiti ai giornali. Piero Sansonetti il 14 Dicembre 2019 su Il Riformista. Da giorni pubblichiamo su questo giornale cinque domande ai vertici della magistratura italiana. Che possono anche, per semplicità, essere riassunte in una sola: perché non indagate sulla fuga di notizie dalla Procura di Firenze che ha dato il “la” alla campagna di stampa contro Matteo Renzi sul caso Open? Fino a ieri nessuna risposta. Ieri una risposta davvero inquietante: una nuova fuga di notizie. Ancora più clamorosa di quelle precedenti. Se provi a raccontare all’estero una cosa così ti prendono per matto. Non ci credono. Invece è vero: cinque o sei giornali importanti (stavolta però è stato lasciato a bocca asciutta Il Fatto) hanno ricevuto le fotocopie di un po’ di materiale raccolto dalla guardia di Finanza e consegnato ai Pm. Si tratta di materiale sequestrato e dunque assolutamente segreto. Tra queste varie carte ci sono anche alcune mail inviate dal famoso Alberto Bianchi (il presidente della fondazione Open che è al centro di tutte le attenzioni della Procura fiorentina) un po’ di qua e un po’ di là. Anche a Luca Lotti e a una alta dirigente di Palazzo Chigi. Tenete conto del fatto che un documento inviato a Palazzo Chigi è ancor più riservato di tutti gli altri documenti perché in teoria potrebbe contenere segreti di Stato. Ora vi diciamo cosa c’era scritto in queste mail. Prima però non possiamo non sottolineare che è una nuova violazione del famoso articolo 326 del codice penale (da uno a tre anni di prigione). Capite qual è il messaggio? Facile facile: “Tu ci chiedi di rispondere sulla violazione del segreto? Noi non solo non ti rispondiamo, perché tanto siamo Pm e nessuno mai indagherà su di noi, ma torniamo a commettere esattamente lo stesso reato, facendoci beffe dei pochi che ci contestano. La nostra risposta istituzionale è una pernacchia”. Vi ricordate quel monumento della cinematografia italiana che fu “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” regia di Elio Petri, attore principale un gigantesco GianMaria Volonté? Beh, era un po’ la stessa storia (anche se per fortuna questa volta non viene ucciso nessuno…). Il film racconta la vicenda di un commissario di polizia che uccide una donna e poi sparge la scena del delitto di indizi contro se stesso per dimostrare che comunque lui è così potente da potersi sentire al di sopra di ogni sospetto. I magistrati sembrano rispondere alle nostre domande con lo stesso atteggiamento del commissario interpretato da Gian Maria Volontè. Dicono: “Noi siamo al di sopra della legge, e nessuno avrà il coraggio di indagare su di noi. Perciò, non solo non rispondiamo alle domande, ma torniamo a commettere, o a ignorare, lo stesso identico reato”. Naturalmente per comportarsi in questo modo occorre avere l’appoggio di un ceto giornalistico molto particolare. Come dire? Prono. Pronto ad accettare la totale subalternità ad alcune Procure in cambio di carte, informazioni, direttive, scoop. È chiaro che fare i giornalisti ricopiando le fotocopie della Procura è molto più semplice che farlo indagando, interrogando, ascoltando accusa e difesa, riscontrando, e poi persino scrivendo. E siccome è più facile, è la scelta compiuta da una fetta molto larga del nostro giornalismo giudiziario. In cosa consistono queste carte pubblicate dai giornali scelti dall’Informatore? In mail (è noto che se uno vuole commettere un reato lo scrive su una mail, così è certo che nessuno può scoprirlo…), nelle quali si chiedono vari interventi nel decreto che si chiamava “sblocca-cantieri”. Per esempio si chiede un piano per la digitalizzazione, un piano per la semplificazione burocratica, un piano contro il dissesto idrogeologico e un piano per il rilancio delle attività produttive. Beh, bisogna dire che i magistrati hanno fatto un bel colpo. Hanno scoperto che c’erano forze oscure che puntavano a trasformare il decreto sblocca cantieri in un decreto che sbloccasse i cantieri…P.S. Adesso un’ultima domanda. Perché questo affronto al buonsenso, e poi proprio ieri, e cioè il giorno dopo il discorso in Parlamento di Matteo Renzi, che ha denunciato, tra l’altro, la fuga di notizie? Lo ho chiesto a un mio amico magistrato. Mi ha risposto che c’era da aspettarselo. C’è una parte della magistratura – dice – che non è disposta a lasciar passare i gesti di ribellione della politica. E vuole farti capire che comanda lei. Tu, o ti sottometti, o ti spiano…
Da ilfattoquotidiano.it il 15 dicembre 2019. Davide Serra in una mail scritta il 14 luglio 2014 alla segreteria di Alberto Bianchi (Fondazione Open) si lamentava di una mancata onorificenza, bloccata dall’allora ministro degli Esteri (dello stesso governo Renzi) Federica Mogherini: “Farò ancora 3 versamenti poi basta –annunciava Serra –. Se ero tra chi si è sbattuto di più per avere Matteo premier agli inizi in tempi di battaglia, vedo conflitti ovunque oggi negli occhi di terzi che si vogliono fregare Matteo e ce rischio – scriveva Serra con un italiano più che incerto – che più che aiutarlo lo si danneggi. (...). Tra le altre cose sono molto felice ci sia stato solo effetto negativo pubblico per me. Pensa che ambasciatore di Londra, per mio lavoro (e donor) come chiesa italiana di Londra aveva chiesto onorificenza merito civile. Mogherini e suo staff l’ha bloccata perché ha letto noi eravamo alle Cayman. Sono conteto perché a me onorificenza frega zero, non l’ho chiesta, ma il fatto che aiutare Matteo sia negativo agli occhi del ministro degli esteri italiano mi fa solo piacere. Così LUI avrà chance di portare avanti meritocrazia pura. Altrimenti è game over. Ciao. Davide”.
Marco Lillo per il “Fatto quotidiano” il 15 dicembre 2019. La ricevuta fiscale da 1.610 euro è stata trovata dalla Guardia di Finanza durante la perquisizione dello studio dell' avvocato Alberto Bianchi a Firenze. Spillata al documento c'era la corrispondenza in mail con il commercialista Massimo Spadoni che chiedeva precisazioni a Bianchi al fine di imputare la spesa (non esosa visto il numero dei commensali) ai fini fiscali. Spadoni scriveva a Bianchi: "Come gia richiesto piu volte da Marco sulle ricevute dei ristoranti in special modo quelle di un certo importo scrivere o allegare elenco partecipanti e motivo". Bianchi allora invia a Spadoni la piantina del tavolo con i partecipanti. E così, grazie alla pignoleria del commercialista, disponiamo di uno spaccato dell' attività di fund-raising del Renzismo alla sua massima potenza. La cena è del 15 gennaio del 2016 all' Harry' s Bar di Lungarno Vespucci, fondato nel 1953, classico ed elegante. La sconfitta del referendum di dicembre 2016 era lontana e il richiamo della Fondazione Open era forte per gli imprenditori. Nella sua nota Bianchi definisce l' evento "Cena conviviale con contributori". Nessuno degli imprenditori è indagato ma la piantina è un reperto importante del 'renzismo'. Per la Fondazione Open c' erano i tre big: Bianchi, Marco Carrai e Maria Elena Boschi più l' allora sottosegretario alla presidenza del consiglio Luca Lotti e il deputato Ernesto Carbone. E poi una ventina di "contributori". La piantina piazza ai due capitavola Marco Carrai e Luca Lotti e al centro dei lati lunghi Bianchi e Boschi. C'erano i renziani della prima ora come Vito Pertosa (pugliese di Monopoli, 60 anni, titolare della Angelo Investments, fondo che investe in aziende innovative) e Luigi Pio Scordamaglia, amministratore delegato di Inalca, gruppo Cremonini ed ex presidente di Federalimentare. Secondo la Guardia di Finanza, a Pertosa "sono riconducibili contributi volontari a favore della Fondazione per complessivi 100 mila euro dal 25 ottobre 2013 al primo agosto 2014". Mentre a Luigi Scordamaglia per la Gdf "risultano collegati i contributi volontari a favore della Fondazione Open, già Big Bang erogati da Luigi Cremonini, presidente della holding Cremonini Spa, e dalla Inalca spa per un totale di 100 mila euro nel periodo che va dal 9 settembre 2013 al 18 novembre 2014". La Guardia di Finanza nelle sue informative riporta le mail del luglio 2014 nelle quali Bianchi inoltra un gentile sollecito al finanziere Davide Serra e anche a Scordamaglia e a Pertosa (tutti contributori della prima ora) per chiedere di continuare i pagamenti alla Fondazione sulla base della ottimistica tabella di marcia stilata da Bianchi: 100 mila euro all' anno in quattro comode rate da 25 mila. La cena del 2016 serviva anche a rinsaldare i vecchi rapporti magari sulla base di quell'antico impegno contenuto nella mail dell' ottobre 2013 diretta a pochi eletti come Serra, Scordamaglia e Pertosa: "Marco (Carrai, ndr) e io siamo (Bianchi, ndr) il terminale delle vostre comunicazioni a Matteo ogni volta che non fosse possibile interloquire con lui direttamente, e comunque sapete che siamo sempre a vostra disposizione".
Al tavolo quella sera nel gennaio 2016 troviamo l' armatore Vincenzo Onorato. Lui e le sue società hanno donato dal novembre del 2015 al luglio del 2016, secondo la Guardia di Finanza, 300 mila euro alla Open. Poi l' allora amministratore delegato di Nexive, ora passato a guidare il colosso dei buoni pasto Edenred, Luca Palermo. Come altri commensali dell' Harry's bar (Roberto Maretto e Pietro De Lorenzo) Palermo non risulta censito nelle informative della Finanza come contributore della Open. Poi troviamo Roberto Naldi, vicepresidente di Aeroporti di Toscana, dove Marco Carrai è presidente, nonché presidente di Corporacion America. Da ottobre 2014 a novembre 2016 le società che fanno capo a Naldi hanno donato a Open ben 100 mila euro in tutto, secondo la Gdf. A tavola quella sera c' erano due vecchi amici di Matteo Renzi, i fratelli Leonardo e Marco Bassilichi, titolari dell' omonima società e ora al vertice del gruppo Nexi, specializzato in carte di credito e servizi finanziari. Le società Karat e Bassilichi hanno donato alla Fondazione renziana dal 2012 al 2016 una somma di 100 mila euro. A cena, seduto al fianco di Maria Elena Boschi secondo la piantina, c' era anche Paolo Fresco, l' ex amministratore del gruppo Fiat, notoriamente amico di Marco e socio del fratello Stefano Carrai (presente anche lui a cena) nella società agricola Chiantishire. La GdF riporta versamenti per 50 mila euro provenienti da Fresco e dalla moglie, risalenti al settembre del 2012. Più recenti e importanti i versamenti riferibili secondo la Guardia di Finanza alla famiglia di Riccardo Maestrelli, seduto secondo la piantina dal lato di Lotti. La famiglia, secondo la Gdf ha donato a Open 300 mila euro nel 2017-2018.
C' era anche Luca Garavoglia, del gruppo Alicros-Lagfin, titolare del marchio Campari. Secondo la Gdf a lui farebbero capo le donazioni delle società del gruppo per 60 mila euro complessivi. Mentre 50 mila euro sono stati bonificati alla Open nel 2014 da Michele Pizzarotti, vice presidente della omonima grande impresa di costruzioni, presente anche lui al fianco di Lotti, secondo la piantina, alla cena. Infine c' era Gianluca Ansalone, allora dirigente della British American Tobacco (che ha donato dal 2014 al 2017 170 mila euro a Open per la Gdf) ora a capo delle relazioni pubbliche di Novartis.
Da ilfattoquotidiano.it il 16 dicembre 2019. “Volo privato MR per accettazione fondazione Open”. Tra le 5mila pagine depositate dai pm di Firenze c’è anche una cartellina con questa denominazione. Gli uomini della Guardia di finanza hanno trovato i documenti di quel volo che Matteo Renzi, senatore semplice del Pd, prese il 5 giugno 2018 per andare negli Usa. Un volo privato – come aveva scritto La Verità che oggi riprende il filo di quell’inchiesta – su cui viaggiavano anche due guardie del corpo e il segretario particolare Benedetto Zacchiroli. La missione americana era lampo: parlare poco più di due minuti, pare siano stati 143 secondi, sul palco dell’anfiteatro del cimitero militare di Arlington per la celebrazione del 50° anniversario della morte di Bob Kennedy. Per raggiungere Washington l’ex premier ed ex segretario del Pd aveva usato un Dassault Falcon 900 bianco, messo a disposizione dalla “Leader” di Ciampino, compagnia esclusiva di “Luxury airtaxi”. “Un servizio di lusso del valore stimato – ha riportato in quotidiano – tra gli 85mila e i 150mila euro“. Spese coperte dalla fondazione Open attraverso le donazioni dei suoi generosi finanziatori. I documenti sequestrati negli uffici di Alberto Bianchi, avvocato ed ex presidente della Fondazione Open, sembrano dimostrare che quando si trattava di finanziare le trasferte politiche di Renzi non si badava tanto alle spese. Anche per il viaggio di lavoro a San Francisco è stato trovato un appunto: “Cartellina bianca intestata Rimborsi Marco Carrai Bionic Hotel Fairmont contenente scheda denominata ‘Credito M.Carrai’, e-mail con allegata ricevuta di pagamento dell’hotel Fairmont di San Francisco a nome di Matteo RENZI del 21 febbraio 2017”. Gli elenchi dei rimborsi sono lunghi e riguardano anche l’entourage: biglietti di treni e aerei e anche una fattura Ikea. C’è pure un anticipo, secondo quanto riporta La Verità, “all’avvocato Boschi 679 euro” “da rimborsare”. Lunedì 16 dicembre si terrà l’udienza davanti ai giudici del Riesame degli indagati Alberto Bianchi, avvocato ed ex presidente dell’associazione Open, e dell’imprenditore Marco Carrai, consigliere dell’ente e amico di infanzia di Renzi. Chiedono il dissequestro dei documenti acquisiti durante le perquisizioni ordinate dai pm.
Malta, tutti gli amici di Matteo Renzi. Mentre il premier maltese Muscat è travolto dalle polemiche per l'omicidio di Daphne Caurana ecco la rete di contatti di Renzi sull'isola. Fausto Biloslavo il 16 dicembre 2019 su Panorama. Il 29 maggio 2017, cinque mesi prima di venire uccisa, la giornalista investigative Daphne Caruana Galizia postava sul suo blog, spina nel fianco del malaffare politico a Malta, una foto simbolica. L’ex premier Matteo Renzi assieme al primo ministro maltese Joseph Muscat e a Chris Cardona, numero due del partito laburista nell’isola, alla sua destra. A sinistra la moglie di Muscat, Michelle e Sandro Gozi, fedelissimo di Renzi, che fino al 2018 era sottosegretario di Palazzo Chigi con delega agli Affari europei. Tutti sorridenti e rilassati a testimonianza di un rapporto molto amichevole. Muscat e Cardona, ministro di lungo corso, sono oggi nella bufera per le rivelazioni delle ultime settimane e l’arresto dell’imprenditore Yorgen Fenech che ha pagato circa 350 mila euro per l’omicidio della giornalista fatta saltare in aria il 16 ottobre 2017. Il premier ha promesso di dimettersi il 12 gennaio 2020. Cardona, autosospeso dalla carica di ministro dell’Economia, è stato poi riconfermato. Lo stesso giorno del 2017, il 29 maggio, Daphne postava un titolo sorprendente sul suo blog: «Il fattore comune fra Blair, Renzi e Muscat: il gasdotto dell’Azerbaigian». L’ex premier Tony Blair ha lavorato come consulente di Baku sul grande progetto delle pipeline che stanno per portare il gas azero in Puglia. Non solo: a Renzi e Muscat sta a cuore un altro gasdotto fra la Sicilia e Malta, che dovrebbe pompare gas azero.
Yorgen Fenech, imprenditore miliardario, è stato arrestato il 20 novembre mentre cercava di scappare via mare verso l’Italia. Il personaggio, accusato di avere commissionato l’omicidio di Daphne, aveva pesantemente investito nel settore energetico dell’isola. E si sospetta abbia pagato mazzette ai politici locali.
QUELLA VISITA A FIRENZE. Le amicizie imbarazzanti di Renzi a Malta sono ancora più evidenti nel video di Palazzo Chigi sulla visita a Palazzo Vecchio a Firenze del 6 maggio 2016. Il breve filmato viene postato sempre da Daphne sul suo blog corrosivo. L’allora premier italiano fa da cicerone a Muscat nei saloni del palazzo storico accompagnato da un codazzo di maltesi. Fra i presenti, un po’ defilato, c’è Keith Schembri, il capo di gabinetto dal 2013 di Muscat e sodale dell’imprenditore che ha pagato i killer di Daphne. La famiglia della giornalista lo accusa di essere il vero mandante. Il loro legale Jason Azzopardi, parlamentare dell’opposizione di centro destra, ha scritto su Facebook il 27 novembre: «Keith Schembri è una delle menti criminali nell’assassinio di Daphne». L’imprenditore Fenech nelle deposizioni in aula dello scorso 5 dicembre ha dichiarato: «Schembri mi disse: attento a chi coinvolgi» riferendosi all’omicidio eccellente. Il capo di gabinetto ha rassegnato le dimissioni ed è stato arrestato per breve tempo, ma poi, stranamente, rilasciato in attesa degli sviluppi dell’inchiesta. Matthew, figlio della giornalista assassinata, dopo l’omicidio ha sempre puntato il dito contro «Joseph Muscat, Keith Schembri, Chris Cardona, Konrad Mizzi (a lungo ministro e oggi parlamentare laburista, ndr) che non hanno agito: siete complici. Siete responsabili di questo». E nel filmato, davanti a Gozi sorridente, c’è Kurt Farrugia, l’allora capo della comunicazione del premier maltese, che aveva accompagnato Muscat, Schembri e Mizzi nella visita segreta a Baku, dove i maltesi hanno stretto accordi energetici molto discussi con gli azeri, finiti sul blog di Daphne perché puzzano di tangenti.
ACCORDO SEGRETO SUI MIGRANTI? «Daphne Caruana Galizia è stata uccisa per impedirle di rivelare la corruzione che coinvolge l’ufficio di Joseph Muscat. Ora si scopre che il suo ufficio è implicato nell’omicidio e negli sforzi intrinsecamente collegati per insabbiare il caso e ostacolare la giustizia» denuncia senza mezzi termini a Panorama David Casa, veterano maltese dell’Europarlamento, che conosce bene i rapporti con l’Italia. Sulle relazioni molto strette con Renzi non ha dubbi: «Qualunque cosa Muscat abbia toccato, qualsiasi relazione abbia avuto, solleva giustificati sospetti e dovrebbe essere esaminata attentamente». Corinne Vella, sorella della giornalista uccisa, spiega a Panorama che sui rapporti con il nostro Paese «c’è qualcosa che ancora non conosciamo. Perché l’Italia ha accettato più volte l’arrivo dei migranti anche quando si trovavano nella zona di ricerca e soccorso maltesi? Chiaramente esisteva un accordo fra Muscat e Renzi, ma era segreto e noi, l’opinione pubblica, non sappiamo cosa sia stato concesso in cambio». Renzi e Muscat hanno smentito ripetutamente qualsiasi patto sui migranti, ma il rapporto fra i due è sempre stato d’acciaio, come dimostra quest’inchiesta di Panorama. Fra imbarazzi e ripensamenti Muscat il 6 dicembre era atteso a Roma, per parlare proprio sulla gestione dei flussi migratori su invito del centro studi Ispi ai «Mediterranean dialogues». I lavori sono stati aperti dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio e l’iniziativa ha il patrocinio di Palazzo Chigi. Antonio Tajani, numero due di Forza Italia, era stato invitato come presidente del Parlamento europeo al funerale di Daphne e si è sempre battuto per fare luce sul caso. «I rapporti politici erano strettissimi» spiega Tajani «a tal punto che Renzi ha sempre spinto Muscat verso la presidenza del Consiglio europeo», che definisce l’agenda della Ue. Renzi risulta l’alleato internazionale che più si è speso per Muscat, tanto che la stampa filogovernativa dell’isola l’ha definito «l’amico di Malta». All’inizio di quest’anno, quando sul potere maltese già si stavano addensando le nubi dell’omicidio della giornalista, l’ex segretario del Pd prendeva Muscat come esempio. In un tweet del 10 gennaio cinguettava: «L’uomo che ha risolto la vicenda dei migranti è un premier, ma non è Conte. Tifa Milan, ma non è Salvini. Parla italiano, infatti non è Di Maio. Si chiama @JosephMuscat_JM ed è il premier di Malta. Non a caso Salvini lo attacca: perché sa che Muscat è un leader, non come lui». Visto come si stanno mettendo le cose per i vertici dell’isola, l’ex presidente del Consiglio avrebbe dovuto avere maggior prudenza. Renzi ha addirittura partecipato ai comizi di Muscat a Malta. Il 28 maggio 2017, pochi mesi prima dell’omicidio di Daphne, l’attuale leader di Italia viva era sull’isola davanti a una folla di sostenitori del Partito laburista. Dal palco del comizio ribadiva: «Joseph Muscat era, è e rimarrà mio amico. C’è ancora molto da fare e dobbiamo farlo qui a Malta. L’Europa è la più grande sfida degli ultimi 60 anni ma ha bisogno (…) dei valori di Malta e dell’Italia».
Tutti vogliono IL SOTTOSEGRETARIO. L’uomo di Renzi che ha continuato a lavorare per Muscat fino a oggi è Sandro Gozi. Dal 2014 con il governo dell’amico Matteo al 1° giugno 2018 con Paolo Gentiloni ha ricoperto l’incarico di sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega agli Affari europei. Un mese dopo è stato assunto come consulente, non meglio specificato, nell’ufficio del premier maltese Muscat. Alla faccia dell’opportunità e di eventuali conflitti d’interessi dovuti al suo delicato ruolo. Il bubbone è esploso a fine ottobre scorso quando il quotidiano Le Monde ha rivelato il contratto di consulenza maltese di Gozi, che lavorava pure per il governo francese. L’uomo di Renzi afferma che aveva concluso il rapporto con i maltesi a giugno per non sovrapporlo con il nuovo incarico in Francia. E appena un mese prima delle rivelazioni sull’omicidio di Daphne, che stanno travolgendo Muscat e i suoi, sosteneva di non avere curato «l’immagine del governo maltese che, secondo me, è molto stimato come un Paese stabile e di successo». Gozi comunque cade in piedi essendo stato eletto nella lista del presidente francese, Emmanuel Macron, come europarlamentare che dovrebbe sostituire gli inglesi una volta concluso il percorso della Brexit. Ma che cosa faceva a Malta e a quali condizioni economiche? Si occupava del dossier migranti con Bruxelles o di quello energetico? Di sicuro era da tempo buon amico del potere laburista nell’isola. Il 13 dicembre 2016, sette mesi dopo la visita a Firenze immortalata dal video con personaggi che risulteranno coinvolti nel caso della giornalista assassinata, Gozi era stato insignito dell’Ordine nazionale al merito della Repubblica di Malta. Pur lavorando come sottosegretario del governo italiano, aveva ricevuto l’importante onorificenza per «avere contribuito a identificare le politiche e le priorità per la presidenza del Consiglio dell’Unione europea di Malta», assunta dall’isola il 1° gennaio 2017. Priorità nel campo energetico già coltivate dal governo Renzi.
UN GASDOTTO DA MALTA ALLA SICILIA. Il 9 aprile 2015, poco più di un anno dopo l’insediamento a Palazzo Chigi, Renzi volava a Malta a inaugurare l’elettrodotto che collega l’isola alla Sicilia. «È costato 200 milioni di euro e 100 milioni erano a carico del bilancio europeo. Dal punto di vista energetico un chiaro favore ai maltesi» spiega una fonte che lavora nel settore. All’inaugurazione Muscat e Mizzi, ministro dell’Energia, entrambi presi di mira dal blog di Daphne, annunciavano che la cooperazione con l’Italia nel settore energetico era solo all’inizio e prevedeva la costruzione di un gasdotto con studi preliminari «già in fase avanzata». Un progetto di 159 chilometri di tubi sottomarini da 400 milioni di euro, in parte finanziati dall’Unione europea, da Delimara, l’hub energetico maltese, a Gela in Sicilia. Nel luglio di quest’anno è stato siglato l’accordo per il gasdotto che verrà completato nel 2024, anche se in agosto sono stati richiesti ulteriori studi sull’impatto ambientale. Fin dai tempi di Renzi si era deciso che dall’Italia pomperemo il gas verso Malta grazie alle forniture azere del Tap (gasdotto trans Adriatico), che nel 2020 arriverà in Puglia. «Il gasdotto servirà ad alimentare la nuova centrale turbo gas di Delimara, che produrrà elettricità da esportare anche nel nostro Paese. E questo, pur non avendone noi bisogno... L’intera operazione non nasce sul mercato, ma è stata organizzata a livello politico e vale 1 miliardo e 200 milioni di euro» spiega la fonte di Panorama.
Trasferimenti di denaro sospetti. Il problema è che attorno al settore energetico a Malta circolano pesanti accuse di corruzione, a partire dagli accordi di Muscat con gli azeri. «Lo scandalo della corruzione al centro dell’omicidio di Daphne riguarda l’acquisto di gas naturale liquefatto attraverso l’Azerbaijan nonostante fosse completamente inutile e abbia pesato per decine di milioni di euro sui contribuenti maltesi» denuncia Casa, l’europarlamentare di centrodestra dell’isola. «I pagamenti sospetti furono trasferiti dall’Azerbaigian alla compagnia di Fenech, l’uomo accusato di avere cospirato per assassinare la giornalista. Fenech avrebbe quindi trasferito fondi a Schembri, capo di gabinetto di Muscat e all’allora ministro dell’Energia Mizzi». I diretti interessati parlano di regolari pagamenti, ma sono gli stessi uomini coinvolti nei progetti energetici con gli italiani. Non solo: Fenech, quando sono scattate le manette, ha dovuto dimettersi da direttore dell’Electogras, la società che controlla gli impianti di Delimara con la tedesca Siemens e gli azeri di Socar. Prima del suo omicidio Daphne Caruana Galizia aveva ricevuto 680 mila documenti di Electrogas, che non ha fatto in tempo ad analizzare. La montagna di carte celerebbe il bandolo dello scandalo azero e forse riguarda anche i progetti energetici con l’Italia. Arresti e rivelazioni di questi giorni sull’omicidio della giornalista maltese stanno portando alla luce il marcio della politica sull’isola, basata sul sistema di potere di Muscat e dei suoi collaboratori. Molti personaggi che sono stati in sodalizio politico con Matteo Renzi.
Caso Open: scelti i colpevoli ora i Pm cercano un reato. Piero Sansonetti il 18 Dicembre 2019 su Il Riformista. I giornali ufficiosi delle Procure, o almeno i due principali (parlo del Fatto e della Verità, quotidiani gemelli) riportano una notizia molto interessante, che era stata (in parte) diffusa l’altra sera dall’Ansa. Dicono che gli inquirenti stanno lavorando sui computer e i cellulari (soprattutto sulle mail e sui whatsapp) sequestrati nel blitz compiuto il 26 novembre scorso da alcune centinaia di agenti della guardia di Finanza nell’operazione “Open”, cioè nella caccia ai finanziatori di Renzi. E stanno compiendo questo lavoro attraverso l’uso di alcune parole chiave. Pare che le parole chiave siano quattro: Boschi, Lotti, Carbone e Gori. Che poi sarebbero i cognomi dei parlamentari Maria Elena Boschi e Luca Lotti, dell’ex parlamentare Ernesto Carbone e di Giorgio Gori sindaco di Bergamo. Non sto scherzando: c’è scritto così negli articoli di Verità e Fatto e data l’attendibilità delle loro fonti e le probabili verifiche della notizia, non c’è da dubitare che sia vero. Nessuna di queste quattro persone è indagata. Perché? Perché al momento non esiste nessun reato da contestare. Gli inquirenti per ora sanno solo che queste quattro persone sono colpevoli, ma non sanno ancora di quale reato, e quindi usano i nomi dei colpevoli per risalire a un eventuale reato. Proprio l’altra sera ho incontrato Antonio Di Pietro, che non è il capo di un movimento garantista o libertario ma è un ex magistrato e precisamente la punta di diamante di quel pool milanese (del quale, per dire, Piercamillo Davigo era solo il giovane apprendista) che mise a ferro e fuoco prima Milano e poi tutt’Italia, 25 anni fa, e, attraverso l’inchiesta “Mani Pulite”, rase al suolo la prima Repubblica e tutti i partiti che l’avevano costruita (si salvò, in parte, il solo ex Pci). Mi diceva Di Pietro: la gran parte dei magistrati sono bravissime persone, poi, certo, c’è sempre il gaglioffo anche tra i magistrati, come in tutte le categorie di lavoratori. Gli ho chiesto: e chi sarebbero i gaglioffi? Mi ha risposto: quelli che invece di cercare i reati cercano i colpevoli. Cioè?, gli ho chiesto. Mi ha spiegato che il magistrato deve essere come il becchino, che interviene solo dopo la morte di una persona. Mi ha detto che il magistrato deve intervenire solo dopo che il reato è stato commesso, accertare che esista il reato, quale reato sia, e poi cercare i colpevoli, gli indizi e le prove. Gli ho chiesto se mi poteva dire i nomi dei magistrati gaglioffi. Naturalmente ha sorriso e taciuto. Però mi pare chiaro il suo pensiero: i magistrati gaglioffi sono quelli che invece dei reati cercano i colpevoli a prescindere. E cioè, invece di amministrare la giustizia, fanno lotta politica usando la potenza devastante che gli viene dal proprio ruolo di magistrato. Per colpire i nemici. Questo modo di fare indagini, che ovviamente è del tutto in contrasto sia con l’etica professionale sia con la stessa legge, gli avvocati lo chiamano la “pesca a strascico”. In genere si usa con le intercettazioni. In quel caso si cerca un reato pilota (dico reato pilota con riferimento al pesce pilota), si usa il reato per attivare le intercettazioni, che a volte durano mesi, o anche anni, e si spera che prima o poi, al telefono (o al trojan) il candidato colpevole confessi qualche malefatta. In questo caso, cioè nel caso di Open (coi nomi dei nemici trasformati in parole chiave per cercare il reato), si va molto oltre la pesca a strascico. Diciamo che esistono in modo evidente i termini per parlare di persecuzione giudiziaria. Siccome, come dicevamo, questo, modo di lavorare è in contrasto aperto col codice di procedura, ci viene da chiedere al ministro della Giustizia se per caso gli scappasse l’idea di mandare qualche ispettore per vedere se è vero che gli inquirenti hanno messo in moto questa indagine, o se è una calunnia dell’Ansa e dei giornali. Speriamo che sia una calunnia dei giornali e dell’Ansa, perché altrimenti ci sarebbe davvero da aver paura.
Fabrizio Roncone per il Corriere della Sera il 18 dicembre 2019. All’inizio, come sempre: mezza frase ascoltata per caso, uno sguardo turbato, un indizio. (Montecitorio, ore 14.30 di lunedì 2 dicembre. Buvette. Solita ciofèca di caffè. Il premier Giuseppe Conte ha appena finito di riferire sulla vicenda del Mes. Due deputate — una del Pd e una di Italia viva — parlano a voce bassa, ma non abbastanza bassa. «Sai una cosa? Penso proprio di avere sbagliato ad andarmene», dice quella di Iv. «Sei pentita?», la incalza quella del Pd. «Pentita? Di più. Tornerei domani». «Beh… è un’operazione delicata, ma se ne può cominciare a parlare, no?». Poi quella del Pd si volta, si è accorta di essere stata ascoltata, dice: «Se scrive mezza riga, noi la smentiamo»). Però l’indizio c’è, la pista è buona. Telefonate, riscontri (l’ultimo, nel backstage di un talk): sì, alcuni parlamentari di Italia viva, il partito fondato da Matteo Renzi tre mesi fa, cominciano ad avere il forte dubbio di avere sbagliato a lasciare il Partito democratico — sebbene a settembre le decisioni furono già sofferte, e nessuno, ad esempio, dimentica le lacrime e i singhiozzi di Raffaella Paita, al termine di una riunione in commissione Trasporti. I discorsi sono questi: «Abbiamo sondaggi inchiodati lì: tra un 3,8% e un 5,6%. E non ci vuole la Ghisleri per capire che il partito purtroppo stenta, non decolla, e che se si votasse domani, beh, molti di noi rischierebbero di non essere rieletti» (un deputato, in un salotto romano).Chiacchiere imprudenti in un miscuglio di stupore e delusione, ansia, preoccupazione: però tutto coincide con la cronaca parlamentare delle ultime ore. Renzi, sulla grande questione della riforma elettorale, boccia infatti l’ipotesi di un modello «spagnolo», aprendo invece a un «proporzionale» con soglia di sbarramento ad un bassissimo, prudente, eloquente 3%. E non solo: quasi nelle stesse ore, dalle parti di Forza Italia vengono annunciati movimenti importanti che però non spostano forze fresche su Italia viva. Paolo Romani spiega che, con dodici senatori e venti deputati, è pronto ad andarsene, ma nel gruppo misto; Mara Carfagna fonda una robusta e potente associazione di 25 parlamentari, ma decide di restare con i forzisti (della serie: se dobbiamo provarci, tanto vale provarci da soli, con il nostro 3%). Ai parlamentari di Italia viva sono venute le vertigini. Le stesse che parecchi di loro provano anche ogni mattina quando iniziano la lettura dei quotidiani. Le vicende giudiziarie legate ai finanziamenti della fondazione Open ormai giornalmente si arricchiscono di nuovi dettagli; quanto invece alle feroci polemiche esplose sul giro di prestiti con cui Renzi è riuscito a comprarsi la villa di Firenze: interpellati, molti parlamentari di Italia viva in genere si limitano ad allargare le braccia, sospirano, scuotono la testa, vanno via. Ma una di loro, Lisa Noja, considerata una delle migliori parlamentari della Repubblica, l’altro giorno è andata su Twitter e ha cinguettato. «Pubblicare le foto della casa di @corradoformigli con attacchi e commenti aggressivi, senza ritegno per la sua privacy e quella della sua famiglia, violati nel loro diritto di vivere sereni tranquilli, è davvero una porcheria. Tutta la mia solidarietà a lui e alla sua famiglia». Un colpo duro: schierarsi con Formigli, e ignorare Renzi, che aveva cercato di paragonare il suo caso a quello del conduttore de La7. La guardia fidata del capo s’è infuriata. Toni accesi. Sempre più frequenti. Perché poi, nel partito, c’è disagio anche su altri fronti. Su quello organizzativo — mancano segretarie, addetti stampa, impiegati: molti erano abituati alle formidabili strutture che il Pd ha ereditato dal Pci — risponde Giacomo Portas, gran capo dei «Moderati» di Torino: «Non sono i sondaggi a preoccuparmi… il problema è che non abbiamo ancora capito Renzi cos’ha in testa. Vuole un partito leggero o strutturato sul territorio? Pensa a un partito del web? Io, per dire, non credo ai partiti televisivi. Spero che anche Renzi si ricordi di Fini: stava sempre in tivù, ma poi conosciamo bene la tragica conclusione dell’esperienza di Futuro e Libertà». Appunto, la tivù. C’è chi contesta: ci vanno sempre lui, cioè il capo, o Maria Elena Boschi. Qualche volta, Marattin e la Bellanova. «Lo so: c’è chi si lamenta. Ma nei talk vanno quelli capaci. Chi ha qualcosa da dire» (Ecco Michele Anzaldi, guru della politica in tivù, e autorevole monaco renziano). Però il clima nel partito è pessimo. «Guardi: se qualcuno ha lasciato il Pd pensando di venire qui per poter diventare un divetto televisivo o, peggio, per essere sicuramente rieletto, ha sbagliato i calcoli...». Eppure c’è chi ha ragionato così.«Mi spiace: ma chi è entrato in Italia viva per pura convenienza non ha capito niente. In un partito piccolo e nuovo devi sudarti tutto, devi metterti in gioco, e studiare, proporre, rischiare…». Dicono anche: Renzi c’è poco fisicamente e, quando c’è, talvolta ha modi un po’ ruvidi. «Senta: Renzi non ha una o due o tre marce in più. Renzi ha quattro marce in più. È il più bravo politico italiano. Detto questo…». Prosegua.«Beh, un problema ce l’ha pure lui: non sa fare squadra. E su questo, ecco, dovrebbe lavorare un pochino» (Vediamo: come è noto, Renzi è uno che i consigli li accetta sempre di buon grado).
Marattin: "Non fate il funerale al renzismo". Parla l'economista di Italia Viva che, sull'inchiesta "Open", la ex fondazione di Renzi, dice: "Ho fiducia nei magistrati". Carlo Puca il 10 dicembre 2019 su Panorama. Diretto, sfacciato, irriverente, è il front-man televisivo di Italia viva, il partito appena fondato da Matteo Renzi. E ha fama, se non di «cattivo» di signor no, un po’ primo della classe. Con Panorama, però, Luigi Marattin oltre alla politica si lascia andare ai sentimenti. E senza mai imporsi con prepotenza. Un fatto che, di per sé, già costituisce notizia.
Marattin, lei è nato a Napoli ma poi ha girovagato tra Brindisi e Ferrara.
«Mio padre Stefano è un ingegnere chimico in pensione. Mia madre Gilda, come si usava al tempo, seguiva papà nelle varie sedi che la Montedison gli assegnava» .
Napoli è capitata tra gli spostamenti.
«L’unico pianificato dai miei genitori. Vivevano a Brindisi ma hanno voluto a tutti i costi che nascessi sotto il Vesuvio» .
E perché?
«Sono entrambi partenopei» .
Marattin non è un cognome propriamente di quelle parti.
«Mio nonno era veneto, arruolato in Marina e di stanza a Napoli, dove portò tutta la sua famiglia. Morì ucciso in guerra, papà aveva pochi mesi di vita» .
Che anno era?
«Il 1943. Ma posso dirle anche il giorno, il 21 giugno, quello in cui si celebra San Luigi. Mi chiamo così per onorare quel nonno» .
Lei è figlio unico.
«Esatto» .
I figli unici o sono troppo fragili o troppo sicuri di sé.
«O entrambe le cose, come tutti» .
Però il suo decisionismo piace alle donne, anche a quelle che stanno davanti alla tv. Lei è tra gli ospiti più richiesti dai talk.
«Spero per quanto dico. E poi non ho occhi che per Gloria, la mia fidanzata» .
Visto che ci siamo, le faccio una domanda che può imbarazzarla.
«Sono pronto» .
Maria Elena Boschi ha appena ammesso di aver segretamente coltivato per anni una storia d’amore. La voce di popolo sostiene che il suo uomo misterioso sia lei.
«So che questa storiella circola da tempo» .
Se vuole non ne parliamo.
«No, anzi facciamo chiarezza una volta per tutte. Maria Elena è la mia migliore amica. Punto. Le chiacchiere su di noi sono fandonie. Come se ancora oggi non fosse concepibile l’amicizia tra un uomo e una donna. Incredibile» .
Tuttavia lei sa chi è il suddetto uomo misterioso.
«Potrei conoscerlo, sì» .
Come si fa a estorcerle il suo nome?
«Altre domande?»
Ha 40 anni. I suoi genitori non le chiedono un nipotino?
«Beh, la prima volta è stata quando avevo 15 anni d’età» .
Vogliamo accontentarli?
«Diamo tempo al tempo. Io e Gloria stiamo bene assieme da anni. Poi chissà. Di sicuro lei riesce a tenermi testa come nessun altro» .
Non patisce nemmeno alcuni indomabili leghisti come Claudio Borghi?
«Con tutto il rispetto, quando si parla di economia non temo nessuno» .
E per questo si fa sentire. Il giornalista Alessandro Giuli l’ha definita «un picchiatore mediatico».
«Ho fatto a botte una sola volta, per difendere una ragazza all’Erasmus, e mi è bastato. Però sì, se sulla mia strada trovo un cialtrone, mi accaloro. Ma è vero pure che mi piace avere buoni rapporti con tutti, Borghi compreso» .
Con i Cinque stelle non mi risultano rapporti così civili.
«In effetti da alcuni di loro potrei essere smentito. È la ragione per la quale non sono entrato nel governo, siamo troppo diversi. Né dimentico le frasi di Luigi Di Maio su Bibbiano, ancora mi feriscono» .
Lei è social-dipendente.
«Così dice la mia fidanzata» .
Ma vuole anche obbligare le persone a fornire un documento per aprire un profilo sui social network.
«Il web sta diventando una fogna dove si distorce la democrazia. E mentre i giornalisti pagano per i loro errori, peraltro spesso involontari, i cattivi utenti di internet no. Perché?»
Pure lei è stato un cattivo utente, in passato ha offeso Nichi Vendola e la Lega.
«Non ho nulla da farmi perdonare, quelle due frasi sono state estrapolate dal contesto» .
A proposito di contesto. I leader dei principali partiti italiani non sono laureati. Chi è fuori luogo, lei o loro?
«Io nasco economista, mi sono formato tra Italia, Regno Unito e Stati Uniti. Dal 2008 sono ricercatore a tempo indeterminato all’Università di Bologna dopo aver superato un concorso durissimo. Se sono in politica è solo per le mie competenze. Devo però riconoscere che in Italia non esiste una scuola di formazione per i leader di partito. Lo si diventa in base ad altri canoni, che rispetto profondamente» .
È sincero?
«Assolutamente sì. Anche se credo che all’Italia servirebbero le scuole politiche che la Prima Repubblica coltivava» .
Quella Repubblica è caduta su Tangentopoli. Anche i renziani rischiano di sparire per le inchieste della magistratura?
«Proprio no, state tentando di celebrare il funerale a gente ancora molto viva» .
Lei che idea si è fatto sulla Fondazione Open?
«La premessa è che personalmente con Open non c’entro nulla. Lo specifico per chiarire che non conosco nel profondo le ragioni della difesa. Però due cose voglio dirle» .
Prego.
«La prima è che la magistratura deve fare il proprio lavoro. Tuttavia, finché non c’è una sentenza inviterei tutti a rimanere calmi» .
La seconda?
«Da quanto ho letto e capito, siamo davanti a finanziamenti tracciati, in chiaro, non occultati. L’accusa è che i finanziatori avrebbero ottenuto dei vantaggi da norme di carattere generale. Mi pare un impianto accusatorio pericoloso per la democrazia. Chi stabilisce se una legge è buona o cattiva per tutti? Ancora gli elettori, mi pare» .
Ecco, parliamo di elettori. Alle Politiche del 2018 hanno punito duramente il Pd comandato da voi renziani. Che cosa avete sbagliato?
«Il Paese era pieno di cicatrici economiche e sociali. Quanto all’immigrazione, l’ottimo Marco Minniti è arrivato al Viminale troppo tardi. Insomma, dovevamo essere più prudenti nel dire che in Italia stava andando tutto bene. La crisi finanziaria era stata superata, i problemi della gente no» .
Dal 2014 al 2018 è stato consigliere economico prima di Renzi e poi di Paolo Gentiloni. Differenze tra i due?
«Paolo è meno dinamico ma più metodico, per esempio ha composto uno staff esemplare, guidato da Antonio Funiciello. Con Matteo il metodo te lo puoi scordare, però è coraggioso come pochi, è famoso nel mondo per il suo estro» .
Un paragone calcistico?
«Gentiloni è un regista alla Andrea Pirlo, Renzi un fantasista come Diego Armando Maradona» .
Maradona ha avuto carriera breve.
«Ma no, all’epoca le carriere duravano meno di adesso. E comunque un leader crolla soltanto quando arriva un altro a sostituirlo. Non mi pare che nel fronte anti-sovranista ci sia uno più bravo di Matteo» .
Sarà contento Nicola Zingaretti.
«Zingaretti nemmeno ci tiene: ha vinto il congresso affermando il principio di un Pd senza leader» .
Intanto, Italia viva è inchiodata al 5 per cento.
«Mi sono ripromesso di non guardare i sondaggi almeno fino all’autunno del 2020. Siamo una start-up, i bilanci si fanno dopo anni. D’altronde anche Lega, Fratelli d’Italia e Cinque stelle si sono consolidati nel medio periodo» .
Lei è ottimista. Ma come si immagina la sua vita senza parlamento?
«La politica è una passione, l’ho cominciata al liceo e praticata già da giovane. Ma non è il mio lavoro. L’insegnamento mi manca e poi c’è la vita privata negata mentre ho la priorità di costruire il futuro insieme a Gloria. Mi mancano persino i miei amici inseparabili dai tempi del liceo, Buzzo e Mezzo» .
Il suo soprannome?
«Gigi, a Ferrara mi chiamano tutti così» .
E Gloria come la chiama?
«Se permette, questo lo tengo per me...»
Casa Renzi, le nuove carte di Bankitalia: «Il prestito restituito grazie a Lucio Presta». Il leader di Italia Viva ha detto che i 700 mila euro furono restituiti appena «perfezionata la vendita della vecchia villa». Ma le date non tornano. L’antiriciclaggio ha analizzato i bonifici tra il senatore e l'agente delle star. Per Renzi mezzo milione per il documentario su Firenze. Ma Discovery lo ha comprato per meno di 20 mila euro. L'impresario televisivo: «Troppi soldi a Matteo? Se lo volevo, dovevo trattare». Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian il 19 dicembre 2019 su L'Espresso. Matteo Renzi ha detto che il prestito da 700 mila euro necessario all’acquisto della sua nuova villa a Firenze l’ha rimborsato appena «perfezionata» la vendita della vecchia casa di Pontassieve. Un’affermazione fasulla, visto che la casa - si scopre ora - è stata venduta solo nel maggio del 2019. Il senatore di Italia Viva - come dimostra una nuova informativa della Uif - è riuscito a pagare il suo debito grazie a circa mezzo milione di euro giratogli da Lucio Presta. L’agente delle star ha dato a Renzi il mega compenso per il documentario “Firenze secondo me” (di cui il politico era autore e conduttore) tra settembre e novembre 2018. Una somma completamente fuori mercato: l’Espresso ha scoperto che Discovery Italia, l’unica emittente che ha mandato in onda il programma, ha infatti versato a Presta per la messa in onda del documentario meno di 20 mila euro. Come mai la Arcobaleno Tre ha dato all’ex premier un compenso così alto? L'ex segretario del Pd, ora Italia Viva, secondo i documenti consultati da L'Espresso ha acquistato la nuova casa a Firenze anche grazie ai soldi ricevuti dalla madre dell'imprenditore Riccardo Maestrelli. Un generoso finanziatore della fondazione renziana. Renzi replica: «Ho restituito tutto, denuncerò L’Espresso per violazione del segreto bancario».
Partiamo dalla fine. Dopo la pubblicazione dell’inchiesta del nostro settimanale che ha svelato come l’ex democrat abbia comprato una villa da 1,3 milioni di euro grazie al prestito arrivato da una società del finanziatore della Fondazione Open Riccardo Maestrelli, Renzi prima ha spiegato che nell’operazione finita nel mirino dell’antiriciclaggio di Bankitalia «non c’è nulla di illegale». Poi è entrato nel merito. Ha negato conflitti d’interessi o deficit di etica politica, senza però chiarire come mai il prestito a tasso zero sia stato “schermato” dalla Pida (società di Maestrelli, nel 2015 piazzato in Cassa Depositi e Prestiti Immobiliare) attraverso il conto dell’anziana madre Anna Picchioni. E ha infine dichiarato di aver restituito la somma in soli pochi mesi. Ma come ha fatto, dal momento che lui stesso aveva mostrato in tv, prima di comprare casa nel giugno 2018, un conto corrente di appena 15 mila euro? La prima versione di Renzi è arrivata, a chi vi scrive, il 27 novembre. Se inizialmente Renzi aveva rifiutato di rispondere alle nostre domande, dopo la pubblicazione online dell’articolo ci ha detto che il prestito era stato restituito nel tempo necessario «a ricevere i soldi delle conferenze». Lo stesso giorno, durante una conferenza stampa, aveva dichiarato di aver guadagnato nel 2018 ben 830 mila euro grazie alle sue attività extraparlamentari. Il giorno dopo, in un post su Facebook, Renzi ha aggiunto una spiegazione supplementare: il bonifico proveniente dalla Picchioni sarebbe stato di fatto un prestito ponte, rimborsato appena «perfezionata» la vendita della «vecchia casa di Pontassieve, ceduta per 830 mila euro». Una versione dei fatti ribadita anche a Raidue, e successivamente negli studi di Massimo Giletti e di Corrado Formigli. Incrociando le carte del catasto, e analizzando nuovi documenti inediti dell’antiriciclaggio di Bankitalia, si scopre, però, che Renzi è riuscito a restituire il prestito alla madre di Maestrelli il 6 novembre 2018 non con i soldi provenienti dalla vendita della vecchia villa (venduta infatti molti mesi dopo, a maggio del 2019; lo stesso contratto preliminare è di fine dicembre 2018). E nemmeno con le sole retribuzioni delle conferenze in giro per il mondo, visto che da giugno a novembre dell’anno scorso l’ex premier ha incassato dai suoi speech “solo” 175 mila euro, che coprivano appena un quarto del valore del prestito di Maestrelli. I soldi necessari a restituire il prestito usato per l’acquisto della villa sono in realtà arrivati da 15 fatture pagate a Renzi da Lucio Presta. L’agente delle star ha prodotto il documentario “Firenze secondo me”, di cui il politico era autore e conduttore. Così, tra settembre e il 2 novembre 2018, la sua società Arcobaleno Tre ha girato a Renzi quasi mezzo milione di euro. Pari ai tre quarti del valore del debito contratto dall’ex presidente del Consiglio: il 6 novembre, quattro giorni dopo l’arrivo del secondo bonifico da Presta, il leader ha bonificato 700 mila euro in favore della vedova Picchioni, a titolo di «restituzione prestito».
CON PRESTA SI CHIUDE IL PRESTITO. Senza Presta, dunque, Renzi non avrebbe potuto restituire i 700 mila euro alla madre dell’imprenditore Maestrelli. Almeno, non in tempi così rapidi. Se era noto, come hanno scritto la Repubblica e la Verità, che l’agente aveva girato a Renzi un cachet da 454 mila euro per le quattro puntate del documentario andate in onda un anno fa su Discovery Channel, L’Espresso ha scoperto che il compenso per i diritti d’autore è stato versato sul conto di Renzi con due bonifici. E che il primo, partito dalla Arcobaleno Tre il 17 settembre 2018 per un valore di 235 mila euro, è stato pagato da Presta prima ancora che qualche emittente facesse un contratto. Come ha detto l’ex ad Marinella Soldi, «la decisione di trasmettere il documentario e la relativa negoziazione dei diritti sono avvenute successivamente alla mia uscita dal gruppo Discovery, divenuta effettiva il 1 ottobre 2018». Non solo: Discovery Italia - la media company che ha comprato la messa in onda del documentario che ha fatto meno del 2 per cento di share - ha dato alla società Arcobaleno di Presta e di suo figlio Niccolò meno di 20 mila euro complessive per i diritti del programma. Come mai l’agente ha concesso al senatore un cachet così alto, 25 volte maggiore della fee sborsata da Discovery? I diritti sono stati venduti altre emittenti nazionali o internazionali che finora non l’hanno ancora messa in onda? «Renzi è stato pagato con la ritenuta d’acconto», ci spiega Presta al telefono, «non posso rivelare la cifra avuta da Discovery. Posso dirle che anche se non ho venduto ancora i diritti ad altre emittenti, farò un Dvd e un libro. Insomma, ho i diritti per tutta la vita! Firenze non ha una data di scadenza». All’Espresso che domanda se Mediaset abbia comprato il documentario senza averlo ancora mandato in onda, Presta risponde: «No... con loro abbiamo solo trattato». Il Corriere della Sera il 16 ottobre del 2018, raccontando la presentazione del documentario fatto a Cannes, annunciò che l’Arcobaleno Tre aveva chiuso un accordo con Mediaset di Silvio Berlusconi «dopo una lunga trattativa», e che il docu-film sarebbe stato «trasmesso in prima serata: una scommessa per il Biscione, che a fronte di un importante investimento si aspetta un relativo buon ritorno pubblicitario». Articolo mai smentito: solo a novembre i quotidiani, tra cui Il Giornale della famiglia Berlusconi, annunciarono che Mediaset s’era sfilata per le esose richieste di Presta, e che Renzi sarebbe andato in onda su Discovery. Il generoso compenso pagato da Presta al nuovo talento della sua scuderia sembra comunque del tutto fuori mercato per un documentario prodotto in Italia. Non solo perché Discovery Italia valuta i diritti d’immagine di “Firenze secondo me” meno di 20 mila euro. Ma anche facendo confronti con prodotti simili, il cachet offerto da Presta a Renzi appare abnorme rispetto alle prestazioni fatturate. Alberto Angela nel 2018, dopo decenni di carriera in Rai, ha guadagnato dal servizio pubblico 950 mila euro complessivi. Non per un unico documentario, ma per 15 trasmissioni tra “Ulisse”, “Le Meraviglie” e “Stanotte a Pompei”, a cui vanno aggiunte una decina di repliche: se Renzi ha preso 110 mila euro a puntata, il conduttore e autore più autorevole e famoso d’Italia appena 38 mila. Con la differenza che Angela garantisce share superiori al 20 per cento e picchi di 6 milioni di persone, Renzi (documentarista senza curriculum) vanta finora numeri risibili. «Presta», dicono i renziani contattati dall’Espresso, «ha puntato sulla grande fama politica di Matteo. Non fate confronti scorretti. Poi lui del documentario è anche ideatore, conduttore e narratore: perciò il cachet sembra alto». Cifra congrua anche secondo l’agente: «Quando hai la prima volta di una persona che fa qualcosa, la cifra si decide e si concorda in una trattativa». Walter Veltroni, ex segretario del Pd come Renzi e tra i politici italiani più in vista, non è probabilmente un bravo negoziatore come Matteo. Anche lui è autore, ideatore e regista dei suoi documentari, ma prende assai meno del collega: per “Quando c’era Berlinguer”, prodotto dalla Palomar e Sky, per esempio ha guadagnato poco più di 20 mila euro lordi. E l’intero prodotto, tra troupe, tecnici, riprese, montaggio e post produzione è costato in totale circa 200 mila euro. A differenza di “Firenze secondo me”, è stato pure un successo: il documentario di Veltroni nel 2014 incassò, solo al cinema, quasi 700 mila euro. «Veltroni ha preso il giusto, Renzi una cifra folle», sostengono gli addetti ai lavori. D’altronde grandi star come Toni Servillo, i premi Oscar Jeremy Irons o Helen Mirren hanno preso tra i 30 e i 50 mila euro complessivi, per fare i narratori e i conduttori di documentari di successo sui grandi musei (Ermitage, il Prado) o su Anna Frank, tutti venduti in mezzo mondo e coprodotti da Sky. Dieci volte più bassi, dunque, di quello ottenuto dal fortunato senatore di Rignano sull’Arno.
DA MEDIASET ALL’AGENTE. Ma da dove viene la provvista che ha permesso a Presta di pagare i bonifici a Renzi? Certamente, non da Discovery Italia. Sono altre media company a rimpinguare i conti del procuratore. Lo scopriamo leggendo un’altra segnalazione sospetta. Gli ispettori della Uif di Bankitalia prima lavorano sulla «provvista necessaria ai coniugi Renzi-Landini» (cognome della moglie Agnese, ndr) per la restituzione del prestito da 700 mila euro alla signora Picchioni. Poi, dopo aver elencato i bonifici provenienti dalle conferenze su cui torneremo più avanti, si concentrano sui pagamenti di Presta. «Tenuto conto che la gran parte della provvista in entrata (sul conto di Renzi, ndr) deriva da bonifici disposti dalla Arcobaleno Tre (453 mila euro su complessivi 640 mila euro) si è acquisita copia della movimentazione del conto corrente intrattenuto da tale azienda». Ebbene, le analisi finanziarie sul conto corrente della Banca Monte dei Paschi di Siena intestati alla srl di Presta e del figlio evidenziano che «i fondi necessari ai predetti bonifici in favore di Matteo Renzi erano già presenti sul rapporto della Arcobaleno Tre». Nel corso del 2018 erano arrivati alla srl bonifici di natura commerciale per 13,2 milioni di euro. Soldi provenienti da Rai e Endemol (che girano all’agenzia di Presta rispettivamente 825 mila e 805 mila euro), e soprattutto da Reti Televisive Italiane. Una società di Mediaset che l’anno scorso ha girato al procuratore bonifici per la bellezza di 9,2 milioni di euro. Presta con l’azienda di Silvio Berlusconi ha un rapporto professionale costante. Soprattutto perché cura gli interessi di una dei conduttori più ricchi della tv del Biscione, Paolo Bonolis. Anche grazie a Mediaset, il procuratore vive un momento d’oro: l’ultimo bilancio segnala una crescita dell’utile netto del 100 per cento rispetto all’anno precedente. Visti i rapporti economici, non è un caso che l’agente di Renzi abbia trattato per mesi la vendita del documentario proprio con la società di Berlusconi, che dai tempi del Nazareno con Renzi ha sempre avuto un rapporto dialettico.
TRA RAI E LEOPOLDA. «Tra privati cittadini ognuno fa quello che vuole. E Presta può dare a Renzi conduttore quanto preferisce», dicono gli amici dell’ex presidente del Consiglio. Sul piano formale, però, qualcuno potrebbe storcere il naso. Il rischio di conflitti d’interesse è infatti dietro l’angolo. Presta, infatti, non è solo il regista dell’ultima Leopolda: è pure l’uomo che ha portato il suo assistito Bonolis alla kermesse fiorentina del 2018. «Nel 2019 ho fatto l’allestimento della Leopolda, ho chiamato io le aziende che si sono occupate dell’audio-video e compagnia bella», spiega Presta. «Ho avuto massimo 15 mila euro, con cui ho pagato i miei fornitori abituali». L’imprenditore nel maggio 2015 ha pure ottenuto dalla Rai, la televisione di Stato, l’organizzazione dell’evento inaugurale dell’Expo di Milano. L’appalto fu assegnato dai manager capitanati da Luigi Gubitosi nonostante fosse stata precedentemente «creata una struttura Rai - protestò al tempo un’associazione dei dipendenti di Piazza Mazzini - apposta per affrontare gli impegni legati alla manifestazione. Cui prodest?». Ancora oggi Presta lavora benissimo con la tv pubblica, di cui Pd, M5S e Italia Viva stanno decidendo proprio negli ultimi giorni nomine e poltrone: Amadeus, di cui Presta è agente, sarà il presentatore del prossimo Sanremo, a cui parteciperà anche Roberto Benigni, di cui il promoter cura da sempre i contratti. Mentre nel suo portfolio ci sono altre stelle della Rai, come la moglie dell’agente Paola Perego, Lorella Cuccarini ed Eleonora Daniele. Non solo: l’agente che nel 2018 a versato a Renzi un compenso mostruoso usato poi per restituire il prestito di Maestrelli, è stato pure candidato dal Pd nel marzo del 2016 (quando Matteo era premier e segretario del partito) come sindaco di Cosenza. Una decisione che fece scalpore, anche perché Presta si rifiutò di sottomettersi al responso delle primarie di coalizione. «È stato imposto da Renzi», accusavano le fronde interne al partito, mentre il procuratore delle star spiegò a Repubblica che l’amico «conosciuto quando era sindaco di Firenze» aveva «fatto di tutto per dissuadermi. Io l’ho visto con mia moglie, e le ha detto: “Ha deciso e non torna indietro. Fattene una ragione”. Il no alle primarie? Perché avrei dovuto? Non è Presta che è andato dal Pd, è il Pd che è venuto da Presta». La corsa a primo cittadino della sua città alla fine s’interruppe quasi subito: l’agente si ritirò per non specificati «motivi di natura familiare».
CONFERENZE D’ORO. Se tre quarti del prestito a tasso zero sono stati restituiti grazie al super cachet, il resto della somma necessaria a saldare la vedova Picchioni è arrivato dalle conferenze in giro per il mondo. Nemmeno un euro, a differenza di quando raccontato da Renzi, arriva dalla vendita della vecchia casa di Pontassieve: i compratori, una famiglia del posto, a fine 2018 versano a Renzi e consorte una caparra di soli 60 mila euro per di più divisa in due tranche: 10 mila euro a ottobre, altri 50 mila euro a fine dicembre, quando il bonifico verso i Maestrelli è già partito da un pezzo. I restanti 770 mila euro vengono accreditati sul conto corrente di Renzi e Landini solo il 27 maggio 2019, e parte importante della somma viene usata per estinguere i mutui che pesavano sulla villetta venduta. I compensi per alcuni speech, invece, arrivano effettivamente tra giugno e ottobre 2018. L’ex premier, che secondo le classifiche di Openpolis è uno dei cinque senatori più assenteisti della legislatura in corso (ha saltato quasi il 40 per cento delle sedute a Palazzo Madama), per il suo secondo lavoro di conferenziere nel 2018 è stato in Stati Uniti, Cina, Qatar. I viaggi rendono assai bene: la società inglese Celebrity Speakers - leggendo le carte Uif - ha versato a Renzi quasi 84 mila euro per quattro interventi, del 3 e 4 giugno e del 18 e 19 settembre. Per un solo evento in Kazakistan, l’Eurasia Media Forum, la società Elastica gli ha pagato un gettone di oltre 10 mila euro. Altri 26 mila sono arrivati da Minds Agency, e altri due interventi in Inghilterra sono stati pagati 57 mila euro. Queste ultime due fatture sono state saldate da Algebris Uk Limited, la società del finanziere Davide Serra. Uno dei finanziatori di Open perquisiti nei giorni scorsi dalla Finanza, che evidentemente apprezza il Renzi conferenziere e lo paga lautamente. «È libero di farlo», dicono i conoscenti, «la stima per il senatore all’estero è enorme». Anche Serra nutre ammirazione per l’amico. E apprezza di certo le sue posizioni politiche. Anche quella sulla flat tax per i super ricchi, norma di cui il finanziere s’è avvalso lo scorso anno per trasferire il suo domicilio da Londra all’Italia. Come ha raccontato il Sole 24 Ore, Serra nel giugno 2018 insieme a manager, imprenditori e calciatori ha usato una nuova regola introdotta dal governo del Pd con la legge di Bilancio del 2017. «Un provvedimento sponsorizzato da Renzi, ed attuato concretamente dal successore a Palazzo Chigi Paolo Gentiloni, che favorisce i Paperoni che vengono in Italia», scrive il quotidiano di Confindustria. Che nota come Serra & Co, grazie al sì alla norma del Pd al tempo guidato da Matteo in persona, pagano un’imposta forfettaria di 100 mila euro l’anno, indipendentemente dal reddito guadagnato all’estero. Chissà se nelle conferenze pagategli da Serra, Renzi abbia spiegato alla platea inglese come migliorare il loro regime fiscale per i “residenti non domiciliati”. Quello italiano è ormai più conveniente di quello britannico. Soprattutto per i ricchi, s’intende.
· Il Renzismo Senior.
"Il boss arrestato per mafia parlava di affari con i Renzi". Da quanto scrive La Verità, nelle carte dell'inchiesta Umbria sulle infiltrazioni mafiose, qualche esponente della malavita avrebbe incontrato Tiziano Renzi. Pina Francone, Lunedì 16/12/2019, su Il Giornale. È dei giorni scorsi la notizia della maxi operazione della Polizia di Stato, coordinate dalle Procure distrettuali antimafia di Catanzaro e Reggio Calabria, contro alcune cosche mafiose operanti in Umbria. Da quanto emerso dalle indagini, secondo gli inquirenti la 'ndrangheta era riuscita a creare veri e propri sodalizi criminali nella regione del centro Italia. Un blitz che ha portato a ventisette arresti e al sequestro di dieci milioni di euro, oltre a ingenti quantitativi di droga e diverse armi. Alcuni degli indagati, come confermato dal capo della squadra mobile di Perugia, "si interessavano alle vicende politiche e amministrative del capoluogo e regionali". Ecco, ora, secondo quanto scrive La Verità, dalle carte dell'inchiesta sulle infiltrazioni in Umbra, emergerebbe che alcuni vertici della mala "avrebbero incontrato più volte Tiziano Renzi e il cognato dell'ex premier Andrea Conticini". Per quale ragione? A quanto scrive il quotidiano, per questioni di "liquidità da investire in società in difficoltà". Tra le ventisette persone arrestate settimana scorsa la figure cardine sarebbero Pasquale Nicola Profiti e Giuseppe Benincasa, "presunti boss, che dalle intercettazioni risultano aver parlato di affari con i parenti di Matteo Renzi, in particolare con il cognato Andrea Conticini". Il giornale, dunque, riporta l'estratto di un'intercettazione tra "Pino" Benincasa – presunto uomo di fiducia delle 'ndrine di Umbra secondo l'Antimafia – con l'avvocato Domenico Accia: "Adesso i soldi non è che mi servono, me ne servono di più...sia i soldi che le banche. Anche perché sto andando a fare una bella operazione in Serbia...dovrei partire in questi giorni...", stuzzicando così la curiosità del legale, che vuole saperne di più. Benincasa dunque si sbottona: "Per fare una bella...questa è una bella operazione. C'è di mezzo...il papà e lo zio (sorride, nde)...Siamo stati contattati...abbiamo conosciuto...questi cristiani che...il papà di Renzi...con il cognato...e lo zio. Sono...sono già tre o quattro volte che ci incontrano". Insomma, una conversazione telefonica nella quale Benincasa sostiene di aver avuto più di un contatto con i parenti dell'ex presidente del Consiglio. Il "cognato" citato sarebbe dunque proprio Andrea Conticini, titolare, inseme alla moglie Matilde Renzi, sorella appunto di Matteo, della Marc consulting, e già indagato per riciclaggio nell'inchiesta della Procura di Firenze sulla presunta sottrazione di fondi destinati ai bambini africani per l'Unicef.
Giacomo Amadori e Fabio Amendolara per “la Verità” il 18 dicembre 2019. Il presunto 'ndranghetista Giuseppe Benincasa, detto Pino, sabato scorso è stato sentito nel carcere di Perugia dal gip Lidia Brutti. L'interrogatorio è durato sei ore e l' uomo ha parlato anche della famiglia Renzi. Benincasa nel 2002 è stato arrestato e tenuto in carcere per un anno con l'accusa di associazione di stampo mafioso. «Ma nel 2019 è stato assolto» sottolinea l' avvocato Antonio Cozza di Perugia. Nel 2008 Benincasa è finito di nuovo in manette con la stessa accusa, ma undici anni dopo è solo stata fissata la prima udienza. Adesso è arrivato il terzo arresto, questa volta nell' ambito di un' inchiesta sulle infiltrazioni 'ndranghetiste in Umbria. «Dopo l' arresto del 2008, visto che lavorava nel campo dell' edilizia, il mio assistito ha reciso ogni tipo di contatto con persone a rischio e ha cambiato settore», continua l' avvocato. È entrato in quello dei trasporti, diventando fornitore di una grossa azienda di Milano, la So.ge.tras. Ma quando questa è andata in crisi era creditore di 300.000 euro. A questo punto la So.ge.tras. ha ceduto un ramo d' azienda alla Sgt, che avrebbe dovuto liquidare Benincasa. Ma anche la Sgt è andata in difficoltà. E allora per salvare i propri soldi Benincasa ha pensato di dare nuova linfa all' azienda grazie a una ricapitalizzazione. Adesso i pm calabresi contestano i bonifici che nel luglio del 2018 vennero emessi in serie per la scalata. Addirittura in un giorno ne furono effettuati 12, transazioni che hanno insospettito chi indaga. I magistrati infatti contestano al sodalizio di stampo mafioso al cui vertice si troverebbe Benincasa di aver costituito società cartiere intestate a prestanomi nullatenenti al fine di realizzare condotte criminali di natura tributaria e finanziaria. Ma nel verbale sintetico dell' interrogatorio di sabato l' arrestato respinge le accuse e giura che dietro a quelle operazioni non ci sarebbe stato nessun intento «distrattivo»: «Evidenzio che i bonifici del 5 e del 6 luglio provenivano solamente da società a me riconducibili e alla mia famiglia, non a terzi. La somma fu raccolta in tutta fretta perché l' operazione che riguardava la scalata della Sgt doveva essere supportata dai finanziatori fiorentini di cui si fa riferimento nella richiesta di arresto, che all' ultimo momento vennero meno». Insomma se ha dovuto fare quelle operazioni sospette, che lo hanno messo sotto la lente degli investigatori, la colpa è della famiglia Renzi, i «fiorentini» o «bisteccari». «Se i soldi promessi dai finanziatori fossero arrivati il mio cliente non avrebbe dovuto inviare quei bonifici» continua Cozza. «I fiorentini, che poi sarebbero Conticini & company, operano anche loro nel settore dei trasporti e della distribuzione volantini e sono stati loro a contattare Benincasa. Il quale, a quel punto, pur non avendo le risorse per acquisire la maggioranza della Sgt, ha cercato di farlo in tutti i modi perché sapeva che c' era questo socio che era disponibile a fare l' investimento». Quale socio? «I fiorentini. Il problema è che dalla sera alla mattina sono scomparsi e non hanno neanche più risposto al telefono». E perché lo avrebbero fatto? «Arrivati a un certo punto questi sono spariti probabilmente perché erano venuti a sapere di essere stati attenzionati, c' erano stati provvedimenti». In effetti in quel periodo c' erano state delle perquisizioni nella sede della Marmodiv, riconducibile, secondo i pm, agli stessi Renzi, azienda che poi sarebbe fallita. Ma con chi ha trattato Benincasa? «Lui dice di aver avuto un incontro con un certo Massone» ricorda il difensore. Ovvero uno dei collaboratori storici dei Renzi, già arrestato con Tiziano e la moglie Laura lo scorso febbraio, con l' accusa di bancarotta. E adesso pure indagato nell' inchiesta delle Dda di Catanzaro e Reggio Calabria. Ma Benincasa non avrebbe trattato con il solo Massone. «Lui dice di aver incontrato una volta anche il papà di Renzi, ma l' operazione in generale è stata seguita da Paolo Menicucci (altro indagato, ndr)» ci informa Cozza. E Menicucci avrebbe incontrato Conticini. Ma con La Verità l' indagato nega tutto: «Io non conosco nessuno, sono solo un gommista». L' avvocato di Benincasa prosegue il suo discorso sui «fiorentini»: «Sono stati loro a chiedere di era un affare appetibile nel settore dove si è sparsa la voce di questa possibilità... non sono stati i miei clienti a contattare loro... hanno ricevuto la telefonata e più felice di Benincasa e degli amministratori di Bm in quel momento non c' era nessuno...». Ma poi è saltato tutto. «All' improvviso, come ho già detto, questi sono spariti e non hanno più risposto al telefono... ma ormai il meccanismo si era attivato e Benincasa non si è più potuto tirare indietro... quindi lui i soldi li ha trovati, ma come? Facendo bonifici dai suoi conti personali e delle aziende in cui opera». Nelle carte si parla anche di un' operazione in Serbia che i fiorentini stavano portando avanti con Benincasa. Scrivono gli inquirenti: «Il Benincasa afferma che in questo momento gli servono soldi e banche, poiché sta per intraprendere una grossa operazione commerciale in Serbia, nella quale sarebbero coinvolti il cognato (Andrea Conticini, ndr) e lo zio di Renzi, ai quali, tra l' altro, vorrebbero far rilevare il 30 per cento delle azioni della S.G.T. spa, cosicché loro non dovranno tirare fuori nemmeno una lira per acquistare all' asta la più volte citata So.ge.tras spa.». Le parole esatte di Benincasa sono le seguenti: «Anche perché sto andando a fare una bella operazione in Serbia... dovrei partire in questi giorni... per fare una bella... eh... questa è una bella operazione. C' è di mezzo... il papà e lo zio (sorride)... Siamo stati contattati... abbiamo conosciuto... sti cristiani che... il papà di Renzi con il cognato e lo zio. Sono già tre o quattro volte che ci incontrano». Cozza ci spiega: «Benincasa di questa cosa non sa niente... è stata fatta confusione nelle contestazioni... l' operazione assolutamente non doveva farla lui...». Dovevano farla i fiorentini? «Penso proprio di sì». Ieri Conticini e babbo Renzi non ci hanno risposto. Lo ha fatto invece Massone, che ricorda bene Menicucci: «Ho conosciuto Paolo perché c' era un ragionamento per cui io avrei potuto fare una consulenza dentro So.ge.tras». Massone nega però di conoscere Benincasa, con cui gli investigatori hanno registrato un incontro. Si limita ad ammettere che Menicucci potrebbe aver incontrato Conticini e Renzi senior, ma respinge il ruolo di collettore: «Non sono stato io a metterli in contatto». E i soldi di cui si parla nelle intercettazioni? «Chiedete a Conticini non a me».
Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 30 luglio 2019. Aveva ragione Renzi: "Il tempo è galantuomo". É bastato attendere nove mesi e il gip ha respinto la richiesta di archiviazione per suo padre Tiziano su Consip. Spiace per chi (tutti) l' aveva spacciata per la pietra tombale su uno degli scandali più gravi e censurati della storia recente: il padre del premier che traffica direttamente o per interposto Carlo Russo per influire su gare miliardarie della stazione appaltante pubblica guidata da un manager nominato dal figlio, facendosi promettere tangenti dall' imprenditore Alfredo Romeo; e gli amici del figlio premier che, avvertiti dell' indagine della Procura di Napoli, avvisano il suo babbo e i capi di Consip perché rimuovano le cimici e non parlino più al telefono. Ereditato quel po' po' d'inchiesta, i pm romani non trovarono di meglio che indagare su chi aveva indagato (prima Woodcock, poi Scafarto); liquidare Russo come millantatore; salvare Tiziano e Romeo malgrado le prove del loro incontro (sempre negato); e chiedere il processo solo su Lotti, i generali Del Sette e Saltalamacchia e pochi altri per le fughe di notizie, e su nessuno per le trame su appalti e mazzette (non pagate proprio per le soffiate). Un capolavoro di minimalismo giudiziario tipico di Giuseppe Pignatone e dei suoi fedeli, pm e giornaloni. Voi direte: ma chi se ne frega di Renzi buonanima, e tantopiù di suo padre. Vero. Ma il caso Consip è una formidabile prova su strada di come s' è ridotta gran parte della magistratura e della stampa. Che infatti hanno dipinto la guerra per bande attorno al Csm come una lotta fra i cherubini guidati da un cavaliere senza macchia e senza paura (Pignatone, sempre sia lodato) e i diavoli al soldo di un manigoldo (il terribile Palamara). E, sul dogma dell' Immacolato Pignatone, han costruito l' imperativo della "continuità" in procura: un modo soave per sponsorizzare Lo Voi, l' amico dell' ex procuratore, alla successione. Ora che il gip Sturzo smaschera quel minimalismo, ci si attenderebbe un po' di resipiscenza sulla leggenda del Santo Pignatone. Invece, zero titoli. Il 30 ottobre Repubblica sparava in prima pagina la richiesta di archiviazione per Renzi sr.&C., come pure il Fatto. E, dentro, altre due pagine col commento di Bonini che metteva in un unico "verminaio" le soffiate di Del Sette&C., gli errori del cap. Scafarto e gli scoop del Fatto ("cassa di risonanza e clava per massimizzare l' eco e il danno politico al presidente del Consiglio": peccato che Renzi il giorno dello scoop non fosse più premier da 18 giorni). E poi un pezzo strappalacrime sul dolore inestinguibile di babbo Tiziano per il lungo calvario subito: "Mi riprenderò la reputazione, ora chiederò anche i danni". Sì, ciao core. Ieri invece, sul no all' archiviazione, solo uno striminzito pezzullo in basso a pag. 17. Nulla in prima pagina. Lì, in compenso, trova ampio spazio l' ennesima intervista al neocondannato Giuseppe Sala, che esclude alleanze con Di Maio perchè "è screditato moralmente e politicamente": infatti è incensurato. Per il Corriere, la richiesta di archiviazione nove mesi fa valeva un' intera pagina: ora il diniego vale un bassetto a pag. 6. Stesso spaziuccio su La Stampa, che il 30 ottobre festeggiava lo scampato pericolo con un' intera pagina. Strepitoso il Messaggero: apertura di pagina per la richiesta e trafiletto di 13 righe sul rigetto. Il Mattino aveva addirittura un commento in prima di tal Massimo Adinolfi, furibondo con i giornali che avevano raccontato lo scandalo (quindi non col suo) e brindava perchè "le accuse contro Tiziano Renzi finiscono in nulla", "un fatto politico rilevante, vista la canea sollevata". Ieri abbiamo cercato tracce di lui e della notizia sulla prima del Mattino, ma invano: l'Adinolfi sarà in ferie o a disperarsi al muro del pianto. Anche Avvenire, a suo tempo, si associò ai festeggiamenti, scambiando i pm per giudici e le richieste per sentenze: "Inchiesta Consip al capolinea. Archiviazione per Tiziano Renzi". Ora si scopre che non era vero, ma ci vuole il microscopio elettronico per scovare il mini-titolo a pagina 8. Piero Sansonetti, sul Dubbio, ci dava lezioni di diritto perchè osavamo contestare la scelta dei pm: "L' assoluzione del giudice vale poco: conta solo il giudizio di Marco Travaglio". Cioè: il pover'uomo chiamava il pm "giudice" e la sua richiesta "assoluzione". Ora che finalmente si pronuncia il giudice e ci dà ragione, il Dubbio - che intanto ha cambiato direttore - nasconde la notizia in una brevina. Sempre nel reparto "giuristi per caso", segnaliamo la povera Annalisa Chirico. Il 30 ottobre delirava su un' intera pagina del Foglio: "Scafarto e l'attacco politico a Renzi", "la Procura sgonfia la fuffa di Consip". E tributava il giusto omaggio ai pm, naturalmente non gli odiosi napoletani, ma gli adorati romani: "Senza il provvido intervento della procura capitolina, con Pignatone e Paolo Ielo in testa, i cittadini avrebbero creduto a una fake inchiesta basata su prove letteralmente false". Adesso che il gip ha disposto diversamente, scoprirà forse che, fra il pm e il giudice, vince il giudice. E magari se ne farà un ragione. Infine, l'angolo del buonumore. Il 29 ottobre il rag. Claudio Cerasa, direttore del Foglio, twittava giulivo: "Oggi la procura di Roma ha chiesto l' archiviazione per Tiziano Renzi Forse qualcuno dovrebbe cominciare a farsi un esame di coscienza". Con lo spiritoso hashtag "#domaninotiziainunboxapagina450". Noi, alla richiesta di archiviazione, dedicammo l' apertura della prima pagina, come ieri al suo rigetto. Invece il Foglio è l' unico quotidiano (si fa per dire) che non ha scritto una riga. In realtà la notizia era prevista a pagina 450, ma purtroppo il Foglio ne ha solo otto.
Tiziano Renzi e la lobby romana. Nuova indagine sul padre dell'ex premier. Sotto controllo i pagamenti ed il suo presunto ruolo di "facilitatore", scrive Giacomo Amadori il 3 aprile 2019 su Panorama. ’è un nuovo fascicolo d’inchiesta che riguarda gli affari della famiglia Renzi e di cui Panorama può dare conto in esclusiva. Il fascicolo è il 3.103 del 2019 ed è un modello 21: ciò significa che coinvolge persone note all’autorità giudiziaria e già iscritte nel registro degli indagati. La vicenda ha come «convitati di pietra» anche l’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi e il suo fedelissimo ex sottosegretario Luca Lotti. Tutto ruota infatti intorno a Palazzo Chigi. Venticinque mesi fa la Procura di Roma aveva inviato a Tiziano, padre dell’allora premier, un avviso di garanzia con l’accusa di traffico di influenze illecite. Nell’ottobre scorso ha chiesto l’archiviazione, non essendo riuscita a dimostrare che il genitore dell’ex premier avesse cercato denaro promettendo favori con la pubblica amministrazione. Adesso tocca alla Procura di Firenze (la stessa che a febbraio ha ottenuto l’arresto di Renzi senior e della moglie Laura Bovoli) contestare a Tiziano Renzi lo stesso presunto reato. A commetterlo è chi, approfittando delle proprie relazioni con pubblici ufficiali, si offre come mediatore in cambio di utilità. Chi procura queste ultime concorre nell’illecito. Secondo gli inquirenti sarebbe il caso di Luigi Dagostino, ex socio dei genitori di Renzi e coimputato con loro in un processo per due fatture considerate false, pagate alla madre e al padre dell’ex segretario dem. L’attuale procedimento lascia immaginare che adesso gli inquirenti ritengano quel denaro il corrispettivo per un’attività di lobbying più o meno lecita di Tiziano. Del resto, nei mesi scorsi, con il quotidiano La Verità, lo stesso Dagostino aveva ammesso di aver retribuito Renzi senior anche per «il suo lavoro, quello della lobby». La nuova inchiesta punta dritta a Roma e più precisamente alla sede del governo, limitatamente al periodo in cui Matteo Renzi ne era l’inquilino. In quest’ultima pagina giudiziaria entrano imprenditori chiacchierati, fatture false, una società di lobbying, il Teatro comunale di Firenze e persino gli abiti di James Bond. Ma soprattutto Tiziano Renzi. Per capire di che cosa stiamo parlando bisogna riavvolgere il nastro al 2014. Matteo Renzi è appena diventato capo del governo, «pugnalando alle spalle» politicamente il collega di partito Enrico Letta. Intanto, a Rignano sull’Arno, i suoi parenti hanno da poco trascorso il loro annus horribilis. La Eventi 6 l’azienda di famiglia ha visto crollare il proprio fatturato sotto la soglia di guardia dei due milioni di euro e, dicono i loro amici, i Renzi fanno fatica ad arrivare a fine mese. Non va meglio a uno dei collaboratori più stretti della famiglia, Patrizio Donnini, editore e fondatore della Dotmedia, agenzia di pubblicità che aveva seguito la campagna per le «primarie» di Matteo e le prime edizioni della «Leopolda». Nel 2012, grazie a un finanziamento della Eventi 6 della famiglia Renzi (che nello stesso anno si rimise un po’ in sesto con un cospicuo mutuo) aveva potuto liquidare un’azienda a rischio crac. In quel clima di sconfitta, l’arrivo dell’allora Rottamatore sulla poltrona di premier eccita gli animi e aguzza gli ingegni. Per esempio quello di Andrea Conticini, il braccio operativo della Eventi 6. Il genero di Tiziano Renzi e Laura Bovoli - indagato per riciclaggio nella cosiddetta inchiesta Unicef - a fine del 2014 decide di dar vita a una società di servizi di consulenza alle imprese con la moglie Matilde. Ma il nuovo corso suggerisce altre iniziative. Conticini e Donnini apparecchiano una stanza con annessa sala riunioni a Roma, dietro a piazza del Popolo, al terzo piano di via degli Scialoja 18, dove apre ufficialmente la propria sede capitolina la Dotmedia. Nelle trasferte romane, come hanno riferito a Panorama diversi testimoni, li accompagna spesso Renzi senior. Gli aspiranti lobbisti toscani trovano ospitalità non casualmente negli uffici della Reti-QuickTop. Essa ha una ragione sociale molto particolare, come si legge sul sito Internet e sulla targa all’ingresso dell’ufficio: «lobbying e public affairs». La società offre aiuto, si legge nella presentazione, «per dialogare con le istituzioni nell’epoca della complessità, della decisione debole, dello Stato stratificato, dei network sociali decisionali. Per fare le politiche, invece di subirle». Ed ecco la chiave dell’improba missione: «Reti, grazie al lavoro di intelligence politica svolta dai propri analisti, è in grado di identificare i passaggi chiave del processo decisionale e (…) cura ed aggiorna le mappature dei decisori, mettendo in evidenza i soggetti che possono risultare decisivi per i temi che impattano il business del cliente».
un’aspirante al giglio magico. Ma chi c’è dietro questa società capitolina? La Reti è stata fondata tre lustri fa dal dalemiano, e successivamente «turborenziano», Claudio Velardi. Oggi è in liquidazione. Il testimone è passato alla Quicktop una «costola» della casa madre che ha rilevato il marchio. All’inizio lo stesso Velardi possedeva il 5 per cento delle quote, ora è tutto in mano alla 39enne salernitana Giuseppina Gallotto, figlioccia di Velardi, il maestro da cui dice di essersi resa indipendente («È vero, ho tagliato il cordone ombelicale» dichiara sorridendo). Giuseppina è sveglia e, dopo essere stata segretaria di una sezione Ds e aver fatto la delegata di Pierluigi Bersani alle «primarie» contro Matteo Renzi, ha avuto un colpo di fulmine. Il suo cuore ha iniziato a battere per il Giglio magico. Lei che crede che «vivere vuol dire essere partigiani», nel triennio di Matteo ha combattuto tutte le battaglie del Renzismo, a partire da quella per il referendum costituzionale. «Non avevo incarichi ufficiali, era una condivisione della causa» assicura oggi a Panorama. Ha sostenuto la candidatura del governatore campano Vincenzo De Luca e si è spesa per ottenere la regolamentazione da parte del governo «dell’attività di rappresentanza degli interessi». Cioè del lobbismo. Con Velardi e Fabrizio Rondolino ha pure animato il sito ilrottamatore.it, dedicato, ça va sans dire, all’ex segretario dem. «Per il sito ci davano una mano anche Conticini e Donnini» ricorda. «Con loro abbiamo collaborato su alcuni progetti, anche se hanno lavorato soprattutto con Velardi. Avevano un contratto di domiciliazione nel nostro ufficio. Non so se in quella stanza passasse anche Tiziano Renzi. Io personalmente non l’ho mai incontrato, ma non controllavo entrate e uscite». Nel maggio 2018 è stata nominata membro della direzione provinciale del Pd di Salerno, ma ha rinunciato: «Io non posso avere incarichi di partito per il mio tipo di lavoro. Non ho più neanche la tessera». Con Renzi a capo del governo, in via degli Scialoja inizia un’intensa attività di pubbliche relazioni. Là dentro ci si occupa di tutto e si gettano le basi per il rilancio degli affari della famiglia di Rignano, che nei tre anni successivi vede crescere il fatturato della Eventi 6 da 1,9 a 7,3 milioni di euro. Andrea Conticini e il suocero Tiziano fanno la spola con Palazzo Chigi e l’adiacente Galleria Sordi, dove Renzi senior riceve i suoi clienti al tavolino di qualche bar. «Nella sala d’attesa della QuickTop c’era la fila come dal medico» ricorda Dagostino. La loro conoscenza risale proprio al 2014 quando i Renzi si offrivano come soci o fornitori nei settori più disparati a ogni tipo di imprenditore. «Conticini mi propose per gli outlet che gestivo un sistema di telecamere di un suo cliente. Avevano idee di qualsiasi genere. Tiziano mi chiese di andare con lui in Cina a fare affari al seguito di un ragazzo orientale che aveva conosciuto a Firenze. Mi propose pure di rilevare con il gruppo Kering, con cui collaboravo, la Borsalino che stava andando verso il fallimento. Mi garantì che era un affare. Era diventato un tuttologo, un vulcano. Era come un testimone di Geova, bussava a tutte le porte». Renzi senior portò personalmente Dagostino «un paio di volte a Palazzo Chigi a incontrare il figlio e l’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio Luca Lotti». Quando Matteo si dimette da capo del governo, anche gli occupanti della stanza di via degli Scialoja 18 traslocano. «Se ne sono andati un paio di anni fa» confermano Gallotto e il portiere dello stabile. Visto l’attivismo di quei mesi non deve sorprendere che i magistrati di Firenze abbiano aperto un fascicolo, ipotizzando il traffico di influenze illecite. Giovedì 21 marzo, è stato ascoltato per più di tre ore come «informato sui fatti» Andrea Bacci, imprenditore da decenni legato alla famiglia Renzi e già collaboratore di Matteo, nonché la persona che ha ristrutturato la sua villa Pontassieve. A quei tempi Bacci frequentava Dagostino e Tiziano, era spesso in trasferta con loro a Roma e, quando serviva, dava pure qualche consiglio all’ex premier. La nuova indagine, come detto, parte dall’inchiesta per false fatture che ha portato alla sbarra i genitori di Renzi e il loro ex socio Dagostino (il processo è iniziato il 4 marzo scorso). Al centro del procedimento, due bonifici ad altrettante aziende dei Renzi concordati con lo stesso Dagostino. Il totale dei versamenti ammonta a 195.200 euro e, secondo gli inquirenti, sarebbero stati pagati a fronte di prestazioni inesistenti. La prima tranche di 24.400 euro viene inviata a Rignano sull’Arno il 17 giugno 2015. La data, per una strana coincidenza, è la stessa in cui Dagostino porta in visita a Palazzo Chigi tre personaggi a lui cari: il magistrato Antonio Savasta, l’avvocato Ruggiero Sfrecola e il tributarista Roberto Franzé. Ad attenderli c’è il sottosegretario Luca Lotti e l’incontro è organizzato proprio da Renzi senior. Savasta (arrestato il 14 gennaio scorso per corruzione in atti giudiziari) è il pm che in quel momento sta indagando su un giro di fatture false collegato proprio a Dagostino. Secondo gli inquirenti che ne hanno chiesto l’arresto, il magistrato stava facendo un’indagine all’acqua di rose in cambio di soldi e di quella visita a Roma, con cui sperava di entrare nelle grazie di Lotti e di ricevere un qualche incarico ministeriale. L’avvocato Sfrecola è un ex compagno di liceo di Savasta e in quei mesi sta difendendo i futuri coindagati di Dagostino. Il terzo ospite della visita a Palazzo Chigi è Roberto Franzé, il quale il 5 maggio 2015 era stato nominato consigliere d’amministrazione della Cassa depositi e prestiti - Investimenti società di gestione risparmio Spa, controllata dal ministero dell’Economia. È lo stesso Franzé a raccontare la sua scalata al successo alla pm Christine von Borries, nell’interrogatorio dell’11 aprile 2018: «Un giorno Luigi Dagostino (questo avveniva nei primi 3-4 mesi del 2015) mi disse che si rinnovavano per scadenza naturale i consigli d’amministrazione di alcune società partecipate dallo Stato. Il Governo cercava quindi degli esperti in varie aree, tra cui la mia che è il diritto tributario e anche immobiliare, da segnalare alle società incaricate di valutare i vari curriculum e di segnalarli a chi doveva nominare i Cda». Franzé sostiene di essere entrato in Cdp tramite «cv». In realtà il suo nome era stato raccomandato da Dagostino a Lotti, il quale aveva chiesto referenze nel «circolino» del Giglio magico, per esempio ad Andrea Bacci. Ma questa parte il tributarista non la racconta: «Io mi dissi interessato e inviai il curriculum». La mail parte il 2 maggio e che cosa poi accade lo racconta ancora Franzé: «Poco dopo fui contattato dall’avvocato Benedetta Sanesi della Cdp investimenti Sgr che mi comunicò che il mio nominativo era stato selezionato dal socio Cdp spa per ricoprire un posto all’interno del Cda e sono stato nominato consigliere il 5 maggio 2015 fino all’aprile 2018». Franzé, il 17 giugno 2015, viene ricevuto direttamente da Luca Lotti a Palazzo Chigi. «Fu Dagostino a propormi quest’incontro sapendo delle mie conoscenze in materia tributaria e così appresi che lui conosceva Lotti». Ecco il resoconto dell’abboccamento: «Il mio colloquio con Lotti durò circa 10 minuti e io mi presentai dicendo quali erano le mie qualifiche e il mio settore di studi e lui manifestò l’interesse da parte del governo a ricevere segnalazioni volte alla modifica della legislazione tributaria al fine di renderla più vicina al cittadino e io manifestai la disponibilità a supportare il governo nell’analisi di testi normativi in materia». Secondo Franzé l’incontro ha come conseguenza una mail di Lotti del 10 luglio 2015, in cui si legge: «Gentile Franzé che cosa ne pensa delle proposte in allegato (contenente un’ipotesi di modifica della legge sul diritto di successione, ndr)? Terrei molto a un suo parere. Saluti». Il 14 luglio il legale calabrese risponde con un messaggio d’approvazione in cui, però, suggerisce alcune modifiche. Da allora, giura il tributarista, i due non avrebbero più comunicato. Il nome di Franzé spunta anche in un’altra vicenda. In una richiesta di proroga delle intercettazioni della Guardia di finanza di Firenze del dicembre 2017 viene segnalata l’«operazione Teatro comunale» di Firenze. Le Fiamme gialle ricordano che l’immobile era stato ceduto il 27 dicembre 2013 dal Comune, all’epoca guidato da Matteo Renzi, a Cdp investimenti Sgr Spa al prezzo di 25 milioni di euro (anche se nei mesi precedenti l’allora Rottamatore aveva raccontato di volerne incassare almeno il doppio). Sul teatro mette gli occhi Dagostino, il quale, cinque giorni prima che il suo amico Franzé invii il curriculum che lo porta nel consiglio di amministrazione della stessa Cdp investimenti Sgr, fonda la Corso Italia Firenze srl. Tra i proprietari figurano pure due società panamensi, riconducibili secondo i magistrati a Carmine Rotondaro. Quest’ultimo è un avvocato cosentino in affari con Dagostino, ma anche con Franzé di cui è amico e collega (i due hanno recentemente pagato 750 mila euro di multe alla Consob per attività di insider trading). In data 31 luglio, annotano sempre gli investigatori, la Cdp investimenti Sgr stipula un contratto preliminare di compravendita dell’ex Teatro comunale con la società di Dagostino, al prezzo di 25 milioni di euro, di cui 2,5 di caparra. Nel Cda che dà il via libera siede pure Franzé. La coincidenza viene evidenziata dalla pm Christine von Borries e l’avvocato, a verbale, replica: «Io non ho mai suggerito al dg o ad altri alcunché in merito a tale vendita». Alla fine l’affare non si conclude: «So che nel corso del 2017 il preliminare è stato risolto» conclude Franzé, «sia per questioni di opportunità perché il nome di Dagostino era uscito più volte sulla stampa collegato ad indagini in corso e perché c’erano delle condizioni anche urbanistiche che non si erano verificate e alla cui verifica era subordinata la stipula del definitivo». Dunque la cessione non sarebbe andata in porto anche per colpa dei giornali. Quattro anni dopo pure l’«operazione Teatro comunale» è sotto la lente degli inquirenti. Evidentemente c’è il sospetto che le cose non siano andate come sostengono i protagonisti. I registri degli ingressi di Palazzo Chigi rivelano che in quel periodo nella sede del governo è tutto un via vai di personaggi che hanno rapporti con Rignano sull’Arno. È un habitué anche il cognato di Matteo, Andrea Conticini, che viene ricevuto piuttosto spesso dalla segretaria di Lotti, Eleonora Chierichetti, rignanese doc raccomandata all’ex ministro da mamma Laura. Ma vi entra pure Rotondaro, all’epoca manager del gruppo Kering. Nel 2017 è stato licenziato in tronco dalla multinazionale per presunti malaffari e, dopo essere stato indagato dalla Procura di Milano, è diventato «collaboratore» dei pm. Ma questa è un’altra storia. Grazie ai buoni uffici di Tiziano, Rotondaro e Dagostino erano andati insieme a Palazzo Chigi per far prendere a un sarto della Brioni le misure di Matteo Renzi. Era il 18 settembre 2014. Della pimpante comitiva faceva parte anche l’amministratore delegato della maison abruzzese. Rotondaro aveva bocciato il guardaroba dell’ex segretario dem e aveva chiesto a Dagostino di potergli far preparare su misura alcuni abiti del celebre marchio italiano del gruppo Kering. Completi che sono stati indossati anche da Barack Obama, Tony Blair e dagli interpreti di James Bond. In Abruzzo prepararono i completi, ma nel 2015 l’aria era già cambiata ed erano usciti i primi articoli su Dagostino e Rotondaro. Il 3 ottobre la Brioni inviò una mail per far sapere che gli abiti erano pronti, ma nessuno rispose. Forse Matteo temeva, a causa del nuovo look, di trasformarsi, come 007, in un «bersaglio mobile».
Genitori ai domiciliari, Renzi: "L'arresto è una misura abnorme". Tiziano Renzi e la moglie Laura Bovoli in manette per il fallimento di tre coop. Il figlio: "Oscurato tutto il resto, capolavoro mediatico", scrive Sergio Rame, martedì 19/02/2019, su Il Giornale. "Inutile dire che la vicenda dei miei genitori ha totalmente oscurato tutto ciò che è accaduto ieri nel mondo della politica. Basta leggere i quotidiani di oggi per rendersene conto. Un capolavoro mediatico, tanto di cappello". È nella enews che Matteo Renzi risponde alle polemiche esplose dopo la disposizione da parte della procura di Firenze degli arresti domiciliari per i suoi genitori, Tiziano e Laura Bovoli. Il gip di Firenze Angela Fantechi ha contestato ai due coniugi i reati di "bancarotta fraudolenta ed emissione di fatture false". Per il giudice la misura cautelare sarebbe giustificata dal rischio di inquinamento delle prove e reiterazione del reato che emerge "dalla circostanza che i fatti per cui si procede non sono occasionali e si inseriscono in un unico programma criminoso in corso da molto tempo, realizzato in modo professionale". La notizia degli arresti domiciliari si è abbattuta su Renzi come un ciclone. Oggi l'ex premier ha, quindi, deciso di annullare la conferenza stampa prevista per le 16 in Senato e affidare alla tradizionale enews il proprio pensiero sulla vicenda giudiziaria che ha svelato il sistema che ha portato al fallimento di tre cooperative (la Delivery Service, la Europe Service e la Marmodiv). Quelle dei coniugi Renzi, a detta del gip Fantechi, sono state "condotte volontarie realizzate non per fronteggiare una contingente crisi di impresa, quanto piuttosto di condotte imprenditoriali finalizzate a massimizzare il proprio profitto personale con ricorso a strategie di impresa che non potevano non contemplare il fallimento delle cooperative". Gli indagati sono complessivamente quindici. Insieme a Tiziano e a Laura Bovoli, figura anche Mariano Massone, 47enne di Campo Ligure che ha alle spalle due condanne per bancarotta (nel 2004 e nel 2016) e quattro condanne per violazioni in materia di lavoro. Di fronte a tutte queste accuse Matteo Renzi risponde facendo muro e assicurando che è determinato a tirare dritto: "Se qualcuno pensa di fermarmi, non mi conosce. Non ci conosce". "Tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge", commenta l'ex presidente del Consiglio. E sottolinea: "I miei genitori, come tutti, hanno diritto a un processo giusto e spero rapido. Non grido ai complotti - incalza- chiedo che i processi si facciano nelle aule dei tribunali e non sul web o nelle redazioni dei giornali. Noi aspettiamo le sentenze, ma le sentenze si pronunciano in tribunale e non nelle piazze populiste". Poi, però, polemizza con il gip Fantechi per la misura cautelare agli arresti domiciliari. "Chi ha letto le carte e ha un minimo di conoscenza giuridica - spiega - sa che privare le persone della libertà personale per una cosa come questa è abnorme". E attacca: "Anche se in tanti cercano parole di consolazione, io conosco la verità che nessuno vuole dire: se non avessi fatto politica, oggi i miei genitori non subirebbero questo". Renzi dice di aver immaginato di scrivervi tutt'altra e-news. Avrebbe voluto raccontare ai propri follower "l'entusiasmo di questo fine settimana", durante il quale ha girato in Emilia Romagna, Veneto, Lombardia, Piemonte per presentare il libro Un'altra strada e dove ha trovato "un'accoglienza superiore alle più rosee aspettative". "Poi - racconta - ieri sera mentre firmavo copie a Nichelino, in un centro anziani della periferia di Torino, la notizia più assurda che potessi ricevere, una notizia che gela il sangue: i miei genitori ai domiciliari". Quindi, ribadisce: "Chi conosce la realtà sa che quelle carte, peraltro, non corrispondono al vero. Ma per questo ci sarà il processo. Tra cinque anni, tra dieci anni, quando tornerà la calma e si potrà analizzare con serenità ciò che è accaduto in questo periodo alla mia famiglia, saranno in tanti a stupirsi".
Matteo Renzi, lo sfogo brutale dopo l'arresto dei genitori: "Assurdo, chi vuole eliminarmi così sbaglia", scrive il 18 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. È durissima la reazione di Matteo Renzi, dopo gli arresti ai domiciliari per suo padre Tiziano e sua madre Laura Bovoli, accusati di bancarotta fraudolenta e false fatturazioni dalla procura di Firenze. A proposito della decisione del giudice di dare il via libera alla misura detentiva, Renzi ha scritto drastico su Facebook: "Ho molta fiducia nella giustizia italiana e penso che tutti i cittadini siano uguali davanti alla Legge. Dunque sono impaziente di assistere al processo. Perché chi ha letto le carte mi garantisce di non aver mai visto un provvedimento così assurdo e sproporzionato". In un altro passaggio del suo lungo post, Renzi ha poi lanciato una serie di enigmatici attacchi contro gli avversari politici: "Se qualcuno pensa che si possa utilizzare la strategia giudiziaria per eliminare un avversario dalla competizione politica, sappia che sta sbagliando persona. Non ho mai avuto così tanta voglia come stasera di combattere per un Paese diverso e per una giustizia giusta. Chi ha letto le carte dice che di questa storia si parlerà a lungo e che siamo davanti a una decisione assurda".
Matteo Renzi su Facebbok il 18 febbraio 2019. "Sono costretto ad annullare la presentazione del libro a Torino per una grave vicenda personale. Da circa un’ora mio padre e mia madre sono ai domiciliari. Ho molta fiducia nella giustizia italiana e penso che tutti i cittadini siano uguali davanti alla Legge. Dunque sono impaziente di assistere al processo. Perché chi ha letto le carte mi garantisce di non aver mai visto un provvedimento così assurdo e sproporzionato. Mai. Adesso chi crede nella giustizia aspetta le sentenze. Io credo nella giustizia italiana e lo dico oggi, con rispetto profondo, da servitore dello stato. Arriveranno le sentenze e vedremo se questi due cittadini settantenni, incensurati, sono davvero i pericolosi criminali che meritano - oggi, casualmente proprio oggi - questo provvedimento. Arriveranno le sentenze e misureremo la credibilità delle accuse. Arriveranno le sentenze e vedremo chi è colpevole e chi no. Da rappresentante delle Istituzioni difendo lo Stato di diritto e chiedo a tutti di credere nella giustizia. Da figlio sono dispiaciuto per aver costretto la mia famiglia e le persone che mi hanno messo al mondo a vivere questa umiliazione immeritata e ingiustificata. Se io non avessi fatto politica, la mia famiglia non sarebbe stata sommersa dal fango. Se io non avessi cercato di cambiare questo paese i miei oggi sarebbero tranquillamente in pensione. Dunque mi sento responsabile per il dolore dei miei genitori, dei miei fratelli, dei miei figli e dei miei nipoti. I dieci nipoti sanno però chi sono i loro nonni. Sanno che possono fidarsi di loro. E sanno che ciò che sta avvenendo è profondamente ingiusto. Ma voglio che sia chiaro a tutti che io non mollo di un solo centimetro. La politica non è un vezzo personale ma un dovere morale. Se qualcuno pensa che si possa utilizzare la strategia giudiziaria per eliminare un avversario dalla competizione politica sappia che sta sbagliando persona. Non ho mai avuto così tanta voglia come stasera di combattere per un Paese diverso e per una giustizia giusta. Chi ha letto le carte dice che di questa storia si parlerà a lungo e che siamo davanti a una decisione assurda. Io non ho letto le carte, aspetto le sentenze. So però ciò che hanno fatto in questi anni alla mia famiglia. E mi basta per dire che non accetteremo nessun processo nelle piazze o sul web. I miei genitori si difenderanno in aula, come tutti i cittadini. Io continuerò a combattere per questo Paese, forte della mia onestà. Forte delle mie idee. Forte dell’affetto di tanta gente che sa perfettamente che cosa sta accadendo.
Matteo Renzi, Eugenio Scalfari gli dà il colpo mortale: "È il mio errore", e gli devasta il libro, scrive il 18 Febbraio 2019 Renato Farina su Libero Quotidiano. Ieri Eugenio Scalfari, 94 anni, ha celebrato molto volentieri i funerali di Matteo Renzi, 44 anni. Nel suo editoriale domenicale su Repubblica lo ha trattato come un bischero, uno che non ha letto i libri di Voltaire e Diderot, e neppure quelli di Benedetto Croce e Giustino Fortunato che lui gli aveva consigliato per attrezzarlo al successo. Non ha studiato Giustino Fortunato? Peggio per lui, logico che sia finito male. Per di più Renzi si fa scrivere i libri dagli altri, impossibile infatti che osi citare un filosofo arabo che Scalfari non conosce. Non si fa. Colpisce che colui che Pansa ribattezzò "Barbapapà" scriva tutto ciò con un'allegria fantastica. Egli vive questi seppellimenti di amori perduti come un elisir di lunga vita per sé. Guardando il suo cursus funeralorum, davvero unico, più pregiato del cursus honorum, si capisce come il fondatore dell'Espresso e di Repubblica sia certo un genio del giornalismo, ma anche un collezionista di meste cerimonie che lui officia con la gioia di un simpatico cannibale: gli fanno sangue. Nel mito è il sacrificio di vergini in fiore a garantire giorni prosperi e lunga vita al vecchio più o meno reprobo. Ci sono riti di questo genere praticati ancor oggi - si dice - in culti esoterici. Scalfari però non ha paragoni nella storia di questi due secoli. Ha cominciato con Mussolini, ieri è toccato al Fiorentino, il prossimo non si sa. È vero: ha riesumato una vecchia fiamma, Walter Veltroni, da lui già messo nella bara il 2009, quando il probo cineasta si dimise da segretario dal Pd, ma è una compagnia provvisoria, è un amore ad interim. Uno zombi devoto venuto buono in attesa del prossimo.
IL «NONNO». Lo spiega bene il finale dell'articolo. È persino spiritoso, addirittura autoironico. Stabilisce persino una linea genealogica. Dove l'unico non solo sopravvissuto ma eterno sia lui, il Nonno. Scrive di aver dialogato spesso con Renzi, fornendogli molti insegnamenti. Poi l'anno scorso si riparlarono: «...correvano quel giorno i dieci anni dalla fondazione del Pd compiuta da Veltroni. Renzi disse pubblicamente che il padre del partito era Veltroni, il quale era dunque anche suo padre politicamente parlando. Il giorno dopo gli telefonai e gli dissi che siccome Veltroni a sedici anni frequentava casa mia perché era amico delle mie figlie, di conseguenza, se lui lo riconosceva come padre, io in realtà ero suo nonno e i nonni - aggiunsi - insegnano la cultura ai nipoti e se loro non obbediscono ai suggerimenti vengono castigati severamente. Ci ridemmo su e non ne parlammo più». Ora però gli lancia un monito: «Se nel frattempo quella cultura da me suggerita lui se l'è fatta... (dovrà) accettare una posizione nel partito senza aspirare a una nuova leadership. Se invece andrà verso la scissione, il nonno sarà molto deluso».
MAUSOLEO. Scrive nonno e pure minuscolo, e ci pare un atto di umiltà esagerato. Macché nonno: è un amante, se fosse una donna sarebbe una mantide, un'ape regina, e gli altri poveri fuchi. A mettere in fila nei colombari tutti i virgulti della politica che ha baciato, un mausoleo egizio non basta; quello di Arcore, dove Berlusconi aspira a riposare con gli amici, è una faccenda da dilettanti brianzoli, rispetto allo specialista babilonese d' imbalsamazioni.
Conosciamo la leggenda. Ma essa va revisionata. Non è vero che Scalfari porti sfiga, anche se l'ipotesi è avvalorata dalla statistica. Ed è falso non capisca nulla di politica e si debba a lui la sciagura della sinistra che ha eletto a vate un rabdomante di disgrazie (altrui). Non è così. Fa apposta. Si può infatti sbagliare cavallo, ciascuno nella vita ha fatto scommesse sbagliate. Il problema, nel caso del Grande Eugenio, è che quando adotta un puledro, lo massaggia personalmente, gli fa fare un paio di sgambate, quindi lo indica al mondo come il Ribot del millennio, e si accaparra il merito di averlo creato. Poi però, dopo qualche vittoria, se perde un derby se lo mangia, lo digerisce, e ne sputa pure le ossa, dicendo: lo dicevo io che era un ronzino, poteva migliorare, non mi ha ascoltato. Quello se ne va, e lui resta. A proposito di Renzi, idem. C' è tutta una sequenza di articoli in cui Scalfari si erge a Giovanni Battista del Messia di Rignano. Prima delle elezioni europee del maggio 2014, intonò con il corno inglese un inno a Sua Maestà: «(Il Pd) non aveva un Re. Adesso ce l'ha. Per simpatia, per il personaggio, per la sua energia e voglia di fare... O Renzi o il caos». Scelse questo titolo per ungere di sacro crisma il suo pupillo: «Se Renzi vincerà, vent' anni durerà». Parapunzipunzipà. Renato Farina
Matteo Renzi, la lezione di Giorgia Meloni sugli arresti dei genitori: il vecchio sospetto sugli affari, scrive il 18 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. La decisione della procura di Firenze di arrestare i genitori di Matteo Renzi non ha sorpreso Giorgia Meloni, che da anni solleva dubbi sulla gestione dei familiari dell'ex premier delle proprie società. A Tg2 post, la leader di Fratelli d'Italia ha comunque invitato alla cautela: "Su temi come questo bisogna aspettare che la magistratura faccia il suo corso. Noi abbiamo denunciato più volte e forse anche per primi, cose che non tornavano nella gestione di alcune vicende da parte della famiglia Renzi. Lo abbiamo fatto - ricorda la Meloni - quando Renzi era "potente", semplicemente per amore della verità. Dopodiché vediamo quello che dice la magistratura".
I dipendenti dei Renzi: "La mente era Lalla". Tiziano: "Accuse false". Testimonianze shock: Laura Bovoli gestiva tutto. "E con i contanti ci pagava in nero", scrive Fabrizio Boschi, Giovedì 21/02/2019, su Il Giornale. Nome in codice, «Lalla». Man mano che passano i giorni emerge con maggiore chiarezza che il meccanismo messo in piedi dai Renzi e che andava avanti praticamente dal 2010, aveva una sola mente: Laura Bovoli, la moglie di Tiziano Renzi, detta Lalla. Un giro di cooperative aperte e chiuse, ma in modo che a guadagnare fosse sempre la Chil Post, poi Eventi 6. La prima delle cooperative coinvolte nel disastro fiscale è la Delivery, costituita nel 2009, con membri del cda che cambiano più volte e spesso non sanno neppure che ruolo ricoprono. Una Lavinia T., dice che all'epoca dei fatti studiava Belle Arti e siccome Tiziano era un amico di famiglia era andato dal notaio a firmare qualcosa, senza ben capire. Stessa storia per l'addetto agli automezzi, Carlo F. che su richiesta dell'autista del camper di Matteo Renzi, Roberto Bargilli, anche lui indagato perché amministratore all'epoca del dissesto, aveva fornito all'azienda la patente e aveva poi considerato i 500 euro ricevuti, un pagamento per gli automezzi, non certo per il ruolo nel cda di cui, dice, non averne saputo nulla. La Delivery finisce in difficoltà quasi subito, nel 2010 già non paga i contributi previdenziali. Al momento del dissesto, però, sia Tiziano sia Lalla Bovoli sanno cosa fare: costituire subito una nuova cooperativa. È la signora Bovoli a gestire il tutto: «Paghiamo i dipendenti e facciamogli firmare le dimissioni. Poi la nuova cooperativa, sommersa dalle consegne dei vini e dei volantini sarà costretta a riassumerli, non esistono alternative». Nasce così la Europe Service Società Cooperativa che, sebbene con altri dirigenti, viene di fatto gestita dai Renzi. Anche qui, la mail decisiva è quella della Bovoli: «Ti allego nota di credito e mastrino, questa se ti va bene è la risposta alla domanda su cui subentra». Tiziano, poi, al telefono con i presunti vertici della cooperativa ordina chi deve fare cosa, sia per questa società sia per la Marmodiv, la terza delle cooperative interessate dall'indagine, che avrebbe emesso fatture false per oltre duecentomila euro per consentire alla Eventi 6 di evadere le imposte: «Sono in debito con te, chiedimi qualunque favore», dice a uno degli amministratori. In questo giro di pagamenti fittizi retribuiti in contanti c'entra Andrea Conticini (coinvolto anche nell'indagine sui fondi versati alla sua Play Therapy Africa), marito di Matilde Renzi, una delle sorelle di Matteo, socia anch'essa della Eventi 6, a casa della quale, sempre a Rignano sull'Arno ma in paese, dove ha sede pure l'amministrazione della Eventi 6, si sono trasferiti ieri Tiziano e Lalla per scontare gli arresti domiciliari. La Marmodiv si sarebbe anche occupata di fare fatture per operazioni inesistenti. Un caso limite, quello di Mohammad Nazir, titolare di una ditta individuale per la spedizione di materiale propagandistico e quello di Isajiad Amir, titolare di una ditta a Castiglione delle Stiviere: «Disconosco la fattura da 15mila euro che mi mostrate valuterò l'opportunità di denunciare chi ha utilizzato il nome della mia impresa per prestazioni che non ho mai effettuato». Il titolare di una delle ditte coinvolte ha ammesso tutto: «La Marmodiv è gestita da prestanomi, tra i quali Andrea Conticini, che guidava Eventi 6. Le fatture che mi avete esibito sono false. Mi fu chiesto di aprire una partita Iva ed emettere quelle fatture. Restituivo in contanti, so che ci pagavano in nero i dipendenti». Malgrado le testimonianze choc dei dipendenti e le intercettazioni, Tiziano Renzi scrive su Facebook: «Accuse false, non auguro a nessuno ciò che io e Lalla stiamo vivendo. La verità prima o poi verrà fuori», e saluta i cronisti dal balcone. Lunedì prossimo si terrà davanti al gip, ma non in procura bensì in un luogo segreto, l'interrogatorio di garanzia.
Tiziano Renzi, l'ex dipendente lo inchioda: "La truffa dei volantini, facevano 15mila euro a settimana", scrive il 21 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Al centro dell'inchiesta che ha portato i genitori di Matteo Renzi - Tiziano Renzi e Laura Bovoli - agli arresti domiciliari c'è un fantomatico "capannone di Tiziano". Nessuno, scrive Repubblica che dedica alla vicenda un articolo, a Rignano sull'Arno sa dove si trovi. Ma nelle carte degli investigatori ricorre più volte. È l'ultimo mistero dell'inchiesta, insomma. E in questo mistero si inserisce un filone della stessa inchiesta che porta dritto ad alcuni volantini promozionali "destinati al macero": insomma venivano stampati e venduti per non essere distribuiti, ma soltanto per venire distrutti. Una frode che aveva già lambito l'inchiesta de Le Iene, che mostrò il misterioso capannone abusivo che fu poi dismesso in fretta e furia. Una frode che sarebbe stata molto redditizia: secondo il pm Luca Turco, pompava nei conti di Eventi6 - la società dei Renzi - fino a 15mila euro a settimana di sovrafatturazione. Le cifre, i già citati 15mila euro, sono state snocciolate da Paolo Magherini, un dipendente della Marmodiv, la cooperativa che secondo l'accusa era stata creata dai Renzi, che ne erano amministratori di fatto, allo scopo di "liberare" la Eventi6 dagli oneri fiscali e previdenziali. La Eventi6, per inciso, si occupava proprio della distribuzione di volantini promozionali di Esselunga, Conad e Coop. Spiegava Magherini: "Rilevanti quantità di questi volantini vengono direttamente portati al macero. Ci lucrano su. Ci sono camionisti conniventi che consegnano i volantini nuovi, appena stampati, direttamente al macero (...) Su questa gestione occulta sono tutti d'accordo, compresi i responsabili marketing di Esselunga e di altri supermercati. Per esempio: per coprire tutta Firenze e Scandicci ci vogliono 230-240mila volantini, ma ne vengono forniti più di un milione". La differenza, circa 700mila pezzi, veniva prelevata dai camionisti delle coop e portata dritta dritta al macero. Secondo il testimone, il trasferimento dei volantini "fantasma" era operazione complessa: il luogo dove venivano distrutti erano in Slovenia, ma prima transitavano per un magazzino di Mantova. Lo spostamento, ovviamente, doveva essere discreto. "Ricordo con certezza che negli anni passati era lo stesso Tiziano Renzi che veniva personalmente con i mezzi di trasporto a prelevare i volantini in esubero. Successivamente di questa cosa si occupava Carlo Ravasio", conclude il testimone.
Truffe anche sugli immigrati: il "metodo" della famiglia Renzi. Nelle mail della madre dell'ex premier le informazioni per aprire e chiudere società e aumentare così gli utili della famiglia, scrive Andrea Riva, Martedì 19/02/2019, su Il Giornale. Tiziano e Laura "Lalla" Bovoli, genitori dell'ex premier Matteo Renzi, sono agli arresti domiciliari.
"Lavoravo in nero per mamma Renzi". L'inchiesta inizia nel 2009, con la cooperativa Delivery Service Italia, di cui i due sono rimasti "amministratori di fatto" fino al 30 giugno 2010. Ma, come nota Repubblica, questa società "è stata in regola solo per il primo anno di esercizio. Nel 2010 è stata sommersa dai debiti. Nel 2011 ha chiuso. La Guardia di Finanza ha ricostruito due “evasioni contributive”, una di 287.131 euro per il 2010 e un’altra di 332.131". Una situazione molto difficile, praticamente impossibile da sostenere. Tanto che "Lalla" avrebbe spiegato ai dipendenti che era giunto il momento di aprire una nuova cooperativa "per cercare di guadagnare qualcosa in più". Ipotesi, questa, confermata anche da una mail inviata al marito Tiziano: "L’unica cosa che salvaguarda la coop è andare subito a dare gli stipendi e a far firmare contemporaneamente le dimissioni a tutti. Poi la nuova cooperativa, sommersa dalle consegne di vino e volantini, sarà costretta a riassumerli subito".
La mail di Tiziano Renzi. Tutto era stato pianificato a puntino, come emerge anche da una mail di Tiziano, inviata al genero, Andrea Conticini (che attualmente è coinvolto in un'altra indagine su alcuni fondi versati alla sua Play Therapy Africa): "Occorre predisporre un contratto che preveda questo compenso in base a un lavoro potenzialmente contestabile, anche se il contratto deve essere apparentemente non punitivo. Chiaramente per i clienti che Eventi 6 passerà come realizzazione alla cooperativa Marmodiv. Contemporaneamente creiamo una nuova cooperativa e la mettiamo pronta. Quando abbiamo preso in mano i lavoratori e abbiamo capito, facciamo il blitz, cambiamo il presidente e chiudiamo Marmodiv per mancanza di lavoro che nel frattempo, dall’oggi al domani, lo dirottiamo alla nuova". Il metodo della famiglia Renzi era ben collaudato ed è stato spiegato fin nei minimi dettagli da Fabrizio Boschi su ilGiornale di oggi: "Scioglimenti, liquidazioni, trasferimenti di sedi, cessioni di quote, redistribuzione dei ruoli, fallimenti pilotati, fatture gonfiate, avvalendosi di personaggi dubbi come l'immobiliarista Luigi Dagostino, arrestato a giugno, con il quale Tiziano era in affari per gli outlet". Il Gip ha spiegato così la misura cautelare nei confronti di Tiziano e Laura Renzi: "Emerge dalla circostanza che i fatti per cui si procede non sono occasionali e si inseriscono in un unico programma criminoso in corso da molto tempo, realizzato in modo professionale con il coinvolgimento di numerosi soggetti nei cui confronti non è stata avanzata richieste cautelare pervicacemente portato avanti anche dopo l'inizio delle indagini".
La truffa ai migranti. A finire nel mirino del "metodo Renzi" anche gli immigrati. Come scrive Repubblica: "Un caso limite, quello di Mohammad Nazir, titolare di una ditta individuale per la spedizione di materiale propagandistico. Ha emesso fatture per circa 40.000 euro, tra il 2016 e il 2017, in favore di Marmodiv. Gli investigatori hanno scoperto che: 1) all’indirizzo della sede della ditta, a Cesano Maderno, c’è un’abitazione; 2) la ditta non ha mai lavorato con la Marmodiv; 3) il signor Mohammed Nazir non risulta all’anagrafe". E poi, a leggere le carte, c'è pure il caso di Isajiad Amir, titolare di una ditta a Castiglione delle Stiviere: "Disconosco la fattura da 15.000 euro che mi mostrate valuterò l’opportunità di denunciare chi ha utilizzato il nome della mia impresa per prestazioni che non ho mai effettuato".
Laura Bovoli rinviata a giudizio, la madre di Renzi processata a Cuneo. Il dibattimento a giugno per concorso in bancarotta documentale, scrive Ottavia Giustetti il 28 febbraio 2019 su La Repubblica. Laura Bovoli, la madre di Matteo Renzi, va a processo a Cuneo dove questa mattina è stata rinviata a giudizio dal giudice Emanuela Dufour. Dovrà rispondere di concorso in bancarotta documentale per i rapporti che la società Eventi 6 di Rignano sull’Arno, di cui all’epoca (2012) era amministratrice, intratteneva con la Direkta srl cuneese di Mirko Provenzano, fallita nel 2014. Provenzano, secondo il pm Pier Attilio Stea che ha coordinato l’indagine nata dal l’esposto di uno dei suoi creditori, usufruì di tre note di credito fasulle, pianificate a tavolino con Laura Bovoli, per arginare le richieste di pagamento da parte di quattro cooperative creditrici. Si chiude così la tormentata udienza su questo caso, il primo da cui sono partite le indagini sui coniugi Renzi. Tormentata perché la stessa giudice inizialmente si era dichiarata incompatibile. Ricusata poi anche dalle difese (per essere stata in passato giudice in un processo collegato) la Corte d’Appello di Torino ha invece ritenuto che non ci fosse alcun ostacolo a che decidesse. E si apre un processo, il primo, per la mamma dell’ex premier. Altri imputati sono Paolo Buono, di San Secondo di Pinerolo, anche lui cliente di Direkta, e Franci Peretta, di Rivalta Bormida, difeso da Luca Gastini, che teneva la contabilità per Provenzano. Parte civile è il fallimento della Direkta con l’avvocato Vittorio Sommacal e un creditore. Il processo si apre il 19 giugno. "La decisione era ampiamente prevedibile, ci difenderemo in dibattimento", ha commentato il difensore di Laura Bovoli, avvocato Federico Bagattini, commentando il rinvio a giudizio della sua assistita disposto da parte del gup di Cuneo.
CONCORSO IN BANCAROTTA FRAUDOLENTA. Crac Direkta, il tribunale di Cuneo rinvia a giudizio la mamma di Renzi, scrive il 28 febbraio 2019 Il Sole 24 Ore. Nuovi guai giudiziari per la famiglia Renzi. Il tribunale di Cuneo ha disposto il rinvio a giudizio per Laura Bovoli, la mamma dell'ex premier Matteo Renzi, accusata di concorso in bancarotta fraudolenta. L'inchiesta è quella relativa al fallimento, nel 2014, della Direkta srl, società piemontese di distribuzione di volantini in contatto con un presunto giro di fatture false con la Eventi 6, società a lungo gestita dai coniugi Renzi. L'amministratore della società, Mirko Provenzano, è già stato condannato per reati fiscali e ha patteggiato per la bancarotta. La prima udienza è stata fissata al 19 giugno. Tiziano Renzi e Laura Bovoli si trovano da lunedì 18 febbraio agli arresti domiciliari per le accuse sono di emissione, tra il 2013 e il 2018, di fatture per operazioni inesistenti e bancarotta fraudolenta di due società cooperative tra il 2010 e il 2013. Secondo la procura di Firenze - l'inchiesta è coordinata dal procuratore Giuseppe Creazzo e condotta dall'aggiunto Luca Turco e dal pm Christine Von Borries - i Renzi avrebbero provocato il fallimento di tre cooperative, dopo averle svuotate. Il tutto sarebbe partito dalle indagini sulla Eventi 6, società specializzata nella distribuzione di materiale pubblicitario, prima intestata a Tiziano Renzi e poi passata alla moglie, e su tre cooperative (Delivery, Europe service Srl e Marmodiv). «Massimo rispetto per i magistrati», ha detto a più riprese l'ex segretario dem riguardo alla situazione dei sui genitori della cui innocenza è convinto. «Vadano a processo, non si fanno i processi passando le veline alle redazioni. Chiedo che per i miei genitori si vada a processo subito».
Giacomo Amadori per ''La Verità'' il 3 marzo 2019. «Qui finiamo sotto i ponti». Scrivevano così, il 13 settembre 2012, Laura Bovoli e Mirko Provenzano, successivamente imputati per il concorso nella bancarotta della Direkta srl di Cuneo. In quel momento i due imprenditori non riuscivano a far quadrare i conti delle loro aziende ed erano disperati. Le loro ditte dopo poco più di un anno incontreranno destini opposti. Nel 2014 la Direkta di Provenzano fallirà, mentre la Eventi 6 della Bovoli, con Matteo Renzi a Palazzo Chigi, prenderà «un'altra strada», con un incredibile boom di fatturato. Eppure nel 2013 i due erano costretti, secondo gli inquirenti di Cuneo, a fare carte false per non pagare Giorgio Fossati, presidente di alcune cooperative che aveva presentato un decreto ingiuntivo contro la Direkta, ma che era pronto a chiedere il pignoramento dei conti della Eventi 6. Nel 2018 Provenzano ha patteggiato l'accusa di bancarotta, mentre per Laura Bovoli, l'imprenditore Paolo Buono e l'ex commercialista di Provenzano, Franco Peretta, il processo inizierà il prossimo 19 giugno. A portarli a giudizio sono stati anche la cocciutaggine e l'intuito di Fossati il quale capì subito che le carte prodotte dalla Direkta, dalla Eventi 6 e dalla Gest espaces (diretta da Buono) potevano essere farlocche e per questo ha iniziato a rivolgersi alle Procure piemontesi. «Se avessi potuto capire a priori la natura di certe persone non mi sarei messo a lavorare con loro. Purtroppo all' epoca erano nomi spendibili», ci confida Fossati, 54 anni, piemontese schivo di Gavi Ligure. Nel 2012 era il rappresentante legale di quattro cooperative finite in liquidazione con un buco di 1,7 milioni di euro, causato da mancati pagamenti da parte delle aziende legate ai genitori di Matteo Renzi. Dagli atti processuali emerge un domino di mancati pagamenti. La Gest espaces non pagava la Eventi 6 che non pagava la Direkta che a sua volta non pagava Fossati. Il quale con La Verità continua il suo racconto: «Diciamo che sono stato un po' danneggiato e che si fa molta fatica a ripartire. Oggi non faccio più l'imprenditore, ma mi occupo della parte commerciale in una ditta di pulizie. Ma per me l'importante è recuperare la mia credibilità e la mia onorabilità al di là del danno economico che comunque è stato notevole». E per riottenere il suo buon nome, dal 2013, entra ed esce dai tribunali. Il 30 aprile 2013 Fossati si presenta presso la Procura di Alessandria per sporgere denuncia contro Provenzano. E nell' esposto allega una comunicazione di Laura Bovoli che negava che la Direkta vantasse crediti (pignorabili) nei confronti della Eventi 6. Per salvare la barca che stava affondando Provenzano e Bovoli avevano iniziato, sempre secondo l'accusa, a produrre le note di credito false. Non ottenendo soddisfazione Fossati, nel marzo 2014, torna alla carica con un altro esposto e circostanzia meglio i suoi sospetti nei confronti della Bovoli. Fossati contesta la corrispondenza tra la Eventi 6 e la Direkta, datata maggio e ottobre 2012, con la quale si chiedeva lo storno di sei fatture «genericamente per non meglio noti penali e disservizi» e per la «retrocessione del contratto da parte dei nostri clienti». Già all' epoca Fossati evidenzia alcune stranezze delle note di credito: «Non sfugge la circostanza che le sedi societarie distano tra loro diverse centinaia di chilometri, ma che, ciò nonostante, tutte le corrispondenze hanno indicato "recapito a mano"». L' imprenditore di Gavi sottolinea pure come «non si sia mai fatto uso della posta elettronica o della posta elettronica certificata» e che nel febbraio 2013 la Direkta aveva ammesso i suoi debiti nei confronti delle coop di Fossati. Salvo poi cambiare completamente versione. Per questo nella denuncia si legge: «Se le contestazioni () fossero state veritiere mai e poi mai in tempo successivo (e cioè a febbraio 2013) la stessa Direkta srl avrebbe riconosciuto appieno la sua situazione debitoria». Nel giugno 2014 Fossati, visto che ad Alessandria non si muove nulla, si rivolge ai magistrati di Cuneo e a questo punto l'inchiesta prende quota. «Nella provincia Granda ho trovato dei magistrati in gamba e devo ringraziarli perché hanno capito subito la situazione». In poco tempo gli inquirenti trovano la presunta pistola fumante nel computer di Provenzano. Il 13 aprile 2013, l'imprenditore spedisce una mail alla Bovoli e al genero della signora, Andrea Conticini, con cui invita gli interlocutori a inviare «delle richieste su carta intestata Eventi 6 di note di credito per penali e disservizi» retrodatate. Secondo l'accusa quei documenti dovevano servire a disinnescare i decreti ingiuntivi di Fossati, non solo nei confronti della Direkta, ma anche della Eventi 6. Lo stesso giorno Provenzano scrive al suo avvocato: «Per le lettere inerenti le penali ho sentito Eventi 6 e non ci sono problemi». In effetti dopo lo scambio di messaggi la Eventi 6 modifica la causale di tre note di credito dell'anno precedente (valore complessivo 78.680 euro) e riqualifica i presunti pagamenti, grazie a documentazione d' accompagnamento ritenuta fasulla, come saldo per presunti disservizi. «Quei documenti privi di reale giustificazione servivano, a nostro avviso, a creare partite fittizie per abbattere il debito di Eventi 6 verso Direkta in modo che Fossati non potesse pretendere i suoi soldi dai Renzi, debitori di Provenzano», ci riferisce l'avvocato alessandrino Luigi Negro, difensore di Fossati. Si spiega così l'accusa di bancarotta documentale contestata al posto dei reati di truffa o di falso. Nell'atto di costituzione di parte civile lo stesso legale collega a Rignano sull' Arno le varie note di credito e le contestazioni alle coop del Fossati. «Tutto ciò è riconducibile ad operazioni illecite a protezione della società Eventi 6 di cui è amministratore Laura Bovoli» si sostiene nel documento. Anche perché in Toscana la situazione non era rosea, come si ammette nel decreto ingiuntivo esecutivo presentato dalla Eventi 6 nei confronti della Gest espaces srl, in cui si leggeva che «la notevole esposizione della Eventi 6 nei confronti di tutta la catena dei propri subappaltatori comporta il rischio concreto di essere chiamata in manleva al pagamento delle retribuzioni dei soci lavoratori dipendenti delle cooperative» facenti capo al Fossati. A sostegno di questa ipotesi investigativa la Guardia di finanza nel luglio scorso ha inviato alla Procura di Cuneo un'informativa contenente una serie di «mail riguardanti le difficoltà finanziarie di Eventi 6 srl e di rimando di Direkta, dovute ai ritardi/mancati pagamenti del committente». Il 10 luglio 2012 Tiziano Renzi, in veste di marketing manager della Eventi 6, scrive a Buono lamentandosi dei problemi finanziari collegati al mancato pagamento delle fatture a 180 giorni. Dieci giorni dopo Provenzano comunica ai Renzi il «grave imbarazzo» delle coop di Fossati che non riuscivano a pagare i lavoratori: «La situazione sta per degenerare» avvertì, «hanno intenzione di arrivare a chiedere i loro soldi anche al cliente diretto». Il 13 settembre 2012, come detto, Provenzano annuncia alla Bovoli: «Mi attende qualche ponte come prossima dimora». E lei ribatte: «Ti seguo nel cercare il ponte più accogliente».
Laura Renzi e la storia della villa di famiglia. La storia della villa dei genitori di Renzi, al centro di un giro di passaggi di proprietà e mutui a dir poco singolare, scrive Antonio Rossitto il 4 marzo 2019 su Panorama. La villa gialla sbuca dietro l’ennesima curva della strada che porta da Rignano sull’Arno a Pontassieve. Lassù, in cima alla collina, c’è la sghemba costruzione in cui vivono Tiziano Renzi e Laura Bovoli. Nei giorni scorsi è stata assediata dai giornalisti. Tanto da convincere i genitori dell’ex premier a chiedere e ottenere gli arresti domiciliari nella, meno isolata, casa della figlia Matilde. La strana storia della villa gialla di Torri è stata raccontata da Panorama nel 2014. E comincia a settembre del 2005. Laura Bovoli, già proprietaria di un sesto dell’immobile, acquista da alcuni familiari le rispettive quote. La donna liquida i parenti con 152 mila euro, diventando proprietaria esclusiva. Il valore complessivo della casa è, quindi, di circa 180 mila euro. Eppure poco più di un mese e viene accordato a Bovoli un mutuo di 900 mila euro dalla Bcc di Signa. Presidente dell’istituto è Domizio Moretti: sette mesi prima, a marzo 2005, Matteo Renzi, all’epoca presidente della provincia di Firenze, lo aveva nominato presidente del cda dell’Agenzia fiorentina per l’energia. Parte di quel generoso prestito viene comunque usato per ristrutturare e ampliare la casa, nel 2006 e 2010: i vani passano così, da 12,5 a 16,5. Ma il 6 novembre del 2012 arriva il colpo di scena. A cedere l’immobile, stavolta, è Laura Bovoli. Gli acquirenti, invece, sono i figli: Matteo, Samuele, Matilde e Benedetta. La donna mantiene l’usufrutto della villa a vita. Ma i fratelli Renzi le versano comunque, grazie a un altro generoso mutuo, 1,3 milioni di euro: almeno il doppio del valore del fabbricato. Il finanziamento, stavolta, è accordato da due banche. Che iscrivono sulla casa un’ipoteca di secondo grado da 2,6 milioni di euro: una garanzia che, normalmente, non permette di ottenere alcun affidamento, soprattutto di una certa entità. Forse anche per questo, il prestito da 1,3 milioni viene concesso da due Crediti cooperativi, ognuno per 650 mila euro: a quello di Signa, stavolta si affianca l’Impruneta. Che annovera tra i soci Marco Carrai, amico dell’ex premier. Tutte coincidenze, magari. Ma il dubbio rimane: la vendita della villa di Torri è stata una mozione degli affetti o un altro affare di famiglia?
Casa Renzi nel vortice degli affari. Panorama ha ricostruito il giro di denari ed operazioni delle società dei genitori dell'ex premier, scrive Antonio Rossitto il 5 marzo 2019 su Panorama. Quarant’anni di vorticosa carriera imprenditoriale. Quindici aziende avviate: amministrate, cessate, liquidate o fallite. E almeno altre tre che, per i magistrati fiorentini, venivano controllate indirettamente. Un fittissimo reticolo di società, decimate nel tempo da un’incessante morìa imprenditoriale. Sullo sfondo, qualche briga giudiziaria. Fino al rovinoso inciampo. Diciotto febbraio 2018: Tiziano Renzi e Laura Bovoli, genitori dell’ex premier Matteo, finiscono agli arresti domiciliari per bancarotta fraudolenta e false fatture. Il gip di Firenze, Angela Fantechi, li ritiene il perno di un sistema di fatture inesistenti e operazioni gonfiate riconducibili alla Marmodiv: un «giro» da 725 mila euro. Anche le casse di Delivery ed Europe service, poi fallite, sarebbero state svuotate. Le cooperative avrebbero fornito manodopera in saldo, senza oneri previdenziali ed erariali, alla Eventi 6, società di famiglia sopravvissuta alla falcidia camerale. Buona sorte che accompagna anche una sua controllata, nata a giugno 2017: la Vip, Very important products. La ditta, che commercia e promuove cibi e bevande, è amministrata da Matilde Renzi, figlia di Tiziano: coinvolta nelle attività di famiglia assieme al fratello Samuele e la sorella Benedetta. A differenza invece di Matteo, che ha lavorato per il padre solo fino al suo esordio in politica, nel 2004, quando viene eletto presidente della provincia di Firenze. Ma la sua ascesa politica ha portato comunque fortuna ai conti della Eventi 6. Nei suoi due anni al governo, dal 2014 al 2016, il fatturato cresce del 265 per cento. Mentre i ricavi passano da 698 a 114.765 euro. Speculare sobbalzo hanno i redditi di Babbo Tiziano: a fine 2013 dichiara «zero carbonella». L’anno dopo, con il figliolo a Palazzo Chigi, il suo reddito lievita a 51.901 euro. Partiamo dall’inizio, però. Dai registri delle imprese si scopre che le avventure aziendali di Tiziano Renzi cominciano quarant’anni fa, il 9 gennaio del 1978, nella natia Rignano sull’Arno, paesello a una ventina di chilometri dalla città dei Medici. Il padre dell’ex presidente del Consiglio, 26 anni, fonda la sua ditta individuale: Renzi Tiziano. L’attività è: agenti di prodotti farmaceutici e di erboristeria per uso medico. Dieci anni dopo, a giugno del 1985, termina la sua corsa. Ma a febbraio 1998 ritorna in pista un’altra Renzi Tiziano: una partita Iva nuova di zecca per «attività di rappresentanza». Seguono 24 anni di onorata fatturazione, fino a gennaio del 2012. Pure stavolta si tratta di un arresto temporaneo. A luglio del 2013 l’omonima ditta viene rifondata. Una settimana fa però la società è nuovamente cancellata. La visura camerale dettaglia: 20 febbraio 2019, due giorni dopo gli arresti ordinati dalla procura di Firenze. Mentre una settimana prima, il 13 febbraio 2019, veniva registrata la chiusura di Sfera, l’ennesima srl di famiglia. Eppure era nata poco più di due anni fa: a ottobre del 2016. I soci erano i tre figli: Samuele, pediatra emigrato in Canada, aveva il 50 per cento delle quote. Il resto era diviso tra le due sorelle: Matilde e Benedetta. Oggetto sociale: organizzazione e gestione di centri di fisioterapia e riabilitazione. Per i Renzi, un’attività abbastanza inusuale. A meno che lo scopo non fosse spendere le competenze mediche del figlio, già azionista di maggioranza. Il capitale era il minimo indispensabile: 10 mila euro. Ma i denari effettivamente versati sono stati solo quelli esiziali: 2.500 euro. Una prassi che può rivelare scarsa liquidità o breve vita aziendale. E che ricorre spesso nella galassia dei Renzi. Comunque sia, Sfera è solo l’ultima trapassata. L’elenco delle imprese nell’orbita renziana, sorte e poi sepolte, è fitto. Torniamo a quei meravigliosi anni Ottanta. A luglio 1984, nella solita Rignano, viene costituita la Speedy. Capitale: 10.400 euro. Alla società si affianca la Speedy promozioni, con sede a Roma. L’amministratore unico, fino al maggio 2002, è Laura Bovoli. Le due ditte si occupano soprattutto della vendita per strada della Nazione, il quotidiano fiorentino. Per la distribuzione vengono assoldati ragazzi in cerca di qualche extra. Niente contratti né contributi. Almeno a sentire l’Inps. Che, come rivelato da Panorama, il 25 maggio 1998, dopo una serie di accertamenti, multa la Speedy per 955 mila lire e la Chil, altra società di famiglia nata intanto nel 1993, per quasi 35 milioni di lire: l’accusa è di non aver pagato i contributi agli strilloni. Il 5 febbraio 1999 la Speedy, «rappresentata dal liquidatore Tiziano Renzi», e la Chil, «nella persona dell’amministratore Laura Bovoli», ricorrono contro l’ente previdenziale. Il contenzioso finisce al Tribunale di Firenze. Il 16 ottobre 2000 vengono respinte le istanze. Renzi e Bovoli dovranno rimborsare 5 milioni di lire per le spese processuali. Sentenza confermata dalla Cassazione il 28 settembre 2004: ricorso è privo di fondamento. Pochi mesi dopo, il 3 febbraio 2005, la Speedy finisce al macero. I conti sono asfittici: zero fatturato e una perdita di 4.428 euro. In quegli anni l’azienda di famiglia più importante è la Chil. Il ramo è lo stesso: marketing e distribuzione di giornali. Agli inizi del 2000, comincia a occuparsi della consegna notturna del Secolo XIX a Genova. Tiziano è amministratore unico dal febbraio 1999. Carica che mantiene per dieci anni. Nella società lavora anche il figlio Matteo, futuro premier. Il 15 giugno 2004, eletto alla guida della Provincia di Firenze, l’ufficio stampa distribuisce la biografia del neopresidente: «Matteo Renzi ha fondato la Chil, di cui poi ha ceduto le quote, dove si occupa di coordinamento e valorizzazione della rete, nella gestione di oltre duemila collaboratori occasionali in tutt’Italia». E qui bisogna aprire l’ennesima, e poco edificante, parentesi. L’ex presidente del Consiglio rimane un semplice collaboratore coordinato continuativo della Chil, senza diritto a pensione né Tfr, fino al 24 ottobre 2003. Dopo tre giorni da disoccupato, viene riassunto dalla stessa società come dirigente. Ma l’azienda si caricherà solo per pochi mesi gli oneri di cotanto figlio. Perché lo scatto di carriera, guarda caso, avviene il 7 novembre 2003, alla vigilia dell’ufficializzazione, già ventilata dai giornali, della candidatura alla guida della Provincia di Firenze. La scontata elezione avviene sette mesi più tardi: il 13 giugno 2004. Da quel giorno, per cinque anni, l’amministrazione versa gli oneri pensionistici di quella promozione tanto tempestiva quanto inusuale. Eletto sindaco nel 2009, godrà dello stesso privilegio fino al febbraio 2014, quando diventa presidente del Consiglio. Solo due mesi più tardi, il 22 maggio del 2014, pressato dai giornali, annuncia le sue dimissioni dalla Chil. Ma comunque Renzi avrebbe già messo da parte, alle spalle dello scassatissimo sistema previdenziale italiano, un tesoretto che un operaio si ritrova solo dopo vent’anni di lavoro in fabbrica. Torniamo però agli affari di famiglia. Anche la Chil, alla fine, non resiste alle intemperie finanziarie. Il padre del premier, a ottobre del 2010, ne cede la parte più profittevole, per soli 3.878 euro, alla sua Eventi 6, nata ad agosto 2007: azienda che appartiene alle figlie, Matilde e Benedetta, e alla moglie, Laura Bovoli. Mentre il ramo secco, pieno di debiti e guai, passa a Gianfranco Massone: suo figlio Mariano, vicepresidente della Delivery, è stato arrestato una settimana fa assieme ai Renzi. Ma a febbraio del 2013, l’ex gioiellino di casa Renzi fallisce. Portandosi dietro 1 milione e 200 mila euro di debiti. Renzi senior, a settembre 2014, viene indagato dalla Procura di Genova per bancarotta fraudolenta. Un’indagine che, adesso, sembra il prologo di quella fiorentina. Ma a luglio 2016 l’inchiesta è archiviata. Babbo Renzi non ha avuto nessuna responsabilità nel crac. Alle sue spalle, intanto, le chiusure aziendali si affastellano. Nel lontano 1988 Tiziano apre con l’amico Andrea Bacci, l’immobiliare Raska. Ma la società viene chiusa già nel 1993, cinque anni dopo. Ancor più fuggevole l’esistenza di Uno comunicazione, nata nel 2002 per l’ideazione di campagne pubblicitarie. Babbo Renzi ha il 43,50 delle quote. Capitale minimo: 10 mila euro. Euro versati: solo tremila. Tre anni dopo, l’impresa è già defunta. La girandola non si ferma. Il 5 febbraio 2003, sempre a Rignano sull’Arno, nasce una la Arturo. Renzi senior ha il 90 delle quote. Il resto è in mano alla sorella, Tiziana. Una srl dall’oggetto apparentemente stravagante: produzione di pane e prodotti di panetteria freschi. Eppure a Genova, all’inizio del 2007, la Arturo si occupa di retribuire chi distribuisce Il Secolo XIX. Come rivelato da Panorama nel 2014 e raccontato dalle Iene un mese fa, la società il 20 settembre 2011 viene condannata dal Tribunale di Genova a pagare quasi 90 mila euro a Evans Omoigui, un vecchio dipendente, per il suo licenziamento illegittimo nell’aprile 2007. Quei soldi, però, l’ex strillone non li vedrà mai. La vita imprenditoriale della Arturo è infatti breve. Alla fine del 2007, il fatturato è di 954 mila euro. Ma le perdite raggiungono i 124 mila euro. Così il 18 aprile 2008 finisce nelle mani del liquidatore. Smessi i panni di socio, è sempre lui: Tiziano Renzi. Che nel mentre, a maggio 2004 compra il 60 per cento della Mail service, con sede ad Alessandria dal solito Gianfranco Massone, già coinvolto nella vendita della Chil post. Come spiegato su La Verità da Giacomo Amadori - che da anni racconta con scoop e retroscena le rocambolesche vicissitudini di Casa Renzi - 28 mesi dopo, nel settembre 2006, Renzi senior vende la sua quota per 120 mila euro all’immobiliare alessandrina A.M.S, destinata a fallire nel 2013. Lo stesso epilogo avrà Mail service, travolta dai debiti. Vite brevi e intense, quelle delle società renziane. Sahara, di cui Tiziano ha il 33 per cento, nasce a settembre 2003, sempre con tremila euro di capitale versati su 10 mila. E tira le cuoia a febbraio 2005. Esistenza ancor più fugace ha Bagheera: agenzia di distribuzione di libri, giornali e riviste. Vede la luce ad agosto 2007 nella campagna di Reggello: capitale di 10 mila euro, versati solo 2.500. Tiziano Renzi ha il 90 per cento delle quote. Poco più di un anno dopo è però già nel cimitero delle imprese. A dicembre 2008 viene chiusa. L’ultimo bilancio, a fine 2007, annota: fatturato di 126.598 euro, perdite per 9.915 euro. Sempre in quel di Reggello, a ottobre 2014 nasce Party: Tiziano Renzi ha il 40 per cento. Mentre amministratore unico è Bovoli. Il resto è di Nikila Invest Srl, amministrata da Ilaria Niccolai, moglie dell’imprenditore Luigi D’Agostino, noto come il re degli outlet. Come The Mall, proprio a Reggello, poco distante da casa Renzi. D’Agostino, a giugno 2018, viene però arrestato per un giro di fatturazioni gonfiate. La stessa accusa che ha portato ai domiciliari i Renzi. E nell’inchiesta fiorentina appare anche la Party: avrebbe emesso, a giugno 2015, due fatture false per quasi 200 mila euro. Comunque sia, la srl finisce in liquidazione già a febbraio 2016: dopo poco più di un anno di attività. E Bovoli lascia la carica di amministratore unico. Sette mesi più tardi, a ottobre 2016, è creata Sfera. I soci sono i tre figli di Renzi. Doveva occuparsi di strutture per la fisioterapia. Ma due settimane fa la società è stata definitivamente cancellata. E insomma, un trapasso dopo l’altro, s’arriva mestamente a oggi. L’ultima nata, a giugno del 2017, è Vip, roboante acronimo di un più giocoso «Very important products». Amministratore unico è Benedetta Renzi. Azionista di minoranza, con il 3 per cento, è Angelo Di Cesare, ex manager del Messaggero. La società è invece controllata al 97 per cento dalla Eventi 6, finita nell’inchiesta della Procura di Firenze. L’ultimo bilancio dell’azienda dei Renzi è stato approvato il 23 marzo 2018, a Rignano sull’Arno: 6,2 milioni di ricavi e 135 mila euro di utili. Anche se sull’impresa pesano 2,8 milioni di debiti (di cui 1,1 milioni da rimborsare entro il 2018): quasi raddoppiati rispetto a due anni prima, quando si contenevano a 1,5 milioni. Ma tra le considerazioni finali della nota integrativa al bilancio si legge: «La società ha resistito grazie agli investimenti degli anni precedenti, nonostante il reiterato attacco mediatico verso alcuni membri della famiglia, che si è esteso nel disegno premeditato di minare la credibilità dell’azienda, sebbene la stessa operi sul mercato da quasi 35 anni ed abbia un ottimo rating bancario». Firmato: il presidente del consiglio d’amministrazione, signora Laura Bovoli. Eppure, a leggere gli ultimi bilanci della sua impresa, sembrerebbe che l’esposizione mediatica e politica non sia stata devastante. Tutt’altro. A fine 2013 fatturava meno di 2 milioni di euro, segnando un utile irrisorio. Due mesi dopo, il figlio Matteo si issa alla presidenza del Consiglio. E, proprio nel 2014, Eventi 6 riesce a raddoppiare i propri ricavi: 4,3 milioni. L’anno successivo s’impennano ancora: 5,6 milioni. Per arrivare, nel dicembre 2016, mese della caduta del governo Renzi, a quasi 7,3 milioni di euro: un aumento del 265 per cento, rispetto al 2013. Nello stesso periodo gli utili salivano da 698 a 114.765 euro: un incremento del 16.341 per cento. Intanto, anche l’Irpef di Tiziano Renzi lievitava. Nel 2013 il suo reddito segna zero. L’anno seguente si gonfia, fino a raggiungere i 51.901 euro. Exploit che pochi possono vantare. E proprio mentre il figliolo guida il Paese. Coincidenze, certo. Che però non legittimano le geremiadi scritte a bilancio da Laura Bovoli. Adesso è ai domiciliari assieme al marito, che su Facebook s’è sfogato: «La verità verrà fuori». Ma il lieto fine, per i magistrati, non sarebbe quello auspicato da Babbo Tiziano.
Renzi, tutte le condanne delle società di famiglia. L'arresto ai domiciliari per Tiziano Renzi e la moglie non sono un caso isolato. Altre imprese della famiglia hanno subito processi e multe, scrive Antonio Rossitto il 19 febbraio 2019 su Panorama. Il clamoroso arresto ai domiciliari per Tiziano Renzi e la moglie, Laura Bovoli, sono solo l'ultimo episodio di una lista di problemi con la giustizia che hanno coinvolto i genitori di Matteo Renzi e le loro società. Questa volta a finire al centro del mirino della Procura sono stati i fallimenti di due cooperative, la Marmodiv e Delivery, i cui amministratori di fatto, secondo gli inquirenti sono i genitori del premier. Fallimenti che, stando all'accusa sarebbero stati provocati volontariamente dopo averne svuotato le casse. L'inchiesta è partita a Cuneo, dove la procura stava indagando sui conti, i fallimenti ed alcune fatture sospette della "Delivery service". Dal Piemonte le carte erano poi state trasferite a Firenze per competenza. Da qui il lavoro dei magistrati ha portato alla richiesta di arresto per i due e per un terzo uomo, Mariano Massone, già indagato con Tiziano Renzi in un altro procedimento a Genova.
Perché i problemi con la giustizia dei genitori dell'ex Presidente del Consiglio sono cominciati anni fa. Tiziano Renzi, il pomeriggio del 16 settembre 2014, ha spiegato al gruppetto di concittadini accorsi nell’angusta sede del Pd a Rignano sull’Arno, che altro non poteva fare: dimissioni irrevocabili da segretario locale del partito. Quella mattina, la Guardia di finanza di Genova aveva bussato alla sua villa di Torri, in cima a una collina non distante, per consegnargli un avviso di proroga delle indagini. L’accusa: la bancarotta fraudolenta della Chil post, l’ex società di famiglia che si occupava di marketing e distribuzione di giornali. Il padre del premier, a ottobre del 2010, ne aveva ceduto una parte alla Eventi 6: azienda che appartiene alle figlie, Matilde e Benedetta, e alla moglie, Laura Bovoli. Mentre il ramo secco, pieno di debiti e guai, passava a Gianfranco Massone, 75 anni: suo figlio, Mariano, è in affari con Tiziano Renzi da anni. Anche la carica di amministratore della Chil post finiva a una vecchia conoscenza: Antonello Gabelli. Ma a febbraio del 2013, l’ex gioiellino di casa Renzi falliva. Portandosi dietro 1 milione e 200 mila euro di debiti. E tanti interrogativi a cui i magistrati genovesi, Nicola Piacente e Marco Airoldi, stanno tentando di rispondere. Tiziano Renzi, con la baldanza trasmessa al figlio, ci ha scherzato su: "Finalmente mi hanno beccato!". Ha poi vergato una nota: "Alla veneranda età di 63 anni e dopo 45 anni di attività professionale, ricevo per la prima volta un avviso di garanzia…". In realtà non si è trattato di un battesimo giudiziario. Tre aziende di famiglia, dal 2000 a oggi, sono state condannate sette volte, tra cause di lavoro e civili. Contributi non pagati, lavoro irregolare, licenziamenti illegittimi, danni materiali. Il curriculum delle imprese dei Renzi non è immacolato come il giglio amato da Matteo. Nomi, persone e situazioni si rincorrono nel tempo. I Massone e Gabelli, Pier Giovanni Spiteri e Alberto Cappelli: i rodati partner d’affari di Tiziano sbucano fuori un processo dopo l’altro. Per intrecciarsi con l’attualità: l’accusa di bancarotta fraudolenta. I primi guai cominciano alla fine degli anni Novanta, a Firenze. Oltre alla Chil, coinvolgono la Speedy, di cui Tiziano Renzi ha l’80 per cento. Le due ditte fanno strillonaggio per il quotidiano La Nazione. Nella Chil anche il figlio, appena neolaureato, ha un ruolo determinante. Per stessa ammissione dell’interessato. Il 15 giugno 2004, eletto alla guida della Provincia di Firenze, l’ufficio stampa distribuisce la biografia del neopresidente: "Matteo Renzi ha fondato la Chil, di cui poi ha ceduto le quote, dove si occupa di coordinamento e valorizzazione della rete, nella gestione di oltre duemila collaboratori occasionali in tutt’Italia". Ed è proprio questo il versante che da subito diventa il più limaccioso.
Le prime condanne a Firenze per i contributi non versati. Il 25 maggio 1998 l’Inps, dopo una serie di accertamenti, multa la Speedy per 955 mila lire e la Chil per quasi 35 milioni di lire: l’accusa è di non aver pagato i contributi agli strilloni. Il 5 febbraio 1999 la Speedy, "rappresentata dal liquidatore Tiziano Renzi", e la Chil, "nella persona dell’amministratore Laura Bovoli", cioè la moglie, ricorrono contro l’ente previdenziale. Il contenzioso finisce al Tribunale di Firenze. Il 16 ottobre 2000 vengono respinte le istanze. Renzi e Bovoli dovranno rimborsare 5 milioni di lire all’Inps per le spese processuali. Nella sentenza, il giudice Giovanni Bronzini, ricostruisce: "Le due società si sono avvalse di collaboratori addetti alla vendita ambulante del quotidiano La Nazione. Questi si presentavano al mattino, circa alle ore 7.00, e ritiravano il quantitativo di copie che ritenevano di riuscire a vendere e quindi andavano a collocarsi in una zona della città a loro assegnata". A quelle riunioni, racconta Giovanni Donzelli, all’epoca studente, oggi consigliere regionale in Toscana con Fratelli d’Italia, si palesava anche il futuro premier: "Arrivava sul furgoncino bianco, da solo o con il padre, per consegnare i giornali e coordinare noi strilloni. Era come adesso: svelto, cordiale e brillante". Il verdetto spiega pure come venivano contrattualizzati i collaboratori: "Sottoscrivevano un modulo-contratto, nel quale la loro prestazione era definita di massima autonomia" dettaglia il giudice Bronzini. "Ma il contributo è sicuramente dovuto. I venditori ambulanti sono da considerarsi collaboratori coordinati e continuativi". I Renzi non la pensavano così: nessun contratto, contributo o tfr. Il parallelo con le polemiche di questi giorni sulla riforma del mercato del lavoro è inevitabile: pure da giovane imprenditore, Matteo Renzi sperimentava massima flessibilità occupazionale. E negli anni a cui si riferiscono le multe dell’Inps, già selezionava e gestiva i collaboratori. Andrea Santoni, commerciante fiorentino, 36 anni, venne arruolato nell’estate del 1996: "Un’amica mi parlò della possibilità di fare qualche soldo" ricorda con Panorama. "Suggerì di chiamare Matteo. Così feci. Disse di raggiungerlo a Rignano, nella sede della ditta. Lì spiegò come funzionava il lavoro. I pagamenti erano in contanti, in base ai quotidiani venduti. Non mi fece firmare nulla. Né io chiesi niente, del resto". Il 5 febbraio 2002 la Corte d’appello di Firenze conferma la sentenza di primo grado: i contributi dovevano essere versati. Viene smontato anche l’ultimo baluardo difensivo in cui si sosteneva che i venditori non avevano diritto al contratto perché il loro lavoro non era costante. "La continuità dell’impegno dei circa 500 strilloni emerge indiscutibilmente" sottolinea invece il giudice. L’appello della Speedy e della Chil è dunque respinto. La parola definitiva la scrive la Cassazione il 28 settembre 2004: il ricorso dei Renzi è privo di fondamento.
Le grane genovesi. A dispetto però delle tre sentenze sfavorevoli, la gestione dei collaboratori non sembra variare. Agli inizi del 2000, ormai defunta la Speedy, la Chil aveva cominciato a occuparsi della consegna notturna del Secolo XIX a Genova. Ma anche le attività imprenditoriali sotto la Lanterna hanno riverberi processuali. Che sfoceranno il 19 giugno 2013 in una doppia condanna del Tribunale di Genova per due diverse cause intentate da ex portatori di giornali. Nella prima, il giudice Enrico Ravera obbliga la Chil post, nata nel frattempo dalle ceneri della Chil, a risarcire, in solido con la Eukos distribuzioni, a cui aveva affidato un subappalto, Maurizio L. M., impiegato tra il 2005 e il 2006. Ed è qui che vecchie carte processuali cominciano a intersecarsi con l’inchiesta genovese. Tra i soci della Eukos, fallita a luglio del 2012, c’è pure Giovanna Gambino, compagna di Mariano Massone, oggi indagato assieme a Tiziano Renzi per bancarotta fraudolenta. La maggioranza delle quote è di Alberto Cappelli, 65 anni, di Acqui Terme. Tra le sue cariche c’è anche quella di amministratore della Mail service, fallita nell’ottobre del 2011. L’ennesima bancarotta della stessa compagnia di giro su cui stanno indagando i magistrati. Cappelli, infatti, aveva ereditato il timone della Mail service da Massone, tre anni addietro. Che a sua volta aveva sostituito Tiziano Renzi: amministratore per due anni, dal febbraio del 2004 allo stesso mese del 2006. Una catena che ricorda il fallimento della Chil post, ceduta da Renzi a suoi sodali in affari prima dello sfacelo. I magistrati ipotizzano che i Massone, Gabelli e Cappelli siano delle teste di legno. Caronte che avrebbero traghettato queste imprese da un inferno finanziario all’altro. In cambio di cosa? E le controversie giudiziarie hanno contributo alla decisione di sbarazzarsi delle aziende? A Chil post ed Eukos l’ex collaboratore Maurizio L.M. aveva chiesto un sostanzioso risarcimento per "differenze retributive, ferie, permessi, mancati riposi e preavvisi". Assicurando "di aver reso le suddette prestazioni in regime di subordinazione, pur non regolarizzato". Tecnicismi a parte, un classico caso di lavoro nero. Perché, spiega il giudice, «l’attività svolta dal ricorrente deve considerarsi di lavoro subordinato». Chil post ed Eukos vengono dunque condannate a pagare 4.339 euro per stipendi arretrati e 439 euro di tfr. Lo stesso giorno della sentenza, il 19 giugno 2013, il Tribunale di Genova affronta una causa analoga. Che si conclude con una nuova pena inflitta alla Chil post: il pagamento, sempre in solido con la Eukos, di 4.684 euro a Manuel S., in servizio dal 2001 al 2005. La Chil post, però, viene tirata anche dentro una causa civile, dopo la denuncia della Genova press, che lamentava danni a un locale concesso in affitto. Una piccola bagattella, insomma. Tanto che in primo grado, il 17 giugno 2011, la richiesta viene respinta. Mentre in Appello, il 16 maggio 2012, è deciso il risarcimento di 1.750 euro, vista "l’asportazione delle pareti divisorie degli uffici".
La causa per licenziamento illegittimo. La Chil e la Speedy non sono tra l’altro le uniche aziende di famiglia a essere rimaste invischiate in contenziosi. C’è un’altra srl, la Arturo, ad avere creato patemi processuali. Fondata all’inizio del 2003 da Tiziano Renzi, che detiene il 90 per cento delle quote. Oggetto sociale: produzione di pane e panetteria fresca. Eppure a Genova, all’inizio del 2007, la Arturo si occupa di retribuire chi distribuisce Il Secolo XIX. Come Omoigui E., un nigeriano, impiegato nelle consegne notturne dall’ottobre 2001 ad aprile 2007. Solo il 7 febbraio 2007 è però assunto come co.co.co. a progetto dalla Arturo, amministrata da Tiziano Renzi fino al 20 marzo dello stesso anno. Giorno in cui, al suo posto, entra in carica Pier Giovanni Spiteri, amico e sodale di una vita. Il 13 aprile 2007 Omoigui E. viene allontanato. A ottobre l’amministratore della Arturo diventa Antonello Gabelli, pure lui indagato per bancarotta fraudolenta della Chil post. La vita imprenditoriale della Arturo sarà ancora breve. Il 18 aprile 2008 finisce nelle mani del liquidatore: Tiziano Renzi. L’azienda viene comunque denunciata da Omoigui E. Il 20 settembre 2011 è condannata dal Tribunale di Genova a pagare 85.862 euro per il suo licenziamento illegittimo: "Privo della forma scritta, intimato oralmente, comporta l’assoluta inefficacia dello stesso" scrive il giudice, Margherita Bossi. Al nigeriano sono riconosciuti anche 3.947 euro. Quasi 90 mila euro, in totale, che probabilmente non vedrà mai. Come del resto i suoi ex colleghi usciti vittoriosi dal tribunale. Una sequela di fallimenti ha spazzato via ogni pretesa risarcitoria. Un epilogo che non ha sorpreso né querelanti né tantomeno avvocati. Già il giudice Bossi aveva bacchettato il "comportamento processuale" della Arturo e della Eukos: "I cui legali rappresentanti neppure si sono presentati a rispondere all’interrogatorio formale, senza addurre alcuna giustificazione" sferza il giudice. Aggiunge il magistrato: "Arturo srl, rimanendo contumace, è rimasta inadempiente al proprio onere probatorio". Compito che sarebbe spettato al liquidatore della società: Tiziano Renzi.
Quel prestito da mezzo milione di euro. I nuvoloni di questi giorni sono però ben più densi. Il sospetto dei magistrati è che la Chil post, l’8 ottobre 2010, sia stata svuotata della polpa con la cessione di un ramo d’azienda alla Eventi 6, gestita dalla madre e dalle sorelle del premier. Valore della compravendita: appena 3.878 euro. Anche se il bilancio del 2009 era stato chiuso con 4,5 milioni di fatturato e quasi 36 mila euro di utili. Il 14 ottobre del 2010, sei giorni dopo la cessione, quel che resta della Chil post viene venduto a un eterodiretto ultrasettantenne, Gianfranco Massone, per 2 mila euro. E l’amministratore diventa Gabelli. La società finisce rapidamente nel camposanto dei fallimenti. È il febbraio del 2013. Un anno più tardi la Procura di Genova indaga Renzi, i Massone e Gabelli per bancarotta fraudolenta. Tra i debiti mandati al macero spicca quello con la Banca di credito cooperativo di Pontassieve: quasi mezzo milione di euro. Presidente dell’istituto è Matteo Spanò, baldo quarantenne, fraterno amico del presidente del Consiglio. Un debito che la Chil post si portava dietro da anni. La nota integrativa al bilancio 2010 dettaglia: al 31 dicembre del 2009 era di quasi 191 mila euro. Nell’esercizio seguente sale a 259 mila euro. Poco più avanti, il 21 maggio del 2011, Spanò, dal 2008 nel cda della banca, diventa presidente. Qualche mese dopo, il debito finisce a Massone assieme alla Chil. Riappare a maggio del 2013, nell’elenco dei creditori stilato dal curatore fallimentare: 496.717 euro. Tiziano però assicura di essere sereno. La mattina di lunedì 22 settembre, passato qualche giorno dalla proroga delle indagini, il cielo di Pontassieve era terso. Intorno alle nove, davanti alla sede del Credito cooperativo in piazza Cairoli, Tiziano Renzi parlottava e rideva con Spanò e altri due dirigenti della banca. Lo sguardo era il solito: spavaldo e sicuro. Per ricordare a tutti chi è il padre di cotanto figlio. (ha collaborato Duccio Tronci)
L'arresto dei genitori di Renzi tra tempi, giustizia e fake news. Dopo i domiciliari l'ex premier parla di giustizia ad orologeria. Una fake news sbugiardata dai fatti, scrive il 19 febbraio 2019 Panorama. "L'arresto dei miei genitori è solo colpa del mio impegno politico. Ed è scattato ora guarda caso proprio nei giorni dei più cladi del caso Diciotti. Tutto per oscurarlo...". Matteo Renzi ha reagito anche così dopo la notizia dell'arresto dei genitori condannati ai domiciliari per bancarotta fraudolenta ed altri reati amministrativi. Sarà, ma a vedere la prime pagine di tutti i giornali stamattina la notizia d'apertura non erano le vicende di Tiziano Renzi e Laura Bovoli ma proprio la votazione dei 5 Stelle sulla piattaforma Rousseau sul caso Diciotti. Insomma, se silenzio doveva essere silenzio non è stato. Una fake news, quindi, la difesa dell'ex segretario del Pd. Ma c'è di peggio. Perché parlare di giustizia ad orologeria fa sorridere davanti ad una vicenda non nata in queste settimane ma di cui si parla da anni.
Era il 2016 infatti quando il libro "I segreti di Renzi", firmato da Giacomo Amadori, parlava dei misteri e delle vicende già nell'occhio della magistratura delle famose cooperative della famiglia Renzi. Niente di nuovo, quindi, ma una vicenda giudiziaria che ha quasi 36 mesi di vita. A questo punto, più che chiedersi perché il provvedimento nei confronti della madre e del padre sia arrivato solo oggi, l'ex golden boy della politica italiana dovrebbe domandarsi come mai, nel 2016, questa vicenda venne si messa sotto silenzio da quasi tutti i giornali. Ps. Se qualcuno se lo fosse dimenticato allora, nel 2016, Matteo Renzi era il presidente del Consiglio.
Maurizio Belpietro per “la Verità” il 20 febbraio 2019. Provate a digitare sul vostro computer queste quattro parole: bancarotta fraudolenta custodia cautelare. In un secondo appariranno sul video una serie di provvedimenti disposti dall' autorità giudiziaria in tutta Italia. Dalla Lombardia alla Sicilia, passando per la Toscana, la Puglia e la Calabria, la lista delle persone finite in gattabuia nell' ultimo anno è piuttosto lunga. Tuttavia, secondo Matteo Renzi il provvedimento firmato dal giudice delle indagini preliminari a carico dei suoi genitori «è abnorme». L'ex presidente del Consiglio, da quando lunedì sera ha appreso dell'arresto di mamma e papà, non si stacca dal pc e, dopo la premessa di rito che lo vuole fiducioso nella giustizia, spara a palle incatenate contro la decisione della magistratura, ovviamente senza nominarla. Renzi non parla di complotto, come invece ha fatto con il caso Consip. Però, dopo aver negato che la restrizione della libertà per entrambi i genitori sia dovuta a una manovra politica, sostiene esattamente questo. Riassumo per brevità le tesi dell'ex segretario del Pd. Per Renzi la vicenda di mamma Laura e papà Tiziano avrebbe oscurato completamente ciò che è accaduto lunedì nel mondo della politica: «Basta leggere i quotidiani», sentenzia. Traduzione dal linguaggio sempre un po' allusivo del senatore semplice di Scandicci: lo hanno fatto per nascondere il voto dei 5 stelle su Matteo Salvini. Peccato che la faccenda della consultazione grillina sull' autorizzazione a procedere nei confronti del ministro dell'Interno non l'abbia nascosta nessuno. I principali telegiornali di lunedì ne hanno fatto il titolo più importante della serata (anche perché la notizia degli arresti è trapelata alle 20.30, quando già i tg erano agli sgoccioli) e lo stesso hanno fatto nella mattinata di ieri. Pure i quotidiani hanno dato il giusto risalto al caso Salvini: Il Messaggero, Avvenire, Il Fatto Quotidiano, Il Giornale e Libero hanno il titolo in apertura della prima pagina, mentre Corriere della Sera e La Repubblica lo hanno messo come secondo titolo, ma il primo con due commenti. Dunque, per dirla alla maniera di Renzi, la tesi che si sia voluto con l'arresto dei genitori oscurare il voto grillino su Salvini è una fake news. Seconda tesi renziana. La Guardia di finanza si è presentata a casa di papà e mamma per oscurare con l'arresto il successo che il figliolo sta riscuotendo in giro per l'Italia con la presentazione del suo nuovo libro. «Pensavo di raccontarvi l'entusiasmo di questo fine settimana. Ho girato molto in Emilia Romagna, Veneto, Lombardia, Piemonte per presentare il libro Un' altra strada. E ho trovato un'accoglienza superiore alle più rosee aspettative». Traduzione del messaggio in bottiglia: li hanno arrestati perché hanno capito che mi preparo a tornare, colpendomi mentre ero del tutto impreparato, nel momento in cui a Nichelino firmavo copie del mio volume come si conviene a un autore di successo. Peccato che l'inchiesta della Procura di Firenze sia stata avviata un anno fa, quando ancora non erano pronte neppure le bozze del sul libro. E peccato pure che la richiesta degli arresti domiciliari sia stata presentata dai pm il 26 ottobre dello scorso anno, quando Renzi non era in campagna elettorale, ma impegnato alla Leopolda. Dunque, altra fake news. Secondo attacco alla magistratura pur dicendo che rispetta la magistratura. «Chi ha letto le carte», scrive Renzi, «e ha un minimo di conoscenza giuridica sa che privare persone della libertà personale per una cosa come questa è abnorme». No, chi ha letto le carte e ha un minimo di conoscenza giuridica sa che la privazione della libertà personale è prevista dal Codice proprio in occasioni come questa e, non a caso, per bancarotta fraudolenza vengono spesso disposte le misure cautelari. Del resto nell' ordinanza si può leggere che in almeno due delle società finite in bancarotta, oltre ai reati di false fatturazioni ed evasione contributiva e fiscale, è contestata la sparizione dei libri e delle altre scritture contabili e il sospetto è che in questo modo gli indagati volessero evitare la piena ricostruzione degli eventi che hanno portato al crac. In una delle società, quella non in bancarotta, evidentemente si intendeva evitare che potessero ripetersi i fatti accaduti nelle prime due. Gli arresti in genere vengono disposti quando vi sia pericolo di fuga, reiterazione del reato o inquinamento delle prove. Quindi, anche a proposito dell'applicazione della custodia cautelare, non si tratta di un provvedimento abnorme, non giustificato dal reato, e pure questa tesi va perciò catalogata fra le fake news. Andando avanti, Renzi però passa all' offensiva, ripescando il suo vecchio cavallo di battaglia, quello del complotto. «Chi conosce la realtà», spiega, «sa che quelle carte, peraltro, non corrispondo al vero». Ohibò, qui l'ex presidente del Consiglio, che premette di parlare come «uomo delle istituzioni», ci va giù pesante, perché insinua che nelle carte ci siano dei falsi, cioè che qualcuno abbia costruito una vera e propria trappola per incastrare i genitori. Renzi scrive proprio «chi conosce la realtà, sa che in quelle carte», come se lui avesse documenti diversi da quelli contenuti nell' ordinanza e dunque in grado di provare l'innocenza di mamma e papà. In realtà, agli atti vi sono mail che si sono scambiati gli indagati e rapporti della Guardia di finanza che segnalano come fosse parzialmente falsa la distribuzione dei volantini, che invece di essere consegnati porta a porta finivano in discarica. False sarebbero anche alcune prestazioni, dichiarate e quindi fatturate. Mentre irrintracciabili sarebbero alcuni dei fornitori. Senza poi dire dei contributi evasi e dei mancati pagamenti fiscali. Tutta una montatura? Un meccanismo infernale per incastrare due poveri settantenni? Il figliolo non lo spiega, anche se si capisce che il cuore gronda lacrime. Infatti, aggiunge: «Non avevo mai pensato di farli soffrire così. Per colpa del mio impegno civile. E mi piacerebbe dire: prendetevela con me, non con la mia famiglia». Anche questa a dire il vero è una fake news, perché l'indagine non è su Matteo Renzi, ma sulle società che ruotavano intorno alle attività del padre e della madre. Un' inchiesta che risale a molto prima che l'impegno civile dell'ex segretario del Pd divenisse noto a livello nazionale. Gli accertamenti hanno riguardato esercizi risalenti anche a dieci anni fa e puntato gli occhi su una modalità operativa che scaricava su altre aziende una serie di costi attribuibili alla società principale della famiglia dell'ex premier. Del resto, nel passato, Renzi senior era già finito nel mirino della magistratura. In particolare, con la Chill post, l'impresa di cui lo stesso Matteo fu dirigente per pochi mesi prima di essere eletto presidente della Provincia di Firenze. La società, che aveva in pancia un finanziamento garantito dal sistema pubblico di circa 700.000 euro, a un certo punto fu ceduta dal babbo del senatore di Scandicci a un pensionato genovese, tal Gianfranco Massone, un ex marittimo che lunedì è finito indagato insieme ai genitori di Renzi. Ma una volta venduta, la Chill post non andò incontro a un futuro radioso, ma ad un fallimento. E per questo i pm di Genova indagarono Tiziano Renzi con l'accusa di bancarotta fraudolenta, procedimento che poi fu archiviato, mentre Mariano Massone, uno degli arrestati di lunedì (figlio di quel Gianfranco che si intestò la Chill post), patteggiò. L'inchiesta che ha portato all' arresto dei coniugi Renzi non ha poi proprio nulla a che fare con le iniziative politiche di questi giorni. Già, perché ha un inizio molto più lontano nel tempo, che nulla ha da spartire con la presentazione del libro o il tentativo di rimonta dell'ex segretario. Era il 20 settembre del 2016 quando il primo numero della Verità diede la notizia di un'indagine giudiziaria della Procura di Cuneo. Strani giri di fatture e di sospette chiusure aziendali. Molte di quelle operazioni erano segnalate nel libro I segreti di Renzi, scritto a sei mani da Giacomo Amadori, Francesco Borgonovo e dal sottoscritto, e uscito lo stesso giorno della Verità. In esso si parlava già della Delivery Service, di Eventi 6 e anche della Marmodiv, cioè di tutte quelle società che oggi sono all' attenzione degli inquirenti. Insieme ai Renzi c'erano tutti anche i personaggi oggi sotto inchiesta: Mariano Massone, Gianfranco Massone, Roberto Bargilli, Pasqualino Furii, Piergiovanni Spitieri, Mirco Luca, Giuseppe Mincuzzi, etc etc. E però quando uscirono in edicola il primo numero della Verità e in libreria le copie de I segreti di Renzi, l'allora presidente del Consiglio era all' apice del potere, pronto ad acquisirne ancora di più con il referendum costituzionale. Dunque, nessun giornale riprese le vicende. No, allora nessuno pensò di prendersela né con lui, né con i genitori, ritenendo fosse meglio stare alla larga da questi fatti. Del resto, mesi prima c' era stato qualcuno che aveva provato a raccontare gli atti del processo di Genova. Giacomo Amadori ne aveva scritto sulle pagine di Libero, il quotidiano che allora dirigevo. Erano seguiti anche altri servizi, dedicati al Giglio magico. Ma gli articoli non servirono ad alzare il velo su un sistema, bensì contribuirono alla mia rimozione dalla direzione del quotidiano.
Marco Mensurati e Fabio Tonacci per La Repubblica il 19 febbraio 2019. Sessantacinque fatture per operazioni inesistenti o gonfiate, per un valore complessivo di 724.946 euro. Eccolo il conto che i magistrati di Firenze hanno presentato a Tiziano Renzi e Laura Bovoli, ritenuti gli amministratori di fatto della cooperativa Marmodiv utilizzata dai due per "alleggerire" la loro società Eventi6 degli oneri previdenziali e fiscali. E "guadagnare qualche soldo in più", per dirla con le parole di "Lalla".
La storia della società di Tiziano Renzi e Laura Bovoli. Marmodiv nasce dalle spoglie di un'altra cooperativa, aperta per gli stessi fini: la Europe Service, che ha cessato l'attività tra il maggio e il giugno del 2012. "Qualche mese dopo - si legge nell'ordinanza che ha portato agli arresti domiciliari i genitori di Matteo Renzi - Piergiovanni Spitieri (già amministratore della Europe Service, ndr) diviene amministratore unico della Marmodiv, avente lo stesso oggetto sociale della Europe Service, e divenuta nel giro di poco tempo il maggior prestatore di servizi su Firenze della Eventi6". Fin dall'inizio della sua attività commerciale c'è qualcosa che non torna. La prima fattura contestata dalla Guardia risale al 2013 (400 euro) emessa dalla ditta Punchihewa Priyantha, per "operazione inesistente". L'anno dopo sono 31 le fatture sospette, per un importo totale di 33.172 euro. Le cifre aumentano col passare degli anni: 64.941 euro nel 2015, 108.261 euro nel 2016.
Le fatture inesistenti. Nel 2017 cambia qualcosa. Scrive il gip di Firenze: "Al fine di consentire alla Eventi6 l'evasione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto, la Marmodiv emetteva sei fatture per operazioni in parte inesistenti". Insomma, erano gonfiate. Un esempio, la fattura numero 89 del 30 novembre 2017: emessa dalla Marmodiv per una cifra di 60.430 euro, sovraffatturata di 35.330 euro. Nel corso di quell'anno, le fatture nel mirino degli inquirenti valgono 311.704 euro. Nel 2018, altre cinque per un valore di 206.368 euro. In totale, dunque, 724.946 euro in sei anni. Un mare di soldi, come si vede. Gestito, secondo la procura fiorentina, direttamente da Lalla e Tiziano: "Vi sono indizi per ritenere che siano i veri amministratori della cooperativa, e si siano intromessi nell'amministrazione della stessa fintanto che non l'hanno ceduta". Passaggio che nella tesi dell'accusa era preliminare all'ennesima bancarotta pilotata. A questa conclusione i pm sono arrivati non soltanto attraverso i documenti ma anche grazie alle confessioni dei dipendenti.
Tiziano Renzi, “fatture false per 725mila euro”: tra imprenditori ignari e ditte fantasma. E pure soci a loro insaputa. Nell'ordinanza del gip di Firenze che ha concesso gli arresti domiciliari per i genitori dell'ex premier il conto delle fatture per operazioni inesistenti o gonfiate: 65 in sei anni. Al centro del sistema la Marmodiv, intorno società con titolari spesso stranieri e sconosciuti all'anagrafe del loro Comune. Secondo l'accusa, è il modus operandi dei Renzi, ritenuti amministratori di fatto della coop così come della precedente Delivery Service, di cui "alcuni dei soci non conoscevano neppure il nome", scrivono Daniele Fiori e Pierluigi G. Cardone il 20 Febbraio 2019 su Il Fatto Quotidiano. Quando i finanzieri hanno cercato le sedi delle società a Cesano Maderno hanno trovato una casa, a Carapelle “un mero recapito”. Dei titolari, spesso stranieri, uno non sapeva nemmeno di esserlo: si è poi scoperto che non era lui a mentire, ma la ditta a essere un fake. Altri risultavano sconosciuti all’anagrafe del Comune in cui, in teoria, svolgevano la propria attività imprenditoriale. Per non parlare di chi, come Amir Sajiad, un imprenditore lo è a tutti gli effetti e promette di “denunciare” chi avrebbe effettuato la fattura a suo nome. È la galassia di imprenditori ignari e ditte fantasma che la guardia di Finanza ha incontrato indagando sul “sistematico utilizzo” di fatture emesse per operazioni inesistenti a favore della cooperativa Marmodiv, di cui, secondo i magistrati di Firenze, Tiziano Renzi e Laura Bovoli sono amministratori di fatto. Un elenco contenuto nell’ordinanza del gip Angela Fantechi che ha concesso l’arresto ai domiciliari per i genitori dell’ex premier, accusati di bancarotta fraudolenta e, appunto, false fatture. Il conto è presto fatto: 65 fatture per operazioni inesistenti o gonfiate con un valore complessivo di quasi 725mila euro.
La coop Marmodiv nasce nel 2013 e – si legge nell’ordinanza – nel giro di poco tempo diventa il “maggior prestatore di servizisu Firenze per la ‘Eventi 6‘”, la società capofila tra le aziende legate ai Renzi. Secondo i pm la Marmodiv è stata costituita “essenzialmente per consentire alla ‘Eventi 6’ di avere a disposizione lavoratori dipendenti senza dover sopportare i costi relativi all’adempimento di oneri previdenziali ed erariali”, tutti spostati in capo alle cooperativa stessa, così come già successo per la Delivery Service e la Europe Service, poi fallite. In sostanza, secondo la ricostruzione dell’accusa, “le cooperative si sarebbero succedute nel tempo, mantenendo tuttavia gli stessi dipendenti e gli stessi clienti”. È il “modus operandi” dei coniugi Renzi, si legge nell’ordinanza, per avere “manodopera” senza che la società capofila sia “gravata di oneri previdenziali ed erariali”.
I soci a loro insaputa – “Peculiare sono state anche le modalità di costituzione” della Delivery Service, scrive il gip. “Alcuni dei soci, sentiti nel corso delle indagini, hanno riferito di non conoscere neppure il nome della società cooperativa, ricordando solo di essersi recati da un notaio in Firenze ‘per apporre delle firme‘”. Circostanza che fa ritenere che “la cooperativa sia stata costituita per volontà di altri”. Uno schema che si ripete per la Marmodiv: “Vi sono indizi per ritenere che Tiziano Renzi e Laura Bovoli siano stati i promotori della cooperativa e si siano intromessi nell’amministrazione della stessa”, si legge nell’ordinanza.
“Fatture pagate con bonifici” – Uno su tutti la dichiarazione di Paolo Magherini, sentito dai pm Christine Von Borries e Luca Turco il 31 maggio scorso. La Procura gli contesta fatture per poco più di 4mila euro e lui svela il meccanismo: la Marmodiv “era amministrata da dei prestanome, dice. “Tutti, nel settore, sanno che la cooperativa è riconducibile alla famiglia Renzi, in particolare a Tiziano e alla moglie”. Poi risponde alle accuse: “Le fatture che mi avete esibito, devo ammettere che sono false. Mi fu chiesto di aprire una partita iva ed emettere le fatture che mi avete mostrato”, dice ai pm. “Mi venivano pagate con bonifici effettuati presso la Banca Sella”, “Successivamente io restituivo indietro la somma in contanti per l’intero”.
Le operazioni gonfiate – “Ce ne sono molti altri”, aggiunge Magherini. La sua ditta è una delle tante che ha emesso fatture nei confronti della Marmodiv per operazioni ritenute inesistenti. Il tutto comincia poco dopo l’inizio dell’attività commerciale, già nel 2013. L’anno dopo le fatture contestate dalla guardia di Finanza diventano subito 31, per un valore di 33mila euro. Le cifre vanno ingigantendosi: quasi 65mila euro nel 2015, 108mila euro nel 2016. Poi, secondo l’accusa, la strategia cambia: si passa a sei fatture gonfiate che la stessa Marmodiv emette, scrive il gip, “al fine di consentire alla Eventi6 l’evasione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto”. Nel 2017 le fatture sospette superano per importo i 310mila euro. Nel 2018 si arriva a 206mila europer cinque fatture ritenute gonfiate. Il totale fa appunto 724.946 euro in sei anni.
Le fatture “a sua insaputa” – Tra gli “altri” citati da Magherini e poi individuati dai finanzieri risultano esserci molto stranieri. Casi emblematici sono quelli di Muhammed Ilyas e Amir Sajiad. Il primo, stando a una fattura del giugno 2016 da 12.200 euro nei confronti della Marmodiv, risulta essere il titolare della ditta ‘Distribuzione Italia‘. Quando è stato raggiunto dalla guardia di Finanza di Brescia, Muhammed ha però negato di essere a conoscenza di tale società e anche di risiedere a Castano Primo, dove invece ha sede la ditta. Le successive verifiche hanno effettivamente comprovato l’inesistenza della ditta ‘Distribuzione Italia’. Amir Sajiad è invece il titolare dell’omonima ditta individuale, ma nega di aver mai effettuato una fattura da 15.398 euro a favore di Marmodiv. “Valuterò l’opportunità di denunciare chi ha in modo improprio utilizzato il mio nome e quello della mia impresa per attestare prestazioni che non ho mai effettuato. Non ho altro da aggiungere”, ha dichiarato l’8 giugno scorso.
Gli imprenditori fantasma – Un altro caso limite è quello di Mohammad Nazir, titolare di una ditta individuale per la spedizione di materiale propagandistico. Almeno secondo quattro fatture emesse per circa 40mila euro tra il 2016 e il 2017, sempre in favore di Marmodiv. Ma gli investigatori hanno scoperto che all’indirizzo della sede della ditta, a Cesano Maderno, c’è una casa e che la ditta non ha mai lavorato con la Marmodiv. Infine, hanno accertato che il signor Mohammed Nazir non è mai stato censito all’anagrafe del comune della Monza Brianza e che il documento di riconoscimento rinvenuto nello studio del depositario non è mai stato rilasciato dall’ente di Cesano Maderno. Risulta essere “sconosciuto all’indirizzo anagrafico” anche Ayesha Kabir, rappresentante legale dell’omonima ditta individuale che ha emesso nel 2016 una fattura da poco più di 3mila euro. Gli elementi raccolti “inducono a ritenere che le fatture in oggetto siano effettivamente relative a prestazioni inesistenti”, si legge nell’ordinanza.
Le due coop foggiane – I “campioni” di fatture per operazioni ritenute inesistenti sono invece due cooperative foggiane, la Quicke la Link di Carapelle. Intermediario dal 2013 al 2016 risulta essere Ruggiero Massimo Curci, scrive il gip, che aveva numerosi precedenti penali per reati tributari e societari. Le due coop emettono fatture in favore della Marmodiv rispettivamente per 42.443 euro e per 34.191 euro. Quando la guardia di Finanza di Foggia effettua un sopralluogo nelle sede dichiarata delle società, non trova nulla, se non “un mero recapito”.
I pakistani irregolari – Il 14 marzo scorso un’altra operazione dei finanzieri, questa volta di Casale Monferrato, permette di fermare un furgone con a bordo volantini pubblicitari e sei persone di nazionalità pakistana: tutti lavoratori della Bajwa Group srl, tutti irregolari. Le Fiamme Gialle di Corsicotorneranno poi negli uffici della società, la cui rappresentante legale risulta essere la pakistana Saima Choudhary, già denunciata appunto per intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Quello che la guardia di Finanza scopre sono fatture per la Marmodiv, anche in questo caso per operazioni ritenute inesistenti.
Perché arrestare proprio ora Tiziano e Laura Renzi? I genitori di Matteo Renzi sono indagati da tempo per bancarotta fraudolenta. Che motivo vero può esserci per gli arresti domiciliari? Scrive Maurizio Tortorella il 19 febbraio 2019 su Panorama. Bancarotta fraudolenta e false fatturazioni. Con queste accuse, da ieri sera, Tiziano Renzi e sua moglie Laura Bovoli, padre e madre dell’ex premier democratico Matteo Renzi, sono agli arresti domiciliari. All’ora di cena, la Guardia di finanza fiorentina ha bussato alla porta della loro casa di Rignano sull’Arno, con un’ordinanza di custodia cautelare richiesta dal procuratore di Firenze, Giuseppe Creazzo, e firmata dal giudice Angela Fantechi. Per il giudice, che ha deciso dopo quattro mesi dalla richiesta dei pubblici ministeri, “i fatti per cui si procede non sono occasionali e si inseriscono in un unico programma criminoso in corso da molto tempo, realizzato in modo professionale con il coinvolgimento di numerosi soggetti”. Il sistema, si legge nell’ordinanza di custodia cautelare, è stato “portato avanti anche dopo l’inizio delle indagini”. Per questi motivi, secondo i magistrati, non è stato possibile evitare almeno la detenzione ai domiciliari. Tiziano e Laura Renzi sono accusati di aver svuotato le casse di tre cooperative, la Delivery, la Marmodiv e la Europe service, provocandone il fallimento. Le tre aziende sono collegate alla Eventi Sei, la società di marketing della famiglia Renzi che da anni è sotto inchiesta. Matteo Renzi ha commentato: “Sono sconvolto. Tutto questo accade perché ho cercato di cambiare questo Paese”. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini è parso distaccato, ma non ha infierito: Se arrestano i genitori di un mio avversario politico non festeggio”. Più simpatia, Renzi ha ottenuto invece dal leader di Forza Italia Silvio Berlusconi: “Questa cosa dolorosa non sarebbe accaduta se anche la sinistra avesse accettato di realizzare la nostra riforma della giustizia, con la separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri”. Il Cavaliere ha aggiunto: “Se Renzi non avesse fatto politica, questo non sarebbe accaduto; e con una vera giustizia non sarebbe accaduto”. Certo, ancora una volta la tempistica giudiziaria suona strana: l’arresto, sia pure ai domiciliari, arriva a tre mesi dalle prossime elezioni europee del 26 maggio, e proprio mentre sono più intensi i giochi per la nuova segreteria del Partito democratico. Anche le indagini sui genitori di Renzi durano ormai da anni, e non si capisce perché sia stata decisa proprio ora (o soltanto ora, a seconda dei punti di vista) una misura cautelare. Il direttore del telegiornale di La7, Enrico Mentana, ha fatto quello che pare il commento più condivisibile: “Nelle carte dell’ordinanza non ho trovato un solo elemento che giustificasse una misura così grave com’è quella dell’arresto. (…) Sono sconcertato, anche perché il Gip ha impiegato quattro mesi per decidere: e quindi non c’era rischio di inquinamento di prove, fuga o reiterazione del reato”. Nell’aprile 2018 la Procura fiorentina aveva già notificato una chiusura delle indagini a Tiziano e Laura Renzi, in quel caso per un processo su false fatture. Secondo l’accusa, in quel caso le aziende dei Renzi avrebbero emesso note fiscali per lavori mai svolti, ricevendo un incasso illegittimo di 200mila euro. Il processo inizierà il 4 marzo.
Alessandro Sallusti inchioda i magistrati sull'arresto dei genitori di Matteo Renzi: "Perché non è un caso", scrive il 20 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. No, neppure per Alessandro Sallusti ciò che è accaduto ai genitori di Matteo Renzi è casuale. Certo, "non si possono definire imprenditori modello", premette nel suo editoriale su Il Giornale. Eppure, Sallusti si chiede: "Che bisogno c'era, visto che parliamo di fatti e di inchieste vecchi di anni, di metterli agli arresti in generale e in particolare in contemporanea all'imbarazzante referendum farsa dei Cinque Stelle sul caso Salvini, nei giorni del ritorno sulla scena politica di Matteo Renzi in tour per l'Italia con il suo uovo libro Un'altra strada e nelle settimane decisive per il futuro assetto del vertice Pd?". Dunque, il direttore aggiunge: "Come sostiene lo stesso Renzi, queste coincidenze non possono essere casuali, e del resto in Italia siamo abituati a una magistratura che si muove non sui tempi e sui metri della giustizia ma su quelli della parte politica amica, cercando di stupire e di stordire l'opinione pubblica". Insomma, ciò che pensa Sallusti su quanto accaduto a Tiziano Renzi e Laura Bovoli appare piuttosto chiaro.
Pomeriggio 5, Giorgia Meloni e la gravissima accusa alla magistratura: "Chi non hanno processato", scrive il 19 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Ospite di Barbara D'Urso a Pomeriggio 5, la leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, ha fatto il punto dopo il voto in Giunta con cui è stato dato parere negativo circa il processo a Matteo Salvini per il caso Diciotti (anche FdI ha votato contro la richiesta di autorizzazione a procedere). "Era scontato che la Giunta votasse contro il processo per Salvini e che lo facesse il M5S. Era scontato semplicemente perché non è giusto processare Salvini per aver fatto il suo lavoro: impedire che si entri illegalmente in Italia". Dopo, però, la Meloni cambia il bersaglio e picchia durissimo: "Non capisco, invece, perché i giudici negli anni passati non abbiano pensato ad indagare ministri che facevano apertamente favoreggiamento del reato di immigrazione clandestina". E ancora, nel corso dell'intervista, ha aggiunto: "Per prima ho detto che Fratelli d’Italia avrebbe votato no all'autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini. Se il M5S lo avesse detto subito, evitando questa manfrina, avrebbe fatto più bella figura. Questo però è uno dei motivi per i quali non conviene fare governi tra persone che non condividono assolutamente niente. Dopo quanto accaduto sul tema Diciotti forse Salvini dovrebbe riflettere se sia il caso di continuare a stare al governo con questi personaggi", ha concluso una Meloni sibillina.
Matteo Renzi, il big della Meloni sull'arresto dei genitori: "La magistrata vicina all'estrema sinistra...", scrive il 20 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Accuse, sospetti, veleni. L'arresto dei genitori di Matteo Renzi, Tiziano Renzi e Laura Bovoli, come ovvio, scatena un caso politico. L'ex premier accusa la magistratura, a suo parere il tempismo con cui sono scattati i domiciliari è sospetto. Il M5s, da par suo, gode e mostra la forca: si pensi al vergognoso gesto delle manette di Michele Giarrusso, martedì fuori dalla Giunta che ha votato contro il processo a Matteo Salvini per il caso Diciotti. Ed in questo contesto, già di per sé avvelenato, a gettare ulteriore benzina sul fuoco, ci pensa Achille Totaro, parlamentare di Fratelli d'Italia di Giorgia Meloni. Uno che, insomma, non ha alcun tipo di interesse né pulsione a difendere Renzi. A raccogliere la sua pesantissima confidenza è Augusto Minzolini, che ne dà conto su Il Giornale. Secondo Totaro, infatti, "tra quelli che hanno chiesto l'arresto dei genitori di Renzi c'è una magistrata vicina alla sinistra più estrema, quella che ha sempre visto come il fumo negli occhi Renzi e lo considera un nemico". Parole pesantissime e che, se confermate, potrebbero porre sotto una luce diversa quanto accaduto ai signori Renzi. Per certo, alla sinistra più sinistra, il fu rottamatore non è mai piaciuto, affatto. E quanto affermato da Totaro, a ben vedere, si sposa perfettamente con quanto sostenuto da Renzi, ovvero che "se io non avessi fatto politica i miei oggi sarebbero tranquillamente in pensione".
Annalisa Chirico, il terribile sospetto sull'arresto dei genitori di Matteo Renzi: una bomba sui giudici, scrive il 19 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Tra chi si schiera senza indugi al fianco di Matteo Renzi c'è Annalisa Chirico, presidente dell'associazione Fino a prova contraria e da sempre piuttosto vicina all'ex premier. In una nota, la Chirico scrive: "Fino a prova contraria ha un nome che parla da sé: un paese civile attende le sentenze e non emette verdetti preventivi - spiega -. Il signor Tiziano Renzi è già stato indagato e archiviato a Genova e a Roma ma stavolta i magistrati hanno ritenuto necessaria una misura cautelare particolarmente incisiva". Dunque, la Chirico tra le righe avanza un sospetto ben delineato: "Se il gip ha atteso quattro mesi per autorizzare la richiesta di arresto, evidentemente le esigenze cautelari non erano così pressanti - sottolinea -. Ci auguriamo che il tribunale del Riesame chiarisca presto l’effettiva congruità di un provvedimento che appare sproporzionato: nelle more delle indagini, la limitazione della libertà personale dovrebbe essere riservata soltanto a casi eccezionali". "Sul piano personale - prosegue la Chirico - esprimo la mia vicinanza alla famiglia, al signor Tiziano Renzi che, dopo una vita da incensurato, ha preso familiarità con gli avvocati dal giorno successivo alla discesa in campo del figlio. E poi il mio pensiero va all’amico Matteo Renzi, alle prese con l’ennesimo stillicidio mediatico legato a iniziative giudiziarie dall’esito incerto. Con un tempismo singolare, gli arrestano i genitori negli stessi giorni in cui ha ripreso la sua attività pubblica. Matteo, non mollare".
Berlusconi: "Ora le toghe politicizzate si rivoltano contro la sinistra". Berlusconi dopo l'arresto dei genitori di Renzi: "Gli apprendisti stregoni hanno liberato il mostro del giustizialismo", scrive Sergio Rame, Martedì 19/02/2019, su Il Giornale. "Sento di esprimere un profondo rammarico per quello che sta succedendo a Renzi e ai suoi genitori". Ai microfoni di In vivavoce su Radio 1, Silvio Berlusconi fa sapere che telefonerà presto a Matteo Renzi i cui genitori sono finiti agli arresti domiciliari con l'accusa di "bancarotta fraudolenta ed emissione di fatture false". "Volevo chiamarlo ieri sera, ho provato una volta, aveva il telefono occupato, ma lo farò...", assicura il Cavaliere tornando a tuonare contro le "toghe politicizzate" che, a questo giro, "si sono rivoltate contro la sinistra".
Dopo la disposizione da parte della procura di Firenze degli arresti domiciliari per Tiziano Renzi e la moglie Laura Bovoli, il nodo giustizia torna al centro del dibattito politico. "Inutile dire che la vicenda dei miei genitori ha totalmente oscurato tutto ciò che è accaduto ieri nel mondo della politica - ha commentato Matteo Renzi nella sua e-news - basta leggere i quotidiani di oggi per rendersene conto". Per l'ex premier si tratta di "un capolavoro mediatico". E, nel giro di poche ore, tutti i dem si scagliano apertamente contro il sistema giudiziario. "Quel che sta succedendo a Renzi e alla sua famiglia è semplicemente indegno di un paese civile - tuona Luciano Nobili - credo che meriti la ferma risposta di ciascuno di noi". Anche Berlusconi ha fatto subito sentire la propria vicinanza all'ex premier piddì. "Noi siamo dei garantisti e riteniamo che non ci debbano essere incursioni della magistratura nella vita politica - ha commentato il leader di Forza Italia su Radio1 - queste continue interferenze dei giudici sono un fatto negativo". Nell'intervista a In vivavoce, Berlusconi non manca di ricordare la "grande responsabilità storica" della sinistra che "sin dall'epoca di Mani Pulite, quando gli faceva comodo per combattere i propri avversari", ha "favorito questa tendenza". "Sono stati gli apprendisti stregoni della sinistra a liberare il mostro della magistratura politicizzata che ora si rivolta contro di loro...". Ora al Cavaliere resta "un profondo rammarico" per quanto che sta succedendo a Renzi e ai suoi genitori. "Bisogna vedere se è stata giustizia a orologeria o se è avvenuto come un fatto normale...", argomenta il leader di Forza Italia secondo cui l'arresto dei genitori di Renzi "non sarebbe dovuto arrivare, soprattutto in una settimana, che prevede un voto importante come quello della Sardegna".
Se le toghe tornano sul ring della politica. Sia sul caso Diciotti sia nella vicenda dei Renzi i magistrati giocano un ruolo politico: come sempre, scrive Augusto Minzolini, Mercoledì 20/02/2019, su Il Giornale. Davanti l'aula di Montecitorio, il giorno dopo che la giustizia è tornata ad interferire nei giochi della politica, Luca Paolini, il più garantista tra i leghisti, scuote il capo mentre pensa al rischio scampato da Matteo Salvini di andare sotto processo, prima che i grillini decidessero di salvarlo con la sceneggiata della consultazione della base via piattaforma Rousseau: «Lo dico da una vita che i magistrati condizionano la politica. Vedrete che fra un po' uscirà di nuovo qualcosa su Matteo. In fondo, tra Magistratura democratica che guarda al Pd e Davigo e i suoi seguaci che si rivolgono ai 5 stelle, noi leghisti siamo gli unici esposti. In Italia la giustizia uccide». Qualche passo più in là, l'azzurro Enrico Costa, viceministro della Giustizia nel governo Renzi, parla dell'altro caso che tiene banco, cioè l'arresto dei genitori del suo ex premier, appunto il Matteo di sinistra: «La magistratura? È tutta politica». Uno può dire ciò che vuole ma a 25 anni da Tangentopoli, dopo che Pm e tribunali hanno cadenzato l'epopea berlusconiana, anche nei giorni del «governo del cambiamento» le cose non sono cambiate. Anzi. L'operato della magistratura ha assunto il ruolo della Tyche per gli antichi greci, o del Fato per i latini: determina il successo o l'insuccesso dei leader e condiziona pesantemente il quadro politico. Solo che mentre la Tyche è «insondabile», qualche volta le iniziative di alcuni magistrati si prestano a letture politiche. È stato un paradosso ad esempio che la procura di Catania abbia archiviato le accuse contro Salvini per aver sequestrato gli immigrati sulla «Diciotti», mentre il tribunale abbia chiesto l'autorizzazione a procedere al Senato contro il leader della Lega dando via a tutto questo «can can». «Sarà una coincidenza teorizza Paolini ma i componenti del Tribunale dei ministri in questione aderiscono tutti a Magistratura democratica, la corrente di sinistra della magistratura». Cambi argomento, parli della vicenda dei genitori di Renzi, e mentre Ignazio La Russa, cosa che non ti aspetti, spezza una lancia in favore dell'ex segretario del Pd («è una vergogna») un altro parlamentare della Meloni, Achille Totaro, un vero «post-fascista», ti offre questa chiave di lettura: «Tra quelli che hanno chiesto l'arresto dei genitori di Renzi c'è una magistrata vicina alla sinistra più estrema, quella che ha sempre visto come il fumo negli occhi Renzi e lo considera un nemico». E che ci sia una «ratio» in questa affermazione, in fondo, lo ammette tra le righe lo stesso Renzi: «Se io non avessi fatto politica i miei oggi sarebbero tranquillamente in pensione». Magari l'ex premier potrebbe dire molto di più, ma come dice la fedelissima Maria Elena Boschi, «io ho un'altra cultura ma nel Pd la magistratura è uno dei miti rimasti». Per cui certe letture si fanno sottovoce. Così bisogna accontentarsi delle parole del viceministro alla Giustizia del governo Renzi, appunto Costa: «Sono tutti segnali politici». Segnali di cui bisogna analizzare le ripercussioni. E ci si accorge che quando si ha che fare con la Tyche, non è detto che una vicenda giudiziaria determini la conseguenza più scontata. In passato spesso la «persecuzione» giudiziaria di cui è stato oggetto, ha fatto crescere il consenso del Cav nel Paese. La stessa cosa si può dire oggi per Salvini: «Quando è uscita la notizia della richiesta di autorizzazione conferma la maga Alessandra Ghisleri in un giorno la Lega è aumentata nei sondaggi di un punto e mezzo». E a ben vedere l'iniziativa contro il vicepremier leghista ha arrecato più danni ai grillini che non a lui. Basta fare un'analisi veloce delle ripercussioni degli ultimi fatti per averne la conferma. Primo: dopo il No al processo a Salvini, i grillini sono «spaccati», quindi faranno di tutto, ma proprio di tutto, per evitare le elezioni anticipate se non vogliono rischiare di dimezzare la loro presenza in Parlamento. Secondo: se il vicepremier leghista si irrigidirà su temi come la Tav o l'autonomia determinerà una divisione insanabile tra i suoi alleati, mandando in crisi la leadership di Di Maio che si è esposto per difenderlo sulla Diciotti. In sintesi: Salvini ha in mano il destino dei 5 stelle. Altro discorso, invece, riguarda l'arresto dei genitori di Matteo Renzi: è evidente che in questa fase indebolisce l'anima del Pd che non vuole avere a che fare con i grillini e favorisce chi è meno chiaro sul tema, vedi Zingaretti. Solo che in una «sceneggiatura» congressuale già scritta, la figura della «vittima» è una variabile che potrebbe determinare un effetto emotivo di diverso segno. A parte questo, ciò che stupisce è che qualcuno ancora si rifiuti di vedere come le iniziative della magistratura producano un'interferenza decisiva nel gioco politico. Anche i grillini, che dovrebbero essere del tutto estranei da analisi di questo tipo, lo ammettono. Sono convinti che aver «salvato» Salvini dal rischio di finire sul banco degli imputati, garantisca almeno un anno di vita all'alleanza «gialloverde». «Prima forse osserva Stefano Patuanelli, capo dei senatori 5 stelle ma ora non credo proprio che le elezioni politiche siano all'ordine del giorno. Fra un anno, invece, potrebbero essere probabili». Di certo, il «no» al processo al leader della Lega, è considerato dall'anima «governativa» del grillismo un elemento di stabilizzazione. «Conoscendo Di Maio e Casaleggio confida Francesco Silvestri, vicecapogruppo dei deputati grillini non credo che abbiano salvato Salvini senza avere le garanzie che non si andrà ad elezioni politiche nel medio periodo. Sarebbero dei folli». Niente elezioni, quindi, solo che il «No» al processo a Salvini ha dato il via alla rivolta dei duri e puri. Lo stesso Beppe Grillo ieri è stato contestato a Roma. Per le senatrici del movimento Nugnes e Fattori «sono stati venduti i principi fondamentali del movimento». Una reazione, però, che ha rimesso in moto anche l'anima grillina che ama la stabilità, che non vuole tornare a casa anzitempo. Per cui c'è chi, di fronte all'ipotesi di una rottura, ha cominciato a cercare un'altra casa, a fare il «responsabile». Come l'olimpionico a 5 stelle, Felice Mariani, che ha cominciato a sondare diversi interlocutori per accasarsi, con un ragionamento semplice semplice: «Quelli di Fico vogliono rompere con il governo, mentre io voglio fare di tutto per andare avanti nella legislatura». Così si aprono altre prospettive. «È chiaro spiega l'azzurro Giorgio Mulè che l'ipotesi elettorale perde quota e cresce quella di una spaccatura dei 5 stelle. Quindi, torna in ballo l'idea di una maggioranza che metta insieme Lega, Fratelli d'Italia, una parte di 5 stelle e magari qualche nostro fuoriuscito. Sono le voglie di egemonia di Salvini. Ma se noi siamo uniti e manteniamo una percentuale oltre il 10% nel Paese, il tentativo di emarginarci fallirebbe». Un'altra delle tante congetture, delle tante variabili politiche, che, com'è nella tradizione di questo Paese, sono state determinate da una Tyche giudiziaria.
Immunità parlamentare, quello che la Bonino e compagnia non capiscono, scrive Dino Cofrancesco il 20 febbraio 2019 su Nicola Porro. Il ritorno all’immunità parlamentare: una battaglia di civiltà! «Vi confesserò a questo punto una mia perversione – scriveva il direttore del Dubbio nell’editoriale del 1° febbraio u.s. – io credo che andrebbe ripristinata alla svelta l’immunità parlamentare, che non fu concepita da un drappello di garantisti pazzi, o dai guardaspalle di Berlusconi, ma dai padri della nostra Costituzione. Gente tipo Calamandrei, De Gasperi, Einaudi, Togliatti, La Pira, Dossetti, Basso… E vi dico ancor di più: estenderei l’immunità parlamentare ai consiglieri regionali e ai governatori». Parole sante giacché non può esserci autentica divisione dei poteri, e quindi società liberale, senza l’immunità parlamentare che affidi al legislativo il giudizio sul comportamento di un suo membro, come affida, del resto, all’ordine giudiziario un potere analogo – senza sollevare, peraltro, alcuna protesta da parte dei giustizialisti di ieri e di oggi. Ai giovani che oggi si affacciano alla vita pubblica – ha scritto Margherita Boniver in un esemplare articolo di alcuni anni fa sull’Ircocervo – «occorre spiegare, innanzitutto, che l’immunità parlamentare non è un privilegio dei politicanti corrotti, ma, fin dal Bill of Rights del 1689, un istituto volto a tutelare gli interessi della collettività, prevenendo, secondo l’insegnamento di Montesquieu, eventuali condizionamenti del potere giudiziario sullo svolgimento della dialettica politica. Il costituzionalismo, infatti, intende la libertà e l’indipendenza dei singoli parlamentari quali strumenti per assicurare il pieno funzionamento dell’assemblea rappresentativa e, dunque, indirettamente, l’intero equilibrio del sistema dei poteri pubblici». Sui guasti provocati dall’abolizione dell’immunità parlamentare non intendo trattenermi: la letteratura in proposito è vasta e la documentazione facilmente accessibile. Vorrei richiamare l’attenzione, invece, sullo stile di pensiero profondamente illiberale che si manifesta, talora scopertamente, in quanti (come Emma Bonino) non riescono neppure a concepire «la necessità e l’urgenza di tornare indietro» rimettendo in discussione una legge che, a parer loro, poneva fine all’«impunità parlamentare». Uno stile di pensiero illiberale, quello della Bonino & C., già per il fatto che – come è tipico della ‘mens totalitaria’ e del fanatismo ideologico – un dilemma oggettivo, quello relativo ai vantaggi e agli inconvenienti di un istituto (chi potrebbe negare gli abusi dell’immunità parlamentare?) viene liquidato come un falso problema, un tentativo di reintrodurre privilegi insostenibili nell’età in cui la legge è uguale per tutti. In realtà, all’origine dell’insofferenza verso il principio dell’immunità, non c’è solo il populismo dipietrista dei nostri giorni ma un costume della mente che ha un cuore antico e che si ritrova nella famiglia ideologica che, più di ogni altra, ha imprintato la civic culture dell’Italia repubblicana. Ne costituisce un esempio un vecchio scritto di Ernesto Rossi ripreso da Critica liberale l’8 aprile 2014. «All’origine con un tal privilegio si intendeva proteggere il parlamento contro un esecutivo non democratico che volesse chiudere la bocca ai deputati scomodi, processandoli; e certo lo spettro del fascismo ha aleggiato sull’estensione dei regolamenti. Ma del sistema si è abusato. Si è dato il caso di uomini politici influenti in questa o in quella provincia che, minacciati di qualche scandalo o notoriamente colpevoli di reati, sono stati portati in parlamento prima che potesse aprirsi il processo. Il maggior inconveniente è però simbolico: fa capire che il parlamentare appartiene a una razza diversa dalla gente che dovrebbe rappresentare». In queste parole, c’è una verità da integrare e un pregiudizio da rimuovere. La verità da integrare è molto semplice: la ‘ratio’ dell’immunità parlamentare non sta nella tutela dalla prevaricazione dell’esecutivo non democratico (un re assoluto o un dittatore) ma nella tutela da ogni potere forte che possa limitare le libertà garantite a un rappresentante del popolo sovrano. E se tale potere fossero i tribunali della ’democrazia giudiziaria’, per adoperare la pertinente espressione di Angelo Panebianco? È facile dire che «non ci si difende dal processo ma nel processo» quando si è sicuri di come andrà a finire poi la chiamata in giudizio, in un paese che va sempre più somigliando alla Cina dei Signori della guerra e in cui solo gli ingenui possono vedere nella magistratura un potere super partes. Il pregiudizio sta, invece, in quell’«uno vale uno» che, da Rossi in poi, è stato ripetuto fino alla nausea. Un pregiudizio tersitesco e plebeo giacché il parlamentare non sta sullo stesso piano «della gente che dovrebbe rappresentare». Non è un «delegato» del popolo – ahi questo rousseauismo eterno che dai piani alti di Ernesto Rossi arriva agli scantinati plebei del M5S! – ma è un «rappresentante» del popolo, come spiegava un grande liberale conservatore, Edmund Burke, ai suoi elettori di Bristol. Un re indegno, un parlamentare indegno, un ministro indegno vanno rimossi dalla scena pubblica – nei diversi modi previsti dalle diverse costituzioni – ma «non sono come noi», hanno un carisma d’ufficio senza il quale non è pensabile l’Autorità dello Stato. Come ha scritto di recente Luca Ricolfi: «nessuna istituzione può resistere nel tempo se non conserva, a dispetto dei suoi limiti, il rispetto dei singoli e delle altre istituzioni». Dino Cofrancesco, Paradoxa Forum
Claudio Velardi svela la vergogna dei magistrato: "L'arresto dei Renzi? Nelle redazioni tutti sapevano", scrive il 20 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Parla di "disegno mediatico", Claudio Velardi a L'aria che tira. In studio da Myrta Merlino su La7, il giornalista fa il punto sull'arresto dei genitori di Matteo Renzi. E afferma: "Il vero asse è di natura mediatico-giudiziaria. C'è un filo continuo tra le redazioni dei giornali e le procure: l'altro giorno, tutti nelle redazioni dei giornali sapevano che sarebbe arrivata una bomba contro Renzi. Parlo dell'altroieri pomeriggio, ben prima delle otto di sera". Parole pesanti, quelle di Velardi, che alimentano i sospetti di una sorta di complottone nei confronti dell'ex premier. Dunque si esprime sul rischio di reiterazione del reato, circostanza che ha fatto scattare i domiciliari per Laura Bovoli e Tiziano Renzi: "La richiesta di arresto è di cinque mesi fa: è una cosa abbastanza assurda". E ancora, il giornalista prosegue: "Che Renzi dica ho fiducia nella giustizia purtroppo ci sta, un politico lo deve dire per forza. Gli unici due politici che hanno dichiarato esplicitamente di non avere fiducia nella magistratura sono Bettino Craxi, che ha fatto la fine che ha fatto, e Silvio Berlusconi".
Matteo Renzi? Come Silvio Berlusconi e Bettino Craxi. La profezia di Renato Farina, scrive il 21 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Prima pagina dei giornali nazionali, notizia d' apertura dei telegiornali. Hanno arrestato due anziani coniugi, e li hanno rinchiusi nella notte in una villetta a «dieci minuti d' auto di tornanti» (Corriere della sera) tra oscure selve. A memoria di cronista canuto, l'esperienza dice che come minimo simili particolari sono preparatori al prelibato racconto di atroci delitti. E via poi con i titoli sulla «coppia diabolica». In questo caso, vista la collocazione geografica del blitz detto capelli d' argento, si poteva persino supporre dall' enfasi dell'annuncio che finalmente il mistero del Mostro di Firenze era svelato. Aveva due teste. Come non averci pensato prima? I genitori di Renzi! Anche la fisiognomica, con quella barba da satiro perverso di Tiziano e il volto da santarellina di Laura, professoressa delle medie in pensione, i pellegrinaggi a Medjugorje, la doppia vita, un classico. E poi quel figlio. Reati di sangue? Hanno rinvenuto in cantina degli scheletri di colf ucraine? Sono stati presi con le pistole fumanti dopo una rapina a un orfanotrofio? La finisco con il tono sarcastico, e passo ad alcune constatazioni. E non ci importa nulla che il Giglio Magico sia stato una disgrazia politica. Non è un buon motivo per ripristinare il linciaggio dei negri.
1 - Nel merito. La privazione della libertà è stata ordinata per reati fallimentari, dove gli arresti preventivi sono rari di per sé. È inoltre destinata a persone incensurate e prossime ai settant' anni, ciò che rende il tutto un abito su misura e con la cravatta in tinta. Non c' è sangue che minacci di essere versato. Le carte sono tutte depositate, e fotografano eventuali delitti del 2012-2013. Ripetere i crimini, inquinare le prove? Questi due sono da anni i pensionati più pedinati d' Italia. Carabinieri dei Nos in comunicazione illegale con i servizi segreti li hanno messi sotto microscopio, intercettati, accusati a vanvera; una pm di Modena ha dichiarato come i segugi in questione le avessero manifestato una specie di ossessione a riguardo della famiglia Renzi.
Soffiate e costanti 2 - La richiesta per provvedere a murare i loschi vecchiardi era giunta dal pm al gip circa quattro mesi prima. Pesa più l'urgenza di impedire reati nuovi o il nome degli indagati? È testimoniata da cronisti seri la soffiata avuta da deputati grillini che qualcosa di clamoroso stava sul cranio di Renzi. Insomma, scusate ma non la beviamo. Ci mettiamo tra gli apoti, come Prezzolini.
3 - Non esistono coincidenze, ma sequenze di fatti che inducono a considerare l'esistenza di una K, una costante. In questo caso molto italiana. Seguono ora le constatazioni predominanti. Che permettono di stabilire una legge del divenire storico valida per lo Stivale.
4 - Di solito si cita «Il 18 brumaio» di Carl Marx e la frase con cui si apre il volume: quella della storia che si ripete due volte, prima come tragedia, poi come farsa. Sbagliato in Italia. Da noi ricapita tutto il peggio molte volte, ed è una specie di perenne tragedia, che noi trattiamo però come una farsa, ostinandoci come criceti a tornare allo stesso punto di vigliaccheria.
5 - È stato Renzi (figlio) a notare quel che stava per riaccadere. Ci fu un segnale. Nel dicembre scorso Le Iene confezionarono su Italia Uno lo scotennamento televisivo di Antonio Di Maio, che sarebbe poi il papà di Giggino. In sintesi si palesò che: la ditta di famiglia, sita nel Napoletano, non dava nessun introito ma chissà come permetteva di campare; inoltre pullulava di abusi edilizi, deteneva rifiuti senza dichiararli, pagava lavoratori in nero. Uno scoop? Figuriamoci. Una cucchiaiata di ovvio. Il titolo poteva essere: normale in Terronia, pardon Campania. Il pover' uomo dovette scusarsi in video, prosternarsi. Il figlio Giggino, secondo consuetudine tra i rivoluzionari, difese assai poco il padre. Renzi invece con doti profetiche il 3 dicembre 2018 commentò: «Hanno creato un clima infame». Senza saperlo, l'ex premier ed ex segretario del Partito democratico stava citando quanto disse Bettino Craxi il 3 settembre 1992, di fronte al feretro del deputato socialista Sergio Moroni, suicida dopo due avvisi di garanzia. Craxi non fece il nome degli autori. In questo forse fu paradossalmente più preciso di Renzi. Craxi pensava a magistratura, stampa, potere economico, sinistra, forse Cia. Renzi ha individuato solo «I Cinque Stelle». Aggiunse però: «Almeno Di Maio può contare sulla solidarietà dei suoi colleghi 5S. A me la solidarietà è arrivata dalla nostra gente, non dal gruppo dirigente del Pd».
Una catena lunga 30 anni - 6 - Craxi-Renzi, i due anelli estremi (per ora) della catena In mezzo Andreotti, Berlusconi. I colpi con la mazza sono sempre stati sferrati dopo la perdita dello scettro di primo ministro. L' intenzione è incubata nel momento del trionfo, e ha per nome odio da parte dei nemici e invidia da parte degli amici. Il loro combinato disposto esplode come un bubbone appena cadi da cavallo. Craxi iniziò a essere percosso nel 1992, Andreotti iniziò il suo calvario nel 1993. Bettino è morto esule da vecchio garibaldino a Hammamet, dopo che gli rifiutarono di tornare in Italia da uomo libero per curarsi. Il Divo Giulio è morto da vivo, oppure vivo da morto, postumo di se stesso, come dichiarò. Berlusconi è stato condannato a quattro anni di carcere per un reato fantasma dopo essere stato sconfitto per una manciata di voti nel 2013. Ora tocca ai genitori di Renzi, mica che il figlio provi a rialzarsi.
La legge 7 - Ecco la legge della relatività del potere. Se tu sei stato un avversario politico, o anche un sodale, non importa, quando il successo viene meno sei morto tu, i tuoi figli, i tuoi padri e magari - se sono a tiro - pure i nonni. Le precauzioni che si applicano persino ai mafiosi e che hanno indotto a censurare l'esagerata esposizione mediatica di un Cesare Battisti, che in fondo era un assassino, non si rispettano più. Un professionista serio come Enrico Mentana era talmente preso dalla esposizione dei vecchi galeotti che ha mostrato in diretta l'ordinanza con cui si disponeva l'arresto della coppia satanica. E a lungo è figurata sul sito del suo Tg7 la pagina con i dati personali e l'indirizzo di Tiziano e Laura Renzi nonché del loro avvocato. Mentana quando si è riavuto dal transfert agonistico ha chiesto scusa e cancellato. Invece La Verità non si è fermata. Non è stata la foga, ma il piacere del cannibalismo. Speriamo si scusi, dopo il ruttino.
8 - Non credete alla legge della ripetizione italica? C' è sempre la decimazione dei fedelissimi. A suo tempo furono indagate la segretaria di Craxi, la scorta di Andreotti, l'assistente di Berlusconi. Stavolta, ma guarda le coincidenze, tocca all'«autista del camper di Matteo Renzi».
La cosa si fa chiara: i delinquenti cominciano sempre come chauffeur del boss. Ma certo. I narcos di Sinaloa insegnano. El Chapo Guzman non era forse stato l'autista del mitico Félix Gallardo. In galera tutt' e due. Che schifo di Paese. E non parlo del Messico.
Vittorio Feltri e l'arresto dei genitori di Matteo Renzi: "Che vaccata quei due vecchi ai domiciliari", scrive il 20 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Non so se l'arresto domiciliare dei genitori di Matteo Renzi sia giustificato o no. Non mi intendo di bancarotta e di fatturazioni fasulle. Ma so che prima di rinchiudere dei cittadini sarebbe meglio processarli e provarne la colpevolezza. Nel caso specifico invece i pm e similari hanno parlato di rischio. Quale? Che i due reiterino il reato attribuitogli. Mi pare improbabile che i settantenni con i riflettori addosso possano seguitare a fare i furbi, ammesso e non concesso che abbiano cominciato a sgraffignare. Così come mi sembra grottesco pensare che la coppia sia in grado di fuggire all'estero per non essere sottoposta a giudizio. Insomma questo provvedimento restrittivo della libertà di due vecchi è improbabile sia dettato da motivi precauzionali. È una forzatura; al mio paese direbbero è una vaccata. Una cosa è certa: se, al termine del procedimento, i presunti furfanti risulteranno innocenti, succede a parecchi imputati, nessuno pagherà. Nei giorni scorsi la stampa italiana ha pubblicato i dati riguardanti gli errori giudiziari, che sono una caterva. Pertanto c'è poco da stare tranquilli. Personalmente ritengo innocenti coloro che non sono schiacciati da prove evidenti. E le manette allegre non esistono. Anzi, non dovrebbero esistere. Quando poi si stringono attorno ai polsi di gente che in qualche modo ha che fare con la politica, sento puzza di bruciato. Ricordo con rammarico alcune vicende. Quella di Craxi, che contribuii a demonizzare (pentendomene), rimane esemplare. Egli fu condannato mentre i comunisti, che pure ricevettero denaro sporco (la famosa tangente sparita nella portineria di Botteghe Oscure), la fecero franca: anziché in prigione finirono al governo. Poi quella di Andreotti, ancora più assurda. Andò alla sbarra quale mafioso e mandante di omicidio. Assolto dopo anni di torture tribunalizie. Vi pare che un signore che fu premier sette volte sette avesse bisogno di baciare Totò Riina per menare il torrone? Ridicolo. Si trattò di autentica persecuzione. Della quale i giudici non risposero mai. Infine, la storia di Berlusconi, sottoposto a una miriade di indagini e condannato per una faccenda che non lo riguardava, dato che le evasioni fiscali, se ci furono, avvennero allorché il Cavaliere non ricopriva alcun incarico nella azienda di sua proprietà. Non solo, ma egli fu cacciato dal Parlamento in applicazione di una legge retroattiva, la Severino. Nessuno si scandalizzò perché Silvio stava sui coglioni a una folla di bischeri patentati. E ora siamo a Renzi, maciullato dai suoi compagni e dagli avversari di altri partiti. Nella vita ti perdonano tutto tranne il successo. Se vai in malora rendi felici i tuoi nemici, cioè coloro che hai battuto nelle battaglie pubbliche. Matteo Renzi ha commesso un grave errore: ha tentato di cambiare il Pd e non ci è riuscito, poiché è rimasto a metà strada fra il comunismo bieco e il rinnovamento, la democrazia. Paga un prezzo eccessivo: e a saldare il debito oltre a lui sono coloro che lo hanno messo al mondo. Vittorio Feltri
Luca Ricolfi, caso Salvini-Diciotti: Pd e Leu si riavvicinano grazie ai giudici, scrive il 20 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Parole pesantissime quelle che il politologo Luca Ricolfi usa per descrivere quella che definisce "una nuova modalità d'azione" della magistratura. Ovvero, parlando del caso Salvini-Diciotti, secondo Ricolfi "ora la magistratura non si limita a combattere i politici per i reati che commettono, ma anche per le loro scelte politiche, classificate come reati in base a una discutibile interpretazione dell'intrico di norme chiamate in causa dal comportamento di Salvini". Poi prefigura uno scenario horror, sulla base del fatto che Pd e Leu si siano trovati sullo stesso fronte nel votare a favore dell'autorizzazione a procedere nei confronti del ministro dell'Interno: "Assistiamo a una sorta di atto unico con un risvolto paradossale: il riavvicinamento tra Pd e Leu non su cose serie, ma sull'ennesima intromissione della magistratura nella dialettica politica".
Carlo Nordio, gravissima accusa alla magistratura: "Da Salvini a Renzi, così umiliano la politica", scrive il 20 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. I magistrati, in Italia, fanno politica: il segreto di Pulcinella, basti pensare alle odissee giudiziarie a cui è stato sottoposto Silvio Berlusconi per un ventennio. E il fatto che le toghe intervengano sulla politica lo dimostrano in maniera piuttosto lampante i due grossi casi degli ultimi giorni: la richiesta di autorizzazione a procedere contro Matteo Salvini per il caso Diciotti e gli arresti domiciliari a cui sono stati confinati i genitori di Matteo Renzi. Due circostanze sulle quali si esprime, con toni durissimi, l'ex magistrato Carlo Nordio. Lo fa su Il Messaggero, in un editoriale dal titolo eloquente: "La giustizia boomberang che distrugge la politica". Si parte dal caso-Diciotti e da Salvini, sul quale Nordio afferma: "È stato creato un gigantesco polverone su una materia che quasi nessuno si era dato la briga di studiare. Perché il caso di Salvini era del tutto nuovo, e giustamente il presidente Gasparri ha detto che questo provvedimento farà giurisprudenza. Perché qui non si trattava affatto della solita immunità dietro la quale molti politici si sono riparati dalle indagini giudiziarie, ma di una garanzia ministeriale prevista da una legge costituzionale che ne affida la valutazione al vaglio politico. Cosicché - prosegue - anche la petulante litania che nessuno è al disopra della legge suonava e suona come una contraddizione, perché è proprio questa Legge a dire che in presenza di un reato - ammesso che ci sia - il ministro non può esser processato se ha agito per un preminente interesse dello Stato".
Per Nordio, in tutto ciò, "la vittima maggiore è stata la Politica - nel suo senso più alto - che ancora una volta è sembrata succube dell'iniziativa della magistratura. Intendiamoci. Il Tribunale dei Ministri ha fatto il suo dovere mandando tutto al Senato. Incidentalmente notiamo - e siamo a un passaggio fondamentale del fondo dell'ex magistrato - che se avesse voluto davvero perseguitare Salvini non avrebbe riconosciuto la ministerialità del presunto reato, e lo avrebbe affidato alla giurisdizione ordinaria". Dunque Nordio ricorda come sul caso-Diciotti la sinistra sia tornata manettara e giustizialista, vanificando le "timide promesse di garantismo" che, inizialmente, arrivarono da Renzi. Lo stesso Renzi colpito a stretto giro di posta dalla notizia di babbo Tiziano e mamma Laura Bovoli agli arresti domiciliari. "Provvedimento discutibile - riprende Nordio -, perché una custodia cautelare a carico di due settantenni incensurati, per fatti avvenuti anni addietro, emessa quattro mesi dopo la richiesta del pubblico ministero, lascia assai perplessi". Ma sono le conclusioni a cui arriva l'ex magistrato ad essere pesanti, a tratti inquietanti: "In questa oscillazione di garantismi a senso unico e di confusione dei ruoli, la politica ha perso un'ottima occasione per affrancarsi dalla pesante ipoteca costituita dalle indagini giudiziarie, che da vent'anni la condiziona e talvolta la umilia. Il rifiuto di processare Salvini va infatti ben oltre la persona del ministro e dei componenti del governo. Sarebbe il primo passo per affermare la preminenza della politica sulla giurisdizione, quando è la stessa Costituzione a riconoscere questa necessità. Mentre questo incoraggiante indizio si è dissolto davanti ai cartelli dei democratici e al gesto manettaro del senatore Giarrusso, che agendo d'istinto ha rivelato quell'aspirazione giustizialista che per un attimo era sembrata sopita".
Le toghe contro il Pd: «La giustizia non è mai a orologeria…». L’Anm replica ai dem che avevano definito “abnorme” l’arresto dei genitori di Renzi, scrive Davide Varì il 21 Febbraio 2019 su Il Dubbio. «È inammissibile parlare di giustizia a orologeria». Le toghe della magistratura stavolta si sentono sotto attacco. Sotto attacco anche da chi, fino a ieri, le difendeva dalle incursioni di una parte, molto minoritaria per la verità, della politica. E a colpire i magistrati sono state soprattutto le parole durissime pronunciate dai dem renziani nelle ore successive la notizia dell’arresto dei genitori dell’ex premier. «Questo arresto è allucinante in uno Stato di diritto», tuonava ancora fino a ieri Matteo Orfini. «La giustizia in questo Paese è malata», faceva eco Roberto Giachetti. Per non parlare dei messaggi della chat del “Giglio magico” resi pubblici dall’Huffington Post: un diluvio di proteste contro “l’arroganza e dei magistrati” e “l’abnormità” delle misure cautelari. Insomma, di fronte a questa valanga il sindacato delle toghe non poteva non intervenire. E lo ha fatto ieri con un comunicato firmato dalla giunta dell’Anm al gran completo: «L’azione della magistratura non si arresta mai e non è mai rivolta a una contingenza politica o a favorire o danneggiare una parte politica».
E poi: «Ogni giorno la magistratura emette migliaia di provvedimenti e non è accettabile parlare di interventi orientati, mediaticamente pilotati o aventi finalità politiche». I provvedimenti della magistratura, continuano i vertici del sindacato delle toghe, «hanno sempre un unico obiettivo, la tutela dei diritti dei cittadini, senza distinzioni. Non possiamo dire che sono giuste quando trovano il nostro gradimento o che sono politiche quando non ci piacciono, i magistrati non svolgono un’azione politica, ma applicano rigorosamente le leggi dello Stato. È giusto fare chiarezza su questo – conclude l’Anm – perchè vogliamo evitare dannosi tuffi in un passato che non vogliamo più rivivere e interrompere un refrain che rende una cattivo servizio ai cittadini».
Ma una reazione forte e decisa arriva anche dai consiglieri del Csm di AreaDG, Giuseppe Cascini, Alessandra Dal Moro, Mario Suriano e Ciccio Zaccaro, i quali puntano dritti alle parole di sfogo pronunciate da Matteo Renzi il quale, nel sottolineare la “strana coincidenza temporale” tra il voto dei 5Stelle per il processo a Salvini e l’arresto dei suoi genitori, ha parlato senza mezzi termini di «capolavoro mediatico». Insomma, secondo l’ex premier l’arresto dei suoi genitori sarebbe servito a coprire l’operazione di salvataggio di Salvini. Un’accusa inaccettabile per le toghe di Area, che scrivono: «Siamo convinti che i provvedimenti giudiziari possano e debbano essere commentati e anche criticati. Non è accettabile però che, come spesso capita, vengano strumentalizzati nel dibattito politico». E ancora: «Siamo preoccupati per taluni commenti che suggeriscono che la applicazione di una misura cautelare domiciliare nei confronti dei genitori di Renzi sia stata un “capolavoro mediatico” o sia dovuta all’impegno politico del figlio». I togati di Area rilevano quindi che «spesso la magistratura è stata accusata di interferire nel dibattito politico; per prevenire questo rischio – concludono converrebbe evitare che le vicende giudiziarie vengano ogni volta colorate di finalità politica». E nella battaglia tra toghe e i dem si è inserita anche Forza Italia che proprio ieri ha ri presentato un cavallo di battaglia berlusconiano: la legge sulla separazione delle carriere. «Il testo – ha spiegato Paolo Sisto – prevede distinti concorsi, due organi di autogoverno, uno per la magistratura requirente e uno per quella giudicante, e la modifica della composizione dei membri elettivi dei due istituendi CSM rispetto a quello esistente». «I pm, quindi, continueranno ad essere magistrati e a godere delle garanzie di autonomia e indipendenza, ma apparterranno a un ordine giudiziario distinto da quello dei giudici».
Dominijanni: «A Renzi dico: le indagini non sono mai politiche…». Intervista al vicepresidente dell’Associazione nazionale magistrati, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 22 Febbraio 2019 su Il Dubbio. «I provvedimenti della magistratura si possono criticare nel merito. Ci mancherebbe altro. Quello che non va fatto è dare a questi provvedimenti una lettura di tipo politico», afferma il vice presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giancarlo Dominijanni, sostituto procuratore della Repubblica di Pisa ed esponente di Magistratura indipendente, la corrente moderata delle toghe. «È inammissibile parlare di “giustizia a orologeria”. L’azione della magistratura non si arresta mai e non è mai rivolta a una contingenza politica o a favorire o danneggiare una parte politica». Con queste parole, l’altro giorno, l’Anm aveva replicato a Matteo Renzi che, dopo l’arresto dei genitori, aveva parlato di una mossa mediatica costruita a tavolino per oscurare il caso del voto del Movimento 5 Stelle sulla Diciotti e l’autorizzazione a procedere nei confronti di Matteo Salvini.
Dottore, nel vostro comunicato di risposta alle dichiarazioni di Renzi chiedete “di evitare dannosi tuffi in un passato che non vogliamo più rivivere e interrompere un refrain che rende una cattivo servizio ai cittadini”. Non le sembra, invece, di essere tornati agli anni ruggenti dello scontro fra politica e magistratura?
«Guardi, il comunicato è molto chiaro. Come Anm abbiamo voluto solamente stigmatizzare le affermazioni di Renzi e del suo entourage sul fatto che esisterebbero indagini con fini politici. Posso comprendere la reazione dell’ex premier, ma non è possibile far passare il messaggio che l’arresto dei suoi genitori sia stato ritardato scientemente con lo scopo di oscurare la votazione degli appartenenti al M5s su Salvini».
Il ritardo nell’esecuzione del provvedimento di cattura nei confronti dei genitori di Renzi, firmato il 13 febbraio dal gip ed eseguito il 19, suscita più di una perplessità.
«Sono diversi i fattori che entrano in campo quando si tratta di dare esecuzione ad una misura cautelare. Parlo per la mia esperienza di pm».
Pare che in quei giorni il pm titolare del fascicolo sui genitori di Renzi non fosse presente in ufficio.
«Può essere anche questo. Trattandosi di una questione molto delicata hanno preferito aspettare che tornasse. E’ anche comprensibile».
A parte questa vicenda, c’è però un dato oggettivo. Mai come in questo periodo ci sono stati tanti comunicati da parte della magistratura associata contro il Governo.
«La interrompo subito. Mi permetta una puntualizzazione. L’Anm non è un comunicatificio. La posizione di Magistratura indipendente al riguardo è chiara. Come Associazione nazionale magistrati si deve intervenire solo quando è in discussione l’autonomia e indipendenza della magistratura. Se altri gruppi della magistratura associata vogliono intervenire anche su altre questioni, è un fatto che riguarda loro e non l’Anm».
Una presa di distanza nei confronti delle toghe progressiste di Area, da sempre critiche contro l’attuale esecutivo?
«Io penso sia necessario il rispetto reciproco fra poteri dello Stato. Ognuno ha le proprie prerogative. Come magistrati non dobbiamo entrare nel merito delle scelte politiche».
Ma il magistrato può intervenire nel dibattito pubblico?
«Il magistrato può esprimere le proprie opinione senza essere sanzionato, certo. Però se il discorso diventa politico, logicamente, viene meno la sua terzietà. Soprattutto se il dibattito attiene temi molto delicati».
Un richiamo alla neutralità?
«Io credo che il magistrato non debba prendere posizione su singoli fatti specifici. E poi non dobbiamo essere i moralizzatori dei comportamenti altrui».
Tiziano Renzi e Laura Bovoli, tre procure e due arresti con 10 anni di ritardo. Così crescono i dubbi, scrive il 20 Febbraio 2019 Davide Vecchi direttore del Corriere dell'Umbria su Libero Quotidiano. Credere nella magistratura è un obbligo. Anche perché, molto banalmente, non abbiamo alternative. E se qualche pubblico ministero o giudice sbaglia (capita con maggior frequenza di quanto si abbia notizia) il tutto solitamente si chiude senza scuse né conseguenze per chi ha commesso l'errore. Chi lo subisce può al massimo aspirare al titolo di «vittima della giustizia». Nient'altro. Anche se ha perduto tutto a causa di una indagine nata male e finita peggio. Per questo chi può evitare Procure e tribunali lo fa. L'esempio più recente arriva dal Movimento 5 Stelle che si è adoperato a tutela del socio di maggioranza, Matteo Salvini: hanno tutti totale fiducia nella magistratura purché si occupi dei nemici. Così, mentre sfila il leader leghista dalle aule di Catania, il Movimento esulta per gli arresti domiciliari di Tiziano Renzi e Laura Bovoli (papà e mamma dell'ex premier) disposti dalla Procura di Firenze. I magistrati toscani hanno scoperto che attraverso l'azienda di famiglia, Eventi 6, i genitori dell'ex segretario del Pd, sfruttavano lavoratori in nero impiegati da alcune cooperative - da loro appositamente create - che poi venivano guidate al fallimento senza pagare un euro di tasse né, spesso, un centesimo alla manodopera.
GIRO DI COOP - Secondo quanto ricostruito dall' accusa due cooperative (Delivery Service Italia e la Europe Service) sono state già così condotte alla bancarotta dai coniugi Renzi mentre una terza, di nome Marmodiv, è tuttora attiva ma la coppia era prossima a farla fallire usando lo stesso metodo, ritenuto fraudolento. Per evitare che ciò avvenisse - e che quindi fosse reiterato il reato - è stato necessario arrestarli, riconoscendo loro i domiciliari. Le 96 pagine di ordinanza firmata il 13 febbraio dal giudice per le indagini preliminari, Angela Fantechi, riportano testimonianze, reperti e documenti ad avvalorare l'impianto accusatorio. Per ricostruire il tutto gli inquirenti fiorentini sono risaliti a operazioni effettuate nel 2009. Sì, operazioni di dieci anni fa. Perché da lì è partita l'inchiesta. E ha coinvolto nomi di società, persone e realtà già note a chi si è occupato dell'universo renziano negli ultimi anni. E anche ad altre Procure oltre a quella fiorentina. Cuneo, ma soprattutto Genova che negli anni in cui Renzi junior era premier e guidava il Partito Democratico ha indagato Renzi senior per bancarotta fraudolenta concludendo poi con una archiviazione. Nelle quasi tremila pagine di atti e documenti c' era già il sistema contestato oggi: un'azienda coperta di debiti (Chil srl) affidata a un prestanome per farla fallire. Questa era l'accusa. E chi era il prestanome allora? Mariano Massone, lo stesso Mariano Massone arrestato da Firenze insieme ai genitori Renzi. Genova non ha visto nulla.
CHI HA RAGIONE? - Poi è toccato ai magistrati di Cuneo. Che hanno raccolto qualche testimonianza. Infine quelli del capoluogo toscano. E l'arresto. Tre Procure diverse, otto magistrati diversi, tre giudici diversi e tre esiti diversi. Su reati già individuabili sin dal 2009. Spontaneo chiedersi quale dei tre esiti sia quello giusto, quale Procura ha visto bene e quale male? E se ad aver visto bene è soltanto ora Firenze, perché le altre erano distratte? Volutamente? Delle due l'una: o non sono stati in grado o non hanno voluto. Si vedrà. Certo è che con sempre più frequenza quelle che partono come grandi inchieste poi si risolvono con un nulla di fatto. Basta citare Mps, banca Etruria, Consip. Sarà pure doveroso confidare nella magistratura ma la magistratura dovrebbe fare in modo di meritarsela questa fiducia. Davide Vecchi direttore del Corriere dell'Umbria
La dolce vita dei genitori di Renzi. Panorama ha letto per primo le carte dell'inchiesta sul giro di società della famiglia dell'ex premier. Panorama. Giacomo Amadori il 30 maggio 2019, Simone Di Meo 30 maggio 2019. Secondo i fratelli Conticini l’inchiesta sui fondi per i bambini africani finiti sui loro conti personali non sarebbe altro che un complotto contro Matteo Renzi, cognato di uno dei tre indagati. Lo rivelano gli atti che la Procura di Firenze ha depositato nelle scorse settimane e che Panorama ha visionato in esclusiva. Ma le carte dell’indagine condotta dal procuratore aggiunto Luca Turco e dalla pm Giuseppina Mione sulla presunta appropriazione indebita e il riciclaggio raccontano tutt’altra storia. Svelano tutti i maneggi con cui 6,6 milioni di dollari provenienti dalla Fondazione Ceil e Michael E. Pulitzer (che ne ha erogati 5,51), dall’Unicef (3,88) e da altre organizzazioni umanitarie (891mila) sono finiti nella disponibilità di Alessandro, Luca e Andrea Conticini. Quest’ultimo è accusato di aver riciclato 250 mila euro acquistando partecipazioni della Eventi6 srl, società di comunicazione dei Renzi già al centro di un fascicolo per false fatturazioni, e di altre due aziende collegate a imprenditori vicini alla famiglia dell’ex premier. I soldi sarebbero stati drenati attraverso la Play therapy Africa (Pta) e la International development association fondate da Alessandro Conticini e dalla moglie Valérie Quéré. I soldi destinati ai bimbi africani avrebbero garantito alla coppia uno stile di vita milionario, con tanto di investimenti in giro per il mondo. Un bel salto per chi, come lavoratore autonomo della cooperazione internazionale, nel 2003 aveva percepito un reddito di 935 euro. Le fiamme gialle hanno monitorato tutto, in entrata e – soprattutto – in uscita approfondendo i risk alert lanciati già dal 2012 dall’Ufficio informazione finanziaria di Bankitalia. Una delle segnalazioni più interessanti è su un bonifico del 25 settembre 2015. Conticini trasferisce 575 mila sterline su un conto dell’isola di Jersey, nel canale della Manica, intestato alla società Red Friar Private Equity ltd – Guernsey. La causale è «Investment Conticini Alessandro Edimburgh project». È la «sottoscrizione di un prestito obbligazionario», ricostruiscono gli investigatori, emesso dalla Red Friar per finanziare a sua volta la Hanover Leisure Fountainbridge (mutuataria) per la costruzione di 184 residence, con parcheggi e ristoranti, nel distretto finanziario di Edimburgo, in Scozia. Agli inquirenti non sfugge il particolare che il «prodotto finanziario» scelto da Conticini è «regolato dalla legislazione del Guernsey», ritenuto il «paradiso fiscale più efficiente del’Europa» e inserito nella black list della Controlled foreign companies (Cfc). Da dove arrivano le risorse del parente dei Renzi per quest’operazione? Dal suo conto corrente personale su cui, in quei giorni, sono confluiti i frutti del «disinvestimento di prodotti finanziari e relativi interessi», per 2,25 milioni di euro, «precedentemente acquistati» grazie alle «risorse finanziarie» delle «varie organizzazioni umanitarie», annotano ancora i militari. Coi soldi delle scuole e degli ospedali del Continente nero, il fratello del cognato di Matteo Renzi s’è inventato immobiliarista. Il conto presso la Cassa di risparmio di Rimini a Castenaso (Bologna), paese d’origine della famiglia Conticini, è il pozzo di San Patrizio a cui i fratelli attingono per «spese personali» e «familiari» oltre che per coprire le carte di credito. Tre milioni di euro sarebbero stati prelevati da quel conto «in assenza di idonea causale».
Gli investigatori ricostruiscono i movimenti dei soldi seguendo le strisciate nei pos in Etiopia, Mozambico, Emirati Arabi Uniti, Usa (Miami, San Francisco e Los Angeles), Nassau, Bahamas, Saint Lucia, Guyana, Trinidad e Tobago, Siviglia, Londra, Francoforte, Dublino, Amsterdam, Rennes e Malta solo per indicare le località più citate sugli estratti conto, e Italia ovviamente (Golfo Aranci, Madonna di Campiglio, Dimaro, Firenze, Bologna). Con la sua Cartasì, Conticini acquista a Città del Capo, in Sudafrica, diamanti per 7.400 euro, ma gli capita di utilizzarla anche solo per un caffè da 3 euro o per comprare, su iTunes, una canzone mp3 (costo: 3,46 euro). Consegna la card alle casse di McDonald’s, Ikea, Leroy Merlin, Decathlon e di centinaia di altri esercizi commerciali. A Castenaso paga con la carta un paio di calze da 7 euro; mentre a Rignano sull’Arno, il paese dei Renzi, salda un conto di 52 euro all’Ipercoop e di 24 euro in una storica macelleria. Sulla carta viene scalato anche l’abbonamento a Sky. Mese dopo mese, i saldi di Cartasì prosciugano quasi 200 mila euro. La smania di spendere di Conticini si manifesta ancor di più negli investimenti immobiliari. Per l’acquisto e la ristrutturazione della villa di Cascais, in Portogallo sborsa quasi due milioni di euro. È una reggia che, per la sola corrente elettrica, costa 3.300 euro al mese. Oltre 16mila euro è invece il totale per i lavori di manutenzione, mentre per mobili, oggetti e decorazioni sono stati necessari 33 mila euro. Quando non ci vivono, i coniugi Conticini la affittano per 600 euro a notte, come rivelò il quotidiano La Verità nell’agosto 2018. Nella vicina Lisbona, Conticini ha acquistato anche un palazzetto, in società con l’imprenditore Alessandro Radici, da cui sono stati ricavati 4 loft superlusso da vendere a un milione di euro l’uno. Più economica (si fa per dire) è la gestione dell’altra villa in terra francese: oltre 50 mila euro per la piscina, 23 mila euro per la cucina, 11 mila euro di mobili, quasi 7 mila euro per la manutenzione del giardino, 4 mila euro per lavori di falegnameria e saldo parquet e 2.500 euro a una società che confeziona succhi di frutta biologici. In totale 253 mila euro. Sui conti però ci sono ancora soldi sufficienti per un’auto (25 mila euro) e per due «rimborsi»: il primo di 1750 euro per il fratello Andrea Conticini e per Matilde Renzi, sorella di Matteo; il secondo per il «pagamento albergo vacanze di Natale». Agli atti ci sono pure i bonifici mensili alla moglie Valérie per «oltre 130mila euro», e per «operazioni acquisto titoli di Stato» (300 mila euro) e per un «investimento immobiliare» a Guimaec, nel Nord della Francia, paesino d’origine della consorte. Quel che residua viene dirottato da Conticini in Portogallo (2,2 milioni di euro) e in Svizzera (200 mila euro). Alla fine, presso la Cassa di risparmio di Rimini restano 41 mila euro su un conto, 10 mila dollari su un altro e 185 sterline sull’ultimo.
Conticini viaggia per il mondo non solo per piacere. Si muove tra i paradisi fiscali del Sud America e dell’Africa con dimestichezza, anche e soprattutto per lavoro. Nelle Seychelles, ad esempio, stabilisce la sede legale (con relativo conto corrente) della «International development association ltd», la creatura che eredita le attività della Pta, chiusa nel 2013, e che cattura altri fondi umanitari. Gli inquirenti scoprono, inoltre, che Conticini è amministratore pre di un’altra società che si chiama come la prima, «International Development association», solo che invece di essere una «Ltd» (una specie di Srl italiana) è una «Sa», ossia una «Società anonima». La sede è nella Repubblica democratica di San Tomè e Principe, un arcipelago di una ventina di isole frustate dal sole caldo dell’Equatore. I finanzieri sospettano che la costituzione delle due società omonime sia un trucco di Conticini per «proseguire a ricevere i contributi di beneficenza traendo in inganno» le organizzazioni umanitarie, e in particolare la fondazione Operation Usa, che continuano a inviare in buona fede i loro bonifici. Addirittura in un’informativa della Guardia di finanza si avanza il dubbio che uno dei giustificativi presentati dai coniugi sia in realtà un fotomontaggio, «frutto dell’unione, in un unico foglio, di più parti di differente provenienza». L’Unicef, nonostante la presunta truffa ai propri danni, non ha ancora sporto denuncia, ma il dialogo tra l’ufficio della Nazioni unite di New York e la Procura di Firenze continua.
Il 13 febbraio 2019 dall’Onu hanno scritto di voler «continuare a cooperare con il Governo dell’Italia» e che l’Ufficio affari legali «ha consultato l’Unicef riguardo alla richiesta del procuratore». Ma hanno anche chiesto «ulteriori informazioni rispetto al nesso tra i presunti reati commessi dai funzionari della società e i fondi dell’Unicef». Il 27 febbraio il procuratore aggiunto Turco, attraverso la rappresentanza permanente dell’Italia presso le Nazioni unite ha inviato l’integrazione richiesta, ribadendo che dei 10 milioni di dollari erogati dalle varie associazioni benefiche alla Pta solo «la residua somma di 2,8 milioni» sarebbe stata «utilizzata anche per fornire a Unicef i servizi contrattualmente pattuiti, che sono risultati insoddisfacenti come rilevato dalla stessa Unicef nel rapporto consultivo dell’Ufficio verifiche ispettive interne del maggio 2014». Ecco dunque una delle armi segrete della Procura di Firenze che insieme alle indagini di Finanza e Bankitalia chiude il cerchio a livello investigativo: proprio un documento interno dell’Unicef che dà un giudizio sconfortante sull’operato dei coniugi Conticini, descritti come soggetti del tutto inaffidabili. E, infatti, dopo quel dossier l’Unicef interruppe ogni rapporto con loro. Prima di allora quattordici sedi dell’organizzazione sparse in giro per il mondo avevano collaborato con la Pta, stipulando 33 contratti per un valore complessivo di 3.882.907,85 dollari. L’ufficio della Repubblica centrafricana aveva investito ben 788.390 dollari, il Senegal 632.863, l’Iraq 548.597.
Nel febbraio del 2012 Monika Jephcott, legale rappresentante della Play Therapy international, società azionista di minoranza della Pta, riceve un avviso di pagamento dall’Unicef con l’indicazione di un conto corrente a lei sconosciuto. Per questo avverte New York che non le risultava di dover ricever pagamenti temendo, come scritto in una memoria agli atti, una «frode (…) usando il nome di Pti».
Nel 2013 l’Ufficio delle verifiche ispettive interne (Oiai) del Senegal segnala alla propria sezione investigativa «un’accusa di servizio insoddisfacente e di contratti sovrapposti con un certo numero di uffici che coinvolgevano un venditore chiamato Pta».
La pratica passa all’Oiai di New York che scopre diverse stranezze. Per esempio che già nel 2010 qualcuno si era domandato come una società specializzata in terapia del gioco fornisse programmi «di protezione dell’infanzia». Per la Jephcott i coniugi «non possedevano le credenziali formali per la terapia del gioco». Quando a entrambi viene chiesto di dimostrare il contrario Conticini dice che avrebbe cercato i suoi attestati. Ma nel loro documento gli ispettori annotano: «A oggi né il signor Conticini né gli uffici dell’Unicef che hanno ingaggiato Pta hanno fornito all’Oiai una copia di alcun diploma o certificazione». Né gli 007 li trovano nei file personali dei due nei database dell’Unicef.
Non basta. «Il signor Conticini e la signora Quéré erano parte dello staff di Unicef quando hanno fondato Pta senza dichiarare il conflitto d’interesse al management dell’ufficio Paese Etiopia». Conticini avrebbe persino ingaggiato la consociata Pti per lavori pagati dall’Unicef. Anche la Quéré, secondo l’Unicef, mentre era sotto contratto con l’organizzazione, collaborava con una ong ed era pagata con soldi del fondo per l’infanzia delle Nazioni unite. L’ufficio non prese provvedimenti disciplinari ma si limitò a «una reprimenda scritta». Ovviamente quando si dimise la Quéré andò a lavorare con la Pti su un progetto pagato dall’Unicef. La Pta forniva servizi all’Unicef in quattro settori: psicoterapia, analisi di situazione, sistemi di protezione dell’infanzia e comunicazione per lo sviluppo. «In quattro uffici nazionali, a causa dei risultati insoddisfacenti, i contratti sono stati chiusi o il pagamento finale è stato trattenuto». Conticini interrogato dall’Oiai «ha ammesso che avrebbe dovuto declinare i contratti relativi all’analisi situazione e alla comunicazione per lo sviluppo e valutazione, dove non aveva competenza; tuttavia visto che gli uffici Paese lo avevano avvicinato per questi lavori, la Pta aveva prontamente accettato». L’Oiai cita otto contratti del valore di 1,2 milioni dollari in queste materie e cita giudizi insoddisfacenti per sei di questi.
Ma il vero colpo di grazia alla credibilità dei Conticini sembra averlo inferto l’avvocato Richard Walden, presidente di Operation Usa, la ong con sede a Beverly hills che veicolava alla Pta i fondi della fondazione Pulitzer. Il legale ha denunciato i Conticini, ha messo a disposizione mail e bilanci e in video conferenza con la Procura di Firenze ha fatto dichiarazioni importanti. Walden è stato sentito una prima volta il 12 giugno 2017 negli uffici Fbi e successivamente il 9 novembre 2017. Quel giorno in California a compulsarlo c’è il sostituto procuratore John Legend (come il musicista) e l’agente federale Daniel Quilt. Dall’altra parte dell’Oceano Turco e la pm Mione. Per il testimone non era previsto che i soldi dei Pulitzer finissero nelle tasche dei parenti di Renzi: «Nel 2016 in Etiopia» spiega Walden, «Alessandro Conticini mi disse “che (lui e la moglie, ndr) non si pagavano un salario o una commissione dal denaro dei Pulitzer, ma che lavoravano come consulenti per l’organizzazione internazionale del lavoro delle Nazioni unite (…) anche quando ricevevamo i budget per le donazioni non c’era mai una riga che indicasse un salario né per Alessandro Conticini né per Valérie Quéré». Ma sembra che non fosse così. A insospettire Walden fu anche l’apertura di un conto corrente a Capo Verde («Non ci avevamo mai lavorato, ma aveva una reputazione terribile e la risposta di Alessandro Conticini fu che le leggi bancarie erano più liberali»). Lo stesso Walden a un manager della fondazione Pulitzer aveva riferito che in Etiopia non aveva visto «malta e mattoni», ovvero qualcosa di tangibile: «Quindi non ho avuto modo di sapere quanto è stato speso». Agli agenti Fbi l’avvocato avrebbe detto che «Alessandro Conticini ha lavorato a stretto contatto con Matteo Renzi su varie donazioni benefiche e progetti». Ma davanti ai magistrati italiani Walden nega di essere mai entrato in contatto con l’ex premier o che Conticini gli abbia riferito di aver lavorato con lui. In compenso dichiara: «Alessandro Conticini mentre stavamo viaggiando in Etiopia ha menzionato il fatto che suo fratello era capo di gabinetto di Matteo Renzi».
Nel luglio 2016, quando il caso dell’inchiesta di Firenze finisce sui giornali italiani e la notizia arrivò alla fondazione Pulitzer, Alessandro Conticini scrive una mail alla sessantenne Christina Eisenbeis Pulitzer, la figlia di Michael Edgar e Cecille. Nel messaggio, oggi agli atti, si legge: «Negli ultimi tre giorni i miei fratelli e io siamo diventati vittime di un’indagine legale sullo sfondo di un attacco politico per destabilizzare il nostro primo ministro e il nostro governo in Italia. Mio fratello, la persona indagata più da vicino, è infatti il cognato del primo ministro ed è stato usato in diversi modi per destabilizzare la popolarità del primo ministro in vista del referendum italiano». Sino all’ultima accusa. La più clamorosa: «Vogliono dimostrare che una parte di quei fondi sono stati riciclati da mio fratello per sostenere le attività del primo ministro». In realtà a parte qualche spesuccia a Rignano, sembra che, come abbiamo visto, il progetto dei Conticini brothers fosse ben studiato e che grazie ai soldi per i bambini africani una modesta famiglia di Castenaso sia diventata milionaria.
Stefania Craxi: «Matteo, liberati della sinistra manettara». Intervista alla senatrice di Forza Italia di Paola Sacchi del 20 Febbraio 2019 su Il Dubbio. «Solo a sentire il chiacchiereccio in giro di questa sinistra su Renzi mi sento di dare la mia più totale solidarietà a lui». Sorride, amara, Stefania Craxi. Figlia dello statista socialista morto a 65 anni in esilio ad Hammamet, senatrice di Forza Italia, vicepresidente della commissione Esteri di Palazzo Madama, la Craxi a Renzi dice: «Liberati dal giustizialismo e da questa sinistra che lo ha inoculato».
Senatrice Craxi, cosa ha provato di fronte all’arresto, ai domiciliari, dei genitori dell’ex premier ed ex segretario del Pd, oggi uno dei leader dell’opposizione?
«Matteo Renzi ha la mia più totale solidarietà umana e politica. Perché i tempi, i modi, con i quali è stato preso questo provvedimento abnorme nei confronti dei suoi genitori lasciano più di un sospetto. Nelle sue dichiarazioni, anche dei giorni scorsi, emerge qualcosa di torbido».
E’ quello che di fatto dice lui stesso.
«Però la differenza tra me e lui è che io lo posso dire perché non è da oggi che parlo di una giustizia ingiusta, dello sconfinamento della giustizia in campi che non le appartengono e di un suo usi politico. Renzi, invece, per la sua collocazione, rischia di far fatica a dirlo».
Perché?
«Una certa sinistra è responsabile di aver inoculato il morbo prima del moralismo militante poi del giustizialismo nella politica e nella società italiana».
Proprio l’altro ieri è stato il ventisettesimo anniversario dell’avvio di Mani pulite.
«Appunto. Io rilevo in Renzi infatti una contraddizione di fondo: da un lato dice di aver piena fiducia nella magistratura, dall’altro invece dice che se non avesse fatto politica non sarebbe successo niente. Questa contraddizione non sta a me scioglierla, sta a Renzi e alla sinistra che lui rappresenta farlo. Vede, io già immagino i risolini caustici di Massimo D’Alema…»
D’Alema però non trattato esattamente con i guanti da Renzi mi sembra se ne sia stato buono finora…
«Ma certo. Parlando di D’Alema, io non indico la persona ma quella sinistra responsabile di aver liberato il mostro del giustizialismo e non aver saputo più rimetterlo dentro».
Il Pd e anche Renzi si sono attestati sul sì al processo al ministro Matteo Salvini.
«E questo mentre arrivava un provvedimento abnorme. Io non ho letto le carte, ma si tratta di un’indagine avviata da mesi e accanirsi contro due persone di settant’anni, nella mia concezione garantista su come dovrebbe essere utilizzata la custodia cautelare, è un provvedimento davvero abnorme».
Lo stesso giudizio usato da Renzi.
«La contraddizione sta a tutta a sinistra. E Renzi ha perso l’ennesima occasione per assumere posizioni garantiste. Purtroppo, e ripeto purtroppo, perché non c’è proprio nulla di cui esser contenti, queste posizioni le pagherà. Le paga lui dal punto di vista anche personale perché credo che sia un dolore in una famiglia e pagherà anche dal punto di vista politico. Perché sta nell’ambito di questa sinistra che non ha mai dimostrato garantismo se non a fasi alterne».
E quindi?
«Renzi sta in un guaio».
Che sentimento prova sul piano personale da figlia per il “figlio” Renzi, seppur siano casi assolutamente diversi, a cominciare dal ruolo dei rispettivi genitori?
«Si prova un grande dolore soprattutto se si ha la coscienza che si è di fronte a un provvedimento ingiusto. Dopodiché in questa democrazia vige la presunzione d’innocenza e invece per anni è stato tollerato che i processi si facessero sui giornali e nelle piazze».
Il nastro del film torna indietro e tornano in mente le immagini dell’aggressione a suo padre al Raphael, la sera in cui nacque il processo di piazza. Dal Raphael alla piattaforma Rousseau?
«Quella volta la sinistra ha aizzato le piazze, oggi ci troviamo di fronte alla piattaforma Rousseau. Craxi fu il primo esempio dei processi che avvenivano nelle piazze prima che nelle aule del parlamento e in quelle giudiziarie. Di anno in anno, di decennio in decennio siamo arrivati a oggi. In un clima infame che non è mai terminato».
Al senatore Renzi consiglia di liberarsi di questa sinistra?
«Assolutamente sì. Lui ha detto di volersene liberare, in qualche modo. Dopodiché però è questa sinistra che si è liberata di lui. E lui stesso non si è liberato di quel sentimento moralista e giustizialista che quella sinistra ha inoculato e mal gliene incolse.
A dire il vero, D’Alema un po’ per quanto timidamente molti anni fa provò a rimarcare una distinzione tra politica e giustizia e nel partito gli saltarono addosso. Renzi non c’era.
«Timidamente non basta. Ma D’Alema e quella generazione per una ragione esclusivamente di potere scelsero la via giudiziaria».
Che rapporti personali ha con il suo collega senatore Renzi?
«Di colleganza, stiamo nella stessa commissione. Ma la questione non è personale è politica. Bisogna riportare la magistratura nel suo giusto ambito che è quello di stabilire il fatto reato, non certo l’obiettivo di finire sui giornali, non certo di funzionare a orologeria, non certo di utilizzare due pesi e due misure. Si tratta di restituire alla giustizia la sua funzione che è quella del servizio reso a tutela delle ragioni del cittadino. Non essere stata capace di fare una riforma seria lo considero il più grande fallimento politico della “Seconda” Repubblica che non è stata in grado di opporsi a questo clima infame. Quel clima che oggi ha prodotto la deriva giustizialista grillina. Peraltro anche loro si contraddicono spesso e volentieri».
Renzi le ha mai parlato di suo padre?
«Credo che anche alla luce di quello che succede stia facendo una riflessione su Craxi. Tempo fa mi chiese l’ultimo libro di mio padre sulla politica estera (“Uno sguardo sul mondo” Mondadori, a cura della Fondazione Craxi) poi mi mandò un messaggio per ringraziarmi. Forse deve leggere un po’ di più».
E la Lega con il garantismo come è messa ora?
«La Lega almeno qualche riflessione nel merito l’ha fatta. Ma anche i processi a Craxi erano processi con sentenze abnormi. Quindi, io non mi trovo in contraddizione con quello che abbiamo sempre sostenuto».
Arresto dei Renzi, l’onore delle armi di Salvini e i sospetti di Fi e Giglio magico. I dem renziani sono convinti che la procura di Firenze abbia scelto “tempi politici”, scrive Davide Varì il 20 Febbraio 2019 su Il Dubbio. «Inutile dire che la vicenda dei miei genitori ha totalmente oscurato tutto ciò che è accaduto lunedì nel mondo della politica. Un capolavoro mediatico, tanto di cappello». Il più duro, e anche il più allusivo, è proprio lui, Matteo Renzi. E anche quel «ho fiducia nella magistratura», ripetuto all’infinito, appare sempre più come una formula di rito che non una reale convinzione. Anzi, l’ex premier dem ormai è convinto del contrario e cioè che la magistratura abbia colpito con precisione chirurgica. E del resto che l’arresto dei suoi genitori abbia un deciso retrogusto politico, lo dice Renzi stesso quando nella sua e- news di ieri ammette: «Se non avessi fatto politica, oggi i miei genitori non subirebbero questo. Lo sanno anche i sassi. E mi piacerebbe dire: prendetevela con me. Non con la mia famiglia». Più chiaro di così. E la gravità della notizia appare anche dalle reazioni, decisamente composte e spesso al limite della solidarietà umana e politica, che arrivano dagli avversari.
A cominciare da Matteo Salvini: «Quando si portano via una mamma e un papà la politica deve fare un passo indietro e per me non è una bella giornata», dice infatti il vicepremier. Che poi aggiunge: «Non entro nel merito delle carte processuali, non le ho lette, ho già le mie da leggere».
Ancora più esplicito Silvio Berlusconi: «Sono cose che in un paese civile non accadrebbero», dice il leader di Forza Italia. «Credo che umanamente sia molto addolorato e che pensi che se lui non avesse fatto politica questo non sarebbe accaduto». Ma il Cav poi non risparmia una stilettata: «Questa cosa dolorosa non sarebbe accaduta se anche la sinistra avesse accettato di realizzare la nostra riforma della giustizia, con separazione dei giudici dai pm, che devono avere una carriera diversa».
Il Guardasigilli Bonafede sceglie invece la via istituzionale: «Non commento vicende giudiziarie, non l’ho mai fatto da quando sono ministro della Giustizia e non intendo farlo ora». Mentre per il Movimento parla il sottosegretario all’Interno, Carlo Sibilia: «Chi pensa che il M5s faccia festa per gli arresti dei genitori di un ex presidente del Consiglio si sbaglia di grosso. È sempre triste dover commentare presunte illegalità». Decisamente british anche il commento di un altro sottosegretario M5s, Stefano Buffagni: «I figli non devono mai pagare le colpe dei padri: Matteo Renzi ha fatto danni per la nostra amata Italia e i cittadini si sono giù espressi su di lui. Sui genitori la giustizia farà il suo corso».
Ma tra le decine di reazioni c’è da segnalare senz’altro quella della deputata di Fi, Jole Santelli e quella del dem Michele Anzaldi. Entrambi i parlamentari avanzano decisi dubbi sulla tempistica della misura cautelare che ha colpito i genitori di Renzi: «Per carità si tratta solo dell’ennesima coincidenza, uno degli straordinari scherzi del destino che la giustizia ci regala. Perché è ovvio che la magistratura segua un proprio calendario, è noto che i magistrati vivano in un proprio mondo, totalmente avulso e distante dalle vicende politiche, è lampante la circostanza che le agende della politica e della Giustizia non siano mai sovrapponibili». E poi: «Quindi è solo la casualità che sovrappone due notizie: il voto dei 5 stelle sull’autorizzazione a procedere di Salvini e l’arresto dei genitori di Renzi. E deve solo ringraziare il destino a lui favorevole Luigi Di Maio se uno dei giorni più neri per il Movimento, è stato giornalisticamente offuscato dalla notizia che una richiesta di custodia cautelare nei confronti dei genitori di Matteo Renzi, fatta ad ottobre, venga decisa proprio il 18 febbraio. Fatali coincidenze…», conclude. Anzaldi, infine, chiede chiarimenti su una possibile fuga di notizie: «Esponenti del Movimento 5 stelle sapevano in anteprima degli arresti ai domiciliari che avrebbero colpito i genitori di Renzi? Perché sarebbero stati informati? Chi li avrebbe informati?».
Caro Renzi, il garantismo del Pd ha troppe pause…Senatore, il garantismo è uno solo: uno. Non ammette pause, non ha variabili. Se il garantismo accetta un’eccezione muore. Non esiste più, scrive Piero Sansonetti il 21 Febbraio 2019 su Il Dubbio. Carissimo senatore Renzi, ho scritto su questo giornale, nei giorni scorsi, che considero sproporzionata l’iniziativa della magistratura contro i suoi genitori, e che non riesco a non vedere in quegli arresti un’azione evidentemente politica ed evidentemente rivolta contro di lei. Penso che ciò sia grave. Come sono state altrettanto gravi, in passato, altre iniziative dei Pm. Ho apprezzato la sua reazione, che ho trovato ragionevole ma al tempo stessa netta e fiera. E’ stata la reazione di un garantista. Personalmente sono convinto della necessità che la sinistra ritrovi la sua anima garantista. Purtroppo io credo che la sinistra italiana abbia delle radici che la legano al giustizialismo, radici che hanno origine nel vecchio stalinismo di 40 anni fa, e che poi si sono rafforzate negli anni della lotta al terrorismo e, successivamente, negli anni di “Mani pulite”, quando i magistrati assunsero il monopolio della moralità, dell’etica, dell’autorevolezza, radendo al suolo il prestigio della politica. Garantismo: lettera aperta a Matteo Renzi. E tuttavia è sempre esistito un pezzetto di sinistra (quello socialista, quello liberale e in piccola misura anche quello cristiano e persino quello comunista) che non ha mai pensato di potere barattare lo Stato di diritto con dei vantaggi politici, o elettorali. Lei naturalmente può farmi osservare che la sua formazione politica ha avuto poco o niente a che fare col “tronco” giustizialista della vecchia sinistra, e neppure con il “tronchetto” girotondino degli ultimi vent’anni. È vero. Ma non è di questo che voglio discutere. Voglio solo farle osservare che il comportamento del Pd, anche in questi ultimi anni, è stato assai altalenante. E che forse – io dico: senza forse – è giunto il momento di criticare apertamente quegli atteggiamenti, e di dare un taglio netto alle tradizioni super- legalitarie e autoritarie. Mi riferisco a episodi di alcuni anni fa, che però sono stati molto gravi, ma anche ad avvenimenti più recenti. Il Pd, ad esempio, si schierò per il varo della legge Severino, che non è una legge garantista e che assegna un potere esorbitante alla magistratura, e poi si schierò per la sua applicazione retroattiva, giungendo a determinare l’espulsione dal Parlamento del capo dell’opposizione. Cosa mai avvenuta nel dopoguerra. Quel giorno i senatori dei 5 Stelle esposero uno striscione di tipo fascista: “Fuori uno, tutti a casa”, che riecheggiava il famoso discorso di Mussolini sul “bivacco di manipoli”: non ricordo che il suo partito insorse. Il Pd sollecitò qualche mese dopo le dimissioni del ministro Lupi e poi della ministra Guidi, che pure non erano nemmeno stati indagati, ma travolti dai giornali, dai 5 Stelle e dalle fughe di notizie (intercettazioni prive di qualunque valore penale) permesse da pezzi della magistratura e cavalcate, fuori da ogni etica professionale, dai giornalisti. Ricorderà sicuramente i colloqui assolutamente privati tra la ministra Guidi e il suo fidanzato, sbattuti in prima pagina. Fu un’infamia, lo sa: un’infamia. Non ci fu reazione del Pd, e Guidi fu scaricata. Si dimise. Come era stato scaricato, qualche mese prima, il segretario del partito in Campania, Stefano Graziano, che poi fu assolto da tutto – proprio da tutto – ed ora credo che sia commissario del Pd in Calabria. In Parlamento il Pd ha votato molte volte a favore dell’arresto di deputati o senatori avversari, o persino alleati. Penso all’arresto del senatore Caridi, deciso quattro giorni dopo l’invio da parte della magistratura di una richiesta lunga 4000 pagine, e dunque deciso senza defezioni e senza che nessuno avesse letto neppure un centinaio di quelle pagine. Un anno dopo la Cassazione disse che l’arresto non era legittimo, ma il Parlamento non se ne era accorto, e neanche il Pd. E’ stato così con Minzolini, anche lui buttato fuori dal Senato, col voto del Pd, dopo che un giudice lo aveva condannato e senza che nessuno avesse niente da dire sul fatto che questo giudice era stato in precedenza un deputato del centrosinistra, avversario politico di Minzolini. Alcuni senatori del Pd si dissociarono. Ma il resto del partito fu compatto. Mi fermo qui, ma l’elenco potrebbe continuare per diverse pagine. Voglio solo fare un accenno all’ultimo caso, e cioè al voto contro Salvini. Ho letto l’intervista del presidente del Pd all’Huffington Post e in gran parte la condivido. C’è un punto però che non posso accettare: la distinzione tra il caso Renzi e il caso Salvini. E’ chiaro che nel caso dei suoi genitori quel che colpisce è la sproporzione del provvedimento. Quanta gente è stata messa in custodia cautelare per il sospetto di due o tre fatture gonfiate? Forse mai nessuno. Giusto. Ma secondo lei non c’è nessuna sproporzione nel chiedere che il ministro Salvini sia processato per sequestro di persona, come i banditi sardi negli anni sessanta o la banda della Magliana? E’ evidente la sproporzione che rende lampante il valore politico, e non giudiziario, delle accuse. E allora perché il Pd non ha votato contro l’autorizzazione a procedere? Per non assomigliare a Berlusconi, accusato spesso di volersi difendere dai processi e non nei processi? Senatore, guardi che io penso tutto il male possibile delle politiche di Berlusconi (e ancora molto, molto più male di quella di Salvini) ma sul terreno del garantismo, Berlusconi è stato sempre coerente e imparziale, e se si vuole essere davvero garantisti non c’è niente di male ad imitarlo. Anzi, è necessario. Ieri, in un’intervista concessa a Paola Sacchi, la senatrice Stefania Craxi (che è la figlia di uno statista che fu malmenato dalla giustizia) l’ha invitata a dare un taglio netto col vecchio giustizialismo della sinistra. Ha ragione la senatrice Craxi. La ascolti. In questi giorni ho letto molte dichiarazioni di esponenti del Pd che difendono lei e accusano i leghisti. Chiedono perché la magistratura si accanisca coi suoi genitori e perdoni Salvini per la Diciotti o per i 49 milioni. Possibile che non si riesca a esprimere il proprio garantismo senza chiedere punizioni per gli altri? Possibile che anche il Pd debba restare imprigionato in quel livello infimo della polemica, tipico dei 5 stelle, che suona così: “E allora gli altri?” Senatore, il garantismo è uno solo: uno. Non ammette pause, non ha variabili. Se il garantismo accetta un’eccezione muore. Non esiste più. Vale per San Francesco e per Riina. Il garantismo pone lo stato di diritto al di sopra di tutto, impone che lo stato di diritto non sia negoziabile, non possa essere emendato, corretto, limitato, adattato alle circostanze. E’ difficile, per un politico, essere garantista: ma è necessario, se vogliamo che la modernità sia uno sviluppo della civiltà e non una sua sospensione. Lei è in grado di imporre questa svolta? E’ in grado di promettere che non userà mai più la leva della giustizia e del moralismo come strumento di lotta politica? Di giurare che la grande lezione di Aldo Moro – penso proprio al Moro del discorso a difesa della Dc sulla Lockheed e poi al Moro delle lettere dal covo delle Br – diventerà la sua bussola? Io ci spero.
PiazzaPulita, Pierluigi Bersani contro Matteo Salvini: tifa manette e gli dà del razzista, scrive il 22 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. A volte ritornano. Si parla in questo caso di Pierluigi Bersani, il fu presunto smacchiatore di giaguari nonché esponente di spicco di un partito pressoché inesistente, MdP. L'ex ministro era ospite in studio di Corrado Formigli a PiazzaPulita su La7, dove ha preso parte all'unica attività conosciuta dalla sinistra di oggi: affermare che Matteo Salvini è la causa di tutti i mali. E soprattutto un razzista. Nel corso della sua intervista, due in particolare i passaggi riservati al vicepremier leghista. "Un bambino che parla italiano, che va a scuola con i nostri figli, cominciamo a chiamarlo italiano. Salvini non può negare che in Italia le pulsioni razziste stanno crescendo". E insomma, ancora una volta Bersani lega il presunto aumento di quelle che chiama pulsioni razziste alle politiche di Salvini. Non pago di quanto detto, Bersani poi sposta il focus sul caso-Diciotti e la richiesta di autorizzazione a procedere del tribunale dei ministri ad ora respinta dalla Giunta immunità del Senato. No, Bersani non ha dubbi: "Diciotti? Certo che avrei fatto processare Salvini". E nessuno aveva alcun dubbio al riguardo.
Quelle due curve gemelle e fedeli, scrive il 19 febbraio 2019 Alessandro Gilioli su L'Espresso. Tra gli effetti della fine delle ideologie e della crisi delle democrazie c'è la fedeltà assoluta al Capo, che appunto ha già sostituito le ideologie e sta sostituendo anche le democrazie. Era uno dei temi di cui parlava spesso l'ultimo Bauman, che - per minore intelligenza mia - semplificherò molto: l'esternalizzazione dei poteri dalle democrazie parlamentari ai mercati (e in generale alle dinamiche economiche) ha reso deboli i partiti e i parlamenti, quindi le persone non credono più che i partiti e i parlamenti possano davvero modificare il reale facendo i loro interessi, quindi ci si affida sempre di più a un capo assoluto sperando che lui - proprio in quanto assoluto, sciolto da vincoli, discussioni, parlamenti etc - abbia i muscoli per fare quello che le democrazie non riescono più a fare. Le ideologie hanno fallito, hanno tradito, le loro declinazioni parlamentari si sono annacquate e scolorite fino al nulla, le loro possibilità di migliorare le nostre vite si sono ridotte infinitamente, quindi ci resta solo il Capo bravo e buono a cui affidarci, in cui sperare. Di qui il passaggio graduale ma visibile dalle democrazie alle "democrature". Di qui la sostituzione dei partiti con i nomi dei loro capi (voto Berlusconi, voto la Meloni, voto Renzi, voto Salvini, voto Di Maio, ma anche voto De Magistris, è uguale). Questo un po' ha a che fare anche con il machismo esibito (quello dei vari Trump, Orbán, Putin, Salvini etc) perché il maschio alfa al potere aumenta la percezione di forza fin dalle società del Neolitico. E ha a che fare con la rete perché questa disintermedia i rapporti tra leader e folla, tende a eliminare tutto quello che stava in mezzo, quindi facilita il processo di cui sopra: ci sono solo massa e capo. Un'interessante declinazione di questa dinamica l'abbiamo avuta da due parti avverse ma assai speculari nella giornata di ieri. Nella quale si sono viste due curve sud contrapposte ma altrettanto certe nel loro comune comportamento, basato sulla fedeltà quasi canina (sia detto con rispetto) verso chi comanda. Da una parte, quella del M5S, si trattava di decidere se abiurare a un principio fondante (i politici non devono avere alcun tipo di privilegio e devono farsi giudicare dalla magistratura come qualsiasi altro cittadino) per obbedire al capo Di Maio, il quale è oggi imbullonato alla poltrona del potere non diversamente da un qualsiasi Mastella. Hanno scelto di obbedire al Capo. Nessun principio, nemmeno quelli fondanti, oggi vale più della fedeltà al leader. Dall'altra parte, quella dei renziani, si brandisce l'hashtag #siamotuttimatteorenzi, che vale la pena di seguire oggi su Twitter: un popolo compatto e fedelissimo al suo leader, anzi orgoglioso di questa fedeltà sempre assoluta (sciolta da qualsiasi dubbio, da qualsiasi pensiero critico), che si schiera come un sol uomo a difesa del capo, senza bisogno di sapere altro, anzi senza volere sapere altro perché la fedeltà ha bisogno di "bias", non di approfondimenti. Certo, sono due popoli diversi, sono due curve diverse, per tanti aspetti. Una è oggi potere e ministeri, oltre che deglutizione continua di bocconi assurdi e di tradimenti dei princìpi per non perderlo. L'altra potere e ministeri è stata di recente ma adesso è minoranza, ormai minoranza anche nel suo stesso partito, quindi agitazioni quasi da troll per disturbarne le primarie, e tuttavia è ancora più arroccata e fedele proprio per livore verso il mondo che ha tradito, quello stesso livore triste che esce dalle pagine dell'ultimo libro di Renzi. Due curve diverse, certo, ma quanto simili nella loro cieca fedeltà al capo, nei loro tweet iperassertivi, nei loro attacchi reciproci, nei loro linguaggi da stadio. Come gemelli nati nella stessa culla e da quella culla usciti nemici, ma pur sempre gemelli.
Guai giudiziari bipartizan tra Renzi e Salvini: le reazioni del 19 febbraio 2019 su Dagospia.
Selvaggia Lucarelli su @stanzaselvaggia. Comunque oggi nell’arco temporale di 1 ora, tra i domiciliari in casa Renzi e il sondaggio suicida 5 stelle, si è consegnato il paese in mano a Matteo Salvini. I principali avversari sono morti o feriti, lui è indenne, dritto verso la meta.
Selvaggia Lucarelli @stanzaselvaggia. Qualcuno doveva ricordare ai 5 stelle che fine ha fatto quello che prima di loro s’è giocato tutto con un referendum.
Selvaggia Lucarelli @stanzaselvaggia. La maggior parte voleva salvare Salvini, ma in tanti no eh! Quel 59% che non scontenta nessuno.
Roberta Perani @robertabg72...e anche stavolta il popolo bue ha salvato BarabbaSalvini. La storia si ripete. Come in un loop. All'infinito... #BARABBAlibero
Denise ?? Black ?? #facciamorete#FBPE @WonderDenyBlack Hey M5S, dite ciao ciao ai vostri elettori, ve li siete appena giocati rendendo #BARABBAlibero! #Rousseau #PiattaformaDeiCachi #PonzioPilatoSRL
Lucillola @LucillaMasini Salvini ringrazia il M5S, perché dire "Lo so che avete votato la mia immunità per paura di dover togliere il culo dalla poltrona" pareva poco gentile. #salvaSalvini #BARABBAlibero
La Pausa Caffè @LaPausaCaffe Ieri è nata una nuova forza politica: il #M5Salvini. Ecco il logo, non ancora depositato per problemi alla piattaforma email della Casaleggio Associati. #salvaSalvini #19febbraio
Lucillola @LucillaMasini Parare il culo a Salvini... FATTO #salvaSalvini #BARABBAlibero
Frusta Metaforica? @frustametafora SALVINI SALVATO DAI SAVI DI ZIO Zio Giggino dice che ha vinto la democrazia: ma il 59% di Savi del #salvaSalvini che ha salvato il governo fa finta di non vedere il 41% di spergiuri Mentre #BARABBAlibero con triplo salto mortale inghiotte il M5S Fine del M5S #FacciamoRete
Pamela Ferrara @PamelaFerrara Diciotti, il verdetto dei 5 Stelle su Rousseau: Salvini è il nipote di Mubarak #salvaSalvini
Virgo #facciamorete @Virgini22648079 Ah l'Italia, paese di Santi, navigators, e 52.000 costituzionalisti! #salvasalvini
Luigi Marangon #facciamorete #FBPE @LGmarangon “Chi volete che vi rilasci: Barabba o Gesù chiamato il Cristo?”. Tutti gli risposero: “Barabba!” 33 d.C, favorevoli a salvare Barabba: 100% dei Giudei 2019 d.C, favorevoli a #BARABBAlibero: 59% dei 5s #facciamorete #piattaformadeiCachi
Vittorio Feltri @vfeltri Ma quanto godono i numerosi nemici di Renzi per le sue disgrazie di famiglia. Si estende l’odio che colpì Craxi, Andreotti e Berlusconi
Luca Telese @lucatelese “A differenza di altri genitori celebri, la mia famiglia le fatture le faceva, le pagava, le incassava, fanno così le persone oneste”. (Matteo Renzi a Gian Antonio Stella, sette giorni fa).
Fuori Testa @FuoriTesta1 Cambia lo status di #TizianoRenzi e la moglie. Da genitore 1 e genitore 2 di Matteo Renzi a bancarottiere 1 e bancarottiere 2...
Arsenale K(R) @ArsenaleKappa Tiziano Renzi e moglie agli arresti domiciliari per bancarotta fraudolenta e false fatturazioni, ha scritto #Travaglio sul Fatto Quotidiano, con una mano sola.
Spinoza @spinozait I genitori di Renzi agli arresti domiciliari. Per dire quanto era contorto il quesito su Rousseau.
Il Triste Mietitore @TristeMietitore Per i genitori di Renzi c'è processo diretto senza televoto. #TizianoRenzi
Andrea M @matlink1977 Il libro di #Renzi è intitolato "Un'altra strada" perché più avanti c'era un posto di blocco. #tizianorenzi
Le frasi di Osho @lefrasidiosho Nun tirà serci alla casa del vicino se la tua è de vetro #TizianoRenzi
BufalaNews @Labbufala Twitter, lanciato l'hashtag #siamotuttiMatteoRenzi: arrestati migliaia di genitori. #TizianoRenzi
Debora Attanasio @DebAttanasio È partito l'hashtag #siamotuttiMatteoRenzi perché mentre un ex premier incensurato viene messo in croce per il padre, un vicepremier la fa franca col televoto per atti disumani. Occhio.
maria elena boschi @meb Continuo a credere nella giustizia, nonostante tutto. Ma credo ancora più di prima che questo Paese abbia bisogno del coraggio di Matteo Renzi. Noi continueremo la nostra battaglia, sempre dalla stessa parte #siamotuttiMatteoRenzi
Fuori Testa @FuoriTesta1 #TizianoRenzi agli arresti domiciliari. Matteo Renzi chiama d'urgenza la #Boschi: Mary, ma com'è che il mi babbo sì e il tu babbo no?
Massimo Galanto @GalantoMassimo Clamoroso, poco fa nuovo tweet di #Open ancora una volta con indirizzi di residenza dei genitori di #Renzi non oscurati (nella foto qui sotto, li ho oscurati io). Ieri sera #Mentana si era scusato (con un commento su Facebook). #siamotuttiMatteoRenzi #TizianoRenzi #macosadiav
Sonizia @SoniaPetrill Non vi sembra strano? Proprio oggi che dovevamo parlare di quell' "altro" Matteo. #siamotuttiMatteoRenzi
Arsenale K(R) @ArsenaleKappa A quelli che twittano #siamotuttiMatteoRenzi volevo chiedere se anche ai loro genitori sta girando la finanza in casa.
Fuori Testa @FuoriTesta1 Ma tutti quelli che taggano #siamotuttiMatteoRenzi, cosa sperano, di papparsi gli stessi soldi che si prende Matteo Renzi per sparare cazzate? #FacciamoRetata
B a b y l o n boss @babylonboss Non #siamotuttiMatteoRenzi perché i miei genitori non emettono fatture false!
Giuseppe Candela @GiusCandela #ottoemezzo buca la notizia dell'arresto dei genitori di Renzi perché registrato. Ultimo episodio di una lunga lista, se sei la rete dell'informazione non puoi collezionare queste figuracce.
Selvaggia LucarelliAccount verificato @stanzaselvaggia L’epitaffio ai #5stelle oggi l’ha scritto Pizzarott
Federico Pizzarotti:
E con questa direi che le regole a cui non si deroga sono finite. Dopo che... "*Attenzione post che induce ulcera*" ;)
"Tutto in streaming": sparito lo streaming (fin dal meraviglioso incontro in luogo segreto con Casaleggio padre che andò a prenderli in autobus privato per portarli chissà dove senza streaming, dopo l'elezione di Grasso presidente del Senato);
"Mai alleanze con i partiti" (con specifica menzione alla Lega): non c'è bisogno di spiegazioni;
"Tutti gli stipendi e le restituzioni rendicontati": appena li scoprono che non sanno manco controllare dei bonifici fanno sparire tutta la rendicontazione, così ora chiunque può tenere tranquillamente tutto lo stipendio;
"Qualsiasi carica nel M5S sarà elettiva": presidente non eletto, segretario non eletto, tesoriere non eletto, membri del direttorio non eletti, portavoce non eletti, responsabili comunicazione non eletti;
"Candidati scelti dalla base": è durata finché quelli scelti dalla base sono andati bene alla dirigenza, dopodiché sostituiti d'ufficio;
"Mai in televisione": è durata finché non ha fatto comodo andare in televisione (ma sempre e solo quando possono andare senza contraddittorio, altrimenti non sanno ribattere);
"Esame di Diritto Costituzionale per tutte le cariche elettive": pensa che risate se davvero dovessero sostenere loro un esame simile, non rimarrebbero abbastanza politici del M5S per una giunta comunale;
"Rotazione dei capigruppo in Parlamento": sparita;
"Fuori dall'Euro": no, no, dentro l'Euro, assolutamente (poi una parlamentare dice pure "non so cosa voterei a un referendum");
"Massimo due mandati, poi a casa": già dopo marzo avevano detto che, se si fosse tornati al voto, si sarebbe ripresentata la stessa squadra. E anche questa vedremo come andrà a finire alla fine ;)
"Alleanze in Europa scelte dalla base": sondaggi con opzioni insensate e post di propaganda per indurre al voto dell'opzione desiderata dalla dirigenza. Stessa cosa successa con il voto di oggi ? "Si possono trovare 30 miliardi col primo decreto al primo consiglio dei ministri" (con tanto di sventolio di fogli): poi quei miliardi non esistono e si deve fare deficit;
"Siamo ultimi nella classifica della libertà di stampa": poi fanno liste di giornalisti sgraditi e appena vanno al governo e attaccano i giornalisti che li criticano; "I ministri li sceglie il Presidente della Repubblica": il Presidente dice di no a uno fra molti e loro minacciano l'impeachment (senza sapere neppure cosa sia né che in Italia non esiste);
"Mai più governi non eletti" (i governi non sono mai stati eletti e non è previsto che lo siano): vanno al governo con un presidente del consiglio che non si era candidato tale e con una coalizione che non si era presentata alle elezioni;
"Mai più alleanze post elettorali fra partiti che si presentano divisi e poi inciuciano" (non si chiama inciucio, si chiama alleanza): vanno da soli, poi "inciuciano" con la Lega; ah no, ora è un contratto. "Nessun Indagato": è durata fino al primo indagato M5s e ad ogni nuovo indagato si "corregono" le interpretazioni. Regole sempre applicate per i nemici e interpretate per gli amici. "Fuori i partiti dalla RAI!" - RAI interamente occupata insieme alla Lega senza lasciare manco un uscere alle opposizioni;
"No al TAV": TAV... vedremo come andrà a finire;)
"No al TAP": TAP confermato;
"Niente più fondi alle scuole private": fondi alle scuole private confermati;
"Niente F35 acquistati": acquisto degli F35 confermato;
"Mai più condoni": fanno il condono fiscale e pure il condono edilizio;
E vediamo se oltre a frasi come : e allora il piddi, non saresti stato nessuno senza Grillo, sputi nel piatto dove hai mangiato, e tante altre frasi fatte, sarete in grado di fare una serena autocritica ;)
Estratto dall'articolo di Marco Travaglio per “il Fatto quotidiano” del 19 febbraio 2019. (…) ha rivinto Barabba. E non perché Matteo Salvini sia un bandito, anche se è (anzi ormai era) indagato per sequestro di persona aggravato di 177 migranti appena salvati dal naufragio. Ma perché, quando si chiede al "popolo" di pronunciarsi non su questioni di principio, ma su casi penali dei quali non sa nulla, la risposta che arriva di solito è sbagliata. E quella data ieri dalla maggioranza degli iscritti 5Stelle non è solo sbagliatissima: è suicida. La stessa, peraltro, che auspicavano i vertici, terrorizzati dalla reazione di Salvini, cioè dalle ripercussioni sul governo e dunque sulle proprie poltrone. Chi aveva sperato che gli iscritti dessero una lezione agli eletti, anzi ai "dipendenti" come li chiamava un tempo Grillo, facendoli rinsavire e rammentando loro i valori fondativi della legalità, dell'uguaglianza, della lotta ai privilegi di Casta, è rimasto deluso. Per salvare Salvini, i 5Stelle dannano se stessi. Nemmeno le parole sagge e oneste dei tre sindaci di punta - Appendino, Nogarin e Raggi - raccolte ieri dal Fatto sono servite a restituire la memoria alla maggioranza della "base". È bastato meno di un anno di governo perché il virus del berlusconismo infettasse un po' tutto il mondo 5Stelle. (…) L' autorizzazione a procedere era stata annunciata fin da subito, quando arrivò in Parlamento la richiesta del Tribunale dei ministri su Salvini: "Vuole il processo? Lo avrà". Ma poi era stata prontamente ribaltata, peraltro senza mai essere ufficializzata, quando Salvini aveva cambiato idea intimando con un fischio ai partner di salvarlo dal processo. Riuscendo nell' impresa di spaccarli a metà. Ergo, a decidere la linea del primo partito d' Italia, sono i capricci dell'alleato-rivale. Che ha imposto ai 5Stelle un voltafaccia pronunciato a mezza bocca, senza nessuno che se ne assumesse la paternità e la responsabilità. Un atto non dovuto, gratuito (il governo non sarebbe certo caduto sulla Diciotti) di sottomissione a Salvini: lo stesso che prende i 5Stelle a pesci in faccia sul Tav, le trivelle e prossimamente sull' acqua pubblica, straccia spudoratamente il Contratto di governo e poi pretende l'asservimento totale degli alleati senza restituire nemmeno un pizzico di lealtà. Così le storiche parole d' ordine di Beppe Grillo e la lezione di Gianroberto Casaleggio - "Ogni volta che deroghi a una regola, praticamente la cancelli" - sono finite nel dimenticatoio, con la scusa che "questa volta è diversa", "non è come con gli altri governi", "non ci sono di mezzo le tangenti". Ma "solo" un sequestro di persona, che sarà mai. (…) Certo, qualcuno avrebbe votato diversamente se il caso Diciotti fosse stato presentato sul blog in maniera corretta e veritiera, e non nel modo menzognero e truffaldino studiato apposta per subornare gli iscritti (…) Ma la perfetta identità di vedute fra la maggioranza degli eletti e il quasi 60% degli iscritti votanti è un dato di fatto da prendere in considerazione per quello che è: i vertici hanno ormai la base che si meritano, e viceversa. Però, da ieri, il M5S non è più il movimento fondato dieci anni fa da Grillo, Casaleggio e decine di migliaia di militanti. (…) Non è in ballo l'eterno giochino tra ortodossi e dissidenti, o fra dimaiani, fichiani e dibattistiani. Ma qualcosa di ben più profondo. Se il M5S perde la stella polare della legge uguale per tutti, gratta gratta gli resta ben poco, [e gli altri partiti potranno dire:] "Visto? Ora siete come noi. Benvenuti nel club". Dalle stelle alle stalle.
DUE PESI E DUE IPOCRISIE. Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 22 marzo 2019. Ci sono due modi di affrontare la notizia dell'arresto di Marcello De Vito, presidente M5S dell' Assemblea capitolina, per corruzione. Il primo è quello dei partiti e dei giornali al seguito: evviva, anche i 5Stelle (uno in dieci anni, per la verità) rubano; ma, siccome parlano di onestà mentre gli altri se ne guardano bene, le loro corruzioni sono infinitamente più gravi di quelle degli altri; anzi, se ruba un 5Stelle, allora le centinaia di ladri degli altri partiti sono scagionati o autorizzati a rubare; infatti degli scandali del M5S si parla per settimane, mentre di quelli degli altri nemmeno per un giorno. Il secondo è quello di chi vuole capire ciò che accade e possibilmente trovare antidoti per evitare che si ripeta. E quegli antidoti, quando la disonestà è un fatto individuale, non di sistema o di partito, come emerge dalle accuse a De Vito, sono difficili da trovare. Ma passano necessariamente attraverso meccanismi più severi ed efficaci nella selezione della classe dirigente. Abbiamo spesso massacrato i 5Stelle per la loro selezione a casaccio. E confermiamo: le autocandidature votate online, senza una preparazione in apposite scuole di politica e di amministrazione, possono premiare persone di valore come pessimi soggetti. La regola dei due mandati, utile per evitare le incrostazioni di potere e i compromessi per comprarsi la rielezione in saecula saeculorum, può diventare addirittura criminogena: chi è privo di scrupoli, se ha poco tempo, lo impiega per arraffare tutto il possibile. Contro le mele marce insospettabili (se il resto del cestino è sano), non c'è che la repressione: i casi De Vito si scoprono soltanto con più intercettazioni, anche per reati che ora non le prevedono (finanziamento illecito, abuso d' ufficio, falso in bilancio), e con gli agenti infiltrati introdotti dalla Spazzacorrotti che offrono mazzette e testano l'integrità dei pubblici amministratori. Poi, certo, i partiti devono controllare i loro dirigenti, eletti e amministratori. Ma non solo i 5Stelle: tutti. Chi se la ride per De Vito, fingendo di dimenticare i mille supermegamaxidevito che ha in casa (e si guarda bene dall' espellere), ricorda come un mantra le culpae in eligendo della Raggi e dei 5Stelle con Marra e Lanzalone, dovrebbe spiegare ai cittadini i propri criteri di selezione. Che non sono neppure casuali come quelli pentastellati: sono molto peggio, perché sono scientifici. Come quelli del bar di Guerre stellari. Lasciamo perdere il centrodestra, che s'è appena visto condannare il suo ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno, a 6 anni, per tacere di tutti gli altri arraffoni del giro Buzzi&Carminati. Ma Walter Veltroni? È una brava persona ed è stato un buon sindaco: ma come fu che, al suo fianco, spuntò Luca Odevaine, che rubò per anni a man bassa con quelli di Mafia Capitale? E Beppe Sala? Da tutti additato come un sindaco modello, non ha quasi mai azzeccato un collaboratore. Quando dirigeva Expo 2015, si vide portar via uno dopo l' altro tutti i suoi fedelissimi, senza mai accorgersi di nulla: il suo braccio destro Angelo Paris, arrestato con la cupola degli appalti; il suo subcommissario Antonio Acerbo, responsabile del Padiglione Italia e delle vie d' acqua, arrestato con Andrea Castellotti, facility manager di Palazzo Italia; Antonio Rognoni, capo di Infrastrutture Lombarde, arrestato; Pietro Galli, promosso a direttore generale vendite e marketing malgrado una condanna per bancarotta (poi segnalata, invano, da Cantone); Christian Malangone, dg di Expo, condannato. Siccome il talento va premiato, Sala divenne sindaco di Milano e anche lì si dimostrò un talent scout da far impallidire dieci Raggi: nominò assessore al Bilancio e Demanio il suo socio in affari Roberto Tasca; promosse segretario generale Antonella Petrocelli, imputata per turbativa d' asta, poi in cinque giorni fu costretto a revocarla; come capo di gabinetto, chiamò senza gara l'avvocato Mario Vanni, tesoriere del Pd milanese, con stipendio da dirigente, poi purtroppo si scoprì che non aveva i requisiti dirigenziali richiesti dalla legge Madia per ricoprire l' incarico (poco male: il supersindaco si tiene anche il vecchio capo di gabinetto di Pisapia, col compito di firmare gli atti che Vanni non può firmare). A Roma, poi, non c'è solo "il modello Raggi a pezzi" (il titolo di Repubblica sull' arresto dell'acerrimo nemico della Raggi). Ci sarebbe pure, anche se nessuno se n'è accorto, il governatore del Lazio e neo segretario del Pd Nicola Zingaretti indagato per finanziamento illecito e ancora in attesa di archiviazione per falsa testimonianza al processo Mafia Capitale. E nel caso Parnasi-Lanzalone, gli unici politici imputati sono due di FI (l'ex vicepresidente del Consiglio regionale Adriano Palozzi e il capogruppo in Comune Davide Bordoni) e uno del Pd (l'ex assessore regionale Michele Civita), mentre sono indagati il tesoriere della Lega, Giulio Centemero, e quello del Pd renziano Francesco Bonifazi. Nessuno dei quali, diversamente da De Vito, risulta espulso dal suo partito. Né tantomeno arrestato, ci mancherebbe. Intanto il dibattito sulla classe dirigente 5Stelle prosegue. Dal bar di Guerre stellari.
Ps. Ieri il sito de La Stampa apriva l'homepage sull'assessore Daniele Frongia indagato perché Parnasi gli chiese consiglio su un giornalista capace per il suo ufficio stampa e lui glielo diede, con questo titolo: "Mazzette a Roma: indagato l'assessore Frongia, fedelissimo della sindaca Raggi. Le intercettazioni: 'Due anni per far soldi'" (né Frongia, né tantomeno la Raggi, c'entrano nulla con storie di mazzette e di soldi). È la stessa Stampa che mercoledì aveva nascosto la notizia di Zingaretti indagato in un francobollino a pagina 10. Vergogniamoci per loro.
TRAVAGLIO – tratto dall’editoriale sul Fatto il 24 marzo 2019. SALA VANNI ….Siccome il talento va premiato, Sala divenne sindaco di Milano e anche lì si dimostrò un talent scout da far impallidire dieci Raggi: nominò assessore al Bilancio e Demanio il suo socio in affari Roberto Tasca; promosse segretario generale Antonella Petrocelli, imputata per turbativa d' asta, poi in cinque giorni fu costretto a revocarla; come capo di gabinetto, chiamò senza gara l'avvocato Mario Vanni, tesoriere del Pd milanese, con stipendio da dirigente, poi purtroppo si scoprì che non aveva i requisiti dirigenziali richiesti dalla legge Madia per ricoprire l' incarico (poco male: il supersindaco si tiene anche il vecchio capo di gabinetto di Pisapia, col compito di firmare gli atti che Vanni non può firmare)….
Gentile Direttore, come da accordi le inoltro la richiesta di rettifica inviata ieri al Direttore Travaglio - con evidenziate tutte le ragioni circa l’erroneità delle informazioni pubblicate sul mio conto - e la immediata risposta dello stesso Travaglio, con cui conferma la rettifica. La ringrazio per la disponibilità, Mario Vanni.
Gentile Direttore, Le scrivo, su indicazione di Peter Gomez, per segnalarLe che stamattina, nel suo articolo dal titolo “Guerre stellari”, ha menzionato il sottoscritto scrivendo alcune cose che, per onore della verità, oggettivamente non corrispondono al vero. Sono disponibile a parlarne con Lei e approfondire in qualsiasi momento la questione, anche fornendo tutta la documentazione. In sintesi:
non è vero che “si scoprì che non aveva i requisiti dirigenziali richiesti dalla legge Madia”; tali requisiti erano e sono posseduti; sono stati attestati, come prevede la legge (art. 110 TUEL), tramite un’ apposita procedura ad evidenza pubblica (come previsto, per l’appunto, dalla riforma Madia), in forza della quale ricopro tutt’ora il ruolo di Capo di gabinetto, con pieni poteri di firma;
altrettanto, non è vero che “il sindaco si tiene anche il vecchio capo di gabinetto di Pisapia, col compito di firmare gli atti”; il mio predecessore svolge un altro lavoro (è dirigente di SEA SpA) e non ha mai firmato atti in mia vece.
Restando a disposizione per ogni approfondimento – anche a fornire la documentazione che attesta oggettivamente quanto ho sopra affermato – Le chiederei, laddove dovesse ricapitare in futuro, di tenere conto della verità dei fatti. Grazie e buon lavoro Mario Vanni
TRAVAGLIO. Grazie, pubblico la sua rettifica.
(ANSA il 7 ottobre 2019) Tiziano Renzi e Laura Bovoli, genitori dell'ex premier Matteo Renzi, sono stati condannati a un anno e nove mesi di reclusione dal giudice di Firenze Fabio Gugliotta al processo per due fatture false che li vedeva imputati insieme all'imprenditore Luigi Dagostino. Quest'ultimo è stato a sua volta condannato, a due anni di reclusione. Il pm Christine von Borries nella sua requisitoria odierna aveva chiesto per i genitori di Renzi una condanna a un anno e nove mesi, e a due anni e tre mesi per Dagostino.
(ANSA il 7 ottobre 2019) Un incontro del 17 giugno 2015 a Palazzo Chigi, a Roma, fra Luca Lotti, il magistrato pugliese Antonio Savasta e l'avvocato Ruggiero Sfrecola è stato ricordato dal pm Christine von Borries nella requisitoria al processo per fatture false con imputati Tiziano Renzi e Laura Bovoli, genitori dell'ex premier Matteo Renzi, e l'imprenditore di Fasano (Bari) Luigi Dagostino, il "re degli outlet". L'incontro si tenne nell'ufficio di Lotti e il pm, che lo ricava dall'agenda di Dagostino, afferma che Dagostino lo aveva chiesto a Tiziano Renzi e che nell'ufficio con Lotti Savasta e Sfrecola si trattennero una quarantina di minuti. L'incontro, ha evidenziato il pm, si tenne lo stesso giorno in cui viene saldata una fattura falsa da 20.000 euro da una società di Dagostino alla Party srl dei Renzi, amministrata da Laura Bovoli. Dagostino, ha ricostruito il pm in requisitoria, sarebbe stato sollecitato a procurare l'incontro con Lotti, per la sua conoscenza con Tiziano Renzi, dall'avvocato Sfrecola in relazione a un procedimento penale in Puglia in cui, a Trani, Savasta indagava sullo stesso Dagostino per un giro di presunte fatture false.
(ANSA il 7 ottobre 2019) - "Una coincidenza temporale che crea una suggestione e che fa fare delle domande ma che ai fini del processo non vuol dire assolutamente nulla". Così il difensore di Tiziano Renzi, avvocato Federico Bagattini, commenta il riferimento del pm Christine von Borries all'incontro del 17 giugno 2015 a Palazzo Chigi fra Luca Lotti, Antonio Savasta e Ruggiero Sfrecola. Il pm ha evidenziato al tribunale che l'incontro nell'ufficio di Lotti si tenne lo stesso giorno del pagamento di una fattura da 20.000 euro alla Party srl, amministrata da Laura Bovoli, moglie di Tiziano Renzi, da parte della Tramor dell'imprenditore Luigi Dagostino. Inoltre, ha detto Bagattini, "è una coincidenza temporale che non è esposta nel capo di imputazione e che quindi non ha il benchè minimo riferimento e rilevanza rispetto a questa vicenda". "Avere rapporti personali di amicizia, conoscenza e frequentazione tra Tiziano Renzi e Luigi Dagostino - conclude - non fa sì che questo tipo di rapporto generi rapporti illeciti e fatture false".
(ANSA il 7 ottobre 2019) - Consulenze per l'outlet di Dagostino a Reggello (Firenze) realmente fatte e regolarmente pagate per fatture da 20.000 e 140.000 euro. Così, ribadendo la genuinità del rapporto tra gli imputati nella gestione delle loro società, hanno chiesto l'assoluzione piena 'perché il fatto non sussiste' le difese del processo di Firenze dove sono accusati di emissione e utilizzo di fatture false i genitori dell'ex premier Matteo Renzi, Tiziano Renzi e Laura Bovoli, e l'imprenditore degli outlet Luigi Dagostino. "Il lavoro è stato svolto, è stato regolarmente fatturato e pagato. L'Erario non ha subito alcun pregiudizio. Tutto ciò segna in maniera inequivocabile l'innocenza degli imputati", ha detto in un passaggio dell'arringa il difensore di Laura Bovoli, avvocato Lorenzo Pellegrini evidenziando i punti deboli dell'accusa. L'avvocato di Tiziano Renzi Federico Bagattini ha sottolineato la non fondatezza delle accuse chiedendo l'assoluzione "perché il fatto non sussiste". Stessa richiesta da parte di Alessandro Traversi, difensore di Luigi Dagostino: "La prestazione per Tramor c'è stata e il prezzo è stato interamente pagato senza nessuna restituzione di esso, neanche parziale, anche le imposte sono state pagate sulle fatture" citando intercettazioni "dirimenti" in cui Dagostino con vari interlocutori dice in vari modi di non voler chiedere lo "sconto col padre del presidente del consiglio dei ministri". Su altra accusa a Dagostino Traversi ha aggiunto che "non ci può essere 'truffa mediante induzione in errore' perché il gruppo Kering, che aveva acquistato la Tramor spa" in precedenza amministrata da Dagostino "svolge controlli precisi sui pagamenti da fare", "non è sufficiente che Dagostino possa aver chiesto al manager Carmine Rotondaro, pur alto dirigente di Kering Holland, di pagare".
I genitori di Renzi condannati a 1 anno e 9 mesi dal Tribunale di Firenze. Il Corriere del Giorno l'8 Ottobre 2019. Il verdetto recepisce le richieste del pm, condannato anche Dagostino: a due anni. Gli avvocati della difesa hanno annunciato che presenteranno ricorso appello. Tiziano Renzi : “Sono consapevole che si tratta solo di un primo momento, non perdo assolutamente fiducia nella giustizia e aspetto con i miei difensori il processo di appello. Almeno è stato appurato che non c’è un neanche un centesimo di evasione: passerò i prossimi anni nei tribunali ma dimostrerò la totale innocenza”. ROMA – Sono state accolte le richieste dell’accusa a carico di Tiziano Renzi e Laura Bovoli, genitori di Matteo Renzi, che stati condannati ieri dal Tribunale monocratico di Firenze a un anno e nove mesi di reclusione. Le memorie difensive dei Renzi. Nelle memorie difensive “i coniugi Renzi – spiegò Bagattini – hanno sostenuto quello che i loro difensori hanno già anticipato, e cioè che le due fatture sono assolutamente vere, relative a prestazioni effettivamente eseguite, e che tutte le tasse e le imposte relative a questa fatturazione sono state regolarmente versate- Ho sempre lavorato e dato lavoro: non ho avuto bisogno di avere il figlio premier per lavorare e chi dice il contrario mente” scrisse Tiziano Renzi in un passaggio della memoria consegnata al tribunale. “Non c’è nessuna fattura falsa – proseguiva Tiziano Renzi – solo tante tasse vere, tutte pagate fino all’ultimo centesimo: questo è oggettivamente esistente”. La moglie Laura Bovoli, aveva invece scritto che “non sono abituata alle telecamere e vivo con profondo disagio tutto ciò che è accaduto negli ultimi mesi” in cui “sono passata da cittadina irreprensibile a criminale incallita” e “da nonna premurosa al ‘lady truffa’”. Nel febbraio scorso Tiziano Renzi e Laura Bovoli, erano finiti agli arresti domiciliari accusati di bancarotta fraudolenta e false fatture, nell’ambito di un’altra inchiesta della procura fiorentina sul fallimento di alcune cooperative che facevano capo a loro. Misura successivamente revocata l’8 marzo dal Tribunale del Riesame. Il pubblico ministero Christine von Borries della Procura di Firenze nella sua requisitoria, aveva chiesto qualche ora prima, una condanna a un anno e nove mesi nei confronti dei genitori di Renzi, ed a due anni e tre mesi per Dagostino. I legali delle difese hanno annunciato che ricorreranno in appello. La sentenza è stata letta in aula dal giudice Fabio Gugliotta nel processo per due fatture false che li vedeva imputati insieme all’imprenditore Luigi Dagostino, l’immobiliarista di origini pugliesi che è stato condannato a due anni di reclusione. La pena è stata sospesa con la condizionale, ma i genitori di Renzi sono stati interdetti anche per sei mesi da incarichi direttivi nelle imprese e per un anno dai pubblici uffici e dal trattare con la pubblica amministrazione. Tiziano Renzi, dopo aver appreso della condanna dal suo legale, Avv. Federico Bagattini del foro di Firenze ha reagito commentando: “Sono consapevole che si tratta solo di un primo momento, non perdo assolutamente fiducia nella giustizia e aspetto con i miei difensori il processo di appello. Almeno è stato appurato che non c’è un neanche un centesimo di evasione: passerò i prossimi anni nei tribunali ma dimostrerò la totale innocenza”.“. Ed aggiunto: “Ho il dovere di credere nella giustizia italiana, oggi più che mai. E continuo a farlo anche se con grande amarezza. Perché i fatti sono evidenti: il lavoro che mi viene contestato è stato regolarmente svolto, regolarmente fatturato, regolarmente pagato. Nessuno può negare questo e sono certo che i prossimi gradi di giudizio lo dimostreranno”.
Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” l'8 ottobre 2019. La condanna di babbo e mamma Renzi a 1 anno e 9 mesi ciascuno per false fatture, cioè per frode fiscale, potrebbe essere una questione privata del signor Tiziano e della signora Laura. Non c'è alcun elemento che dimostri un qualunque ruolo del figlio Matteo nella vicenda. E il fatto che il loro amico Luigi Dagostino, imprenditore del ramo outlet, condannato (anche per truffa) a 2 anni, abbia dichiarato al processo di aver pagato nel 2015 quelle due fatture esorbitanti da 160 mila euro per "sudditanza psicologica" verso i "genitori del presidente del Consiglio", non significa che Matteo ne sapesse qualcosa (anche se dovrebbe astenersi, per pudore, dal parlare di evasione fiscale). Ma solo che i genitori approfittavano della posizione del figlio per fare affari, per così dire, border line. Come del resto il babbo nel caso Consip e nelle avance del fido Carlo Russo al governatore Emiliano per un business in Puglia parlano da sé. Purtroppo per Matteo Renzi, è stato lui a trasformare le indagini sui genitori da questione privata a questione pubblica, cioè politica. Perché non s'è limitato a esprimere solidarietà ai congiunti, ma ha messo la mano sul fuoco sulla loro assoluta estraneità; non contento, ha accusato i magistrati di indagare su di loro per colpire lui con finalità politiche; e, non bastando, ha minacciato e addirittura firmato in pubblico raffiche di denunce ai (pochi) giornalisti che osavano raccontare gli scandali della sua famiglia, mescolando la sua figura pubblica a quelle private di babbo e mamma col noi maiestatico. Il 22 febbraio scorso disse: "Sono fiero e orgoglioso di esser figlio di Tiziano Renzi e Laura Bovoli perché conosco i fatti e perché mio padre e mia madre vogliono difendersi nel processo Noi non vogliamo impunità, immunità, scambi per non andare a processo. Noi non scappiamo come gli altri, vogliamo andare in quell' aula. Lì vedremo chi ha ragione e chi torto". Ecco: fermo restando che non è prevista alcun'immunità per i parenti dei politici, dunque è ridicolo vantarsi di rinunciare a qualcosa che non esiste, ieri in quell'aula è arrivata la condanna. Il 13 febbraio aveva dichiarato: "Quando tuo padre viene intercettato, pedinato, seguito quasi fosse un camorrista per quattro anni, la sua vita scandagliata come mai era accaduto a un libero cittadino che fino a 63 anni aveva commesso forse quale unica infrazione un eccesso di velocità, è evidente che qualcosa non torna. Non voglio far leva su un elemento soggettivo, ovvero come muta il clima al pranzo di Natale quando i tuoi familiari ti considerano responsabile della crisi cardiaca che ha colpito tuo padre". Ora, la sentenza di ieri conferma che i genitori non sono stati indagati perché avevano quel figlio, ma perché facevano pasticci con le loro società: sennò non ci sarebbe stata alcuna indagine. "Chi ha letto le carte - sostenne Renzi il 18 febbraio appena i suoi finirono ai domiciliari - mi garantisce di non aver mai visto un provvedimento così assurdo e sproporzionato. Mai. Da figlio, sono dispiaciuto per aver costretto le persone che mi hanno messo al mondo a vivere questa umiliazione immeritata e ingiustificata. Se io non avessi fatto politica, la mia famiglia non sarebbe stata sommersa dal fango. Se io non avessi cercato di cambiare questo Paese, i miei sarebbero tranquillamente in pensione". Invece chi ha letto le carte sa che le sue presunte riforme, con le indagini sui familiari, non c'entrano una mazza. A proposito di Consip, Renzi rincarò: "È indegno il tentativo di tacere sullo scandalo di un premier contro il quale elementi della magistratura, delle forze dell' ordine, dell' intelligence agiscono di concerto con qualche servitore dello Stato che arriva a falsificare prove e a meritarsi l' accusa di depistaggio". Giusto il 3 ottobre il gup ha stabilito che nessun servitore dello Stato falsificò prove né depistò le indagini Consip, a parte il Giglio magico renziano: l' errore del capitano Scafarto nel riportare una delle migliaia di intercettazioni fu "sicuramente involontario" e ininfluente sul quadro accusatorio; e gli unici depistaggi "volti a impedire il regolare corso delle indagini" furono di "ambienti istituzionali vicini all' allora presidente del Consiglio Matteo Renzi". Il quale ora dovrebbe scusarsi con Woodcock e Scafarto per averli calunniati e con gli italiani per averli buggerati con montagne di fake news. Una volta però ne disse una giusta persino lui: "Il tempo è galantuomo. Mentre scrivo, mio padre non è stato condannato per nessuno dei reati contestati. E le uniche condanne sono arrivate a chi, come il direttore del Fatto Marco Travaglio, ha diffamato mio padre". Ecco, il tempo è talmente galantuomo che suo padre e sua madre sono stati condannati per frode fiscale, mentre noi abbiamo scritto solo cose vere, ma purtroppo le nostre sentenze di primo grado sono arrivate prima di quelle sui suoi genitori: ergo ci vediamo in appello. Intanto apprezziamo l'improvvisa sete di verità che ha colto Renzi nell' intimare a Conte di fare ciò che ha già detto che farà: spiegare al Copasir il suo ruolo negli incontri fra i nostri 007 e un ministro Usa. Mentre ci auguriamo che il premier lo faccia al più presto, rammentiamo (a pag. 7) alcune questioncine che Renzi si scorda da anni di chiarire: le sue spese "istituzionali" da sindaco di Firenze; la soffiata a De Benedetti sul dl Banche; gli spifferi nel suo entourage sull'inchiesta Consip e il famoso incontro fra Tiziano-Romeo, sempre negato dai due e anche da lui, ma alla fine accertato; lo strano leasing dell'Air Force Renzi a un prezzo 26 volte superiore a quello speso da Etihad per acquistarlo; e altre cosette così. Ci fa sapere?
Renzi, tutti i guai con la Giustizia delle società di famiglia. E' di oggi la condanna di Tiziano Renzi e della moglie a 1 anno e 9 mesi per fatture false. Antonio Rossitto il 7 ottobre 2019 su Panorama. Il Tribunale di Firenze ha condannato i genitori di Matteo Renzi, Tiziano Renzi e la moglie, Laura Bovoli, ad 1 anno e 9 mesi (pena sospesa) per false fatturazioni. Il processo è uno dei tanti guai giudiziari che hanno coinvolto i genitori del leader di Italia Viva. Nel caso in questione la vicenda riguarda due fatture da 20 mila e da 140 mila euro, denaro versato alla Party e alla Eventi 6 nel luglio 2015 per lo studio di fattibilità di un’area ristorazione nel outlet The Mall di Reggello. Consulenza, secondo la Procura, pagata per un progetto che non sarebbe mai stato realizzato. Il terzo imputato nel procedimento, l'imprenditore Luigi Dagostino, condannato anche alui ad una pena più pesante: due anni di reclusione. Luigi Dagostino è noto come il "re degli Outlet"; al centro della vicenda il centro commerciale "The Mall". Nell'inchiesta è comparso anche un incontro a Roma con l'ex Ministro Luca Lotti, all'epoca braccio destro di Matteo Renzi.
L'inchiesta di Cuneo. Il clamoroso arresto ai domiciliari per Tiziano Renzi e la moglie, Laura Bovoli, sono solo uno degli episodi di una lista di problemi con la giustizia che hanno coinvolto i genitori di Matteo Renzi e le loro società. Il gup della Procura di Cuneo, Emanuela Dufour ha rinviato a giudizio Laura Bovoli, la madre dell’ex premier Matteo Renzi. La donna è accusata dal pm Gianattilio Stea di concorso in bancarotta documentale per i rapporti che la società Eventi6 di Rignano sull’Arno, di cui era amministratrice, aveva con la ditta di volantinaggio cuneese Direkta fallita nel 2014. Al centro dell'inchiesta un presunto giro di fatture fittizie create, secondo la procura, a tavolino per un ammontare vicino agli 80 mila euro.
Arresti Domiciliari. Due settimane fa a finire al centro del mirino della Procura sono stati i fallimenti di due cooperative, la Marmodiv e Delivery, i cui amministratori di fatto, secondo gli inquirenti sono i genitori del premier. Fallimenti che, stando all'accusa sarebbero stati provocati volontariamente dopo averne svuotato le casse. L'inchiesta è partita a Cuneo, dove la procura stava indagando sui conti, i fallimenti ed alcune fatture sospette della "Delivery service". Dal Piemonte le carte erano poi state trasferite a Firenze per competenza. Da qui il lavoro dei magistrati ha portato alla richiesta di arresto per i due e per un terzo uomo, Mariano Massone, già indagato con Tiziano Renzi in un altro procedimento a Genova.
Perché i problemi con la giustizia dei genitori dell'ex Presidente del Consiglio sono cominciati anni fa Tiziano Renzi, il pomeriggio del 16 settembre 2014, ha spiegato al gruppetto di concittadini accorsi nell’angusta sede del Pd a Rignano sull’Arno, che altro non poteva fare: dimissioni irrevocabili da segretario locale del partito. Quella mattina, la Guardia di finanza di Genova aveva bussato alla sua villa di Torri, in cima a una collina non distante, per consegnargli un avviso di proroga delle indagini. L’accusa: la bancarotta fraudolenta della Chil post, l’ex società di famiglia che si occupava di marketing e distribuzione di giornali. Il padre del premier, a ottobre del 2010, ne aveva ceduto una parte alla Eventi 6: azienda che appartiene alle figlie, Matilde e Benedetta, e alla moglie, Laura Bovoli. Mentre il ramo secco, pieno di debiti e guai, passava a Gianfranco Massone, 75 anni: suo figlio, Mariano, è in affari con Tiziano Renzi da anni. Anche la carica di amministratore della Chil post finiva a una vecchia conoscenza: Antonello Gabelli. Ma a febbraio del 2013, l’ex gioiellino di casa Renzi falliva. Portandosi dietro 1 milione e 200 mila euro di debiti. E tanti interrogativi a cui i magistrati genovesi, Nicola Piacente e Marco Airoldi, stanno tentando di rispondere. Tiziano Renzi, con la baldanza trasmessa al figlio, ci ha scherzato su: "Finalmente mi hanno beccato!". Ha poi vergato una nota: "Alla veneranda età di 63 anni e dopo 45 anni di attività professionale, ricevo per la prima volta un avviso di garanzia…". In realtà non si è trattato di un battesimo giudiziario. Tre aziende di famiglia, dal 2000 a oggi, sono state condannate sette volte, tra cause di lavoro e civili. Contributi non pagati, lavoro irregolare, licenziamenti illegittimi, danni materiali. Il curriculum delle imprese dei Renzi non è immacolato come il giglio amato da Matteo. Nomi, persone e situazioni si rincorrono nel tempo. I Massone e Gabelli, Pier Giovanni Spiteri e Alberto Cappelli: i rodati partner d’affari di Tiziano sbucano fuori un processo dopo l’altro. Per intrecciarsi con l’attualità: l’accusa di bancarotta fraudolenta. I primi guai cominciano alla fine degli anni Novanta, a Firenze. Oltre alla Chil, coinvolgono la Speedy, di cui Tiziano Renzi ha l’80 per cento. Le due ditte fanno strillonaggio per il quotidiano La Nazione. Nella Chil anche il figlio, appena neolaureato, ha un ruolo determinante. Per stessa ammissione dell’interessato. Il 15 giugno 2004, eletto alla guida della Provincia di Firenze, l’ufficio stampa distribuisce la biografia del neopresidente: "Matteo Renzi ha fondato la Chil, di cui poi ha ceduto le quote, dove si occupa di coordinamento e valorizzazione della rete, nella gestione di oltre duemila collaboratori occasionali in tutt’Italia". Ed è proprio questo il versante che da subito diventa il più limaccioso.
Le prime condanne a Firenze per i contributi non versati. Il 25 maggio 1998 l’Inps, dopo una serie di accertamenti, multa la Speedy per 955 mila lire e la Chil per quasi 35 milioni di lire: l’accusa è di non aver pagato i contributi agli strilloni. Il 5 febbraio 1999 la Speedy, "rappresentata dal liquidatore Tiziano Renzi", e la Chil, "nella persona dell’amministratore Laura Bovoli", cioè la moglie, ricorrono contro l’ente previdenziale. Il contenzioso finisce al Tribunale di Firenze. Il 16 ottobre 2000 vengono respinte le istanze. Renzi e Bovoli dovranno rimborsare 5 milioni di lire all’Inps per le spese processuali. Nella sentenza, il giudice Giovanni Bronzini, ricostruisce: "Le due società si sono avvalse di collaboratori addetti alla vendita ambulante del quotidiano La Nazione. Questi si presentavano al mattino, circa alle ore 7.00, e ritiravano il quantitativo di copie che ritenevano di riuscire a vendere e quindi andavano a collocarsi in una zona della città a loro assegnata". A quelle riunioni, racconta Giovanni Donzelli, all’epoca studente, oggi consigliere regionale in Toscana con Fratelli d’Italia, si palesava anche il futuro premier: "Arrivava sul furgoncino bianco, da solo o con il padre, per consegnare i giornali e coordinare noi strilloni. Era come adesso: svelto, cordiale e brillante". Il verdetto spiega pure come venivano contrattualizzati i collaboratori: "Sottoscrivevano un modulo-contratto, nel quale la loro prestazione era definita di massima autonomia" dettaglia il giudice Bronzini. "Ma il contributo è sicuramente dovuto. I venditori ambulanti sono da considerarsi collaboratori coordinati e continuativi". I Renzi non la pensavano così: nessun contratto, contributo o tfr. Il parallelo con le polemiche di questi giorni sulla riforma del mercato del lavoro è inevitabile: pure da giovane imprenditore, Matteo Renzi sperimentava massima flessibilità occupazionale. E negli anni a cui si riferiscono le multe dell’Inps, già selezionava e gestiva i collaboratori. Andrea Santoni, commerciante fiorentino, 36 anni, venne arruolato nell’estate del 1996: "Un’amica mi parlò della possibilità di fare qualche soldo" ricorda con Panorama. "Suggerì di chiamare Matteo. Così feci. Disse di raggiungerlo a Rignano, nella sede della ditta. Lì spiegò come funzionava il lavoro. I pagamenti erano in contanti, in base ai quotidiani venduti. Non mi fece firmare nulla. Né io chiesi niente, del resto". Il 5 febbraio 2002 la Corte d’appello di Firenze conferma la sentenza di primo grado: i contributi dovevano essere versati. Viene smontato anche l’ultimo baluardo difensivo in cui si sosteneva che i venditori non avevano diritto al contratto perché il loro lavoro non era costante. "La continuità dell’impegno dei circa 500 strilloni emerge indiscutibilmente" sottolinea invece il giudice. L’appello della Speedy e della Chil è dunque respinto. La parola definitiva la scrive la Cassazione il 28 settembre 2004: il ricorso dei Renzi è privo di fondamento.
Le grane genovesi. A dispetto però delle tre sentenze sfavorevoli, la gestione dei collaboratori non sembra variare. Agli inizi del 2000, ormai defunta la Speedy, la Chil aveva cominciato a occuparsi della consegna notturna del Secolo XIX a Genova. Ma anche le attività imprenditoriali sotto la Lanterna hanno riverberi processuali. Che sfoceranno il 19 giugno 2013 in una doppia condanna del Tribunale di Genova per due diverse cause intentate da ex portatori di giornali. Nella prima, il giudice Enrico Ravera obbliga la Chil post, nata nel frattempo dalle ceneri della Chil, a risarcire, in solido con la Eukos distribuzioni, a cui aveva affidato un subappalto, Maurizio L. M., impiegato tra il 2005 e il 2006. Ed è qui che vecchie carte processuali cominciano a intersecarsi con l’inchiesta genovese. Tra i soci della Eukos, fallita a luglio del 2012, c’è pure Giovanna Gambino, compagna di Mariano Massone, oggi indagato assieme a Tiziano Renzi per bancarotta fraudolenta. La maggioranza delle quote è di Alberto Cappelli, 65 anni, di Acqui Terme. Tra le sue cariche c’è anche quella di amministratore della Mail service, fallita nell’ottobre del 2011. L’ennesima bancarotta della stessa compagnia di giro su cui stanno indagando i magistrati. Cappelli, infatti, aveva ereditato il timone della Mail service da Massone, tre anni addietro. Che a sua volta aveva sostituito Tiziano Renzi: amministratore per due anni, dal febbraio del 2004 allo stesso mese del 2006. Una catena che ricorda il fallimento della Chil post, ceduta da Renzi a suoi sodali in affari prima dello sfacelo. I magistrati ipotizzano che i Massone, Gabelli e Cappelli siano delle teste di legno. Caronte che avrebbero traghettato queste imprese da un inferno finanziario all’altro. In cambio di cosa? E le controversie giudiziarie hanno contributo alla decisione di sbarazzarsi delle aziende? A Chil post ed Eukos l’ex collaboratore Maurizio L.M. aveva chiesto un sostanzioso risarcimento per "differenze retributive, ferie, permessi, mancati riposi e preavvisi". Assicurando "di aver reso le suddette prestazioni in regime di subordinazione, pur non regolarizzato". Tecnicismi a parte, un classico caso di lavoro nero. Perché, spiega il giudice, «l’attività svolta dal ricorrente deve considerarsi di lavoro subordinato». Chil post ed Eukos vengono dunque condannate a pagare 4.339 euro per stipendi arretrati e 439 euro di tfr. Lo stesso giorno della sentenza, il 19 giugno 2013, il Tribunale di Genova affronta una causa analoga. Che si conclude con una nuova pena inflitta alla Chil post: il pagamento, sempre in solido con la Eukos, di 4.684 euro a Manuel S., in servizio dal 2001 al 2005. La Chil post, però, viene tirata anche dentro una causa civile, dopo la denuncia della Genova press, che lamentava danni a un locale concesso in affitto. Una piccola bagattella, insomma. Tanto che in primo grado, il 17 giugno 2011, la richiesta viene respinta. Mentre in Appello, il 16 maggio 2012, è deciso il risarcimento di 1.750 euro, vista "l’asportazione delle pareti divisorie degli uffici".
La causa per licenziamento illegittimo. La Chil e la Speedy non sono tra l’altro le uniche aziende di famiglia a essere rimaste invischiate in contenziosi. C’è un’altra srl, la Arturo, ad avere creato patemi processuali. Fondata all’inizio del 2003 da Tiziano Renzi, che detiene il 90 per cento delle quote. Oggetto sociale: produzione di pane e panetteria fresca. Eppure a Genova, all’inizio del 2007, la Arturo si occupa di retribuire chi distribuisce Il Secolo XIX. Come Omoigui E., un nigeriano, impiegato nelle consegne notturne dall’ottobre 2001 ad aprile 2007. Solo il 7 febbraio 2007 è però assunto come co.co.co. a progetto dalla Arturo, amministrata da Tiziano Renzi fino al 20 marzo dello stesso anno. Giorno in cui, al suo posto, entra in carica Pier Giovanni Spiteri, amico e sodale di una vita. Il 13 aprile 2007 Omoigui E. viene allontanato. A ottobre l’amministratore della Arturo diventa Antonello Gabelli, pure lui indagato per bancarotta fraudolenta della Chil post. La vita imprenditoriale della Arturo sarà ancora breve. Il 18 aprile 2008 finisce nelle mani del liquidatore: Tiziano Renzi. L’azienda viene comunque denunciata da Omoigui E. Il 20 settembre 2011 è condannata dal Tribunale di Genova a pagare 85.862 euro per il suo licenziamento illegittimo: "Privo della forma scritta, intimato oralmente, comporta l’assoluta inefficacia dello stesso" scrive il giudice, Margherita Bossi. Al nigeriano sono riconosciuti anche 3.947 euro. Quasi 90 mila euro, in totale, che probabilmente non vedrà mai. Come del resto i suoi ex colleghi usciti vittoriosi dal tribunale. Una sequela di fallimenti ha spazzato via ogni pretesa risarcitoria. Un epilogo che non ha sorpreso né querelanti né tantomeno avvocati. Già il giudice Bossi aveva bacchettato il "comportamento processuale" della Arturo e della Eukos: "I cui legali rappresentanti neppure si sono presentati a rispondere all’interrogatorio formale, senza addurre alcuna giustificazione" sferza il giudice. Aggiunge il magistrato: "Arturo srl, rimanendo contumace, è rimasta inadempiente al proprio onere probatorio". Compito che sarebbe spettato al liquidatore della società: Tiziano Renzi.
Quel prestito da mezzo milione di euro. I nuvoloni di questi giorni sono però ben più densi. Il sospetto dei magistrati è che la Chil post, l’8 ottobre 2010, sia stata svuotata della polpa con la cessione di un ramo d’azienda alla Eventi 6, gestita dalla madre e dalle sorelle del premier. Valore della compravendita: appena 3.878 euro. Anche se il bilancio del 2009 era stato chiuso con 4,5 milioni di fatturato e quasi 36 mila euro di utili. Il 14 ottobre del 2010, sei giorni dopo la cessione, quel che resta della Chil post viene venduto a un eterodiretto ultrasettantenne, Gianfranco Massone, per 2 mila euro. E l’amministratore diventa Gabelli. La società finisce rapidamente nel camposanto dei fallimenti. È il febbraio del 2013. Un anno più tardi la Procura di Genova indaga Renzi, i Massone e Gabelli per bancarotta fraudolenta. Tra i debiti mandati al macero spicca quello con la Banca di credito cooperativo di Pontassieve: quasi mezzo milione di euro. Presidente dell’istituto è Matteo Spanò, baldo quarantenne, fraterno amico del presidente del Consiglio. Un debito che la Chil post si portava dietro da anni. La nota integrativa al bilancio 2010 dettaglia: al 31 dicembre del 2009 era di quasi 191 mila euro. Nell’esercizio seguente sale a 259 mila euro. Poco più avanti, il 21 maggio del 2011, Spanò, dal 2008 nel cda della banca, diventa presidente. Qualche mese dopo, il debito finisce a Massone assieme alla Chil. Riappare a maggio del 2013, nell’elenco dei creditori stilato dal curatore fallimentare: 496.717 euro. Tiziano però assicura di essere sereno. La mattina di lunedì 22 settembre, passato qualche giorno dallaproroga delle indagini, il cielo di Pontassieve era terso. Intorno alle nove, davanti alla sede del Credito cooperativo in piazza Cairoli, Tiziano Renzi parlottava e rideva con Spanò e altri due dirigenti della banca. Lo sguardo era il solito: spavaldo e sicuro. Per ricordare a tutti chi è il padre di cotanto figlio. (ha collaborato Duccio Tronci)
Marco Lillo per il “Fatto quotidiano” l'8 ottobre 2019. C' è un passaggio della requisitoria della pm Christine von Borries che allunga ombre su Tiziano Renzi. Ieri l' imprenditore Luigi Dagostino è stato condannato con Tiziano Renzi e Laura Bovoli per due fatture per operazioni inesistenti. Per quegli stessi pagamenti di 160 mila euro, uniti ad altri fatti ripercorsi nella requisitoria, Dagostino è però indagato anche per traffico di influenze. Se nel processo chiuso ieri in primo grado la pm contestava il versante "fiscale" della storia, nell' altra indagine contesta un aspetto più "politico-amministrativo". Come ha ricordato ieri la pm Von Borries, "Luigi Dagostino nel maggio giugno 2015 chiese a Tiziano Renzi di fissare un appuntamento con Luca Lotti, allora sottosegretario a Palazzo Chigi per il pubblico ministero Antonio Savasta". Normali pubbliche relazioni, certo. Però la pm aggiunge che Savasta era proprio il pm "che avrebbe dovuto indagare anche Luigi Dagostino per uso di fatture false". Savasta infatti aveva ricevuto alcune segnalazioni di fatture false emesse da alcune società nei confronti proprio di imprese di Dagostino. Ciononostante proprio lui chiedeva allo stesso Dagostino di aiutarlo a incontrare a Palazzo Chigi Luca Lotti. La pm Von Borries nella requisitoria ieri ha ripercorso questa triangolazione: l' imprenditore voleva avere buoni rapporti con il suo pm perché "Dagostino avrebbe dovuto essere indagato o iscritto dal pm Savasta come utilizzatore delle false fatture, cosa che non avveniva per molti mesi fino a che la stessa Finanza inviava una comunicazione di notizia di reato alla Procura di Firenze". Ecco perché Dagostino chiede al nuovo amministratore della società Tramor di pagare con urgenza la seconda fattura. Ecco la ragione di quelle "somme non dovute ai coniugi Renzi per un importo complessivo di 20 mila euro (Party Srl) e 140 mila euro (Eventi 6 Srl)". La pm ha sottolineato che due giorni dopo l' emissione della prima fattura da 20 mila euro della Party Srl, Dagostino ottenne un incontro tra il suo potenziale accusatore Savasta (che poi sarà arrestato per altre storie tutte pugliesi di corruzione) e Luca Lotti, allora potentissimo braccio destro del premier. Pochi giorni dopo l' incontro c' è l' emissione della seconda fattura da 140 mila della Eventi6. L' appuntamento con Lotti per la pm è "frutto evidente di questa mediazione posta in essere da Tiziano Renzi a favore di Luigi Dagostino tramite il sottosegretario Luca Lotti". La sensazione è che la pm Christine von Borries, dopo avere incassato la condanna a un anno e nove mesi per entrambi i coniugi Renzi e a due anni per Dagostino, possa puntare a dimostrare che le operazioni inesistenti fossero il presupposto per un traffico di influenze. "L' incontro tra l' imprenditore Dagostino e l' allora sottosegretario Luca Lotti a Palazzo Chigi il 17 giugno 2015 - insorge l' avvocato Federico Bagattini - non c' entra nulla: è una coincidenza temporale, che non è esposta nel capo di imputazione e che quindi non ha il benché minimo riferimento e rilevanza rispetto a questa vicenda". Il legale di Tiziano Renzi ha ragione. Il punto è proprio quello: l' incontro Savasta-Lotti non c' entra con l' inchiesta per false fatture ma potrebbe essere stato evocato dalla pm in una logica diversa, non fiscale. Insomma potrebbe essere la base fattuale della seconda indagine aperta nel 2019 per traffico di influenze illecite. La Procura insomma potrebbe ritenere che i 160 mila euro furono dati nel 2015 alle società dei Renzi per "pagare" l' influenza di Tiziano su Lotti. Il padre dell' ex premier rischierebbe una seconda indagine per traffico di influenze illecite, fermo restando che Lotti comunque (come Luigi Marroni nel caso Consip) resterebbe fuori completamente come anche Laura Bovoli che nulla c' entra. Finora l' invito a comparire come indagato per traffico di influenze è stato inviato, però, solo a Luigi Dagostino. Se a Firenze siamo di fronte a un' ipotesi, il traffico di influenze è uno spettro reale per Tiziano Renzi a Roma. Sembrava svanito grazie alla richiesta di archiviazione presentata nei suoi confronti per il caso Consip dai pm Paolo Ielo e Mario Palazzi. Però il gip Gaspare Sturzo non ha accolto la richiesta e ha fissato un' udienza per lunedì prossimo. In quella sede, nel contraddittorio tra le parti, sarà affrontata la posizione del padre dell' ex premier. A Firenze poi rimane aperta l' inchiesta più importante: otto mesi fa i coniugi Renzi hanno subito gli arresti domiciliari per pochi giorni con l' accusa di bancarotta in relazione alle società Delivery Service Italia e Europe Service. L' indagine prosegue e si sarebbe estesa a una terza società, la cooperativa Marmodiv nel frattempo fallita. Infine, c' è anche il processo per bancarotta in relazione al crac Direkta che si è aperto a Cuneo. Tra i rinviati a giudizio qui c' è solo la madre di Matteo Renzi, Laura Bovoli. La prossima udienza è fissata al 15 gennaio 2020.
Marco Gasperetti per il “Corriere della sera”l'8 ottobre 2019. Tiziano Renzi e Laura Bovoli hanno atteso la sentenza nella loro casa di Rignano. Da soli. È stato l' avvocato Lorenzo Pellegrini a dare loro la notizia della condanna. «Avvocato lei sa che sono innocente, e che non ho falsificato alcuna fattura - ha risposto Tiziano al suo legale - ho piena fiducia in lei e negli altri suoi colleghi. Andiamo avanti sereni e con la coscienze pulite». Poi Tiziano si è messo davanti al computer e sul suo profilo Facebook ha scritto un post. «Ho il dovere di credere nella giustizia italiana, oggi più che mai. E continuo a farlo anche se con grande amarezza. Perché i fatti sono evidenti: il lavoro che mi viene contestato è stato regolarmente svolto, regolarmente fatturato, regolarmente pagato. Nessuno può negare questo e sono certo che i prossimi gradi di giudizio lo dimostreranno». Infine Tiziano ha annunciato che nell' attesa, sarà immediatamente presentato appello in secondo grado sottolineando che «almeno è stato appurato che non c' è neanche un centesimo di evasione; passerò i prossimi anni nei tribunali, ma dimostrerò la totale innocenza». Matteo Renzi ha fatto trapelare la sua amarezza perché, ha spiegato, «la prestazione c'è stata e le tasse sono state pagate». Deluso per il verdetto il terzo protagonista di questa vicenda giudiziaria, l'imprenditore Luigi Dagostino. «Confido nella giustizia però avrei sperato che qualcuno si leggesse bene le carte ma lo farà qualcun altro in appello - commenta al Corriere -. Se le carte fossero state lette per bene, la dinamiche dei fatti sarebbe stata chiara: il reato non c'è». Tra i primi commenti dalla politica quelli di Ettore Rosato, di Italia Viva e del leader della Lega Matteo Salvini. Rosato ha invitato tutti ad aspettare «le sentenze definitive, quelle della Cassazione». Mentre il suo collega di partito, Michele Anzaldi, accusa la Rai di aver dato poco spazio al movimento di Renzi e molto alla condanna dei suoi genitori. Polemico Salvini. «Non commento le condanne, ma sono contento che i miei genitori siano pensionati, tranquilli, che si dedichino ai nipoti e siano incensurati. Però non faccio battaglia politica sulle condanne dei parenti».
Giacomo Amadori per “la Verità”il 9 ottobre 2019. La condanna incassata lunedì scorso da Tiziano Renzi, dalla moglie Laura Bovoli (un anno e nove mesi ciascuno per emissione di fatture false) e dall' imprenditore Luigi Dagostino (due anni per utilizzo di fatture false e truffa), sembra solo l' inizio di una slavina. Il procuratore aggiunto Luca Turco e la pm Christine von Borries (la stessa che ha rappresentato l' accusa nel processo di due giorni fa) il 3 ottobre scorso hanno spedito la guardia di finanza a Rignano sull' Arno, in frazione Torri, a sequestrare il computer, i cellulari (più di uno) e diverse pen drive nella villa di Tiziano Renzi nell' ambito del procedimento 3103/19, svelato da Panorama la scorsa primavera, per traffico di influenze illecite, «delitto» che sarebbe stato commesso «in Firenze dal 2015 ad oggi» e per cui il babbo è indagato insieme con Dagostino. Ieri pomeriggio la Procura ha incaricato il consulente Vincenzo D' Abbundo dell' accertamento tecnico non ripetibile (consistente nell' effettuazione della copia informatica dei beni sequestrata a casa Renzi). Presenti anche i difensori di Renzi senior, Federico Bagattini e Lorenzo Pellegrini, i quali erano stati avvisati dell' inizio delle operazioni e della facoltà di nominare propri consulenti. Nel decreto di nomina la pm von Borries aveva sottolineato «l' urgenza di provvedere attesa la possibilità di modificazione dello stato di fatto e la necessità di restituire i beni all' indagato». Sembra che sui cellulari non siano state cancellate molte chat effettuate con applicazioni che garantiscono comunicazioni al riparo da intercettazioni come Telegram, Signal, ma anche Whatsapp, e in cui, sentendosi al sicuro, gli utenti affrontano anche argomenti sensibili. Tra i difensori nei giorni scorsi serpeggiava l' agitazione, anche perché sembra che per la scarsa dimestichezza con la tecnologia il babbo abbia lasciato sui suoi apparati elettronici traccia di diverse comunicazioni riservate, di lavoro e private, comprese quelle riguardanti le sue vicissitudini giudiziarie. L' iniziativa ha preso alla sprovvista Renzi senior e i suoi legali, visto che né la Procura di Roma (inchiesta Consip), né quella di Firenze sino a oggi avevano avuto l' ardire di sottoporre il babbo dell' ex premier a un' attività tanto invasiva. Neppure lo scorso 18 febbraio quando Tiziano e signora vennero arrestati con l' accusa di concorso in bancarotta. I magistrati capitolini avevano sempre giustificato la mancata perquisizione (richiesta dai carabinieri del Noe) con il fatto che sarebbe stata inutile, a causa di precedenti fughe di notizie sull' indagine. I colleghi di Firenze hanno fatto una valutazione diversa, forse considerando che le attuali tecnologie consentono il recupero di chat e file eliminati. La perquisizione del 3 ottobre è arrivata alla vigilia della sentenza nel processo per false fatturazioni. Il collegamento tra i due procedimenti è stato evocato dalla pm in aula due giorni fa ed era stato anticipato da un articolo della Verità del gennaio scorso che metteva in relazione una delle fatture pagate dall' imprenditore Luigi Dagostino (quella da 24.400 euro) alla Party Srl e alla Eventi 6 con l' incontro a Palazzo Chigi tra l' allora sottosegretario Luca Lotti e il pm Antonio Savasta, arrestato a gennaio per corruzione in atti giudiziari e in attesa di giudizio (con rito abbreviato) anche per quell' episodio. Savasta nel giugno del 2018, da indagato, raccontò alla Verità (l' audio dell' intervista è stato acquisito dai pm leccesi e quel botta e risposta è stato definito nell' ordinanza di custodia cautelare della toga «una formidabile conferma all' ipotesi accusatoria») perché andò a trovare Lotti: «La mia richiesta era quella di partecipare a gruppi di studio o essere applicato a delle commissioni ministeriali che si occupavano di appalti, la mia specializzazione (). Era un modo, in un certo senso, per provare a levarmi da Trani, mettendomi in aspettativa, in un periodo in cui pendevano su di me procedimenti penali, da cui sono stato assolto in un doppio grado di giudizio, e disciplinari per incompatibilità ambientale. Puntavo a lasciare un ambiente che era diventato pesante, anche per riprendermi a livello psicologico, perché la pressione era tanta». La pm Christine von Borries nella sua requisitoria del 7 ottobre ha annotato: «Dagostino ammette che, volendo accedere a una richiesta di aiuto che gli rivolse», Savasta «gli procurò un colloquio con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Luca Lotti. E riuscì ad ottenere tale appuntamento proprio grazie a Tiziano Renzi». Quindi ha specificato che lo stesso Dagostino «avrebbe dovuto essere indagato o iscritto dal pm Savasta come utilizzatore delle false fatture (in un procedimento pugliese, ndr), cosa che non avveniva per molti mesi fino a che la stessa Finanza inviava una comunicazione di notizia di reato alla Procura di Firenze». È chiaro che nella testa del pubblico ministero i 195.200 euro pagati da Dagostino ai Renzi non erano altro che il corrispettivo non tanto per i progettini citati nelle mail inviate all' imprenditore, ma per l' attività di lobbista di babbo Tiziano. Un' ipotesi che lo stesso Dagostino aveva ammesso con chi scrive, rispondendo alla domanda sul perché portasse il padre dell' allora premier in giro come «una Madonna pellegrina»: «Faceva parte del lavoro di Tiziano Renzi, quello della lobby, di portare magari i politici, diciamo parliamoci chiaramente: era un' epoca quella dove incontravi un tale per strada e voleva stare con Renzi, è inutile che facciate finta che non fosse così (). Qualcuno magari mi chiamava e diceva: "Oh sai volevo parlare, ho questa idea, ho questa cosa" alla fine è un lobbismo, ma è un lobbismo del cazzo». Una delle pietre angolari della nuova inchiesta per traffico di influenze è l' agenda di Dagostino. A renderla così importante è il fatto che più che un organizer è un diario, come ha rivelato ai magistrati lo stesso imprenditore il 13 aprile 2018: «Io le annotazioni in agenda le facevo il giorno dopo, non ho mai segnato degli appuntamenti in anticipo». La von Borries ha elencato in aula tutti gli abboccamenti dell' estate 2015 tra Dagostino, i Renzi e terze persone, tra cui diversi personaggi collegati alla politica e alla magistratura, a partire dall' incontro del 17 giugno a Palazzo Chigi che avvenne «dopo soli due giorni dall' emissione della fattura numero 1 della Party, poi pagata dalla Tramor, e a cui seguiva il 30 giugno 2015 la fattura 202 della Eventi 6», circostanze che «non è possibile non collegare», ha rimarcato il pubblico ministero. Erano i mesi in cui Dagostino, secondo l' accusa, temeva di essere indagato per false fatture da Savasta e cercava di aprire nuovi outlet del lusso in giro per l' Italia, soprattutto in comuni governati dal Pd (Sanremo e Fasano su tutti). La pm ha evidenziato che i rapporti tra Dagostino e Tiziano Renzi non terminarono con l' emissione e il pagamento di quelle due fatture, ma proseguirono, come segnato sull' agenda dell' imprenditore, almeno sino al novembre 2015. Nella requisitoria si trova anche una «breve cronistoria» di questi incontri. Resoconto che questo giornale pubblicò già il 24 aprile 2018. Parliamo di diversi meeting in ufficio, ma anche di riunioni fuori Firenze, tra Roma e la Puglia, con politici come l' ex senatore pugliese Nicola Latorre, prima dalemiano e poi renziano, o l' ex assessore regionale pugliese all' Ambiente Filippo Caracciolo. Nella lista pure un incontro così indicato: «Pagliarulo + Procuratore della repubblica di Bari dottor Bottazzi + Tiziano Renzi». Cosimo Bottazzi è un magistrato della Procura generale del capoluogo pugliese. Nel diario Dagostino ha segnato anche pranzi e cene in ristoranti prestigiosi (come l' esclusivo Da Tuccino di Polignano a mare) o soggiorni in masserie di lusso. L' imprenditore ha preso nota pure del giorno in cui ha venduto una Range Rover sport diesel a Renzi senior o in cui lo ha condotto nell' autosalone milanese di un amico per l' acquisto di un furgone. Risalgono al novembre 2015 gli ultimi promemoria ufficiali sugli spostamenti dei due indagati per traffico di influenze: a dicembre Dagostino e i coniugi Renzi finirono al centro di polemiche politiche per la costituzione della Party e, probabilmente, la frequentazione si diradò.
Valentina Marotta e Antonella Mollica per Il Corriere.it il 10 ottobre 2019. Tiziano Renzi nei guai per colpa di un cellulare. Ancora una volta gli investigatori si sono presentati nella villa del padre dell’ex premier Matteo per una perquisizione disposta dalla Procura di Firenze, come riportato ieri dal quotidiano La Verità. Oltre ai computer i finanzieri del comando provinciale hanno portato via anche un telefono in uso a Tiziano che risulterebbe però intestato a un extracomunitario. Babbo Renzi avrebbe utilizzato quel cellulare al posto del suo dopo l’arresto per bancarotta fraudolenta (avvenuto il 18 febbraio scorso) per timore di essere intercettato. Questo sarebbe emerso dall’inchiesta per traffico di influenze illecite coordinata dal procuratore aggiunto Luca Turco e della pm Christine Von Borries. Sul registro degli indagati compare, oltre a Tiziano Renzi anche il suo ex socio, l’immobiliarista pugliese Luigi Dagostino. Le perquisizioni risalgono al 3 ottobre, pochi giorni prima della sentenza di condanna di Tiziano, della moglie Laura Bovoli e dello stesso Dagostino per false fatturazioni. Lunedì il giudice Fabio Gugliotta ha condannato i coniugi Renzi a 1 anno e 9 mesi ciascuno e Dagostino a 2 anni anche per truffa. Al centro del processo appena concluso due fatture emesse nel 2015 dalle società dei Renzi per uno studio di fattibilità di un punto ristoro all’outlet di Reggello: una di 24.400 euro emessa dalla Party il 15 giugno, l’altra di 170.800 euro dall’Eventi 6 il 30 giugno. Un progetto mai realizzato che, secondo l’accusa, consisteva in una breve relazione di poche pagine con piantine «copiate da un altro studio professionale e allegate a una mail informale». Incrociando le date delle fatture con l’agenda sequestrata a Dagostino la Procura ha ipotizzato, in un altro fascicolo, il reato di traffico di influenza. Il sospetto degli inquirenti è che quel denaro sia stato versato a Tiziano per la sua attività di lobbista. Dalle indagini è emerso che nel giugno 2015 Dagostino chiede a Renzi di fissare un appuntamento per il pm Antonio Savasta (titolare a Trani di un’inchiesta su Dagostino per false fatture e poi arrestato lo scorso gennaio per corruzione in atti giudiziari) con l’allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Luca Lotti. L’incontro avviene il 17 giugno a Palazzo Chigi: due giorni prima la Party aveva emesso la fattura da 24.400 euro. «Dopo gli articoli di giornali che mi accreditavano come amico di Renzi — aveva raccontato l’imprenditore pugliese alla pm Von Borries — ho ricevuto molte telefonate di persone interessate ad avvicinarlo». Uno di loro era il pm Savasta «interessato a presentare un disegno di legge in materia di rifiuti». «L’unico politico che avevo visto tre o quattro volte, tramite Tiziano Renzi, era Luca Lotti, all’epoca sottosegretario alla presidenza del consiglio. Fissai con lui, tramite Tiziano, un appuntamento. Entrai nel suo ufficio con Savasta, li presentai e me ne andai, senza assistere al colloquio che durò 30-40 minuti». La conferma nelle pagine dell’agenda: il 17 giugno 2015 alle 18 l’appuntamento con Savasta davanti a Palazzo Chigi. Il 15 giugno la Party aveva emesso la fattura, il 30 giugno la Eventi 6 emetterà la seconda fattura. «Mi rendo conto che era un prezzo esoso per uno studio di fattibilità — racconterà in aula Dagostino — e quando ho ricevuto le fatture sono rimasto abbastanza perplesso per l’importo, però in quel momento loro erano i genitori del presidente del consiglio, ho subito la sudditanza psicologica e non ho ritenuto di contestare le fatture. Dopo di allora non ho più avuto rapporti con Renzi». Ma l’agenda racconta un’altra verità: i rapporti tra i due sono proseguiti con incontri a Roma e in Puglia.
Tiziano Renzi: «Accuse false, mai avuto telefoni intestati a extracomunitari». Pubblicato giovedì, 10 ottobre 2019 su Corriere.it. «Ancora una volta leggo notizie false e gravemente diffamatorie nei miei confronti. A differenza di quanto riportano oggi alcuni quotidiani non ho mai avuto telefoni intestati a cittadini extracomunitari. Mai. Ho consegnato alla procura tutti i miei telefoni, anche quelli vecchi non più in uso, oltre all’Ipad e ai computer e sto aspettando che mi vengano restituiti per recuperare le foto dei miei nipoti che sono l’unica cosa cui tengo di quei telefoni. Non so cosa sia questo telefonino intestato a un extracomunitario. L’unica scheda telefonica straniera è una scheda comprata a Medjugorie, da utilizzare nel corso dei frequenti pellegrinaggi e che peraltro non avevo ancora mai usato». Si difende così Tiziano Renzi, padre dell'ex premier Matteo Renzi, dall’accusa di essere in possesso di un telefono cellulare intestato a un extracomunitario che sarebbe stato portato via durante una perquisizione disposta dalla Procura di Firenze, come riporta La Verità. Babbo Renzi avrebbe utilizzato quel cellulare al posto del suo dopo l’arresto per bancarotta fraudolenta (avvenuto il 18 febbraio scorso) per timore di essere intercettato. Questo sarebbe emerso dall’inchiesta per traffico di influenze illecite coordinata dal procuratore aggiunto Luca Turco e della pm Christine Von Borries. Sul registro degli indagati compare, oltre a Tiziano Renzi anche il suo ex socio, l’immobiliarista pugliese Luigi Dagostino. Le perquisizioni risalgono al 3 ottobre, pochi giorni prima della sentenza di condanna di Tiziano, della moglie Laura Bovoli e dello stesso Dagostino per false fatturazioni. Lunedì il giudice Fabio Gugliotta ha condannato i coniugi Renzi a 1 anno e 9 mesi ciascuno e Dagostino a 2 anni anche per truffa. Renzi senior però si difende precisando che «tutto il materiale informatico degli ultimi anni è nelle mani della Procura fin dalle prime perquisizioni e l’ho sempre consegnato spontaneamente». Renzi è pronto ad agire « in sede penale e civile per l’ennesima fuga di notizia e per le false frasi diffamatorie riportate dagli organi di stampa in cui mi si accusa di voler sviare le intercettazioni e le indagini». Infine, il padre dell’ex segretario Pd spiega fi aver «sempre collaborato» e di essere intenzionato a continuare «a farlo perché so di essere innocente. Per il resto mi riservo di notare come tutto ciò che sta accadendo avvenga nella costante violazione dei diritti della persona e dei più importanti principi costituzionali», conclude.
Giacomo Amadori per “la Verità” l'11 ottobre 2019. Diavolo di un Tiziano. Quando gli inquirenti hanno sequestrato il cellulare di uno dei principali indagati nel procedimento per bancarotta della Marmodiv per cui è sotto inchiesta anche Renzi senior, hanno iniziato a trovare messaggi significativi di un grosso affare che il babbo dell' ex premier stava cercando di portare avanti con il suo sodale dell' epoca. Ma quei messaggi trasudavano traffico di influenze illecite da ogni rigo e questo è stato sottolineato dai finanzieri che hanno inviato ai magistrati tre distinte informative con le risultanze delle perquisizioni avvenute alla fine del 2018. Ebbene i messaggini incriminati, in cui era chiaro che a scrivere fosse Tiziano Renzi, provenivano da un telefonino con all' interno una Sim intestata a un cittadino nigeriano che di quella scheda sembra non abbia mai avuto la disponibilità. Insomma per gli inquirenti l' estroso genitore, che all'epoca sapeva di essere indagato sia per concorso in bancarotta, che per emissione di false fatture e traffico di influenze illecite (a Roma, nell' ambito dell' inchiesta Consip) avrebbe acchittato un cellulare solo per quell' affare misterioso, con una Sim dedicata. Ma quando il procuratore Luca Turco ha avuto evidenza di questo ha trasmesso le informative alla collega Christine von Borries, la quale, da marzo, ha aperto un fascicolo per traffico di influenze illecite di cui riparleremo tra poco e in cui sono indagati lo stesso Renzi senior e l'imprenditore pugliese Luigi Dagostino. Per questo la pm a inizio ottobre ha spedito a Rignano sull' Arno la Guardia di finanza per vedere se per caso il nostro avesse ancora in casa quella scheda o altre utenze utilizzate con le stesse modalità di quella del cittadino africano. I militari hanno ricevuto l' incarico di andare alla ricerca di ogni apparecchio elettronico nella disponibilità di Tiziano. L' avvocato dei Renzi, Lorenzo Pellegrini, due giorni fa aveva diramato un dispaccio (la comunicazione del collegio difensivo è gestita dalla Comin & partners e il testo è stato «approvato» da Federico Fabrini) in cui in maniera abbastanza esilarante ridimensionava il più possibile la portata delle operazioni, derubricata a «normale routine» e «atto dovuto»: «Nessun blitz notturno, bensì un accertamento in tarda mattinata e nella massima collaborazione, scandito da un clima assolutamente disteso e rispettoso». In realtà è stata una perquisizione con tutti i crismi e alla fine sono stati rinvenuti sei cellulari (alcuni non più uso) con tre schede telefoniche, oltre a una decina di pen drive. La scheda che più ha insospettito gli investigatori è una di un operatore della Bosnia Erzegovina. Una scoperta che agli investigatori ha ricordato il Luciano Moggi dei bei tempi, quello che girava con schede svizzere per le conversazioni riservate. Adesso gli inquirenti dovranno verificare se quelle schede fossero dedicate a specifici affari o interlocutori, in particolare da quando Tiziano e la moglie Laura sono stati arrestati e teoricamente non potrebbero esercitare alcun tipo di attività imprenditoriale, almeno sino a dicembre (è la condizione con la quale sono stati liberati). L' inchiesta, come sanno da mesi i nostri lettori, parte dalle due fatture pagate alle ditte dei coniugi Renzi (Eventi 6 e Party srl) dalla Tramor srl di Dagostino (poi passata al gruppo Kering) tra giugno e luglio del 2015: 195.200 euro (160.000 senza Iva) che per l' accusa sarebbero stati versati all' indagato Tiziano «come prezzo della mediazione illecita nei confronti dei seguenti pubblici ufficiali: Luca Lotti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Filippo Caracciolo, consigliere della Regione Puglia, Francesco Zaccaria, sindaco del comune di Fasano (in Firenze dal 2015 al 2017)». Il riferimento è alla visita che Dagostino in compagnia del pm Antonio Savasta (poi arrestato per corruzione in atti giudiziari, anche per la mancata iscrizione sul registro degli indagati dell' immobiliarista pugliese) ha fatto a Lotti il 17 giugno 2015 a Palazzo Chigi e agli incontri che si svolsero tra lo stesso imprenditore e alcuni amministratori d' area Pd, anche alla presenza di Tiziano, per la realizzazione di un outlet del lusso a Fasano. In una delle tante inchieste su Dagostino era stata captata anche un' intercettazione tra l' allora sindaco Zaccaria e babbo Renzi, dove quest' ultimo esclamava: «Solo per farti i complimenti e basta [] di quello che è accaduto giù [] perché si è visto chiaramente e io sapendo un po' di cose me lo sono subito immaginato». Il primo cittadino pugliese nelle carte è descritto dagli inquirenti come «troppo disponibile a soddisfare gli interessi imprenditoriali di Dagostino, profilandosi anche possibili risvolti penali». Nel decreto di perquisizione si evidenzia «l' assenza di lecita causale relativamente all' emissione delle fatture sopra indicate», motivo che ha portato i magistrati a caccia di indizi. Alcuni sono stati trovati nell' agenda di Dagostino, in cui l' imprenditore annotava scrupolosamente gli incontri effettuati con Renzi senior, e altri, «in ordine all' attività di mediazione illecita, operata dall' indagato nell' interesse di Dagostino, nei confronti dei pubblici ufficiali sopra nominati» sono emersi grazie a una nota della Guardia di finanza, dell' 8 maggio scorso. Ma ulteriori tre informative, datate 10 luglio, 30 agosto e 20 settembre, hanno evidenziato una autentica stranezza e cioè di «come l' indagato abbia avuto a disposizione (oltre al telefono cellulare da lui solitamente utilizzato) anche un ulteriore telefono cellulare, intestato a persona nata in Nigeria, telefono esclusivamente dedicato ad attività di mediazione». Un' iniziativa che ha messo sul chi vive gli inquirenti e li ha portati alla ricerca di «documentazione, anche informatica, pertinente all' ipotesi di reato in verifica [] con particolare riguardo ai rapporti tenuti dall' indagato con Dagostino e con i pubblici ufficiali in premessa indicati». A tal scopo la von Borries ha ordinato «la perquisizione dell' abitazione dell' indagato, di ufficio e studio a lui in uso, di tutti i luoghi chiusi adiacenti o pertinenti ai predetti immobili; di eventuali veicoli che risultassero di proprietà o comunque nella disponibilità dell' indagato». Per il pubblico ministero vi era motivo di ritenere «che dati e informazioni, pertinenti al reato si trovino in sistemi informatici o telematici a disposizione dell' indagato (telefoni cellulari, tablet, computer, cloud)» e per questo ha disposto «la perquisizione dei predetti sistemi informatici e telematici». Che sono stati sequestrati e copiati. Renzi senior non si dà per vinto e ieri ha fatto diramare l' ennesimo comunicato: «Ancora una volta leggo notizie false e gravemente diffamatorie nei miei confronti. A differenza di quanto riportano oggi alcuni quotidiani non ho mai avuto telefoni intestati a cittadini extracomunitari. Mai. Ho consegnato alla procura tutti i miei telefoni, anche quelli vecchi non più in uso, oltre all' iPad e ai computer e sto aspettando che mi vengano restituiti per recuperare le foto dei miei nipoti che sono l' unica cosa cui tengo di quei telefoni. Non so cosa sia questo telefonino intestato a un extracomunitario. L' unica scheda telefonica straniera è una scheda comprata a Medjugorie, da utilizzare nel corso dei frequenti pellegrinaggi e che peraltro non avevo ancora mai usato». In sostanza Tiziano respinge, come sempre, con forza tutti i reati che gli vengono contestati. Lui è solo un nonno devoto.
Tiziano Renzi e Laura Bovoli condannati, Pietro Senaldi: quella strana coincidenza temporale. Pietro Senaldi su Libero Quotidiano l'8 Ottobre 2019. Bomba sul «Bomba». I genitori di Matteo Renzi sono stati condannati dal Tribunale di Firenze a un anno e nove mesi per false fatturazioni. In sostanza, quando il figlio era all' apice del successo e del potere, babbo Tiziano e mamma Laura, attraverso due loro società, si sono fatti dare 160mila euro dal proprietario di un grande spaccio della loro zona per fornire assistenza e consigli in tema di ristorazione. Il sospetto dei pm, confermato dai giudici di primo grado, è che la prestazione professionale non ci sia mai stata, o comunque sia stata risibile, la cifra sia spropositata e che non sia chiaro a che titolo l' imprenditore Dagostino, a sua volta condannato nella vicenda, l' abbia sborsata. L' interessato dice per «sudditanza psicologica nei confronti dei genitori del premier», ma i pm propendono per la truffa. L' inchiesta va avanti da anni e non è l' unica nei confronti di Tiziano Renzi. L' uomo ha fatto l' imprenditore per una vita prima che il figlio prendesse in mano l' Italia. Si è barcamenato ma non ha mai fatto il salto, né come impenditore né come inquisito. Poi, quando Matteo è diventato premier, è stato indagato per una serie di reati da rubagalline, dagli stipendi in nero alle bancarotte dopo aver spogliato le aziende. Capita. Quando si accendono i riflettori della politica su qualcuno, inevitabilmente si accendono anche quelli della magistratura, su di lui e sul suo entourage. Nel caso di specie, babbo Tiziano ci ha messo del suo, per esempio aprendo uno studio di consulenze davanti a Palazzo Chigi, opportunamente fatto chiudere dal Giglio Magico, e cavalcando la visibilità che il figlio gli ha dato. Da buon toscano, ama la parola più che la discrezione, anche se Matteo non ha mai dimostrato di gradirne la loquacità. Ieri Renzi senior ha pagato un prezzo caro per il proprio modo di fare l' imprenditore. Non è un verdetto definitivo e non abbiamo compulsato le carte quanto le toghe, quindi ci asteniamo da un giudizio di merito affidandoci alla magistratura, come si dice in questi casi. Da cronisti però rileviamo la semplice coincidenza tra la condanna del babbo e la risurrezione della sua progenie. Non sono neppure due mesi da che il diabolico Matteo ha ritirato fuori il capino ed è tornato a menare le danze, anche se l' ex premier è tornato in piena attività al punto che ci sembra non sia mai andato via, e soprattutto, ahinoi e ahilui, che non sia cambiato di una virgola, e già la magistratura ha ricominciato a ronzargli intorno. Ripetiamo, nulla da ridire sul verdetto, ma non possiamo non notare che sbattere contro un magistrato è il destino di chiunque arrivi al potere in questo Paese. Perfino il sedicente avvocato del popolo, Conte, sta sperimentando come scandali e sospetti accompagnino qualsiasi leader. Proprio in questi giorni, l' uomo che il 20 agosto ha rinfacciato a Salvini di non aver riferito in Parlamento sull' inchiesta su Savoini e i rubli russi mai incassati da nessuno, ora è invitato da Renzi a giustificarsi pubblicamente dall' accusa di aver messo i nostri servizi segreti a disposizione dell' amministrazione Trump per smontare il Russiagate orchestrato dai democratici ai danni del presidente Usa. Conte resiste e cade in contraddizione con le proprie critiche al leader leghista. Renzi gli chiede di rinunciare alla delega sulle barbe finte e gli va addosso, un po' per indebolirlo e molto per nascondere il fatto che a sua volta lui è accusato, di aver usato, quando era premier, i nostri 007 per aiutare Obama a infangare Trump. E il Pd? Ai tempi controllava i servizi segreti, perciò oggi tace perché non gli conviene aprire l' armadio degli scheletri. Un carnevale di sospetti e accuse incrociate che ci fa venire l' orticaria e che Libero non cavalca perché, non potendo sapere, non siamo soliti sposare pregiudizialmente le cause di nessuno. Esattamente come non giudichiamo la vicenda di babbo Renzi, che ci sembra il vero e più pericoloso persecutore del figlio, perfino più del Pd e dei magistrati. Pietro Senaldi
«Bancarotta e fatturazioni false»: chiusa l’inchiesta sui genitori di Matteo Renzi. Pubblicato martedì, 22 ottobre 2019 da Corriere.it. La procura di Firenze termina gli accertamenti su Laura Bovoli e Tiziano Renzi, i genitori di Matteo Renzi, e notifica l’avviso di chiusura dell’inchiesta contestando il reato di bancarotta fraudolenta e false fatturazioni per la gestione delle cooperative Delivery, Europe Service e Marmodiv. È il passo che precede la richiesta di rinvio a giudizio. Per questa inchiesta i coniugi Renzi furono arrestati nel febbraio scorso, accusati di aver «fatto sparire qualsiasi documentazione societaria delle cooperative fallite» per nascondere i mancati versamenti delle imposte e le fatture per operazioni inesistenti. Secondo il procuratore Giuseppe Creazzo e l’aggiunto Luca Turco a partire dal 2009, anno in cui fu fondata la Delivery, i coniugi Renzi hanno messo in piedi un «sistema» per proteggere le società di famiglia — in particolare la Eventi 6 — scaricando i debiti sulle cooperative. Dopo l’ordinanza emessa dal gip il tribunale del Riesame aveva disposto la scarcerazione di Bovoli e Renzi ordinandone però l’interdizione dall’attività imprenditoriale per otto mesi. Subito dopo i due decisero di dimettersi dagli incarichi. Nel corso di questi mesi è stato dichiarato dal tribunale di Firenze il fallimento della Marmodiv e questo ha evidentemente convinto i rappresentanti dell’accusa ad andare avanti. Il 7 ottobre scorso il tribunale ha condannato entrambi a un anno e nove mesi, con sospensione condizionale della pena al termine del processo che li vedeva imputati per false fatture con l’imprenditore Luigi D’Agostini accusato anche di truffa. Adesso per quest’alto filone la difesa ha 20 giorni di tempo per presentare nuovi documenti o memorie e poi si arriverà alla richiesta di processo.
Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della sera” il 23 ottobre 2019. Sono accusati di aver svolto attività illecita fino a giugno del 2018 facendo fallire due cooperative e ritardando il fallimento di un'altra per salvare le aziende di famiglia. E per questo la procura di Firenze chiederà il rinvio a giudizio di Tiziano Renzi e Laura Bovoli, i genitori dell' ex premier Matteo Renzi, per bancarotta fraudolenta e false fatturazioni. L'avviso di conclusione delle indagini è stato notificato ieri e coinvolge altre 17 persone. Tra loro, Roberto Bargilli «Billy», autista del camper usato dallo stesso Renzi durante le primarie per la segreteria Pd, e l'avvocato Luca Mirco. «Era un atto atteso», commenta il difensore dei Renzi Federico Bagattini. Era febbraio scorso quando il giudice ordinò gli arresti domiciliari per i coniugi Renzi accusandoli di aver emesso fatture per operazioni inesistenti in modo da scaricare i costi della società Eventi 6. Pochi giorni dopo il Riesame annullò la misura di custodia cautelare disponendo però per entrambi l'interdizione dall'attività per sei mesi. Loro arrivarono all'udienza negando ogni responsabilità e annunciando di aver già provveduto a dimettersi dalle cariche. «Siamo solo pensionati», spiegarono. Una strategia che non è servita comunque a convincere i pubblici ministeri. Secondo la ricostruzione del procuratore Giuseppe Creazzo e dell'aggiunto Luca Turco il «sistema» messo in piedi mirava a scaricare tutti i debiti sulle coop Delivery, Europe Service e Marmodiv che in questo modo venivano poi portate al fallimento. Una strategia - questo sottolineano i magistrati - che avrebbe consentito alla società capofila «tra il 2014 e il 2018 di far crescere il volume d'affari da uno a sette milioni di euro». Uno dei capi di imputazione riguarda proprio la ditta della famiglia. E infatti, si legge, i due «amministratori di fatto della cooperativa Marmodiv, al fine di consentire alla Eventi 6 l' evasione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto emettevano fatture per operazioni oggettivamente in parte inesistenti per un totale di oltre 60 mila euro». Nel capitolo relativo alla Marmodiv viene sottolineato come sia stata «dichiarata fallita con sentenza del tribunale di Firenze del 20 marzo 2019» e poi si spiega: «Gli indagati concorrevano a cagionare il dissesto della società esponendo, al fine di conseguire un ingiusto profitto, nel bilancio di esercizio al 31 dicembre 2017, approvato dall' assemblea dei soci il 27 giugno 2018 nell' attivo patrimoniale, crediti per "fatture da emettere" non rispondenti al vero per un importo superiore a 370 mila euro, così iscrivendo a conto economico maggiori ricavi ed evitando di evidenziare una perdita d' esercizio. Così Renzi, Bovoli e Giuseppe Mincuzzi - presidente del Consiglio di amministrazione fino al 15 marzo 2018 - erano in grado di "cedere" all' amministratore di fatto Daniele Goglio la cooperativa ormai fortemente indebitata e Goglio poteva tenere la condotta distrattiva contestata». A rafforzare l'accusa era stato il ritrovamento di alcune mail spedite da Tiziano Renzi. In una, del 2015, ammetteva l'utilizzo che Eventi 6 poteva fare della Marmodiv parlando esplicitamente di «strategia»: «Quando abbiamo preso in mano i lavoratori e abbiamo capito, facciamo il blitz, cambiamo il presidente e chiudiamo Marmodiv per mancanza di lavoro che nel frattempo dall' oggi al domani lo dirottiamo alla nuova». In un' altra proponeva invece di versare soldi per evitare la chiusura dell' attività. «Sono mail - si sono difesi i coniugi Renzi - che vanno contestualizzate». Una posizione che però non ha convinto la Procura.
Bancarotta e false fatture, chiuse le indagini su Tiziano Renzi e Laura Bovoli. Notificato questa mattina l'avviso di conclusione dell'inchiesta che lo scorso febbraio portò all'arresto dei genitori dell'ex premier. Luca Serranò il 22 ottobre 2019 su La Repubblica. La procura di Firenze ha chiuso le indagini su Laura Bovoli e Tiziano Renzi e ha notificato ai genitori dell'ex premier Matteo Renzi l'avviso di chiusura del procedimento che li vede indagati, a vario titolo, insieme ad altre 19 persone, per bancarotta fraudolenta e false fatturazioni. Gli indagati hanno la facoltà di chiedere di farsi interrogare dai pm. Dopodiché, nel giro di alcune settimane la procura potrà formulare la richiesta di rinvio a giudizio. I coniugi Renzi furono arrestati nel febbraio scorso: per loro il gip dispose gli arresti domiciliari. Stessa misura cautelare per l'imprenditore ligure Mariano Massone. Al centro dell'inchiesta la gestione di tre cooperative, dedite in particolare al volantinaggio e alla distribuzione di materiale pubblicitario: Delivery, Europe Service e Marmodiv. Secondo l'accusa i genitori dell'ex premier, amministratori di fatto delle società, ne avrebbero provocato "dolosamente" il fallimento di dopo averne svuotato le casse, ricavando così in maniera illecita svariati milioni di euro. In particolare, per quanto riguarda la cooperativa Marmodiv, l'ultima a essere dichiarata fallita con sentenza del tribunale a marzo, Tiziano Renzi e Laura Bovoli, ritenuti amministratori di fatto, per la procura avrebbero contribuito a cagionare il dissesto della società facendo figurare, nel bilancio di esercizio 2017 presentato all'assemblea dei soci nel giugno 2018, crediti per fatture da emettere, in realtà inesistenti, per un importo di oltre 370mila euro, in modo da mascherare le perdite. Per questo, oltre ai genitori dell'ex premier, sono indagati il presidente del cda Marmodiv Giuseppe Mincuzzi e Daniele Giorgio, amministratore di fatto della coop dal 15 marzo 2018. Sempre in base a quanto accertato dalla procura, durante la procedura pre-fallimentare Tiziano Renzi, con l'aiuto di Mariano Massone e Giuseppe Mincuzzi, avrebbe stipulato un contratto di cessione di ramo d'azienda della Marmodiv alla società Dmp Italia - il cui titolare Massimiliano Di Palma figura tra gli indagati - al quale però non fu mai dato seguito, ritardando in questo modo la dichiarazione di fallimento della società. Sempre secondo quanto emerso, sarebbero decine le fatture per operazioni inesistenti emesse nei confronti della Marmodiv al fine di far figurare costi fittizi e permettere alla cooperativa di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto. La stessa Marmodiv inoltre sarebbe stata impiegata per emettere fatture per operazioni in parte inesistenti nei confronti della Eventi 6, società riconducibile alla famiglia Renzi. "La conclusione delle indagini, oggi notificata alla difesa, era un atto ampiamente atteso" hanno dichiarato Federico Bagattini e Lorenzo Pellegrini, difensori di Tiziano Renzi e Laura Bovoli, "L'avviso infatti riguarda il procedimento rispetto al quale la procura fiorentina a suo tempo aveva chiesto gli arresti domiciliari, misura poi annullata dall'ordinanza del tribunale del riesame lo scorso marzo - aggiungono i legali dei Renzi -. A valle dell'attento studio delle carte, ed in particolare della posizione inerente la società cooperativa Marmodiv, verrà predisposta la linea difensiva". "Vale la pena di evidenziare, infatti - hanno sottolineato gli avvocati - che il fallimento non riguarda una società dei Renzi ma una cooperativa esterna per la quale la procura ipotizza, per periodi circoscritti, una ingerenza nella gestione: ipotesi totalmente infondata Lo scorso 7 ottobre i coniugi Renzi sono stati condannati a un anno e nove mesi, con sospensione condizionale della pena, al termine del processo che li vedeva imputati per false fatture con l'imprenditore Luigi D'Agostino, accusato anche di truffa.
Giacomo Amadori per ''la Verità'' il 27 ottobre 2019. Era da poco passata l' ora di pranzo del 7 dicembre del 2017, il giorno di Sant' Ambrogio, quando venne attivata la prepagata intestata a Festus Edu, trentacinquenne nigeriano residente a Montevarchi. Alla Sim era abbinato il numero 3391904115. L' uomo all' epoca lavorava per la cooperativa Marmodiv di Firenze, i cui amministratori di fatto secondo la Procura del capoluogo toscano erano Tiziano Renzi e Laura Bovoli, i genitori dell' ex premier Matteo. Come ha raccontato lui stesso alla Verità, Festus era stato assunto su raccomandazione del babbo e per questo gli era estremamente riconoscente. Anche perché, oltre a distribuire volantini, arrotondava con alcuni lavoretti (per esempio di giardinaggio) nella villa dei genitori. E così, quando Carlo Ravasio, storico dipendente dei Renzi, chiese all' extracomunitario di mostrare i suoi documenti in un negozio di telefonia di Pontassieve, non ebbe nulla da obiettare. Peccato che a partire dal 7 dicembre e nei giorni immediatamente successivi la scheda finì nelle mani di Renzi senior che la utilizzò per mandare sms a uno dei suoi attuali coindagati proprio per il crac della Marmodiv, quel Mariano Massone che, un anno prima, nel 2016, era stato condannato per la bancarotta della Chil post, mentre Tiziano per lo stesso fallimento era stato prosciolto. Adesso la Procura di Firenze ritiene quei messaggi sospetti, e non solo per le modalità di invio, ma anche per il loro contenuto, tanto che sono finiti in un fascicolo per traffico di influenze illecite aperto a carico del babbo. Ma perché il 7 dicembre 2017 viene chiesto a Festus Edu di intestarsi la scheda? Non è escluso che un po' sia anche colpa nostra. Il 5 ottobre 2017, i finanzieri perquisiscono la Marmodiv e acquisiscono documenti negli uffici della Eventi 6, la ditta della famiglia Renzi. L'indagine parte dal crac della Delivery Italia service, cooperativa aperta da persone di fiducia del babbo. Sempre il 5 ottobre, il procuratore aggiunto Luca Turco chiede la consegna di due fatture, le stesse per la cui emissione lo scorso 7 ottobre i due genitori sono stati condannati in primo grado a 1 anno e 9 mesi di carcere. L'1 novembre 2017, il nostro giornale pubblica un articolo che svela come le perquisizioni del mese precedente abbiano un preciso obiettivo: «Altre due inchieste inseguono babbo Renzi. La Procura di Firenze indaga per bancarotta e false fatturazioni. In confronto, il caso Consip è uno scherzo». L' 11 novembre, altra esclusiva: «È indagata persino la madre di Renzi». Sempre La Verità, il 6 novembre del 2016, esattamente un anno prima rispetto agli scoop di cui vi stiamo parlando, aveva raccontato in anteprima che a Napoli era partita l' inchiesta Consip. Il 5 dicembre erano iniziate le intercettazioni e il 7 dicembre, curiosamente sempre nel giorno di Sant' Ambrogio, un altro amico del babbo, Roberto Bargilli, aveva telefonato a un coindagato di Tiziano, tale Carlo Russo, dicendogli: «Scusami ti telefonavo per conto di babbo, mi ha detto di dirgli di non chiamarlo e di non mandargli messaggi». Ma le contromisure anti intercettazioni nel 2017, se i sospetti degli inquirenti saranno confermati, diventano più sofisticate e puntano sull' utilizzo di schede registrate a nome di insospettabili extracomunitari. Resta da scoprire che cosa abbia scritto Tiziano Renzi a Mariano Massone con la tessera intestata a Festus Edu. Abbiamo provato a chiederlo allo stesso Massone, arrestato il 18 febbraio insieme con i due genitori con l' accusa di bancarotta. Il quarantottenne genovese sostiene di avere pochi ricordi: «Non so che cosa contengano quegli sms. Io di certo non sono uno che cancella quello che scrive. Sui miei cellulari di messaggi con Tiziano ne avranno trovati a centinaia. Ma non mi interessa. Ho dato ai finanzieri tutto: due telefonini, il pc, l' hard disk esterno. Che si prendessero tutto, che si leggessero tutto. Tanto di cose strane che posso aver fatto per avere un vantaggio per me non ne sono successe». Massone oggi vive a Campoligure, in provincia di Genova. Da qualche giorno ha finito di scontare la misura restrittiva dell' obbligo di dimora e non vuole sapere più nulla di Tiziano Renzi: «Non lo sento e non lo vedo da tanto tempo, non ho nessuna intenzione di sentirlo e di vederlo, non me ne frega niente di lui. Dopo la vicenda di febbraio mi sono proprio rotto». Anche perché dagli affari in comune ritiene di aver ricavato solo guai. Suo padre Gian Franco, persona perbene, a cui lui e Renzi senior avevano intestato la fallita Chil post, è morto ad aprile. «La cosa che mi ha fatto incazzare di più di Tiziano è che non mi ha mandato neanche un telegramma per mio papà, non ti dico una telefonata, manco una lettera», ci confessa Massone. Mentre il genitore era in ospedale, il figlio è rimasto ai domiciliari per quasi tre settimane, senza neppure poter vedere i propri figli. In totale isolamento. «Io non potevo neanche andare a trovare mio padre e Tiziano (ai domiciliari pure lui, ndr) faceva avanti e indietro, incontrava chi voleva». Secondo alcune indiscrezioni, Renzi senior con la tessera del nigeriano avrebbe discusso con Massone di un grosso business. «Magari non me ne sono accorto... La usava solo con me questa Sim? Ribadisco io di affari con lui tra il 2017 e il 2018, tali da far scattare un' accusa di traffico di influenze, non ne ricordo» continua Mariano. «L' unica cosa che è assodata e che non posso negare è che gli ho presentato Daniele Goglio». Vale a dire l' ultimo amministratore di fatto della Marmodiv, l' uomo che avrebbe sottratto all' azienda 278.000 euro, dandole il colpo di grazia. Dopo quel crac, Festus, il 27 aprile scorso ha iniziato a percepire l' indennità di disoccupazione. Il giorno successivo ha cessato di funzionare la scheda 3391904115.
Giacomo Amadori per “la Verità” il 10 dicembre 2019. Mentre la Procura di Firenze sta investigando a pieno regime sugli affari del Giglio magico e sui crac aziendali dei genitori di Matteo Renzi, aumentano gli interrogativi sull' archiviazione a Genova di Tiziano Renzi dall'accusa di concorso nella bancarotta fraudolenta della Chil post srl. Il proscioglimento arrivò nel luglio 2016, quando il figlio era ancora a Palazzo Chigi. Da allora gli uomini della Guardia di finanza, coordinati da due diverse Procure, quelle di Cuneo e Firenze, hanno messo in discussione l' assunto alla base del proscioglimento e cioè che a partire dall' ottobre 2010 Renzi senior avesse tagliato i ponti con la Chil post, fallita nel 2013 e di cui era stato proprietario sino a nove anni fa. Ufficialmente l' aveva ceduta al pensionato Gianfranco Massone, prestanome del figlio Mariano. Quest' ultimo nel novembre del 2016 ha patteggiato 26 mesi di reclusione per il crac della Chil post (un procedimento in cui non ha mai reso dichiarazioni, né fatto chiamate di correo). Appena qualche mese dopo, nel 2017, Massone junior e i coniugi Renzi sono stati iscritti sul registro degli indagati per la bancarotta di una coop fiorentina. Nel fascicolo sono poi entrati altri due crac e nel febbraio del 2019 i tre sono stati arrestati. Durante le perquisizioni i finanzieri, sul pc di Mariano, hanno recuperato una mail destinata a Tiziano datata 28 novembre 2017, in cui si legge una frase che apre un mondo: «Non entro approfonditamente nella vicenda Chil post perché io posso capire quanto ti abbia fatto male, ma spero che tu sia ben consapevole che chi ha fatto fallire la Chil post, a Genova (purtroppo per me, meno male per te, ma sono contento così) non è mai stato nemmeno indagato e in questi anni mi hai ferito/umiliato/asfaltato/sminuzzato quando solo te lo sentivo nominare e anche qui c' è poco da aggiungere, se non che in questa vicenda, ho solo evidenti e granitiche certezze, che spero per te rimangano solo mie». Il mancato indagato è Mirko Provenzano, per anni stretto collaboratore dei Renzi con la sua Direkta Srl: per il fallimento della sua ditta ha patteggiato 20 mesi di carcere, mentre Laura Bovoli è attualmente alla sbarra per il concorso nel default. Nel 2011, su indicazione dei Renzi, la Chil post di Massone junior aveva trasferito alla Direkta un sostanzioso appalto per la distribuzione della posta non indirizzata del valore di 500.000 euro l' anno. In un' annotazione del luglio 2017, recentemente depositata dalla Procura di Firenze, le Fiamme gialle sostengono che i rapporti tra le aziende di Provenzano e della compagna Erika Conterno e la Chil post sarebbero stati mediati dai Renzi, almeno sino al 2014. E pensare che il pm genovese Marco Airoldi, aveva chiesto e ottenuto il proscioglimento di babbo Renzi, sostenendo che la Chil promozioni (oggi Eventi 6) della famiglia del fu Rottamatore «non ha successivamente (alla cessione del 2010, ndr) intrattenuto rapporti con le società di Massone». In realtà, come detto, Tiziano e Mariano hanno continuato a fare affari insieme, tanto da finire ai domiciliari nel febbraio scorso nell' ambito dello stesso procedimento. Ma torniamo alle conclusioni contenute nell' annotazione e alla presunta interferenza dei Renzi nella gestione della Chil post dopo il 2010. Nell' informativa si legge: «Come risulta dagli accertamenti bancari e dall' analisi forense eseguita sui telefoni cellulari in uso a Provenzano Mirko Maria, Renzi Tiziano e Bovoli Laura avrebbero continuato a utilizzare i conti correnti e le risorse finanziarie della Chil post anche dopo la cessione del capitale sociale a Gian Franco Massone avvenuta il 14 ottobre 2010». Per i finanzieri risulta infatti che l'incasso di tre assegni, per un importo complessivo di 221.000 euro, sia stato concordato da Provenzano e Conterno direttamente con Tiziano Renzi, mentre un ulteriore assegno emesso dalla Direkta «è stato formalmente presentato all' incasso da Laura Bovoli». Ma per le Fiamme gialle anche la «stessa cessione del contratto di distribuzione della posta "non indirizzata" da Chil post a Direkta» sarebbe «parte di una più ampia rete di rapporti».
Le Fiamme gialle citano anche altri elementi di prova. Per esempio le mail intercorse durante la stesura dei bilanci tra Laura Bovoli, Erika Conterno e Lilian Mammoliti, citata nelle cronache recenti per il suo coinvolgimento nelle inchieste sui finanziamenti alla fondazione di Matteo Renzi. «Conterno e Mammoliti per ottenere informazioni in merito ai rapporti commerciali oggetto dei pagamenti (anno 2011) riferiti al fornitore Chil post», annotano i finanzieri, «non si rivolgono all' amministratore unico Antonello Gabelli o al proprietario della società Gianfranco Massone, bensì a Laura Bovoli». Per gli investigatori la mamma dell' ex premier «ancora nell' anno 2014, sarebbe stata in possesso (quantomeno in parte) della contabilità e della documentazione bancaria della Chil post». Carte che la signora avrebbe «materialmente fornito» alla Conterno, la quale le avrebbe utilizzate per «alterare la contabilità da presentare al curatore». Non basta. Nell' annotazione si fa presente che sempre la Conterno «ha contabilizzato i pagamenti fatti alla Eventi 6 sul mastrino Chil post» e che questo «lascia desumere che per la stessa le due società appartenevano al medesimo proprietario, tanto da far confusione al momento della registrazione». La «commistione di interessi» tra la Chil (la ditta originaria dei Renzi), la Chil post (ceduta a Massone) e la Chil promozioni (Eventi 6) è dedotto dalle Fiamme gialle anche dall' interrogatorio reso da Provenzano a Cuneo nell' ottobre 2015, laddove afferma: «Tutte e tre dette società sono riconducibili a Tiziano Renzi». Ma come ha scritto Massone nella sua lettera, per fortuna del babbo di Rignano sull' Arno, l'imprenditore cuneese a Genova non è mai stato indagato. E, per la verità. neppure ascoltato in veste di testimone.
· E dalla fattoria di Orwell sparisce Stalin.
E dalla fattoria di Orwell sparisce Stalin. Alessandro Gnocchi, Martedì 18/06/2019, su Il Giornale. È appena arrivata in libreria un'edizione de La fattoria degli animali di George Orwell illustrata dal brasiliano Odyr. Fu il primo successo dello scrittore socialista e rivoluzionario. Era una fiaba, o almeno sembrava una fiaba, ma incuteva una crescente paura nei lettori adulti, figuriamoci nei bambini. La società nata dalla ribellione degli animali si direbbe libera ma sprofonda nella disuguaglianza e nella crudeltà. Famosa la frase che fotografa l'ipocrisia di un sistema che opprime con la scusa della giustizia sociale: «Tutti gli animali sono uguali ma alcuni animali sono più uguali degli altri». Il compagno Napoleone, capo della fazione dei maiali, impone la sua leadership e premia la casta dei burocrati che zelanti eseguono i suoi ordini. Dietro alla favola, c'è la tragedia dello stalinismo. Il dittatore georgiano domina col terrore e ha tradito tutte le speranze di una reale liberazione del popolo. Stalin è una sciagura che trascinerà nel fango ogni tipo di socialismo, incluso quello libertario sognato da Orwell stesso. Naturalmente il genio dello scrittore fa sì che La fattoria degli animali possa essere letta come una condanna di ogni sopraffazione esercitata dallo Stato in nome della uguaglianza. Questo però non autorizza a omettere il motivo storico per cui fu scritto il libro. Ma è proprio quello che fa questa edizione Mondadori. Negli apparati (parchi) che introducono la novella non ci sono le parole «comunista», «socialista», «Stalin», «stalinismo». Si parla di «concetto utopistico di uguaglianza» e di «classe di burocrati» che prende il sopravvento sulle bestie più docili. Conclusione, La fattoria degli animali è «acuta satira orwelliana contro il totalitarismo». Quale totalitarismo? Comunismo, nazismo... Non è dato sapere. Peccato non sia proprio un dettaglio. Orwell aveva conosciuto le meraviglie dello stalinismo in Catalogna, dove i sovietici erano impegnati a spazzare via anche i propri alleati non in linea con le richieste di Mosca. In Stalin vedeva tutti i pericoli del presente (La fattoria degli animali) e anche quelli del futuro (1984). Nel 1947, La fattoria degli animali viene tradotto in ucraino. L'edizione è distribuita tra gli ucraini che vivono nei centri di raccolta gestiti da inglesi e americani subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Orwell non volle alcun compenso, in seguito pagherà di tasca sua la traduzione in russo indirizzata soprattutto ai soldati dell'Armata rossa. Orwell volle donare anche una prefazione all'edizione ucraina. In quella pagina spiega la sua posizione nei confronti del regime sovietico: «Era della massima importanza per me che gli europei vedessero il regime sovietico per quello che è. A partire dal 1930 non ho trovato prove che l'Unione Sovietica facesse progressi lungo la via che conduce al vero socialismo. Al contrario, ero sbalordito dai chiari segni della sua trasformazione in una società gerarchica». Ed ecco come nacque La fattoria degli animali: «Al ritorno dalla Spagna, pensai di spiegare il mito sovietico in una storia che fosse comprensibile a chiunque e potesse essere tradotta senza difficoltà». Secondo Orwell, la Gran Bretagna non è una democrazia pienamente realizzata. Eppure offre vantaggi decisivi rispetto alla Russia sovietica: «È un paese vissuto per centinaia di anni senza un vero conflitto; le leggi sono relativamente giuste; le statistiche e le notizie sono attendibili; e soprattutto la minoranza non corre il pericolo di finire in campi di detenzione». Proprio per questo, ai cittadini dell'Europa occidentale riesce difficile comprendere cosa stia accadendo in Russia: «campi di concentramento; deportazioni di massa; arresti senza processo; censura della stampa». Sembra tutto quanto incredibile e per questo si accettano le spregevoli menzogne della propaganda sovietica.
Ecco, non si pretende da una graphic novel una lezione di Storia, ma neppure l'omissione di «dettagli» fondamentali per la comprensione minima del testo.
· I russi amano ancora Stalin e continuano a celebrarlo.
I bambini randagi dell’Urss di Stalin. Pubblicato lunedì, 19 agosto 2019 da Corrado Stajano su Corriere.it. Sembra che nelle sue pagine racchiuda tutti i mali del mondo questo libro dello psicologo e slavista Luciano Mecacci pubblicato da Adelphi, Besprizornye. Bambini randagi nella Russia sovietica (1917-1935). Sarebbero stati sette milioni, dalla Prima guerra mondiale alla vigilia della Seconda, gli adolescenti senza famiglia vaganti nell’immensa Madre Russia alla ricerca di qualcosa da mangiare, di un posto dove dormire, nelle stazioni, sui tetti dei treni, sotto i balconi delle case, nei sotterranei, nei gabinetti, abbracciati ai tubi che emanano un po’ di calore, dentro i cassonetti della spazzatura, esperti nel fuggire dai centri di accoglienza, dagli orfanotrofi, dai riformatori, dalle prigioni, dai Lager. «Besprizornye. Bambini randagi nella Russia sovietica» (1917-1935) di Luciano Mecacci è pubblicato da Adelphi (con 35 fotografie a colori e in bianco e nero, pp. 274, euro 22)La storia dolorosa dei ragazzi di strada, vagabondi, teppisti, vittime della Rivoluzione, della guerra civile, della carestia restò tabù fino agli anni staliniani — e successivi — che negavano anche l’esistenza di quei milioni di morti di fame e di freddo. In un mondo rinato doveva contare allora soltanto la positività del regime sovietico. Non poteva — era un dogma — esistere un esercito di straccioni e di delinquenti, maestri, per vivere, dei traffici più loschi, dal furto alla rapina, dalla prostituzione al commercio di droga, al delitto: il partito ormai aveva risanato l’Urss. Mecacci ha studiato e documentato con sommo rigore quella storia infame, ha scovato fonti sconosciute, romanzi rispuntati da chissà dove, opuscoli, articoli di giornale, testimonianze, memorie, citazioni, fatti della vita. Ne è nato un libro atroce, un’antologia dell’orrore, un «romanzo» nero. Chi erano i besprizornye? Lo scrittore si è proposto di spiegarlo anche «attraverso i loro pensieri, il loro linguaggio, le loro emozioni e i loro affetti e a questo scopo si è dato ampio spazio alle testimonianze dei protagonisti, così come ai racconti e alle relazioni degli scrittori russi o stranieri negli anni Venti e nei primi anni Trenta». Si potrebbe ormai celebrare il centenario del besprizornye. Non è certo una novità il fenomeno, ne hanno parlato in tanti, scrittori e giornalisti, più o meno illustri, minimizzatori di quella piaga o indignati accusatori del costume di vita di un paese che proponeva se stesso come modello al mondo. Joseph Roth raccontò nel 1926 di quei bambini coperti di stracci «che vivono di aria e di sventura». Chagall, il grande pittore, nel 1931 gli insegnava a dipingere: «Mi si stringe il cuore quando vi ricordo». Walter Benjamin, in quegli stessi anni, fu scettico sulla possibilità di educarli, di salvarli. Dante Corneli, a lungo in un lager, accusato di trotskismo, era esterrefatto da quei «branchi di piccoli animali», Nadežda Krupskaja, la pedagogista moglie di Lenin, attribuiva ogni responsabilità alla politica zarista e borghese del passato. E André Gide, nel suo viaggio in Russia nel 1936 restò esterrefatto: «Speravo proprio di non vedere più besprizorni». Aleksandr Solženitsyn li dipinse nelle terribili pagine di Arcipelago Gulag, Il’ja Erenburg li definì «figli di nessuno» e anche «figli del cuculo», abbandonati da tutti come fa il cuculo quando depone le uova, nella speranza che giunga qualcuno a salvarli. Scrissero dei besprizornye Brodskij, «Storpi sono, gobbi/ affamati, mezzi nudi», e un giornalista, George Popoff: «I racconti sulle madri che uccidono i loro piccoli per mangiarli non appartengono al regno delle favole». Anche Simenon, nel 1933, scrisse di quei ragazzi nel suo romanzo Le finestre di fronte, protagonista una bambina ladra e prostituta, e uno psichiatra, Vladimir Bechterev fece tra il 1919 e il 1920 una terrificante ricerca sulla prostituzione di mille bambine e ragazze tra gli otto e i diciassette anni internate negli orfanotrofi e nelle case di correzione. Raccontarono di quei ragazzi Majakovskij, Bulgakov, Pasternak, Esenin, Isaak Babel, Šalamov nei suoi Racconti di Kolyma. Una macabra storia lunga decenni. Dovrebbero doverosamente far da chiusa a questo libro che fa male al cuore i versi di Aleksandr Blok: «Quelli che sono nati in tempi oscuri/ non rammentano il proprio cammino./ Noi — figli dei terribili anni della Russia —/ non potremo scordarci di nulla (...)».È davvero così? Perché il male di vivere, in tempi vicini all’oggi, in continenti difformi, seguita a trionfare, sotto diverse forme — le guerre, la violenza, la disuguaglianza, l’ingiustizia — e l’inferno, come scrivono i poeti, sembra davvero troppo spesso certo.
I russi amano ancora Stalin e continuano a celebrarlo. Gli hanno dedicato 120 statue negli ultimi 10 anni e il 70% degli abitanti lo considera un leader positivo. Angelo Allegri, Venerdì 16/08/2019, su Il Giornale. L'ultimo monumento in suo onore è stato inaugurato a Novosibirsk nel mese di maggio. Del 2017 è invece il busto sistemato nel viale dei Governanti, in una zona centralissima di Mosca. A Jalta, nel 2015, subito dopo l'annessione della Crimea, è stato immortalato con Roosevelt e Churchill in un grande complesso scultoreo nei luoghi della famosa conferenza. Iosif Vissarionovic Dugavili, detto Stalin, è considerato uno dei grandi criminali della storia. Ma i russi la pensano diversamente, o almeno così pare: negli ultimi dieci anni in tutto il Paese gli sono state dedicate oltre 120 statue. È la dimostrazione concreta del fatto che l'attaccamento al massacratore dei kulaki non solo non viene meno, ma che anzi continua a crescere. Nell'aprile di quest'anno la società demoscopica Levada ha rilevato la sua popolarità tra gli abitanti dell'ex Unione Sovietica: il 51% degli interpellati ha detto di averne un buona opinione «come persona», il 70% ha dichiarato che il suo ruolo di governo è stato «positivo» per la Russia. Risultati record, visto che nel 2016 ad avere una buona opinione politica del «piccolo padre» era solo (si fa per dire) il 54%. Il gradimento è in aumento costante da almeno una ventina d'anni e la riscoperta del dittatore è da attribuire in toto al periodo post-comunista. A differenza di Lenin, la cui figura è sempre rimasta più o meno centrale nel Pantheon sovietico, con la «destalinizzazione» il dittatore georgiano sparì dai radar della propaganda; dopo il congresso del 1956 in cui Krusciov ne denunciò i crimini, la sua persona rimase per decenni uno dei più radicati tabù della vita pubblica. Le cose cambiarono dopo la caduta dell'Unione Sovietica negli anni Novanta del secolo scorso; nel 2005 in occasione del sessantesimo anniversario dalla fine della «grande guerra patriottica», si tornò per la prima volta a sottolineare con forza il suo ruolo di guida nella battaglia per la sopravvivenza del Paese. Negli anni successivi le linee guida governative per l'insegnamento della storia avanzarono un passo dopo l'altro in questa direzione. Dal punto di vista simbolico le cronache segnalano alcuni passaggi chiave di questa rivalutazione: nel 2009, per esempio, in una stazione centrale del metrò moscovita vennero restaurate alcune strofe del vecchio inno sovietico in modo che fossero ben leggibili: «Stalin ci ha cresciuto insegnandoci la lealtà verso il popolo. È lui ad averci spinto al lavoro e all'eroismo». Più in generale l'immagine del dittatore, immortalata da innumerevoli quadri in puro realismo socialista, i baffoni e il sorriso bonario da vecchio zio, sono diventati un elemento immancabile dell'iconografia della nuova Russia. Già qualche anno fa, in un libro di qualche successo, Koba il terribile, lo scrittore inglese Martin Amis si interrogò sulla presentabilità pubblica di Stalin: lui e Hitler sono autori di crimini mostruosi, del tutto paragonabili tra loro, diceva Amis. Eppure nessuno si sognerebbe di trattare l'icona del dittatore tedesco come si fa per quella del georgiano, utilizzata per manifesti, etichette, rievocazioni nostalgiche e diventata in qualche misura un simbolo culturale pop. L'osservazione era indirizzata a una certa opinione pubblica occidentale, liberal e benpensante. In Russia, però, c'è qualche cosa di più e di diverso. I concittadini del dittatore non rimpiangono, come ovvio, gulag e sanguinaria politica di violenza, ma, secondo la sociologa Ella Panejach, vedono in Stalin un esempio di leadership efficace, di lotta alla corruzione e di uno Stato sociale che si prendeva cura dei più deboli. A dare una mano alla (ri)costruzione del mito è senza dubbio Vladimir Putin. Il presidente non manca di rendere periodico omaggio alle vittime delle repressioni e delle purghe. Ma quando si tratta di parlare alla pancia del Paese i toni (e i fatti) sono diversi. Il già citato busto sistemato nel centro di Mosca (e di cui il governo ha detto di non essersi interessato) è stato sistemato di fronte al Museo delle uniformi a cura dell'Associazione di storia militare, fondata da Putin e il cui presidente è il ministro della Cultura. L'ultimo film dedicato al leader georgiano (in Italia è uscito con il titolo: Morto Stalin se ne fa un altro) era una grottesca presa in giro della paranoia del dittatore e della pusillanimità della sua cricca. Girato in Inghilterra nel 2017, ha avuto successo in tutto il mondo. Non in Russia, però, visto che il governo gli ha negato la licenza di distribuzione. L'unico cinema che appellandosi alla libertà di manifestazione del pensiero, ha sfidato la censura, è stato preso d'assalto dalla polizia il primo giorno di programmazione. Per Putin la nostalgia staliniana (è stato lui a ripristinare il vecchio inno voluto dal dittatore, sia pure con altre parole) ha un valore in termini di tecnica del potere: gli serve per recuperare il senso di continuità della potenza russa e per sottolineare la presenza (ancora oggi) di potenti nemici esterni come quelli che il Paese sconfisse nella seconda guerra mondiale. «L'inutile demonizzazione di Stalin» ha detto al regista Oliver Stone che lo intervistava, «serve solo ad attaccare la Russia».
Da Mussolini a Stalin. Quando la dittatura è un "bellissimo" film...Uno studio sul rapporto tra controllo delle masse e storia del cinema nei regimi del Novecento. Claudio Siniscalchi, Martedì 16/07/2019, su Il Giornale. Lo scrittore russo Maksim Gor'kij è uno dei primi spettatori a raccontare, nel 1896, cosa si prova in una sala buia davanti allo scorrimento delle immagini: «sono stato ieri nel regno delle ombre». Resta però scettico sul valore artistico del cinematografo. La nuova invenzione conduce lo spettatore per mano «nel regno delle ombre», lo rende dipendente dalle immagini, gli «logora i nervi», ottunde la sua sensibilità. Quando Lenin prende il potere l'unico sostegno autentico al nuovo corso arriva dal frastagliato universo avanguardista. Fra gli scrittori famosi il solo Gor'kij collabora con i bolscevichi, spesso però con toni assai critici, che Lenin preferisce ignorare. Sul cinema Lenin e Gor'kij hanno idee abbastanza simili. Ma Lenin è un tattico. Piega il pensiero alle esigenze storiche. Infatti, il fido collaboratore Anatolij Lunacharskij che a differenza del capo credeva senza riserve nel potere educativo e artistico del cinema riporta un suo giudizio che è diventato celebre: il cinema è «la più importante forma d'arte dell'epoca contemporanea». La «settima arte» dunque, per il leader bolscevico, rappresenta uno strumento decisivo ai fini della comunicazione nella moderna società, oltreché un'arma efficace da utilizzare nella contesa ideologica. Alle proiezioni ufficiali Lenin come ricorda la moglie Nadeda Krupskaja era piuttosto impaziente e non vedeva l'ora di tornare a casa per immergersi nella lettura. Invece Lev Trockij è di altro avviso: ritiene il cinema «il miglior strumento della propaganda», in grado di contrastare efficacemente il monopolio anestetico della vodka sulla popolazione. Lo scrive in un articolo apparso sulla Pravda il 12 luglio 1924. Il cinema per Trockij «compete non soltanto con la taverna ma anche con la chiesa. E questa competizione può rivelarsi fatale per la chiesa se noi realizzeremo la separazione della chiesa dallo Stato socialista fondendo lo Stato socialista con il cinema». Anche Stalin, grande appassionato di cinema, sempre nel 1924 assegna al film la funzione di importante «strumento di agitazione delle masse». Quando prenderà il potere, senza più avversari, si servirà delle immagini di finzione per rendere popolare il suo «mito». Ricorrerà ad un sosia: Mikheil Gelovani. Gli piaceva molto la sua recitazione, soprattutto per l'interpretazione nell'eroico La caduta di Berlino (1949) di Michail Ciaureli. Alla fine della proiezione privata al Cremlino c'è chi lo vide con il fazzoletto in mano asciugarsi una lacrima. Sapeva anche come adulare o ammansire i registi indisciplinati. Al grande Sergej Ejzentejn dopo la visione di Alexandr Nevskij (1938), battendogli la mano sulla spalla gli disse: «dopo tutto, sei un buon bolscevico!». Lo fece sudare freddo quando nel 1946 lo convocò di notte al Cremlino per discutere dei difetti della seconda parte di Ivan il Terribile.
Questa e tante altre informazioni si trovano nel bel libro di Peter Demetz Diktatoren im Kino. Lenin - Mussolini - Hitler - Goebbels - Stalin (Paul Zsolnay Verlag, pagg. 254, euro 24). Demetz, nato a Praga nel 1922, è un germanista che ha insegnato a Yale, ha scritto di Kafka e D'Annunzio. In questo suo essenziale ma acuto ritratto del rapporto fra i dittatori e il cinema, evidenzia soprattutto un elemento: senza le immagini le dittature novecentesche avrebbero avuto un altro volto.
Adolf Hitler era un grande appassionato di cinema. Prima della guerra tutte le sere dopo cena, salvo impegni istituzionali, assiste ad una proiezione presso il Palazzo della Cancelleria a Berlino, o, quando è in vacanza, nella sala del ricevimento al Berghof. Il cinema per Hitler è una vera e propria «ossessione». Vede volentieri le comiche con Stan Laurel e Oliver Hardy. Il suo film preferito è Viva Villa! (1934), biografia di produzione americana dedicata al rivoluzionario messicano Pancho Villa, diretta da Jack Conway e Howard Hawks. Il Führer indica quali film vuole vedere. Appena si spengono le luci smette di parlare. L'universo cinematografico per Hitler si divide in tre categorie: i buoni film, i brutti film, i film la cui visione va interrotta in corso d'opera, anche dopo pochi minuti. Nella finzione delle immagini, ricorda il suo stretto collaboratore Otto Dietrich, «trovava quel contatto con il mondo umano che gli mancava completamente nella vita». Joseph Goebbels il cinema lo ha amato durante gli anni di Weimar, e condotto con mano ferma durante il Terzo Reich. Si è guadagnato sul campo il titolo di «stallone di Babelsberg». Quando si tratta di assegnare il ruolo di una protagonista, l'ultima parola spetta a lui. Fatto incontestabile, che ha alimentato senza sosta una «vulgata» non rispecchiante la portata del suo operato. Rischia di mandare in frantumi la sua carriera per amore di un'attrice, la cecoslovacca Lída Baarová. Il ministro ha conosciuto la ragazza, ventunenne, nel 1936. I due non fanno nulla per nascondersi. Goebbels vorrebbe addirittura divorziare dalla moglie Magda. Hitler, loro testimone di nozze, da sempre venera Magda. Il Führer non approva il divorzio. L'attrice di fatto viene esiliata. I gusti cinematografici di Goebbels sono diversi da quelli di Hitler. Il suo film preferito è Via col vento (1939) di Victor Fleming. Il cinema che realizzava, spesso finanziandolo senza riserve, doveva essere di ottima qualità, necessaria a celare la propaganda, che doveva rimanere impercettibile. Anche durante la guerra il suo modello di riferimento è un film statunitense: La signora Miniver (1942) di William Wyler. Annota nel diario: «gli americani hanno un modo magistrale nel trasformare dettagli marginali in autentici ornamenti artistici. Mai una sola volta i personaggi manifestano la loro collera contro la Germania. Mostrerò questo film ai nostri produttori».
Il cinema è la modernità. L'avanguardia futurista idolatra il cinema, innalzandolo ad arte nuova, modernissima. E il totalitarismo è il frutto avvelenato della modernità. Mussolini, nella costruzione dell'uomo nuovo fascista, assegna al cinema la funzione di «arma più forte». A due uomini fidati viene dato il compito di organizzare il settore: Luciano De Feo per ciò che riguarda la documentaristica e Luigi Freddi per l'industria del divertimento. Il Duce si riconosce nel documentario nei panni dell'eclettico sportivo che cavalca, nuota, scia e tira calci al pallone. Si riconosce un po' meno in Annibale Ninchi di Scipione l'Africano (1937) di Carmine Gallone, kolossal fascista che fa rivivere gli antichi fasti romani. Insomma, per concludere, i dittatori al cinema hanno chiesto e dato molto. Hanno capito che più della radio, del teatro e della letteratura, le immagini sarebbero state il vero perno per mantenere vivo il consenso popolare.
· Lenin fu il vero padre del Gulag.
Resta la via al padre dei Gulag: il Pd non vuole cancellare Lenin. La richiesta a Bologna: cancellare la Viale Lenin dopo la risoluzione Ue su comunismo e nazismo. Ma l'assessore Pd: "La risoluzione". Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 08/11/2019 su Il Giornale. La richiesta era stata presentata un mese fa perché "nel 2019 in nessuna parte del mondo dovrebbe essere intitolata una via a un dittatore". Principio validissimo, ma a quanto pare applicabile solo ad alcuni. A Bologna infatti la via dedicata a Vladimir Il'ič Ul’janov Lenin non si tocca. Nonostante il voto del Parlamento europeo che equipara nazismo e comunismo. La denominazione risale al 18 aprile del 1970 ed è "merito" della giunta comunale guidata dall’ex sindaco Guido Fanti. Da allora il padre del marxismo-leninismo campeggia tra le vie cittadine, senza possibilità di revisione. Nel 2012 ci provò un privato cittadino, inutilmente. La commissione toponomastica rigettò la richiesta all’unanimità, giustificando la decisione con il rischio di perdere "la storicità dei luoghi" e di comportare "disagi per i cittadini residenti e per le attività" commerciali. Caso chiuso? Non proprio. Perché Umberto La Morgia, consigliere a Casalecchio di Reno, e Riccardo Nucci, eletto a San Venanzo, hanno provato a smuovere le coscienze di un’Emilia-Romagna "costellata in molte delle principale città da vie intitolate a Lenin, Tito e altri dittatori asiatici". I due consiglieri ritengono “non consona” nel 2019 la permanenza "di una via dedicata a un dittatore responsabile della sofferenza e morte di milioni di persone". A supporto della loro posizione portano la risoluzione del Parlamento Ue sulla comparazione tra nazismo e comunismo, in particolare il punto 18 in cui si stigmatizza "la permanenza" di monumenti e luoghi commemorativi "che esaltano regimi totalitari, il che spiana la strada alla distorsione dei fatti storici circa le conseguenze della Seconda guerra mondiale". Direte: in occasione dei 30 anni dalla caduta del muro di Berlino ci avranno riflettuto su. Magari valutando che Lenin tutto sommato è il padre biologico di quel regime che ha soffocato l’indipendenza e la libertà di tanti popoli. Invece no. Vladimir non si tocca. A scriverlo nero su bianco è l’assessore ai Lavori pubblici e presidente della Commissione Toponomastica, Virginia Gieri. Cattolica e piddina, l’assessore condivide i ragionamenti sui disagi per i cittadini in caso di modifiche ai nomi delle vie. Ma si spinge anche oltre, aggiungendo un'analisi sul quel voto degli europarlamentari che "ha diviso le forze politiche" a Bruxelles e "nei singoli stati nazionali". "Si può dire - spiega - che, ancor prima di essere stata condivisa, non solo nella politica, ma anche nell’opinione pubblica, il testo di questa risoluzione ha generato smarrimento e disorientamento, suggerendo quasi che la storia si possa scrivere all’interno di luoghi come un Parlamento Europeo". Esatto: smarrimento e disorientamento. Capite? "Prendiamo atto del fatto che non solo la sinistra lascia intendere che esistono dittature buone e dittature cattive, ma anche che il ‘ce lo chiede l’Europa’ è valido solo quando l’Ue dice ciò che è funzionale alla narrazione dei rossi. - attacca La Morgia - Le stragi e le ferite inflitte dal comunismo sono di una gravità che andrebbe riconosciuta a prescindere dalle appartenenze partitiche. Se la nostra identità culturale è antifascista, dovrebbe essere altresì anticomunista". Per la Gieri però la risoluzione Ue non può rappresentare "un elemento vincolante" per l’amministrazione. Dunque non c’è bisogno di mettere nel cassetto Viale Lenin. La pensa come David Sassoli, neo presidente dell’europarlamento, quando sostiene che "equiparazioni improprie minano la nostra identità” e che non bisogna “alimentare confusione tra chi fu vittima e chi carnefice". Eppure di carnefici il comunismo se ne intende eccome. Scriveva Stéphane Courtois nel capitolo introduttivo de Il libro nero del comunismo: "I fatti parlano chiaro e mostrano che i crimini commessi dai regimi comunisti riguardano circa 100 milioni di persone". Qualcuno potrebbe obiettare che sì, la risoluzione del Parlamento Ue invita a "sensibilizzare, effettuare valutazioni morali e condurre indagini giudiziarie" sui "crimini dello stalinismo e di altre dittature", senza però citare mai Lenin. Vero. Ma come scriveva Antonio Carioti sul Corriere, "quando Lenin venne colpito dal primo ictus (…) il regime bolscevico aveva già assunto le fattezze totalitarie che il suo allievo e successore Stalin avrebbe poi accentuato". Lenin fu il maestro di Stalin e vero padre dei Gulag, come denunciava Robert Conquest. Eppure in Italia, ancora oggi, è impossibile toglierlo dalla toponomastica.
Lenin fu il vero padre del Gulag. Pubblicato lunedì, 03 giugno 2019 da Antonio Carioti su Corriere.it. Karl Marx sosteneva che «l’emancipazione della classe lavoratrice deve essere opera dei lavoratori stessi». Ma il russo Vladimir Uljanov, noto con lo pseudonimo di Lenin, pur proclamandosi seguace fedele del filosofo tedesco, la pensava diversamente. Costretto a lasciare il suo Paese, era disgustato dalle tendenze riformiste crescenti nel movimento operaio internazionale. E si convinse che i lavoratori di propria iniziativa non avrebbero mai maturato un’autentica visione rivoluzionaria: destinati ad abbattere il capitalismo per instaurare un nuovo ordine fondato sull’eguaglianza, secondo la profezia di Marx, non erano tuttavia consapevoli della propria missione storica. La copertina della biografia di Lenin scritta da Victor SebestyenNell’opuscolo del 1902 Che fare?, l’opera in cui Lenin pose le basi della cultura politica comunista, si legge che «la moderna coscienza socialista può essere portata all’operaio solo dall’esterno». Quindi occorre creare un partito disciplinato di quadri dediti a questo compito, i «rivoluzionari di professione», per guidare i lavoratori nella lotta di classe. Su questa linea Lenin, ricorda Victor Sebestyen nella biografia in edicola da oggi con il «Corriere», non esitò a spezzare l’unità del Partito socialdemocratico russo, al Congresso in esilio del 1903, creando una propria corrente estremista (poi divenuta forza politica autonoma), i bolscevichi, contrapposta a quella moderata dei menscevichi. Lenin, il cui fratello maggiore Aleksandr era stato impiccato per aver cospirato contro lo zar, era mosso da una passione rivoluzionaria divorante, unita alla fede dogmatica nel trionfo del socialismo attraverso la soppressione della proprietà privata e del mercato. Per raggiungere tale obiettivo era disposto a tutto, anche a tentare la sorte in un Paese come la Russia, in teoria ancora troppo arretrato per collocarsi all’avanguardia sulla via del progresso. La Prima guerra mondiale gli offrì l’occasione propizia. Da una parte mandò in pezzi l’Internazionale socialista dominata dai gradualisti, poiché i partiti che ne facevano parte scelsero in genere di appoggiare i rispettivi governi nel conflitto. Dall’altra creò una generale assuefazione alla violenza e soprattutto mise alle corde l’Impero russo sotto i colpi della più moderna macchina bellica tedesca. Una situazione critica nella quale Lenin poté inserirsi con il proposito di «trasformare la guerra imperialista in guerra civile»: i proletari in divisa avrebbero dovuto volgere le armi contro i loro sfruttatori. Il crollo della monarchia all’inizio del 1917, con la Rivoluzione di febbraio, gettò la Russia nel caos. Il nuovo governo provvisorio avrebbe voluto proseguire la guerra, ma il Paese era esausto. E in quel frangente Lenin, tornato in patria con l’aiuto dei tedeschi, giocò d’azzardo con estrema abilità. Reclamò tutto il potere per i soviet, i consigli degli operai, dei contadini e dei soldati, ma in realtà la sua sfiducia nelle masse non venne mai meno: ne assecondò le pulsioni ribellistiche finché gli servirono per impadronirsi del governo con la Rivoluzione d’ottobre, poi non esitò a reprimerle. Quando i russi elessero un’Assemblea costituente in cui i bolscevichi erano in minoranza, Lenin la sciolse. E istituì subito la Ceka (futuro Kgb), organismo poliziesco incaricato di spargere il terrore fra gli oppositori. Aveva scritto che anche una cuoca avrebbe potuto dirigere lo Stato sotto il socialismo, ma nei fatti governò con il ferro e il fuoco. La «dittatura del proletariato», equivoco concetto formulato da Marx, non poteva che essere, nell’accezione di Lenin, la dittatura dei rivoluzionari di professione, cioè il potere assoluto del suo partito e della sua persona. Ne scaturì inevitabilmente un’atroce guerra civile, mentre l’espropriazione della borghesia e la messa al bando del mercato si traducevano nel disastro economico: per sfamare le città fu necessario attuare requisizioni forzate di generi alimentari nelle campagne, alle quali seguì, anche per ragioni climatiche, la terribile carestia del 1921-22. Quando Lenin venne colpito dal primo ictus, nel maggio 1922 (sarebbe morto un anno e mezzo dopo), il regime bolscevico aveva già assunto le fattezze totalitarie che il suo allievo e successore Stalin avrebbe poi accentuato. È fuorviante quindi giustificare i delitti del sistema sovietico adducendo gli ideali di giustizia a quali si richiamava verbalmente. La pretesa di possedere la verità sul corso della storia e l’idea titanica di dirigere l’intera società attraverso una pianificazione dettagliata dell’economia, annientando ogni iniziativa privata, sono vizi strutturali e congeniti del bolscevismo, che comportano una lotta spietata alla libertà umana. Il Gulag non è stato un caso o una deviazione, bensì la conseguenza logica della politica di Lenin. Tanto è vero che gli stessi effetti si sono prodotti sotto i regimi di matrice comunista a ogni latitudine. La Russia, che ne paga ancora le spese, non ha celebrato per nulla, due anni fa, il centenario della rivoluzione bolscevica. Molti lo hanno fatto invece in Occidente, al riparo di quel capitalismo liberale di cui godono i benefici, pur continuando a esecrarlo.
· Mao è per sempre.
Mao è per sempre. Christian Rocca per “la Stampa” il 6 giugno 2019. Nel 2024 la Cina comunista supererà i 74 anni di vita dell' Unione Sovietica e gli storici potrebbero ricordare la rivoluzione cinese dell' ottobre 1949 non solo come più longeva, ma anche come più influente di quella russa dell' ottobre del 1917, a maggior gloria dell' attuale Politburo di Pechino impegnato in una grandiosa operazione di soft e hard power nel continente asiatico, con ramificazioni in Africa e in Europa e 800 miliardi di euro di investimenti esteri, in uno scenario di sfida geopolitica con gli Stati Uniti per la supremazia economica, tecnologica e militare. La narrazione occidentale dell' ascesa cinese, da alcuni giudicata pericolosa e da altri un' opportunità, manca sempre di un tassello che invece è il cuore di un bel libro appena uscito in Gran Bretagna, e non ancora tradotto in italiano, scritto da Julia Lovell, professoressa di Cina moderna all' Università di Londra. Il libro si intitola Maoism - A global History (Vintage Publishing) Il maoismo è la dottrina politica che costituisce, con tutte le contraddizioni ideologiche riconosciute dallo stesso Mao, l' essenza della Cina popolare e del sistema comunista cinese di ieri e di oggi, oltre che una fonte di ispirazione globale senza confini e senza precedenti. Nel settembre del 1976, il quotidiano La Repubblica diede la notizia della morte del presidente cinese Mao Tse-tung con un titolo di prima pagina che a caratteri di scatola recitava così: «È morto il grande Mao». L' aggettivo «grande» non è esattamente il primo che viene in mente per descrivere un dittatore che, secondo le stime dello studioso olandese Frank Dikötter, un' autorità in materia di Cina, avrebbe causato la morte di 45 milioni di suoi concittadini. Nella mia libreria di casa c' è, esposta al modo di un oggetto pop, una copia del Libretto rosso di Mao, con splendida copertina vermiglio di vinile. Ovviamente non mostrerei mai il Mein Kampf di Hitler o qualcosa di Stalin, così come a nessun giornale sarebbe mai venuto in mente di affiancare l' aggettivo «grande» al nome di un dittatore criminale del Novecento diverso da Mao. E, dunque, per capire perché il maoismo da idea di riscatto contadino sia diventato forma di governo e un fenomeno globale e pop, capace prima di ammaliare intellettuali e artisti e poi di mantenere lo status di evento alla moda nonostante lo sterminio di massa, Lovell racconta che il mito di Mao nasce grazie a un libro del 1936 scritto dal giornalista americano Edgar Snow, intitolato Stella rossa sulla Cina e frutto di lunghi colloqui con Mao durante la guerra civile tra i comunisti e il governo nazionalista cinese. Quel libro, tradotto anche in cinese, ha fatto diventare Mao una celebrità politica locale e internazionale e ha fatto da didascalia all' ascesa al potere del Grande Timoniere, al «Grande balzo in avanti» con cui avrebbe dovuto riformare il Paese e alla Grande rivoluzione culturale con cui si riprese in mano il partito dopo il fallimento del piano economico. Mao ha ispirato una serie infinita di movimenti politici in Asia e in America Latina, in Africa e in Europa, vecchi e nuovi, alcuni dei quali sono arrivati al potere, come Pol Pot in Cambogia e Kim Il-sung in Corea del Nord, altri sono sconfinati nella lotta armata, come Sendero Luminoso in Perù, le Brigate rosse in Italia, la Rote Armee Fraktion in Germania, le Pantere nere negli Stati Uniti e l' Olp in Medio Oriente. Il saggio di Lovell racconta l' ubriacatura politica e culturale dagli anni Sessanta a oggi, dai caffè parigini ad alcuni tragicomici esempi italiani come Servire il Popolo di Aldo Brandirali e le mobilitazioni studentesche a Pisa e alla Cattolica di Milano, ma avverte il lettore che l' appeal globale del Grande Timoniere non è un retaggio del passato. Il maoismo globale, piuttosto, è un' ideologia viva anche nel XXI secolo, in Asia soprattutto, con non poche influenze sull' islamismo radicale, dal regime degli ayatollah sciiti in Iran alle tattiche di guerriglia militare dell' Isis, ma anche sulla retorica della volontà popolare e della «democrazia di massa« contro le élite tecnocratiche delle metropoli. La parte più preoccupante del saggio di Lovell è quella sulla Cina contemporanea: nel 2018 il presidente Xi Jinping ha cancellato il limite dei due mandati imposto da Deng nel 1982, trasformandosi in presidente a vita e nel Grande Timoniere del XXI secolo, e alimentando un culto della personalità che ricorda quello riservato a Mao. I telegiornali della sera trasmettono servizi che fanno entrare nelle case dei cinesi tutti e quattro i minuti e i sedici secondi di applausi a scena aperta ricevuti da Xi in occasione del ritiro di un qualche premio. Il controllo tecnologico ha raffinato le tecniche di sorveglianza di massa, di repressione del dissenso e di invio degli oppositori nei campi di rieducazione. In piazza Tienanmen si erge il mausoleo di Mao, mentre il quadro di sei metri per quattro, raffigurante il Grande Timoniere, domina l' accesso alla Città proibita. Nel 2016 una gigantesca statua dorata di Mao alta 37 metri è sorta tra mille fanfare nella provincia di Henan, prima di essere abbattuta senza spiegazione dalle autorità. Le stesse autorità che prima hanno accompagnato l' ascesa di Bo Xilai, una delle figure primarie dell' apparato cinese, noto per voler restaurare i fasti della Rivoluzione culturale maoista, e poi lo hanno incarcerato e condannato all' ergastolo. Deng aveva rigettato il maoismo, ma al contrario dell' Unione Sovietica che, disfacendosi di Stalin, poteva contare sulla figura unificante di Lenin, la Cina non ha nessun altro mito su cui fondarsi. Tranne Mao.
· Matteotti riformista del futuro.
Matteotti riformista del futuro. Pubblicato martedì, 02 aprile 2019 da Corriere.it. Se si domandasse a una persona mediamente informata sulla storia italiana di affrontare il tema «vita e morte di Giacomo Matteotti», quasi sicuramente ci si ritroverebbe di fronte a un interlocutore preparato a parlare più della seconda che della prima. Si sa ciò che avvenne e si sa chi fu il mandante politico e morale — al di là di quanto la richiesta fosse stata esplicita o giocata sulle parole — del delitto. Fu Mussolini, che d’altro canto, nel famoso intervento del 3 gennaio 1925 alla Camera, chiuderà la questione affermando: «Se il fascismo è stato ed è un’associazione a delinquere, io sono a capo di questa associazione a delinquere». A essere conosciuta meno è la vita del Matteotti politico, dell’uomo che al momento dell’omicidio, nel giugno 1924, è davvero «l’oppositore più intelligente e irriducibile» del nascente regime, come lo definirà Piero Gobetti. Giacomo Matteotti, «Un anno di dominazione fascista», con l’introduzione di Walter Veltroni e un saggio di Umberto Gentiloni Silveri (Rizzoli, pagine 264, euro 17) Matteotti, in effetti, vede prima di altri la natura violenta e l’intenzione totalitaria del fascismo, capisce che quella mussoliniana non sarebbe stata una parentesi e che sarebbe diventata una lunga dittatura. E per questo fa ciò che il suo libro Un anno di dominazione fascista dimostra in modo esemplare, ed è per questo che è così importante ripubblicarlo oggi, a quasi un secolo di distanza: mette una determinazione feroce e lucida nel denunciare, in modo tanto puntiglioso quanto coraggioso, le violenze fasciste che si stanno intensificando. Le sue pagine danno ragione alle parole con cui un suo compagno di partito lo descriveva, osservando che «passava ore e ore nella biblioteca della Camera a sfogliare libri, relazioni, statistiche, da cui attingeva i dati che gli occorrevano per lottare con la parola e con la penna, badando a restare sempre fondato sulle cose». Sono pagine straordinarie. Matteotti fa un’analisi precisa della situazione economica e finanziaria, numeri alla mano indica come i conti pubblici stiano peggiorando, soffermandosi sulla bilancia commerciale e sul disavanzo, sulle entrate tributarie, sull’evoluzione di profitti e salari, sulla situazione dell’occupazione e dell’emigrazione. Giacomo Matteotti (1855-1924) È un libro che è il frutto di una tale concretezza e di una tale radicale e coraggiosa passione politica da non poter appartenere che a un vero riformista. E da questo punto di vista, se contribuisce a spiegare le ragioni di una morte, ancora di più racconta, a mio avviso, il senso di una vita. Proprio l’aspetto che di Matteotti, come dicevamo, meno si conosce. Carlo Rosselli, che un giorno sarebbe andato incontro alla sua stessa sorte insieme al fratello Nello, lo definì «un eroe tutto prosa». Nel senso che al di sopra di ogni altra cosa metteva il pensiero pratico, lo studio concreto della realtà e i numeri e i documenti che la descrivevano. A interessarlo erano i problemi reali delle persone, dei lavoratori, degli ultimi. A cominciare da quelli delle popolazioni del suo Polesine, dei braccianti del delta del Po, costretti a vivere in condizioni di povertà estrema. Per il loro riscatto aveva scelto la politica. Aveva scelto il socialismo, lui che proveniva da una famiglia della borghesia agraria molto più che benestante, ricca. Laureato brillantemente in Giurisprudenza, forte di studi all’estero, avrebbe potuto scegliere — avrebbe potuto anche vivere di rendita, se è per questo — una remunerativa carriera di avvocato o decidere di intraprendere quella accademica. Decise diversamente. E fa effetto, in tal senso, pensare alla lettera con cui un mese prima di essere ucciso rispose a quella inviatagli dal professore di Diritto penale e senatore liberale Luigi Lucchini, che gli chiedeva di essere prudente, di lasciare la politica e di dedicarsi agli studi. «Purtroppo non vedo prossimo», scrive Matteotti al suo interlocutore, «il tempo nel quale ritornerò tranquillo agli studi abbandonati. Non solo la convinzione, ma il dovere oggi mi comanda di restare al posto più pericoloso». Il fatto che non fosse un teorico della politica e che di questo sia stato sempre orgoglioso non vuol dire che la sua cultura, nel campo che decise di mettere al centro della sua vita, non fosse solida. Si può dire, piuttosto, che pur non sottovalutando l’importanza di quelle che allora si definivano le «questioni dottrinarie», la dottrina per la dottrina non lo interessasse: la considerava utile solo se come sbocco, alla fine, c’era la realtà, c’era la possibilità del suo cambiamento. Un atteggiamento di fondo, questo, che peraltro si può ritrovare in tutta la sua attività di parlamentare e prima ancora di amministratore, come consigliere provinciale di Rovigo, come dirigente della Lega dei Comuni socialisti, come sindaco di Villamarzana. Anche da qui, dalla sua profonda conoscenza del ruolo e dell’importanza di quello che noi oggi chiamiamo «governo di prossimità», veniva il suo essere un acceso sostenitore di un rafforzamento delle autonomie locali. Questa sua esperienza, questo suo essere uomo politico «radicato sul territorio», mentre al tempo stesso non aveva nulla di provinciale — possedeva un forte imprinting europeo e fu persino tra i primi a parlare di «Stati Uniti d’Europa» —, rimarrà presente in lui anche negli anni successivi. Ne sono testimonianza i numerosi interventi alla Camera — eletto nelle file del Partito socialista e poi segretario nazionale del Partito socialista unitario, fondato insieme a Filippo Turati — svolti per sostenere la necessità di un più efficiente funzionamento delle amministrazioni locali, innanzitutto attraverso un rigoroso controllo dei loro bilanci e dei controlli per i grandi lavori pubblici, per evitare abusi e illegalità. Distante da ogni forma di massimalismo e di astrattezza, convinto della necessità di un lavoro di organizzazione sociale che partisse dal basso, Giacomo Matteotti era un riformista vero, che credeva in un graduale e progressivo allargamento della cittadinanza politica e sociale e per questo lavorava con un rigore inflessibile, senza risparmiarsi nulla. Concreto, tenace, apparentemente duttile ma irremovibile sui princìpi, come nel caso della scelta della pace e della ferma opposizione all’intervento dell’Italia nella Prima guerra mondiale. Matteotti era pragmatico nella ricerca della risoluzione dei problemi e intransigente, persino radicale, dal punto di vista etico e ideale, con una convergenza tra politica e morale che per lui era imprescindibile. Io sento che la sinistra italiana ha un debito morale nei confronti di Matteotti. Egli fu infatti sistemato nel Pantheon degli eroi della resistenza morale e politica al fascismo più per la brutale efferatezza dello strazio della sua vita che per la lucida forza delle sue idee. Matteotti non è stato solo una vittima della violenza fascista. È stato un leader morale e politico della sinistra italiana. Questo è il ruolo che la storia deve riconoscergli. Più di una volta, una vita fa, ho avuto modo di dire e di scrivere che il riformismo è radicalità, oppure non è. Che non è solo ragionevolezza e razionalità, che non può essere solo calcolo ed efficienza. Che il riformismo è governare e amministrare bene, certo, ma è insieme capacità di accogliere passioni, di muovere sensibilità e sentimento popolare attorno a progetti reali di cambiamento. Non ho cambiato idea. E leggendo queste pagine, pensando alla vita di Giacomo Matteotti, continuo a pensare che sia giusto non cambiarla.
· Così Gramsci ha creato l’egemonia su giornali e magistratura
Così Gramsci ha creato l’egemonia su giornali e magistratura. Antonio Iannaccone su pepeonline.i il 23/11/2017. Vengono i brividi a leggere quel che scriveva 80 anni fa un brillante giovane carcerato, Antonio Gramsci, se oggi andiamo a verificare coi nostri occhi come puntualmente si sia avverato tutto quel che egli aveva profetizzato. Suo intento principale era sostituire nel cuore del popolo, dei semplici, l’allora radicata fede cristiana con una “fede” nuova, quella nella propria volontà, creatrice della storia. Per far questo, ha pensato non di agire con una rivoluzione violenta dal basso (come Marx, Stalin), ma con una “forza dall’alto”, occupando quei posti dove si creano le idee che contano, dove nasce quella cultura che diventa dominante nelle coscienze. Ebbene, ecco il risultato. Il cristianesimo si è praticamente suicidato, sia politicamente che culturalmente. Tutti i partiti e i capi politici avversi al comunismo gramsciano sono stati eliminati o dalla magistratura o da campagne stampa o dalla loro azione congiunta che li ha portato al suicidio (politico e non solo). Infine, tutti gli ideali politici sono scomparsi, portati all’annullamento da una mentalità dominante che è riuscita ad imporre un’unica “verità”: che non esiste nessuna verità per cui valga la pena vivere e lottare, ma solo la volontà degli uomini (il tristemente noto “relativismo”). Il filosofo Augusto Del Noce ha visto per primo, circa 40 anni fa, che cosa stava accadendo: vi presentiamo dei brani tratti dalla sua analisi. Tutto è nato da alcuni apparentemente innocui “Quaderni” di filosofia scritti in un carcere… Forse, allora, vale la pena capirla questa filosofia, per toccare con mano quanto sia importante la cultura e quali effetti enormi possa avere un “astratto pensiero” sulle sorti reali di tutti noi. (A.I.) [I brani seguenti sono tratti dal testo “Il suicidio della rivoluzione” di A. Del Noce, Rusconi, Milano 1978. Tra virgolette le citazioni di A. Gramsci, tratte dai “Quaderni del carcere”.]
L’obiettivo concreto nella parole di Gramsci:
Conquistare l’egemonia culturale. “Il momento dell’egemonia (…) [è] essenziale nella sua concezione statale e nella "valorizzazione" (…) di un fronte culturale come necessario accanto a quelli meramente economici e meramente politici”. [Q 10,I §7] “Si può dire che i partiti sono gli elaboratori delle nuove intellettualità integrali e totalitarie (…). L’innovazione non può diventare di massa nei suoi primi stadi se non per il tramite di una elite in cui [vi sia una] (…) volontà precisa e decisa”.[Q 11 §12]
Per raggiungere l’egemonia, occorre conquistare le aree di maggior influenza culturale. La scuola, in tutti i suoi gradi, e la chiesa sono le due maggiori organizzazioni culturali in ogni paese (…). I giornali, le riviste e l’attività libraria, le istituzioni scolastiche private, sia in quanto integrano la scuola di Stato, sia come istituzioni di cultura del tipo università popolare. Altre professioni incorporano (…) una frazione culturale non indifferente, come quella dei medici, degli ufficiali dell’esercito, della magistratura. [Q 11, §12]
Lo scopo ultimo da raggiungere. Per Gramsci (…) la rivoluzione si configura come lo strumento necessario per il passaggio da una concezione arcaica a una concezione moderna e immanentistica del mondo e della vita. (pag 164)
Quale è l’idea centrale del suo pensiero (…) se non quella di colmare la frattura tra il basso e l’alto, portando al popolo la concezione immanentistica e secolaristica della vita? L’io collettivo per Gramsci sostituisce nella concezione immanentistica, quello che era Dio nella concezione trascendente; la riforma economica è ordinata alla formazione di questo io collettivo. (pag 305)
Una nuova tattica: non "uccidere", ma "portare al suicidio". Già per il Gramsci del 1919 la concezione trascendente della vita (…) non deve venire ammazzata, ma finire per suicidio. (…) Tutte le nuove espressioni di cui si è servito (…) si illuminano a partire da questa tesi sul “suicidio”: da "riforma intellettuale e morale" e "guerra di posizione" sino a "egemonia", a "intellettuale organico", a "blocco storico". Gramsci insomma aveva inventato un’altra forma di estinzione dell’avversario; non più persecuzione fisica, ma "suicidio".
Un nuovo tipo di totalitarismo, opposto allo stalinismo…Da che cosa deriva il termine totalitarismo se non da totalità? Ora il passaggio da una società fondata su una concezione teologica trascendente, o anche immanente, a un’altra completamente secolarizzata, in cui l’idea di Dio sia scomparsa senza lasciar traccia, è proprio il passaggio da una totalità a un’altra. (…) Il suo totalitarismo è il preciso inverso, nelle intenzioni, di quello staliniano. Nello stalinismo si procede verso una coercizione sempre maggiore; nel gramscismo, la coercizione provvisoria deve progressivamente cedere rispetto al momento del consenso. [Vi è però] una necessità intrinseca alla rivoluzione totale, che porta inevitabilmente [all’] oppressività. Orbene, il pensiero di Gramsci è il maggior tentativo di sfuggire a questa necessità, (…) destinato però al fallimento [vedi parte finale del presente documento – NdR]. (pagg 284, 285)
… e molto diverso dal marxismo. L’innovazione profonda che Gramsci introduce in tutta la tradizione marxista (…) sta nella diversa concezione di società civile (pag 158). Per Marx la società civile (…) comprende (…) “tutto il complesso delle relazioni materiali fra gli individui”. (…) Gramsci intende invece per società civile tutto il complesso delle relazioni ideologico-culturali. (…) (pag 159). (…) Perciò l’avvento del socialismo non significa il passaggio da un tipo a un altro di economia, ma da una concezione ancora trascendente (…) della vita a un’altra rigorosamente immanentistica. (pag. 304) [Il pensiero di Gramsci, infine, si distingue dal marxismo in due sensi:] il termine ‘umanismo’ viene inteso come cancellazione del materialismo e il termine ‘storicismo’ come cancellazione (…) della stessa idea di ‘natura umana’ (pag 166). “Il problema di cos’è l’uomo, (…) l’umano, non è piuttosto un residuo ‘teologico’ e ‘metafisico’ in quanto posto come punto di partenza? (…) Neanche la facoltà di ‘ragionare’ o lo ‘spirito’ (…) può essere riconosciuto come fattore unitario (…). Che la “natura umana” sia “il complesso dei rapporti sociali” è la risposta più soddisfacente, perché include l’idea del divenire (…) e perché nega l’’uomo in generale’. (…) Si può anche dire che la natura umana è la ‘storia’”[Q7 §35].
Invece, il punto di partenza è l’attualismo di Gentile. L’attualismo [ha una] posizione singolare e unica (…) nella storia della filosofia. (…) Ha portato all’estremo non soltanto l’idealismo (…), ma la filosofia del primato del divenire, chiarendone l’esito antimetafisico. (pag 121) Tutti i pensatori prima di me, dice in sostanza Gentile, (…) hanno guardato al mondo degli oggetti; e, tra questi oggetti, ne hanno distinto [alcuni] forniti di pensiero [i soggetti pensanti, gli uomini o Dio – NdR]; di qui sono sorti gli infiniti problemi insolubili della storia della filosofia. (pagg 142, 143) [In sostanza, secondo Gentile, esiste solo l’ “atto puro (da cui “attualismo”) del conoscere”, non esistono le altre persone e neppure gli oggetti, tutto è posto dall’atto del conoscere – NdR]. [VI è un] rapporto di necessità tra l’attualismo e il fascismo. L’affermazione che gli altri non esistono coincide con quella che “gli altri (…) sono il nostro stesso corpo, sul quale noi abbiamo tutti i diritti”. Non si affaccia qui la figura del capo totalitario?
Gramsci radicalizza l’attualismo. L’attualismo assume un carattere rivoluzionario: tutte le concezioni del mondo prima dell’attualismo si sono mosse nell’orizzonte di una realtà e di una verità presupposte; (…) [ora, per Gramsci, occorre completare] il processo di erosione di [questa] concezione. Termine ultimo a cui può giungere la filosofia della prassi dopo Hegel, l’attualismo può essere pensato e vissuto nella forma "romantica" di continuità con la tradizione, che fu di Gentile, o in quella "illuministica" di scissione rivoluzionaria, che fu di Gramsci. (pag 146) Il comunismo [gramsciano è] la posizione politica adeguata al compimento del passaggio alla concezione immanentistica della vita. (…) Gentile sarebbe ricaduto completamente in tale concezione. (pag 177)
Fascismo e comunismo, due facce della stessa medaglia “attualista”. Gentile e Gramsci convengono nell’idea della formazione di una volontà collettiva nazional-popolare, che fonda gli intellettuali e i semplici. (pag 195) [Solo che, per il fascista Gentile,] la religione contiene in forma mitica la stessa verità della filosofia; [per il comunista Gramsci la religione trascendente coincide con] la servitù e la filosofia immanentistica [coincide con] la liberazione umana. (…) Lo sforzo di Gramsci è orientato verso il massimo di laicizzazione del pensiero rivoluzionario. (pagg 194, 195)
Ma il gramscismo si è davvero realizzato? Il pensiero di Gramsci ha conosciuto (…) il massimo del successo nel periodo che va dalla seconda metà del ‘74 all’autunno del ‘76. Ne fu occasione il contraccolpo del referendum sul divorzio, 12 maggio 1974. (…) Avveniva che questa secolarizzazione del modo di pensare del popolo italiano, rimasto fedele in linea di principio alla “morale cattolica” anche nei tempi di massimo dominio dell’anticlericalismo, si avverasse proprio dopo un decennio di governo da parte dei cattolici. Che cosa si doveva concluderne? Giungere al giudizio (…) che il vero soggetto della storia italiana nell’ultimo trentennio era stata la riforma intellettuale e morale gramsciana (…); riforma indirizzata, in conseguenza della strategia rivoluzionaria intesa come guerra di posizione , a raggiungere la direzione intellettuale prima del dominio. (…) Si doveva arrivare a dire che la direzione era stata esercitata dal partito comunista, (…) in quanto la sua politica era stata la precisa concrezione pratica del pensiero gramsciano. Attraverso il referendum (…) si illuminava il senso morale e intellettuale del trentennio, come vittoria di Gramsci (pagg 255-257) La realtà morale italiana (…) con un crescendo continuo, particolarmente accelerato dal ‘68 in poi, è la verifica puntuale di [quel che si è detto]. (…) Non ripetiamo (…) quel che tutti sanno: hanno larga ciricolazione in Italia soltanto quei prodotti intellettuali che sono conformi [all’egemonia del comunismo] o ne fanno il giuoco. (pag. 320)
Il vero significato della sconfitta cattolica…Sembra (…) che i cattolici stessi abbiano dimenticato che la Democrazia Cristiana ha le sue radici ideali [nel pensiero di] Leone XIII. (…) Il pensiero profondo di Leone XIII (…) è un pensiero sociale, essendo ben inteso che l’ordine di una società riposa sulla coscienza della verità accettata da coloro che governano il corpo politico. (…) La rinascita cattolica deve essere (…) inscindibilmente religiosa, filosofica e politica; (…) ma questa politica deve appoggiarsi su una filosofia che sia a sua volta preambolo della fede. (…) [Invece] capita (…) di sentire (…) che il partito dovrebbe rinunciare all’aggettivo “cristiano” per risolversi in un partito “democratico” (…), assumendo una pura posizione di neutralità nel campo culturale e religioso. (…) Un altro passo e si giungerà al riconoscimento che il marxismo si è sostituito al cristianesimo nel momento presente dello sviluppo storico. (pagg. 257-260)
… è il suicidio del cristianesimo, profetizzato da Gramsci. A questo punto sembra suonar profetico quel che Gramsci scriveva su L’Ordine Nuovo del 1 novembre 1919 all’indomani della fondazione del Partito Popolare: “Il cattolicesimo riappare alla luce della storia, ma quanto modificato, ma quanto ‘riformato’. Lo spirito si è fatto carne, e carne corruttibile come le forme umane (…) Il cattolicesimo entra così in concorrenza non già col liberalismo, non già con lo Stato laico; esso entra in concorrenza col socialismo e sarà sconfitto, sarà definitivamente espulso dalla storia del socialismo […]. Il cattolicesimo democratico fa ciò che il socialismo non potrebbe: amalgama, ordina, vivifica e si suicida. […] Diventati società, acquistata coscienza della loro forza reale, questi individui (…) vorranno far da sé e svolgeranno da se stessi le loro proprie forze e non vorranno più intermediari, non vorranno più pastori per autorità, ma comprenderanno di muoversi per impulso proprio: diventeranno uomini, (…) uomini che attingono alla propria coscienza i principi della propria azione, uomini che spezzano gli idoli, che decapitano Dio”. (pag 260). Si possono certo ammirare le facoltà divinatrici di Gramsci. La crisi della Chiesa – non certamente prevista da nessuno negli anni ‘30 – è avvenuta realmente, dopo il ‘60, nella forma da lui descritta. [Ad esempio] è rinato il modernismo, ed esattamente nella forma di risoluzione di religione in politica attraverso le varie teologie politiche, della rivoluzione, della liberalizzazione, della secolarizzazione, eccetera. (pag. 290)
La contraddizione finale. Ma questa filosofia ha davvero la possibilità di portare a un consenso razionale [come pretende], o invece non può essere che (…) accolta come ideologia, come strumento atto a conseguire fini pratici? (…) Il termine di filosofia è legato a quello di verità; il termine di ideologia a quello di potere. Da ciò risulta che si ha la situazione peggiore quando l’ideologia pretende di risolvere in sé la filosofia (è una delle definizioni del totalitarismo); allora il potere, assolutizzandosi, rivela quel “volto demoniaco” di cui tante volte si è discorso. (pag. 305)
Il divieto della "domanda". [Si ha dunque] una trasposizione del totalitarismo dal “fisico” al “morale”. L’unità del blocco sociale sarebbe raggiunta attraverso la prevalenza della coercizione sul consenso, ottenuto attraverso la discriminazione delle domande, vietando quelle che (…) gli intellettuali organici definiscono “reazionarie”. O meglio, attraverso la creazione, a cui si provvede col dominio della cultura e della scuola, di un nuovo senso comune, in cui non riaffiorino più le domande metafisiche tradizionali. (…) Il conformismo del passato era un conformismo delle risposte, mentre il nuovo risulta da una discriminazione delle domande per cui le indiscrete vengono paralizzate quali espressioni di ‘tradizionalismo’, di ‘spirito conservatore’ (…) o magari, quando l’eccesso di cattivo gusto giunge al limite, di ‘fascista’; si giunge alla situazione in cui sia il soggetto stesso a vietarsele come ‘immorali’. Sino a che queste domande, per il processo dell’abitudine, o in virtù dell’insegnamento, non sorgano più. Per le domande razionali non avviene infatti la stessa cosa che per gli istinti che, repressi, riaffiorano; esse, invece possono scomparire del tutto. Il dissenso viene reso impossibile, non per vie fisiche, ma per vie pedagogiche. E’ nella sua trasposizione al morale che il totalitarismo raggiunge la sua forma pura. (pagg. 319,320)
Il vero esito del gramscismo: il dissolvimento di ogni ideale. La riforma gramsciana ha avuto la funzione di “produttrice di miscredenza” in un processo che, se ha messo in crisi le fedi religiose avverse, ha finito col far lo stesso anche con la propria. La radice prima teorica di ciò sta nel dissolvimento della filosofia nell’ideologia. Se si vuole parlare di un nuovo ‘senso comune’ occorre riconoscere che non poteva assumere altra forma di quella che, appunto, ha preso: la dilatazione estrema della mentalità ideologica, nel senso di inclinazione a vedere tutto in termini di strumento di azione (di potere); come preclusione a qualsiasi fede, questa disposizione non può non incrinare, e al termine dissolvere, la stessa fede rivoluzionaria. E questa mentalità corrisponde esattamente all’Anticristo di cui parlava Croce. (…) Non stupisce perciò se il comunismo italiano appare oggi come la forza più adeguata a mantenere l’ordine in un mondo in cui qualsiasi religione è scomparsa; non soltanto la religione cattolica, ma ogni sua forma anche immanente e secolare; anche la fede nel comunismo. (…) Certo, il comunismo gramsciano può riuscire, ma realizzando l’esatto opposto di quel che si proponeva [ovvero, suicidandosi] (pag. 333, 334).
Dizionarietto filosofico.
Immanentismo: posizione filosofica per cui non esiste nulla di “trascendente”, nulla al di là della realtà che conosciamo, della realtà “immanente” appunto.
Storicismo: pensiero secondo il quale non esiste nulla che non sia sottoposto al divenire storico; quindi, tutto diviene e nulla "è".
Secolarismo: tendenza a escludere il religioso dalla vita sociale (dal latino “saeculum” che indica tutto ciò che non appartiene alla religione).
Metafisica: dottrina che si occupa di ciò che ogni realtà ultimamente "è", al di là dei suoi cambiamenti storici o delle differenze individuali. Il discorso metafisico per eccellenza riguarda quindi la consistenza profonda dell’essere e quindi il mistero di Dio.
· Semplice dire…L’Unità.
Chiara Giannini per ilgiornale.it il 12 dicembre 2019. Il premier Conte fa un nuovo regalo agli alleati del Pd, di fatto costringendo gli italiani a saldare un debito pregresso dei democratici che ammonta a 81,6 milioni di euro. La presidenza del Consiglio dei ministri non ha infatti proposto appello contro le tre sentenze del tribunale di Roma che la condannano a pagare alle banche creditrici i debiti di Unità spa, assunti anni fa dal partito dei Democratici di Sinistra che allora aveva nelle sue file moltissimi dei dirigenti e parlamentari che oggi sono nel Pd. Appello invece promosso dagli attuali dirigenti dei Ds i cui rappresentanti (che non sono quelli di allora) a breve protesteranno per la questione di fronte a Palazzo Chigi. In un altro giudizio ancora in corso, l'onorevole Piero Fassino e l'ex senatore Ugo Sposetti, entrambi nel Pd, continuano a sostenere di essere ancora il segretario e il tesoriere dei Ds, scontrandosi di fatto con gli attuali vertici. Una questione che dovrebbe mettere in imbarazzo anche il segretario del Pd Nicola Zingaretti. I crediti sono quelli vantati da alcune banche nei confronti del partito dei Democratici di Sinistra, per 13.097.893,25 euro (Intesa), 22.123.363,63 euro (UniCredit e Carisbo), 14.086.943,36 euro (BNL) e 23.459.238,43 euro (Efibanca spa). Crediti garantiti dalla presidenza del Consiglio dei ministri e che sarebbero dovuti agli istituti bancari in forza dell'«atto aggiuntivo a contratto di finanziamento», rogato per atto pubblico il 3 agosto 2000. L'obbligo della presidenza del Consiglio dei ministri si fonda sul preteso diritto delle banche di escutere la «garanzia primaria e solidale» prestata dallo Stato. Le banche nel 2014 chiesero al tribunale di Roma l'emissione dei relativi decreti ingiuntivi a carico della presidenza del Consiglio, oltre interessi di mora nella misura convenzionale, a decorrere dall'11 ottobre 2011 fino al momento del pagamento, nonché le spese e i compensi del procedimento, sostenendo che l'amministrazione fosse obbligata alla restituzione degli importi a titolo di garanzia. Gli istituti di credito hanno chiarito che i «crediti residui» ingiunti sono il rimanente derivante dalla somma «ristrutturata» e «accollata» dai suddetti «partiti», dedotte le somme nel frattempo incassate e derivanti dai ratei di finanziamento pubblico ai partiti spettanti allo stesso partito dei Ds. L'escussione della garanzia dello Stato è stata quindi determinata dall'inadempimento dei Ds in ordine al puntuale pagamento delle rate dovute alle banche che, visto l'inadempimento del debitore principale, si sono avvalse del «diritto di ritenere insoluti i finanziamenti erogati». La presidenza del Consiglio ha proposto opposizione sul presupposto che il partito dei Ds non è affatto incapiente in quanto possiede migliaia di immobili, fittiziamente intestati con atti di donazione a decine di fondazioni sparse per l'Italia. Gli immobili dati in garanzia su richiesta, allora, della presidenza del Consiglio, corrispondono in molti casi alle sedi del Pd. Il giudice di Roma ha affermato che il comportamento dei Ds rivela «condotte elusive (e forse fraudolente)» e che «delineano un quadro di particolare responsabilità del debitore principale» ovvero il partito dei Democratici di Sinistra. In particolare, dalla relazione tecnica del tribunale è emerso che l'elenco di immobili consegnato dai Ds alla presidenza del Consiglio, all'atto del trasferimento della garanzia, coincideva esattamente con quello dei beni ceduti dall'Unità alla società Beta immobiliare e non ai Ds. In conclusione, la garanzia è stata illegittimamente trasferita sulla base di informazioni false fornite alla presidenza del Consiglio dai dirigenti dell'epoca del partito. Secondo il tribunale di Roma spetta alla presidenza del Consiglio far dichiarare nulli tutti gli atti di donazione in favore delle fondazioni. Conte lo farà o pagherà e basta? Nel frattempo, nel tentativo di poter recuperare il patrimonio del partito e per pagare le banche, le sentenze sono state impugnate dal nuovo tesoriere del partito dei Democratici di sinistra Carlo D'Aprile.
Le voragini dell’Unità scaricate sugli italiani. Conte “regala” al Pd 81,6 milioni. Il Secolo d'Italia giovedì 12 dicembre 2019. Conte paga i debiti de l’Unità coi soldi degli italiani. Ben 81,6 milioni di euro, mica spiccioli. Come si legge sul Giornale, la presidenza del Consiglio dei ministri non ha infatti proposto appello contro le tre sentenze del tribunale di Roma che la condannano a pagare alle banche creditrici i debiti di Unità spa. Debiti assunti anni fa dai Democratici di Sinistra che allora aveva nelle sue file moltissimi dei dirigenti e parlamentari che oggi sono nel Pd. Lo storico quotidiano comunista e del Pci stato fondato da Antonio Gramsci è morto col Pd. Non va in edicola da oltre due anni e ha lasciato una montagna di debiti. Come? Spiega Primato Nazionale, ricorrendo al principio tanto caro agli odiati padroni: privatizzare i profitti e socializzare le perdite. Il 5 febbraio 2000, quando Massimo D’Alema era a Palazzo Chigi, la presidenza del Consiglio si fece garante del debito che l’Unità aveva contratto con un gruppo di banche. Debito che ammontava a circa 200 milioni di euro, come ricostruiva due mesi fa il Giornale. Una massa enorme di soldi che però mancava, e quindi i Ds proposero a D’Alema, in virtù di una legge del ’98 del governo Prodi, che fosse la Presidenza del Consiglio a farsi carico di quel debito. La normativa dava la possibilità allo Stato di consentire un’agevolazione in favore dell’editoria, girandola a soggetti che non fossero editori. Il soggetto che ne avrebbe goduto era il partito del presidente del Consiglio. Le banche accettarono dato il vasto numero di immobili di proprietà del partito e la metà dell’importo venne pagata facendo ricorso alle entrate del finanziamento pubblico ai partiti. Il resto però mancava. A poco a poco quel grande patrimonio immobiliare dei Ds che era stato dato in garanzia si è disperso. E lo conferma una sentenza del tribunale di Roma: il comportamento dei Ds rivela «condotte elusive (e forse fraudolente)» e che «delineano un quadro di particolare responsabilità del debitore principale» ovvero il partito dei Democratici di Sinistra. Ora a palla passa a Conte.
UN GIORNALE SUL GROPPONE. Da Il Fatto Quotidiano il 17 settembre 2019. Un debito da 81,6 milioni di euro pesa sulle spalle dello Stato e quindi dei contribuenti. Si tratta di quello contratto, ormai 31 anni fa, dall’Unità, giornale dell’ex Partito comunista italiano fondato da Antonio Gramsci, nei confronti di diverse banche: Intesa San Paolo, Unicredit, Bnl e Banco Bpm. Il tribunale di Roma, infatti, ha respinto tre ricorsi-fotocopia della Presidenza del Consiglio dei Ministri, presentati dall’Avvocatura di Stato per opporsi ai decreti ingiuntivi degli stessi istituti relativi al rimborso dei crediti utilizzando la garanzia dello Stato, come riporta il Messaggero. A prendere la decisione, il 10 settembre scorso, il giudice del foro romano Alfredo Maria Sacco, che ha autorizzato l’azione contro i debitori non per insolvenza ma per inadempimento. Nel provvedimento il giudice scrive di “riconoscere alla Presidenza del Consiglio il diritto di rilievo e/o regresso” condannando però il legale pro tempore dell’Associazione Democratici di Sinistra chiamata in causa con contumace a rimborsare Palazzo Chigi “da ogni effetto patrimonialmente pregiudizievole conseguente alla presente decisione”. Vale a dire che la Presidenza del Consiglio di Ministri è tenuta a rimborsare le banche, ma può rivalersi su Democratici di Sinistra cioè l’associazione, fondatrice poi nel 2007 insieme alla Margherita del Partito democratico, che dal 1988 si è accollata l’esposizione contratta dal quotidiano. Nel dettaglio Intesa deve rientrare di 35 milioni, Unicredit di 22, Bpm di 14,7 milioni di euro e Bnl di 14. Nelle carte, come scrive sempre il quotidiano romano, si legge che “le banche hanno chiesto più volte il pagamento del proprio credito, procedendo anche all’esecuzione coattiva”. Il motivo per cui i contribuenti devono ripianare il buco del quotidiano fondato da Antonio Gramsci, va ritrovato in una legge varata nel 1998 dal governo Prodi che ha introdotto la garanzia statale sui debiti dei giornali di partito. La prima opposizione di Palazzo Chigi risale al governo Renzi, nel 2014. La presidenza del Consiglio aveva contestato “la sussistenza dei presupposti per l’escussione della garanzia stessa chiedendo e ottenendo di chiamare in manleva l’Associazione Democratici di Sinistra, già Partito democratico della Sinistra”. Il decreto ingiuntivo di pagamento, però, era stato dichiarato immediatamente e provvisoriamente esecutivo ad aprile del 2015. Un giudizio che si era incentrato sulla diversa interpretazione, tra Palazzo Chigi e banche, delle garanzie concesse. Tre i finanziamenti in contenzioso. Il primo di luglio 2009, quando l’allora Efibanca, oggi Banco Pbm, concesse all’Unità 12,4 milioni di vecchie lire. Il secondo di luglio 1988 quando Intesa San Paolo, insieme a Unicredit e Carisbo, erogò 43,9 milioni; e il terzo risalente al 1993: Bnl, Efibanca, Unicredit e Carisbo fecero due diversi finanziamenti uno da quasi 80 milioni di vecchie lire e uno da 24,2.
Chiara Giannini per “il Giornale” il 7 ottobre 2019. Lo scandalo è di quelli che fanno tremare le fondamenta dei palazzi. Tremila e duecento per l' esattezza, secondo i bene informati. Tanti erano infatti gli immobili dati in garanzia dai Democratici di sinistra utili ad assumere un debito milionario del giornale per eccellenza della sinistra, L' Unità, verso un gruppo di banche. Debito garantito dalla presidenza del Consiglio dei ministri il 5 febbraio del 2000. La notizia è che ora quel debito, che oggi ammonta a 81,6 milioni di euro, pesa proprio sulle spalle di Palazzo Chigi, ma che alla fine a pagare saranno i cittadini italiani. La storia inizia a cavallo del nuovo secolo. All' epoca Massimo D' Alema è presidente del Consiglio dei ministri e anche presidente dei Ds (Democratici di sinistra). L' Unità ha contratto molti anni prima (si parla di 31 anni fa) un debito di 200 milioni di euro con le banche, ma i soldi non ci sono, quindi i Ds propongono alla presidenza Consiglio, cioè a D' Alema, di assumere su se stessa quel debito grazie a una legge del 1998, frutto del governo Prodi, che però concedeva la garanzia statale all' editoria. Le banche accettano, in quanto il partito si dimostra capiente perché titolare di immobili. Circa la metà della cifra viene saldata con le entrate del finanziamento pubblico ai partiti, il resto manca. Peccato che quel patrimonio immobiliare da tempo non esista più. Risulta anche da una perizia dell' ingegner Marco De Angelis fatta per il Tribunale di Roma che, nei giorni scorsi, con tre sentenze ha rigettato tre ricorsi fotocopia presentati dall' Avvocatura dello Stato in opposizione ai decreti ingiuntivi di Intesa, UniCredit, Bpm e Bnl e legati al rimborso dei crediti utilizzando la garanzia dello Stato. Come si legge nelle sentenze, il giudice Alfredo Maria Sacco ha dato autorizzazione alle banche a rivalersi sui debitori per inadempimento e quindi non per insolvenza. Il tutto nonostante l' Avvocatura dello Stato avesse chiesto e ottenuto dal magistrato di valutare a quanto ammontasse il patrimonio del partito, che il consulente del giudice di Roma ha censito in una perizia molto accurata e per certi aspetti incompleta, atteso che lo stesso giudice ha disatteso la richiesta di poter proseguire le indagini peritali. Nonostante questo, però, il magistrato ha deciso che a pagare i debiti dei Democratici di Sinistra dovrà essere la presidenza del Consiglio dei ministri, appurato che, si legge nelle sentenze, il partito di D' Alema & C., ha posto in essere una serie di condotte «apparentemente elusive (e forse fraudolente), per sottrarre i propri beni dalla garanzia, patrimonio» che poi, nel 2007, l' allora tesoriere Ds Ugo Sposetti, poi senatore Pd, ha provveduto a «collocare» in 57 fondazioni e che, a dire dello stesso Sposetti, non è più aggredibile dalle banche. Palazzo Chigi ha anche chiamato in giudizio i Ds, oggi presieduti da Antonio Corvasce, che si sono costituiti con il nuovo tesoriere Vito Carlo D' Aprile il quale, da tempo, per poter fare fronte a tutti i debiti, ha chiesto il conto della sua gestione al senatore Sposetti, nel 2008 parlamentare del Pds, senza esito. Dalle carte risulta che le banche coinvolte devono avere indietro diversi milioni di euro: UniCredit 22 milioni circa, Intesa San Paolo 35 milioni, Bpm 14,7 milioni di euro e Bnl 14 milioni. Già nel 2014, all' epoca del governo Renzi, la presidenza del Consiglio aveva presentato opposizione, facendo ricorso attraverso l' Avvocatura dello Stato, perché non sussistevano «i presupposti per l' escussione della garanzia stessa chiedendo e ottenendo di chiamare in manleva l'associazione Democratici di Sinistra, già Partito democratico della Sinistra». Ma il decreto fu dichiarato immediatamente esecutivo. Con le sentenze del 10 settembre si chiude il primo capitolo della vicenda. Tocca allo Stato, che potrà rivalersi sui Democratici di sinistra, che sono i recenti antenati del Partito democratico. Solo che non c' è più un euro, visto che il patrimonio un tempo millantato non è che una scatola vuota. Dove sono finiti quei 3.200 immobili di cui solo una piccola parte è stata censita nella perizia fatta fare dal Tribunale di Roma? Che farà il premier Giuseppe Conte? Darà ordine di rivalsa sul partito dei Ds o andrà in appello? Il rischio è che a pagare i debiti di un partito siano i cittadini.
Quelle carte che svelano il trucco dei Ds per far pagare allo Stato 81 milioni di debiti. La garanzia di Palazzo Chigi per l'Unità nel 2000 adesso pesa su di noi. Chiara Giannini, Martedì 08/10/2019, su Il Giornale. Il centrosinistra continua a rivangare, quasi fosse un mantra, la storia dei 49 milioni di euro di rimborsi elettorali della Lega, ma quando si tratta di riportare alla luce la vicenda degli 81,6 milioni che lo Stato dovrà pagare per saldare i debiti assunti dai Ds per L'Unità, nasconde la testa sotto la sabbia. La vicenda, in realtà, pesa sulle spalle dei cittadini, perché nel 2000, sotto il governo D'Alema, la presidenza del Consiglio fece da garante, attraverso il Dipartimento per l'Informazione e l'Editoria, accogliendo la richiesta di subentro di Pds e poi Ds nella corresponsione delle rate d'ammortamento dei finanziamenti erogati in favore dell'Unità Spa. Il tutto per estinguere le passività aziendali emergenti dai bilanci dal 1986 al 1990. Tutto ciò emerge dal Decreto del 5 febbraio 2000, a firma del capo del Dipartimento Mauro Masi che, tra l'altro, disponeva il trasferimento della Garanzia primaria dello Stato e confermava anche la corresponsione, alle banche erogatrici, del finanziamento (San Paolo IMI Spa, Efibanca Spa, Bnl Spa) del contributo in conto interessi all'origine deliberato in favore dell'Unità. Ma si poteva fare? La norma che lo consentiva era di per sé molto discutibile, tant'è che fu abrogata nel 2007. Con quest'ultima legge, infatti, si consentiva che un'agevolazione dello Stato in favore dell'editoria, poteva poi essere girata a «soggetti diversi», che editori non erano. In questo caso, oltretutto, la garanzia della presidenza del Consiglio, concessa all'Unità spa nel lontano 1990 venne poi concessa, nel 2000, a un soggetto che non era un editore, ma un partito politico e, addirittura, il partito cui apparteneva il presidente del Consiglio incaricato in quel momento. La cosa assurda è che la norma del 1998, che concede la garanzia, fatta ad hoc sotto il governo Prodi, dice che la corresponsione «delle rate di ammortamento per i mutui agevolati concessi può essere effettuata anche da soggetti diversi dalle imprese editrici concessionarie, eventualmente attraverso la modifica dei piani di ammortamento già presentati dalle banche concessionarie, purché l'estinzione dei debiti oggetto della domanda risulti già avvenuta alla data della stessa e comunque prima dell'intervento del soggetto diverso». Questo non era ovviamente il caso, visto che non vi era stata regolarità nei pagamenti e che L'Unità, fino al 1997, era capiente e ricca di immobili, poi ceduti, guarda caso, alla Beta immobiliare srl che faceva capo al partito dei Ds. I beni che garantivano i crediti erano tutti lì, ma dal 2007 il tesoriere Ugo Sposetti, senza informare né la presidenza del Consiglio, né le banche, cominciò a farli confluire in varie fondazioni, dove ancora si trovano. Il resto è storia recente: a pagare i debiti del centrosinistra saranno i cittadini.
Pietro Barghigiani per “la Stampa” il 26 luglio 2019. C'era la fila ad ascoltarlo raccontare i suoi progetti televisivi e con pari solerzia a chiedere un contributo per iniettare liquidità nel giornale di partito sempre più agonizzante. E lui, imprenditore munifico quanto sensibile ai temi della sinistra, ci aveva investito. Alla fine sostiene di aver perso quasi 14 milioni di euro nell'Unità, il quotidiano del Pd che da tempo ha cessato le pubblicazioni. Ora si ritrova con una richiesta di rinvio a giudizio per bancarotta per il crac dell' editrice Nie Spa. Maurizio Mian, 63 anni, pisano, una fortuna immobiliare e cash ottenuta dalla vendita a un colosso di Big Pharma americano dell' azienda farmaceutica di famiglia alla fine degli anni Novanta, al magistrato che lo vuole processare ha scritto: «Il Pd mi ha sedotto e abbandonato. Sono stato raggirato». Era il 2011 quando Mian entrò nell' operazione di salvataggio dell' Unità. Prima e dopo di lui altre undici persone devono adesso fronteggiare la tagliola giudiziaria che a metà settembre li vedrà riuniti davanti al gup del Tribunale romano: fra loro anche Renato Soru, il fondatore di Tiscali ed ex governatore della Sardegna (dal 2004 al 2008). Quella dei debiti dell' Unità è una storia che aveva portato in superficie anche un altro aspetto, quello legato alle sentenze per diffamazione a carico dei giornalisti. L' ex direttore Concita De Gregorio sta pagando per tutti. L' editore è fallito e non salda. E il direttore della testata, responsabile in solido, viene citata in tribunale. Sono spariti quelli del Pd e Concita De Gregorio combatte in solitudine la sua battaglia. Mian sostiene che gli sia toccata la stessa sorte e accusa il Pd di averlo «usato come un bancomat» per poi trovare il deserto al momento di chiedere il conto di una gestione editoriale in cui sono state bruciate decine di milioni di euro. I legali di Mian, gli avvocati Pasquale Pantano e Davide Contini, avevano chiesto al pm di indagare sul Pd. La risposta del magistrato è stata di «rigettare le richieste istruttorie potendo provvedere la difesa all' acquisizione documentale e all' assunzione delle informazioni». Gli avvocati hanno avanzato un' istanza al pm chiedendo di fare luce, tra le altre cose, sull' esistenza di un patto parasociale «in forza del quale la concreta gestione dell' affare sociale di Nie era concentrata nelle esclusive mani del Pd per il tramite di Eventi Italia srl. In sostanza il pm vuole che indaghiamo noi sul Pd quando invece spetterebbe a lui». Il magistrato titolare dell' inchiesta Stefano Fava è finito, nel frattempo, indagato per favoreggiamento e rivelazione di segreto d' ufficio nell' ambito dell' indagine di Perugia che coinvolge l' ex presidente di Anm, Luca Palamara, sospeso per la crisi del Csm, e legato, stando alle intercettazioni, all' ex ministro Pd, Luca Lotti. Secondo l' accusa i 12 imputati, ciascuno il ruolo di socio o consigliere di amministrazione, avrebbero «cagionato o partecipato a cagionare il dissesto della società aggravandone la crisi finanziaria e dissipando il patrimonio societario non riducendo i costi fissi relativi alla stampa del quotidiano, pur in presenza di una contrazione delle vendite della testate e di un decremento significativo dei contributi pubblici». Non solo. L' addebito a tutti gli amministratori è di «non aver ridotto i costi fissi del giornale, con i debiti che tra il 2009 e il 2014 sono cresciuti da 16 a 26 milioni, continuando fra l' altro a stampare 65 mila copie a fronte di una vendita di 18 mila». Per la Procura gli amministratori avrebbero omesso di sciogliere la società malgrado alla chiusura dell' esercizio 2013 il capitale sociale risultasse più che azzerato. E il Pd? «Non mi sono mai occupato di conti. E meno male, perché non ne avrei avute le competenze. Ho fatto studi archeologici, figuriamoci», dice Matteo Orfini al Tirreno. «Non ho la più pallida idea di cosa sia accaduto e di chi sia la responsabilità. C' era una società e non la dirigevamo noi, né io né il Misiano, come non l' hanno diretta dopo di noi Bonifazi e Renzi».
La chiusura. Nel 2014 il quotidiano ha 125 milioni di euro di debiti e cessa le pubblicazioni. L' anno dopo torna in edicola con il Pd diventato socio attraverso la fondazione EYU Europa-Youdem-Unità I primi guai Il quotidiano fondato da Gramsci nel 1924 chiude per la prima volta nel 2000. Riapre l' anno dopo e nel 2008 viene acquistato dal governatore sardo Renato Soru.
I debiti. Nel 2012 il patron di Tiscali si defila, scendendo dal 98% al 5%. Il suo pacchetto azionario viene acquistato dalla società Nie il caso Il quotidiano fondato da Antonio Gramsci ha cessato la pubblicazione nel 2017.
· La Resistenza accusata di terrorismo e genocidio.
Anpi, ecco le 90 pastasciutte antifasciste organizzate in tutta Italia per ricordare il 25 luglio del '43. Si fece festa anche in casa Cervi quel giorno di 76 anni fa. Dopodomani iniziative in tutta Italia organizzate dall'associazione nazionale partigiani, dai sindacati e dai Comuni. Per celebrare la caduta del regime di Mussolini. La presidente Nespolo: "Il fascismo è e resterà un crimine". Giovanna Casadio il 23 luglio 2019 su La Repubblica. "Papà, offriamo una pastasciutta a tutto il paese intanto che il fascismo è caduto, poi si vedrà", disse Aldo. E allora, racconta papà Cervi, "andammo a prendere il formaggio dalla latteria in conto del burro che ci impegnammo a consegnare gratuitamente per un certo tempo. La farina l'avevamo a casa e altri contadini l'hanno pure data e sembrava che dicesse: mangiami ora che il fascismo e la tristezza erano andati a ramengo". Fu così che il 25 luglio del 1943 - anche se di lì a qualche mese molte altre cose sarebbero accadute, dall'armistizio ai rastrellamenti all'uccisione dei sette fratelli Cervi - si fece festa. Da casa Cervi partirono alla volta di Campegine i bidoni di latte che contenevano la pastasciutta con burro e formaggio. In piazza fu una notte di canti e balli sull'aia senza il timore che arrivassero le camicie nere. Almeno quella sera. E dopodomani, il 25 luglio, di "pastasciuttate" se ne faranno oltre novanta organizzate dai partigiani dell'Anpi, dai sindacati e dai Comuni in tutt'Italia per celebrare quant'è bella - e gustosa - la libertà. Non solo a Gattatico, a Reggio Emilia, nel casolare-museo dei Cervi - con Albertina Soliani ad organizzare - , ma anche pastasciutta antifascista nel milanese a Basiano come a Bassano del Grappa, a Bergamo e a Borgo Ticino a Novara. E pastasciuttate a Bolzano come ad Alessandria a Brindisi, a Varese e a Pisa, a Catanzaro e a Cosenza, a Gorizia e al Trullo a Roma. Carla Nespolo, la presidente dell'Anpi, ci tiene a ricordare che "il 25 luglio è festa grande per il nostro paese, perché si celebra la caduta del regime criminale di Benito Mussolini. L'Anpi sarà impegnate in decine di iniziative di memoria attiva. Ricordando la famosa "pastasciuttata" a Campegine offerta dai Cervi lanceremo un messaggio chiaro: il fascismo è e resterà un crimine. Sono intollerabili, oltreché illegali, tutte le manifestazioni apologetiche, cortei in orbace, saluti romani, ma soprattutto le violenze razzistiche. Diremo, inoltre, con forza che le tentazioni autoritaristiche, le barricate disumane contro i deboli in fuga dalle guerre e dalle torture sono fuori dalla Costituzione". Invita tutti, Nespolo, a festeggiare con la pastasciutta antifascista, perché, come rammentava Alcide Cervi, "le donne si mobilitano nelle case attorno alle caldaie e c'è un grande assaggiare la cottura e il bollore suonava come una sinfonia. Ho sentito tanti discorsi sulla fine del fascismo ma la più bella parlata è stata quella della pastasciutta in bollore". L'elenco dei luoghi delle pastasciutte antifasciste si trova sul sito dell'Anpi.
RAPPRESAGLIE PARTIGIANE. Ernest Armstrong su laltraverita.it. Rappresaglia. Nell’immaginario collettivo creato dal “mito resistenzialista”, all’udire questa parola appare l’immagine di un plotone di tedeschi che fucilano 10 innocenti civili italiani per ogni loro camerata morto. In realtà la rappresaglia fu attuata da tutti gli eserciti che combatterono nella seconda guerra mondiale, come ricorda anche Gianni Alasia, attuale esponente di Rifondazione Comunista : “Quando il mio amico Heinz Karl M., di Monaco, militare della Wehrmacht, fu fatto prigioniero in Francia, visse momenti tremendi. Vennero fatte decimazioni, e Carlo non capiva il perchè di una cosa così terribile mentre erano inermi prigionieri. “La rappresaglia era ammessa dal Diritto internazionale del tempo di guerra di Ginevra, a patto che ad eseguirla fosse un regolare esercito (in divisa) che fosse stato attaccato da terroristi (non in divisa). Essa poteva avvenire, qualora non si fossero presentati i colpevoli, su prigionieri o su civili, esclusi donne e bambini, colpevoli di aver protetto i terroristi. Sia i terroristi che chiunque avesse ucciso prigionieri, fuori dai casi previsti, alla fine del conflitto doveva essere processato per crimini di guerra. Questo in Italia non accadde. Chi ordinò uccisioni non giustificate dal Diritto Internazionale , se partigiano, fu ricompensato con l’inquadramento tra i graduati nell’Esercito e con titolo alla pensione.
8 agosto 1944, ore 9 del mattino, a Milano in Piazzale Loreto angolo viale Abruzzi esplode una bomba posta sul sedile di un camioncino tedesco che rifornisce di latte le famiglie. Muoiono nell’esplosione sei bimbi, una donna e due giovani padri. Tredici i feriti gravi, sei di loro moriranno il giorno dopo. Il bilancio finale sarà di 15 morti, 7 feriti gravi e una decina di feriti leggeri. Nessun tedesco muore nell’attentato ma l’efferatezza è tale che il Comando germanico chiede di procedere ad una rappresaglia in misura di uno per uno. Non tutti sono d’accordo. Il prefetto, Piero Barini, si dimette. Mussolini interviene e protesta con violenza. Anche il cardinal Schuster interviene. Malgrado ciò al mattino del 10 agosto in piazzale Loreto un plotone della Muti fucila quindici persone sospettate di aver rapporti con i partigiani e per questo da tempo incarcerate a S. Vittore. Ed ecco che scatta immediatamente la rappresaglia partigiana, infatti lo stesso giorno da parte della Delegazione per la Lombardia del Comando Generale delle Brigate Garibaldi viene impartito l’ordine alle formazioni partigiane di fucilare militari fascisti e tedeschi loro prigionieri nella misura di tre ad uno . "Per rispondere agli efferati delitti che i nazifascisti compiono a Milano.....1)Passare per le armi i prigionieri nazifascisti attualmente in vostro possesso; 2)Tali esecuzioni devono essere comunicate e popolarizzate segnalando che vengono eseguite come rappresaglia degli eccidi di Milano; 3) Se tali eccidi si ripetono le esecuzioni in massa di nazifascisti prigionieri dovranno essere immediatamente eseguite ”. Verranno fucilati 30 prigionieri fascisti e 15 tedeschi, probabilmente dalle Divisioni Ossolane di Cino Moscatelli, in quanto molti di loro erano stati catturati in massa, su alcuni treni , qualche tempo prima, dai partigiani dell’Ossola. Un risvolto drammatico è dato dal fatto che Mussolini ed i gerarchi uccisi a Dongo verranno esposti, il 29 aprile 1945, a Piazzale Loreto per “vendicare la fucilazione di 15 patrioti”.
Purtroppo la prassi di fucilare prigionieri a seguito dell’uccisione di partigiani fu costante in tutte le formazioni. Un elenco di controrappresaglie eseguite è contenuto in una lettera del 12 ottobre del 1944 della Delegazione Lombardia del Comando Generale delle Brigate Garibaldi. Un’altra lunga serie di rappresaglie partigiane viene effettuata nel Biellese, se ne trova traccia nel libro “La Resistenza nel Biellese” di Poma e Perona. L’ordine di “prendere fascisti” militi o civili da trattenere come ostaggi per scambi di prigionieri, piuttosto che per fucilarli per rappresaglia viene diramato dai vari Comandi. Così il Comando della 3a Divisione Liguria può permettersi di comunicare, il 25 agosto 1944 , che a seguito del " processo del Tribunale Speciale contro trentun italiani....per ogni fucilazione ordinata dal tribunale, verranno fucilati 2 ostaggi che si trovano in nostre mani”. Si trattava di funzionari e agenti di PS e ufficiali e militi della GNR. Per la fucilazione di due partigiani avvenuta a Varzi, il Comando della 3a divisione Lombardia “Aliotta” ordina che ciascuna delle brigate dipendenti proceda alla fucilazione di 2 prigionieri, mentre dopo la fucilazione di 5 partigiani sulla piazza di Ivestria, la brigata Baltera risponde fucilando 20 SS tenute come ostaggi. Anche la prassi di stampare ed affiggere manifesti minacciando le rappresaglie non fu prerogativa delle truppe dell’Asse, infatti si legge in un manifestino bilingue diffuso dalla divisione partigiana Serafino della Val Chisone: ”.Soldati tedeschi ....i vostri comandanti erano stati avvertiti che per ciascun nostro caduto avremmo ucciso tre di voi. Oggi informiamo voi stessi della decisione...”. Ma un manifesto del CLN del Piemonte, del 27 settembre 1944, alza la posta: "Alle persecuzioni risponderemo con le persecuzioni. Alle rappresaglie con le rappresaglie. Per ogni patriota ucciso cadranno cinque nazifascisti; per ogni villaggio incendiato cinquanta traditori verranno passati per le armi". E non erano minacce a vuoto. Infatti il 12 dicembre 1944, dopo l’uccisione di Duccio Galimberti, il Comando regionale Militare del Piemonte emana il seguente ordine: “Passare per le armi cinquanta banditi delle Brigate Nere per vendicare la morte del comandante Tancredi Galimberti”. La vita di Galimberti valeva dieci volte di più del minacciato. Ma c’e già chi passa all’escalation e si prepara ad uccidere anche i familiari di tedeschi e fascisti. Così scrivono, il 28-12-44, i “compagni responsabili” a Pietro, commissario politico della 5a zona Cuneese:". Se i nazifascisti uccidono per rappresaglia dei pacifici cittadini dovremo passare alla controrappresaglia sui fascisti, tedeschi e anche le loro famiglie." . Purtroppo anche stavolta alle intenzioni seguirono i fatti.
Nei libri resistenzialisti delle fucilazioni eseguite per controrappresaglia dai partigiani non si trova che qualche traccia, molto ben mascherata, nè la stampa o la pubblicistica di destra ha mai approfondito questo tema. Cosicchè ancora oggi ci sono ignoti non solo la maggior parte degli episodi, ma anche il numero ed il nome degli uccisi. Che martiri sono, almeno quanto quelli delle Fosse Ardeatine. A questo proposito è emblematico un episodio accaduto in Piemonte, nelle Valli di Lanzo. Nel gennaio 1994 mentre ristrutturava la sua casa alla periferia di Cantoira, in Alta Valle di Lanzo , Pierino Losero ritrova uno scheletro. Nasce un caso di cronaca di cui si occupano non solo i giornali locali , ma anche La Stampa di Torino. Si fanno vari esami e varie ipotesi : dai resti di un guerriero medioevale ad un caduto della Prima Guerra Mondiale. Finchè una lettera anonima ,spedita a La Stampa , e pubblicata il 18/1/1995 non svela il mistero. “Le ossa ritrovate un anno fa hanno un nome e cognome: Werner Teschendorff, ufficiale tedesco della Wehrmacht, nato a Dusseldorf nel 1922. La lettera anonima ha dato ragione a chi pensava ad una vittima della lotta di liberazione. " Nel marzo o aprile del 1944- comincia il primo foglio- mi trovavo distaccato come partigiano GL in una baita sopra Chialamberto, lì ci vennero affidati tre prigionieri tedeschi dal comando garibaldino di Pessinetto" In quei giorni venne catturato dalla milizia repubblicana Battista Gardoncini, che venne poi fucilato a Torino, in piazza Statuto. Di conseguenza al gruppo partigiano del mittente, che ora abita nell' Albese, arrivò l'ordine immediato di fucilazione per rappresaglia per i tre prigionieri. Il comandante Pedro Francina tentò più volte di far annullare l'ordine recandosi al comando di Pessinetto. Fu tutto inutile, i tre tedeschi dovevano essere passati per le armi. Due di loro, graduati e richiamati nell'esercito, furono fucilati in località "Alpe Crot", sopra Chialamberto. Poi il racconto si fa più intenso: "Erano dei bravi ragazzi con i quali avevo fraternizzato, ...con il cuore gonfio di tristezza e rimorso...lo guardavo mentre scriveva le sue ultime volontà...fu trasportato a Cantoira dove fu fucilato e seppellito in una vecchia casa. Aveva 22 anni, era laureato in botanica, doveva sposarsi di lì a poco, morì dignitosamente gridando "Viva la Germania". Quello che la lettera anonima non dice è che Werner Teschendorff fu uno dei centoventi prigionieri fucilati per vendicare la morte di “Battista”, ce ne dà conferma, in modo sibillino, Gianni Dolino capo partigiano delle Valli di Lanzo :” Battista, comandante delle Valli, e Pino suo commissario vennero catturati a Balme il 29 settembre e fucilati il 12 ottobre ‘44 con sette compagni, in via Cibrario a Torino, presso l’albergo Tre Re. Il comandante della Piazza di Torino, colonnello Schmidt, rifiutò l’offerta di 120 uomini (tra i quali ufficiali tedeschi) della delegazione Garibaldi, tramite la Curia, in cambio di Battista. ......Pietà l’è morta: pagheranno i 120 offerti in cambio! . Durante la guerra civile il CLN non risparmiò certo sulla pubblicità da dare alle rappresaglie eseguite. Tranne a farne sparire , a guerra finita, ogni traccia. In nessun libro ho sinora trovato una sola riproduzione dei tanti manifesti in cui si annunciavano le rappresaglie eseguite. Per certo, d’altronde, il 15 ottobre 1944 la Delegazione della Lombardia del Comando Generale delle Brigate Garibaldi, annuncia in un manifesto che ad un eccidio nel Pavese si è risposto con la fucilazione di 8 prigionieri, a quello di 15 patrioti in provincia di Varese con quella di 45 nazifascisti, mentre l'Unità del 8-ottobre-44 dà la notizia della fucilazione di 35 prigionieri in risposta all'uccisione di 7 partigiani. Pubblicità fu data, non sappiamo per certo con quale strumento, all’uccisione di un tenente fascista il 19-10-44, effettuata dalla Divisione autonoma De Vitis, per rappresaglia contro l'uccisione di un partigiano e alla fucilazione di Luigi Bevilacqua, Luigi Gallo Marchiando, Michele Pozzi e del capitano Aurelio Quattrini , tutti della G.N.R., catturati l’11 marzo mentre eseguivano un trasloco di mobili, ordinata, il 23 marzo 44 , dal capo partigiano Marcellin a seguito di una rappresaglia tedesca a Pomaretto.
Alcune rappresaglie portano inequivocabilmente la matrice della vendetta come quella eseguita dai partigiani a Collegno. In quella cittadina, alle porte di Torino, a “liberazione” avvenuta, il 1°maggio 1945 i tedeschi della divisione corrazzata del Generale Schlemmer, mentre si ritirano, vengono attaccati dai partigiani che sparando dai tetti uccidono due soldati. I tedeschi sospendono la ritirata, rastrellano le strade ed il mattino seguente , non essendosi presentati i responsabili, fucilano trenta tra civili e partigiani. Quando i tedeschi sono lontani ricompaiono i partigiani che si recano alla Brignione, una fabbrica nelle vicinanze; dentro vi sono trenta giovani della Divisione Littorio, nativi di Cremona e Mantova, nascosti lì ,dopo la resa, da un certo Ruchelli, impietositosi dalla loro sorte. Vengono massacrati tutti e trenta assieme agli studenti Tino Di Fullo e Remy Maccani, accusati di essere fascisti. Anche nella zona di Santhià, i tedeschi, che cercano di aprirsi un varco verso oriente,tra il 28 e 29 aprile, provocano morti, i partigiani per vendetta fucilano a Vercelli un egual numero di prigionieri fascisti. Sono i giorni di Caino, i giorni in cui il giornale Il ribelle , organo della IV divisione partigiana Pinan-Chichero, scrive: "Non basterà colpire l'idea, bisognerà colpire chi si è macchiato servendo l'idea fascista e chi si macchierà di fascismo. Occorre epurare: colpire gli individui renitenti, distruggerli, eliminarli integralmente, disinfettare l'aria infetta.... l'eliminazione dovrà colpire migliaia di fascisti ed i colpiti saranno sempre pochi.Non arrestiamoci per sentimantalismo o per stanchezza" la stessa “filosofia “viene ribadita con più autorità da Giorgio Amendola sull’Unità del 29 aprile,di Torino: " Torino è il centro di direzione e di organizzazione di tutto il Piemonte. Il CLNP esercita la sua funzione di governo e coordina e dirige tutta la guerra. I tedeschi e gli ultimi gruppi di banditi neri sono ormai fuorilegge.....Pietà l’è morta! ...E’ la parola d’ordine del momento. I nostri morti devono essere vendicati tutti. I criminali devono essere eliminati. La peste fascista deve essere annientata. Solo così potremo finalmente marciare avanti. Con risolutezza giacobina il coltello deve essere affondato nella piaga, tutto il marcio deve essere tagliato. Non è l'ora questa di abbandonarsi a indulgenze che sarebbero tradimento della causa per cui abbiamo lottato. Pietà l'è morta! “La strage è iniziata, gli ostaggi non servono più. Per essere certi che nessun fascista resti in vita, la 1a Divisione autonoma Val Chisone "A. Serafino", già citata ,emana le Disposizioni sul trattamento da usarsi contro il nemico :”...Trasmetto gli ordini ricevuti dal CVL...gli appartenenti a tutte le truppe volontarie (fasciste) sono considerati fuori legge e condannati a morte. Uguale trattamento sia usato anche per i feriti di tali reparti trovati sul campo...in caso si debba fare dei prigionieri per interrogatori ecc., il prigioniero non deve essere tenuto in vita oltre le tre ore. firmato: Il Comando di Divisione. “Si è alla strage autorizzata. Ma torniamo alle rappresaglie, in particolare a quelle eseguite dai tedeschi e fascisti. Già oggi qualche storico ipotizza, a seguito di ricerche svolte, che molte rappresaglie venissero provocate appositamente per indurre la gente ad odiare i tedeschi ed i fascisti, ed anche per liberarsi di alleati “scomodi”, così come una ricostruzione dell’attentato di Via Rasella può fare concretamente dedurre. “I comunisti sapevano che l'attentato era assolutamente nullo da un punto di vista militare. Sapevano con assoluta certezza che a quell'attentato, a quel tipo di azione sarebbe seguita una rappresaglia. E' altrettanto indubbio che sapevano che le vittime sarebbero state scelte fra i prigionieri antifascisti incarcerati a Roma. I dirigenti del PCI sapevano che circa centotrenta tra ufficiali del Centro Militare Clandestino e uomini di vari partiti non comunisti si trovavano nelle mani della polizia tedesca. L'attentato di via Rasella venne compiuto all'insaputa dei responsabili della lotta clandestina della capitale..........Nulla da stupirsi dunque che uno degli obiettivi, se non il vero obiettivo, fu quello di eliminare alleati che al disegno del PCI si opponevano: E' fuori discussione , infatti, che l'unico vero risultato raggiunto, con l'eccidio di via Rasella ,fu il totale massacro di scomodi alleati che vennero così trasformati in altrettanti comodi martiri al servizio del partito comunista italiano.[3] Lo stesso Indro Montanelli, nel 1983 ,così riassunse l'attentato:" L'attentato fu inutile, perchè a chiunque risultava chiaro che la liberazione di Roma era questione di settimane, poi perchè prese di mira un reparto di anziani territoriali alto-atesini e scatenò la rappresaglia"...da più parti fu sottolineato che "gli ostaggi fucilati erano in maggioranza antifascisti ma non comunisti” La stessa strategia sembra aver suggerito l’uccisione di Ather Capelli. Al mattino del 31 marzo ‘44, vengono arrestati nel Duomo di Torino e sulla piazzetta antistante i componenti del Comitato Piemontese del CLN, in maggioranza badogliano; alle ore 13 dello stesso giorno, due gappisti, Sergio Bravin e Giovanni Pesce, uccidono a revolverate, dentro l’androne di casa, il direttore della Gazzetta del Popolo, Ather Capelli. L’omicidio darà il via alle rappresaglie a Torino e contribuirà notevolmente alla richiesta “di condanna esemplare” che porterà, nonostante gli interventi del Federale Solaro e del prefetto Zerbino per evitarla, alla condanna a morte del generale Perotti e di altri sette membri del CLN Piemontese, catturati.
Ma non è solo il caso dell’attentato di Via Rasella o di Torino. Così Liano Fanti, autore del libro " Una storia di campagna. Vita e morte dei fratelli Cervi", in una intervista a La Stampa : "Il Pci ha fatto dei fratelli Cervi una bandiera, in realtà il partito reggiano li aveva emarginati con l'accusa, sostenuta fino alle soglie dello scontro violento, di essere "anarchici" che non avevano assimilato le linee del partito....Il partito rifiutò ai Cervi la copertura di una delle tante "case di latitanza" (nascondigli che ospitavano i compagni che erano in pericolo o stavano per essere scoperti dal nemico) proprio nel momento di massimo pericolo , per i Cervi il rifiuto fu fatale. Questi fatti si trovano anche nella Storia della Resistenza reggiana di Guerrino Franzini. Dopo la cattura dei Cervi era stato emanato l'ordine di non compiere attentati per non mettere in pericolo la vita degli arrestati. Ma qualcuno non rispettò l'ordine e il 17 dicembre '43 uccide il primo seniore della Milizia Giovanni Fagiani. I fascisti minacciano ritorsioni , ma non fanno nulla. Il 27 dicembre un gruppo partigiano uccide il segretario comunale di Bagnolo in Piano, Davide Onfiani. Non passano più di 12 ore e la rappresaglia colpisce i fratelli Cervi..Nel 1980 Osvaldo Poppi, che con il nome di "Davide" era membro del Comitato Militare, in una lettera inviata all' Anpi di Reggio Emilia ha scritto che non aveva potuto fare con i Cervi quello che nel '44 aveva fatto nel Modenese con Giovanni Rossi, un partigiano refrattario ad accettare la linea del partito. Testualmente: “..non avevo potuto eliminarli in virtù della loro "grande statura morale ". Come si può comprendere molte sono ancora le cose da portare alla luce di quello che fu definito il “secondo Risorgimento” , ma ciò a cui più teniamo è che tutti coloro che ebbero il torto di morire per essersi schierati con la parte perdente o più semplicemente per colpa dell’ odio, non cadano nell’oblìo voluto da una storiografia bugiarda. Anche il “nuovo revisionismo resistenzialista” dell’ultimo libro di Pansa - I nostri giorni proibiti-, non ci trova d’accordo laddove la morale di fondo è quella dei vecchi partigiani che , invitano Marco, figlio di un loro compagno misteriosamente ucciso, a smetterla di cercare la verità, ma soprattutto ad abituarsi a non sapere.
Giudicanti, ingiudicati. Il giudizio dei vincitori e la condanna all'oblio.
Sentenza Corte di Cassazione - Sezioni Unite Civili - 19 luglio 1957 n. 3053 - Attentato di via Rasella.
Sentenza 19 luglio 1957, n. 3053 Corte di Cassazione.
Organo giudicante: Corte di Cassazione
Normativa correlata:
D.L.L. 5 aprile 1945, n. 158
D.L.L. 12 aprile 1945, n. 194
D.L.L. 21 agosto 1945, n. 518
D.L.C.p.S. 6 settembre 1946, n. 226
Artt. 25, 26 e 27 R.D. 8 luglio 1938, n. 1415
Artt. 170, 171, 174 e 175 Codice penale militare di guerra
Artt. 2043 e 2049 Codice civile
Intestazione e massima di Foro Italiano. Omissis. — Svolgimento del processo: il 23 marzo 1944, in Roma, una formazione militare germanica che transitava per via Rasella fu investita dallo scoppio di un ordigno esplosivo, che causò la morte di trentadue soldati, oltre che di due cittadini, nonché il ferimento di altre due persone che si trovavano sul posto. Il successivo giorno 24 [i] tedeschi eseguirono, per rappresaglia, in località Cave ardeatine, il massacro di trecentotrentacinque persone, scelte tra i detenuti, condannati, o indiziati per attività antifascista, e tra gli appartenenti alla cosiddetta razza ebraica, oppure prelevate immediatamente dopo il fatto nei pressi di via Rasella. Trovarono così la morte, tra gli altri, Alfredo ed Adolfo Sansolini, Amedeo Lidonnici, Gino e [Duilio] Cibei.
Con atto di citazione 15-16 marzo 1949, Ercole Sansolini, Stefano Lidonnici e Vincenzo Cibei convennero in giudizio avanti al Tribunale di Roma gli esecutori materiali dell'attentato, in persona di Rosario Bentivegna, Franco Calamandrei e Carlo Salinari, nonché i presunti loro mandanti, in persona di Sandro Pertini, Giorgio Amendola e Riccardo Bauer, affinché fossero tutti condannati al risarcimento dei danni ad essi istanti derivati per la morte dei loro rispettivi figli. A sostegno della domanda dedussero: che all'epoca dell'attentato si trovava in Roma, quale comandante delle forze militari della Resistenza, il generale Quirino Armellini, regolarmente nominato dal Governo legittimo, mentre la rappresentanza politica era stata assunta dal Comitato di Liberazione Nazionale, presieduto da Ivanoe Bonomi; che, indipendentemente da questi due organi, esisteva ed operava in Roma una Giunta Militare, di cui facevano parte il Pertini, l'Amendola e il Bauer, dalla quale dipendevano alcune formazioni partigiane garibaldine; che gli ordini impartiti dal generale Armellini, nonché dal generale Bencivenga, il quale aveva assunto il comando della città di Roma con pieni poteri civili e militari, imponevano di non compiere attentati nell'interno di detta città; che la Giunta Militare, pur essendo a conoscenza delle rappresaglie preannunciate, minacciate ed eseguite dai tedeschi, aveva ordinato di compiere l'attentato di via Rasella, non ostante le contrarie disposizioni impartite dai detti generali; che, dopo l'arresto in massa degli abitanti di via Rasella e l'annuncio della rappresaglia collettiva, gli autori dell'attentato si erano mantenuti nell'ombra ed avevano lasciato che l'esecuzione collettiva avesse luogo.
Sostennero, poi, in diritto, gli istanti, che coloro i quali avevano ordinato, diretto, od eseguito l'attentato, erano incorsi in illecito penale e civile. L'illecito penale dipendeva dalla violazione delle norme relative agli usi e alle convenzioni di guerra, sanzionate dagli art. 174, 175 e 177 codice penale militare di guerra, nonché dagli art. 422 e 589 codice penale comune; l'illecito civile conseguiva alla violazione delle norme di comune prudenza e del fondamentale principio del neminem laedere, nonché alla inosservanza degli ordini del generale Armellini e alla mancanza di autorizzazione da parte di un qualsiasi organo responsabile e rappresentativo.
A dimostrazione dei fatti esposti dedussero prova per interrogatorio e per testimoni ed esibirono copie informi della sentenza pronunciata dal Tribunale Militare Territoriale di Roma nel processo contro Kappler e delle dichiarazioni rese in quel processo da alcuni testimoni, tra cui i convenuti. Produssero inoltre copie di taluni giornali, contenenti apprezzamenti ed informazioni varie.
Costituitosi il contraddittorio, il Cibei rinunciò all'istanza. Spiegarono intervento: Orfeo Ciambella, che aveva riportato ferite in occasione dell'attentato; Giorgio e Giorgina [Stafford], che avevano subito il saccheggio del loro appartamento e la seconda anche gravi danni alla persona per effetto dell'esplosione; Maria Benedetti ved. [Pula], madre di Italo e Spartaco [Pula], fucilati per rappresaglia; Alessandrina Tassinari, madre di Giorgio Ercolani, anch'esso fucilato per rappresaglia; Efrem [Giulianetti], ferito a seguito dell'attentato.
Fu chiamata in giudizio Carla Capponi, che aveva anche partecipato all'attentato.
I convenuti eccepirono l'improponibilità della domanda, sostenendo che l'attentato doveva qualificarsi azione di guerra compiuta da partigiani e, come tale, non era suscettibile di sindacato di merito da parte del giudice ordinario; che la sua eventuale illegittimità alla stregua del diritto internazionale non implicava una eguale illegittimità rispetto all'ordinamento giuridico interno; che il potere di comando dei generali Armellini e Bencivenga non si estendeva alla Giunta Militare e alle formazioni da questa dipendenti; che l'attentato doveva inquadrarsi nelle direttive impartite per radio dal capo del Governo legittimo maresciallo Badoglio; che, comunque, difettava qualsiasi rapporto di causalità tra il preteso fatto illecito e gli eventi dannosi, ponendosi il fatto del terzo (tedesco invasore) come causa della strage delle Cave ardeatine.
Successivamente intervennero in giudizio Adolfo Pisino, padre di Antonio Pisino, fucilato nella rappresaglia; nonché Egiziaca [Petrianni], vedova di Augusto Renzini, anch'egli fucilato, la quale dichiarò di agire, sia in proprio, sia quale esercente la patria potestà sulla figlia minore Anna Renzini.
Giorgio e Giorgina [Stafford] rinunciarono alla domanda.
Il tribunale, con sentenza 26 maggio-9 giugno 1950, dichiarò improponibile la domanda, sotto il profilo che l'attentato di via Rasella costituì un legittimo atto di guerra, come tale riferibile allo Stato ed insindacabile da parte dell'Autorità giudiziaria.
Proposero appello il Lidonnici, il Sansolini, il Ciambella e la [Petrianni], ma la Corte di Roma, con la sua pronuncia 14 gennaio-15 maggio 1954, lo rigettò.
Considerò, tra l'altro, la Corte, che l'attentato di via Rasella ebbe il carattere obiettivo di fatto di guerra, essendosi verificato durante l'occupazione militare della città di Roma ed essendosi risolto materialmente in un prevalente, se non esclusivo, danno per le forze armate germaniche, ed ebbe il carattere di atto di guerra sotto l'aspetto subiettivo, essendo stato ispirato alla finalità di recare offesa al nemico occupante. Da questa premessa la Corte trasse la conseguenza che la illiceità del fatto non poteva essere determinata con riferimento al principio generale del neminem laedere, né secondo i criteri della legge penale comune, né in relazione alle norme e agli usi di diritto internazionale.
L'attentato non poteva considerarsi illecito nemmeno rispetto alla legge italiana, la quale regola la materia, nell'esclusivo interesso dello Stato italiano, e non anche in suo danno. Ed è del resto conforme alla tradizione storica di tutti i paesi che l'atto di guerra, da chiunque attuato in favore della propria nazione, non è, di per sé e per il singolo, da considerarsi illecito, salvo che sia qualificato tale da una norma di diritto interno. Ora l'art. 35 del R. D. n. 1415 del 1938 e l'art. 175 del codice penale militare di guerra considerano lecito l'uso della violenza in guerra, purché sia contenuto nei limiti in cui è giustificato dalle necessità militari e non sia contrario all'onore militare, e proibiscono di usare violenza proditoria al nemico, o di usare mezzi, o modi di guerra vietati dalla legge, o dalle convenzioni internazionali, o comunque contrari all'onore militare. L'attentato in oggetto non poteva essere contrario a queste norme, perché gli autori furono riconosciuti meritevoli di decorazioni al valore militare. Ciò escludeva la possibilità di un sindacato giurisdizionale sulla necessità o utilità di esso e sulla conformità, o meno, agli ordini dei competenti comandi. Aggiunse la Corte che tutta la successiva legislazione ha qualificato come atti di guerra le operazioni compiute da patrioti per la necessità di lotta contro i tedeschi e i fascisti nel periodo dell'occupazione nemica ed ha autorizzato la concessione di ricompense al valor militare ai partigiani, agli appartenenti ai G.A.P. ed alle squadre cittadine indipendenti; ha, infine, attribuite le qualifiche di caduti di guerra, di mutilati ed invalidi di guerra, con i conseguenti benefici, a quelli di loro che fossero, rispettivamente, caduti o avessero riportato mutilazioni o infermità. In particolare la Corte rilevò che proprio ad alcuni degli appellati era stata riconosciuta la qualifica di partigiano combattente ed attribuita una decorazione al valor militare, con espresso riferimento all'episodio di via Rasella, o ad altre azioni compiute nel perimetro di Roma; mentre era stata concessa la pensione di guerra ai familiari delle vittime di Cave ardeatine. In tal modo lo Stato ha identificato le formazioni partigiane come propri organi, ha accettato gli atti di guerra da esse compiuti, ha assunto a suo carico le relative conseguenze.
In quanto atto di guerra, compiuto da assimilati ai militari, l'attentato deve riferirsi esclusivamente allo Stato, e quindi non può essere riferito a chi lo ordinò, lo diresse e lo eseguì.
Avverso questa sentenza hanno proposto ricorso per cassazione, sulla base di tre mezzi di annullamento, il Sansolini, il Ciambella e la Benedetti, che hanno poi illustrato con memoria le loro censure.
Resistono gli intimati con controricorso e memoria.
Motivi della decisione: Con il primo mezzo di ricorso si censura la sentenza per violazione e falsa applicazione degli art. 170 e 171 codice penale militare di guerra, 66, 68 e 71 dell'allegato 2 al Servizio di guerra, approvato il 3 febbraio 1940, nonché per omessa motivazione sul punto decisivo che Roma era città aperta (art. 360, n. 5, codice di proc. civile). All'uopo si deduce che la Corte avrebbe dovuto risolvere la questione preliminare se Roma, all'epoca dell'attentato di via Rasella, fosse, o meno, città aperta. Dalla soluzione positiva di tale questione avrebbe dovuto trarre la conseguenza che in Roma era vietato qualsiasi atto di ostilità. Infatti si sarebbe dovuta applicare la sospensione d'armi o tregua, ovvero l'armistizio parziale, previsti dall'allegato 2 al Servizio di guerra sopra citato. Si soggiunge che l'art. 170 del codice penale militare di guerra punisce il comandante che commette atti di ostilità durante la sospensione d'armi o l'armistizio e l'art. 174 dello stesso codice punisce il comandante che ordina o autorizza l'uso di mezzi o modi di guerra vietati dalla legge o dalle convenzioni internazionali.
Con il secondo mezzo di ricorso si denuncia la violazione e la falsa applicazione degli art. 25, 26 e 27 del R. D. 8 luglio 1938 n. 1415, e 174 e 175 codice penale militare di guerra, per avere la Corte ritenuto che si trattasse di un atto legittimo di guerra senza considerare: a) che esso era stato vietato dalle autorità che rappresentavano in Roma il Governo legittimo; b) che fu compiuto da persone, le quali non avevano le caratteristiche necessarie per essere considerate legittimi belligeranti (uniforme o distintivo fisso comune a tutti e riconoscibile a distanza); c) che non rispondeva a necessità belliche; d) che fu compiuto, più che per arrecare danno al nemico, per sollevare la popolazione contro i tedeschi.
Infine, con il terzo mezzo di ricorso, si lamenta l'errata applicazione degli art. 2043 e 2049 codice civile, nonché l'insufficiente motivazione, ai sensi dell'art. 360, n. 5, codice di proc. civile, per avere la Corte escluso la sindacabilità dell'atto, in quanto riferibile alla pubblica Amministrazione. In contrario si deduce che, se è insindacabile la determinazione dell'Amministrazione di compiere un atto o un'opera, è sindacabile invece l'esecuzione dell'atto o dell'opera. Si aggiunge che la responsabilità degli autori materiali dell'atto sussiste, anche se questo sia riferibile alla pubblica Amministrazione.
Tale essendo l'oggetto delle censure, devono esaminarsi innanzi tutto le questioni prospettate con il secondo motivo, che hanno logicamente carattere preliminare.
Secondo la tesi degli attori, attuali ricorrenti, i convenuti, compiendo l'attentato alle forze tedesche in via Rasella, commisero un fatto illecito, e quindi sono obbligati a risarcire i danni che ne sono derivati direttamente alle persone che si trovavano sul luogo e che furono casualmente colpite dall'esplosione, e indirettamente ai congiunti delle vittime della feroce rappresaglia tedesca compiuta l'indomani alle Cave ardeatine. La tesi è stata disattesa per la considerazione che si trattò di un atto legittimo di guerra, come tale, riferibile allo Stato e non agli autori, e insindacabile dall'Autorità giudiziaria ordinaria. Il secondo mezzo di ricorso censura la detta qualificazione di atto legittimo di guerra, in sé e per sé considerato.
Il primo motivo di ricorso tende invece a dimostrare l'illegittimità dell'attentato come atto di guerra, in relazione alla situazione di città aperta di Roma. Esso prospetta quindi delle argomentazioni particolari rispetto a quelle di carattere generale sostenute con il secondo mezzo.
Procedendo all'esame di quest'ultimo mezzo, il Supremo collegio osserva che la qualificazione dell'attentato di via Rasella come atto legittimo di guerra non può essere compiuta alla stregua delle disposizioni degli art. 25 e 27 della legge di guerra (all. A al R. D. 8 luglio 1938, n. 1415), di cui si denuncia la violazione. Lo Stato italiano, nel definire con tali norme i legittimi belligeranti, ha inteso limitare i propri poteri nei confronti dei cittadini di altri Stati con i quali esso sia in guerra; ha stabilito cioè che le autorità italiane devono considerare legittimi belligeranti e trattare quindi come tali, secondo le norme internazionali di guerra, i sudditi nemici che si trovino nelle indicate condizioni. Tanto è vero che l'art. 29 della stessa legge considera come illegittimi belligeranti coloro che non si trovino nelle condizioni previste dagli art. 25 e 27 e li sottopone alle relative sanzioni per gli atti di ostilità da loro commessi.
Naturalmente, lo Stato italiano ha emanato queste disposizioni in esecuzione di accordi internazionali (Convenzione dell'Aja 18 ottobre 1907), al fine di ottenere che disposizioni analoghe venissero emanate da altri Stati, rivolte queste ai cittadini italiani, da considerare e da trattare come legittimi belligeranti. Ma ciò non importa che le dette norme della legge italiana possano essere applicate contro gli italiani. Poiché nella specie gli attentatori erano appunto tali e l'atto era diretto contro la Germania, in istato di guerra con l'Italia, la questione se gli autori dell'attentato fossero legittimi belligeranti si sarebbe potuta porre alla stregua delle leggi germaniche, nell'ipotesi in cui essi fossero stati catturati dalle forze nemiche, al fine di stabilire a quale trattamento avrebbero potuto essere sottoposti dalle autorità tedesche. E, se le leggi germaniche non fossero state conformi alle Convenzioni internazionali o non fossero state osservate, l'Italia avrebbe potuto lamentare la violazione degli obblighi internazionali e ricorrere alle relative sanzioni.
Trattandosi invece di qualificare l'atto nell'ambito dell'ordinamento italiano e nei confronti di altri cittadini italiani, che, pur non essendo le persone contro le quali l'attentato era diretto, hanno subito conseguenze pregiudizievoli da esso, l'indagine deve essere rivolta all'accertamento della natura obiettiva e subiettiva dell'atto, in relazione al sistema legislativo italiano.
Posto ciò e posto che l'attentato non fu ispirato da finalità personali, ma solo da quella di compiere un atto ostile verso le forze armate della Germania, che era in istato di guerra con l'Italia dal 13 ottobre 1943 e che aveva instaurato una vera e propria occupazione militare bellica di gran parte del territorio nazionale; posto che il governo legittimo italiano aveva incitato gli italiani delle zone soggette a quell'occupazione a ribellarsi all'occupante ed a compiere ogni possibile atto di sabotaggio e di ostilità, al fine di cooperare alla liberazione, per la quale combattevano, a fianco delle Nazioni Unite, le forze armate regolari, non sembra che possa seriamente dubitarsi che si trattasse di un atto di guerra.
Lo ha confermato nel modo più solenne la successiva legislazione, che — come hanno esattamente rilevato i giudici del merito — ha riconosciuto la qualità di patrioti combattenti ai componenti delle formazioni volontarie che avevano partecipato alle operazioni belliche (D. L. Lt. 5 aprile 1945, n. 158); ha qualificato azioni di guerra tutte le operazioni compiute da patrioti per le necessità di lotta contro i tedeschi e i fascisti nel periodo dell'occupazione nemica (D. L. Lt. 12 aprile 1945, n. 194); ha autorizzato la concessione di ricompense al valore militare ai partigiani, agli appartenenti al G.A.P. e alle squadre cittadine indipendenti, ed ha attribuito a quelli tra essi che caddero o riportarono mutilazioni o infermità, le qualifiche di caduti di guerra, di mutilati o invalidi di guerra, con tutti i benefici relativi (D. L. Lt. 21 agosto 1945, n. 518); ha considerato fatti di guerra, ai fini del risarcimento dei danni conseguenti, i fatti coordinati alla preparazione e alla esecuzione di operazioni belliche, oppure semplicemente occasionati da queste, con assoluta equiparazione delle formazioni volontarie alle forze regolari ([D. L. C.p.S.] 6 settembre 1946, n. 226).
Lo Stato quindi ha considerato i partigiani come legittimi belligeranti, al pari degli appartenenti alle forze armate regolari, previste dall'art. 26 della citata legge di guerra. Tale qualificazione avrebbe potuto essere negata dal nemico, per difetto dei requisiti formali atti ad identificare i combattenti stessi, ma non può essere posta in dubbio nell'ambito dell'ordinamento giuridico italiano, nei rapporti tra quei partigiani ed altri italiani.
Queste considerazioni dimostrano l'inconsistenza delle censure dei ricorrenti in ordine alla mancanza negli attentatori di segni distintivi di legittimi belligeranti.
Quanto alla dedotta non rispondenza dell'attentato alle necessità belliche e alla finalità di sollevare la popolazione, concomitante con quella di danneggiare il nemico, è sufficiente osservare — come hanno fatto i giudici del merito — che gli atti di guerra sono assolutamente discrezionali e perciò si sottraggono ad ogni valutazione da parte dell'Autorità giudiziaria.
Resta il rilievo che l'attentato sarebbe stato vietato dalle autorità che rappresentavano in Roma il governo legittimo: questa censura si collega con quella del primo motivo di ricorso attinente alla situazione di Roma come città aperta.
Non può disconoscersi che la Corte d'appello abbia omesso di considerare espressamente, come avevano fatto i giudici di primo grado, tale questione. Senonché l'omesso esame di questo punto non può importare l'annullamento della sentenza impugnata, data la mancanza di decisività del medesimo, data cioè l'impossibilità che l'indagine trascurata consentisse di addivenire ad una diversa decisione della causa.
Anche a questo proposito si deve preliminarmente osservare che l'eventuale illegittimità dell'attentato sotto il profilo internazionale non ne importerebbe necessariamente l'illegittimità secondo l'ordinamento interno. E nel sistema legislativo italiano quell'atto è stato considerato certamente legittimo, come risulta da tutta la legislazione citata, la quale si riferisce anche alla lotta per la liberazione di Roma, tanto che ha autorizzato la concessione di decorazioni al valor militare per azioni di partigiani eseguite nell'ambito della città, ed è confermata dalla recente L. 14 aprile 1957, n. 277, per la costituzione in Roma di un museo storico, a documentazione degli eventi nei quali si concretò e si svolse la lotta per la liberazione di Roma durante il periodo dall'8 settembre 1943, al 4 giugno 1944.
Deve aggiungersi poi che neanche dal punto di vista internazionale è contestabile la legittimità dell'attentato in oggetto.
In vero, la dichiarazione che Roma era città aperta fu fatta dal governo italiano prima dell'armistizio, e precisamente il 31 luglio 1943, agli anglo-americani e non fu mai accettata da costoro. Da questa mancata accettazione consegue che la dichiarazione suddetta non poteva far sorgere un obbligo internazionale del governo italiano verso gli anglo-americani.
Un'analoga dichiarazione non fu mai fatta invece nei riguardi della Germania, e non era neppure possibile per l'ovvia considerazione che la Germania aveva respinto la dichiarazione di guerra italiana, perché disconosceva al governo del Re la qualità di governo legittimo, considerando tale quello della Repubblica Sociale Italiana.
Codesto illegittimo governo, d'altro canto, non poteva rivolgere una richiesta di rispetto di Roma come città aperta se non agli anglo-americani, dato che considerava i tedeschi come propri alleati e che costoro esercitavano i poteri di occupazione su quella parte del territorio nazionale.
Senza dubbio, sia il governo legittimo, sia quello illegittimo, avevano interesse a risparmiare l'alma città da distruzioni e ad evitare quindi il pericolo di offese aeree da parte degli anglo-americani. Senonché nessuno dei due governi era in condizioni di assicurare che la città fosse effettivamente aperta, non quello legittimo, perché aveva perduto il controllo su di essa; non quello illegittimo, perché esercitava solo i limitati poteri consentitigli dalle Autorità tedesche.
In tale situazione, il rispetto di Roma era affidato, non già al vigore di un accordo, che non esisteva, ma alla saggezza delle potenze straniere belligeranti, di quella tedesca, perché non tenesse forze armate o apprestamenti militari nell'Urbe, in modo da escludere ogni giustificazione agli attacchi aerei nemici; di quelle anglo-americane, perché si astenessero dal compiere offese aeree, che non potevano in alcun modo essere considerate necessarie per la condotta della guerra e che comunque avrebbero cagionato un danno irreparabile al patrimonio spirituale di tutto il mondo civile.
Gli anglo-americani avevano indubbiamente interesse a che nella città di Roma non vi fossero forze ed obiettivi militari tedeschi, perché, altrimenti, sarebbero stati posti nella alternativa di rinunciare ad aggredirli, o di recare offesa all'Urbe. Ma essi non avevano interesse a che, trovandosi forze armate tedesche nella città, gli italiani le rispettassero. Al contrario, ogni atto di ostilità contro quelle forze costituiva partecipazione alla guerra a fianco delle Nazioni Unite, in attuazione della cobelligeranza italiana. Ogni attacco contro i tedeschi, in qualsiasi parte del territorio nazionale, rispondeva agli incitamenti impartiti dal governo legittimo e alle finalità politiche e militari da esso perseguite in unità d'intenti con le forze alleate e costituiva quindi un atto di guerra riferibile allo stesso governo. Quindi, se anche, per mera ipotesi di ragionamento, la dichiarazione del 31 luglio 1943 fosse stata accettata dalle Nazioni Unite, e fosse esistito così un accordo per considerare Roma come città aperta, l'atto in esame non sarebbe stato in contrasto con quell'accordo, perché la situazione politico-militare si era capovolta ed i tedeschi, contro i quali l'atto medesimo fu diretto, erano divenuti nemici nel contempo delle Nazioni unite e dell'Italia.
Nei riguardi della Germania, poi, si è già detto che non esisteva e non si sarebbe potuto neppure instaurare un accordo. Si sostiene dai ricorrenti che quella potenza aveva di fatto aderito a considerare Roma come città aperta, consentendo la nomina di un governatore di essa ed allontanando dall'Urbe le truppe stazionanti o in transito. Si soggiunge che il generale Chirieleyson ha deposto nel processo contro Kappler, celebratosi avanti al Tribunale Militare Territoriale di Roma, nella sua qualità di ex governatore della città, che in essa non si trovavano forze tedesche, eccetto quelle di polizia; che infine il generale Armellini, comandante delle forze militari clandestine di Roma, ed il generale Bencivenga, capo del Comitato di liberazione nazionale, hanno deposto nello stesso processo di aver ordinato di evitare gli attentati e la guerriglia.
È agevole replicare a tali deduzioni che il comportamento della Germania fu conseguente ad una sua unilaterale determinazione, ispirata a finalità di propaganda, e non ad accordi internazionali, tanto meno ad accordi con il governo legittimo italiano. La Germania voleva dimostrare agli italiani sottoposti alla sua occupazione che essa intendeva risparmiare Roma dalle offese aeree nemiche e che quindi faceva tutto il possibile per togliere ogni giustificazione a codeste eventuali offese. Agiva così d'intesa con il sedicente governo della Repubblica Sociale Italiana, verso il quale peraltro neppure si sentiva vincolata, tanto che deportò il generale Calvi di Bergolo, governatore di Roma, e mantenne delle forze armate nella città, sia pure in misura ridotta, come quelle di polizia militare, contro le quali fu compiuto l'attentato di via Rasella.
Che codesto comportamento, del tutto volontario e modificabile ad nutum, potesse vincolare il governo legittimo italiano, che dalla Germania non era neppure riconosciuto, non è davvero ipotizzabile.
La circostanza poi che i generali Armellini e Bencivenga avessero disposto di evitare attentati o atti di guerriglia nella città di Roma, dimostra solo che essi li ritenevano inopportuni, per i pericoli della reazione tedesca che avrebbero potuto provocare, non già che il governo legittimo si fosse impegnato verso la Germania ad impedire ogni atto di ostilità contro i tedeschi.
È da escludere quindi nel modo più assoluto che possa ravvisarsi una violazione di obblighi inerenti al rispetto di Roma come città aperta, data l'insussistenza degli obblighi stessi.
Ed è da escludere altresì con uguale certezza che le disposizioni date dai detti generali possano far considerare l'attentato come un atto illegittimo di guerra.
La eccezionalissima, dolorosa situazione in cui venne a trovarsi l'Italia dopo l'8 settembre 1943 non poteva consentire che l'attività militare delle forze partigiane si svolgesse sempre secondo piani organici e con una disciplina regolare. Essa era necessariamente rimessa anche all'iniziativa e al coraggio dei singoli gruppi, i quali, di volta in volta, secondo le circostanze, compivano quegli attacchi al nemico che ritenevano possibili ed opportuni. Trattavasi infatti di forze clandestine, operanti tra infinite difficoltà e con gravissimi rischi, stante l'enorme sproporzione di forze rispetto all'avversario. E la legge ha riconosciuto, non solo la lotta partigiana condotta da formazioni regolarmente organizzate, ma anche le azioni compiute da gruppi isolati.
In vero, l'art. 7 del ricordato D. L. Lt. 21 agosto 1945, n. 518, considera partigiani combattenti gli appartenenti, sia alle formazioni armate inquadrate dipendenti dal Comitato di Liberazione Nazionale, sia a quelle non inquadrate. Quindi, anche le squadre indipendenti sono state qualificate come organi combattenti dello Stato italiano. Nella specie, i giudici di merito hanno accertato che si trattava bensì di forze organizzate, ma non dipendenti dai detti generali, per modo che esse non erano tenute ad eseguire gli ordini da questi impartiti. E la sentenza 20 luglio 1948, resa dal Tribunale Militare Territoriale di Roma nel processo contro Kappler, invocata dai ricorrenti, ha qualificato come organo legittimo dello Stato italiano l'organizzazione militare della quale facevano parte gli attentatori. In conseguenza l'azione stessa non può non essere riferita allo Stato medesimo.
Dalle esposte considerazioni consegue l'infondatezza della censura di violazione degli art. 170 e 171 del codice penale militare di guerra e degli art. 66 e seguenti dell'allegato 2 al Servizio di guerra, i quali presuppongono la conclusione di una sospensione d'armi o tregua o armistizio. Consegue inoltre l'infondatezza della doglianza per la violazione degli art. 174 e 175 del detto codice, che vietano gli atti illeciti di guerra, e cioè compiuti con mezzi o modi di guerra vietati dalla legge e dalle Convenzioni internazionali o, comunque, contrari all'onore militare. In vero, le forze tedesche occupanti non potevano ignorare l'ostilità della maggioranza della popolazione italiana, date le direttive impartite dal governo legittimo, che era in istato di guerra con la Germania, e non potevano quindi non temere attacchi da parte delle formazioni partigiane, le quali dovevano necessariamente condurre la lotta con atti di sabotaggio e con attacchi improvvisi ed isolati, non esistendo un regolare fronte di guerra.
Del tutto inconsistente è infine il terzo mezzo di ricorso. Essendosi accertato che l'attentato in esame fu un atto legittimo di guerra, e, come tale riferibile allo Stato e non ai singoli autori di esso, nessun sindacato da parte dell'Autorità giudiziaria è ammissibile sull'atto medesimo. L'assoluta discrezionalità dell'attività bellica, ispirata a superiori ed inderogabili esigenze statuali, non consente alcun controllo da parte del giudice, all'infuori di quello che l'atto fosse effettivamente diretto a finalità belliche.
Il ricorso si rivela quindi sotto ogni aspetto infondato. La Corte non può neppure di sfuggita soffermarsi su valutazioni di ordine extragiuridico sul comportamento degli attentatori, a seguito della minaccia tedesca della rappresaglia, in effetti poi purtroppo eseguita, poiché tali valutazioni non rientrano nei compiti del giudice, in genere, e di quello di Cassazione, in ispecie.
Essa può e deve solo, ai fini della pronuncia sulle spese, tener conto dei motivi equitativi, che ne suggeriscono la compensazione. — Omissis.
La Resistenza accusata di genocidio. La Corte internazionale dell’Aia accoglie il ricorso del figlio di un milite della Repubblica sociale assassinato senza processo dai partigiani comunisti. Chiede giustizia per altri 400 caduti. Eugenio Di Rienzo, Venerdì 12/03/2010, su Il Giornale. La malinconica profezia espressa da Piero Buscaroli nel suo bel libro, Dalla parte dei vinti (Mondadori) secondo la quale la memoria degli sconfitti del 1945 sarebbe stata per sempre condannata all’oblio non si avvererà. Luis Moreno Ocampo, procuratore capo della Corte penale internazionale dell’Aia ha accolto la domanda che chiede l’apertura di un’inchiesta per la morte di Lodovico Tiramani (milite scelto della Guardia nazionale repubblicana) e di altri quattrocento appartenenti alla Repubblica sociale, trucidati dalle bande partigiane. L’ipotesi di reato è genocidio. Il Tribunale dell’Aia ha risposto così al figlio di Tiramani, Giuseppe, che, attraverso la consulenza del suo legale Michele Morenghi, ha chiesto l’apertura del procedimento tramite una memoria dove si sostiene che: «Mio padre fu prelevato nei pressi di casa sua a Rustigazzo nel piacentino nel luglio del ’44 da un gruppo partigiano della brigata Stella Rossa, fu processato e condannato a morte senza un giudice, senza un comandante partigiano e senza una sentenza a verbale. Fu fucilato poche ore dopo nei pressi del Monte Moria. Mia madre lo trovò crivellato di colpi. Io non voglio vendette, ho già perdonato tutti coloro che uccisero mio padre, abitavano nel mio paese e li ho conosciuti personalmente dopo la guerra. Chiedo sia fatta giustizia per il suo caso e per tutti gli altri combattenti della Repubblica sociale uccisi in quegli anni nel piacentino». In questo modo, l’International Criminal Court, la cui competenza si estende a tutti crimini più gravi che riguardano la comunità internazionale, come il genocidio appunto, i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra, potrebbe intervenire su una vicenda italiana che per tanti decenni è rimasta volutamente occultata dalla storiografia ufficiale ed è sopravvissuta solo grazie alla memoria dei sopravvissuti. Fino alla comparsa dei libri di Giampaolo Pansa (un grande giornalista che sa bene di storia), quanti italiani conoscevano le tristi vicende della caccia al repubblichino, che si aprì dopo il 25 aprile 1945 per protrarsi fino al 1946 e al 1947? Pochi, pochissimi. Soltanto i parenti delle vittime o quanti di noi avevano un amico, un conoscente che visse personalmente quella tragedia. A me capitò di avere questa triste «fortuna» e di apprendere dell’uccisione di un proprietario agricolo dell’Emilia, fucilato insieme al nipote dodicenne, con l’accusa di vaghe simpatie fasciste; della morte di un contadino del bellunese fatto fuori dopo aver rifiutato di vettovagliare una banda partigiana; e del linciaggio di alcuni giovanissimi «ragazzi di Salò» che ora giacciono interrati nel Campo X al cimitero di Musocco a Milano. Ma di tutto questo fino a pochissimo tempo fa neanche un rigo sui libri di storia e ancora oggi nessun accenno nei manuali di scuola che vanno in mano ai nostri giovani. Eppure autorevoli testimoni di quella guerra fratricida, che si trasformò in tiro al piccione, sapevano. Sapevano e tacquero. Benedetto Croce, ad esempio. Dalla lettura dei Taccuini di guerra del vecchio filosofo, editi solo nel 2004, emerge con forza il timore che la guerra partigiana possa trasformarsi in una rivoluzione «comunistico-socialista», che, in breve, avrebbe consegnato l’Italia a un altro totalitarismo, forse più spietato, come andava dimostrando con abbacinante chiarezza la «liberazione» di Polonia, Ungheria e degli altri paesi danubiani e balcanici, operata dalle truppe sovietiche, coadiuvate dalle formazioni partigiane comuniste. La rivelazione della strage di Katyn, avvenuta da parte dell’Armata Rossa, tra marzo e maggio del 1940, confermava in Croce questo timore, quando anche in Italia si era appreso dell’«eccidio fatto dai russi di migliaia di ufficiali polacchi, che erano loro prigionieri». La minaccia di una sovietizzazione imposta con la violenza, scriveva il filosofo, si avvicinava anche al nostro paese. Era già attiva nelle regioni orientali esposte alle violenze delle «bande di Tito». La si scorgeva serpeggiare nella gestione dell’epurazione antifascista delle strutture statali «maneggiata dai commissari comunisti» che tentavano di attuare «un’infiltrazione del comunismo», perpetrata «contro le garanzie statutarie, conto le disposizioni del codice, per modo che nessuno è più sicuro di non essere a capriccio fermato dalla polizia, messo in carcere, perquisito». Tutto questo avveniva, in ossequio alla «rivoluzione vagheggiata e sperata». E sempre in ossequio a quel progetto eversivo, le regioni settentrionali dell’Italia, controllate dagli elementi estremisti del Cnl, divenivano il teatro di stragi di massa contro fascisti, ma più spesso contro vittime del tutto innocenti. L’8 agosto 1945 la famiglia Croce riceveva la visita di un conoscente «che ci ha commossi col racconto del fratello incolpevole, non compromesso col fascismo, ucciso con molti altri a furia di popolo a Bologna». Nella stessa pagina del diario, si annotava: «In quella città gli uccisi sono stati due migliaia e mezzo, tra questi trecentocinquanta non identificati». Tra il vero antifascismo e resistenza si scavava, con questa testimonianza, un abisso profondo. Si alzava uno steccato, che soltanto la costruzione di una memoria contraffatta di quegli anni terribili ha potuto per molto tempo celare.
Ucciso dai partigiani, il figlio ricorre all’Aja. Lega: “Vicenda dimenticata, stop all’indottrinamento della sinistra”. Piacenza24.eu il 14 agosto 2019. “Stop all’indottrinamento culturale della sinistra. Piena solidarietà a Lodovico Tiramani e a tutte le vittime dimenticate dalla storiografia ufficiale». È l’input lanciato dalla segreteria provinciale della Lega Nord, che riprende un caso di qualche anno fa “occultato dai mezzi d’informazione, nonché emblema dell’attuale dittatura ideologica” relativo al ricorso alla Corte internazionale dell’Aja che il piacentino Giuseppe Tiramani, figlio di un milite della Repubblica sociale, ha presentato per l’assassinio senza processo compiuto dai partigiani comunisti contro suo padre. “Non se n’è parlato abbastanza, ma è giusto riportare l’attenzione su questo caso significativo – esordisce il Carroccio – tempo fa, Luis Moreno Ocampo, l’allora procuratore capo della Corte penale internazionale dell’Aia, accolse la domanda che chiedeva l’apertura di un’inchiesta per la morte di Lodovico Tiramani, milite scelto della Guardia nazionale repubblicana, e di altri quattrocento appartenenti alla Repubblica sociale, trucidati dalle bande partigiane. L’ipotesi di reato era genocidio. Secondo la ricostruzione di Giuseppe, il padre fu prelevato nei pressi di casa sua a Rustigazzo nel luglio del ’44 da un gruppo della brigata Stella Rossa, fu processato e condannato a morte senza un giudice, senza un comandante partigiano e senza una sentenza a verbale. Fu fucilato poche ore dopo nei pressi del Monte Moria e ritrovato crivellato di colpi. Oltre a testimoniare il nostro appoggio alla vittima di questo terribile avvenimento, chiediamo di riportare alla luce la questione nel nome della giustizia”. “Stiamo assistendo all’affermazione di una nuova forma di fascismo – prosegue la Lega Nord – che vuole omologare il dibattito, unificare le opinioni e nascondere le nefandezze di certe componenti politiche. Il comunismo, durante la Guerra di Liberazione, ha compiuto atti inammissibili che devono essere ricordati e puniti. Il primo passo per farlo, chiaramente, sarebbe quello di ammettere una visione più oggettiva – e non condizionata a priori – anche sui banchi scolastici, dando spazio a una serie di opere scritte. Per esempio, affrontando il saggio storico “Il sangue dei vinti” di Giampaolo Pansa, che racconta le falsità della Resistenza, gli orrori perpetrati dai partigiani, le esecuzioni commesse dopo il 25 aprile 1945 a Liberazione ormai compiuta, verso fascisti e presunti tali o antifascisti non comunisti”.
Esecuzioni, torture, stupri Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega. Giampaolo Pansa, Domenica 07/10/2012 su Il Giornale. C’è da scommettere che il nuovo libro di Giampaolo Pansa, La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti (Rizzoli, pagg. 446, euro 19,50; in libreria dal 10 ottobre), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione pubblichiamo un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro. Tanto i partigiani comunisti che i miliziani fascisti combattevano per la bandiera di due dittature, una rossa e l'altra nera. Le loro ideologie erano entrambe autoritarie. E li spingevano a fanatismi opposti, uguali pur essendo contrari. Ma prima ancora delle loro fedeltà politiche venivano i comportamenti tenuti giorno per giorno nel grande incendio della guerra civile. Era un tipo di conflitto che escludeva la pietà e rendeva fatale qualunque violenza, anche la più atroce. Pure i partigiani avevano ucciso persone innocenti e inermi sulla base di semplici sospetti, spesso infondati, o sotto la spinta di un cieco odio ideologico. Avevano provocato le rappresaglie dei tedeschi, sparando e poi fuggendo. Avevano torturato i fascisti catturati prima di sopprimerli. E quando si trattava di donne, si erano concessi il lusso di tutte le soldataglie: lo stupro, spesso di gruppo. A conti fatti, anche la Resistenza si era macchiata di orrori. Quelli che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ricorderà nel suo primo messaggio al Parlamento, il 16 maggio 2006, con tre parole senza scampo: «Zone d'ombra, eccessi, aberrazioni». Un'eredità pesante, tenuta nascosta per decenni da un insieme di complicità. L'opportunismo politico che imponeva di esaltare sempre e comunque la lotta partigiana. Il predominio culturale e organizzativo del Pci, regista di un'operazione al tempo stesso retorica e bugiarda. La passività degli altri partiti antifascisti, timorosi di scontrarsi con la poderosa macchina comunista, la sua propaganda, la sua energia nel replicare colpo su colpo. Soltanto una piccola frazione della classe dirigente italiana si è posta il problema di capire che cosa si nascondeva dietro il sipario di una storia contraffatta della nostra guerra civile. E ha iniziato a farsi delle domande a proposito del protagonista assoluto della Resistenza: i comunisti. Ancora oggi, nel 2012, qualcuno si affanna a dimostrare che a scendere in campo contro tedeschi e fascisti e stato un complesso di forze che comprendeva pure soggetti moderati: militari, cattolici, liberali, persino figure anticomuniste come Edgardo Sogno. È vero: c'erano anche loro nel blocco del Corpo volontari della liberta. Ma si e trattato sempre di minoranze, a volte di piccole schegge. Impotenti a contrastare la voglia di egemonia del Pci e i comportamenti che ne derivavano. Del resto, i comunisti perseguivano un disegno preciso e potente che si è manifestato subito, quando ancora la Resistenza muoveva i primi passi. Volevano essere la forza numero uno della guerra di liberazione. Un conflitto che per loro rappresentava soltanto il primo tempo di un passaggio storico: fare dell'Italia uscita dalla guerra una democrazia popolare schierata con l'Unione Sovietica. Dopo il 25 aprile 1945 le domande sulle vere intenzioni dei comunisti italiani si sono moltiplicate, diventando sempre più allarmate. Mi riferisco ad aree ristrette dell'opinione pubblica antifascista. La grande maggioranza della popolazione si preoccupava soltanto di sopravvivere. Con l'obiettivo di ritornare a un'esistenza normale, trovare un lavoro e conquistare un minimo di benessere. Piccoli tesori perduti nei cinque anni di guerra. Ma le élite si chiedevano anche dell'altro. Sospinte dal timore che il dopoguerra italiano avesse un regista e un attore senza concorrenti, si interrogavano sul futuro dell'Italia appena liberata. Sarebbe divenuta una democrazia parlamentare oppure il suo destino era di subire una seconda guerra civile scatenata dai comunisti, per poi cadere nelle grinfie di un regime staliniano? Era una paura fondata su quel che si sapeva della guerra civile spagnola. Nel 1945 non era molto, ma quanto si conosceva bastava a far emergere prospettive inquietanti. Anche in Spagna era esistita una coalizione di forze politiche a sostegno della repubblica aggredita dal nazionalismo fascista del generale Francisco Franco. Ma i comunisti iberici, affiancati, sostenuti e incoraggiati dai consiglieri sovietici inviati da Stalin in quell'area di guerra, avevano subito cercato di prevalere sull'insieme dei partiti repubblicani, raccolti nel Fronte popolare. A poco a poco era emerso un inferno di illegalità spaventose. Arresti arbitrari. Tribunali segreti. Delitti politici brutali. Carceri clandestine dove i detenuti venivano torturati e poi fatti sparire. Assassinii destinati ad annientare alleati considerati nemici. Il più clamoroso fu il sequestro e la scomparsa di Andreu Nin, il leader del Poum, il Partito operaio di unificazione marxista. Il Poum era un piccolo partito nel quale militava anche George Orwell, lo scrittore inglese poi diventato famoso per Omaggio alla Catalogna, La fattoria degli animali e 1984. Orwell aveva 34 anni, era molto alto, magrissimo, sgraziato, con una faccia da cavallo. Era arrivato a Barcellona da Londra alla fine del 1936. Una fotografia lo ritrae al fondo di una piccola colonna di miliziani del Poum. Una cinquantina di uomini, preceduti da un bandierone rosso con la falce e martello, la sigla del partito e la scritta «Caserma Lenin», la base dell'addestramento. Orwell stava sul fronte di Huesca quando i comunisti e i servizi segreti sovietici decisero la fine del Poum. Lo consideravano legato a Lev Davidovic Trotsky, il capo bolscevico diventato nemico di Stalin. In realta era soltanto un gruppuscolo antistaliniano con 10 mila iscritti. L'operazione per distruggerlo venne ordita e condotta da Aleksandr Orlov, il nuovo console generale dell'Urss a Barcellona, ma di fatto il capo della filiale spagnola del Nkvd, la polizia segreta sovietica. Nel giugno 1937, un decreto del governo repubblicano guidato dal socialista di destra Juan Negrin, succube dei comunisti, dichiaro fuori legge il Poum, sospettato a torto di cospirare con i nazionalisti di Franco. Tutti i dirigenti furono imprigionati. Se qualcuno non veniva rintracciato, toccava alla moglie finire in carcere. Gli arrestati si trovarono nelle mani del Nkvd che li rinchiuse in una prigione segreta, una chiesa sconsacrata di Madrid. Interrogato e torturato per quattro giorni, Nin rifiuto di firmare l'accusa assurda che gli veniva rivolta: l'aver comunicato via radio al nemico nazionalista gli obiettivi da colpire con l'artiglieria. Gli sgherri di Orlov lo trasportarono in una villa fuori città. Qui misero in scena una finzione grottesca: la liberazione di Nin per opera di un commando di agenti della Gestapo nazista, incaricati da Hitler di salvare il leader del Poum. Ma si trattava soltanto di miliziani tedeschi di una Brigata internazionale, al servizio di Orlov. Nin scomparve, ucciso di nascosto e sepolto in un luogo rimasto segreto per sempre. E come lui, tutti i suoi seguaci svanirono nel nulla. Quanto accadeva in Spagna fu determinante per la svolta ideologica di uno scrittore americano di sinistra, John Dos Passos. Scrisse: «Ciò che vidi mi provoco una totale disillusione rispetto al comunismo e all'Unione Sovietica. Il governo di Mosca dirigeva in Spagna delle bande di assassini che ammazzavano senza pietà chiunque ostacolasse il cammino dei comunisti. Poi infangavano la reputazione delle loro vittime con una serie di calunnie». Le stesse infamie, sia pure su scala ridotta, vennero commesse in Italia da bande armate del Pci, durante e dopo la guerra civile. C'è da scommettere che il nuovo libro di Giampaolo Pansa, La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti (Rizzoli, pagg. 446, euro 19,50; in libreria dal 10 ottobre), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell'introduzione al volume (di cui per gentile concessione pubblichiamo un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull'esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un'altra, la loro.
FEMMINICIDI PARTIGIANI: ORRORI ROSSI IN TEMPO DI PACE. OCCULTATI E IMPUNITI STUPRI E MASSACRI. DOPO IL 25 APRILE ’45 E LA LIBERAZIONE D’ITALIA. ABUSI E MATTANZE DI DONNE E BAMBINE. NEL LIBRO ”IL SANGUE DEI VINTI” DI PANSA: MAMMA VIOLENTATA DAVANTI AI FIGLI E POI SEPOLTA VIVA IN GIARDINO. Fabio Giuseppe e Carlo Carisio il 24 aprile 2019 su Gospa News. Il femminicidio è una grave piaga della società contemporanea, epifenomeno di un retaggio culturale che nei secoli legittimò gli abusi maschilisti ma anche, o forse soprattutto, di una generale inaudita recrudescenza di belluina violenza sociale che miete vittime tra genitori anziani come tra bambini in culla. In Parlamento si sta cercando di dare una risposta legislativa al fenomeno con la nuova legge sul Codice Rosso in difesa delle donne che, però, come la precedente normativa sullo stalking, rischia di rivelarsi solo un vacuo tentativo di smorzare gli effetti, a volte davvero imprevedibili, più che una reale soluzione per affrontare le vere cause. Se diamo uno sguardo alla nostra storia, inoltre, scopriamo purtroppo che il femminicidio è antico quanto la libertà d’Italia.
VIOLENTATE ANCHE LE VERGINI COME AI TEMPI DI NERONE. Tutti oggi si scandalizzano per episodi che balzano sulle prime pagine, a volte senza nemmeno conoscere il vortice di tensioni e violenze psicofisiche reciproche che ha portato ad un aggressione o peggio ad un omicidio, ma pochi s’indignano per le stragi di donne civili compiute dopo il 25 aprile 1945 dai partigiani liberatori e rimaste quasi tutte senza giustizia ed occultate nell’oblio storico: una delle rarissime lapidi in memoria di una vittima, quella per la 13enne Giuseppina Ghersi di Savona, è stata vandalizzata di recente da un vindice odio mai sopito che nessuno persegue né punisce come meriterebbe. Ma di casi simili al suo ce ne sono decine, centinaia… Secondo lo storico e giornalista Gian Paolo Pansa furono 2.365 le vittime. Si tratta di uno dei femminicidi più vergognosi d’Italia: un ricordo che, certamente, crea un po’ d’imbarazzo tra le stesse femministe, nella maggior parte dei casi di vocazione comunista e quindi magari figlie, sorelle, nipoti di coloro che quei crimini li perpetrarono con efferatezza: aggiungendo alla sanguinaria violenza omicida anche la sevizia e l’onta eterna dello stupro. Come ai tempi di Nerone le vergini cristiane venivano deflorate dai gladiatori prima di essere uccise, come nella ignominiosa guerra di Bosnia le donne furono selvaggiamente violentate per giorni prima di essere sgozzate (o costrette a partorire il figlio dello stupro), anche nell’Italia liberata avvennero simili scempi. Con alcune sostanziali differenze: ai tempi di Roma vigeva una tirannide, in Bosnia c’era una cruenta guerra etnica, nel nostro paese, invece, si era in tempo di pace: il dittatore, il duce Benito Mussolini era infatti stato giustiziato il 28 aprile 1945, le forze militari fasciste si erano arrese, quelle tedesche si erano ritirate. L’Italia era stata liberata dall’occupazione il 25 aprile 1945. Ma proprio il mese di maggio fu uno sei più sanguinari e ferali tanto che il 7 maggio, ricorre l’anniversario della morte di ben quattro donne trucidate dagli orrori rossi in tempo di pace. La memoria ritorna alla provincia di Cuneo, seguendo la china dei racconti di un giornalista che da bambino andava ad assistere ai processi ai “neri” per vedere i “cattivi” puniti; uno storico che solo dopo aver scritto tanto sulla Resistenza e sui partigiani, ha narrato il suo viaggio nella Seconda Guerra mondiale attraverso il libro di alto valore storiografico “Il sangue dei Vinti” di Gian Paolo Pansa. Molteplici aneddoti, che giungono quindi da un ricercatore col cuore partigiano, raccontano di semplici civili, rapiti in casa all’improvviso da squadriglie di giustizieri improvvisati, a volte seviziati, poi uccisi; e donne con la sola colpa di presunti e mai provati collaborazionismi: bastava l’odore del sospetto a sancire la morte che giungeva persino benedetta quando era immediata. Ora alle vittime di questo immane femminicidio nascosto dalla storia vogliamo rendere un poco giustizia ricordando il loro martirio. A volte anche in nome di Gesù Cristo dinnanzi ai quei guerriglieri della Resistenza in larga parte atei e capaci di scegliersi Satana come nome di battaglia...
MICHELINA, 12 GIORNI DI VIOLENZE FEROCI. Non fu immediata per Francesca G., 42 anni, e sua figlia Michelina di 20, di Borgo San Dalmazzo, in quella provincia Granda di Cuneo dove la guerriglia tra partigiani e fascisti-tedeschi fu asperrima come in tutte le zone prealpine. Furono prelevate di casa il 29 aprile insieme al marito Giuseppe G. A difenderli non bastò nemmeno la circostanza che loro figlio Biagio morì fucilato dalle Brigate nere in quanto… partigiano! Michelina faceva la dattilografa saltuaria per guadagnare qualche soldo nei tempi duri della guerra, la sua colpa fu farlo per un capitano della Polizia militare della Littorio. Il 29 aprile i carnefici entrarono nella loro casa, portarono fuori il padre e la madre insieme a lei: il genitore fu subito giustiziato, le due donne furono rapate a zero e poi riportate in casa «per essere violentate a turno da una banda partigiana. Questa tortura andò avanti per qualche giorno» scrive Pansa. Il 7 maggio fu uccisa la mamma, l’11 toccò a Michelina. Solo Dio sa quante volte quella giovane invocò la morte in quei 12 giorni…Lo stesso giorno in cui moriva Francesca, a Vercelli si consumava una delle più cruente stragi rosse, di cui si trova notizia su numerosi giornali locali. I giustizieri entrarono in una casa del rione Isola e, per futili motivi, freddarono Luigi Bonzanini, insieme alle sue nipoti di 16 e 21 anni, Elsa e Laura Scalfi, inerme e innocenti sorelle inseguite e uccise sul ballatoio. La vicenda mi fu raccontata direttamente dalla superstite dell’eccidio (vedi pdf in fondo all’articolo). Per non lasciare testimoni gli assassini tornarono poi in casa per eliminare anche la suocera del Bonzanini, Luigia Meroni, paralizzata a letto. I corpi furono buttati nel fiume Sesia. Fu uno dei pochi massacri ad avere parziale giustizia perché l’efferatezza dei partigiani fu tale che i mattatori di quell’eccidio, Felice Starda ed un suo complice, furono misteriosamente uccisi giorni dopo, si sospetta da loro stessi compagni: ma il nome di Starda fu inspiegabilmente iscritto tra le vittime per la Liberazione nella lapide del cimitero di Billiemme e la moglie ricevette l’indennizzo riservato ai caduti per la patria…
IL CADAVERE DELL’ATTRICE MILANESE. Al fine di evidenziare gli assurdi femminicidi dei liberatori rimasti senza giustizia e persino dimenticati dalla storia, non racconterò volutamente di tutte quelle ausiliarie giustiziate, per non fare confusione tra le donne combattenti e quelle civili. Ed ovviamente tacerò dei crimini avvenuti in tempo di guerra, prima del 25 aprile, sebbene quelli fascisti siano stati ampiamente propagandati ad infamia eterna e quelli partigiani passati sotto silenzio. Tra le vittime ce ne fu anche una famosa: l’attrice milanese Luisa Ferida, 31 anni, fu assassinata insieme al collega Osvaldo Valenti di 39, all’alba del 30 aprile in via Poliziano, giustiziata per accuse mai provate. Per una donna, nell’Italia liberata, era esiziale anche solo aver fatto la segretaria di redazione in un giornale, se era quello sbagliato. Pia Scimonelli aveva 36 anni, e lavorava per Repubblica Fascista: «moglie di un ufficiale disperso in guerra nell’Africa orientale, era rimpatriata in Italia dall’Eritrea con la nave Vulcania, insieme ai suoi tre bambini. Aveva bisogno di lavorare per mantenerli ed era riuscita a trovare quel posto nel giornale…» precisa Pansa. Fuggì con due colleghi del giornale, trovò rifugio in un alloggio poi perquisito dai partigiani. Qualche giorno dopo di loro non si seppe più nulla: i loro tre cadaveri furono riconosciuti all’obitorio di via Ponzio.
GIUSTIZIATA SEBBENE INCINTA DI 5 MESI. Nessuna pietà nemmeno davanti ad una donna in gravidanza. Accadde il 27 aprile a Cigliano quando i partigiani fecero capitolare un gruppo di fascisti che, dopo aver tentato una breve resistenza, si arrese. Tra loro c’erano due giovani donne che si erano recate a trovare i mariti ufficiali. Una delle due, Carla Paolucci, era incinta di cinque mesi e lo disse ai suoi giustizieri improvvisati. Ma questo non bastò a salvarla. «Si poteva essere giustizia anche per colpe da poco o inesistenti – evidenzia Pansa – Cito un esempio solo: quello di un gruppo di donne che, per campare, lavorava alle mense tedesche di via Verdi (Torino), cuoche, cameriere, sguattere. I partigiani della Sap le raparono a zero e le rilasciarono. Il giorno successivo furono trovate uccise al Rondò della Forca». Inevitabile quindi la morte per le parenti dei presunti collaborazionisti. Forse per non lasciare testimoni in cerca di giustizia. E’ il caso di Luisa, figlia di un albergatore di Bra il cui hotel, il rinomato Gambero d’oro, fu requisito dai tedeschi, non si sa se con il consenso o meno del titolare (e se avesse espresso dissenso che fine avrebbe fatto?). Fatto sta che «il 26 aprile i partigiani lo arrestarono, insieme alla figlia adottiva, Luisa di 19 anni. Fonti fasciste sostengono che la ragazza fu violentata e poi uccisa con il padre e gli altri alla Zizzola».
GIUSEPPINA, VIOLENTATA E UCCISA A 13 ANNI. Ma c’è una storia che fa rabbrividire. «A Savona, la fine della guerra civile vide esplodere subito un’ottusa barbarie. La mattina del 25 aprile una ragazzina di 13 anni, Giuseppina Ghersi, venne sequestrata in viale Dante Alighieri e scomparve. Apparteneva a una famiglia agiata, commercianti in ortofrutticoli». Non erano nemmeno iscritti al Partito Fascista Repubblicano, ma aveva un parente iscritto cui avrebbe riferito “qualcosa che non doveva vedere”, secondo Pansa, secondo altre fonti in qualità di allieva delle magistrali Rossella era stata premiata per un concorso scolastico direttamente da Mussolini. «I rapitori di Giuseppina decisero subito che lei aveva fatto la spia per i fascisti o per i tedeschi. Le tagliarono i capelli a zero. Le cosparsero i capelli di vernice rossa» si narra nel libro. La condussero in una scuola media di Legino (Savona) adibita a campo di concentramento: «Qui la pestarono e la violentarono. Un parente che era riuscita a rintracciarla a Legino la trovò ridotta allo stremo». Aveva solo tredici anni, tredici! Era in un campo di prigionia dove, ammesso e non concesso che fosse una prigioniera di guerra, in qualche modo avrebbe dovuto essere difesa dalla Convenzione di Ginevra del 1929. Dopo essere stata picchiata e violentata non sfuggì all’uccisione che forse giunse a toglierle dal destino una vita nel ricordo degli orrori. Dei tanti parlamentari uomini e soprattutto donne che si agitano per i diritti dell’uomo a Guantamano non rammento nessuno che abbia mai riaperto la storia della piccola Giuseppina sebbene vi sia una denuncia depositata alla Questura di Savona dal 1949…
AD ALASSIO OCCULTAMENTO DI UNA STRAGE DI DONNE. Vicino ad Alassio i crimini senza senso si perpetrarono fino al 29 maggio. A Stella in località San Martino, furono giustiziate tre donne non più giovani: di loro si conoscono solo nomi ed età, nulla più. D’altronde molte vittime furono tumulate nelle fosse comuni addirittura camuffate. E’ il caso di altre liguri, Maria Naselli, 54 anni, della figlia Anna Maria di 22, e della domestica Elisa Merlo di 35. Furono arrestate a Legino con il capofamiglia Domingo Biamonti di 61 anni, capitano della Croce Rossa, reo di avere un figlio tenente nella San Marco. Furono giustiziati a colpi di mitra al cimitero di Zinola e tumulati in un’unica fossa con una finta lapide: “Qui riposa la salma di Luigi Toso, di anni 84. La famiglia pose”. Un occultamento che prova la consapevolezza dei carnefici di compiere un gesto violento ed illecito, scoperto 4 anni dopo per il senso di colpa dei becchini.
Sterminate anche la moglie e le tre figlie poco più che ventenni di un benestante agricoltore di Lavagnola (Savona). Giuseppina Turchi, la maggiore delle ragazze, pare che fosse legata ad un ufficiale della San Marco. «E come accadeva a molte donne, in quei giorni, la si accusava di aver fatto la spia» nota Pansa. Per questo era stata rapata a zero e poi rimandata a casa. Ma ciò non placò la sete di sangue e vendetta: nella notte tra il 13 ed il 14 maggio, una squadra di armati irruppe nella cascina della famiglia Turchi e uccise tutti (la più giovane morì dissanguata in un bosco), persino il cane.
NELL’ECCIDIO DI SCHIO PER… MOROSITA’. Nel mistero morì Clotilde Biestra, 45 anni, di Loano: imprigionata dai partigiani e scomparsa nel nulla in un giorno imprecisato del maggio 1945. Il motivo? Aveva una nipote ausiliaria che ebbe fortuna di scamparla, nei giorni successivi alla Liberazione, ma fu poi freddata da un killer il 15 gennaio 1946: forse avrebbe potuto testimoniare contro chi aveva deciso l’esecuzione della zia? Come si è potuto leggere si è trattato di donne inermi, civili, senza implicazioni dirette con una militanza di guerra: uccise perché madri, mogli, sorelle, zie. Nella sola Genova furono 71 le donne uccise tra i 456 civili. Ci furono 15 femmine anche tra le 53 vittime dell’eccidio di Schio (Vicenza) del luglio 1945. Fra i giustiziati anche una casalinga di 61 anni, Elisa Stella, vittima di una vicenda assurda – narra sempre Pansa che fa riferimento anche al libro “L’eccidio di Schio. Luglio 1945: una strage inutile” – Aveva affittato un alloggio a un tizio che, dopo un po’, si era rifiutato di pagarle l’affitto. Alle proteste della padrona di casa l’inquilino moroso, nel frattempo diventato partigiano, pensò bene di denunciarla come pericolosa fascista. La donna fu arrestata, rinchiusa nel carcere di via Baratto e qui finì nel mucchio dei trucidati il 6 luglio».
STUPRATA IN CASA DAVANTI AI TRE BAMBINI E SEPOLTA VIVA. Tra tutte forse la più “colpevole” fu una infermiera di Conselice, Anselma G. di 25 anni. Rea di essere fidanzata con un militare fascista e di aver curato soldati tedeschi. Fu stuprata e poi uccisa con un’iniezione di veleno, forse per una cinica legge del contrappasso… Nel triangolo rosso, nella provincia di Bologna comunista furono ben 42 le vittime del femminicidio tra i 334 civili. Stragi di donne non di rado compiute per «antipatie famigliari, contrasti sul lavoro, ruggini antiche. E anche per faccende del tutto private come storie d’amore finite male o questioni di gelosia» si scrive ne “Il sangue dei vinti” evocando quelle ragioni di “femminicidi” che ai nostri giorni suscitano le reazioni indignate di politici e opinione pubblica ma che allora furono passate sotto silenzio e ancora oggi sono relegate nell’oblio. Tra di loro ci fu anche Ida, 20 anni, sposata e madre di un bambino: strangolata col fino telefonico insieme ai suoi sei fratelli, tutti colpevoli perché due di loro avevano la tessera del Pfr, e gettata in una fossa comune con altre dieci vittime. Nel Modenese, a Liberazione ormai conclamata, non fu da meno il trattamento riservato al gentil sesso che si ritrovò a pagare una doppia empietà per la sua natura: alla condanna a morte si aggiunse infatti l’empietà dello stupro. Pansa narra di omicidi «che qui non possiamo ricordare neppure in parte. Tutti o quasi senza una parvenza di processo. E spesso preceduti da efferatezze barbariche, specialmente nei confronti delle donne catturate». «Rosalia P., 32 anni, segretaria del fascio di Medolla, il 27 aprile fu presa in casa, violentata davanti al marito e ai tre bambini…», fu poi obbligata a scavarsi la fossa in giardino e «sepolta viva». «Il 2 maggio a Cavezzo, madre e figlia, Bianca e Paola C., vennero seviziate a lungo, sino alla morte. Poco tempo fece la stessa fine un’insegnante cinquantenne che stava cercando notizie sulla scomparsa delle sue amiche di Cavezzo». Come detto in questa narrazione ho volutamente espunto le storie di coloro che, per citare un paragrafo del libro, seppero “Morire da uomini” avendo militato e creduto nel fascismo. Tra loro ci fu anche un’insegnante, sospettata di essere ausiliaria ma di certo terziaria francescana, che lasciò parole toccanti. Angela Maria Tam annunciò così la sua morte in una lettera ad un sacerdote: “Durante tutto il viaggio da Sondrio a Buglio ho cantato le canzoni della Vergine. Ho passato in prigione ore di raccoglimento e di vicinanza a Dio. Viva l’Italia! Gesù la benedica e la riconduca all’amore e all’unità per il nostro sacrificio. Così sia!”». Per molte ci fu l’onta dello stupro che prima avevano già conosciuto anche le partigiane o staffette catturate dai fascisti. Con macroscopica differenza: per 90 di esse, ausiliarie della Saf, la morte, in molti casi preceduta da inaudita violenza, giunse dopo il 25 aprile, in tempo di pace, ad opera di quei partigiani che liberarono l’Italia proprio dalle violenze e dai soprusi del fascismo e dell’occupazione nazista. Una mobilitazione contro il femminicidio dovrebbe quindi cominciare dal passato, riconoscendo le vittime inermi di una vindice carneficina ideologica che pagarono doppio… Solo perché erano donne. Fabio Giuseppe e Carlo Carisio
STORIA. 25 aprile, il monopolio della Resistenza fa male alla memoria. Alberto Leoni il 22.04.2018 su Il Sussidiario. 25 aprile: una festa non più compresa, ormai subìta, da molti travisata. E forse i giovani neppure sanno cos’è. Ma cosa è stata la quinta guerra di indipendenza? 25 aprile. Una festa non più compresa, subìta a cuor leggero perché è un giorno di ferie, si dorme e chi è cattolico non va nemmeno a messa. Alcuni, pochi, si raduneranno per manifestazioni locali. I soliti vecchietti dell’Anpi, bandiere, sindaci con fascia tricolore, qualche ragazzino in corteo “perché ci sono i giovani”, qualche discorso altisonante poi tutti a casa. Questo è lo squallido esito finale della gestione della Resistenza di cui si è impadronita la sinistra per settant’anni. Non è chi non veda che, della Resistenza e dei partigiani, non frega più niente a nessuno e, va detto per onestà, la colpa non è soltanto dell’Anpi o del Partito comunista italiano (Pci) e dei sempre più pallidi epigoni e mutazioni di quest’ultimo. A fronte di studi complessi e coraggiosi, fondamentali da un punto di vista storiografico ma non letti dal grande pubblico (si prenda ad esempio Una guerra civile: saggio storico sulla moralità della resistenza di Claudio Pavone, Bollati Boringhieri 1991) sta il ben più ampio successo di pubblico delle opere di Gianpaolo Pansa che ha rievocato i crimini contro i fascisti commessi nel 1945. L’Anpi ha sempre tacciato lo storico di Casale Monferrato di denigrare la Resistenza mentre Pansa, uomo di sinistra, ha scritto semplicemente quanto è avvenuto e non è mai stato smentito. Il difetto di queste opere è, caso mai, un altro: essersi concentrato sui crimini e non aver raccontato quella che fu l’epopea resistenziale. Inoltre il successo continuo di queste opere sta a significare che c’è uno strato assai profondo di italiani che non ha mai condiviso il valore della Resistenza e, prima di condannare questi, c’è da chiedersi il perché di tale atteggiamento. Forse perché centinaia di migliaia di giovani aderirono alla Repubblica Sociale con piena coscienza e deliberato consenso? E la Repubblica è stata anche la loro casa comune? Forse no e quegli uomini e donne e i loro figli si sono sentiti esiliati in casa propria. Se la Grande Guerra fu definita “la Quarta guerra d’indipendenza”, la Resistenza fu la quinta, la più complessa e sanguinosa. Ma della Resistenza e di quegli eroi, perché tali furono, non si parla più ed è davvero un sacrilegio: perché chi conosce quelle storie e quei volti se li rivedrà sempre davanti agli occhi, a chiederci cosa abbiamo fatto del loro sacrificio. E va detto, a merito dell’Anpi, che sul sito internet dell’associazione è presente una mole enorme di informazioni, molto ben strutturata per chiunque voglia approfondire il tema. Da dove si può cominciare a far conoscere l’aspetto positivo e commovente della Resistenza? Per chi scrive tutto iniziò con la visione del film Il partigiano Johnny di Guido Chiesa, utile per introdurre alla conoscenza dell’opera di Beppe Fenoglio, forse il più grande romanziere italiano del dopoguerra. Italo Calvino, in una memorabile presentazione del suo Il sentiero dei nidi di ragno fece, in realtà l’esaltazione di Una questione privata, opera pubblicata poco dopo la precoce morte di Fenoglio: “il romanzo che tutti avevamo sognato … c’è la Resistenza proprio come era, di dentro e di fuori, vera come mai era stata scritta, serbata per tanti anni limpidamente nella memoria fedele, e con tutti i valori morali, tanto più forti quanto più impliciti, e la commozione, e la furia”. E ancora di Italo Calvino, partigiano in Liguria egli stesso, è la poesia che più di tutte rievoca quell’epopea: “Oltre il ponte”, di cui si cita la strofa più nota: “Avevamo vent’anni e oltre il ponte/ oltre il ponte ch’è in mano nemica/ vedevam l’altra riva, la vita/ tutto il bene del mondo oltre il ponte./ Tutto il male avevamo di fronte/ tutto il bene avevamo nel cuore/ a vent’anni la vita è oltre il ponte/ oltre il fuoco comincia l’amore”. Letteratura? Retorica? In realtà Calvino ricalca perfettamente la spinta ideale di tanti uomini e ragazzi di quegli anni e la riprova è un episodio che riguarda l’inizio dell’attività partigiana dell’architetto Filippo Beltrami, caduto in combattimento a Megolo, in Val Toce, nel febbraio del 1944. A metà ottobre 1943 Beltrami aveva deciso di andare sulle montagne per combattere contro i tedeschi e incontrò l’amico avvocato Marco Macchioni. Salutandosi da lontano i due futuri partigiani cominciarono a recitare i famosi decasillabi della strofa finale di “Marzo 1821” di Alessandro Manzoni: “Oh giornate del nostro riscatto!/ Oh dolente per sempre colui/ che da lunge, dal labbro d’altrui/ come un uomo straniero le udrà!/ Che a suoi figli narrandole un giorno/ dovrà dir sospirando “io non c’era”/ che la santa vittrice bandiera/ salutata quel dì non avrà”. Era la tradizione risorgimentale di lotta contro lo straniero che ritornava prepotente alla superficie dopo una guerra scatenata da Mussolini contro la volontà della nazione in nome di un miope calcolo politico e dopo una serie di errori catastrofici, dalla guerra d’Etiopia al Patto d’Acciaio. Oggi può far comodo a una vulgata moderata ritenere che nella Resistenza ci fossero solo ladri, grassatori e assassini e che “gli italiani corrono sempre in aiuto del vincitore” (Ennio Flaiano). Ma il sottotenente del genio Ettore Rosso, che si fece esplodere con un carico di mine insieme all’avanguardia di una divisione panzer a Monterosi, alle quattro di notte del 9 settembre 1943, non lo fece per vincere una guerra perduta e non salì sul carro del vincitore. E con lui tantissimi altri militari italiani che, pur non volendo attaccare i tedeschi, alleati fino al giorno prima, furono moralmente costretti a farlo per resistere e non essere fatti prigionieri. Si può cominciare da quel settembre a dire che la prima Resistenza fu dei militari e non certo dei politici. In un mese di combattimenti più di 20mila militari italiani furono uccisi dai tedeschi. Chi scrive ha esaminato tutte le motivazioni delle medaglie d’oro al valor militare concesse a caduti della Resistenza italiana: si tratta di 587 nomi di uomini e donne, volti e storie difficilmente dimenticabili. Ebbene, di questi, 79 riguardano militari italiani uccisi tra il settembre e l’ottobre 1943. Da questo dato possiamo partire per fare un’importante puntualizzazione: la Resistenza non fu costituita solo da coloro che combatterono dietro le linee nemiche nel territorio italiano occupato dai nazifascisti. Questa fu solo una delle componenti anche se fu la maggioritaria e più importante. Pochi ricordano le altre tre:
1. le forze armate italiane sia dopo l’armistizio del 1943 sia nel periodo successivo, che va dal dicembre 1943 fino alla fine della guerra (67 medaglie d’oro al valor militare e 3mila caduti);
2. i 600mila militari deportati in Germania, che si rifiutarono di entrare nell’esercito di Salò pur patendo fame e malattie, di cui morirono in 40mila: fu grazie a loro che la Germania non potè costituire altre divisioni da mettere in campo per tentare di cambiare il corso della guerra;
3. i militari italiani all’estero, in Grecia e Jugoslavia (27 Movm e 10mila caduti).
Quanto a coloro che fecero la guerra partigiana bisogna definire, sempre in estrema sintesi, le motivazioni, il numero e la composizione politica. Come precisato in Il Paradiso devastato: storia militare della Campagna d’Italia (Ares 2012) la scelta fu tra il permettere che la Germania nazista depredasse il nostro paese di ogni risorsa disponibile per continuare la guerra o opporsi ad essa. Quanto alle motivazioni, è giusto far parlare Giuseppe Fenoglio in Il partigiano Johnny: “E nel momento in cui partì si sentì investito — nor death itself would have been divestiture — in nome dell’autentico popolo d’Italia, a opporsi in ogni modo al fascismo, a giudicare ed eseguire, a decidere militarmente e civilmente. Era inebriante tanta somma di potere, ma infinitamente più inebriante la coscienza dell’uso legittimo che ne avrebbe fatto. Ed anche fisicamente non era mai stato così uomo, piegava erculeo il vento e la terra». Quanto alla vita quotidiana del partigiano, arroccato su montagne prive di risorse, sarebbe bene ricordare che, specie d’inverno, fame, freddo e malattie rendevano tale vita maledettamente scomoda.
La guerra partigiana in Italia iniziò per l’iniziativa di singoli, come di scampati a un diluvio universale e non meraviglia che, nel novembre del 1943, i partigiani fossero solo 3.800 di cui 1.650 nel Piemonte legittimista e di forti tradizioni militari. Gli autonomi, apolitici, militari per cultura erano la maggioranza; iniziavano a organizzarsi i garibaldini, comunisti, fortemente indottrinati, combattivi opportune et inopportune e quelli di Giustizia e Libertà, mazziniani per formazione, rigorosi, spietati verso il nemico e verso loro stessi. I cattolici furono sempre minoritari ma saldamente inseriti nel territorio e capaci di un ottimo rapporto con la popolazione.
Nel luglio del 1944, dopo lo sfondamento della Linea Gustav e la liberazione dell’Italia centrale da parte delle forze alleate, Ferruccio Parri calcolava 52mila combattenti di cui 25mila nelle formazioni comuniste, 15mila giellisti, 10mila autonomi e 2mila socialisti. Si nota qui il formidabile sviluppo della componente comunista con uno sforzo organizzativo encomiabile anche se, da parte di molti, vi furono critiche per l’abitudine di gonfiare numericamente gli effettivi a scapito della qualità, specie in stagioni e territori dove le risorse alimentari erano insufficienti a nutrire una simile massa di armati. Il numero dei partigiani attivi diminuì drasticamente nell’inverno 1944-45 per poi risalire in primavera fino a toccare la cifra di 80mila combattenti ai primi di marzo 1945 e di 100mila in aprile. Metà di essi appartenevano a formazioni a guida comunista, ma va anche detto che nelle divisioni Garibaldi militavano moltissimi che comunisti non erano. La Resistenza non era un menu à la carte dove ci si poteva permettere di scegliere: si andava dove capitava o dove era più facile trovare aiuto. Resta il fatto, invero beffardo e imbarazzante, che, in pochi giorni, il numero dei partigiani raddoppiò. Una stima governativa del 1947 quantifica in 223.639 il numero di combattenti e in 122.518 il numero di individui accreditati come patrioti per la loro collaborazione alla lotta partigiana. E’ logico che molti scendessero in campo al momento dell’insurrezione; è altrettanto vero che furono in tanti a fregiarsi di una qualifica di partigiano quanto mai immeritata. Ciò detto resta il fatto che il movimento resistenziale in Italia fu il più sviluppato dell’Europa occidentale, superiore anche a quello francese per capacità bellica e importanza di operazioni. La fine della guerra in Italia fu considerevolmente abbreviata dall’insurrezione del 25 aprile e tale affermazione è corroborata da quanto narra lo storico inglese G.A. Shepperd secondo il quale “il consumo di carburante e di munizioni da parte delle forze alleate era stato altissimo e il 7 maggio si sarebbe verificata una penuria di munizioni per l’artiglieria da campo e anche la situazione dei carburanti era ormai critica. Non solo, ma il 25 aprile la situazione era peggiorata e non c’erano più riserve disponibili. L’insurrezione del nord Italia ebbe quindi un’importanza fondamentale nell’abbreviare i combattimenti e nel determinare la resa delle forze tedesche”. Un dato, incontrovertibile, che dovrebbe essere ricordato da quanti (e sono sempre di più) pensano che la Resistenza italiana sia stata ben poca cosa.
Il costo umano fu di 40mila caduti cui vanno aggiunti 10mila civili uccisi nelle rappresaglie naziste. Questi sono dati oggettivi che, tra l’altro, prescindono dalla testimonianza umana di coloro che diedero la vita per la nostra libertà. Questo il valore della Resistenza che non può essere sminuito dai molti punti oscuri che saranno oggetto dei prossimi articoli.
STORIA. Non solo Porzus: com’erano cattivi i partigiani comunisti con i loro “amici”. Alberto Leoni 12.05.2018 su Il Sussidiario. Continua il profilo storicamente “scorretto” della Resistenza. Sembra che i partigiani comunisti avessero una certa abitudine a reprimere il dissenso con il “fuoco amico”. La Resistenza nacque per cacciare lo straniero e divenne guerra civile, come illustrato dal già citato saggio del Pavone dove venivano delineate tre guerre distinte tra loro:
1) lotta di liberazione contro l’occupante tedesco, 2) guerra civile contro il fascismo collaborazionista, 3) guerra rivoluzionaria. Le prime due furono comuni a tutte le componenti della Resistenza, la terza alla sola componente comunista che la applicò non solo ai fascisti, non solo ai neutrali, ma anche a coloro che combattevano contro i nazifascisti e non erano delle loro stesse idee. L’equivoco più colossale della vulgata resistenziale sta proprio in una presunta unità che non ci fu mai se non per i suddetti punti 1 e 2. Chi spezzò questa unità fu il Partito comunista, che cercò di monopolizzare il movimento resistenziale senza fermarsi di fronte a nessun tabù, come l’assassinio deliberato del proprio alleato. La guerra partigiana in Italia ebbe caratteri di ferocia disumana fondamentalmente per due influssi: uno interno all’Italia stessa e uno esterno. Quello endogeno fu la brutalità di comportamenti già presenti nel nostro Paese in occasione di rivolte contadine o di repressioni. Ma c’è un fattore esogeno ed è l’importazione, in Italia, della guerra totale, senza restrizioni né tabù, quale fu praticata nella guerra civile spagnola (1936-1939). I comunisti, che ne avevano avuto diretta esperienza, inserirono nell’Italia del 1943 una spietatezza logica e mirata a vincere la guerra in ogni modo, senza curarsi delle sofferenze della popolazione e delle rappresaglie e con una particolare attenzione alla soppressione dei propri avversari politici, specie se alleati. Di contro, l’altra metà della Resistenza (autonomi, Giustizia e Libertà, cattolici) fu sempre attenta a non peggiorare la situazione e a non inasprire gli odi, pur combattendo con grande valore. Se potessimo dividere per categorie le vittime della brutalità partigiana potremmo partire da:
1) i fascisti combattenti. Vale la pena ricordare che la guerra partigiana era di per sé spietata. Prigionieri non se ne facevano né dall’una né dall’altra parte se non per scambiarli con altri prigionieri. E quanto è vero il patema d’animo del partigiano Milton in Una questione privata di Fenoglio quando scopre che, anche presso i partigiani autonomi, i fascisti venivano tutti “scorciati”.
2) i civili neutrali e non collaborativi. In genere i comunisti si prendevano con le cattive ciò che gli altri partigiani cercano di ottenere con le buone.
3) i fascisti dopo il 25 aprile. Anche qui bisogna rendersi conto che una guerra non è un incontro di boxe, dove al suono della campanella si smette di tirar cartoni, pena la squalifica. In un contesto così spietato la vendetta non è scusabile ma comprensibile. Eppure, per quanto si legga, furono quasi sempre i comunisti a fare massacri dopo la fine della guerra.
4) Ma c’è una quarta categoria di vittime della Resistenza che è al centro del nostro interesse: i partigiani uccisi da altri partigiani.
Il caso più conosciuto è quello delle malghe di Porzus, dove un distaccamento dei Gruppi di Azione Partigiana, a guida comunista, passò per le armi un intero comando brigata delle formazioni cattolica “Osoppo”. Movente: cedere il Friuli Venezia Giulia alla Jugoslavia titina. Nell’eccidio morirono, uccisi “da mano fraterna nemica” Francesco De Gregori, zio omonimo del cantautore e Guidalberto Pasolini, fratello minore di Pier Paolo. Un strage sottaciuta per decenni che ebbe risonanza mediatica con il film “Porzus” di Enzo Martinelli (1997) ma con reazioni memorabili come quella del presidente dell’Anpi Federico Vincenti il quale chiese ufficialmente che il film non venisse proiettato nelle scuole italiane. Solo dopo vent’anni di polemiche è stata possibile una memoria condivisa. Un caso isolato? Purtroppo no. Sembra che, da parte comunista, ci fosse una certa abitudine a reprimere il dissenso col “fuoco amico”. Cesare Valobra, comandante di un distaccamento della brigata “Lanciotto” che prese parte alla battaglia di Firenze mi raccontava che, essendo ebreo da parte di padre, era fuggito coi suoi fratelli in montagna trovando accoglienza nelle brigate “Garibaldi”. Non essendo comunista polemizzava apertamente coi capi fino a che un compagno gli fece presente che, nel combattimento successivo, avrebbe dovuto guardarsi dalle pallottole che provenivano da dietro. Più di recente mi è stata narrata la storia di un partigiano cattolico nelle montagne sopra Genova che fu inviato nel capoluogo a bordo di una Kubelwagen tedesca preda di guerra e fu vittima di un’imboscata: un errore, per carità. Ma quanti furono questi “errori”?
Giampaolo Pansa ha raccontato la storia, senza essere smentito, di Giovanni Rossi “Bracciante”, combattivo ma troppo autonomo rispetto alle direttive del Partito. Il 28 febbraio due partigiani comunisti uccisero Rossi nel sonno. Troppo autonomo e indipendente era anche Dante Castellucci “Facio”, amico e compagno dei fratelli Cervi, giustiziato dopo un processo che fu ritenuto una farsa dalla fidanzata e dagli amici. Sempre in Emilia, ad Argelato, desta ancora orrore la sorte dei sette fratelli Govoni, massacrati dopo lunghe ore di sevizie dai partigiani della brigata garibaldina “Paolo”. In tutto furono quarantaquattro le vittime di questa carneficina e tra esse Giacomo Malaguti che aveva combattuto a Cassino nel Corpo Italiano di Liberazione. I responsabili dell’eccidio furono condannati all’ergastolo ma riuscirono a fuggire in Cecoslovacchia come avvenne per altri assassini. Altro caso eclatante fu quello della missione “Strasserra”. Un agente dell’Office of Strategic Service (l’americano Oss), il tenente Emanuele Strasserra, insieme ad altri agenti e partigiani, giunsero nel Biellese per costituire una formazione partigiana non comunista che facesse da contrappeso allo strapotere dei garibaldini nella zona. Una formazione di garibaldini agli ordini di Francesco Moranino “Gemisto” tese loro un’imboscata e li sterminò, dopo di che i garibaldini eliminarono anche le mogli di due partigiani uccisi perché stavano indagando in modo troppo approfondito. Moranino venne condannato all’ergastolo nel 1957 ma la pena venne commutata in trent’anni di carcere che “Gemisto” non fece mai perché era in Cecoslovacchia. Nel 1964 il presidente della Repubblica Saragat gli concesse la grazia e “Gemisto” potè tornare in Italia venendo eletto senatore nel 1964. Se per questi e per altri delitti la giustizia ha fatto il suo corso accertando i fatti accaduti, per altre morti di comandanti partigiani non si va al di là del forte sospetto che la versione ufficiale non sia quella vera. Savino Fornasari ed Emilio Canzi furono due notevoli comandanti partigiani anarchici nella zona del Piacentino. Entrambi, subito dopo la fine della guerra, morirono in incidenti stradali sospetti. Ugualmente sospetta è la morte di Sante Vincenzi e Giuseppe Bentivogli, prestigiosi esponenti socialisti dell’ala riformista, uccisi il 21 aprile 1945 da un gruppo di fascisti nella Bologna appena liberata dagli Alleati. Tale, almeno, la versione ufficiale, perché quella mattina i tedeschi se n’erano andati durante la notte e i fascisti erano abbastanza accorti per cercare di salvare la pelle e non continuare a fare rastrellamenti.
Sempre in Emilia furono assassinati (sicuramente non da fascisti) diversi rappresentanti delle “Fiamme Verdi” cattoliche. Per motivi di spazio vengono citati solo i nomi: Anselmo Menozzi (Paolo), Pietro Cipriani (Aldo), Mario Simonazzi (comandante Azor). Infine Giorgio Morelli “il Solitario”, giornalista e partigiano, venne ucciso per aver cercato di scoprire la verità su quelle morti.
Un’altra morte misteriosa fu quella di Manrico Ducceschi detto “Pippo”, uno dei capi partigiani più efficienti e combattivi dell’Appennino toscano. Ducceschi costituì una banda partigiana che, dopo numerosi successi, venne inquadrata nella V armata statunitense e contribuì ad arrestare l’offensiva invernale italo-tedesca in Garfagnana. Ducceschi, collegato al Partito d’Azione, era sempre stato indipendente dai comunisti e legato agli Alleati tanto da venir contatto dagli americani in funzione anticomunista. Il 24 agosto si recò a Roma e, al suo ritorno a Pistoia, preannunciò che avrebbe denunciato l’operato di alcuni gruppi partigiani. Due giorni dopo venne trovato impiccato in casa propria, appeso alla cintura dei propri pantaloni. L’autopsia sarà compatibile con l’evento ma alcuni elementi gettarono subito alcuni sospetti, come la mancata acquisizione del suo archivio agli atti dell’Autorità giudiziaria. Verranno condotte nuove inchieste negli anni Settanta e Ottanta ma senza esiti concreti se non il coinvolgimento di Licio Gelli.
Fondamentale, per tre casi che verranno descritti di seguito, l’indagine di Luciano Garibaldi I giusti del 25 aprile: chi uccise i partigiani eroi? (Ares 2018).
Il capitano Ugo Ricci comandava il distaccamento “Sozzi” della 52ma brigata Garibaldi “Luigi Clerici” in val d’Intelvi. Combattente in Africa settentrionale, dopo l’8 settembre costituì una formazione partigiana monarchica e cattolica. Audace e cavalleresco, preferiva disarmare che uccidere e questo non era gradito dal comando garibaldino. Il 28 settembre 1944 fu convocato per una riunione dove venne incaricato di catturare il ministro della Repubblica sociale Guido Buffarini Guidi che si trovava a Lenno, sulle rive del lago di Como. Il tentativo, eseguito a mezzanotte del 3 ottobre, fallì e Ricci rimase ucciso con due compagni: Buffarini Guidi non era nemmeno in zona. Nello scontro, che avvenne nel bar accanto all’hotel Regina di Lenno, morirono anche tre fascisti che vi si trovavano, presi completamente di sorpresa. Ricci, che era entrato nel bar, non aveva cercato lo scontro a fuoco, non era quello il suo obbiettivo. Furono altri partigiani dietro di lui a sparare e Ricci fu udito gridare al tradimento prima di cadere ucciso. Per decenni, inutilmente il padre e la fidanzata cercheranno di far riesaminare il caso che, tuttavia, è stato oggetto di studi approfonditi.
Il secondo caso è quello del tenente colonnello dei carabinieri Edoardo Alessi, eroe di guerra in Africa settentrionale al comando di un battaglione di paracadutisti carabinieri e poi partigiano in Valtellina. Anche in questo caso, la disciplina della sua formazione, la fede cattolica, l’idea monarchica differenziavano pericolosamente Alessi dalle tendenze del comando comunista di zona. Va ricordato che Alessi aveva dichiarato, da subito, che non ci sarebbe state esecuzioni di fascisti se non dopo un regolare processo. Dopo la sua morte ci furono più di cento omicidi nella zona.
Il 26 aprile 1945, quando ormai la Liberazione era vicina, cadde in un agguato insieme a un suo compagno a Gualzi di S. Anna, frazione di Chiesa Valmalenco. Secondo la versione ufficiale Alessi e Cometti, il suo compagno, furono uccisi da un gruppo di fascisti che stavano eseguendo un rastrellamento. Da subito corsero voci sull’inattendibilità di tale versione che furono confermate dall’indagine effettuata da Teresio Gola, ufficiale di collegamento del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia e amico di Alessi. Subito dopo la Liberazione, Gola interrogò un tenente della Guardia Nazionale Repubblicana, Mario Giordani, che rese un’interessante dichiarazione. Nella notte del 25 aprile, Giordani ricevette una telefonata che denunciava la presenza di partigiani in frazione Sant’Anna. Accorsi sul luogo, i militi trovarono i corpi di Alessi e Cometti con ferite da arma da fuoco e da taglio. Vi fu un processo nel corso del quale venne condannato a dieci anni un sergente della Gnr, Mario Vignale, sulla base di testimonianze ma senza riscontri oggettivi. La sentenza fu impugnata dal Vignale davanti alla Cassazione che ordinò, il 30 giugno 1947, il rinvio del processo alla Corte di Assise di Bergamo. “Tuttavia — precisa Luciano Garibaldi — sia presso il tribunale di Bergamo, sia presso l’Archivio di Stato della città non esiste traccia di quel procedimento” (op. cit. p. 93). Successive indagini compiute privatamente hanno confermato i sospetti relativi a un tradimento di alcuni partigiani che avrebbero eliminato Alessi. La “mano fraterna nemica” colpiva ancora e non aveva lasciato tracce apprezzabili.
Il terzo caso, il più studiato e misterioso è quello del leggendario comandante Alfo Gastaldi “Bisagno” morto in un incidente stradale il 21 aprile 1945 e che sarà l’argomento del prossimo articolo.
STORIA/ Così è se vi pare: i partigiani e quelle strane medaglie al valore. Alberto Leoni 29.04.2018 su Il Sussidiario. Ogni singola Medaglia d’oro al valor militare della Resistenza andrebbe esaminata in dettaglio, per rendersi conto del grande valore di quegli uomini, ma non solo. Al lettore che abbia disdegnato di partecipare ai festeggiamenti per la festa della Liberazione si consigliano alcuni libri fondamentali, che spiegano bene cosa sia stato il meglio della Resistenza e come si debba guardare, per il nostro stesso bene, agli eroi e non ai maniaci omicidi per giudicare un passato e desiderare di emulare i grandi anziché sentirci migliori dei pessimi. Eravamo partigiani: ricordi del tempo di guerra del grande storico Raimondo Luraghi, medaglia d’argento, ricrea le gesta di Pompeo Colajanni, il leggendario “Barbato”, comunista, avvocato, ufficiale di cavalleria, comandante della divisione “Garibaldi Piemonte”. Un uomo, invero, formidabile. Si consiglia anche la lettura di La guerra dei poveri di Nuto Revelli, ferrigno comandante della brigata “Carlo Rosselli” e di Senza bandiera di Edgardo Sogno conte Rata del Vallino di Ponzone, volontario coi nazionalisti in Spagna, fiero oppositore delle leggi razziali antisemite, medaglia d’oro, d’argento e di bronzo della Resistenza: pochi libri d’avventura giungono a questi livelli. Questa introduzione serve a sgombrare il campo da possibili, future critiche alle affermazioni contenute nel presente articolo e che riguardano le indagini compiute sulle motivazioni di alcune medaglie d’oro al valor militare (Movm) della Resistenza. Complessivamente la massima decorazione militare è stata conferita a 407 partigiani con concentrazioni nei teatri di operazione del Piemonte (88) e dell’Emilia (87). Va notato che in Emilia tali decorazioni crebbero impetuosamente dalla metà del 1944 al 1945, anche a seguito degli avvenimenti sulla Linea Gotica che andava dalla Versilia alla Romagna, mentre in Piemonte lo sviluppo appare costante. Quanto ai reparti, gli appartenenti a formazioni garibaldine, a guida comunista, decorati con Movm sono i più numerosi superando il centinaio. Sempre sulla base di prime ricerche si può calcolare che i comunisti decorati con Movm sono 75 e i cattolici 77: due i valdesi e due gli ebrei. Già da queste prime note si può considerare quanto sarebbe interessante uno studio comparativo su queste personalità, spesso giovani. Una constatazione doverosa: ben 373 medaglie sono conferite alla memoria perché questi eroi non sopravvissero alle proprie gesta. D’altra parte, proprio da queste prime indagini risaltano alcune motivazioni alquanto strane e contraddittorie. Va premesso che, in quanto seguirà, non vi è alcun intento derisorio nei confronti di questi poveri morti: derisione e, in qualche caso, disprezzo vanno esclusivamente a coloro che hanno falsificato la realtà per fini politici o personali. Il tenente dei bersaglieri Antonio Cambriglia, per esempio, aveva combattuto durante le Quattro Giornate di Napoli, si arruolò nella V armata americana e venne paracadutato vicino a La Spezia per prendere contatto coi partigiani. “Accettato combattimento con pochi patrioti contro preponderanti forze nazifasciste — così recita la motivazione della sua Movm — conscio della propria sorte … chiudeva la sua eroica vita ecc”. Per lo storico Antonio Bianchi, nel suo La Spezia e Lunigiana: società e politica dal 1861 al 1945 Cambriglia fu ucciso durante una rapina il 2 novembre del 1944. Bianchi appare sicuramente ben informato e credibile: e allora perché questa motivazione?
Con il comunista Demos Malavasi si arriva al pirandelliano “così è se vi pare”. Sul sito dell’Anpi la nota biografica su Malavasi riporta la sua uccisione il 9 settembre 1943 ad opera dei tedeschi. Subito dopo, però, si riporta quasi integralmente la motivazione della Movm che descrive come il Malavasi “partecipava alla lotta partigiana … in numerosi fatti d’arme, con il fuoco del suo mitra uccidendo tredici tedeschi” poi altri due a colpi di pistola. Data della morte di questo Rambo comunista nella motivazione (espunta sul sito dell’Anpi) 1° dicembre 1944. Ora, viene da fare una sola domanda all’Anpi: perché? Perché riportare due versioni incompatibili sulla stessa pagina?
Se poi si passa a Marzabotto e dintorni siamo nella Gardaland delle balle con una sola terrificante verità: il sadismo del battaglione esplorante della 16ma divisione “Reichsfuhrer SS” comandato da Walter Reder, oltre alla brutalità delle altre truppe germaniche. Quanto alle vittime civili per mezzo secolo si è parlato di 1.830 vittime, salvo poi considerare che in tale numero sono stati compresi anche i civili uccisi dai partigiani e dai bombardamenti alleati. Oggi si riconosce in 770 la cifra esatta. Nemmeno lo storico fascista Giorgio Pisanò sfugge alla regola quando afferma che i nazisti ebbero solo il famigerato “Cacao” come guida mentre gli scampati di almeno tre zone diverse sentirono dei nazisti parlare in dialetto emiliano. In quell’occasione morì il comandante Mario “Lupo” Musolesi, “attaccato infine da schiaccianti forze di SS tedesche, si difendeva disperatamente e cadeva da eroe alla testa dei suoi uomini”. In realtà “Lupo”, il vicecomandante Gianni Rossi e un terzo partigiano Gino Gamberini andarono a cercare aiuto: solo Rossi riuscì a fuggire e Musolesi non era alla “testa dei suoi uomini”.
In effetti tutta la storia della formazione partigiana “Stella Rossa” è oscura e costellata di enigmi. Ma la motivazione della Movm conferita al giovane Gastone Rossi è chiara al di là di ogni dubbio: “in una dura azione di fuoco accortosi che una mitragliatrice nemica decimava i partigiani, si lanciava da solo all’assalto per distruggerla a colpi di bombe a mano, immolando così i suoi sedici anni alla Patria. — Marzabotto, 3 settembre 1944”. Ma il bollettino del Comando Unico Militare Emilia Romagna del 5 settembre 1944 racconta che Rossi morì in seguito a ferita riportata per un incidente di servizio. E, in effetti, vi fu un procedimento penale a carico di Cleto Comellini per omicidio colposo dato che i due ragazzi, il 3 settembre, mentre giocavano con una pistola carica, fecero partire un colpo che uccise il povero Gastone: ma la motivazione rimane sul sito del Quirinale e su quello dell’Anpi: perché?
La storia di Augusto Bazzino, partigiano ligure, si intreccia con quella della sventurata Giuseppina Ghersi, seviziata e massacrata a tredici anni dai partigiani dopo la Liberazione. Nella motivazione della Movm si legge che Bazzino, combattendo alla testa dei suoi uomini, rimase gravemente ferito, morendo il 28 aprile. In realtà due giorni prima lo zio di Giuseppina, Attilio Mongoli, borsanerista, stava per essere fucilato dai partigiani con altri disgraziati dagli uomini del Bazzino. Un condannato cercò di fuggire e Bazzino lo inseguì ma un partigiano tirò una raffica uccidendo il condannato e ferendo a morte il proprio comandante. Ma, forse, la più tragica e falsa motivazione è quella di un eroico militante socialista, Paolo Fabbri. “Nel corso di una azione di collegamento … addentratosi tra i nevosi valichi dell’Appennino, stremato di forze, perdeva la vita. 14 febbraio 1945”. Ora, conferire una medaglia d’oro a uno che muore congelato pare davvero eccessivo, ma le cose non sono andate esattamente così. Paolo Fabbri e il suo compagno Mario Guermani avevano compiuto la propria missione e dovevano ritornare a Bologna con molto denaro per la Resistenza. All’ultimo momento lasciarono la somma al comando partigiano socialista e si avviarono nella neve accompagnati da una guida locale, Adelmo degli Esposti. Questi rientrò alla base da solo affermando di aver sentito spari ed esplosioni e di aver perso di vista i due comandanti partigiani che furono trovati solo dopo la fine della guerra. Era evidente che non erano morti di freddo dato che le loro teste erano state perforate da proiettili di grosso calibro. Ma questo episodio rientra in un argomento più ampio che sarà affrontato nella prossima puntata: i partigiani uccisi da altri partigiani.
· La democrazia dei comunisti.
Piazza Tienanmen trent’anni dopo. Il libro in edicola con il «Corriere». Pubblicato domenica, 02 giugno 2019 da Marco Del Corona su Corriere.it. Fu una lunga notte, in Cina, e non è ancora passata. Tra il 3 e il 4 giugno 1989 la leadership del Partito comunista trasformò in azione le minacce che aveva formulato da settimane, man mano che le proteste di studenti e cittadini si intensificavano. Furono le ore del massacro della Tienanmen, ovvero la repressione violenta di massicce, pacifiche manifestazioni popolari. Il volume curato da Marcello Flores contiene saggi e reportageLa folla invocava un freno alla corruzione, una riforma del sistema politico che affiancasse quella economica, lanciata da Deng Xiaoping nel dicembre 1978; ma di quella stessa riforma economica chiedeva una messa a punto rispetto alle disfunzioni che fornivano all’ala conservatrice nel Partito argomenti contro il segretario generale Zhao Ziyang, considerato troppo aperto. A metà aprile il cordoglio per la morte di un altro leader riformista, Hu Yaobang, già esautorato, aveva provocato la prima mobilitazione sulla piazza centrale di Pechino. Il cuore simbolico della nazione — con la Città proibita a nord, la Grande sala del popolo a ovest, al centro il mausoleo dove riposa il corpo imbalsamato di Mao, con il monumento agli eroi — si era trasformato in un accampamento, estensione dei campus universitari. Bandiere, tende, striscioni, un simulacro di Statua della Libertà, approvvigionamenti offerti anche da storici ristoranti, mentre le condizioni igieniche si facevano via via più precarie. La lunga notte non è ancora passata, dura il silenzio nel quale quasi da subito la Cina ha sprofondato l’«incidente», le centinaia o migliaia di morti (le stime variano), le informazioni sulle manifestazioni che avevano coinvolto decine di altre città. Un’«amnesia» istituzionalizzata, come hanno suggerito accademici e romanzieri, che tuttavia continua a interrogarci ora che la Cina si è imposta come seconda economia mondiale, vera controparte degli Stati Uniti sulla scena globale. Le conseguenze della scelta di Deng Xiaoping di mandare i carri armati a sgomberare la piazza arrivano fino a oggi, in una catena di cause ed effetti anche fuori dai confini stessi della Cina, come mostra il volume Piazza Tienanmen. 4 giugno 1989. I fatti, i protagonisti, la memoria curato da Marcello Flores per il «Corriere della Sera», in edicola da martedì 4 giugno con il quotidiano. La data del 4 giugno non si può dire, in Cina. Le giovani generazioni non sanno. Chi sa deve limitarsi alludere, ci gira intorno provando a beffare la censura, come racconta Guido Santevecchi nella sua testimonianza. Non basta più scrivere sul web «35 maggio»: la censura digitale blocca tutto. E le cosidette «madri della Tienanmen», vestali della memoria, non avranno a chi lasciare il testimone. Nel 2009, alla vigilia del ventesimo anniversario della strage, Ding Zilin, anima del gruppo, aveva accolto il «Corriere» nel suo appartamento nella zona universitaria della capitale. In salotto conservava le ceneri del figlio Jiang Jielian, ammazzato a 17 anni. Un ritratto a olio, una fotografia. «È caduto — ci diceva Ding, allora sessantaduenne — per affermare la libertà e i diritti inalienabili dell’uomo e infatti lì c’è un pezzetto del Muro di Berlino: chi cercava di scavalcarlo veniva ammazzato. Come qui». Omissione pubblica, strazio privato. Le parole che la signora Ding pronunciò in quell’occasione valgono ancora oggi: «I dirigenti, i delegati dell’Assemblea del popolo sono sempre più giovani e noi sempre più vecchi. Noi che abbiamo perso figli e compagni lottiamo, ma moriamo uno dopo l’altro. Anche l’atteggiamento della comunità internazionale è cambiato. La strage fu sotto gli occhi di tutti, i governi fecero pressioni sulla Cina. Ma adesso?». Deng Xiaoping aveva sposato la linea dura non soltanto perché, sul piano politico, riteneva che assecondare la protesta avrebbe compromesso la stabilità dell’intero sistema. C’era anche un determinante aspetto personale: a Deng le masse studentesche, per quanto pacifiche, ricordavano il caos della Rivoluzione culturale scatenata da Mao nel 1966, durante la quale lui stesso venne perseguitato ed emarginato e il figlio Pufang fisicamente defenestrato dalla Guardie rosse (rimase paralizzato). La Tienanmen segnò uno spartiacque. Deng si convinse che fosse necessario accentrare il potere, anziché distribuire le cariche principali (segretario generale del partito, capo della commissione militare, capo dello Stato) e affidò la nuova fase a un ingegnere venuto da Shanghai, Jiang Zemin, capostipite politico di una generazione di tecnocrati che avrebbe rilanciato il capital-socialismo. Fu fatta pulizia, non solo nelle università, nei giornali, sui posti di lavoro. Il Partito mise agli arresti domiciliari Zhao Ziyang, colpevole di cedimento di fronte alla «piazza controrivoluzionaria», chiuse in carcere il suo collaboratore Bao Tong, il funzionario comunista più alto in grado a finire in cella per i fatti del 1989, l’intellettuale che con il «Corriere» definiva Zhao «il mio grande amico». Anche lui, guardato a vista nel suo appartamento per ironia della sorte vicino al Museo di storia militare, nel 2009 accusava le autorità: «Non fanno che indicare il 4 giugno come un momento a cui è seguito un periodo di grande stabilità. Beh, se si ritiene che questo sia il modo più efficace per risolvere le instabilità...». Le parole di Bao Tong introducono uno dei paradossi che la Tienanmen ha innescato. Perché dopo il 1989 la Cina ha accelerato il suo processo di sviluppo e la pace sociale indotta dalla repressione ha assecondato i piani del partito. Il regime ha saputo offrire un crescente benessere, la riduzione della povertà e la nascita di una classe media assicurandosi un controllo sociale che ora, sotto Xi Jinping, ha raggiunto grazie alle nuove tecnologie livelli estremi di sofisticazione. E a fronte del biasimo per i fatti del 1989, l’Occidente non ha mai cessato di tessere rapporti e costruirsi opportunità in Cina e con la Cina. Paradossale anche la distorsione prospettica che la memoria del 4 giugno 1989 ha prodotto in tanti osservatori, convinti che si fosse trattato di una richiesta di democrazia nella forma dei sistemi occidentali, quando invece — a giudizio della maggioranza degli studiosi — le richieste degli studenti e dei manifestanti rimanevano comunque all’interno dell’orizzonte del sistema esistente. La reattività che, con vari strumenti politrici e polizieschi, il partito fa scattare tuttora nei confronti degli «incidenti» (scioperi, petizioni, proteste) che attraversano la società è figlia del 1989: la stabilità innanzi tutto — è il mantra di Pechino —, la stabilità come garanzia del consenso. E però, in una società iperconnessa, in un Paese ormai forte sulla scena mondiale, resta impossibile discutere apertamente di fatti di trent’anni fa: anche questo, dopo tutto, è un paradosso.
Trent’anni fa Tienanmen. Ma per Pechino la repressione fu giusta. La notte tra il 3 e 4 giugno del 1989 i militari fecero irruzione massacrando centinaia di studenti. Il Dubbio 2 giugno 2019. Le autorità cinesi non hanno dubbi: la repressione delle proteste degli studenti pro-democrazia del 1989 di piazza Tienanmen fu la giusta decisione: “Si trattò di una turbolenza politica e il governo centrale prese le misure decisive e i militari presero le misure per fermarla e calmare il tumulto. E’ la strada giusta, è la ragione della stabilità del Paese che è stata mantenuta”, ha affermato il ministro della Difesa, il generale Wei Fenghe. A trent’anni il tema resta un tabù in Cina ed è alquanto inconsueto che se ne parli in pubblico, ancor di più con una copertura ufficiale. La presenza di Wei allo Shangri-La Dialogue di Singapore ha permesso di aprire una finestra: sollecitato su Tienanmen, in vista dell’anniversario del 4 giugno, s’è chiesto perchè si continui a dire che la Cina “non gestì” l’incidente nel modo più appropriato. I 30 anni hanno provato che la Cina ha attraversato importanti cambiamenti”, in merito all’impetuosa crescita e trasformazione del Paese. Tutto questo è stato possibile perché l’azione del governo “ha potuto beneficiare di stabilità e sviluppo”, ha aggiunto. Pechino fu l’epicentro delle manifestazioni di massa degli studenti che furono stroncate nel sangue quando nella notte tra il 3 e il 4 giugno i militari fecero irruzione dotati di carri armati nella piazza gremita. Restano difficili ricostruzioni dei fatti, responsabilità politiche e numero di morti che il governo ha fissato “dopo un’indagine” a quota 319, quando oltre un milione di studenti comincio’ a riempire la piazza da aprile del 1989 chiedendo la svolta democratica.
Piazza Tienamnen, 30 anni dopo: ancora vivo il ricordo di quello scatto. Stuart Franklin, autore dello scatto a Pechino in Cina, che che fece il giro del mondo. Giuseppe Dimiccoli il 3 Giugno 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. «Quello che ricordo di quello scatto è certamente la tragedia che si consumava sotto i miei occhi e quelli del mondo intero. Un momento molto forte a livello personale e professionale. Sono passati trenta anni ma ho ben vive nei miei ricordi quelle situazioni». È come sempre cortese e gentile Stuart Franklin, celebrità di tutti i tempi della fotografia mondiale ed ex presidente di Magnum Photos, quando risponde alla Gazzetta ad esattamente trenta anni da quello che accadde a Piazza Tiananmen in Cina, a Pechino. Stuart, ha girato varie volte in lungo e in largo il mondo, e proprio il 3 e 4 giugno del 1989 a Pechino fu testimone oculare del fatto che i soldati del regime, come sempre senza alcun convenevole, iniziarono a sparare su donne e uomini, perlopiù giovani studenti, che davano vita a manifestazioni pacifiche per rivendicare la libertà e riforme politiche. La sua fotografia, con quell'omino che sfida i carri armati del regime, è l'immagine più vera della violentissima repressione da parte del governo cinese contro le proteste degli studenti pro-democrazia. Altro elemento fondamentale di quella fotografia è insito nella circostanza che, per espressa volontà di Stuart, fu permesso ad Amnesty International di poter utilizzare liberamente l’immagine. Un valore aggiunto in termini di difesa dei diritti dell’uomo straordinario. «Fui contento di fare quella scelta perché continuai ad essere convinto che il lavoro che svolgono organizzazioni non governative come Amnesty è assolutamente meritorio ed importante per tutti noi. Quella foto è diventata una vera e propria icona di libertà e il fatto che fosse utilizzata da loro è stato molto importante per me e per tutti». Prima di concludere l’intervista una riflessione sulla Brexit e un passaggio sulla «meravigliosa Puglia». «La Brexit purtroppo è una tragedia che si è consumata sulla nostra pelle. Sono veramente dispiaciuto e non lo avrei mai voluto». Capitolo Puglia: «La vostra regione è fantastica, ci tornerei al più presto. Ho dei meravigliosi ricordi di quando venni a realizzare un servizio fotografico negli ultimi giorni del 1998 e nel capodanno del 1999. Era freddo. Immagino, però, che ora con il sole e il caldo la vostra terra sia meravigliosa. Mi piacerebbe molto tornare a farvi visita».
Tienanmen, ecco cosa si dissero i capi cinesi: «Uccidiamo chi va ucciso». Pubblicato sabato, 01 giugno 2019 da Guido Santevecchi su Corriere.it. «Bisogna uccidere coloro che debbono essere uccisi, condannare coloro che debbono essere condannati», disse il vecchio rivoluzionario e vicepresidente Wang Zhen nella sala di una palazzina in stile imperiale di Zhongnanhai, a poche decine di metri da Piazza Tienanmen. La strage era già stata compiuta e i dirigenti del Partito stavano discutendo la linea. Tutto fu deciso dietro le mura che chiudono alla vista Zhongnanhai, il quartier generale del potere comunista, un tempo giardino imperiale accanto alla Città Proibita. Deng Xiaoping era lì con i compagni dirigenti quando a metà aprile del 1989 i primi gruppi di cittadini cominciarono ad affluire in Piazza Tienanmen per accumulare (sotto il Monumento per gli eroi del popolo) fiori e poesie in memoria di Hu Yaobang, l’ex segretario del Partito estromesso per liberalismo e morto per un attacco di cuore il 15 aprile. Fu a Zhongnanhai che fu decretata la legge marziale il 18 maggio, quando il movimento ormai chiedeva riforme, la fine della corruzione e della censura e l’uscita di scena dei «vecchi» aggrappati al potere anche dopo la pensione. Fu da Zhongnanhai che fu dato l’ordine ai soldati di «ripulire» la piazza nella notte tra il 3 e il 4 giugno: la strage con mitragliatrici e carri armati. E fu ancora dietro quelle mura rosse che si riunirono tra il 19 e il 21 giugno i mandanti della repressione. Trent’anni dopo, la censura continua a cancellare ogni tentativo di commemorazione a Pechino. Ma a Hong Kong, che mantiene la sua autonomia semi-democratica, è appena stato pubblicato un libro con le trascrizioni finora segrete dei discorsi tenuti dai membri del Politburo in quei giorni. The Last Secret: the final documents from the June Fourth crackdownsi basa su trascrizioni conservate e fatte filtrare ora da un funzionario presente alla discussione. Non si sa quanti fossero i partecipanti a quella riunione del Politburo, allargata agli «anziani ex dirigenti» che ancora manovravano dietro le quinte, quelli che gli studenti avevano sperato di far uscire di scena per sempre. Sono 17 le voci. Tutti cominciarono proclamando: «Sono completamente d’accordo», «Sostengo assolutamente» la decisione del compagno Deng Xiaoping di mobilitare l’esercito «per porre fine ai tumulti anti-partito e agli atti controrivoluzionari». Wang, che chiedeva condanne ed esecuzioni capitali, fu appoggiato da Xu Xiangqian, ex grande maresciallo dell’Esercito di liberazione: «I fatti hanno provato che la confusione e i tumulti sono dovuti al collegamento tra forze interne e straniere, frutto del rifiorire della borghesia che aveva come obiettivo l’instaurazione di un regime anticomunista vassallo di potenze occidentali». Il milione di studenti e cittadini che erano stati in Piazza Tienanmen per cinquanta giorni furono bollati da Peng Zhen, ex presidente del Comitato centrale del Congresso del Popolo, come «un piccolo gruppo che, collaborando con forze straniere, voleva abbattere le pietre angolari del nostro Paese». Un tema ripreso da molti: «Quarant’anni fa il segretario di Stato Usa Dulles disse che la speranza di restaurare il capitalismo in Cina era riposta nella terza e quarta generazione nata dopo la nostra Rivoluzione: non dobbiamo permettere che la profezia si avveri».
La Cina rivendica la strage di Tiananmen: "Fu giusto intervenire, bisognava riportare l'ordine". Il ministro della Difesa Wei Fenghe alla vigilia del 30esimo aniversario del massacro. "Il governo e l'esercito presero le decisioni giuste" quando fu ordinato di sparare sulla folla di manifestanti, facendo centinaia di morti. Le commemorazioni della strage sono vietate, e vengono utilizzate tecnologie di intelligenza artificiale per individuare ogni commento on-line su quella protesta La Repubblica 02 giugno 2019. La Cina difende pubblicamente la sanguinosa repressione di Piazza Tiananmen a Pechino, alla vigilia del suo trentesimo anniversario, affermando che si è trattato di una "scelta politica corretta". "Quell'incidente è stato causato da una ribellione politica e il governo centrale prese delle misure per fermare le ribellioni, adottando così una scelta politica corretta", ha detto il ministro della Difesa cinese Wei Fenghe a un vertice sulla sicurezza a Singapore. Wei si è anche chiesto perché la gente continui a dire che la Cina "non ha gestito l'incidente correttamente". E ha aggiunto: "I trent'anni appena trascorsi hanno dimostrato che la Cina ha subito importanti cambiamenti, e grazie all'azione del governo in quel momento il Paese ha goduto di stabilità e sviluppo". A poche ore dal trentesimo anniversario della notte tra il 3 e il 4 giugno 1989, quando l'Esercito di Liberazione Popolare aprì il fuoco sui manifestanti, Wei insiste dicendo che "il governo centrale prese misure decise e questo fu il modo corretto. E' la ragione per cui la stabilità del Paese è stata mantenuta". Nei giorni scorsi erano arrivate forti critiche per gli arresti di decine di attivisti, con l'avvicinarsi dell'anniversario più delicato sul calendario politico di Pechino. "Il governo cinese deve accettare che nessun carico di repressione cancellerà mai l'orrore della carneficina su larga scala che ha preso piede in piazza Tienanmen e nei suoi dintorni", ha commentato Roseann Rife, East Asia Director di Amnesty International. Rife ha aggiunto che il presidente cinese, Xi Jinping, "continua a prendere spunto dal solito, logoro, manuale politico per perseguitare crudelmente chi cerca la verità sulla tragedia per cancellare dalla memoria la repressione del 4 giugno". Se in Cina le commemorazioni della strage sono vietate - e vengono utilizzate anche le tecnologie di intelligenza artificiale per rilevare ogni commento on-line relativo a quegli eventi - al di fuori dei confini, negli ultimi giorni, in molti hanno ricordato le vittime della brutale repressione. Un artista di Taiwan, Shake, ha realizzato una struttura gonfiabile dell'uomo di fronte al carro armato, l'immagine più forte delle proteste di quei giorni, diventata il simbolo dell'opposizione alla tirannia nel ventesimo secolo. L'opera è stata posta nello spiazzo antistante il Memoriale di Chiang Kai-Shek, uno dei luoghi più visitati di Taipei. "Come taiwanese", ha detto Shake, "spero di potere aiutare la Cina a raggiungere la democrazia, un giorno", aggiungendo, però, che la strage "è già stata spazzata via dalla visione politica autoritaria della Cina".
· I 70 anni autocritici del leader Massimo.
I 70 anni autocritici del leader Massimo e la Lega costola del movimento operaio. E’ il momento dell’autocritica per Massimo D’Alema che ripercorre gli anni della politica attiva. Francesco Damato il 26 giugno 2019 su Il Dubbio. A 70 anni compiuti in aprile D’Alema è diventato come il buon vino che produce: invecchiando migliora. In una lunga intervista a Vittorio Zincone, per il supplemento 7 del Corriere della Sera, egli ha riconosciuto almeno alcuni dei suoi errori, chiamandoli proprio così, pur rivendicando le attenuanti della generosità, addirittura con la decisione di lasciare il Pd due anni fa per tuffarsi in qualche centimetro d’acqua elettorale, come si è rivelato il bacino dei fuorusciti dal partito allora guidato da Matteo Renzi, e persino della professionalità. Che è stata simpaticamente assegnata d’ufficio dal cantautore Paolo Conte, ammirato da D’Alema, a chi sbaglia nel mondo adulto. L’ex presidente del Consiglio si è persino dato dello sciocco per l’abitudine avuta negli anni del maggiore potere, all’opposizione prima e al governo poi, di ‘ punzecchiare i giornalisti’, peraltro suoi colleghi, non rendendosi conto che ciò non aiutava l’immagine che pure voleva dare di leader arguto e tagliente. A dire il vero, arrivando nell’autunno del 1998 a Palazzo Chigi per sostituire Romano Prodi con un’operazione, obiettivamente, più da palazzo che elettorale, come invece avrebbe dovuto consigliare lo spirito sia pure parzialmente maggioritario voluto dagli italiani col referendum di cinque anni prima, D’Alema concesse la grazia, diciamo così, a tutti i colleghi giornalisti con la rinuncia alle querele pendenti. Ma, diavolo di un uomo, ci ricascò alla prima occasione denunciando Giorgio Forattini per una vignetta che gli attribuiva la censura di una lista di spie vere o presunte, in Italia, degli scomparsi servizi segreti sovietici. E furono soldi che il vignettista avrebbe dovuto sborsare vendendosi qualche casa se a pagare non fosse intervenuto l’editore con generosità spontanea come i contributi di solidarietà imposti per legge. Fra le cose rimastegli pesantemente sulle spalle ma di cui D’Alema ha voluto liberarsi c’è quella specie di certificazione di sinistra accordata alla Lega definendola una sua costola. Ma, anziché cavarsela rivalutando Umberto Bossi, che allora la guidava, rispetto all’odierno Matteo Salvini, affetto da “populismo più intossicante di quello delle cinque stelle" perché misto a razzismo, D’Alema ha voluto precisare, anche a costo di darsi la zappa sui piedi, di avere parlato della Lega solo come costola del movimento operaio, riuscendo già allora il Carroccio a raccoglierne i voti. L’odiato Renzi, l’altro Matteo, non si era ancora neppure affacciato sulla scena della sinistra per rottamare chi l’aveva guidata o rappresentata sino ad allora. Da rottamato, D’Alema è stato in fondo clemente nel suo restauro di politico aduso ormai a viaggiare molto anche per tenersi a distanza dalle bassezze attuali di casa nostra. E mi sento di condividere il torto che il mio amico Pasquale Laurito, il decano ormai dell’associazione della stampa parlamentare, orgoglioso di avere lui “cresciuto” D’Alema, ha appena rimproverato al “taverniere toscano”- in una intervista al Corriere della Sera- di avergli preferito Federica Mogherini cinque anni fa per l’incarico di alto commissario europea per la politica estera e di sicurezza. Beh, se c’era un abito adatto a D’Alema, e utile anche a Renzi a Palazzo Chigi, era proprio quello. E non certo per fargli vendere meglio all’estero il vino che produce al termine di una carriera politica cominciata ai tempi di Palmiro Togliatti parlando ad un congresso come “pioniere”. A sentire ragionare quel ragazzo il segretario del Pci lo scambiò per “un nano”. E poi, più seriamente, gli predisse un bel futuro.
Vittorio Zincone per “Sette – Corriere della Sera” il 26 giugno 2019. Sede romana della Fondazione ItalianiEuropei. E il giorno del trentacinquesimo anniversario della morte di Enrico Berlinguer. Chiedo un ricordo a Massimo D’Alema. Mi restituisce una citazione: «Vladimir Putin ha detto: “Chi volesse ricostruire l’Unione Sovietica sarebbe un uomo senza cervello, ma chi non ne ha un rimpianto e un uomo senza cuore”. Io applico lo stesso discorso al Partito Comunista Italiano». D’Alema e stato giovanissimo Pioniere, segretario della Fgci, leader del Pds e unico premier della storia d’Italia cresciuto a Botteghe Oscure. Spiega: «La politica non può non avere una radice ideale, direi persino esistenziale, altrimenti diventa un mestiere come un altro». Segue condanna del filone di pensiero per cui i partiti sono la cancrena del Paese e quindi la democrazia non ne ha bisogno: «I partiti, come tutti i corpi intermedi, svolgono una funzione di mediazione fondamentale, servono a costruire un rapporto stabile con l’elettorato, formare le classi dirigenti e legare le istituzioni al popolo. Se spariscono i corpi intermedi la democrazia cede al sondaggio del momento e i consensi si fanno volatili». Consensi volatili: il Pd nel 2014 era al 40% e alle ultime Politiche ha toccato il 17%, la Lega cinque anni fa era al 6% oggi ha raggiunto il 34%, il M5S nel 2018 era al 32% e ora e al17%. «C’e stata un’epoca in cui se un partito guadagnava l’1% si parlava di “grande vittoria”».
Le ultime Europee che assetto hanno fotografato?
«La cosiddetta “post-politica” dei Cinque Stelle e stata ridimensionata. Il Paese si riassesta su un bipolarismo destra-sinistra, ma zoppo. C’è uno squilibrio a favore della destra».
Lei nel 1994, da neo-segretario del Pds, propizio il celebre Patto delle Sardine e convinse la Lega di Umberto Bossi a far cadere il primo governo Berlusconi. Oggi e ipotizzabile un nuovo ribaltone parlamentare con protagonisti Pd e M5S a scapito della Lega?
«No. Noi avevamo perso le elezioni, ma eravamo un partito».
Il Pd non e un partito?
«La nuova segreteria non ha il governo dei gruppi parlamentari. Non e nelle condizioni di prendere iniziative politiche cosi impegnative e spregiudicate. Nicola Zingaretti ha ereditato un partito diviso, ancora condizionato, e non in senso positivo, da chi lo ha preceduto».
Lei e uscito dal Pd nel 2017. E stato un errore?
«E stata un’iniziativa generosa che non ha avuto successo. Ci sono 2000 battaglie che devono essere fatte anche se non c’è possibilità di vittoria».
Voi di Articolo 1 rientrerete nel Pd?
«Sono favorevole a una nuova unita e a un rinnovamento del centrosinistra, ma sono un militante disciplinato. Faro quel che decideremo insieme ai miei compagni».
Bersani dice che il centrosinistra dovrebbe guardare alla linea spagnola di Pedro Sanchez.
«Sono d’accordo. Ma considero inutile e vecchio il dibattito se guardare a sinistra o al centro. Il problema e sanare la frattura tra la sinistra e il mondo del lavoro. La sinistra si e trovata disorientata di fronte a una globalizzazione che ha acuito le disuguaglianze».
Quando e successo lei aveva responsabilità di governo.
«Il blairismo, che allora abbiamo frequentato con moderazione, negli anni Novanta aveva un senso. La crisi si e aperta in modo drammatico a partire dal 2007-2008. In alcuni Paesi la sinistra ha capito che doveva recuperare la sua ragione sociale, in Italia ci si e esibiti in un revival del blairismo fuori tempo massimo».
Sinistra, mondo operaio e blairismi. Carlo Calenda, europarlamentare del Pd, l’ha attaccata in tv sostenendo che il primo a flirtare con i poteri forti e a voler toccare l’articolo 18 fu lei.
«Basterebbe informarsi prima di parlare, anche per capire il senso di quel che fu fatto. L’effetto del blairismo fuori tempo massimo è stato che la destra ha potuto approfittare dello smarrimento dei ceti sociali più deboli.
La destra leghista...
«I reati diminuiscono, i flussi migratori si restringono, eppure il dibattito pubblico e dominato da una destra che invoca più sicurezza. E’ in corso un’operazione di camuffamento della realtà fatta alla maniera dei fascismi: i nazisti raccontavano che si stava male per colpa degli ebrei, la destra, oggi, da la colpa agli immigrati».
Lei definì la Lega di Bossi «una costola della sinistra».
«E una delle tante scemenze messe in giro per poi dire che io considero la Lega di sinistra. Nel 1994 dissi al Manifesto che la Lega era una costola del movimento operaio. Lo affermai perchè gli operai votavano Lega».
La Lega oggi.
«Il populismo di Salvini ha una connotazione razzista più intossicante del populismo del M5S. Sono i capi delle dittature che indossano le divise. In lui c’è uno scimmiottamento che cerca di far riemergere l’anima più torbida del popolo italiano».
D’Alema ogni tanto si ferma e spiega che lui ormai e lontano dalle bassezze del dibattito italiano: «Giro molto, viaggio. Mi occupo dei rapporti tra l’Europa e la Cina, di Donald Trump che non difende il modello occidentale e punta sullo slogan “America First”. Oggi la nozione stessa di Occidente e messa in discussione. E’ per questo che abbiamo bisogno dell’Europa. O l’Europa e unita o scompare, e con l’Europa scompaiono i nostri valori e i nostri interessi».
Lo riporto alle beghe nostrane, quelle che lo riguardano più da vicino: c’è una vulgata che avvolge il nome di D’Alema, fatta di accuse di spregiudicatezza e di aneddoti su barche, scarpe, vigne. Ogni volta che spunta il suo nome nel dibattito politico italiano una parte della sinistra bofonchia e storce il naso.
«Penso che abbiano concorso diversi motivi. L’abitudine sciocca di punzecchiare i giornalisti non ha aiutato la mia immagine. Ma più in profondità credo che contro di me abbiano operato il diffuso sentimento contrario alla politica e la forza di una tradizione anticomunista che, anche nella sinistra, ha sempre guardato con sospetto alla cultura togliattiana».
Togliattismi. La leggenda vuole che lei, a dieci anni, tenne un discorso davanti a Palmiro Togliatti.
«Portai il saluto dei pionieri del Pci al Congresso».
Ci sono due versioni su come Togliatti commento la sua performance: “Se tanto mi da tanto questo fara strada”, oppure “Questo non e un bambino, e un nano!”.
«Non ho idea di quale fu la sua reazione».
Nel 1975, divenne segretario della Fgci con Berlinguer leader del Pci.
«Parlavamo spesso: i giovani, il ’77. Nel 1980, dopo il disgelo tra il Partito comunista cinese e quel- lo italiano, venne organizzata una missione di Berlinguer a Pechino. Lui mi mando in esplorazione qualche mese prima con una delegazione della Fgci. E al mio rientro voleva racconti dettagliatissimi. Berlinguer aveva una incredibile curiosità del mondo».
Pochi mesi prima di morire la porto con se in Russia al funerale del leader sovietico Yuri Andropov.
«A Mosca constatai quanto prestigio internazionale avesse pur non essendo mai stato al governo».
La sorprese vedere che alla camera ardente di Berlinguer inter- venne anche Giorgio Almirante, segretario postfascista del Msi?
«Ricordo la scena: Almirante si stacco dalla sua scorta e si mise in fila con i militanti del Pci. Gian Carlo Pajetta gli andò incontro e lo prese sottobraccio. Parliamo di uomini che durante la Resistenza si erano sparati a vicenda. Allora c’era una forma di rispetto politico che oggi sembra non esserci più: l’idea era che anche se ci si combatteva si faceva parte della classe dirigente del Paese e si aveva una responsabilità nei confronti di tutti i cittadini».
La diffidenza a sinistra nei suoi confronti viene anche dall’essere sceso a patti con Berlusconi, quando era presidente della Commissione Bicamerale per le Riforme, nel 1997.
«Le regole si scrivono insieme. E quell’operazione avrebbe portato a un riconoscimento reciproco che avrebbe reso più stabile la Seconda Repubblica. Una delle responsabilità più gravi di Berlusconi e averla fatta fallire».
Nel 1990 lei andò a trovare Bettino Craxi nel suo camper alla conferenza programmatica del Psi di Rimini.
«Ci si scorda sempre di dire che con me c’era Walter Veltroni. E che ci mando il segretario del Pci, Achille Occhetto».
Una volta ha detto: “Godo della fama di essere un buon tattico. E immeritata”.
«E vero, ho fatto degli errori e ne ho già pagato le conseguenze. Ma la strategia l’ho sempre scelta bene».
Qual e stato il suo errore tattico più maldestro?
«Considerando quello che e avvenuto dopo, oggi tendo ad essere indulgente con i miei errori. Almeno, e qui cito Paolo Conte, “era un mondo adulto e si sbagliava da professionisti”».
· C’era una volta Enrico Berlinguer. Ora gli arroganti saccenti col ditino alzato. I vecchi errori del popolo della sinistra: avversario politico = ignorante-mafioso.
Asfaltati buonisti, radical chic e vescovi. Andrea Indini 27 maggio 2019 su Il Giornale. Le lenzuola calate dai balconi. Gli antagonisti e i centri sociali in piazza a prendersela con le forze dell’ordine. I progressisti nei talk show a lanciare l’allarme fascismo. Le élite europeiste a fare appelli per fermare l’avanzata populista. E i vescovi dai pulpiti a tuonare contro chi affida la propria campagna elettorale al sacro rosario. Tutti contro Matteo Salvini. E tutti con le ossa rotte all’indomani delle elezioni europee. Lo strabiliante 34% incassato dalla Lega alle elezioni europee non racconta tutto il successo di Salvini al termine di una campagna elettorale violentissima, segnata da colpi bassi e attacchi sproporzionati. A farne le spese, però, sono stati quelli che hanno pestato più duramente contro il vice premier leghista. Come i buonisti, i fan dell’accoglienza e i professionisti dell’immigrazione. Tutti a bocca asciutta. Lo dimostrano i numeri a Riace e a Lampedusa. Nella terra di Mimmo Lucano, il sindaco finito a processo per aver fatto carte false per far restare in Italia stranieri senza permesso di soggiorno, il 30,75% degli aventi diritto ha barrato il simbolo del Carroccio, mentre nell’isola “frontiera d’Europa”, simbolo degli sbarchi sulle coste italiane, si arriva addirittura al 46%. Percentuali bulgare se si pensa che dei 1.361 consensi espressi, ben 410 sono andati al vice premier leghista. A riprova del fatto che, come fa notare lui stesso, “la richiesta di una immigrazione limitata e controllata non è solo un capriccio di Salvini”. Eppure a sentire i soliti radical chic alla Roberto Saviano, tutto il Paese stava dalla parte di Lucano. Per lui la sinistra aveva organizzato manifestazioni e sit in, Fabio Fazio gli aveva messo a disposizione i microfoni di Che tempo che fa e l’intellighenzia rossa aveva speso fiumi di parole in sua difesa. Un vero e proprio abbaglio. Che si riflette nella “tranvata” presa a Capalbio dove la Lega ha incassato il 47,25% dei voti. Più del doppio rispetto al Pd che ha dovuto accontentarsi del 21,45%. Un voto che, sebbene arrivi da una realtà piccola, ha un alto valore simbolico. E non certo perché qui è solito trascorrere le proprie vacanze estive il segretario piddì Nicola Zingaretti. Anche in quella che è da sempre la culla del progressismo italiano, lo spaccamento tra élite e popolo è ormai netto e consolidato. Nessuno ha creduto alla panzana dell’onda nera, nessuno ha abboccato all’allarme del populismo anticamera del nazismo. E così anche lì i dem sono rimasti col cerino in mano. Come è successo nelle periferie d’Italia dove erano scoppiate le rivolte contro i rom e contro i migranti. Anche in Val Susa, dove gli antagonisti scendono in piazza un giorno sì e l’altro pure, il partito più votato è la Lega col 33,48. Ancor più del Movimento 5 Stelle, che ha fatto della battaglia No Tav una delle proprie bandiere, e del Partito democratico, che a Torino ha arruolato le madamin contro il governo. Lo schiaffo più forte, però, lo hanno preso probabilmente certi vescovi che sotto il vessillo della Cei hanno condotto una strenua campagna elettorale contro Salvini. Non accettavano che esibisse i simboli religiosi. In un’Europa, che ha fatto del laicismo il proprio motto e che ha cancellato le proprie radici cristiane per non fare torto alla minoranza islamica, la scelta di Gualtiero Bassetti & Co. è stata a dir poco inappropriata. Lo hanno fatto per colpire il leghista che aveva chiuso i porti e i rubinetti dei fondi per l’accoglienza. E così, dopo essere rimaste a bocca asciutta le varie Caritas locali, è toccato ai porporati. “Ringrazio chi c’è lassù e non aiuta Matteo Salvini e la Lega, ma aiuta l’Italia e l’Europa”, ha detto ieri notte in conferenza stampa ricordando di aver affidato al “cuore immacolato di Maria non un voto ma il destino di un Paese e un continente”.
I vecchi errori del popolo della sinistra. Nel commentare sui social la vittoria della Lega il solito copione: avversario = ignorante.
"Già in passato le classi subalterne si illusero di trovar tutela nella trincea della nazionalità. Non finì bene". (Gad Lerner)
"Siccome non voglio essere pessimista mi rallegro per quel 65,7% che non ha votato Lega".
"Che voglia di andare a pagare le tasse in un altro paese fatto da gente intelligente".
"Orgoglioso di Milano e dintorni. Cultura, inclusione, solidarietà e lungimiranza: se questi elementi non mancano, sovranismo e ignoranza si riducono a macchietta".
"La speranza è l’ultima a morire! In tutto questo nero qualche squarcio di luce si intravede!
E comunque... o a Milano ci siamo bevuti il cervello oppure se lo è bevuto il resto del Paese... delle due l’una!".
Sono alcuni (navigate pure, ne troverete a centinaia) dei commenti di sostenitori del Pd o della sinistra in generale postati sui social oggi per commentare il successo della Lega nelle Elezioni Europee. Commenti che hanno un unico denominatore comune: noi siamo quelli intelligenti, i leghisti sono tutti cretini, ignoranti, stupidi etc etc etc. La cosa non sorprende. Immaginiamo il mal di stomaco di queste persone da ore, dalle prime proiezioni della notte appena passata per un risultato che fa male. Quindi c'è sicuramente un pizzico di rabbia (classica e comprensibile) dello sconfitto. Ma, sotto sotto, resta un problema di fondo: la base della sinistra si sente e si sentirà sempre superiore (culturalmente parlando) agli altri. Fate attenzione, non ai leghisti, abbiamo detto agli altri, in generale. Perché quello che oggi viene detto di chi vota Lega è stato detto per anni riguardo a chi votava Forza Italia. Non conta quindi chi sei. Conta solo il fatto che sei un nemico. E, come tale, sei inferiore. Peccato che questa cosa si stia trasformando in un autentico boomerang politico e di sicuro elettorale con i risultati che le elezioni di ieri ma anche le ultime politiche e regionali. La sinistra sta rinascendo dopo la fine drammatica dell'epoca Renzi. Sarebbe il caso di ripartire allargando un po' la propria visione dell'Italia. Perché per far ripartire il paese serve certo un governo forte ma anche una opposizione, anzi una proposta politica diversa e credibile. "Spero che tu possa fare meglio di me. Ancora auguri" ha appena detto in diretta tv Chiamparino (Pd) al neo Governatore del Piemonte, il rappresentante del centrodestra, Cirio. Ecco. La sinistra deve ripartire da questo. Educazione, compostezza e voglia di rimboccarsi le maniche per creare una proposta politica seria. Perché finita un'elezione bisogna pensare subito alla prossima.
Gianni Cuperlo disprezza il popolino: "Lega primo partito di chi non termina la scuola secondaria". Libero Quotidiano il 27 Maggio 2019. "La Lega è il primo partito in Sardegna dove il 33 per cento non termina la scuola secondaria". Gianni Cuperlo, del Pd, ospite di Myrta Merlino a L'aria che tira, su La7, fa il solito ragionamento, quello tipico della sinistra radical chic secondo la quale gli ignoranti votano a destra e gli "intelligentoni", invece, il Partito democratico. Senza capire che continuando a difendere questo ragionamento sono destinati a prendere solo delle grandi legnate. Dice poi Cuperlo che i democratici devono "ritrovare il modo di parlare ai cittadini. Questo governo non ha fatto niente in termini di incentivi al diritto allo studio". E quindi "o riusciamo a collegare la nostra offerta politica a quelle persone o faremo solo ragionamenti molto vaghi". Forse basterebbe prendere atto che il risultato delle urne non dipende dal grado di istruzione. Questo sarebbe un buon punto di partenza.
Per Cuperlo chi ha votato Lega non ha finito la scuola media...Gianni Cuperlo, membro della direzione Pd, ha dichiarato che la Lega è il primo partito in Sardegna lì dove il 33% dei ragazzi non finisce gli studi. Non meno tenero il giudizio di Gad Lerner secondo il quale “in passato le classi subalterne si illusero di trovar tutela nella trincea della nazionalità. Non finì bene". Gabriele Laganà, Lunedì 27/05/2019, su Il Giornale. Una analisi alquanto "serena" quella fatta dalla sinistra in merito al grande successo, per certi versi inaspettato, della Lega alle elezioni europee. “Ci sono due Regioni, anzi una. Sì, mi colpisce l’Emilia, certo. Ma a me colpisce che oggi la Lega sia il primo partito in Sardegna dove il 33 per cento dei ragazzi tra i 14 ed i 18 anni che frequentano la secondaria non finirà gli studi. E la Lega, azionista di riferimento di questa maggioranza, non ha fatto niente per loro". È quanto ha dichiarato Gianni Cuperlo, membro della direzione del Pd, ospite di Myrta Merlino a "L'aria che tira" su La7. Cuperlo, inviato in trasmissione per analizzare il risultato del voto delle Europee che hanno sancito la vittoria della Lega, ha anche fatto una sorta di mea culpa affermando che i democratici devono "ritrovare il modo di parlare ai cittadini. Questo governo non ha fatto niente in termini di incentivi al diritto allo studio". E, quindi, ha concluso l'esponente del Pd "o riusciamo a collegare la nostra offerta politica a quelle persone o faremo solo ragionamenti molto vaghi". Se Cuperlo non ha usato parole tenere per spiegare il successo della Lega, ancor più duro è stato Gad Lerner. "L'Italia leghista è un rivolgimento profondo, sociale e culturale prima ancora che politico, come testimonia il voto nelle ex regioni rosse. Già in passato le classi subalterne si illusero di trovar tutela nella trincea della nazionalità. Non finì bene", scrive Lerner. Questo è solo l’ultimo di una serie di attacchi che il giornalista e conduttore televisivo ha riservato al partito guidato da Matteo Salvini, Solo qualche giorno fa, il conduttore de "L'Approdo", nuovo programma che andrà in onda dal 3 giugno in seconda serata su Rai3, ha dichiarato: "Tra alcuni anni proveremo vergogna per il comportamento del nostro governo, per la denigrazione di chi pratica il soccorso in mare, per l'offesa recata a dei sofferenti trattati come se fossero dei furbi e ci chiederemo come sia stato possibile accettarlo".
Il solito razzismo di Lerner: insulti a chi ha votato Salvini. Il giornalista commenta il boom elettorale della Lega attaccando le "classi subalterne" che hanno votato Salvini. Domenico Ferrara, Lunedì 27/05/2019, su Il Giornale. Perché ha vinto Salvini? Date Gad Lerner ai politologi e troveranno la risposta. Che poi è estendibile e applicabile alle volte in cui gli elettori hanno premiato il centrodestra. E la risposta risiede nella saccenza, nella supponenza e nel disprezzo nei confronti del popolo. E quindi della democrazia. Come spiegare altrimenti l'analisi "illuminata" del conduttore televisivo all'indomani del boom del Carroccio. "L'Italia leghista è un rivolgimento profondo, sociale e culturale prima ancora che politico, come testimonia il voto nelle ex regioni rosse. Già in passato le classi subalterne si illusero di trovar tutela nella trincea della nazionalità. Non finì bene", scrive Lerner. Una disamina dal salotto radical chic che più a sinistra non si può e che malcela il sempiterno odio nei confronti degli elettori. Di destra però. Ignoranti, analfabeti, inferiori e ora anche subalterni. A cosa? All'intellighentia, immaginiamo. Un classismo progressista d'altri tempi. Tranquilli, però, il maestrino Lerner è già pronto a salire in cattedra. E il 3 giugno, nel suo nuovo programma "L'Approdo" in seconda serata su Rai3, indovinate un po' di cosa parlerà? Ma della Lega naturalmente. Perché, come ha dichiarato il giornalista qualche giorno fa: "Tra alcuni anni proveremo vergogna per il comportamento del nostro governo, per la denigrazione di chi pratica il soccorso in mare, per l'offesa recata a dei sofferenti trattati come se fossero dei furbi e ci chiederemo come sia stato possibile accettarlo". La lezione è già pronta, insomma. E la previsione del futuro pure. Quello che manca è l'analisi del presente. E della democrazia.
Da Radiocusanocampus.it il 30 maggio 2019. Il Prof. Stefano Zecchi, filosofo e docente universitario, è intervenuto ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta” condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano. Sull’ignoranza rapportata al voto. “In genere c’è una visione vecchia della politica che dice quali sono le cose da perseguire anche culturalmente, questa è la visione di un partito egemone che non c’è più. Oggi la politica porta un altro problema, quello di ascoltare i problemi della gente e proporre soluzioni. Questo è il voto popolare della Lega, dire che è un voto ignorante significa non capire qual è il disagio. C’è una spaventosa arroganza e supponenza di gente che è ignorante e accusa gli altri di essere ignoranti. Gad Lerner, che mi assumo la responsabilità di definire modesto giornalista di cultura modesta, dovrebbe leggere Gramsci e capire come la politica si può avvicinare al popolo. L’analisi del voto non la si vuol fare perché porterebbe a comprendere i problemi della gente e oggi non è casuale che la sinistra vinca dove ci sono fasce economicamente alte. Per cultura e visione democratica della politica, io vorrei che ci fosse una social democrazia forte e moderna ma questa non c’è. A sinistra dovrebbero cercare di comprendere come mai il voto a sinistra venga dal centro di Roma, dal centro di Milano, da elite economiche e che pensano di essere anche elite culturali. La democrazia è questa, piaccia o non piaccia, non è un’oligarchia di figure che si auto investono di cultura, intelligenza, irreprensibilità scientifica. Il Pd, che nasce dal PCI ed è uno sviluppo del comunismo della sua modernità, non può dimenticare che la sua base elettorale era formata da operai e impiegati a basso reddito. Oggi chi rappresenta questa gente che vive in periferia? E’ una mutazione genetica del partito democratico e di tutto quello che ha rappresentato. D’Alema ha detto una cosa perfetta: andate a parlare con Landini, andate a vedere quali sono le posizioni sindacali e magari recupererete il rapporto con il popolo. Il Pd per risorgere dalla sua mediocrità dovrebbe rivolgersi a lui”.
Gad Lerner insulta i leghisti, Filippo Facci: ecco a quale sinistra appartiene. Libero Quotidiano il 29 Maggio 2019. Succede anche alle brave persone come il piddino Giovanni Cuperlo, detto Gianni: sottovalutare il patibolo mediatico e finire impiccati a una frase. Cuperlo, che oggi è membro della direzione del Partito democratico, la frase però l' ha detta, non è inventata, non è storpiata, non è più di tanto «estrapolata dal contesto», ed è questa: «A me colpisce che oggi la Lega sia il primo partito in Sardegna dove il 33 per cento dei ragazzi tra i 14 ed i 18 anni, che frequentano la secondaria, non finirà gli studi». Siccome non è scemo, Cuperlo, doveva sapere che sarebbe suonata così: «Chi ha votato Lega non ha finito la scuola media». Quindi è ignorante. Quindi gli ignoranti votano Lega. Ed è beffardo che nel corso della stessa trasmissione in cui si esprimeva così infelicemente (L' Aria che tira su La7, programma per chi non ha finito le elementari) Cuperlo è riuscito a dire che i democratici devono «ritrovare il modo di parlare ai cittadini». Poi Cuperlo ha fatto un mea culpa, perché appunto non è scemo ed è una brava persona: ma la sua spiegazione, inviata ai giornali, occupava 3000 battute. Come per le barzellette, se devi spiegarle hai già fallito. Troppo tardi: i pregiudizi di chi accusa la sinistra di sentirsi superiore (da vari punti di vista, oggi sintetizzati nella cretinissima espressione «antropologicamente») ne escono rafforzati anche se Cuperlo spiega, ora, che «ritengo una forma acuta di stupidità collegare il titolo di studio all' espressione del voto», «ho sempre trovato insopportabile l'atteggiamento di superiorità morale di certa sinistra convinta di poter giudicare il mondo». Troppo tardi anche per la più onesta delle ammissioni: «Chi parla ha il dovere di farsi capire se il mio pensiero è stato completamente travisato la sola responsabilità è mia». Già.
SUFFRAGIO PER CENSO. Lungi da noi il giudicare Cuperlo, politico peraltro laureato in «Discipline delle Arti, Musica e Spettacolo» che c' azzecca poco con la politica: il punto è che l' uomo ha libertà di opinione, il politico no. Magari sono centinaia, e non solo a sinistra, i politici che rimpiangono il suffragio per censo: ma se non riesci a tenertelo dentro, se lo schifo per il volgo ti trasuda dalla pelle, allora è meglio che politica non la fai. Diciamo, ecco, che a sinistra fanno più fatica a resistere. In parte perché gli ignoranti sono loro: «Mi è capitato di sentirmi dire da alcuni politici di sinistra», raccontava il sondaggista Nando Pagnoncelli qualche giorno fa, «che i laureati sarebbero il 30 per cento degli elettori». Invece siamo maglia nera in Europa con il 4 per cento. Ma a sinistra sarebbe più efficace citare un tipico «cult» da librerie Feltrinelli: «Le leggi fondamentali della stupidità umana» di Carlo Maria Cipolla. La seconda legge infatti spiega che «La frazione di gente stupida è una costante non influenzata da tempo, spazio, razza, classe o qualsiasi altra variabile storica o socio-culturale». Insomma, l' ignoranza non c' entra, anche perché l' elettore storico della sinistra è (era) chi non ha potuto studiare, non l'universitario.
SILVIO E I «COGLIONI». Poi, vabbeh, ci sono i Gad Lerner. Il suo tweet del 27 maggio è un manifesto: «L' Italia leghista è un rivolgimento profondo Già in passato le classi subalterne si illusero di trovar tutela nella trincea della nazionalità. Non finì bene». E c' è poco da tradurre o da fraintendere. Nel gergo comune, le classi subalterne sono quelle povere. Sul vocabolario, subalterno è chi «si trova in una posizione inferiore ad altri all' interno di un' organizzazione gerarchica». Nella prosa di Lerner, significa che già in passato il popolino appoggiò il fascismo.
Lettura finale: la Lega è fascista ed è votata dagli zotici. D' accordo, Lerner non era candidato: ma è archetipico, tanto per usare una parola per gente studiata. E poi Berlusconi, nel 2007, riferito a chi potesse votare a sinistra, disse solennemente: «Ho troppa stima per gli italiani per pensare che possano esserci in giro così tanti coglioni». Che votano a sinistra, cioè. Insomma, siamo circondati da ignoranti, zotici, subalterni e coglioni. E in questo articolo non abbiamo ancora menzionato i grillini. Filippo Facci
AUTO-CONVINCIMENTO? Laura Boldrini, la strana analisi: "Matteo Salvini ha stravinto. Ma..." Libero Quotidiano il 27 Maggio 2019. Un pessimo risveglio, per Laura Boldrini, costretta a fronteggiare il clamoroso successo del suo peggiore nemico: Matteo Salvini, il vero trionfatore alle elezioni Europee. La Lega, infatti, ha preso più del 34 per cento. Ha sbancato. E un commento, la Boldrini, lo ha affidato a tpi.it, dove ha affermato: "Dal voto di ieri emerge un’indiscutibile vittoria della Lega. Ma di questa vittoria non trarrà vantaggio il nostro Paese perché i deputati leghisti si collocheranno nel Parlamento europeo in un raggruppamento che non avrà la forza di influenzare le politiche dell’Unione giacché non si è verificata, a parte i casi dell’Italia, della Francia e del Regno Unito, la paventata vittoria dei nazionalisti nei 28 Paesi dell’UE". Tesi, quella della Boldrini, che ricorda da vicino quella esposta da David Parenzo nel corso della maratona Mentana. Tesi che però lascia più di un dubbio: l'avanzata dei movimenti sovranisti è evidente, per quanto non abbiano la maggioranza al parlamento Europeo. Ma tant'è, la circostanza non sembra avere alcuna influenza sulla Boldrini. La fu presidenta aggiunge: "Il fatto che la lista unitaria del Partito Democratico si collochi come seconda forza elettorale dimostra che l’alternativa alla Lega non potrà essere il Movimento Cinquestelle, che paga pesantemente nelle urne un anno di subalternità a Salvini, ma una coalizione dei progressisti che sia sempre più aperta, inclusiva e rinnovata nelle scelte programmatiche e nella sua rappresentanza". Dunque, la Boldrini provoca Luigi Di Maio: "Salvini sta alzando il prezzo della coabitazione per passare all’incasso, parlando della Tav, della Flat Tax, dell’autonomia differenziata e del nuovo decreto anti-migranti. Che farà Di Maio? Fino a quando, per restare al potere, potrà continuare a fare la stampella di Salvini?", conclude.
Poi gli attacchi di L'Espresso-Repubblica.
Elezioni, la Lega primo partito a Rosarno. Tra impresentabili e legami con la 'ndrangheta. Matteo Salvini sfonda anche al Sud e nel comune simbolo dello sfruttamento dei migranti nelle campagne. Dove il partito è rappresentato da personaggi che hanno intrattenuto legami di affari con esponenti della criminalità organizzata. Giovanni Tizian il 27 maggio 2019 su L'Espresso. «Siamo il primo partito anche in alcune città del Sud». Matteo Salvini è certo del risultato all'una di notte parlando davanti ai giornalisti nella storica sede di via Bellerio. Nel luogo simbolo del partito del Nord, il leader della Lega non più nordista annuncia la presa del Mezzogiorno. La Lega nazionale, anzi nazionalista a tutti gli effetti. A Rosarno, provincia di Reggio Calabria, l'aspirazione del Capitano diventa realtà. Alle 2.30 del mattino i dati ufficiali confermano che la Lega è il primo partito: 35,33 per cento. Oltre venti punti in più rispetto alle politiche del 4 marzo. Rosarno è un luogo simbolico perché qui la questione migranti vuol dire sfruttamento nella campagne dei braccianti africani e tendopoli dove vivono ammassati centinaia di lavoratori. Che per la narrazione leghista sono solo clandestini. Rosarno, uno dei centri più importanti della piana di Gioia Tauro, è simbolico perché qui nel 2010 c'è stata la rivolta dei braccianti che hanno protestato per le condizioni disumane alle quali dovevano sottostare. Ed è proprio qui che Matteo Salvini dopo il 4 marzo è venuto a festeggiare il 17 per cento nazionale ottenuto alle politiche. A Rosarno Salvini è stato ospite della sezione locale del partito. I responsabili avevano organizzato una giornata nel liceo. "La mafia è un cancro" continua a ripetere il vicepremier. Ma i documenti ottenuti da L'Espresso dimostrano che il responsabile del Carroccio a Rosarno, dove il ministro ha registrato un risultato record alle ultime elezioni, è stato per anni in società con uomini legati alle cosche: dal clan Pesce ai Bellocco. Il Capitano alla festa elettorale rosarnese aveva fatto il pienone. Seduto allo stesso tavolo dei leghisti rosarnesi. Tra tutti Vincenzo Gioffrè, 37 anni, responsabile del partito nel comune: il regista del successo elettorale di Matteo Salvini nel paese della piana di Gioia Tauro, sciolto due volte per mafia, dove il potere della ’ndrangheta è capillare. Gioffrè, sul profilo Facebook, tra le decine di foto che lo immortalano abbracciato a Salvini, non lascia traccia dei suoi rapporti con un pezzo della ’ndrangheta locale. Ufficialmente, si presenta come piccolo imprenditore attivo nel settore del verde pubblico. Un uomo che «ama il suo paese» e non tollera «la politica europea di abbattimento delle frontiere», definita causa principale della «massiccia ondata d’immigrazione clandestina da cui derivano le ampie sacche d’illegalità e di disagio sociale che ben conosciamo». Esiste però una biografia non autorizzata del responsabile della Lega di Rosarno, candidato alla Camera alle ultime elezioni. Un curriculum riservato, che rivela come il paladino della legalità Gioffrè, allo scoccare del nuovo millennio, abbia fondato una società cooperativa con Giuseppe Artuso. Personaggio che la procura antimafia di Reggio Calabria ritiene vicinissimo al clan Pesce, una delle cosche più potenti della ’ndrangheta, che da Rosarno si è spinta fino a Milano e al Sud della Francia. La creazione della coop agricola non è l’unico affare che collega il capo dei leghisti rosarnesi alla cosca locale. Gioffrè ha creato infatti anche un altro consorzio di cooperative agricole al cui vertice, fino al 2013, c’era Antonio Francesco Rao, uomo ritenuto dagli investigatori vicino al clan Bellocco, gruppo affiliato a quello dei Pesce. Gioffrè era tra gli organizzatori della festa-comizio nel liceo di Rosarno del dopo voto del 4 marzo, evento al quale ha partecipato Matteo Salvini. Appuntamento al quale – come riferito dai media e confermato da fonti investigative – erano presenti esponenti dei clan, «soggetti di interesse investigativo», secondo la definizione tecnica di un’autorevole fonte giudiziaria. Un bagno di folla per il futuro titolare del Viminale e vicepremier. Un successo per Gioffrè, l’uomo che ha fatto affari con presunti ’ndranghetisti. Ma il successo delle europee è dovuto anche ad altri uomini del territorio. La Lega a Rosarno può contare su un consigliere comunale di nome Enzo Cusato, passato alla Lega pochi mesi prima delle scorse politiche. Come abbiamo svelato nel “Libro nero delle Lega”, oltre a essere un attivissimo militante di centrodestra, Cusato, è anche il consuocero di uno dei reggenti del clan Bellocco, potente famiglia della ’ndrangheta in Calabria. La figlia del consigliere comunale è infatti la moglie di Domenico Bellocco, figlio di Rocco Bellocco. Nuovi militanti leghisti crescono in Calabria. E portano la Lega a risultati insperati nella terre dei clan.
I legami pericolosi tra il partito di Matteo Salvini e la 'ndrangheta. "La mafia è un cancro" continua a ripetere il vicepremier. Ma i documenti ottenuti da L'Espresso dimostrano che il responsabile del Carroccio a Rosarno, dove il ministro ha registrato un risultato record alle ultime elezioni, è stato per anni in società con uomini legati alle cosche: dal clan Pesce ai Bellocco. Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 10 luglio 2018 su L'Espresso. Il volto più noto della Lega a Rosarno nasconde un imbarazzante segreto. Vincenzo Gioffrè, 37 anni, è il regista del successo elettorale di Matteo Salvini nel paese della piana di Gioia Tauro, in provincia di Reggio Calabria. Comune simbolo dello sfruttamento dei braccianti africani, sciolto due volte per mafia, dove il potere della ’ndrangheta è capillare. E dove la Lega ha raggiunto uno dei risultati più sorprendenti delle ultime elezioni, ottenendo il 13 per cento dei voti dopo che cinque anni prima il pallottoliere si era fermato a un misero 0,25 per cento. Il segreto di Gioffrè, dicevamo. Sul profilo Facebook, tra le decine di foto che lo immortalano abbracciato a Salvini, non c’è traccia dei suoi rapporti con un pezzo della ’ndrangheta locale. Ufficialmente Gioffrè si presenta come piccolo imprenditore attivo nel settore del verde pubblico. Un uomo che «ama il suo paese» e non tollera «la politica europea di abbattimento delle frontiere» definita causa principale della «massiccia ondata d’immigrazione clandestina da cui derivano le ampie sacche d’illegalità e di disagio sociale che ben conosciamo». Esiste però una biografia non autorizzata del responsabile della Lega di Rosarno, candidato alla Camera alle ultime elezioni. Un curriculum riservato che L’Espresso ha ricostruito grazie a visure camerali e documenti giudiziari. Si scopre così che il paladino della legalità Gioffrè, allo scoccare del nuovo millennio ha fondato una società cooperativa con Giuseppe Artuso. Personaggio che la procura antimafia di Reggio Calabria ritiene vicinissimo al clan Pesce, una delle cosche più potenti della ’ndrangheta, che da Rosarno si è spinta fino a Milano e al Sud della Francia. I Pesce, per dire, controllano un’ampia fetta del mercato internazionale della cocaina, tanto che uno dei capi clan, Antonino Pesce, due anni fa riuscì persino ad assoldare un comandante di un mercantile per portare la droga dal Sudamerica al porto di Gioia Tauro, regno incontrastato delle cellule mafiose dei paesi della piana. La creazione della coop agricola non è l’unico affare che collega il capo dei leghisti rosarnesi alla cosca locale. Gioffrè ha creato infatti anche un altro consorzio di cooperative agricole al cui vertice fino al 2013 c’era Antonio Francesco Rao, uomo ritenuto dagli investigatori molto vicino al clan Bellocco, affiliato a quello dei Pesce. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini è consapevole dei legami d’affari che collegano il suo rappresentante a questi personaggi? Di sicuro il leader della Lega è stato ospite della sezione di Rosarno nei giorni immediatamente successivi al trionfo dello scorso 4 marzo. D’altra parte lui è stato eletto proprio lì: senatore della Repubblica grazie ai voti raccolti in Calabria. Gioffrè era tra gli organizzatori della festa-comizio nel liceo di Rosarno. Evento al quale, come ha scritto Repubblica e hanno confermato fonti investigative all’Espresso, erano presenti esponenti dei clan. Un bagno di folla per il futuro titolare del Viminale e vicepremier. Un ringraziamento personale a Gioffrè, l’uomo che ha fatto affari con presunti ’ndranghetisti. Eppure non troppo tempo fa lo stesso Salvini dichiarava: «Mi sento molto meglio se chi puzza di mafia sta lontano da me». A parole, dunque, il leader sovranista dice di non voler avere nulla a che fare con persone che hanno legami con la criminalità organizzata. Senza fare distinzione tra indagati e condannati, tra sospetti e certezze. Discorsi da convinto antimafioso, da prefetto di ferro. Tra la teoria e la pratica, però, c’è una distanza siderale. Perché da quando è a capo del partito Salvini ha già dovuto fare i conti con le grane giudiziarie dei leghisti del Sud. E non ha detto una parola. Indagini sul voto di scambio in Sicilia. Finte minacce denunciate dal suo viceré sull’isola, Angelo Attaguile, che la procura di Catania ha chiesto di condannare a una multa salata per essersi inventato tutto. Senza dimenticare l’appoggio in Campania di ex fedelissimi di Nicola Cosentino, condannato a nove anni per concorso esterno in associazione camorristica.
E il pacchetto di voti offerti alla Lega da Giuseppe Scopelliti, pezzo da novanta della politica calabrese, ex governatore e già sindaco di Reggio, oggi in carcere per il dissesto delle casse del municipio e su cui pesano i sospetti della procura locale: secondo pentiti e magistrati Scopelliti è stato appoggiato nella sua ascesa politica dal clan De Stefano. Che dire poi del deputato di Lamezia Terme Domenico Furgiuele, il primo leghista calabrese doc a finire in Parlamento, sul cui conto si sommano i sospetti di una parentela ingombrante e di vicende poco chiare (vedi box). Furgiuele è stato il primo ad accogliere Gioffrè nelle fila leghiste. Del resto è merito del neo deputato se Salvini ha potuto contare su una rete di consenso diffuso in Calabria. In rete si può leggere ancora il discorso con cui Furgiuele dà il benvenuto al giovane rosarnese, descritto dal responsabile regionale della Lega come un «imprenditore onesto e uomo impegnato nel sociale, già candidato alle ultime amministrative conseguendo l’apprezzabile risultato di oltre 300 preferenze personali». Correva l’anno 2016, Gioffrè aveva appena lasciato Fratelli d’Italia per unirsi al leghismo non più padano. In cima all’agenda politica, manco a dirlo, la questione immigrazione. Rosarno è nota per la presenza di un alto numero di stranieri, nel 2010 le immagini della rivolta dei braccianti africani fecero il giro del mondo. All’epoca ministro dell’Interno era Roberto Maroni, il collega di partito dell’attuale capo del Viminale. È la terra, Rosarno, dei braccianti che lavorano dall’alba al tramonto nei campi per pochi euro l’ora. Sfruttati come schiavi. E vittime di angherie, colpiti spesso nel tragitto di ritorno verso le baracche da ragazzini in cerca di fama criminale e onore. La soglia di indignazione di Gioffrè sull’immigrazione è molto bassa. Ben più tollerante si è invece dimostrato con la ’ndrangheta. Un esempio? La giunta dell’ex sindaco di Rosarno, Elisabetta Tripodi, qualche anno fa aveva pensato di realizzare, su un terreno confiscato ai clan, alcuni prefabbricati da destinare ai migranti. Alla fine l’opera è rimasta incompiuta, anche perché la ditta che stava facendo i lavori è stata bloccata dalla prefettura con un’interdittiva antimafia (l’impresa sarebbe stata condizionabile dalle cosche). Nell’ottobre del 2016, al grido di “Prima gli italiani”, la struttura è stata occupata da un gruppo di cittadini rosarnesi. Gioffrè era dalla loro parte, e il “villaggio della solidarietà” è stato presto trasformato nel “villaggio Italia”. L’occupazione non è durata molto, ma la propaganda ha funzionato. Con un nemico così prossimo, per la Lega di Rosarno è stato un gioco da ragazzi crescere e radicarsi. Perché secondo i responsabili del partito, qui il problema principale sono i lavoratori africani. Non certo le ’ndrine, non il potere dei padrini che soffoca l’intera filiera dell’agroindustria sui cui si regge la città della piana di Gioia Tauro. Un settore economico strategico per tutta l’area, fortemente condizionato dall’influenza della criminalità. Il dato emerge dalle decine di indagini dell’antimafia di Reggio Calabria, che negli anni ha spiccato mandati di cattura per numerosi imprenditori e ottenuto sequestri di terreni e aziende agricole. È proprio nell’ambito dell’agroindustria che Gioffrè muove i primi passi, giovanissimo. Classe ’81, a soli 19 anni costituisce la Agri 2000. Davanti al notaio, oltre a lui si presenta come fondatore della cooperativa sociale anche Giuseppe Artuso. Nel 2011 le cimici degli investigatori lo intercettano mentre parla con un amico. È Biagio Delmiro, affiliato al clan Pesce e condannato a 10 anni per mafia. Delmiro e Artuso discutono di latitanti. Di più: parlano del fuggitivo all’epoca più ricercato d’Italia, Francesco Pesce detto “Testuni”. Una coincidenza? Non sembra proprio. Artuso - ha raccontato un collaboratore di giustizia, affidabile secondo i detective - è insieme a Delmiro un componente dell’ala del clan che cura la custodia delle armi per i Pesce. Insomma, l’artefice del successo elettorale della Lega nella Piana di Gioia Tauro sarebbe stato per oltre dieci anni in affari con l’armiere di una delle più potenti cosche della ’ndrangheta. Non solo. Secondo gli investigatori, «il nipote di Artuso è tale Berrica, uomo a disposizione della famiglia Pesce». Va detto che Artuso non è mai stato condannato per mafia, né è mai finito in una retata contro la cosca Pesce. C’è però un dettaglio che emerge dai verbali di un processo in cui tra gli imputati c’era proprio Delmiro. Il 24 luglio 2012, al tribunale di Palmi viene chiamato a testimoniare Artuso. Prima che inizi la deposizione, il pubblico ministero gli dice: «La devo avvisare che lei è indagato per favoreggiamento della cosca Pesce». Dunque Artuso, per lo meno fino a cinque anni fa, era sospettato di aver aiutato la ’ndrangheta. La vicenda non ha avuto finora uno sbocco processuale, ma aggiunge un indizio ulteriore sulla vicinanza a certi ambienti dell’uomo con cui Gioffrè ha fondato una cooperativa ortofrutticola, la Agri 2000, chiusa per decisione del ministero dello Sviluppo economico nel 2013, dopo tredici anni di attività svolta senza mai depositare un bilancio. Ambienti, quelli dell’agroindustria calabrese infiltrata dalla ’ndrangheta, di cui fa parte anche un altro personaggio legato nel business al capo della Lega di Rosarno. In una seconda azienda, infatti, oltre ad Artuso e Gioffrè troviamo anche Antonio Francesco Rao. Si chiama O.p. Citrus Esperidio, una “organizzazione di produttori” agricoli con sede nel paese della Piana. Fino alla data di chiusura, avvenuta meno di un anno fa, il presidente del consiglio di amministrazione era Rao, presente anche all’atto di fondazione dell’impresa al fianco di Gioffrè e Artuso. Il nome di Rao, classe ’53, compare spesso negli atti giudiziari. In particolare nell’operazione Arca, quella sulla spartizione tra le cosche degli appalti per l’autostrada Salerno-Reggio Calabria. Ebbene, in quei documenti Rao è indicato come uno dei presenti all’incontro con un’ex superlatitante, Gregorio Bellocco, al vertice dell’omonima famiglia alleata dei Pesce. Ma c’è di più. Dai bilanci della Citrus Esperidio emergono i nomi di alcuni soci del consorzio. Tra questi c’è la Clemkiwi dello stesso Antonio Rao, che dunque non era solo un manager dell’azienda. E c’è anche La Rosarnese, tra i cui fondatori spicca il nome di Vincenzo Cacciola, membro di una famiglia che, secondo il pentito Vincenzo Albanese, è un vero e proprio clan vicino alla cosca Bellocco. È dunque questo il contesto in cui Gioffrè, il leghista della Piana, l’artefice dell’exploit elettorale di Salvini a Rosarno, ha mosso i primi passi da imprenditore. Seppure senza mai inciampare in ostacoli giudiziari, restano scolpiti negli atti le frequentazioni e la contiguità dei suoi partner d’affari con il male peggiore della Calabria, la ’ndrangheta. Una puzza di commistioni tra impresa e mafia dalla quale Salvini non ha ancora preso le distanze. O meglio: dal palco di Pontida, il ministro dell’Interno ha lodato l’antimafia che lavora lontana dai riflettori. Ha ricordato il magistrato Rosario Livatino, il giudice ragazzino ucciso dalle cosche nel ’90. E citato Giovanni Falcone e Paolo Borsellino come gli esempi da seguire. Poi ha chiuso con uno slogan, uno dei suoi: per i mafiosi, ha urlato, «la pacchia è finita». Varrà anche per i partner d’affari dei leghisti calabresi?
Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 19 dicembre 2019. Nel manuale del programma perfetto - un giorno dovrò pur scriverlo, lo giuro - un capitolo sarà riservato al rapporto fra Bianchina Berlinguer e Mauro Corona. Per la sua esemplarità, per la sua efficacia, per la sua irreparabile stolidezza. Alla base c' era un problema: BB è una rigidona, non sa sorridere, non è capace di sciogliersi e di sciogliere l' interlocutore. Altri talk usano il comico, tanto per strappare qualche risata prima di immergersi nel guazzabuglio esasperato della politica. Ma il comico non avrebbe avuto effetti benefici su BB, anzi ne avrebbe esasperato i lati più ombrosi. Qualche autore (spero sia Dario Buzzolan, spiegherò poi perché) ha avuto invece la brillante idea di invitare lo scrittore dei boschi e assegnargli il ruolo di «scaldamuscoli» di BB e di «scalda-pubblico». I due litigano, o fingono di, avendo come modello Tina Cipollari. Non importa di cosa parlino (le sardine come «rivelazione», lo sci di fondo, la presenza in studio di Massimo Giannini, Bruno Vespa e Gianluigi Paragone); l' importante è che BB si rilassi, rida, venga accusata di non avere il senso dell' umorismo per dimostrare di averlo. Ormai siamo nel pieno di una sitcom. BB è salva. Corona viaggia di buon senso montanaro («meglio tardi che mai», «il potere logora chi non ce l' ha», «cerco di guardare il bicchiere mezzo pieno»), ma furbescamente svela la recita: faccio il buffone per vendere libri, mi manca il successo di Fabio Volo, non sono un ubriaco. A questo punto, il manuale del programma perfetto prevede anche l' attacco ai «critici dei giornali», «questi inarrivati, questi incompiuti». E qui ci dovrebbe essere il tocco di Dario, figlio di Ugo Buzzolan, uno dei primi critici televisivi. Per fortuna arriva Costanzo, detto «il poiana» che si esibisce nell' imitazione degli uccelli. Se BB avesse il coraggio di chiudere qui #cartabianca (40 minuti!) si avvierebbe sul cammino della perfezione.
Bianca Berlinguer, "l'onda lunga da Almirante a mio padre". I successi in tv e la riservatezza nel privato tra carriera, passioni, memorie. La giornalista tv si racconta: "oggi alla politica manca il rispetto". Carlo Puca il 19 dicembre 2019 su Panorama. La carriera giornalistica «intrapresa dopo aver scartato quella da psichiatra». La certezza di una famiglia «sempre e per sempre unita». Il memoir sulla trans Marcella Di Folco, «l’amica con il più alto tasso di passione per la vita». Le parole di Bianca Berlinguer cadono lievi su discorsi importanti. Investono temi universali poiché declinano il passato, analizzano il presente e decifrano il futuro personale e collettivo. Questa intervista davvero rara - sia per i suoi contenuti sia per la famosa riservatezza della conduttrice di Cartabianca - parte per forza dalla sua vita professionale, la più attuale.
Quando le è scattato il sacro fuoco per il giornalismo?
«La verità? Ho scoperto che mi piace fare la giornalista dopo esserlo diventata. Finito il liceo avevo molti dubbi sulla facoltà da scegliere. Ne ho scartate alcune e mi sono rimaste medicina, per poter poi diventare psichiatra, o lettere, per tentare la strada del giornalismo».
E ha scelto lettere.
«Sì, ma sempre pensando alla carta stampata. Infatti ho cominciato al Messaggero di Roma fino a quando Giovanni Minoli mi chiese di lavorare a Mixer. Ci sono rimasta quattro anni da precaria fino al momento in cui Sandro Curzi, colui che considero il mio maestro, mi ha chiamato al Tg3. Con me c’erano, tra gli altri, Federica Sciarelli e Maurizio Mannoni. Ci ha fatto capire come fare un telegiornale e la televisione in generale».
Nel 2009 diventa direttrice del Tg3, sulle orme di Curzi immagino.
«Ho ripristinato una sua regola: cercavo di non affidare alcun servizio casualmente a chi capitava, ma di chiedere a ciascuno di fare solo quello che sapeva fare meglio. Il risultato premiava il giornale».
Lei sa meglio di me che spesso le redazioni si reggono su fragili equilibri di posizione.
«A me interessa il prodotto e cerco di dimenticare raccomandazioni, anzianità, ruoli formali.
Ma questo ha alimentato la fama di cattiva che la circonda. Lei pensa di avere un buon carattere?
«Intanto la vita privata è una cosa, quella professionale un’altra. Di sicuro sono molto esigente sul lavoro, anche con me stessa. E se lo sono con me, è inevitabile che lo pretenda dagli altri. Considero fare il giornalista un privilegio da onorare».
A Cartabianca ha meno problemi diplomatici?
«Nessun problema, la nostra redazione è molto capace e vive in un ottimo clima. Ho potuto scegliere la squadra e loro hanno potuto scegliere me. Nei tg è molto più difficile.
Il programma va molto bene, le è riuscito anche il colpo del duello Bonaccini-Borgonzoni. Siete diversi dai competitori, Floris e Giordano. A proposito: con chi andrebbe a cena tra i due?
«Ma con entrambi, per carità».
Lei fin da bambina ha frequentato Stintino.
«Alloggiavamo dai pescatori del posto, in affitto. D’altronde i miei genitori non hanno mai avuto una casa di proprietà neppure a Roma. Mio padre, come tutti i dirigenti comunisti, versava al partito la quota di stipendio parlamentare eccedente il salario di un metalmeccanico. Questa era la regola».
E l’Isola Piana, l’isola dei Berlinguer a poche miglia da Stintino?
«Un’eredità della madre di papà e di zio Giovanni. All’epoca alle figlie femmine venivano date le terre infruttuose, ai maschi quelle utili da coltivare».
Anche la vostra isola lo è.
«Per anni l’abbiamo affittata ai pastori che la usavano per il pascolo. Caricavano le pecore sulle barche e le portavano lì. L’affitto, 180 mila lire all’anno, serviva per coprire il pagamento delle tasse».
Mai pensato di venderla?
«Mai, nemmeno quando sono arrivate offerte ricchissime. Papà e zio Giovanni volevano che l’isola fosse sottratta a costruzioni e speculazioni di ogni tipo. Per fortuna da tempo è vincolata».
C’è anche il vincolo sentimentale.
«Stintino era il posto della libertà: estate, mare e gioia. A differenza di Roma e di ogni grande città, bastava il controllo sociale della comunità. Le famiglie si conoscevano tutte da sempre e a noi quattro figli era consentito fin da piccoli di uscire da soli, persino di sera. Io, Maria, Marco e Laura lo abbiamo fatto per anni, ovviamente dividendo per classe d’età le nostre frequentazioni. Ma sempre con l’occhio rivolto l’uno all’altro».
Siete ancora così uniti?
«Come sempre e, spero, per sempre. Abbiamo un forte senso di appartenenza, anche i nostri figli sono unitissimi tra loro. Penso sia legato al fatto che siamo una famiglia a prevalenza femminile e al ruolo fondamentale giocato da nostra madre Letizia, prima e dopo la morte di papà».
Torna spesso a Stintino?
«No, di rado. E al massimo per un giorno».
Perché?
«Anche papà e mamma erano davvero spensierati soltanto in quel posto. Ora che entrambi non ci sono più, i ricordi, seppur felici, rappresentano un carico emotivo troppo grande».
È comprensibile. Il ricordo dei funerali di suo padre commuove ancora milioni di italiani. Figurarsi voi, il sangue del suo sangue.
«Su di noi hanno pesato non solo la sofferenza personale ma anche altri aspetti. Mentre seguivamo la bara, non potevamo comprendere appieno il senso di quella folla sterminata accorsa a piazza San Giovanni e le sue conseguenze. Inoltre il Pci, inteso come casa comune, si occupò di tutto, dal momento del malore di papà fino ai funerali. Tutto questo ci ha impedito di vivere il lutto come esperienza familiare, motivo per il quale la sua elaborazione è stata segnata per sempre».
Anche per lei?
«Sì, anche per me. Ho capito soltanto in seguito perché mio padre è stato così amato, dalla sinistra, ma anche rispettato dalla destra. Ogni epoca ha le sue difficoltà ma se pensiamo a quelle di allora, erano forse maggiori di quelle attuali. C’era la crisi economica, ma c’era anche il terrorismo, che condizionava la nostra vita e quella di tutti gli italiani. Il Pci si proponeva come una comunità, unita da un progetto politico collettivo e da valori condivisi, per i quali impegnare la propria vita e le proprie risorse non era sentito come un sacrificio ma come una libera scelta».
Anche a destra c’era questa idea?
«Credo di sì, per una parte almeno. Ed è proprio quello che sembra mancare oggi: il rispetto di chi la pensa diversamente da te. In politica si è avversari, non nemici, perché quando il linguaggio pubblico diventa brutale e bellico, si minano le istituzioni e restano soltanto macerie. Enrico Berlinguer e Giorgio Almirante sono stati capaci di rispettarsi reciprocamente, al punto che non sembra impensabile, che possano essersi incontrati riservatamente per fronteggiare l’emergenza terrorismo e contrastare gli estremismi di sinistra e di destra».
Almirante venne anche a omaggiare il feretro di suo padre alla camera ardente di Botteghe Oscure.
«Ho compreso la forza di quel gesto, anche per la destra, anni dopo.
Ricorda quando?
«Le dico la data precisa, il 27 gennaio 1995».
Il giorno della «svolta di Fiuggi» decisa da Gianfranco Fini.
«La direttrice del Tg3 dell’epoca, Daniela Brancati, decide di mandare proprio me a seguire la fine del Movimento sociale italiano e l’inizio di Alleanza Nazionale. Ritiene che io sia la persona giusta perché, mi dice, «appartieni a una storia opposta ma non hai pregiudizi». Vado lì con l’idea di poter ricevere anche qualche manifestazione ostile e invece tutti si alzavano, mi salutavano, mi incoraggiavano. Il cameraman che era con me a un certo punto mi fa: «Siamo il Tg3, tu sei Berlinguer, in cosa stiamo sbagliando?». Non stavamo sbagliando, ad accoglierci era semplicemente l’onda lunga della visita di Almirante al feretro di papà».
Però ho anche il vago ricordo di un’aggressione a lei.
«Sì, ma un cretino c’è sempre e dovunque».
Veniamo a Marcella Di Folco, una figura prorompente. Lei è invece molto discreta. Personalità diverse che si sono incontrate e diventate amiche.
«Ci siamo conosciute al Gay pride di Venezia del 1993. Lei mi ha offerto uno dei suoi ombrellini che le piacevano tanto. Non ci siamo più lasciate».
Ispirata dalla sua vita straordinaria, lei ha scritto su Di Folco un libro considerato bellissimo. A mio parere perfetto per un film.
«Lo dice anche il mio editore, Elisabetta Sgarbi. Però intanto leggete il libro. Non per me, per Marcella e la sua voglia di vita».
Bianca Berlinguer: “Ogni giorno mi chiedo che cosa penserebbe papà Enrico”. A 35 anni dalla morte del leader del Pci, Bianca Berlinguer ricorda "la sua lezione ancora viva". E dice: "Non voleva che lo pensassero triste, non lo era" Simonetta Fiori il 10 giugno 2019 su La Repubblica. "Ancora oggi non credo di essere riuscita a elaborare completamente il mio lutto". È un momento di pausa a Saxa Rubra, Bianca Berlinguer ha appena fissato la scaletta del suo programma. Chiusa la porta della stanza, perde quel tratto imperioso in cui si rifugiano molto spesso le donne pubbliche per difendersi dal mondo. Sono passati 35 anni dalla scomparsa di Enrico Berlinguer, l'11 giugno 1984, e lei parla del padre con un'emozione intatta, come se quella drammatica...
Bianca Berlinguer e il papà Enrico segreto: "Quando vide i gerarchi comunisti", cosa pensava della Russia. Libero Quotidiano l'11 Giugno 2019. A 35 anni dalla morte del leader del Pci, Bianca Berlinguer ricorda sulle pagine di Repubblica "la sua lezione ancora viva". La giornalista di Cartabianca racconta papà Enrico e dice: "Non voleva che lo pensassero triste, non lo era". Interessante, tra le altre cose, il passaggio sullo strappo dall'Urss. Fu criticato perché ci mise tanto a farlo. "Lo fece quando era sicuro di portarsi dietro tutto il partito", dice Bianca. "Ma in realtà il suo distacco era maturato da tempo. Già nel 1977 a Mosca il suo discorso sul valore universale della democrazia venne accolto da una reazione glaciale. E nel 1973 c' era stato il gravissimo incidente stradale in Bulgaria: lui era convinto che si fosse trattato di un attentato". "Ricordo quando arrivammo a Jalta in nave", continua Bianca, "nel nostro unico viaggio in Unione Sovietica: guardando verso la banchina papà diceva: 'Poveri noi, ecco Ponomariov (un altissimo dirigente del Pcus), ecco Smirnov' (un importante funzionario). Era il 1979 e sapeva di essere un sorvegliato speciale".
Anna Montesano per il Sussidiario.net il 5 settembre 2019. La nuova ospite di Pierluigi Diaco nella sua trasmissione Io e Te, in onda su Rai1, è la giornalista e conduttrice di Cartabianca Bianca Berlinguer. Con lei si inizia parlando proprio di lavoro e del mestiere della giornalista televisiva: “Non scrivo mai niente a tavolino. Chiaramente mi preparo per le trasmissioni, mi documento, però poi bisogna anche lasciare tutta una parte di quello che succede alla diretta, a quello che può accadere in quel momento. Anche perché se uno si costruisce una parte, il pubblico se ne accorge.” Parlando proprio di interviste, si riporta alla mente quella saltata con Barbara d’Urso. In merito, la Berlinguer svela: “La d’Urso da me? Io spero di si. Mi piace l’idea di averla ospite nella nostra trasmissione e spero che questa intervista presto si possa fare.”
Bianca Berlinguer: “Mia madre? Determinante nella mia vita”. Si parla poi di famiglia e Bianca Berlinguer, oltre al noto papà, parla del rapporto con sua madre: “La presenza di mia madre è stata fondamentale nella mia formazione perché è stata sì una donna che ha rinunciato alla carriera per crescere 4 figli – ammette la conduttrice di Cartabianca, che aggiunge – ma ci ha insegnato che bisogna lavorare per la propria indipendenza. Lei e papà sono stati uniti tutta la vita con dei valori comuni che hanno permesso loro di trascorrere tanti anni difficili insieme.”
Poi parla del suo compagno: “Non siamo sposati, sono 22 anni che stiamo insieme e abbiamo una figlia di 20 anni, Giulia. Lei? Non le importa nulla del fatto che io e suo padre siamo personaggi pubblici.”
Da Blastingnews.com il 5 settembre 2019. (…) "Corona ci sarà come ospite?" ha chiesto Diaco alla Berlinguer verso la fine della lunga intervista. "Sì, ci sarà" ha risposto la conduttrice e giornalista, confermando la presenza dello scrittore e alpinista noto per le sue stravaganze.
Quando Verdone andò con Nuti a omaggiare Berlinguer: «Onesto, umile e preparato. Avercene oggi...». Pubblicato martedì, 11 giugno 2019 da Corriere.it. È più giovane, per quanto inconfondibile, mentre l’altro è triste davvero: tra le migliaia di persone che si affollarono a Roma per i funerali di Berlinguer, di cui oggi ricorre il 35° anniversario della morte sul campo, c’era anche lui, Carlo Verdone, allora sulla cresta dell’onda, insieme a Francesco Nuti, con cui aveva condiviso gli esordi di «Non Stop», straordinario guazzabuglio tv: «Mi chiamò proprio Francesco per andare alla camera ardente: lui militava nel Pci, io no, ero figlio di socialisti di scuola nenniana. Ma aderii subito al suo invito, era una persona che stimavo profondamente Enrico Berlinguer. Onesto, umile, garbato, ma soprattutto preparato». Roma, la Roma di Verdone, nel giorno dei funerali sembrò sospesa, l’Italia sembrò sospesa: «S’intuiva che se ne stava andando un pezzo importante di Paese, che sarebbe venuto a mancare un contraddittorio importante nella dialettica italiana. E poi Berlinguer piaceva a tutti, anche ai democristiani». Non ebbe occasione di conoscerlo da vivo, Carlo: «Mi bastava vederlo alle tribune elettorali, sempre pronto ad articolare con intelligenza ogni risposta, mai sopra le righe. Gli unici forse a rompere quel registro erano Pannella e Almirante. Ma anche quest'ultimo, pur lontanissimo dalle mie idee, era onesto, onesto nel pensiero». Berlinguer, visto oggi, sembra un marziano: «Il problema- conclude Verdone- non è solo che manchi uno come lui, ci vuole anche una platea altrettanto preparata. La politica dava allora degli esempi e tu agivi di conseguenza: oggi non s’informa più nessuno, nessuno sa niente di niente, quindi è più facile farsi abbindolare. E questo sì che è un bel problema».
Enrico Berlinguer, un politico perbene. Il segretario del Pci è stato l'ultimo leader in cui abbiano pienamente coinciso pratica di vita e progetto politico. Persino la sua stessa morte sul lavoro - sul palco dell'ultimo comizio - esalta un impegno vissuto come dovere superiore. Bruno Manfellotto 10 giugno 2019 su L'Espresso. La mattina del 13 giugno 1984, un mercoledì, Roma si sveglia sotto un sole splendente. Di certo farà molto caldo. Stupìta e incredula, la città si prepara a vivere una giornata indimenticabile, triste e potente, di dolore e di riscatto. Forse immagina un nuovo inizio, invece è la fine di una stagione. Il leader del Pci Enrico Berlinguer- amatissimo da militanti e comuni cittadini, non altrettanto dalla nomenklatura di partito - è morto due giorni prima, a poche ore da un drammatico comizio in piazza delle Erbe, a Padova, che ha voluto concludere a tutti i costi nonostante la fatica accumulata e a dispetto dell'ictus già esploso dentro il suo corpo fragile e sottile. Ora la sua bara di legno chiaro è nell'atrio di Botteghe Oscure. Una lunghissima fila, compagni e non, attende paziente per l'ultimo saluto. Tra poco il feretro, seguito dai familiari, muoverà verso piazza San Giovanni, la piazza del popolo comunista. I capi del partito e le autorità già aspettano sul grande palco bianco posto dinanzi alla basilica. Intanto si sono formati tre immensi cortei, forse un milione e mezzo - "l'Unità" azzarda due milioni- di uomini e donne di ogni età. E certo non sono tutti comunisti ...Solo una piccola parte riesce a entrare nella piazza dove la salma arriva alle quattro del pomeriggio, e comunque una folla così non s'è mai vista, nemmeno ai funerali di Palmiro Togliatti. La Rai se ne rende conto e organizza la diretta, tre ore di telecronaca con un giovane Bruno Vespa al microfono. La tragedia di un uomo, di una famiglia, di un partito diviene dolore collettivo di un'intera comunità nazionale. Da quel giorno sono passati trentacinque anni e ancora cerchiamo di capire fino in fondo che cosa abbia rappresentato Berlinguer e come sia stato possibile che un comunista senza se e senza ma sia stato votato da un italiano su tre, e abbia visto intorno alla sua bara - nella piazza fisica o in quella virtuale della tv- milioni di persone. La verità è che Enrico Berlinguer è stato l'ultimo leader in cui abbiano pienamente coinciso pratica di vita e progetto politico. La stessa morte sul lavoro- sul palco dell'ultimo comizio - esalta un impegno vissuto come dovere superiore. Il rigore personale; la sobrietà non declamata, ma praticata fino all'austerità che si fa proposta politica; la separatezza tra famiglia e partito, sfera privata e missione pubblica; la passione militante unita alla convinzione profonda che il partito debba diventare architrave di un'Italia migliore; il richiamo alla questione morale, intesa come lotta alla nefasta occupazione dello Stato e delle istituzioni a opera dei partiti (ed era davvero inimmaginabile allora che alla fine molto sarebbe stato mazzette e aragoste, corruzione e feste in maschera, caviale e champagne ... ): questo straordinario insieme di valori fondanti e quotidianamente vissuti restituiva, e restituisce ancora, un'immagine del leader piena, rassicurante, sincera. Capace di seminare fiducia. E indicare nella politica una cosa destinata, ma pensa un po', solo a migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei cittadini.
Forse ha ragione Walter Veltroni, autore e voce narrante di un film toccante e appassionato, quando dice che Berlinguer, o almeno il suo progetto politico, è morto una prima volta a via Caetani, a Roma, dinanzi al cadavere di Aldo Moro raggomitolato in una R4 rossa parcheggiata a metà strada tra piazza del Gesù e Botteghe Oscure. E d'altra parte il fenomeno politico Berlinguer, e di un Pci largamente sopra la soglia del 34 per cento, non sarebbe stato lo stesso se non lo avesse indirettamente alimentato, nel 1974, la campagna per il divorzio. Una grande battaglia di civiltà- caparbiamente inseguita da un leader radicale, Marco Pannella, poco amato al Bottegone-ma divenuta immediatamente politica perché simboleggiava, intercettandolo, un desiderio diffuso in tutta la società di cambiamento, di crescita, di modernizzazione. Così, sotto quel vessillo si saldano di nuovo culture politiche diverse- comunisti e socialisti, liberali e cattolici laici, riformisti e post azionisti - rinnovando un certo spirito della Resistenza e l'intuizione del Togliatti sbarcato a Salerno. Ora come allora la leadership se la assume il Pci. Così si comprendono meglio anche compromesso storico e alternativa democratica, progetti poi andati perfino al di là delle stesse intenzioni del leader comunista. Che cosa sarebbe potuto succedere se Berlinguer non fosse morto allora e su quel palco, quale strada politica avrebbe intrapreso, non si riesce a immaginarlo nemmeno ricorrendo alla controstoria. Ciò che invece sappiamo è che nessuno dei suoi eredi e sodàli di allora ha provato a continuare, rinnovare, reinterpretare quanto fatto negli anni precedenti. Anzi, è come se quella stagione fosse stata saltata a pie' pari, rimossa senza porsi più domande né risolvere le contraddizioni profonde che pure s'erano manifestate.
Ma di lui, di Enrico Berlinguer, e di ciò che rappresentava perfino fisicamente, si parla ancora oggi. Evidentemente questo non è rimpianto, perché tutto cambia e nulla si ripete così com'era; magari è speranza in qualcosa che possa modificare il corso delle cose, trascinarci via da una lunga stagione oscura, resuscitare un po' di passione per l'unico antidoto possibile all'antipolitica e alle sue derive populiste e leaderiste: la politica. La politica perbene.
Io, il compagno Berlinguer e le mie lacrime con Ingrao. Eugenio Scalfari il 10 giugno 2019 su La Repubblica. La memoria "Dopo l’intervista sulla “questione morale” diventammo amici. Un giorno mi disse: grazie, ci stai aiutando molto". Enrico Berlinguer aveva in mente di sostenere l’autonomia dei partiti nazionali comunisti occidentali dall’influenza della Russia e della Cina. Rese concreta questa rottura con il passato attraverso alcuni interventi che fece al comitato centrale del Partito comunista sovietico. In particolare le sue parole a Mosca, nel 1969, segnarono un nuovo inizio, quando disse: «Noi respingiamo il concetto che possa esservi un modello di società socialista unico e valido per tutte le situazioni». E ancora: «Ogni Paese ha la sua storia. Ogni partito opera in una realtà storicamente determinata e condizionante». I socialisti, che all’epoca, dopo Pietro Nenni, erano guidati da Francesco De Martino, fecero un patto di unità d’azione con Berlinguer perché appoggiavano la sua tesi. E lui spiegava: siamo i comunisti italiani, ma non cessiamo di credere nei valori del comunismo che sono eguaglianza e libertà, era il suo credo. Gli si obiettò: sono i valori della Rivoluzione francese. Sì, replicò, ma se voi leggete quello che scrissero nel Manifesto del partito comunista Marx ed Engels, nel 1848, troverete che le libertà borghesi sono libertà fondamentali alle quali i comunisti affiancano l’eguaglianza, che è molto più importante della libertà. Questa – diceva Berlinguer – è la distinzione tra noi che siamo comunisti e i liberaldemocratici socialisti del resto d’Europa: quando avremo affermato insieme alla borghesia dei vari paesi la libertà, allora faremo la rivoluzione proletaria per affiancare alla libertà l’eguaglianza. E “libertà ed eguaglianza” sarà il nostro motto mondiale. Io ero deputato e durante quegli anni conobbi Berlinguer. Quando poi ci fu il sequestro Moro, lui, da capo del Partito comunista, propose alla Democrazia cristiana di fare un’alleanza dei forti contro i deboli. I forti erano quelli che dicevano: noi dobbiamo prendere i brigatisti e mandarli in galera. Questo partito della fermezza era costituito da metà della Dc, dall’intero Pci e da Ugo La Malfa. Noi, come Repubblica, eravamo l’unico giornale che era per il partito della fermezza.
Intervistai Berlinguer cinque volte: un’intervista, quella uscita il 28 luglio 1981, era sulla “questione morale”. Dopo questi cinque incontri eravamo ormai diventati amici, tanto che lui mi invitò una sera a casa sua e io ricambiai. Ormai ci davamo del tu. Berlinguer mi diceva: «Ci stai aiutando molto». Poi lui morì. E ricordo che gran parte della direzione del Pci partì subito per Padova. A Roma era rimasto un gruppo guidato da Pietro Ingrao per preparare i funerali. Io andai nella sede della direzione: Ingrao mi venne incontro. Gli dissi che ero estremamente desolato perché condividevo lo stesso pensiero di Berlinguer. Tanto che avevo finito per votare per il Pci. Mentre stavo andando via, a metà del salone, Ingrao mi abbracciò. Il gesto mi commosse profondamente. Sentendo che piangevo, anche Ingrao iniziò a singhiozzare, cercando di consolarmi. Più lui provava a consolarmi, più il mio pianto aumentava. Passarono cinque o sei minuti. Poi sciogliemmo l’abbraccio. Berlinguer è il contrario di Renzi. Il Pd non è altro che il Partito comunista di Berlinguer. Il Pci di Berlinguer venne ereditato da Achille Occhetto, il quale cambiò il nome: non più Pci ma Pds, Partito democratico della sinistra. Ma fu Berlinguer per primo ad avere trasformato il Partito comunista in un partito democratico di sinistra. Quanto sarebbe diverso avere oggi un Berlinguer a capo del Pd.
La questione morale di Enrico Berlinguer. Intervista di Enrico Berlinguer a Eugenio Scalfari, «La Repubblica», 28 luglio 1981. «I partiti non fanno più politica», dice Enrico Berlinguer. «I partiti hanno degenerato e questa è l'origine dei malanni d'Italia».
La passione è finita?
Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l'iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un "boss" e dei "sotto-boss". La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la DC: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora...
Lei mi ha detto poco fa che la degenerazione dei partiti è il punto essenziale della crisi italiana.
È quello che io penso.
Per quale motivo?
I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali. Per esempio, oggi c'è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il Corriere della Sera, cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente, ma noi impediremo che un grande organo di stampa come il Corriere faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le "operazioni" che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell'interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un'autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un'attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti.
Lei fa un quadro della realtà italiana da far accapponare la pelle.
E secondo lei non corrisponde alla situazione?
Debbo riconoscere, signor Segretario, che in gran parte è un quadro realistico. Ma vorrei chiederle: se gli italiani sopportano questo stato di cose è segno che lo accettano o che non se ne accorgono. Altrimenti voi avreste conquistato la guida del paese da un pezzo.
La domanda è complessa. Mi consentirà di risponderle ordinatamente. Anzitutto: molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più. Vuole una conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli italiani hanno dato in occasione dei referendum e quello delle normali elezioni politiche e amministrative. Il voto ai referendum non comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e interessi privati o di un gruppo o di parte. È un voto assolutamente libero da questo genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel '74 per il divorzio, sia, ancor di più, nell'81 per l'aborto, gli italiani hanno fornito l'immagine di un paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso. Al nord come al sud, nelle città come nelle campagne, nei quartieri borghesi come in quelli operai e proletari. Nelle elezioni politiche e amministrative il quadro cambia, anche a distanza di poche settimane.
Veniamo all'altra mia domanda, se permette, signor Segretario: dovreste aver vinto da un pezzo, se le cose stanno come lei descrive.
In un certo senso, al contrario, può apparire persino straordinario che un partito come il nostro, che va così decisamente contro l'andazzo corrente, conservi tanti consensi e persino li accresca. Ma io credo di sapere a che cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di essere un partito "diverso" dagli altri, lei pensa che gli italiani abbiano timore di questa diversità.
Sì, è così, penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste dei marziani, oppure dei missionari in terra d'infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi con chiarezza in che consiste la vostra diversità? C'è da averne paura?
Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi, così spero non ci sarà più margine all'equivoco. Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l'operato delle istituzioni. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Le sembra che debba incutere tanta paura agli italiani?
Veniamo alla seconda diversità.
Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata.
Onorevole Berlinguer, queste cose le dicono tutti.
Già, ma nessuno dei partiti governativi le fa. Noi comunisti abbiamo sessant'anni di storia alle spalle e abbiamo dimostrato di perseguirle e di farle sul serio. In galera con gli operai ci siamo stati noi; sui monti con i partigiani ci siamo stati noi; nelle borgate con i disoccupati ci siamo stati noi; con le donne, con il proletariato emarginato, con i giovani ci siamo stati noi; alla direzione di certi comuni, di certe regioni, amministrate con onestà, ci siamo stati noi.
Non voi soltanto.
È vero, ma noi soprattutto. E passiamo al terzo punto di diversità. Noi pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell'economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l'iniziativa individuale sia insostituibile, che l'impresa privata abbia un suo spazio e conservi un suo ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste realtà, dentro le forme capitalistiche -e soprattutto, oggi, sotto la cappa di piombo del sistema imperniato sulla DC- non funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo dell'attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione. È un delitto avere queste idee?
Non trovo grandi differenze rispetto a quanto può pensare un convinto socialdemocratico europeo. Però a lei sembra un'offesa essere paragonato ad un socialdemocratico.
Bè, una differenza sostanziale esiste. La socialdemocrazia (parlo di quella seria, s'intende) si è sempre molto preoccupata degli operai, dei lavoratori sindacalmente organizzati e poco o nulla degli emarginati, dei sottoproletari, delle donne. Infatti, ora che si sono esauriti gli antichi margini di uno sviluppo capitalistico che consentivano una politica socialdemocratica, ora che i problemi che io prima ricordavo sono scoppiati in tutto l'occidente capitalistico, vi sono segni di crisi anche nella socialdemocrazia tedesca e nel laburismo inglese, proprio perché i partiti socialdemocratici si trovano di fronte a realtà per essi finora ignote o da essi ignorate.
Dunque, siete un partito socialista serio......
nel senso che vogliamo costruire sul serio il socialismo...
Le dispiace, la preoccupa che il PSI lanci segnali verso strati borghesi della società?
No, non mi preoccupa. Ceti medi, borghesia produttiva sono strati importanti del paese e i loro interessi politici ed economici, quando sono legittimi, devono essere adeguatamente difesi e rappresentati. Anche noi lo facciamo. Se questi gruppi sociali trasferiscono una parte dei loro voti verso i partiti laici e verso il PSI, abbandonando la tradizionale tutela democristiana, non c'è che da esserne soddisfatti: ma a una condizione. La condizione è che, con questi nuovi voti, il PSI e i partiti laici dimostrino di saper fare una politica e di attuare un programma che davvero siano di effettivo e profondo mutamento rispetto al passato e rispetto al presente. Se invece si trattasse di un semplice trasferimento di clientele per consolidare, sotto nuove etichette, i vecchi e attuali rapporti tra partiti e Stato, partiti e governo, partiti e società, con i deleteri modi di governare e di amministrare che ne conseguono, allora non vedo di che cosa dovremmo dirci soddisfatti noi e il paese.
Secondo lei, quel mutamento di metodi e di politica c'è o no?
Francamente, no. Lei forse lo vede? La gente se ne accorge? Vada in giro per la Sicilia, ad esempio: vedrà che in gran parte c'è stato un trasferimento di clientele. Non voglio affermare che sempre e dovunque sia così. Ma affermo che socialisti e socialdemocratici non hanno finora dato alcun segno di voler iniziare quella riforma del rapporto tra partiti e istituzioni -che poi non è altro che un corretto ripristino del dettato costituzionale- senza la quale non può cominciare alcun rinnovamento e senza la quale la questione morale resterà del tutto insoluta.
Lei ha detto varie volte che la questione morale oggi è al centro della questione italiana. Perché?
La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell'amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell'Italia d'oggi, fa tutt'uno con l'occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt'uno con la guerra per bande, fa tutt'uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti possono provare d'essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche. [...] Quel che deve interessare veramente è la sorte del paese. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi; rischia di soffocare in una palude.
Signor Segretario, in tutto il mondo occidentale si è d'accordo sul fatto che il nemico principale da battere in questo momento sia l'inflazione, e difatti le politiche economiche di tutti i paesi industrializzati puntano a realizzare quell'obiettivo. È anche lei del medesimo parere?
Risponderò nello stesso modo di Mitterand: il principale malanno delle società occidentali è la disoccupazione. I due mali non vanno visti separatamente. L'inflazione è -se vogliamo- l'altro rovescio della medaglia. Bisogna impegnarsi a fondo contro l'una e contro l'altra. Guai a dissociare questa battaglia, guai a pensare, per esempio, che pur di domare l'inflazione si debba pagare il prezzo d'una recessione massiccia e d'una disoccupazione, come già in larga misura sta avvenendo. Ci ritroveremmo tutti in mezzo ad una catastrofe sociale di proporzioni impensabili.
Il PCI, agli inizi del 1977, lanciò la linea dell' "austerità". Non mi pare che il suo appello sia stato accolto con favore dalla classe operaia, dai lavoratori, dagli stessi militanti del partito...
Noi sostenemmo che il consumismo individuale esasperato produce non solo dissipazione di ricchezza e storture produttive, ma anche insoddisfazione, smarrimento, infelicità e che, comunque, la situazione economica dei paesi industrializzati - di fronte all'aggravamento del divario, al loro interno, tra zone sviluppate e zone arretrate, e di fronte al risveglio e all'avanzata dei popoli dei paesi ex-coloniali e della loro indipendenza- non consentiva più di assicurare uno sviluppo economico e sociale conservando la "civiltà dei consumi", con tutti i guasti, anche morali, che sono intrinseci ad essa. La diffusione della droga, per esempio, tra i giovani è uno dei segni più gravi di tutto ciò e nessuno se ne dà realmente carico. Ma dicevamo dell'austerità. Fummo i soli a sottolineare la necessità di combattere gli sprechi, accrescere il risparmio, contenere i consumi privati superflui, rallentare la dinamica perversa della spesa pubblica, formare nuove risorse e nuove fonti di lavoro. Dicemmo che anche i lavoratori avrebbero dovuto contribuire per la loro parte a questo sforzo di raddrizzamento dell'economia, ma che l'insieme dei sacrifici doveva essere fatto applicando un principio di rigorosa equità e che avrebbe dovuto avere come obiettivo quello di dare l'avvio ad un diverso tipo di sviluppo e a diversi modi di vita (più parsimoniosi, ma anche più umani). Questo fu il nostro modo di porre il problema dell'austerità e della contemporanea lotta all'inflazione e alla recessione, cioè alla disoccupazione. Precisammo e sviluppammo queste posizioni al nostro XV Congresso del marzo 1979: non fummo ascoltati.
E il costo del lavoro? Le sembra un tema da dimenticare?
Il costo del lavoro va anch'esso affrontato e, nel complesso, contenuto, operando soprattutto sul fronte dell'aumento della produttività. Voglio dirle però con tutta franchezza che quando si chiedono sacrifici al paese e si comincia con il chiederli -come al solito- ai lavoratori, mentre si ha alle spalle una questione come la P2, è assai difficile ricevere ascolto ed essere credibili. Quando si chiedono sacrifici alla gente che lavora ci vuole un grande consenso, una grande credibilità politica e la capacità di colpire esosi e intollerabili privilegi. Se questi elementi non ci sono, l'operazione non può riuscire.
Invece la sinistra dovrebbe piangere se stessa essendo causa del suo mal.
“BERLINGUER È MEGLIO LASCIARLO NELLA TOMBA”. Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 12 giugno 2019. Nicola Zingaretti, che ci ostiniamo malgrado tutto a considerare una brava persona, ricorda sul suo blog Enrico Berlinguer a 35 anni dalla morte. E ne ha facoltà: iniziò la sua carriera politica nella Fgci quando il segretario del Pci era Berlinguer, ai cui funerali partecipò "tra fiori e lacrime portando una delle tante corone". E ora guida il partito che, tra varie peripezie, fusioni e scissioni, discende (anche) dal Pci e prende (anche) una parte dei suoi voti. La figlia Bianca dice di domandarsi spesso cosa direbbe suo padre se fosse vivo (avrebbe 97 anni). E abbiamo come il sospetto che, col Pd, sarebbe tutt' altro che tenero. Difficilmente chi chiamava Craxi "il gangster" e ruppe con i "miglioristi" Napolitano&C. perché volevano l' abbraccio con quel Psi, apprezzerebbe un partito che si ricorda di lui ogni 11 giugno e negli altri 364 giorni dell' anno continua a inseguire il craxismo, cioè il rampantismo, il clientelismo e talvolta il tangentismo. E non solo per colpa di Renzi: l'oscena riabilitazione del gangster risale a D'Alema, Fassino e Veltroni ben prima del figlio di babbo Tiziano. Ora Zingaretti dice di voler rinnovare il Pd partendo da Berlinguer: "recuperare un patrimonio di serietà, di etica pubblica e privata" e "combattere con ogni forza la battaglia del rigore e dell' intransigenza nella prassi della politica", partendo dalla celeberrima "intervista di Berlinguer a Scalfari sulla questione morale'' del 1981, con una "lotta senza quartiere alle bande, ai clan, agli egoismi e agli interessi particolari". Forse ricorda poco e male quell' intervista, tanto citata per il titolo quanto dimenticata per i contenuti. Altrimenti sorvolerebbe. Perché, a rileggerla, suona come un durissimo j' accuse ai partiti d' oggi, Pd incluso. Quando Berlinguer diceva che "i partiti non fanno più politica", ma "sono macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune Non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un boss e dei sotto-boss", si riferiva alla Dc e al Psi; ma oggi potrebbe tranquillamente descrivere il Pd. Idem quando aggiungeva che "i partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo". E ancora: "Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai Tv, alcuni grandi giornali. E il risultato è drammatico. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un'autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un' attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti". Come se Berlinguer, nel 1981, avesse letto gli atti delle ultime inchieste sulla sanità in Umbria e sugli appalti in Calabria, che vedono indagati l' ormai ex governatrice Pd Catiuscia Marini e il governatore Pd Mario Oliverio, col fior fiore della classe dirigente dem. O le carte dell' indagine di Perugia sui conciliaboli notturni fra i deputati Pd Luca Lotti e Cosimo Ferri con membri del Csm e capi-corrente togati sul nuovo procuratore di Roma. Che ha fatto Zingaretti in quei tre casi? In Umbria si è rimesso al buon cuore della Marini, che prima s' è dimessa, poi ha respinto le proprie dimissioni, poi se n' è andata di nascosto quando la frittata era fatta. In Calabria non ha detto una parola, infatti il plurindagato Oliverio e la sua corte sono tutti ai posti di combattimento. Sul Csm, ha convocato Lotti (non Ferri) e ha subito chiuso il caso perché "Lotti mi ha assicurato di non aver fatto nulla di illegale". E se lo dice lui Come se quella fosse una faccenda penale (né Lotti né i magistrati suoi interlocutori sono indagati per essersi parlati, ma per quel solo motivo quattro membri del Csm si sono sospesi su richiesta del Quirinale), e non di opportunità politica e di conflitto d' interessi (l' imputato per Consip che discute del neoprocuratore che sosterrà l' accusa contro di lui). In una parola, una "questione morale", che Berlinguer sapeva distinguere da quella giudiziaria: "La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell' amministrazione, bisogna scovarli, denunciarli e metterli in galera. La questione morale, nell' Italia d' oggi, fa tutt' uno con l' occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, con la guerra per bande". Il Pd non ha un codice etico e un collegio di probiviri per farlo rispettare? Sì, li ha. Che aspetta a deferirvi Lotti e Ferri perché siano espulsi? E che c' entra col sedicente partito di Berlinguer il neosindaco Pd di Capaccio-Paestum, braccio destro del governatore Pd Vincenzo De Luca e re delle fritture di pesce clientelari, indagato per voto di scambio con la camorra e festeggiato domenica notte da un corteo di ambulanze a sirene spiegate di proprietà di un imprenditore appena condannato in Cassazione per estorsione mafiosa? E come spiegherebbe Zingaretti al compagno Enrico l' alleanza in Sicilia con Miccichè, braccio destro di Dell' Utri pregiudicato per mafia? In attesa di tempi (e Pd) migliori, Berlinguer è meglio lasciarlo nella tomba. E sperare che non ci si rivolti troppo.
Tortorella: «Berlinguer al governo? Così i sovietici tramarono per fermarlo». Pubblicato martedì, 09 luglio 2019 da Walter Veltroni Corriere.it.
Aldo Tortorella, tu sei stato nella segreteria del Pci con Berlinguer. Vorrei, in questo colloquio, che partissimo da lontano. Il fascismo che hai conosciuto da ragazzo è stato veramente l’autobiografia di una nazione?
«Il fascismo aveva un grande consenso, persino quando è scoppiata la guerra. Ero al liceo, vennero gli studenti universitari fascisti per farci uscire a fare la sfilata. Vedevo la gente che guardava questo corteo di giovani, molti dei quali erano destinati alla morte perché già in età di essere richiamati. Io ero un ragazzo, ma altri erano già degli uomini. Ricordo soltanto una persona che reagì sdegnata a quel corteo pro guerra, gli altri guardavano con simpatia. Le cose sono cambiate con l’inizio dei bombardamenti, con le sconfitte dell’esercito e con la follia della spedizione in Russia. C’era sempre una ritirata ed era sempre strategica. Allora gli italiani cominciarono a ritirare il consenso al regime. E cominciò a crescere la simpatia verso il movimento clandestino nelle città e anche in montagna. Ma il fascismo ebbe consenso popolare, non dimentichiamolo mai».
Nella Resistenza come entri?
«Nella Resistenza, a Milano, sono entrato perché facevo parte, con Raffaellino De Grada e Quinto Bonazzola, del Fronte della Gioventù, quello guidato da Eugenio Curiel e Gillo Pontecorvo. Io dovevo reclutare quelli della Cattolica, ero diventato il responsabile degli studenti universitari del Fronte. Quelli dell’Università Cattolica però erano inesperti. Noi eravamo già stati addestrati dai vecchi, per noi Gillo lo era. Lui mi aveva già insegnato tutto, le prudenze, il non incontrarsi mai in più di due. Quelli della Cattolica invece avevano dato appuntamento a quattordici persone, forse pensavano di fare una riunione. Ma c’era uno di loro che era stato preso dalla polizia e aveva cantato. Così quel giorno fecero una retata e ci arrestarono tutti».
È stato giusto piazzale Loreto o Mussolini si doveva processare come hanno fatto a Norimberga?
«La decisione fu presa non da Luigi Longo, ma dal Comitato di Liberazione Nazionale. Però mi pare di aver sentito da Longo che il sentimento prevalente in quel momento era che, se consegnavano Mussolini agli alleati, lui se la sarebbe cavata. Forse perché c’era stato il rapporto con Churchill o con altri. Si temeva pesassero insomma tutte le compromissioni delle democrazie col fascismo. La cosa terribile è che c’è stato l’incanaglimento della gente, l’esplosione dell’odio. Ma parliamo di giorni terribili, al culmine di una guerra civile in cui i fascisti avevano compiuto orrori indicibili. A piazzale Loreto erano stati esposti i corpi dei ragazzi antifascisti trucidati. Io li avevo visti, con le mosche che giravano attorno ai loro corpi e con i fascisti in armi che vigilavano perché nessuno li potesse portare a seppellire, neanche i parenti. E c’era gente che piangeva, uno spettacolo terribile. Io ero a Milano in quel momento. L’odio è una bestia orrenda».
L’oro di Dongo che fine ha fatto?
«Non lo so. C’era un settore del Partito che si occupava delle cose un po’ più riservate. Figurarsi in quegli anni. E poi io allora contavo poco. Ma, per essere chiari, anche quando ero nel gruppo dirigente certe decisioni avvenivano nel rapporto tra il segretario e poche persone. Sai il rapporto che mi legava a Berlinguer. Ma lui, quando decise di tagliare il cordone finanziario con i sovietici, la disposizione di togliere i soldi l’ha decisa insieme a Chiaromonte, allora coordinatore della segreteria, e l’ordine è stato dato a Cervetti, responsabile dell’organizzazione. Fu una scelta importante e coraggiosa, Berlinguer era appena diventato segretario. E l’anno in cui avvenne coincide, non a caso, con il lancio della strategia del compromesso storico. Berlinguer tagliava quei legami per garantire l’autonomia necessaria al partito per essere coerente forza nazionale e di governo».
Gente come te che aveva rischiato la vita per la libertà, come ha vissuto lo stalinismo?
«In un primo momento siamo stati tutti stalinisti. In fondo a Yalta fu con Stalin che i governi occidentali divisero l’Europa. Noi eravamo stalinisti perché Stalin era Stalingrado, era la bandiera rossa sul Reichstag. Erano i morti per salvarci dal nazismo. Ma il primo choc, nessuno lo ricorda, fu nel 1953. Fu lo sciopero degli operai a Berlino contro il potere, non c’era ancora il muro allora. I mitici operai di Berlino che avevano voluto l’insurrezione contro il parere della Luxemburg, in seguito alla quale poi la Luxemburg fu uccisa. Quegli operai scioperavano, contro il potere comunista. Uno choc. Che però non bastò a farci capire».
Il ’56 è stata la grande occasione perduta della Sinistra italiana?
«Io penso di sì. Io avevo deciso di andarmene. Tieni conto che nel ’56 io mi sono laureato con una tesi sulla idea di libertà in Spinoza. Dopo la laurea succede questo casino in Ungheria. Ce l’ho di là. Ho provato a rileggerla, ma ormai è troppo difficile per un vegliardo. Forse era di qualche valore, tanto che Banfi voleva pubblicarla: Spinoza non solo come eroico assertore della libertà politica ma come teorico della libertà più alta, quella interiore. La tesi che sostenevo era che la libertà politica non è tutto, esiste una dimensione maggiore: la libertà interiore. Per questa mia convinzione profonda me ne stavo per andare. Mi hanno trattenuto Antonio Banfi e Pietro Ingrao. C’era la Guerra fredda... Erano tempi duri. Fui portato a far prevalere la priorità della scelta di stare nel partito rispetto alle mie convinzioni».
Nella storia dell’Ungheria non c’è in fondo anche il segno della doppiezza di Togliatti? Perché Togliatti era l’uomo della fondazione della sinistra nella democrazia italiana, però era anche l’uomo che poi a Mosca non ha mai saputo dire di no.
«Togliatti a me pareva geniale, ma non simpatico. Io ero per Longo, avevo un rapporto quasi filiale con lui. Longo e Togliatti si parlavano quasi con il lei. Non usavano il lei naturalmente, ma erano due persone distanti. Tra i due c’era legame politico, ma non amicizia. La doppiezza di Togliatti? L’espressione secondo me non è giusta. Lui non era doppio, era convintissimo che, con la Rivoluzione d’ottobre, la storia si fosse messa in moto, che fosse cominciato il socialismo nel mondo. Una convinzione che sarà superata solo con Berlinguer».
Nel ’68, quando ci fu l’invasione della Cecoslovacchia, il Pci si espresse con la formula «il grave dissenso». Che però era poco.
«Era quello che sembrava moltissimo, a compagni come Longo. Che per la prima volta aveva coscienza del fallimento di quel modello. Ma devo finire su Togliatti. Togliatti era convintissimo che fosse incominciato il socialismo. Su questo non c’era doppiezza, lo diceva. C’è un dialogo tra Bobbio e Togliatti, è del 1954. Al liberalsocialismo del filosofo, Togliatti risponde con supposto realismo: “Non ci possiamo inventare noi cosa deve essere il socialismo, adesso c’è già un socialismo che marcia”. Ma quello non era il socialismo che marciava, era il socialismo che si stava suicidando».
Che guerra hanno fatto i sovietici a Berlinguer?
«Guerra totale, non solo sotterranea. Noi eravamo il nemico degli americani, ma anche dei sovietici. Perché la tesi di Kissinger su Berlinguer era la loro: “Questo è il più pericoloso di tutti, perché è democratico, rompe l’unità morale dell’Occidente”. Perché si scopre che ci può essere un comunista democratico. Il problema era che quella linea aveva bisogno di un impianto teorico robusto. Perché se la spinta propulsiva non funziona, non funziona più un mondo e non funzionano più le tue vecchie idee. Devi sostituirle. Io mi posso dire tranquillamente comunista perché per me il comunismo è un punto di vista sulla realtà, non è un sistema e non è neanche una dottrina, è un punto di vista sulla realtà. È dire: “Questa divisione tra ricchi e poveri, borghesi e proletari non funziona, dobbiamo pensare ad un mondo altro”. Ogni forza democratica che voglia correggere il sistema cambiandolo gradatamente è sgradita. Anneghiamo nelle merci e miliardi di persone stanno alla fame. Questo per me è il comunismo, non l’orrore dei partiti unici e delle libertà negate».
Tu ricordi episodi di guerra dichiarata dei sovietici al Pci?
«Loro gli hanno addirittura censurato il discorso a Mosca. Quando ha detto “la democrazia valore universale”, gli hanno tolto la frase, più di così... E poi il terrorismo. Nessuno mi toglie dalla mente che i sovietici abbiano lavorato per far saltare il compromesso storico, per impedire a Berlinguer di inverare la prospettiva della partecipazione al governo. Se lui fosse riuscito sarebbe stato un colpo alla linea dei sovietici. Guarda quello che ha detto il consulente Usa Pieczenik, mandato dagli americani per collaborare con Cossiga. Lui è stato protagonista di una manovra volta a far sì che le Br uccidessero Moro. Ha detto persino: “Ho temuto fino alla fine che lo liberassero”. Moro e Berlinguer avevano sconvolto i canoni della Guerra fredda. E tutti e due erano nel mirino. Ricordo la reazione violentissima dei sovietici al momento dell’eurocomunismo. Con Togliatti si parlava di via nazionale che voleva dire che la via era quella che volevano i sovietici, ma aveva delle varianti. Berlinguer, parlando di democrazia come valore universale, rompe questo schema e lavora per costruire una rete internazionale alternativa. Per i sovietici era troppo. Come troppo, per gli americani, era stata la “terza fase” di Moro. Via Fani si spiega così. E così si spiega l’attentato a Berlinguer in Bulgaria. E forse così si spiega anche l’addestramento delle Br in Cecoslovacchia...».
Se Moro non fosse stato rapito, il Pci avrebbe votato la fiducia al governo Andreotti? Era un monocolore senza alcuna novità...
«La notte prima Moro aveva fatto arrivare, attraverso Luciano Barca, un messaggio a Berlinguer. Gli diceva di fidarsi di lui, che la composizione del governo era il prezzo da pagare per evitare una rottura nella Dc, che lui si faceva garante del programma. Il Pci avrebbe pagato un prezzo alto in ogni caso. Se avesse accettato, se avesse rotto. Quella legislatura sarebbe finita lì. Moro pensava a coinvolgere il Pci nel governo per poi fare l’alternanza. Berlinguer confidava nel prevalere del cattolicesimo democratico di Moro e Zaccagnini per una collaborazione non breve. Tutti e due erano consapevoli di aver portato l’esperimento di autonomia italiana al punto di massima tensione. Non per caso la proposta di compromesso storico nasce dal golpe in Cile».
Andreotti era un segno di assoluta continuità col passato...
«Dopo le elezioni del ’76 Berlinguer dice a Moro di non indicare Andreotti. Lui gli risponde: “Andreotti è necessario per ammorbidire le resistenze degli americani”. Io non so se avesse ragione, perché il vero interlocutore degli americani era Cossiga, Andreotti anzi aveva delle sue autonomie come dimostrava la sua politica in Medio Oriente. L’argomento che usa Moro per dire che ci voleva Andreotti è che lui non poteva sfasciare tutto, che l’intesa si poteva fare se lui convinceva tutta la Democrazia cristiana. Era un incastro, per il quale fu pagato un prezzo assai alto...».
Il Pci sapeva di Gladio?
«Lo abbiamo saputo quando lo hanno saputo tutti».
Cioè dopo le dichiarazioni di Andreotti?
«Dopo che è stato scoperto da quelli lì, sì...».
Il Pci finisce con la morte di Berlinguer?
«Secondo me per troppo tempo è rimasta in vita una linea politica che era quella dell’ispirazione originaria dell’unità nazionale. Nella parte finale della sua vita Berlinguer sceglie la via dell’alternativa democratica e poi si mette in sintonia con culture e problemi nuovi. L’ecologia, prima di tutto. E poi il femminismo della differenza. La questione morale che per lui non era affatto la caccia al ladro ma la rifondazione dei partiti. Aveva capito che stavano diventando pure macchine di potere, clientele capaci solo di fare gli affari. Non è questo il compito di un partito... Terza cosa fondamentale il pacifismo. Lui, che era stato anti-movimentista, avverte quanto questo tema sia sentito, specie dai ragazzi. In quegli anni Berlinguer cerca di delineare una nuova identità del Pci. Dopo di lui quella ispirazione si è dispersa. Forse sì, il Pci finisce con Berlinguer».
Una domanda alla quale io non ho mai saputo rispondere. Se Berlinguer fosse vissuto e fosse arrivato all’89, cosa avrebbe fatto?
«Anche per me è difficile. Non mi pare giusto interpretare. La sua idea era di cambiare e probabilmente avrebbe cambiato prima, non dopo».
Quelle valigie piene di rubli per Pci. Poi arrivò Berlinguer…I soldi entravano in Italia con i ” bagagli diplomatici” direttamente nell’ambasciata. L’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga si divertiva a rinfacciare la cosa all’incolpevole Occhetto. Francesco Damato il 12 luglio 2019 su Il Dubbio. Quelle valigie piene di rubli. A dispetto del cambiamento datosi come parola d’ordine nell’omonimo governo realizzato l’anno scorso con i grillini, e destinato a durare ben oltre le previsioni maturate in Silvio Berlusconi quando autorizzò il leader leghista a prendersi una libera uscita dal centrodestra per evitare che alle elezioni politiche del 4 marzo ne seguissero altre tra luglio e agosto, con tutti i nostri elettori – disse il Cavaliere – inchiodati alle vacanze, Matteo Salvini continua a far rivivere ai vecchi cronisti parlamentari scene del passato. Alla rovescia, potrebbe rispondere il “capitano” del Carroccio, cioè a parti rovesciate, e quindi senza tradire il motto o l’aspirazione al cambiamento, ma sono pur sempre situazioni e spettacoli del passato quelli ch’egli, volente o nolente, ci ripropone.
Bacioni e bacini. Ho appena paragonato su queste pagine, qualche giorno fa, i bacioni con cui il vice presidente vicario del Consiglio e ministro dell’Interno cerca di liquidare critici ed avversari dai banchi del governo ai bacini che nel 1987 Cicciolina, appena eletta nelle liste radicali, cominciò a indirizzare nell’aula di Montecitorio ai “cicciolini”, come li chiamava, che non ne gradivano la presenza o non ne condividevano pose e interventi: compreso Giulio Andreotti. Del quale mi sono dimenticato di riferirvi il rimprovero, da lui stesso raccontatomi con l’umorismo che lo distingueva, ricevuto una sera a casa dalla moglie per essersi lasciato chiamare in quel modo dalla pornodiva senza perdere, una volta tanto, il suo storico controllo dei nervi, limitandosi a berci sopra qualche bicchiere d’acqua. Ebbene, quel diavolo di Salvini è appena riuscito a far tornare a gridare nell’aula di Montecitorio contro i rubli, quelli russi naturalmente, con vivaci richieste di chiarimento, nonostante le smentite da lui già opposte, le querele già presentate e le nuove che ha minacciato a chi ha preso sul serio le “rivelazioni” del sito americano Buzz-Feed. com, secondo cui durante un suo soggiorno a Mosca nell’autunno scorso il quasi omonimo, amico e collega di partito Gian Luca Savoini avrebbe negoziato, concordato, tentato e non so cos’altro con quattro russi in un grande albergo finanziamenti alla Lega, in vista della costosa campagna elettorale europea dell’anno dopo. E tutto ciò all’ombra di grandi affari petroliferi. Di questa vicenda si occupò già in Italia, fra altre smentite e querele, il settimanale L’Espresso. La visita di Salvini a Washington. Che naturalmente se n’è vantato, con i ritorni americani, ed ha ripreso a intingere il pane nell’inchiostro quando, vere o false che siano, le notizie sono rimbalzate da oltre Atlantico. Dove peraltro Salvini ha il torto di essere appena andato in visita ufficiale, di avere avuto incontri di alto livello, anche se non altissimo come quello del presidente Donald Trump. Che tuttavia non nasconde certamente né direttamente né indirettamente, attraverso i suoi collaboratori, l’interesse e la simpatia per il leader leghista, che in quell’albergo di Mosca è stato addirittura definito “il Trump italiano”. Cui manca soltanto il passaggio politico, e forse anche elettorale, per diventare il capo del governo prendendo il posto di Conte, pure lui tuttavia apprezzato dal presidente americano, che gli parla chiamandolo “Giuseppi”, perché gli americani hanno problemi con la e finale dei nomi. Ho trovato curioso, divertente e non so dirvi cos’altro ancora vedere nell’aula di Montecitorio insorgere con grida e cartelli contro i presunti rubli a Salvini e alla Lega quegli stessi settori, a sinistra, contro cui negli anni Cinquanta e Sessanta, ma anche oltre, insorgevano i deputati della destra e del centro contro i rubli non presunti ma veri, anzi verissimi, che arrivavano dall’allora Unione Sovietica al Pci per finanziarne in modo decisivo la grande e costosa organizzazione.
I rubli del Pci. Non potevano onestamente bastare allo scopo né le quote di iscrizione, né i contributi pur consistenti dei parlamentari, né i soldi pubblici forniti dalla legge cui si ricorse dopo lo scandalo dei finanziamenti privati dei petrolieri, che coinvolse pure quel partito dell’odore inconfondibile di bucato come Indro Montanelli chiamava il Pri del suo amico Ugo La Malfa. Né potevano bastare a sostenere i costi di quella potente macchina organizzativa ed elettorale del Pci i consumi di salamelle ed altro nelle pur affollate, a volte affollatissime, feste dell’Unità, dove si mescolavano passioni per i compagni e odi per gli avversari, persino nei menù dove si proponeva il piatto imperdibile della “trippa alla Bettino” Craxi. Dei rubli arrivati lungamente, sistematicamente e abbondantemente al Pci da Mosca tramite gli affari delle Cooperative o con le valigie diplomatiche direttamente nell’ambasciata sovietica a Roma, a poca distanza dalla Stazione Termini, si divertiva spesso a parlare, anche quando il traffico era o sembrava cessato, l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Che li rinfacciava, in particolare, all’ultimo e forse davvero incolpevole segretario del Pci: Achille Occhetto, da lui liquidato come “zombi”. Nel parlarne, quell’impenitente di Cossiga si divertiva a ricordare, o precisare, che da Mosca arrivavano all’ambasciata romana solo e rigorosamente rubli, alla cui conversione in dollari, non in lire, provvedevano esperti noti alle tolleranti, anzi tollerantissime autorità di vigilanza. Ed erano anni, quelli, di guerra fredda davvero, col muro ben piantato e sorvegliato a Berlino, con i missili puntati nelle basi del Patto di Varsavia contro le capitali europee, Roma compresa: missili diventati ad un certo punto così tanti e così pericolosi da costringere la Nato ad un riarmo al cui passo l’Unione Sovietica non resse sul piano economico e finanziario. Come se avesse sentito arrivare, anzi tornare attraverso gli Stati Uniti, le polemiche sui rubli ancora una volta incombenti a torto o a ragione sulla politica italiana, il giornalista e romanziere Walter Veltroni, forse ancora più fortunato in questa veste che come segretario di partito, ministro, vice presidente del Consiglio e sindaco di Roma, dove pure ha fatto molto e spesso anche bene, ha appena riproposto ai lettori del Corriere della Sera, intervistando questa volta sui misteri e sulla fine della prima Repubblica il vecchio amico Aldo Tortorella, con i suoi 93 anni appena compiuti, la storia dei finanziamenti russi al Pci. E dei danni, forse superiori anche ai vantaggi, che ne derivarono al partito allora più forte della sinistra italiana, compromettendone l’autonomia o ritardandone l’evoluzione, come la chiamavano quelli che la volevano pure nella Dc per liberarsi di un alleato scomodo come Craxi.
La svolta di Berlinguer. Tortorella non ha fatto numeri ma ha parlato di date, o periodi, raccontando in particolare che a chiudere la pratica dei finanziamenti sovietici al Pci fu Enrico Berlinguer poco dopo la sua elezione a segretario, avvenuta nel marzo del 1972, e l’attentato che subì l’anno successivo, rimasto a lungo segreto e controverso, durante una visita in Bulgaria. Dove i padroni di casa gli procurarono un incidente stradale sperando di liberarsene per l’abitudine che aveva preso di parlare dei limiti, chiamiamoli così, della democrazia nei regimi comunisti. Ciò accadeva quindi ben prima del 1980, quando il leader comunista commentando in televisione il colpo di Stato militare compiuto in Polonia autonomamente dal generale Jaruzesky per prevenire il solito intervento delle truppe sovietiche, trovò il coraggio di dichiarare l’esaurimento della “spinta propulsiva” della rivoluzione comunista di ottobre del 1917 in Russia. Allora egli finì di compromettere quel poco ch’era ancora rimasto dei vecchi rapporti di scuola e di politica con Mosca. Berlinguer decise di fare a meno dei rubli in modo sostanzialmente solitario, consultandosi – ha raccontato Tortorella- solo con Gerardo Chiaromonte, e poi passando le direttive necessarie al capo dell’’ organizzazione del partito Gianni Cervetti, che si occupava anche dei delicati rapporti finanziari con Mosca. Seguirono non a caso, nel 1973, i tre saggi consecutivi affidati da Berliguer alla rivista del partito Rinascita sulla lezione da trarre dal colpo di Stato militare in cui era sfociata, per reazione interna e internazionale, la svolta dell’alternativa di sinistra realizzata da Salvatore Alliende, che ne sarebbe morto. Non l’alternativa di sinistra ma il “compromesso storico” con le forze moderate avrebbe dovuto diventare la linea del Pci, che infatti la perseguì con Berlinguer, rivestendola anche dei panni del cosiddetto “eurocomunismo”, sino a realizzare nel 1976 e a rafforzare nel 1978, con l’ultima crisi gestita nella Dc da Aldo Moro, prima del sequestro e dell’assassinio per mano delle brigate rosse, quella che è passata alla storia come “maggioranza di solidarietà nazionale”. Berlinguer potette farlo – ha raccontato Tortorella- pur non proprio a tutte le condizioni da lui volute, viste le resistenze opposte da Moro a una partecipazione diretta del Pci al governo, che fu invece composto solo di democristiani, e guidato da Giulio Andreotti per garantire o rasserenare i sospettosissimi americani, ma anche la Chiesa; Berlinguer, dicevo, potette farlo solo per essersi nel frattempo garantita sul piano finanziario “l’autonomia necessaria al partito per essere coerente forza nazionale e di governo”.
I legami indissolubili con Mosca. Eppure, anche se Tortorella non lo ha ricordato né Veltroni ha voluto aiutarlo incalzandolo con qualche domanda, il Pci continuò a tenere i suoi legami con Mosca contrastando, per esempio, il riarmo missilistico della Nato, nonostante Berlinguer avesse detto in una famosa intervista a Giampaolo Pansa per il Corriere della Sera, censurata in questo passaggio dall’Unità, di sentirsi anche come comunista garantito sotto l’ombrello atlantico. Dovettero arrivare i già ricordati fatti polacchi del 1980 perché veramente la storia dei rapporti con l’Urss cambiasse e i rubli fossero probabilmente destinati solo a una parte del Pci, quella organizzata alla luce del sole da Armando Cossutta dopo lo “strappo” da questi rimproverato a Berlinguer. E Cossutta fece tutto intero il suo dovere di militante filosovietico rimanendo nel Pci sino a quando Occhetto, anche a costo di piangerne, non decise di cambiargli nome e simbolo per non lasciarlo sepolto sotto le macerie del muro di Berlino. Ora, francamente, non so come andrà a finire lo scontro, politico e forse anche giudiziario, di Salvini con quanti lo immaginano imbottito di rubli, o con qualche amico che avrà pensato di fargli un piacere cercando di procurarglieli intrufolandosi in alberghi, ristoranti e quant’altri, ma di certo mi ha fatto una certa impressione – vi ripeto- vedere protestare contro i rubli veri o presunti della Lega parlamentari negli stessi banchi parlamentari dove sedevano i deputati appartenenti al partito che i rubli li prendeva davvero. E ne fu a lungo anche orgoglioso. Mancano alla chiama o ai richiami, almeno per ora, i dollari che i comunisti ai loro tempi accusavano la Dc e gli alleati di prendere dagli Stati Uniti. E chissà se, coi tempi e con gli umori che corrono, Salvini non finirà per sentirsi accusare di prendere anche quelli, i dollari, e non solo i rubli.
"L'Urss pagava tutti non soltanto il Pci. Greganti? Un gigante". L'ex pm di Mani Pulite: «Il Pd non ha mai voluto fare i conti con le tangenti rosse». Felice Manti, Sabato 13/07/2019, su Il Giornale. Milano «Abbiamo voluto cancellare la memoria di questo Paese. E questo ha consegnato il governo a gente senza storia». Tiziana Parenti risponde dal suo studio legale di Genova. La sua toga da magistrato l'ha appesa al chiodo tanti anni fa, oggi fa l'avvocato dopo l'esperienza in Parlamento con Forza Italia. Per la storia è Titti la Rossa, allontanata dal pool perché aveva osato indagare sul fiume di rubli che dall'Est finiva nelle casse del Pci. «Mani Pulite per te finisce qui», le avrebbe detto Gerardo D'Ambrosio, per cui le tangenti rosse erano «un vagone staccato» di Mani Pulite. E così le indagini di Titti, iscritta per tre anni nel Pci, finirono in un binario morto nonostante le prove che sul conto «Gabbietta» Primo Greganti, il famigerato «compagno G», incassava soldi dai Paesi dell'area sovietica e da imprenditori italiani per conto di Botteghe Oscure. «La Russia ha sempre pagato qualcuno. Grosse tangenti, soldi. E non solo al Pci. Già negli anni Sessanta numerose cooperative facevano scambi culturali o import-export di facciata con l'Urss, tutti modi per giustificare in maniera lecita un finanziamento di un certo livello. Ma Greganti era un gigante rispetto alle comparse come questo... Savoini? Savoini chi?».
Che cosa ne pensa?
«Bisogna leggere le carte, ovviamente. Ma se mi chiede se Savoini sarà il Greganti della situazione le dico di no. Certe cose non si fanno da estranei, non è che uno passa per caso e parla di tangenti, con la Russia di Putin che è cresciuto in quel sistema sovietico di soldi e favori poi... Figurarsi. Certo, nascondersi dietro un ma chi l'ha invitato è una cosa triste».
Ironia della sorte, c'è il Pd che chiede chiarezza. E già si parla di una commissione d'inchiesta...
«Guardi, altra cosa triste. Questo Pd non ha niente a che fare con il Pci di prima, anche se Zingaretti è certamente un uomo d'apparato. Ma se il Paese in balia degli ignoranti è perché il Pd ha un'eredità sula quale non ha mai riflettuto seriamente. Abbiamo perso la memoria delle tangenti di una volta. Il finanziamento illecito ai partiti da parte di una potenza straniera, allora come oggi, è un fatto destabilizzante. Invece di riflettere sul passato si ridicolizzano vicende che invece sono molto serie. Galleggiamo su un enorme punto interrogativo. E questa è la condanna del Paese. O facciamo i conti seriamente con quel passato o finiamo nel nulla».
Quando Mani Pulite si fermò davanti ai rubli al Pci qualcuno disse che la magistratura era politicizzata. Oggi, a leggere certe intercettazioni, si capisce che alcuni parlamentari Pd decidevano a tavolino i capi delle Procure. Non è cambiato niente?
«La politica fa pressioni perché sa che le può fare».
Ma è un'invasione di campo?
«Ma la magistratura è un soggetto politico. Quando 60 milioni di italiani ti chiedono di garantire i loro diritti sei un soggetto politico. I contatti tra politici e i vertici della magistratura esistono da sempre. Quando ci sono entrata io, nel 1980, c'erano già da anni. La cosa non ci deve meravigliare. Il vicepresidente del Csm è eletto dal Parlamento, no? I magistrati sono dappertutto: al Quirinale, nei gabinetti dei ministri, in Parlamento, nelle istituzioni. Meravigliarsi ora è da ipocriti».
Oggi però la commistione è sotto gli occhi di tutti.
«Era inevitabile che scoppiasse una guerra interna, ora che non c'è più un nemico da combattere, ora che - come nei partiti - le correnti dentro Md, Unicost, dentro Magistratura indipendente si stanno regolando i conti».
È l'indipendenza della magistratura, no?
«Ma quale indipendenza, magari ci fosse. Io l'ho subita sulla mia pelle, io me ne sono dovuta andare. La magistratura deve difendersi da sé stessa. Va gestita con delle regole per evitare questo straripamento, che peraltro è figlio delle regole che ha fatto il Parlamento».
Cosa si rimprovera?
«Io ho fatto tutto in buona fede. La mia battaglia per l'indipendenza non è stata inutile. Il mio collega Marco Boato diceva che ognuno deve fare le sue battaglie. Meglio farle che non farle. Forse qualcosa resta. Anche solo un po' di memoria».
Vittorio Feltri: "Vi dico chi era davvero Berlinguer". Il bluff della sinistra: così smonta il mito comunista. Libero Quotidiano l'11 Luglio 2019. Walter Veltroni è diventato un editorialista del Corriere della Sera. Normale che scriva articoli sul Pci facendolo passare per un partito morbido e tollerante quanto la Dc. Egli infatti disse di essere più kennediano che comunista, pur rimanendo fedelmente inchiodato a Botteghe Oscure. Le contraddizioni in politica sono all' ordine del giorno. Ma rileggere le vicende dei marxisti italiani è un esercizio stupefacente che insegna molte cose. E Veltroni è capace di presentare Enrico Berlinguer sul quotidiano di via Solferino come un super democratico. La mia opinione è diversa. Penso che il famoso segretario rosso non fosse affatto rosso. Neppure lui sapeva di quale colore fosse, forse era bianco, cioè innamorato della Dc a capo della quale avrebbe voluto ergersi. Egli era un tipo tranquillizzante, come Rumor e come Piccoli, uomini miti e furbi, praticamente volpi in grado di muoversi con disinvoltura nel ginepraio capitolino. È un fatto che Berlinguer, pur dichiarandosi bolscevico, tale non era per mancanza di fede e di adesione alla folle ideologia sovietica. Tanto è vero che a un certo punto, egli si inventò il compromesso storico, ossia una possibile alleanza tra Pci e Democrazia cristiana ovvero un matrimonio spurio, non compatibile, tra pauperisti di centro e di sinistra, allo scopo di spartirsi il potere. Il nobile Enrico si illuse di realizzare simile progetto non calcolando che la Dc era un partito-mamma, strutturalmente identico al fascismo nel senso che inglobava chiunque, purché non rompesse i coglioni. Il cosiddetto compromesso storico rimase una sterile teoria, suggestiva e tuttavia irrealizzabile. Cosicché il politico sardo, di fronte alle difficoltà tecniche di realizzare il proprio piano, ripiegò su un' altra formula altrettanto astrusa: l'eurocomunismo che nessuno capì mai in che cosa consistesse. L'unico Paese in Europa che avesse una parentela stretta con Mosca e dintorni era l' Italia che non aveva certo la forza di persuadere il continente a sposare i sogni berlingueriani. Ogniqualvolta un giornalista, per esempio Scalfari, chiedeva al segretario come intendesse l'eurocomunismo e con quali tecniche trasformarlo in realtà, non riceveva che risposte fumose, prive di connotati credibili. Enrico era un sognatore bravo nel marketing ma fuori dal mondo. Probabilmente neppure lui sapeva che desiderare per la falce e martello. Gli piaceva comandare e arringare le folle ciononostante ignorava dove portarle. Se aggiungiamo che il nostro a un dato momento tirò fuori dal cilindro la questione morale, il quadro confuso si completò. In effetti tutte le formazioni della prima Repubblica rubavano a mani basse, incluso il Pci, attraverso il sistema degli illeciti finanziamenti, eppure Enrico accusò chiunque tranne se stesso e il suo gruppo. Semplicemente ridicolo. Costui in sostanza, pur in buona fede, fu un grande bluff e proprio per questo è ricordato quasi fosse un fenomeno di onestà. Mentre all' epoca sua, Botteghe Oscure riceveva montagne di rubli dall'Urss per stare a galla. Ora che Veltroni lo santifichi non ci stupisce, la nostalgia fa brutti scherzi, però il comunismo rimane una porcheria che Walter dovrebbe risparmiarsi di santificare. Vittorio Feltri
Antonio Socci contro Nicola Zingaretti: "La sinistra non fa autocritica, pensa di aver vinto le Europee". Libero Quotidiano il 10 Giugno 2019. Antonio Socci non ci sta e replica su Libero a coloro che definiscono "l'Italia che ha votato e che ha ridotto il centrosinistra al minimo storico (elezioni europee e ballottaggi) un'Italia di trogloditi, di analfabeti funzionali, di ignoranti o addirittura di fascisti e razzisti". E dove può risiedere il salotto refrattario se non nella storica rossa Bologna? "In questi giorni va in scena quella che si considera l'Italia migliore, ossia La Repubblica delle idee. Dove ci sono i Buoni e gli Intelligenti". Tra questi logicamente il segretario del Pd, Nicola Zingaretti. "Lì, per stare in tema, è andato sul classico e ha definito la Lega un pericolo per la democrazia". "Considerare un pericolo per la democrazia gli avversari - prosegue il giornalista - è tipico della tradizione comunista, la quale è sempre stata, in tutto il mondo, la culla della democrazia e della libertà dei popoli". "Non a caso - prosegue Socci - proprio Zingaretti ha appena pubblicato un libro, Piazza grande, nel quale afferma tranquillamente che se non ci fosse stata l'Unione Sovietica, non sarebbero state possibili le lotte dei partiti di sinistra e democratici né il compromesso sociale che oggi in Europa è un esempio per tutto il mondo civilizzato". Non solo, il leader del Pd è convinto addirittura "che le elezioni europee siano andate bene per il suo partito perché è passato dal 18 per cento del 2018 al 22 per cento del 26 maggio". Del resto anche nel 2018 mancò qualsiasi riflessione autocritica, ricorda Socci: "Naturalmente è sempre colpa degli elettori. Ma nel Pd snobbano anche i propri sostenitori, altrimenti scoprirebbero qualche causa della loro catastrofe. Il professor Roberto D'Alimonte riferiva, per esempio, che nella primavera del 2015 quasi l' 80% dei sostenitori del Pd era a favore della riduzione del numero di immigrati. Sappiamo che le scelte dei governi Pd sono andate in direzione opposta. C'è allora da stupirsi se nel 2018 e nel 2019 questo partito è crollato nelle urne e se - al contrario - la Lega di Matteo Salvini è schizzata al 34%?
Emma Bonino, vent'anni senza vincere niente ma con il record di poltrone. Alberto Busacca su Libero Quotidiano il 10 Giugno 2019. «Però la Bonino è brava». Lo si sente dire ogni volta che si avvicinano le elezioni o quando c' è da assegnare una poltrona. A partire da quella di presidente della Repubblica. «Però la Bonino è brava». Come dire: certe sue idee possono anche non piacere, ma come si fa a parlare male di lei? Una delle poche, secondo i suoi ammiratori, che fa politica perché ci crede e non per interesse. E sarà pure brava, la signora Emma, solo che poi tutta questa bravura non si traduce in voti quando arriva il momento cruciale di contare le schede. Lo abbiamo visto alle Europee. Il suo nuovo e ambizioso partito, +Europa, nonostante l' alleanza con Italia in Comune, non è riuscito a superare lo sbarramento del 4%. Si è fermato al 3,09 e buonanotte ai suonatori.
Niente seggio per nessuno. Lei, in ogni caso, non sembra avere intenzione di arrendersi. «Sono dispiaciuta, non delusa», ha detto nella tradizionale conferenza stampa per commentare i risultati. «È deluso», ha spiegato, «chi si fa delle illusioni, ma avevo fiducia e speranza, perché so che abbiamo dato tutto quello che potevamo per cercare di fare entrare i temi europei in campagna elettorale». E ancora: «Questo risultato complessivo è comunque un consolidamento importante di un gruppo politico nato poco più di un anno fa. Ci siamo già dati due appuntamenti: una direzione allargata e poi un' assemblea il 22/23 giugno». Altri tempi - Insomma, prova a guardare avanti. Oltre un risultato comunque al di sotto delle aspettative. Il problema, però, è che la storia va avanti così da molto tempo. Dall' ultima vittoria elettorale della Bonino sono infatti passati ormai quattro lustri.
Anno 1999, nell'Inter gioca un certo Ronaldo, a Palazzo Chigi c' è un certo D' Alema e il 13 giugno si svolgono le elezioni per il Parlamento di Strasburgo. La lista della Bonino, commissario europeo uscente, sorprende tutti con un clamoroso 8,5%. Di colpo diventa il quarto partito italiano. Forza Italia e Democratici di sinistra sono saldamente ai primi due posti, rispettivamente al 25 e al 17%. Ma la terza classificata, Alleanza nazionale, alleata con Mario Segni, è lì a un soffio, al 10,28%. E il movimento della Bonino prende praticamente il doppio di Lega Nord e Rifondazione comunista, ferme tra il 4 e il 4,5%. Potrebbe essere l' inizio di una lunga storia d' amore tra lei e gli elettori. E invece...E invece le cose non vanno così. Tutt' altro. Solo due anni più tardi, alle Politiche del 2001, i radicali passano dall' 8,5 al 2,24%. Addio a tre voti su quattro, in pratica. Al confronto i tonfi di Renzi e di Di Maio sembrano cose da dilettanti. Poi, ahinoi, Emma non riesce più a risalire. Alle Europee del 2004 la lista Bonino prende il 2,25%. Alle Politiche del 2006, sperando in un' inversione di tendenza, i pannelliani si presentano con "La rosa nel pugno". Risultato: 2,6%. Alla luce di questi insuccessi, alle Politiche del 2008 la leader radicale preferisce farsi eleggere al Senato "mimetizzandosi" nelle liste del Partito democratico guidato da Walter Veltroni.
L' anno dopo, però, alle Europee rispunta la lista Pannella-Bonino. Niente di nuovo sotto l' urna: 2,43%.
Il peggio, comunque, elettoralmente parlando, deve ancora arrivare. Anno 2010. Il centrosinistra la sceglie come candidata governatrice del Lazio. Ma Emma si fa battere da Renata Polverini. Poi, alle Politiche del 2013, la sua lista, che questa volta si chiama "Amnistia, giustizia e libertà", prende la miseria di 65.022 voti, uno sconfortante 0,19%. Si rifà in parte nel 2018, con la nascita di +Europa, quando alle elezioni per la Camera dei deputati raggiunge il 2,56%. Ma insomma, è sempre poca cosa...
Al governo - Leggendo questi numeri qualcuno che non la conosce potrebbe pensare che la carriera della Bonino sia sostanzialmente terminata vent' anni fa. E invece no. Perché lei, in un modo o nell' altro, riesce sempre a cadere in piedi. Anzi, a cadere seduta su una poltrona. Dal 1999, quando ha lasciato il posto di commissario europeo, è stata eurodeputato (1999-2006), deputato (2006-2008), ministro del Commercio internazionale e delle Politiche europee con Prodi (2006-2008), vicepresidente del Senato (2008-2013), ministro degli Affari esteri con Letta (2013-2014) e ancora senatrice (dal 2018 ad oggi). Al Quirinale, almeno per ora, non c' è arrivata. Anche se, come detto, il suo nome è stato fatto con insistenza nel 1999 (elezione di Ciampi) e nel 2013 (rielezione di Napolitano), mentre ancora nel 2017 un sondaggio di Piepoli la dava in testa tra le donne preferite dagli italiani per la presidenza della Repubblica. Perché, visto che poi non la votano? Semplice: perché si può anche sostenere un altro leader o un altro partito, «però la Bonino è brava». Sarà mica la solita storia degli uomini che preferiscono le bionde ma sposano le more? Alberto Busacca
Emma Bonino, i "paperoni" mondiali scelgono lei: non solo George Soros, chi finanzia +Europa. Libero Quotidiano il 12 Giugno 2019. I soldi non muovono i voti ma di soldi +Europa di Emma Bonino ne ha presi tanti. Il partito della pasionaria radicale infatti si è fermato, alle elezioni europee del 26 maggio, al 3,1 per cento senza quindi un seggio al parlamento di Strasburgo. Ma i contributi dei "paperoni" del mondo alla Bonino sono stati ingenti. Nella lista dei benefattori, riporta il Tempo, troviamo infatti George Soros che elargito 99.789 euro, poco meno della soglia limite fissata dalla legge per i finanziamenti ai partiti. L'amicizia tra la Bonino e Soros non è una novità, ma a questo giro di voti, ad aiutare la Bonino è stata anche la moglie di Soros, Tamiko Bolton, che ha versato la stessa identica cifra. Il terzo "big" a contribuire alla causa con 100mila euro tondi a +Europa è Peter Baldwin, filantropo e marito di Lisbet Rausing, erede dell'impero svedese della TetraPack, molto impegnata in donazioni ingenti. Baldwin ha rispettato i limiti per i versamenti che riguardano il partito ma ha elargito ai candidati boniniani, in totale, 1,6 milioni di euro. E poi c'è il Centro Democratico, fondato nel 2012 dall'ex Udc Bruno Tabacci, che ha versato 30mi1a euro a +Europa. Con 10mila euro hanno contribuito anche alcuni candidati come l ex generale Vincenzo Camporini e l' avvocato Andrea Di Celso Mazziotti.
Manuel Fondato per ''Il Tempo'' il 13 giugno 2019. La saggezza popolare sostiene da secoli che i soldi non danno la felicità ma, soprattutto in politica, servono, perché la politica costa. Il caso di +Europa, l' ultimo contenitore elettorale di Emma Bonino, però è paradigmatico di quanto, a volte, anche i soldi non riescano a spostare i voti. Il partitino della pasionaria radicale si è infatti fermato al 3,1% non riuscendo a conquistare nemmeno un seggio al parlamento di Strasburgo. Nonostante cospicui finanziamenti erogati da gente molto influente. Nella lista dei benefattori troviamo infatti il solito George Soros che ha contribuito alla causa con 99.789 euro, giusto un gradino al di sotto della soglia limite fissata dalla legge per i finanziamenti. L'amicizia tra Emma Bonino e George Soros non è dietrologia ma un rapporto circostanziato che affonda le sue radici da quando l' ex ministro per gli Esteri fonde) No Peace Without Justice (NPWJ) associazione per la protezione e la promozione dei diritti umani, della democrazia, dello stato di diritto e della giustizia internazionale. In questa occasione si concretizzò ufficialmente l' alleanza con il magnate americano, essendo il suo Open Society Institute (oltre ad altre ONG da lui finanziate) tra i sostenitori di NPWJ.
Stessa cifra è stata versata dalla moglie di Soros, Tamiko Bolton, a conferma di quanto scritto sopra.
Il terzo big a contribuire alla causa con 100mila euro tondi al partito risulta il Prof. Peter Baldwin, filantropo e marito di Lisbet Rausing, erede dell' impero svedese della TetraPack, molto impegnata in donazioni ingenti. Baldwin si è attenuto alle regole per quanto riguarda il partito ma ha potuto elargire cifre ben più cospicue ai candidati boniniani, per un totale stimato di 1,6 milioni di euro. Nello specifico, 260mila euro sono stati regalati al solo Benedetto Della Vedova. Mr and Mrs Tetrapack hanno creato il fondo di beneficenza Arcadia, che sostiene organizzazioni di beneficenza e istituzioni accademiche che preservano il patrimonio culturale e l' ambiente e promuovono la gratuità dell' accesso alle risorse scientifiche. Baldwin ha tanti interessi e dedica molti studi allo sviluppo storico dello Stato moderno, un settore che lo ha portato anche in direzioni diverse. Ha studiato lo sviluppo dello Stato transnazionale, utilizzando fonti dettagliate e spes Soros Finanziere e filantropo Tabacci Centro Democratico so archivistiche in lingue diverse per sposare un ampio approccio comparativo al rigoroso empirismo. Scrive parecchi libri. L' ultima fatica letteraria è una storia politica transnazionale di copyright dal 1710 ad oggi. Recentemente sta lavorando a una storia globale dello Stato. Ma la sua vera passione sembra essere la politica e le sue simpatie sono tutte per i radicali. Alle ultime elezioni politiche, a parte 10 mila euro bonificati a Marco Rossi Doria, l' ex sottosegretario Pd all' Istruzione, tutto il resto del denaro , circa 360 mila euro, è andato appunto ai Radicali. Il prof ha la doppia cittadinanza e vive a Londra, che vuole proteggere dai perfidi sovranisti.
Dalla lista dei finanziatori emerge un altro dato curioso: un partito che finanzia un altro partito. Il Centro Democratico, fondato nel 2012 dall' ex Udc Bruno Tabacci, ha infatti versato 301mila euro a +Europa. Con 10mila euro hanno contribuito anche alcuni candidati come l' ex generale Vincenzo Camporini e l' avvocato Andrea Di Celso Mazziotti, già eletto con Scelta Civica e non confermato nel 2018.
Elezioni Europee, il suicidio claustrofobico della sinistra radicale. Sia la lista di Fratoianni sia i cugini Verdi restano fuori da Bruxelles. Il peggior risultato di sempre. Un flop che ha cause profonde. A partire dalla chiusura in una sorta di sovranismo psicologico, in cui l'area a sinistra del Pd ha alzato i muri tra se stessa e il mondo. Alessandro Gilioli il 27 maggio 2019 su L'Espresso. In una condizione normale, più o meno, si direbbe che a sinistra del Pd ora "scatta la resa dei conti". Invece il verbo "scattare" è fuori luogo, visto che a sinistra del Pd la resa dei conti è perenne, da anni. In ogni caso siamo di fronte al peggior risultato di sempre per quest'area che negli ultimi 11 anni si è presentata con una quantità infinita di nomi e sommatorie algebriche (Sinistra arcobaleno, Sinistra Ecologia Libertà, Lista Tsipras, Sinistra Italiana, Liberi e Uguali...) perdendo a ogni turno un po' di elettori, fino al disastroso esito di questo turno che lascia fuori dell'Europarlamento sia la lista di Fratoianni sia i cugini Verdi. A proposito, insieme forse La Sinistra e i Verdi ce l'avrebbero fatta (la loro somma, dicono le proiezioni, è proprio attorno al 4 per cento) ma con l'acuta decisione di presentarsi divisi sia gli uni sia gli altri hanno evitato il rischio di dover andare a Bruxelles. Bisogna tuttavia evitare le semplificazioni aritmetiche, non c'è stata solo la miopia tattica in questo suicidio. Le ragioni del flop sono tante, radicate nel tempo e connesse anche con fattori esterni: come la fine di Renzi, il "campo allargato" di Zinga, qualche candidato Pd gradito anche dalla sinistra radicale come il duo Pisapia-Majorino al nordovest e Pietro Bartolo - il medico di Lampedusa - al centro. E poi, ancora, la necessità sentita da molti di far fronte comune contro la valanga Salvini, che può avere spostato qualcuno verso il partito più grande, seppur col mal di pancia. Eppure nemmeno questo basta, da solo, a spiegare la catastrofe del 26 maggio per la sinistra radicale. Le cause più robuste sono profonde ed endogene, e hanno a che fare con un approccio cognitivo, con un modo di pensare e di agire lontano dal reale, dalla società, dal mondo. Un lungo e progressivo rinchiudersi in se stessi, nelle proprie beghe, nelle proprie minuscole identità di sigla, nelle proprie claustrofobiche frequentazioni, nei propri riti assembleari o di corridoio fatti sempre delle stesse facce e soprattutto delle stesse teste. Per estremo paradosso proprio la sinistra radicale, che per mandato se non per ideologia dovrebbe essere fatta di contaminazioni e aperture, si è invece rinchiusa in una sorta di sovranismo psicologico, alzando i muri tra se stessa e il mondo. Compreso quel pezzo di mondo che (per fortuna) esiste in Italia - la Cgil di Landini come i sindacati di base, le femministe di Non Una di Meno e le altre, gli studenti impegnati contro la Buona Scuola, quelli in piazza il venerdì per l'ambiente, il popolo degli striscioni sui balconi, l'associazionismo sui territori, Riace, il Baobab di Roma, Radio Popolare di Milano, le Ong eccetera eccetera. Anche quel pezzo di Paese lì, il giorno delle urne li snobba, i partitini della sinistra radicale: va altrove, sta a casa, si disperde. Comunque non vota se non in minima parte la lista di sinistra che proclama di rappresentarlo e da cui invece non si sente rappresentato. I segnali, in questo senso, non erano mancati già nel passato vicino, s'intende. Cinque anni fa la Lista Tsipras era partita attorno al 7 per cento nei sondaggi, poi ha superato per un soffio il 4 ed è implosa un'ora dopo che si sono chiuse le urne, con litigi furibondi, risse violente e promesse disattese (memorabile il voltafaccia di Barbara Spinelli). Peggior destino quello di Liberi e Uguali, che per intercettare l'ondata contro l'establishment ha pensato bene di mettere come suoi frontmen i presidenti delle due Camere, più D'Alema. Quindi si è sciolto come neve al sole. A questo giro anche i ciechi vedevano che senza un cambiamento profondo di pratiche e teste sarebbe stato un massacro. Invece le pratiche sono rimaste identiche: trattative e litigi tra leader di partiti sempre piu minuscoli, sommatorie e sottrazioni, sfanculamenti reciproci, ripicche personali, tradimenti dell'ultimo minuto e fughe dell'ultimo secondo (Civati che si ritira dalla corsa quando già è candidato). Insomma uno spettacolo grottesco da cui non a caso, a poco a poco, si sono chiamati fuori in tanti e tra questi una delle figure più spendibili come l'eurodeputata uscente Elly Schlein. A proposito, ora c'è chi guarda a lei come possibile risorsa dopo la catastrofe. Brava è brava, infatti la detestano in molti, tra i dirigenti (auspicabilmente) uscenti. Ma adesso ci manca solo l'attesa messianica di una Mrs Wolf che risolva tutti i problemi, povera Schlein. Il senso di una "sinistra radicale" - potenzialmente preziosa forza vettoriale di stimolo, critica e visione - ha bisogno di molto di più.
Magari, dopo il 26 maggio, almeno questo è più semplice da capire, anche se non da fare. L'onda nera è solo una goccia: quei "fascisti" dispersi alle urne. Gabriele Barberis, Martedì 28/05/2019, su Il Giornale. All'armi, eran fascisti. Anche queste elezioni europee sono passate con il più pacifico esito che accompagna le libere consultazioni in un Paese democratico: c'è chi ha vinto, chi ha pareggiato e chi ha perso. Avanti al prossimo appuntamento con le urne, specialità italiana che viviamo più con un senso di indolenza mediterranea che con l'orgoglio per essere interpellati in continuazione a scegliere i nostri rappresentanti. Molte previsioni sono state rispettate: lo sfondamento di Salvini, la regressione di Di Maio, la ripresa del Pd, l'avanzata del centrodestra. Solo una profezia non si è avverata, per fortuna: il ritorno del fascismo. Parola tragica che in Italia evoca subito una guerra civile senza fine. E forse proprio per questo viene utilizzata in modo strumentale a ogni campagna elettorale contro il favorito di turno. Durante lo spoglio delle schede non si sono viste squadracce aggirarsi con il fez nei seggi o adunate oceaniche di giubilo a braccio teso per il responso delle urne. I fascisti-fascisti, quelli che per intenderci sono detestati da una destra liberale, sono usciti dal voto per quello che sono: pochissimi, isolati e senza consensi. Parliamo di CasaPound, lo spauracchio dei Saviano e della compagnia di giro mediatico-editoriale dell'antifascismo militante, quello dell'ora-e-sempre. Alle Europee la lista di estrema destra ha raggiunto risultati da prefisso telefonico del Varesotto, lo 0,33%. Tradotto in suffragi elettorali, appena 88.724. Ben più misero il bottino di Forza Nuova, anch'essa in lizza per un seggio al Parlamento di Strasburgo. Ovviamente potranno vedere l'aula plenaria solo da visitatori o tramite una diretta streaming. Il responso impietoso dello scrutinio ha eguagliato il prefisso telefonico di Biella, 0,15%. Una scelta per pochi, soltanto 40.782 suffragi. Cifre irrisorie dinanzi a un elettorato di 49 milioni di italiani, di cui 27 milioni di votanti effettivi. Certo, ci spiegheranno che il fascismo oggi non è più un regime ma un pericoloso modo di concepire un esercizio di potere oppressivo e violento. Per coloro che ne sono ossessionati, tutto fa paura, comprese le tentazioni nostalgiche. Come quelle di farsi rappresentare a Strasburgo da uno o più componenti della famiglia Mussolini. Ma non è andata così. Alessandra, veterana delle aule parlamentari dal 1992, ha mancato la rielezione in Europa. La nipotina del Duce, nonché nipote di Sophia Loren, si è fermata al terzo posto tra i più votati di Forza Italia nella Circoscrizione Italia Centrale con 15.794 preferenze. Nulla da fare, bocciata. E la stessa sorte è toccata al cugino di secondo grado, Caio Giulio Cesare. Era stato calato come asso nella manica da Fratelli d'Italia per coprire la fetta dell'elettorato vagamente suggestionato dal mito del Duce. Ma anche il figlio di Guido Mussolini, secondogenito di Vittorio, a sua volta figlio di Benito, si è fermato al quinto posto di lista nell'Italia Meridionale. Tante preferenze, 21.488, ma insufficienti per diventare eurodeputato. In democrazia passa chi ha più voti, non chi fa più paura a quegli «antifa» di professione che per mesi hanno scambiato i giubbotti di Salvini per una camicia nera. L'ondata fascista lasciamola ai libri di storia contemporanea. A noi è arrivata soltanto una goccia microscopica.
Cuperlo attacca i sardi che hanno votato Lega. Le risposte dei lettori. Esplode la polemica sul web per la frase di Cuperlo sui "sardi che votano Lega e non finiscono le scuole medie". Panorama il 29 maggio 2019. E' bufera per Gianni Cuperlo, il politico del Partito Democratico che nel commentare i risultati delle Elezioni Europee ha dichiarato che "La Lega è il primo partito in Sardegna dove il 33% dei giovani non finisce le scuole...". Una chiara accusa di ignoranza per gli elettori di Salvini che non è passata inosservata. Sui social infatti è uno degli argomenti più discussi. Questi alcuni delle centinaia di commenti arrivati alla pagina facebook di Panorama.it
"abbiamo capito perché la lega è il primo partito...ahah...ps: nel 2014 il primo partito era il pd: all'epoca tutti colti e intelligenti? ma vatti a nascondere!!"
"In Sardegna finché votavano a voi erano intelligenti, ora non l’ho fanno più per i radical chic sono ignoranti".
"Il bue chiama cornuto all'asino...Nel PD c'erano ministri con la scuola dell'obbligo...ma di cosa parla questo nulla?..."
"Parlò cosi quello che aveva come ministro l'analfabeta Fedeli".
"Dare degli ignoranti ai sardi solo perché l'illustre e togato PD ha PERSO, è da veri ignoranti ma anche buffoni e trogloditi".
"Invece prima in 70 anni di governo pd/dc , Erano tutti Laureati.... Ma va Cagare , se non altro oggi avranno meno ladri legalizzati sull'Isola".
"Classico atteggiamento del cazzo della sinistra: chi non vota loro è per forza un ignorante, un soggetto a bassa scolarizzazione, un fascista, una bestia di satana. Forse è per questo che la gente alla fine si è stufata?"
"I voti finiscono tutti nel mucchio: il tuo voto vale quanto quello del pastore sardo che disprezzi, pezzo di escremento liofilizzato!"
"Quindi l'insegnamento di queste elezioni è che chi non vota il PD è un ignorante, zotico, con la 5a elementare...Salvini deve ringraziare gente come voi che gli fa campagna elettorale 365 giorni l'anno, fenomeni veri (oltre che veri intellettuali)".
"Spiegare a questo arrogante ammasso di deiezioni in forma antropologica che quelli che non avevano finito le elementari hanno industrializzato il paese e fatto grande l'Italia e sono i dottorini laureati come esso che l'hanno rovinata".
"E pensare che io da Leghista pensavo che Cuperlo fosse intelligente! Ma forse il mio Diploma di Maestra dell’Arte non è sufficiente..."
"Proprio un bel ragionamento da demente ma tipico dell’ “illuminato” di sinistra in totale spregio alla gente sarda ... peggio di Tafazzi i piddi ormai".
"Poi ci si chiede come mai i populisti prendono piede.. con affermazioni del genere!"
"Altro fenomeno con la puzza sotto al naso e la teoria delle classi subalterne".
"Prima eravamo tutti razzisti, poi tutti fascisti, ora tutti ignoranti".
"Il partito democratico non ha ancora capito che per essere davvero democratici bisogna anche saper perdere e rispettare pareri differenti dai propri. Non basta dire di essere il partito democratico".
"propongano una nuova legge elettorale per cui voterà solo chi è laureato. Va bene??"
I poveri No Tav perseguitati come i confinati da Mussolini. Luigi Mascheroni, Mercoledì 29/05/2019 su Il Giornale. C'è un punto che non convince della stucchevole narrazione antifascista della Sinistra dura e impura, ossia i razzisti antropologici à la Cristian Raimo, i Gad Lerner che gli altri sono razzisti e tu parli di classi subalterne, la Murgia per la quale l'unico metro per misurare la correttezza politica è il proprio, le Lipperini che al Salone del Libro chiedono di espellere CasaPound e poi lei continua a difendere, senza mea culpa, un assassino reo confesso come Cesare Battisti, e tu ti chiedi se l'apologia di fascismo di un editore più folcloristico che pericoloso sia davvero peggio della faziosità ideologica di una intellettuale da RaiTtre che fa schermo a un compagno pluriomicida...E comunque il punto che non convince è: come si può oggi, quando ci sono più partiti che idee e più giornali che lettori, continuare a sbandierare paragoni irrispettosi con il Ventennio? Ma andate dire a chi ha perso un nonno in Russia nel '43 o visto i negozi ariani che oggi c'è il fascismo... O siete intellettualmente disonesti o siete ignoranti. Forse, la seconda. Chi sostiene paragoni del genere non legge se non quello che scrive, non studia nulla. Come Wu Ming1, che ha da poco pubblicato il romanzo La macchina del vento (Einaudi) dedicato al confino degli antifascisti italiani. E paragona la pena inflitta da Mussolini agli antifascisti, in posti sperduti senza medicine, mezzi di sopravvivenza e soldi a... A cosa? Al ritiro della patente e agli arresti domiciliari che in qualche caso hanno interessato gli attivisti No Tav (per resistenza aggravata, lesioni, lancio di molotov...). Personaggi come Sandro Pertini, Ernesto Rossi e Umberto Terracini paragonati agli attivisti della Val di Susa: «La storia che avevo in mente mi sembrava molto più attuale di quando l'avevo concepita - scrive Wu Ming 1 -. Intorno a me vedevo un sempre maggior numero di attiviste e attivisti subire misure preventive quali obbligo di dimora, arresti domiciliari, sorveglianza speciale. Chi è sottoposto alla sorveglianza speciale si vede ritirare passaporto e patente di guida, revocare qualunque licenza e riceve un libretto con tutte le prescrizioni che dovrà osservare (...) Come potevo non pensare ai confinati?». Già, come poteva? Da segnalare poi - parlando di democrazia e libere elezioni - che dove c'erano i presidi No Tav a Chiomonte ha stravinto la Lega.
Pre-fascisti e classi subalterne. L'intellighenzia che rosica. La sinistra chic confusa conia etichette sprezzanti per spiegare la sconfitta. La colpa? Degli elettori incolti. Giuseppe Marino, Mercoledì 29/05/2019, su Il Giornale. Si arrovellano pensosi, si scambiano sorrisini d'amara intesa nel salotto tv unicolor di Zoro, compulsano le viscere di un saggio di Pasolini sorseggiando un cabernet biologico di D'Alema, ripassano le battute di un film di Nanni Moretti. Ma niente. Le risposte non arrivano, l'ispirazione manca. Perché la sinistra non vince più? Perché l'eterno fantasma del fascismo più non frena i bassi istinti della plebe? Eppure il metodo l'ha inventato l'antico homo democristianus («Dio ti guarda, Stalin no»). La disperazione dell'intellighenza è palpabile, il disorientamento tracima dagli attici vista centro storico. Qualche coraggiosa avanguardia tira fuori la propria verve creativa. Il colpo da maestro è di Paolo Flores d'Arcais: nessuno crede più alla minaccia fascista dopo il decimo zerovirgola elettorale di Casapound? Allarghiamo la platea. Su Micromega, il professore lancia una nuova categoria della politologia progressista. «Ha vinto il pre-fascismo», tuona d'Arcais. «Il pre-fascismo - insiste - non è il fascismo, ovviamente, e potrebbe non diventarlo. Ma ne contiene già tutti gli ingredienti costitutivi». Siamo a Philip Dick, alla «pre crimine» di Minority report. Forse non sei ancora fascista ma puoi essere accusato, e fermato, prima che lo diventi. E se per caso sta succedendo a tua insaputa, puoi sempre usare il «fascistometro», l'«esame del sangue» in forma di gioco di società, inventato da Michela Murgia, che per giorni ha appassionato il popolo Dem. Che colpo di genio il pre-fascismo. Pare già di vedere le signore dei girotondi urlarlo nelle piazze: «Pre-fascisti carogne, tornate nelle pre-fogne». L'ultimo uppercut, il colpo di crocifisso alla tempia, è stato troppo. Va bene l'Emilia rossa, ma pure la ridotta di Capalbio in mano ai barbari? Le avanguardie vacillano, mancano le parole. Dire qualcosa di sinistra diventa sempre più difficile. Qualcuno sbotta. E chi se non l'ormai inacidito Gad Lerner? Su Twitter consegna una perla analitica imperitura: «L'Italia leghista è un rivolgimento profondo, sociale e culturale prima ancora che politico, come testimonia il voto nelle regioni rosse», pondera e poi spara il capolavoro: «Già in passato le classi subalterne si illusero di trovar tutela nella trincea della nazionalità. Non finì bene». Il brodo di cultura è sempre lo stesso, l'allarme pre-fascista è implicito, ma a Lerner scappa anche un'etichetta così boriosa e sprezzante da sembrare una gag di lercio. Le «classi subalterne» sono la versione killer del «proletariato», per anni santificato a patto che stesse a distanza di rispetto dall'Ultima spiaggia. E, infine, apertamente ghettizzato, tacciato di un'inferiorità che non è solo economica. L'esternazione di Lerner non dovrebbe sorprendere. Mette semplicemente a nudo un pensiero che da anni guida (verso il baratro elettorale) la sinistra: le masse incolte vanno guidate dall'avanguardia illuminata. Alle prime batoste un residuo di pudore conduceva ad analisi del tipo: «Non ci siamo fatti capire», «Non abbiamo saputo parlare il linguaggio delle masse». Ora che i kappaò sono diventati la regola, si esce allo scoperto: le masse non ci seguono perché sono rozze, prive di cultura. In pratica, non capiscono una mazza. Soprattutto non capiscono noi, che sappiamo e li avevamo avvertiti. Ci casca anche il cauto Gianni Cuperlo che, su La7, sottolinea la coincidenza tra il 33% di abbandono scolastico e la vittoria della Lega in Sardegna. Ma ha almeno il buon gusto di rettificare. Nessuno è sfiorato dal sospetto che le masse capiscano benissimo, anche senza leggere Adorno. Basta guardarsi il portafogli, dopo anni di sinistra. Sanno che il doping populista di Salvini e M5s vale quello di falce e martello e Avanti popolo. Ma ci provano. Se va male, avanti un altro. Ma se la sinistra continua a ragionare come Lerner, il suo turno prossimo è ancora lontano.
I quasi pensanti. Augusto Bassi 28 maggio 2019 su Il Giornale. Prevedibili come l’infiammazione della seconda fase libidica infantile a seguito di una monta inaspettata, sono arrivati i pistolotti degli antileghisti sulla barbarie dilagante. Gad Lerner approda alla teoria del conflitto dal litorale degli sfruttatori e parla di «classi subalterne» con la stessa ripugnanza che un antisemita potrebbe indirizzare a un ebreo con la faccia da beduino. Marco Damilano – sempre in prognosi riservata dopo il 34% della Lega – scrive che con Salvini ha trionfato «un’ideologia feroce». Noi che siamo stati spesso azzannati alla giugulare dalle sue cialtronate in vernacolo assassino, fatichiamo a impressionarci. Poi continua accennando alla Le Pen, cui potrebbe intellettualmente e fisiognomicamente fare da filippino, inquadrandola come una «sfasciacarrozze di professione». Effettivamente, grazie a personalità come quella di Marine, il carrozzone dei fenomeni da baraccone di professione rischia di avere le pernacchie contate. Anche la mai faziosa o tendenziosa Repubblica titola con un inquietante e vagamente discriminatorio «Ombre nere». Ma la frenesia negazionista o revisionista è scatenata soprattutto in quei farisaici commentatori della rete e della porta accanto che in genere chiamiamo “semicolti”, ma che da oggi in avanti preferirei ribattezzare “quasi pensanti”. I quasi pensanti si riconoscono per lo smanioso utilizzo di vocaboli eterodiretti e certificati come “analfabeta funzionale”, “fascista”, “xenofobo”, “odiatore”, oppure di sintagmi frikkettoni-catto-kantiani sul genere del “restiamo umani”, “non torniamo al Medioevo!”, “viaggiare apre la mente”, “al calcio preferisco erba buona e un buon libro”, “salviamo il pianeta”, “make the world greta again”, “più ponti, meno muri”. “largo ai giovani”. Sul fronte precettivo, il loro incedere è ricco di anatemi laici pregni di tolleranza per il diverso, fra i quali siamo ormai avvezzi a riconoscere i pacati “dovreste vergognarvi!”, “vergogna!”, “ma non vi vergnognate?!”, o i più coloriti e frizzanti “tornate nelle caverne!”, “dovete crepare, trogloditi!”. Mentre chierichetti più fighetti arrivano a “vulnus democratico” e “Francesco scomunica Salvini per idolatria!”. I quasi pensanti rappresentano più o meno il 25% degli italiani e naturalmente sono inviperiti, ingadlerniti per il degrado dei tempi, spaventati dalla marea nera incombente, dalla troppa democrazia che permette a gente poco imparata come i grillini di destra, i leghisti o gli squadristi vari di esercitare i loro stessi diritti. C’è chi tratteggia convincenti teorie sulla relazione inversamente proporzionale fra letture importanti, avventure accademiche, abitudini urbane e inclinazioni sovraniste. Infatti in centro a Milano e a Roma si vota Pd, mentre a Pavia o Lampedusa si preferisce Salvini. In quel di Capalbio ha vinto la Lega solo perché i villeggianti non hanno a disposizione il voto supplementare per la residenza al mare, che dovrebbe essere un diritto di civiltà almeno quanto la gender equality. Ora, confesso di non aver mai votato Carroccio in tutta la vita. E convengo con le anime belle, sensibili, raffinate, che l’immaginario leghista sia un poco “rudimentale”. Tuttavia, ciò che mi lascia ogni volta maggiormente dilettato è questa sedicente superiorità morale/culturale/intellettuale nei confronti di chi sarà forse rudimentale, ma almeno ha capito. Con la testa, con l’istinto, con la pancia, ma ha capito. Voi che avete studiato – magari marketing esperienziale, ma avete studiato – voi che avete viaggiato – magari fino a Formentera, ma avete viaggiato – voi che avete accolto – magari un Carlino paralitico a distanza, ma avete accolto – in 17 anni di Euro avete capito una beata minchia. Perché siete appunto quasi… pensanti.
Nel 2014 i votanti in Italia furono 28.991.258 ossia il 57,22% e a stravincere fu il Pd di Matteo Renzi, che ottenne il miglior risultato di sempre dalla fondazione del partito. Ecco, di seguito, i risultati delle europee 2014:
PD - 40,8%
M5S - 21,2%
LEGA - 6,2%
FORZA ITALIA - 16,8%
FRATELLI D'ITALIA - 3,7%
Quanto alle politiche del 2018, i partiti ottennero i seguenti risultati:
M5S - 32,7%
LEGA - 17,4%
FORZA ITALIA - 14%
FRATELLI D'ITALIA - 4,4%
Elezioni europee, il confronto con Politiche 2018 ed Europee 2014: emorragia di voti per Pd e M5S
A scrutinio delle elezioni europee quasi ultimato (61.449 sezioni su 61.576), ecco la variazione in voti assoluti dei principali partiti italiani rispetto alle Politiche 2018: Lega +3.441.000, PD -121.000 M5S -6.189.000, FI -2.258.000, FDI +292.000.
Questa invece la variazione rispetto alle Europee 2014: Lega +7.451.000, PD -6.028.000, M5S -1.252.000 FI -2.266.000, FDI +717.000
A scrutinio quasi ultimato (61.449 sezioni su 61.576), variazione in voti assoluti rispetto alle Europee 2014:
Lega +7.451.000
PD -6.028.000
M5S -1.252.000
FI -2.266.000
FDI +717.000
Il 2 dicembre 2013 Matteo Salvini diventa segretario con la Lega al 4,09%. 6 anni dopo eccola al 34,33%. Panorama il 29 maggio 2019. Il successo della Lega e di Matteo Salvini alle Elezioni Europee 2019 non è un caso. Ma figlio di un trend di crescita cominciato 6 anni fa, nel momento in cui Salvini viene eletto Segretario della Lega Nord. Un'elezione arrivata dopo la crisi del partito investito da alcune inchieste giudiziarie che avevano colpito i vertici, primo tra tutti il "Senatur" Umberto Bossi e che aveva portato al Lega ad un risultato elettorale alle Politiche 2013 pessimo, chiuse poco sopra il 4%. Da quel momento non c'è stata elezione in cui il partito a guida Salvini non sia cresciuto, fino al clamoroso risultato di ieri.
Ecco tutti i numeri:
- ELEZIONI POLITICHE
24 FEBBRAIO 2013 LEGA - 1.390.534 VOTI 4,09%
7 DICEMBRE 2013 - MATTEO SALVINI VIENE ELETTO SEGRETARIO DELLA LEGA NORD
- ELEZIONI EUROPEE 25 MAGGIO 2014
LEGA - 1.686.556 VOTI 6,16%
- ELEZIONI POLITICHE 4 MARZO 2018
LEGA - 5.698.687 VOTI 17,35%
- ELEZIONI EUROPEE 26 MAGGIO 2019
LEGA - 9.153.638 VOTI 34,33%
La sinistra ha perso un milione di voti ma canta vittoria. Mentre Zingaretti parla del Pd come vera alternativa il numero dei voti ottenuti dice una cosa diversa. Panorama il 28 maggio 2019. Si sa, alle Elezioni ci sono solo vincitori. Per questo è apprezzabile l'ammissione fatta ieri da Di Maio ("siamo andati male") nell'analizzare il risultato delle Europee. Ma se il grillino ha fatto mea culpa la sinistra canta vittoria pur avendo perso. Andiamo con ordine. Il neo segretario, Nicola Zingaretti, ieri si è lasciato andare a dichiarazioni di vittoria: "E' un buon risultato". "E' la strada giusta". "Il Pd è l'unica alternativa a Salvini". "Il Pd è vivo". "Possiamo vincere". "La sinistra unita può essere vincente. Siamo già al 28%". Certo, il Partito Democratico come percentuale è cresciuto rispetto alle elezioni politiche del 2018 ma se si guarda agli elettori "reali", al numero di voti ottenuti, beh, il discorso cambia. Perché c'è stato un calo, precisamente di 111 mila votanti. Ancora peggiore è il risultato se analizziamo nel complesso i numeri dell'intero schieramento di sinistra. Zingaretti ha subito parlato di "coalizione ed alleanza" per il futuro. Se si mettono assieme Pd, + Europa e La Sinistra otteniamo un complessivo 7 milioni e 338 mila voti. Alle politiche del 2018 l'insieme di Pd, + Europa, Liberi e Uguali, la coalizione di Insieme ed il partito della Lorenzin ne ottenne 8 milioni e 486 mila. Dato che la matematica non è un'opinione ecco che emerge una perdita netta di 1 milione e 148 mila elettori. Alcuni nel partito ieri hanno fatto emergere la problematica, andando contro alle dichiarazioni festanti dei vertici (frutto solo del sorpasso al Movimento 5 Stelle come secondo partito del paese) ma sono stati quasi zittiti dagli ordini di scuderia. Ma la sostanza non cambia: la sinistra ha perso. Cantare vittoria è un errore da vecchia politica.
Ps. Se poi la cosa non bastasse consigliamo di dare un'occhiata a questa mappa. E' la cartina dell'Italia, dei governi nelle diverse regioni. Da una parte si vede l'Italia al 4 marzo 2018. 15 erano le regioni "rosse", 4 quelle del centrodestra. Oggi, 14 mesi dopo, è tutto diverso. Trainata dalla Lega il centrodestra ha conquistato: Abruzzo, Sardegna, Molise, Basilicata, Friuli e, ieri, anche il Piemonte...
Mauro Corona a Cartabianca: "Che fastidio vedere Nicola Zingaretti esultare, più umiltà e ammetta gli errori". Libero Quotidiano il 29 Maggio 2019. "Il risultato del Pd? Mi ha dato fastidio vedere Nicola Zingaretti esultare". Mauro Corona, ospite di Bianca Berlinguer a Cartabianca, su Raitre, tira una bordata al segretario del partito democratico che alle elezioni europee del 26 maggio scorso ha superato il Movimento 5 stelle. Secondo lo scrittore, comunque c'è poco da stare allegri e Zingaretti, "dovrebbe avere un profilo basso e idee precise. Bisogna avere più umiltà e ammettere gli errori".
Europee, Zingaretti esulta nel Pd. Ma i renziani lo frenano. "Il Partito Democratico riparte, nuovo centrosinistra". L'ex premier: vincitori solo Nardella e Gori. Ettore Maria Colombo il 28 maggio 2019 su quotidiano.net. Il risultato delle elezioni europee 2019, per il Pd di Nicola Zingaretti, è come il "canto delle sirene" per Ulisse nella versione della canzone di Franco Battiato: "incatena". Il Pd, come ormai si sa, si conferma come secondo partito italiano (alle Europee del 2014 era il primo e anche dentro il Pse), con il 22,7% dei voti, riconquistando quasi cinque punti rispetto alle politiche del 2018 ed eleggendo ben 19 (anzi, forse 20) europarlamentari (erano 31 nel 2014). Tra questi, spiccano, per boom di preferenze, i capolista del Nord Est, Carlo Calenda (276.413 preferenze) che avverte: "Creiamo un’ampia alleanza che coinvolga il Pd, i Verdi e un vero partito libdem Siamo Europei. Un’alleanza, non una lista unica"; e del Nord Ovest, Giuliano Pisapia (266.156), con il primo che vince la sfida del più votato e che è, ormai, il nuovo astro nascente dem. Al Centro primeggia la renziana Bonafè (124.364 preferenze), al Sud il capolista Roberti(145.205) e, nelle Isole, è boom di consensi per il medico di Lampedusa, Pietro Bartolo (135.098), con altre 84.180 prese al Centro. E poco importa che, guardando ai voti assoluti, e reali, il saldo sia negativo. ‘Solo’ 6 milioni e 48 mila voti assoluti, contro i 6 milioni e 161mila voti del 2018, per non dire del confronto con il 40,8% delle Europee 2014 (11.172mila voti). È il dato più basso in assoluto, per il Pd, questo, anche rispetto le Europee del 2009 (7.999.476 voti, 26,1%) e rispetto alle Politiche 2013 (8.644.187 voti, 25,4%) e del 2008 (33,1%, 12.095.306 voti). Roberto Giachetti, leader della minoranza interna dem, la mette giù piatta: "Gli unici vincitori di queste elezioni sono la Lega e Fd’I, mentre il Pd, rispetto alle Politiche 2018, in questa tornata perde 114.778 voti". Matteo Renzi, ‘discolo’ come sempre, sostiene che "per fermare la Lega c’è la vittoria di Dario Nardella a Firenze" (e quella di Giorgio Gori a Bergamo, altro renziano), ed evita anche solo di fare i ‘complimenti’ al Pd. Lorenzo Guerini, leader con Luca Lotti, di Base riformista, è più parco: si limita a dire che "il Pd da solo non basta" mentre Andrea Marcucci che "deve parlare al centro, ai moderati". Insomma, secondo i renziani, per il Pd ci sarebbe poco da gioire e assai da riflettere, ma conta "l’effetto psicologico". Il Pd sta sopra, e di parecchie lunghezze, all’M5S e ‘Zinga’ non manca di sottolineare che è ora si volta pagina. "Non è un arrivo – dice il segretario in una conferenza stampa –, ma è finalmente una ripartenza. Noi crediamo che il voto di ieri apra una situazione politica nuova in cui il Pd svolgerà un ruolo importante di battaglia politica e costruzione di una alternativa. Il Pd ottiene con il 22,69%, il 4 in più sul 2018. Siamo primi a Roma, Milano, Torino, Firenze, seconda forza a Napoli". "Ci davano per spacciati – aggiunge –, ma gli italiani ci hanno aiutato a voltare pagina e oggi rappresentiamo il pilastro per la costruzione non solo della opposizione, ma della alternativa al ‘governo Salvini’". Le priorità per Zingaretti sono tre. Il primo pilastro della nuova fase è chiamare a raccolta "tutte le forze sociali, civiche, che avvertono il pericolo di un governo di destra. Tocca a noi costruire il programma e un’agenda". "Il secondo asse – continua – è continuare a scommettere sulla ricostruzione del nuovo centrosinistra. La lista unitaria più i Verdi (non cita, curiosamente, + Europa, ndr) ha il 28% dei voti». Infine, il rinnovamento: annuncia che, già prima dell’estate, "si aprirà una fase rifondativa del Pd". I renziani dovranno adeguarsi o, casomai, andarsene.
M5S perde oltre 6 milioni di voti: la fuga verso astensione e Lega. Nel boom del Carroccio una quota in arrivo da FI Il Pd «pesca» tra chi non aveva votato e delusi M5S Nando Pagnoncelli il 28 maggio 2019 su Il Corriere della Sera. L e consultazioni europee hanno segnato importanti cambiamenti nello scenario politico del Paese. La vittoria della Lega, sopra le aspettative delle ultime settimane, sancisce il successo della Lega nazionale, mentre il declino, anch’esso imprevisto nelle dimensioni, del M5S, segna una ridefinizione dei rapporti nel governo. Infine, la crescita del Pd, annunciata ma più consistente delle attese, sembra segnare una ripresa del bipolarismo sinistra/destra. Quali sono stati i flussi di voto, ovvero gli spostamenti degli elettori? Per misurarli abbiamo utilizzato i dati dei nostri sondaggi opportunamente riponderati sui risultati reali. E come dato di confronto abbiamo usato il voto per le Politiche 2018. Si tratta di un raffronto non del tutto corretto poiché si tratta di consultazioni diverse, con una diversa partecipazione. Ma il confronto con le consultazioni europee del 2014 sarebbe stato fuorviante, dominate come furono dallo straordinario successo del Pd renziano.
Se guardiamo ai valori assoluti, rispetto al 2018, il M5S perde più di sei milioni divoti, la Lega ne guadagna circa 3 milioni e mezzo, Fratelli d’Italia, altro vincitore di questo giro, ne ottiene circa 300.000 in più, il Pd ne perde poco più di 100.000 (ma cresce in termini percentuali proprio perché la partecipazione è più bassa), Forza Italia vede uscire più di 2 milioni di voti. Le perdite dei pentastellati vanno in due direzioni molto nette: verso l’astensione (il 41% di chi ha votato questa formazione alle Politiche non ha partecipato alle Europee) e verso la Lega (il 14% circa si sposta su Salvini). La fedeltà è molto bassa: solo il 37% degli elettori 2018 conferma il proprio voto. L’astensione ha inciso in particolare al Sud: l’impatto del reddito di cittadinanza non sembra esserci stato. I pentastellati vedono le perdite maggiori tra i dipendenti pubblici e tra chi si colloca a sinistra (e quindi la recente svolta a sinistra di Di Maio non è riuscita a contenere le perdite).
Le crescite della Lega vengono principalmente dagli elettori del M5S, come giàsottolineato, da Forza Italia (oltre il 30% degli elettori 2018 di questa formazione oggi scelgono Salvini), e dall’astensione (circa 4%). In sostanza la Lega diventa punto di riferimento del centrodestra e della destra, riducendo il consenso di FI, sempre più relegata al Sud. Non a caso il profilo degli elettori della Lega è sempre più sovrapponibile all’elettorato classico del centrodestra: autonomi e piccoli imprenditori, casalinghe, ma anche operai, titoli di studio medio bassi (che sono ancora la maggioranza nel Paese). Fratelli d’Italia beneficia di voti provenienti anch’essi dall’area del centrodestra (in misura simile sia dalla Lega che da FI), ma anche dal M5S, sia pur in misura più contenuta, e dall’astensione 2018 (circa 7% dell’attuale elettorato del partito di Giorgia Meloni è fatto da chi nel 2018 non aveva espresso un voto). Saldamente ancorato nel centrodestra, è interessante una certa trasversalità, che accomuna imprenditori, dirigenti e pensionati, con una presenza interessante di titoli di studio alti.
AVVISATE ZINGARETTI! IL PD FESTEGGIA MA RISPETTO ALLE EUROPEE DEL 2014 HA PERSO 6 MILIONI DI VOTI E100MILA ELETTORI RISPETTO ALLE DISASTROSE POLITICHE DEL 2018 (ALLE POLITICHE HANNO VOTATO MOLTI PIÙ ITALIANI RISPETTO ALLE EUROPEE). Maria Teresa Meli per il Corriere della Sera il 28 maggio 2019. Come sempre più spesso accade da quando si è messo a far politica, tocca a Carlo Calenda mettere a fuoco, senza troppi giri di parole, il tema su cui una parte del centrosinistra sta dibattendo in queste ore e indicare come unica prospettiva la nascita di un nuovo partito. Il candidato più votato della lista unitaria (secondo solo a Salvini come preferenze ottenute in una circoscrizione) sgombra innanzitutto il campo dai facili entusiasmi. Per carità per il Pd e «Siamo Europei» è stato un successo, «ma non dobbiamo dimenticare che la lista non ha neanche raggiunto il numero di voti delle Politiche». Per evitare di pendere solo a sinistra perdendo i moderati c' è una sola cosa da fare, avverte l' ex ministro: «Dobbiamo creare un' ampia alleanza che coinvolga il Pd, i Verdi, che andranno però rifondati, e un vero partito libdem-Siamo Europei. Un partito che nasca sul serio. E un' alleanza, non una lista unica». Calenda non lo esplicita ma è chiaro che, forte di un ottimo risultato elettorale, lui ha tutte le carte in regola per guidare un nuovo soggetto politico liberaldemocratico. E comunque, l' ex ministro, come molti anche nel Pd, ritiene che il Partito democratico non sia in grado da solo di attirare i voti dei moderati. Non più almeno, benché a suo tempo fosse nato anche per questo. Anche il sindaco di Milano Beppe Sala, del resto, è convinto che «il Pd da solo non basti» e che servano «forze nuove». Il dibattito sulla conquista del centro era stato aperto da Renzi alla vigilia delle Europee. Ma dopo il voto, con il Pd che non guadagna consensi rispetto al 4 marzo («si sono persi 100 mila voti», sottolinea Calenda) quella discussione si è fatta più accesa. Soprattutto tra i renziani. Il cui leader ufficialmente non interviene nel dibattito, ma lascia capire quello che pensa con un tweet: «La vittoria della Lega è netta. È altrettanto evidente che la risposta più forte a questa vittoria arriva oggi da Firenze grazie a Nardella». Non un commento sul risultato del Pd, non una parola sul segretario...
Ma si diceva dei renziani. Secondo Roberto Giachetti i voti persi rispetto al 4 marzo, calcolando i consensi arrivati dagli scissionisti, sono 200 mila: «Il presunto campo largo non è più largo di allora e i risultati sono anche peggiori». Per Giachetti è «grave» che il Pd non sia praticamente riuscito a captare i voti in uscita dai 5 Stelle e da Forza Italia. Questi, aggiunge, «sono numeri, non opinioni»: «Ci ostiniamo a rivolgerci al bacino della sinistra che, come abbiamo visto, oltre il Pd non esiste» e non ci «concentriamo su quello enorme dell' astensione dove si collocano i delusi e i moderati». Più soft, com' è nella sua natura, il commento di Lorenzo Guerini, che con Luca Lotti capeggia l' altra componente renziana del partito. Senza forzare la mano, mette però i puntini sulle «i»: «Arrivare secondi non basta. L' elettorato moderato non può essere consegnato in modo rassegnato alla destra». Guerini immagina che il recupero di quei consensi sia lavoro del Pd. Calenda ritiene di no. Zingaretti non ha ancora deciso quale strada intraprendere però ammette: «Dobbiamo essere aperti alle forze moderate che non si riconoscono in questo governo». In attesa di capire quale direzione prenderà il Pd, non si può fare a meno di registrare come la «novità Calenda» ormai sia in campo. D' intesa con Renzi, sostiene più d' uno nel Pd.
D.Pir. per il Messaggero il 28 maggio 2019. I dati parlano chiaro: rispetto alle politiche 2018 la Lega ha guadagnato 3,4 milioni di voti (+59%) ed è passata da 5,7 milioni a 9,1 milioni di preferenze. I 5Stelle hanno subito un deflusso devastante perdendo ben 6,3 milioni di voti. nel 2018 i consensi pentastellati erano a quota 10,8 milioni, domenica sono scesi a quota 4,5 milioni. L' affermazione del Pd è notevole sul piano delle percentuali ma molto meno brillante su quella dei numeri assoluti. Rispetto al 2018 i Dem sono stati votati da 100.000 italiani in meno. La cosa si spega perché alle politiche hanno votato molti più italiani rispetto alle europee. Un anno fa 34 milioni di elettori hanno deposto le schede nelle urne mentre alle europee sono stati solo 27,6 milioni. Il bottino di 9 milioni di voti per Matteo Salvini da dove è arrivato? Innanzitutto dai 5Stelle ma anche da Forza Italia che ha dimezzato i voti rispetto al 2018 perdendone per strada ben 2,3 milioni. I dati di analisi dei flusso di voto (formulati da SWG), dei mutamenti nei blocchi sociali e delle motivazioni di scelta elettorale, aiutano a tratteggiare il quadro. Come detto M5S perde 6 milioni e 180mila voti (1 milione e 700mila al Sud, più di 1 milione a Nordovest, Nordest e Centro Italia e 944mila nelle Isole). Rispetto al 2018 il partito di Di Maio ha ottenuto la riconferma della fiducia solo dal 38% dei votanti. Un altro 38% opta per l' astensione, il 14% trasloca sulla Lega e il 4% sceglie il Pd. Lo smottamento elettorale è maturato su tutta la linea. «M5s perde al Sud e lungo tutto lo stivale, ma, soprattutto, perde per strada pezzi importanti del suo blocco sociale - spiega Enzo Risso, direttore della SWG - Lascia sul campo, ad esempio, i giovani: lo abbandonano il 15% dei Millennials (in parte conquistati da Lega e Pd) e il 25% dei ragazzi della Generazione Z. Perde parte degli operai (con un meno 20%) e vede assottigliare i consensi nei ceti sociali medio-bassi. In uscita anche una parte di quella middle class urbana e professionale che aveva scelto M5s per la sua spinta antisistema (-14%)».
Fin qui il crollo M5S. ma cosa ha determinato lo sfondamento della Lega? In primo luogo c' è il ruolo di indubbio traino del suo leader: il 76% di quanti hanno votato per la Lega sottolinea l' importanza e il ruolo di Salvini (il ruolo di Di Maio sul voto a M5s è del 46%). La Lega conquista il 17% dei nuovi voti da M5s, mentre sottrae a Forza Italia il 10% dei consensi. Il partito di Salvini, rispetto al 2018, conquista tre milioni di voti (7,4 milioni di votanti in più rispetto al 2014), aumentando i consensi in tutte le aree del Paese: + 897mila a Nordovest, + 686mila a Nordest, + 810mila al Centro, + 828mila a Sud e + 236mila nelle Isole. La Lega, con questa tornata elettorale, diviene un partito nazionale, con il suo centro propulsore al Nord (40% dei consensi in media), un peso importante al Centro (33,5%), al Sud (23,5) e nelle Isole (22,4%). Per il Pd, il quadro è quello di una sostanziale tenuta rispetto al 2018 (è il partito con il maggior tasso di riconferme di voto: 68%). In termini di flussi di voti, il partito guidato da Zingaretti, ha recuperato il 7% dei consensi da M5s, il 10% dall' astensione, il 6% dai partiti di sinistra e il 4% da quanti avevano votato per +Europa. Il Pd ha riconquistato un po' di Millennials (+6%) e di giovanissimi della generazione Z (+9%). Continua a non parlare con il mondo operaio (solo il 13% vota per il Pd), mentre ha ricominciato a ritessere il dialogo con i ceti poveri (+6%) e medio-bassi (+3%).
FELTRI DA GIUSSANO. Vittorio Feltri per Libero Quotidiano il 28 maggio 2019. Bisogna saper perdere, ma è difficile anche imparare a vincere. Occorre prudenza e capacità di gestirsi. Salvini ha ottenuto nelle recenti votazioni un risultato eccezionale, nonostante gli attacchi che gli hanno sferrato i giornali e le televisioni, gli avversari di ogni tipo, compresi gli alleati sciagurati del M5S, la magistratura, perfino la chiesa dei vescovi e dei parroci i quali non gli hanno risparmiato insulti, accusandolo addirittura di aver nominato invano il nome di Dio, come se l' Altissimo fosse monopolio delle gerarchie ecclesiastiche, roba loro e non di chiunque. I prelati di oggi sono smemorati, non ricordano che ai tempi della Dc erano stati attivisti indefessi. Sfruttarono slogan trasparenti: quando voti sappi che Stalin non ti vede mentre al padreterno non scappa nulla. E sorvoliamo sulla Madonna pellegrina mandata in giro per l' Italia intera allo scopo di riempire le urne a favore dello Scudo Crociato, vicenda di cui si occupa Antonio Socci con la consueta competenza. Insomma Matteo è stato massacrato su tutti i fronti e comunque è diventato il leader del primo partito nazionale. Perché? Il motivo è semplice, elementare. Egli è stato coerente. Ha fatto delle promesse e le ha mantenute. I suoi programmi incontrano il favore della gente normale. Che non ha grandi pretese, aspira solo a vivere senza troppi stranieri fra i piedi, desidera esercitare la legittima difesa, andare in pensione prima di morire, non pagare tasse pesanti. Il successo del Carroccio si spiega soltanto in questo modo: con la sua capacità di ascoltare le preghiere che arrivano dalle case popolari e di infischiarsene delle ubbie di chi risiede nei superattici e si affida ai progressisti per fighettismo congenito. Infatti la messe dei suffragi leghisti non è stata mietuta nei centri delle città bensì nei dintorni. I milanesi di San Babila e zone limitrofe hanno dato la preferenza al Pd, mentre gli abitanti economicamente più sfortunati si sono buttati tra le braccia di Alberto da Giussano. In provincia di Bergamo, che registra il più basso tasso di disoccupazione del Paese, la Lega ha raccolto il 51 per cento dei suffragi, e il M5S il 6,7. Un dato eloquente. Il popolo è con Salvini giacché egli non ha grilli per la testa: desidera solamente campare senza avere che fare con i problemi creati dall' immigrazione selvaggia e sogna una esistenza tranquilla. Anche l' affermazione di Giorgia Meloni va interpretata in questa chiave, siamo di fronte a una signora concreta priva di turbe psicologiche e pronta a interpretare le esigenze degli elettori. Niente di più né di meno. La politica non è un affare riservato a quattro finti intellettuali che cercano di essere alla moda, bensì riguarda tutti, perfino gli avventori del bar sport, il cui voto vale tanto quanto quello di ogni cittadino. Ora Salvini deve risolvere questioni importanti. Continuare a governare con i pistola pentastellati o cercare alternative praticabili? Non oso dargli consigli. È un fatto che il primo partito non può soggiacere a un branco di fessi che non fanno i nostri interessi e pensano al reddito di cittadinanza e robetta del genere. Si impone una svolta, più attenzione ai ceti produttivi e poca indulgenza verso i fannulloni. Il Nord è la locomotiva italiana e va sorretto. Servono le autonomie regionali, subito, serve una riduzione delle imposte, serve una amministrazione oculata. Il piagnisteo meridionale non può ispirare la nostra.
Il nemico e l'onda vuota della sinistra. Vittorio Macioce, Mercoledì 29/05/2019 su Il Giornale. Salvini non ha vinto contro tutti, ma contro il nulla. Le elezioni europee traducono in voti il solito, ottuso e testardo errore strategico dei sacerdoti della cultura di sinistra. Lo schema è sempre lo stesso. Si dice che il male sta arrivando e ha la faccia del nemico di turno. Questa volta tocca a Salvini, prima a Berlusconi, domani a qualcun altro. Funziona? No. Ormai è chiaro. È un po' come gridare continuamente «al lupo, al lupo». non sei credibile. Rendi, anzi, più forte la minaccia che tenti di scacciare. Salvini si nutre dell'energia di chi lo attacca. Sono stati gli altri, i suoi avversari, a piazzarlo al centro della scena. Sono stati loro a disegnarlo, dando corpo, sostanza, contorni alla sua figura. Salvini, Salvini, Salvini, il nome che rimbalza ovunque e si prende spazi, titoli, like e consensi. Tu lo chiami ombra nera e lui vince. Non basta. Quell'ombra nera si riflette su chi la pronuncia, torna indietro, e scarnifica idee, progetti, visioni, identità, storie. Desertifica. Sono almeno venticinque anni che questa maledizione di controbalzo apre squarci di nulla all'interno di una tradizione politica. Non se ne accorgono o non ne possono fare a meno, come se demonizzare l'avversario fosse l'unico modo per riconoscersi. Tutto questo ha un costo sempre più pesante, perché l'ossessione verso l'avversario ti fa dimenticare chi sei, da dove vieni, ti fa rinnegare pezzi di ideali e di futuro. Sei cieco e non hai più punti di riferimento, non hai una mappa e vaghi in cerchio in un passato senza fine. Che fine ha fatto per esempio la sinistra garantista o quella che incarnava il concetto retorico di popolo? Si fa fatica a ricordare una battaglia che non sia solo opposizione all'altro. Perfino i temi etici sembrano avere senso solo come risposta, come piazza, come protesta. Eppure in questi anni c'è stato il crollo dei salari, la perdita costante di posti di lavoro, la bancarotta di un welfare che ha l'ambizione utopistica di salvaguardare tutti ma non riesce a salvare gli ultimi, quelli che lo Stato non vede, non raggiunge, non conosce. Il welfare non è un'ossessione della sinistra, perché è più facile ripetere, spesso starnazzando, il mantra sull'eterno ritorno del fascismo. Non è un'ossessione neppure la riduzione delle tasse sul lavoro, l'architrave della crisi economica italiana. Qualcuno dirà: è una nostra battaglia, è nei nostri programmi. Certo, però a margine, perché per il resto del tempo si sta lì a macerare il nome del nemico, ogni santo e maledetto giorno. Il nemico è tutto e nel suo nome si può anche disprezzare questa democrazia senza qualità, che puzza di populismo e non garantisce la vittoria dei giusti, dei buoni, dei migliori. Tanto da dissacrarla, tanto da evocare la bestialità del suffragio universale. Nel nome del nemico la sinistra, perfino quella riformista e senza nostalgie togliattiane, ha rinunciato a tutto. Cosa è oggi? Il negativo della fotografia del suo nemico. È Salvini in chiaroscuro.
ÉLITE CONTRO POPOLO. Maurizio Belpietro per la Verità il 28 maggio 2019. Non c'è niente da fare, la sinistra non ce la fa proprio a rispettare un voto democratico. Perciò, quando perde, non si interroga sui propri errori, ma preferisce dare la colpa ad altri, delegittimando le elezioni. Se ne fa interprete il solito Gad Lerner, un giornalista che da anni coltiva con meticolosa cura il proprio complesso di superiorità. L' editorialista di Repubblica, in un tweet ha commentato il successo della Lega scrivendo che anche in passato «le classi subalterne si illusero di trovare tutela nella trincea della nazionalità e non finì molto bene». A parte il paragone con il fascismo, ciò che colpisce è la definizione di classi subalterne dette da uno che fino a ieri inneggiava alla classe operaia. Visto il tono di disprezzo, si capisce che il collega reputa chi abbia votato per Matteo Salvini una specie di essere inferiore, un minus habens che al contrario di lui si è fatto turlupinare. Non a caso, fra i compagni, ogni tanto spunta qualcuno che propone di limitare il diritto di voto alle classi colte, evitando che gli zoticoni tolgano a tipi come Lerner il diritto di farsi amministrare da persone del loro stesso censo intellettuale. Tuttavia, anche se penso che non impareranno mai a rispettare la volontà popolare, credo sia utile ricordare alcuni degli errori che hanno contribuito a rafforzare il consenso della Lega, perché nulla viene per caso e se Salvini è stato bravo a convincere milioni di italiani a votarlo, altrettanto capaci di far fuggire gli elettori sono stati i compagni. Anzi, a forza di insistere ad attaccare il Capitano della Lega, credo che abbiano ottenuto una reazione uguale e contraria, ovvero hanno fatto venir voglia a molti di votarlo. Basterebbe ricordare il caso del Salone del libro. Per la presentazione di un volume intervista in cui si parlava poco e niente della linea politica di Salvini, a Torino è stata organizzata un' indegna gazzarra. Con il risultato di fare una pubblicità gratuita, non solo al testo, ma anche all' intervistato. Il solito gruppo degli indignati speciali poi ha messo in scena il teatrino di cui è capace ogni volta che al governo ci sia qualcuno non gradito. Con Silvio Berlusconi prima s'inventarono i girotondi e le bandiere della pace, poi il No B day del Popolo viola, quindi la protesta dei Post it. Con il ministro dell' Interno, i creativi all' opposizione prima hanno concepito il selfie di contestazione, poi le lenzuola con le scritte anti Salvini. A sentire i compagni, si trattava di una rivolta dal basso, una specie di reazione popolare contro l' invasore leghista. A dare una mano, ovviamente, ha contribuito anche la rigorosa censura dell' Agcom, alla cui guida è stato posto un allievo di Mario Monti. Risultato, avendo proibito di parlare di immigrati, di rom, di islamici e di trans, alla fine, prima che calasse il bavaglio, gli italiani hanno votato in massa per il vicepremier lombardo. Per poi non parlare dell' Elemosiniere del Papa, che riattivando la luce agli abusivi ha fatto imbestialire tutti quelli che pagano regolarmente la bolletta anche a prezzo di sacrifici. L' elenco degli errori ovviamente è lungo e include le entrate a gamba tesa dei vari giornalisti, che quando si trovavano davanti Salvini o un argomento a lui caro non rinunciavano al desiderio di spernacchiarlo. Per non dire poi dei sondaggisti, che a un certo punto hanno scambiato i loro desideri con le intenzioni di voto. Lasciamo perdere poi gli attacchi con la bava alla bocca dei vari Moscovici e Macron: pensavano di dare una mano a Renzi e compagni e invece hanno dato un contributo in più al loro acerrimo nemico. Eh sì, Salvini è stato bravo a convincere 9 milioni di italiani ma, senza nulla togliere alle sue capacità, diciamo che è stato agevolato dall' incapacità (di capire) e dall' arroganza degli avversari. Forse, se lo stesso Luigi Di Maio non si fosse fatto prendere la mano, attaccando ogni giorno colui con il quale aveva stretto un' alleanza, probabilmente non tutti sarebbero corsi a mettere la crocetta sul simbolo della Lega. Con un po' più di moderazione, perfino certi eccessi tipo l' annuncio di aver abolito la povertà sarebbero sembrati meno gravi. Ma alla fine, tra i due litiganti, l' elettore ne ha scelto uno, giudicando il leghista più credibile del grillino. Di tutto ciò, dagli errori compiuti in una delle campagne più cruente che si ricordino, almeno fra persone formalmente insieme in maggioranza, il vicepremier e ministro del Lavoro però sembra aver preso coscienza. A differenza dei Lerner, lui non parla di classi subalterne, ma semmai si dice pronto a lavorare in sintonia con Salvini per ridurre le tasse. Certo, probabilmente lo farà obtorto collo. E però, almeno lui dimostra di avere capito che gli italiani non sono fessi e non si fanno abbindolare tanto facilmente. Saranno anche subalterni, come pensa il democratico editorialista di Repubblica (che tra liste di proscrizione e sprezzo del popolo si dimostra un vero intellettuale in camicia rossa), ma quando votano sono uguali ai compagni. E, soprattutto, quando votano, ogni tanto lo fanno da incazzati.
ÈLITE VS POPOLO. Liberoquotidiano.it il 6 agosto 2019. Barbara Palombelli schiaffeggia sonoramente la sinistra che attacca Matteo Salvini per un costumino e la pancetta in spiaggia. "Amo i balneari. Frequento e conosco quasi tutte le spiagge italiane...", scrive su Facebook la giornalista Mediaset, "se qualcuno pensa di andare contro il governo demonizzando chi sta al mare in maglietta, in pareo o in mutande, credo che abbia sbagliato strada". "A meno che non sia la coda di quel disprezzo per il popolo delle persone normali che assaggiai nel 2000", prosegue la Palombelli, sempre molto efficace nei suoi commenti, "quando conducevo il venerdì il Grande fratello su Stream... le migliaia di ragazzini in fila per un posto nella società mi avevano conquistato, sono loro il nostro futuro. Oggi e ieri. Vomitare snobismo contro le persone non va bene, se si fa politica (io per fortuna non la faccio, scrissi nel 2000 che la sinistra vera avrebbe cercato di tesserare quei ragazzi del Gf, non li avrebbe coperti di insulti per 20 anni...ti ricordi Fabrizio Rondolino?)". Una bomba, come sempre.
Azzurra Barbuto per “Libero” il 6 agosto 2019. Un uomo sulla Luna non suscita tanto scalpore quanto un politico sotto il sole, se quest' ultimo è il leader della Lega Matteo Salvini. Dopo essere stato criticato aspramente per alcune delle sue abitudini da normale essere umano, come mangiare il pane con la Nutella a colazione, addentare panini imbottiti all' ora di pranzo e preparare mega piatti di pasta asciutta la sera rincasando da una pesante giornata di lavoro, adesso il ministro dell' Interno è finito nel tritacarne mediatico perché reo di avere indossato nientepopodimeno che il costume da bagno in spiaggia con l' aggravante di essersi recato nella discoteca del lido dove i villeggianti hanno intonato l' inno di Mameli. La sinistra ha gridato allo scandalo, indignata dall' esposizione indecente di carne nuda da parte di un rappresentante delle istituzioni, il quale, secondo i progressisti, non dovrebbe andare al mare né spogliarsi di giacca e cravatta, bensì stare tappato nel suo ufficio persino nelle afose domeniche di agosto abbottonato fino al collo al fine di dare una parvenza di serietà. Il nostro inno nazionale sarebbe stato dissacrato dal ministro poiché suonato dentro un luogo di perdizione e volgare quale sarebbe la discoteca, tra ragazze in bikini e giovanotti in infradito. Come se non bastasse, qualcuno dei presenti al party sulla sabbia ha cantato "Faccetta nera" ed i radical-chic della penisola non ci hanno visto più. La canzone, scritta nel 1935 da Renato Micheli e musicata da Mario Ruccione, condannava la schiavitù ancora vigente in Etiopia e celebrava l' unione del popolo abissino con quello italiano, che si proponeva di liberare il primo dal giogo dello schiavismo. Per il Partito democratico, tutto ciò è intollerabile e Salvini ancora una volta è stato descritto come un ominicchio rozzo, un politico impresentabile, uno sporco fascista dai comportamenti imbarazzanti. Qualcuno ha persino commentato il fisico di Matteo, giudicandolo troppo in sovrappeso per scoprirsi con tanta disinvoltura. Roba che tutti gli italiani che non hanno superato la prova costume dovrebbero quantomeno incazzarsi rivendicando il diritto a non essere perfetti! Insomma, su giornali e canali televisivi non si è fatto altro che parlare della pancetta del vicepremier e del suo outfit come se si trattasse di una questione di Stato. Il centrosinistra mira a scardinare il potere di Salvini facendo leva sulle sue mutande, invece di proporsi quale alternativa valida e prestare attenzione ai problemi reali dei cittadini, inclusi quei milioni di abitanti del Belpaese che in piena estate frequentano spiagge e locali della movida. Eppure tanti politici, tra cui i membri del Pd, gli stessi che adesso si scandalizzano davanti alle immagini di Salvini sul bagnasciuga, allorché erano a capo di importanti dicasteri si concedevano le vacanze sui litorali, facevano il bagno a mare, si infilavano striminziti costumini, senza sollevare lo sdegno generale. È storica la fotografia di Giorgio Napolitano ed Enrico Berlinguer in ammollo nelle acque dell' Isola d' Elba, ovviamente a torso nudo. Correva l' anno 1978. Persino Sergio Mattarella nel mese di agosto raggiunge la Sardegna, come i suoi predecessori Francesco Cossiga, Carlo Azeglio Ciampi, il quale amava fare il bagno con la moglie, e Giorgio Napolitano, che tuttora non considera immorale tuffarsi nelle acque stromboliane in boxer. E ci mancherebbe! Il ministro dell' Istruzione del governo Renzi, Stefania Giannini, era stata immortalata addirittura con le tette al vento mentre se ne stava abbandonata sulla sua sdraio. Negli anni Ottanta il "cinghialone" Bettino Craxi sfoggiava il suo fisico bestiale sulle spiagge tunisine. Aldo Moro negli anni Settanta arrivava su quella di Terracina in ciabatte e pantaloncini, portandosi dietro ombrellone e sdraio, proprio come Walter Veltroni, il quale preferiva Sabaudia. Nel 1998 non hanno turbato nessuno le foto del Mortadella, ossia Romano Prodi, in ferie a Gallipoli con culottes e ciccia in evidenza. Umberto Bossi negli anni Novanta esibiva un costumino striminzito. L' allora leader di Alleanza Nazionale, Gianfranco Fini, invece, vestiva braghe mimetiche, e nient' altro. A Capalbio nello stesso periodo storico era facile ammirare l' asciutto e pallido Piero Fassino passeggiare lungo la riva con addosso un microscopico slip. Meglio una pancia prominente che l' asciugamano posto ad altezza ascellare con il quale Pierferdinando Casini è solito cingere il suo girovita. I democratici che oggi si mostrano schifati davanti a Salvini a petto nudo, non hanno fatto una piega di fronte all' allora primo ministro Matteo Renzi, paparazzato più volte nelle medesime condizioni. E dopo di lui fu il turno di Paolo Gentiloni. Del resto, chi mai potrebbe pretendere che i politici se ne stiano sotto l' ombrellone o in piscina con la giacca? O che essi non vedano mai la luce del sole, che bacia i belli sì, ma anche i brutti? Assurdo ma vero: il leader più discusso per il suo look estivo non è il capo del Carroccio, bensì proprio il più castigato, colui che non mostra neanche un centimetro di pelle, ossia Silvio Berlusconi, il quale durante il soggiorno a Porto Cervo indossa bandana, camicia e pantalone. Il tutto rigorosamente bianco. Del resto, la classe non è acqua. Forse ministri e deputati andrebbero valutati per il loro operato e non per forma fisica e gusto nell' abbigliarsi. Meglio un capo di Stato o di governo in mutande che non uno che in mutande ci lascia.
· Compagni coltelli.
La sindrome auto-distruttiva della sinistra: candidare i giudici che poi la accoltellano. Da D'Alema e Bersani a Renzi e Zingaretti il masochismo si ripete: gli ex pm cooptati in politica li mollano. Ultimo caso Roberti, che paragona il Pd alla P2. Laura Cesaretti, Domenica 09/06/2019, su Il Giornale. C'è una sindrome auto-distruttiva che affligge la sinistra, e il Pd in particolare. Una sorta di masochistica coazione a ripetere, che la spinge ad inseguire, corteggiare, cooptare, proiettare ad altissime cariche e cingere di allori politici (e prebende) gli esponenti di una particolare categoria, per poi esserne regolarmente accoltellata alle spalle. La categoria in questione è quella dei magistrati, con una voluttuosa predilezione per i magistrati dell'accusa. Che, a quanto pare, hanno un debole per la qualifica di «onorevole», ma una volta piazzatisi sullo scranno continuano a sentirsi addosso la toga da pm. Il caso Roberti è solo l'ultimo esempio: per imperscrutabili ragioni, l'ex procuratore nazionale antimafia è stato scelto da Zingaretti come capolista alle Europee. Lui accettò la sinecura: «È un grande onore che lo abbia fatto», si commosse il segretario. Tempo due settimane, e il neo europarlamentare si scaglia contro il partito che lo ha gentilmente eletto, paragonandolo en passant alla P2 e scaricandogli addosso tutta la colpa dello scandalo degli incarichi giudiziari che, in verità, investirebbe i suoi colleghi magistrati. Ma no, dice Roberti, la colpa è della politica, a cominciare dal Pd, che vuole influenzare la giustizia, e non certo delle correnti dei magistrati, che anzi - declama - si occupano della «elaborazione del pensiero della giustizia». Mica di posti e carriere. Ma appunto, Roberti è solo l'ultimo di una lunga serie. La contiguità tra sinistra e toghe ha radici nella protogrillina «questione morale» di Berlinguer, ma è nel post Mani Pulite che raggiunge il parossismo. Il caso emblematico è quello di Tonino Di Pietro, fatto ministro da Prodi (che da pm aveva torchiato), poi candidato al Mugello da D'Alema, poi fondatore di Italia dei Valori con cui corse contro l'Ulivo, poi ricooptato da Prodi nell'Unione e rifatto ministro delle Infrastrutture. Una mina vagante in quel già scombiccherato governo: memorabili le sue risse con Mastella, gli attacchi a Napolitano, le manifestazioni di piazza contro provvedimenti del suo medesimo esecutivo. Eppure, nel 2012, Bersani riprese a corteggiarlo strenuamente per convincerlo ad allearsi con lui nella coalizione «Italia Bene Comune». Andò a finir male, come è noto. Fu il medesimo Bersani a pescare ancora nel serbatoio del pool Mani Pulite quando ebbe la luminosa idea di inserire la famigerata «società civile» nel Cda della Rai, a occuparsi di nomine e cadreghe tv. Il pm Gherardo Colombo si prese il posto, e poi non solo votò quasi sempre contro le indicazioni del partito, non solo ne disconobbe il padrinaggio («Non sono in Rai grazie al Pd», e a chi quindi?) ma fece pure un numero a colori quando il medesimo Pd votò un presidente della Repubblica a lui sgradito (Napolitano, mentre a lui piaceva il Rodotà-tà-tà sponsorizzato dai grillini): «Domani mi iscrivo al Pd per poter stracciare la tessera», maramaldeggiò via Twitter. «Già che ci sei, straccia pure la poltrona che ti ha dato il Pd in Rai», replicò un suo sarcastico follower. Consiglio non seguito, naturalmente. E che dire dell'inneffabile Pietro Grasso, anche lui ex procuratore antimafia che il solito, lungimirante Bersani volle capolista nel 2013, e che poi - nel disastroso inizio di legislatura - si ritrovò miracolato alla presidenza del Senato, come esca per attirare voti grillini sul governo - mai nato - del segretario Pd. Partito che se lo ritrovò quasi sempre contro, nelle sue decisioni da presidente, fino a vederlo capeggiare la scissione insieme all'armata Brancaleone di «Liberi e uguali»: «Il Pd ha cambiato volto, tocca a noi tenere alti i valori della sinistra», annunciò. Non andò benissimo. Ma anche Matteo Renzi ha inciampato nella sindrome-pm: stava per fare ministro della Giustizia il procuratore calabrese Gratteri, che aveva accettato chiedendo «carta bianca», e fu fermato solo dal provvidenziale intervento di Napolitano. Gratteri ci rimase male: «Avrei voluto fare una rivoluzione». Invece niente, è rimasto a fare il magistrato, e si occupa di indagare esponenti Pd in quel di Calabria, elogiato dai grillini. E che dire di Michele Emiliano? Da pm indagava sui dalemiani, finché D'Alema non gli propose di fare il sindaco di Bari. Diventò renziano con Renzi, ma quando non venne candidato alle Europee diventò ferocemente antirenziano, e iniziò ad inseguire il M5s: No Tap, No Ilva, No guerra alla Xylella. La Puglia è in macerie, il Pd pugliese è crollato ai minimi termini. Ma sono persino capaci di ricandidarlo, nel 2020.
Compagni coltelli. Fabio Martini per La Stampa. L’ascesa al Quirinale di un outsider come Sergio Mattarella fu possibile grazie a un colloquio riservato tra due personaggi che non si parlavano da anni e che non si sarebbero più incontrati: Matteo Renzi e Pierluigi Bersani. Lo racconta Chiara Geloni nel suo «Titanic», un libro che descrive le vicende che hanno logorato e rimpicciolito il Pd negli ultimi anni. È il 27 gennaio del 2015 e dopo le dimissioni irrevocabili di Giorgio Napolitano, è il momento di eleggere il nuovo Capo dello Stato e il presidente del Consiglio Matteo Renzi scrive un sms a Pierluigi Bersani: «Sono Matteo, incontriamoci». Bersani sobbalza: lui e Renzi oramai convivono nel Pd da separati in casa e non si vedono a quattr’occhi da anni. Parla Bersani: «Escludiamo tra i nomi che stanno girando quelli palesemente inadeguati, perché non è il momento di scherzare, non pensare di portarmi il gatto di casa o Chance il giardiniere, ma neanche il caso di infilarti nelle antiche vicende della sinistra, Veltroni, Fassino, D’Alema, Bersani… Se tu proponi Amato o Mattarella, io ci sto. Su Amato gli schizzi sono pronto a prenderli con te e alla fine ce la facciamo. Su Mattarella, problemi zero, e lo sai». Senza esitazioni, Renzi annuisce: facciamo Mattarella. Prima che i due si salutino, Renzi aggiunge: «Per quella cosa della Cina è tutto a posto…», alludendo alla nomina di un ambasciatore gradito a Bersani. Passano dieci giorni e l’ambasciatore nominato è un altro.
Lo sgarbo di Renzi e Merkel. L’aneddoto sulla scelta di Mattarella è uno dei tanti contenuti in un libro ricco di retroscena inediti e scritto da una giornalista che è stata direttore di Youdem (la tv del Pd) e che non ha mai nascosto la sua vicinanza all’area di Pierluigi Bersani. Ma il libro, pur segnato da una doppia pregiudiziale (di simpatia per chi ha lasciato il Pd e di avversione per Matteo Renzi) non fa sconti a nessuno. E la forza di «Titanic» (Edito da PaperFirst) sta nei tanti episodi eloquenti, che l’autrice ha il merito di far affiorare e che parlano più di ogni interpretazione. Nel luglio 2013 trapela sui giornali la notizia che la cancelliera Merkel ha ricevuto a Berlino il sindaco di Firenze Renzi. Geloni rivela che il presidente del Consiglio Enrico Letta non era stato preavvertito dal sindaco, ma dalla Merkel e in modo rocambolesco: «Eravamo in ascensore a Bruxelles e mi disse: vedrò Renzi, siete in ottimi rapporti, vero?». Commento di Letta: «Non potevo che sorridere ma fu un gesto sgarbato da entrambe le parti».
I bersaniani per Matteo. Nei primi giorni del 2014 il neo-segretario Renzi incalza la sinistra del Pd, gli fa capire di essere pronto a sostituire Enrico Letta a palazzo Chigi. In quelle settimane Bersani è in convalescenza a Piacenza e dal libro, dopo 5 anni, affiora il messaggio che inviò ai suoi: «Se pensate che sia meglio sostituire Letta, trovate il modo di gestire la cosa con lui. Con meno di questo desistete». Ma i bersaniani non ascoltarono il segretario e in Direzione votarono compatti per la defenestrazione di Letta. Commentò Bersani dalla sua casa di Piacenza: «Forse divento civatiano...», visto che Pippo Civati era stato l’unico della minoranza a votare contro la relazione di Renzi che “spianava” Letta.
Il Midas fallito. Altro episodio inedito: Renzi, oramai a palazzo Chigi, si rende conto che una minoranza così tenace, gli è di ostacolo e nel luglio 2014 invita nello studio giallo Speranza, D’Attorre, Fassina e Martina e gli fa un discorso del tipo: «Rottamate Bersani e D’Alema e poi ce la vediamo noi». Una presa del potere dei quarantenni, tipo il Midas di Craxi. I primi tre dicono no, il quarto andrà a “vedere”.
Le confessioni di D’Alema. Nel libro, che non è omissivo sui limiti dell’“operazione-scissione”, sono contenute diverse e importanti riflessioni di Massimo D’Alema. Sull’idea originaria del Partito democratico («Io non ero mai stato convinto del progetto del Pd»), sulla sua candidatura nelle liste di Leu e sul flop di quel progetto: «Non dovevo candidarmi, dovevo accompagnare. Abbiamo sbagliato a non capire che quell’operazione andava costruita intorno a figure nuove. Abbiamo dato l’idea di un ceto politico che non voleva farsi emarginare. Siamo apparsi come un concentrato di nomenclatura: una gloriosa fine, non un nuovo inizio».
I divieti di Orfini. Nelle travagliate vicende del Pd romano, culminate nell’auto-affondamento del sindaco Marino e nella successiva, nettissima sconfitta in Campidoglio, a un certo punto Renzi affida il commissariamento del partito locale a Matteo Orfini, che tra l’altro assume una decisione molto originale e che il libro rivela: vennero «vietate le riunioni di partito, salvo esplicita e motivata richiesta di autorizzazione».
Il fattore umano. Nel libro si raccontano i complicatissimi rapporti politici e umani tra l’area di Articolo 1 e alcuni «compagni di strada» come Giuliano Pisapia e Pietro Grasso, anche se il dato più spiazzante riguarda i rapporti tra i due personaggi che hanno guidato il Pd tra il 2009 e il 2018, Bersani e Renzi. Geloni racconta che i due nell’arco di dieci anni hanno avuto due soli faccia a faccia. Il secondo, per concordare il candidato al Quirinale e quella fu l’unica volta che andarono d’accordo, lasciando al Paese un presidente come Mattarella. Mentre il primo incontro risaliva al 2012. Bersani era stato a Firenze e i giornalisti gli chiesero come mai non volesse incontrare il sindaco Renzi. Il segretario del Pd restò spiazzato: da Renzi un incontro non era mai richiesto e Bersani – capita l’antifona - lo fissò appena rientrato a Roma. Il vis-à-vis si tenne e alla fine Bersani omaggiò il suo ospite con una citazione del Boccaccio: «Matteo, paioti io uomo da dover essere uccellato?». Come dire: fai e di’ quel che vuoi, ma non pensare di potermi prendere in giro.
· Quelli che…il tricolore.
“GIORGIO GORI USA IL TRICOLORE COME UNO STROFINACCIO”. Gabriele Laganà per il Giornale l'11 maggio 2019. GIORGIO GORI. Sta scatenando un mare di polemiche sul web, e non solo, il gesto a dir poco discutibile compiuto dal sindaco Pd di Bergamo Giorgio Gori nel corso dell’inaugurazione di un parco pubblico situato nel quartiere periferico di Valtesse. Il primo cittadino, infatti, ha utilizzato la bandiera italiana come un semplice straccio per lucidare una targa. L’azione, immortalata dalle telecamere di una emittente tv, sta inevitabilmente facendo il giro della rete. Durante la cerimonia di inaugurazione sono state svelate due targhe: una in memoria di Davide Ferro, noto ingegnere della zona deceduto in un incidente stradale, e l’altra dedicata a Lea Garofalo, una collaboratrice di giustizia uccisa dalla ‘ndrangheta. Nelle immagini si vede Gori che si avvicina alla targa dedicata alla donna e, con assoluta nonchalance, la lucida minuziosamente con il Tricolore. Una “svista” quella del sindaco della città orobica? Non si sa. Di certo, il gesto non è piaciuto al popolo del web. La polemica, però, ha valicato il confine del mondo virtuale ed ha acceso anche una polemica politica. Giorgia Meloni è stata tra i primi ad attaccare Gori per il gesto poco rispettoso compiuto nel corso della cerimonia. “Con estremo rispetto per la memoria della collaboratrice di giustizia e vittima della ‘ndrangheta Lea Garofalo, chiedo: ma il Sindaco Pd di Bergamo non poteva portarsi un panno anziché utilizzare la nostra bandiera per pulire la targa? Ecco la stima che hanno del nostro tricolore” , ha tuonato la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni su Twitter.
Pulisce targa col tricolore: Gori potrebbe rischiare fino a 2 anni di carcere. L'articolo 292 del codice penale punisce con il carcere "chiunque pubblicamente e intenzionalmente distrugge, disperde o deteriora la bandiera nazionale". Francesca Bernasconi, Martedì 14/05/2019 su Il Giornale. Prende il tricolore italiano e pulisce la targa commemorativa dedicata a Lea Garofalo. Per questo il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, era finito al centro delle polemiche e delle critiche e la foto del gesto aveva fatto il giro del web, nei giorni scorsi. Un gesto che potrebbe costargli anche la galera. L'articolo 292 del codice penale, infatti, dispone che" chiunque vilipende con espressioni ingiuriose la bandiera nazionale o altro emblema dello Stato" venga punito con una pena pecuniaria, che "nel caso in cui il medesimo fatto sia commesso in occasione di una pubblica ricorrenza o di una cerimonia ufficiale" può essere aumentata. Al secondo comma, l'articolo stabilisce che "chiunque pubblicamente e intenzionalmente distrugge, disperde, deteriora, rende inservibile o imbratta la bandiera nazionale o altro emblema dello Stato è punito con la reclusione fino a due anni". Inoltre, una sentenza del dicembre 2003 della Corte di Cassazione, spiega che la bandiera nazionale deve essere sempre tutelata "per il suo valore simbolico, suscettibile, per sua natura" dalle lesioni che provengono "anche da semplici manifestazioni verbali di disprezzo, la cui penale rilevanza, ai fini della configurabilità del reato, richiede quindi soltanto la percepibilità da parte di altri soggetti". Il gesto compiuto dal sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, sembrerebbe presentare, secondo quanto riporta la Verità, tutti gli elementi tipici del reato regolato dal secondo comma dell'articolo 292: intenzionalità del gesto, che viene percepito come una forma di disprezzo nei confronti della bandiera, il deterioramento del tricolore, dovuto al fatto che è stato usato per lucidare la targa, e la ricorrenza pubblica in cui è stato commesso il gesto.
Non è di sinistra. E Sala dimentica il Tricolore. Pubblicato domenica, 12 maggio 2019 Giannino Della Frattina su Il Giornale.it. Non c'è niente da fare. La sinistra ci prova, ma proprio non riesce. La verità è che non ce l'ha nel Dna. Perché ad accogliere i 500mila dell'adunata ci voleva una Milano completamente imbandierata. Vestita da gran festa col Tricolore, così come hanno fatto le altre città. E a maggior ragione quest'anno, visto che l'Associazione degli alpini le aveva fatto il grande onore di sceglierla per i suoi cent'anni. E, invece, niente. Qualche bandierina lungo il percorso dello sfilamento, orribili pannelli da cantiere in Piazza Scala dove è arrivata la gloriosa Bandiera di guerra del Quinto Alpini e nient'altro. Hanno fatto meglio i cinesi con via Sarpi imbandierata. Altre città avevano regalato a tutte le famiglie una bandiera da esporre alla finestra. Forse anche a Milano si sarebbe potuto fare. Magari con uno sponsor o limitandosi al centro che avrebbe così offerto uno spettacolo più consono. E cosa dire della Galleria che ha ospitato migliaia di penne nere e cori da far venire la pelle d'oca. Sembra impossibile, eppure non s'è visto nemmeno un Tricolore. Solo insegne del lusso: quei Prada, Vuitton, Swarowski, Gucci e Cracco, di fronte alle cui vetrine (e soprattutto prezzi), gli alpini si son fatte grasse risate. Ed è bene che il sindaco Sala di fronte alle telecamere dica che "se rinasco voglio fare la naja negli alpini". Magari imparerebbe che un'adunata si accoglie dipingendo di Tricolore la città. Così come i sacerdoti della Costituzione che la brandiscono per impedire a una casa editrice bollata come "sovranista" di partecipare al Salone del libro, dovrebbero rileggersi l'articolo 12. Quello della bandiera. Certo, a risentire i cori degli alpini si può ben capire il disagio dell'uno e degli altri. "O, valore alpin/difendi sempre la frontiera/e là sui confin/tien sempre alta la bandiera". Non solo. "Sentinella, all'erta/per il suol nostro italiano/dove amor sorride/e più benigno irradia il sol". E poi la preghiera. "Rendi forti le nostre armi contro chiunque/minacci la nostra Patria, la nostra Bandiera/la nostra millenaria civiltà cristiana". Frontiere e confini da mantenere? Suolo italiano? Patria da difendere con le armi e millenaria civiltà cristiana? Per non parlare del Piave, dove non passa lo straniero. Concetti che non cozzano con l'aiuto al prossimo, ma che per questa triste sinistra sono effettivamente troppo difficili da digerire.
· Ritorno al Passato.
ZINGARETTI ELOGIA L’UNIONE SOVIETICA. Antonio Socci per Libero Quotidiano il 10 maggio 2019. Mentre divampa la polemica sul fascismo in assenza di fascismo (e i media si occupano da giorni del minuscolo gruppetto di Casapound), scoppia nel Pd una questione enorme sul comunismo sovietico e ad innescarla è lo stesso segretario Zingaretti. Il suo libro "Piazza grande" provoca infatti uno "scazzo grande" fra lui e Claudio Petruccioli, che non è uno qualunque, ma è un pezzo da novanta della storia del Pci e dei suoi derivati. A seminare zizzania è stata Maria Teresa Meli che, sulle pagine romane del Corriere della sera, ha recensito il libro di Zingaretti citando, a un certo punto, questa sua frase: «Se non ci fosse stata l' Unione sovietica non sarebbero state possibili le lotte dei partiti democratici e di sinistra». La Meli commenta: «Un' osservazione, questa, che sicuramente non risulterà gradita ai renziani». Petruccioli riporta il virgolettato attribuito a Zingaretti e verga un tweet sarcastico e durissimo: «Trent' anni dopo la caduta del muro di Berlino, Zingaretti riporta l' orologio al 1945. Anche questo è un modo per convincersi di avere un futuro». Un giudizio pesantissimo. Trattandosi di questioni scottanti che riguardano un partito come il Pd, è singolare che la polemica sia stata ignorata dai media. Peraltro, andando a leggere il contesto di quella frase, si scopre che Zingaretti dice anche un' altra cosa esplosiva che - di per sé - basterebbe a seppellire l' esperienza dell' Ulivo e del Pd. Ma prima vediamo il passaggio sull' Urss: «Fino al 1989» scrive Zingaretti «la presenza di grandi potenze, internamente fradice e dittatoriali, ma alternative al capitalismo, aveva costituito un oggettivo deterrente a costruire un mondo unidimensionale e senza difese rispetto alle forme più estreme di sfruttamento. Spero che ora nessuno mi attribuisca in malafede nostalgie filosovietiche se rilevo che probabilmente nel dopoguerra, non ci fosse stata l' Unione Sovietica, ciò che è avvenuto in Grecia con la strage di tutti i comunisti sarebbe avvenuto in tutta Europa. Non sarebbero state possibili le lotte dei partiti di sinistra e democratici né il compromesso sociale che oggi in Europa è un esempio per tutto il mondo civilizzato». Zingaretti aveva messo le mani avanti sull' Urss con una "excusatio non petita", ma la polemica è scoppiata lo stesso. Ovviamente il segretario del Pd non ha "nostalgie filosovietiche", ma il suo argomento è molto discutibile e dimostra - se non altro - che il Pci e i suoi eredi non hanno mai veramente fatto i conti con il comunismo. Come fu osservato negli anni Novanta, hanno sbrigativamente cambiato il cappotto senza cambiare le mutande. E lo hanno fatto perché il muro di Berlino non rovinasse sulla loro testa. Infatti Achille Occhetto ancora nel marzo 1989, otto mesi prima della caduta del Muro, durante il Congresso del Pci, a Craxi, che gli chiedeva di cancellare il nome "comunista", rispose a muso duro (fra grandi applausi): «Non si comprende perché dovremmo cambiar nome. Il nostro è stato ed è un nome glorioso che va rispettato». Appena otto mesi dopo - con il crollo del muro di Berlino - Occhetto si precipitò alla Bolognina ad annunciare il cambio del «nome glorioso» che d' improvviso era diventato imbarazzante. Fu un' operazione gattopardesca perché non fu mai accompagnata da una vera e dolorosa riflessione autocritica sul comunismo. Cionondimeno, dopo la vicenda Mani pulite che spazzò via i grandi partiti democratici, i comunisti, che avevano cambiato nome, paradossalmente arrivarono al potere: grazie al "passaggio" che fu dato loro dalla sinistra dc, con la leadership di Romano Prodi. I post-comunisti, per far dimenticare di essere stati comunisti fino al giorno prima, aderirono alla nuova ideologia dominante, quella mercatista che - fra l' altro - aveva partorito il Trattato di Maastricht, la Ue e l' euro. L' emblematico bilancio di quel periodo sta in un intervento di Massimo D' Alema a "Porta a porta" nel quale, qualche anno fa, dichiarò: «durante i governi di centrosinistra si sono fatte più riforme e privatizzazioni di quante se ne siano fatte dopo il paradosso italiano è che è stato il centrosinistra a smontare l' Iri, non il centrodestra Dunque privatizzazioni, liberalizzazioni, riforma delle pensioni. Noi abbiamo portato la lira nell' euro, noi abbiamo compresso la spesa pubblica». Le elencava come delle vittorie, ma era la vittoria del Mercato e l' archiviazione dello stato sociale. L' imperante globalizzazione in tutta Europa usò, per questa svolta mercatista (e antipopolare), proprio le forze di sinistra che avrebbero dovuto difendere le classi popolari. Nel libro di Zingaretti si trova la conferma. Egli infatti osserva che con «la dissoluzione del blocco dei paesi comunisti ci siamo accontentati di levarci di dosso quel nome, "comunismo", che il socialismo reale aveva gettato nel fango». Ma emerse «l' insufficienza delle forze progressiste rimaste sul campo come contrappeso all' aggressività dell' ordoliberismo che già covava lungo tutti gli anni ottanta con Reagan e la Thatcher. Rintraccio qui la radice di una nostra progressiva subalternità». Cioè hanno subito «un' egemonia culturale e pratica del campo avversario», quello ordoliberista, «fino a mutuare luoghi comuni, tabù, atteggiamenti e linguaggi che ci hanno allontanato dalla sensibilità popolare». Così la sinistra ha tradito e quindi perso il popolo che oggi, infatti, vota altrove. Zingaretti conclude: «È ora di rimediare». Solo che per "rimediare" Zingaretti dovrebbe rinnegare tutte le scelte strategiche di Ulivo e Pd, a cominciare da Maastricht e dall' euro: 25 anni di errori. Dovrebbe riconoscere l' ennesimo fallimento storico. Un altro crollo del muro di Berlino. O di Bettino.
Alessandro Gnocchi per Il Giornale il 10 maggio 2019. Chiara Appendino e Sergio Chiamparino entrino in azione. Non si può tollerare che uno stand del Salone di Torino esponga un libro-intervista che offende la comunità del Salone stesso. Un sincero democratico deve dissociarsi: non si dialoga con chi rivaluta i totalitarismi dalla Storia. Invitiamo gli scrittori con una coscienza civile a boicottare il Salone: dalla defezione alla presenza con riserva, tutto va bene contro il ritorno di pagine buie che credevamo dimenticate. Il sindaco di Torino e il governatore del Piemonte, custodi della libertà di espressione, valutino se ci siano gli estremi per una denuncia alla magistratura. In ogni caso, consigliamo di rescindere il contratto all' editore che ha pubblicato un testo in contrasto con i valori democratici. No, non stiamo parlando dell' editore Altaforte, estromesso dal Salone per aver pubblicato un libro-intervista a Matteo Salvini firmato dalla nostra Chiara Giannini. Altaforte, per quanto sia fascista il proprietario Francesco Polacchi, non ha in catalogo neppure un titolo in aria di apologia del fascismo. Polacchi ha sbagliato? Lo si condanni. Ma perché censurare i libri? Comunque stiamo parlando dell' editore Feltrinelli che ieri, al Salone, esponeva Piazza grande, il nuovo libro di Nicola Zingaretti, leader del Partito democratico. Nell' intervista che chiude il volume, Zingaretti ammette la natura dittatoriale dell' Unione Sovietica, ma, nonostante tutto, trova modo di rivalutarne il ruolo in un passo che farà spanciare di risate gli storici e tremare di orrore i discendenti delle vittime (anche italiane) del compagno Stalin: «Fino al 1989 la presenza di grandi potenze, internamente fradice e dittatoriali, ma alternative al capitalismo, aveva costituito un oggettivo deterrente a costruire un certo mondo unidimensionale e senza difese rispetto alle forme più estreme di sfruttamento. Spero che ora nessuno mi attribuisca in malafede nostalgie filosovietiche se rilevo che probabilmente nel dopoguerra, non ci fosse stata l' Unione Sovietica, ciò che è avvenuto in Grecia con la strage di tutti i comunisti sarebbe avvenuto in tutta Europa. Non sarebbero state possibili le lotte dei partiti di sinistra e democratici né il compromesso sociale che oggi in Europa è un esempio per tutto il mondo civilizzato». Senza l' Urss non ci sarebbero stati neppure milioni di morti. In buonafede, se Zingaretti ce la concede, annotiamo che l' Unione Sovietica ha fatto di tutto per cancellare dal pianeta Terra i partiti socialisti ma democratici, per rendersene conto basta una ripassata ai fatti di Spagna, Budapest e Praga. Naturalmente stiamo scherzando (ma non troppo). L' editore Feltrinelli, che stimiamo pur non condividendone le idee, è liberissimo di pubblicare e vendere quello che vuole. Zingaretti, che stimiamo pur non condividendone le idee, è liberissimo di scrivere quello che vuole. Resta da chiedersi se il libro rientri nei parametri illiberali fissati dalla direzione del Salone e confermati da Appendino e Chiamparino.
· Onesti…a chi?
Da ilfattoquotidiano.it il 21 novembre 2019. I soldi che il costruttore Luca Parnasi verso alla fondazione Eyu erano un “finanziamento mascherato” al Partito democratico. A dirlo ai pm della procura di Roma è lo stesso imprenditore in un interrogatorio del 28 giugno dell’anno scorso. Parnasi è stato arrestato nel 2018 con l’accusa di corruzione nell’inchiesta sullo stadio della Roma. I finanziamenti dell’imprenditore romano a società e fondazioni vicini al Pd e alla Lega hanno fatto finire sotto inchiesta l’allora tesoriere dei dem, Francesco Bonifazi, ora con i renziani di Italia Viva, e Giulio Centemero, responsabile dei conti del Carroccio. Il costruttore conferma di aver finanziato in modo illecito il Pd, attraverso la fondazione Eyu, mentre nega che il denaro girato all’associazione Più Voci sia una mazzetta alla Lega. “Sia io che mio padre – ha raccontato ai pm – abbiamo sempre sostenuto il Partito Democratico con finanziamenti ufficiali. Ho conosciuto la fondazione Eyu tre o quattro anni addietro. Francesco Bonifazi nel periodo dell’ultima campagna elettorale mi chiese di raggiungerlo alla sede del partito e mi rappresentò la possibilità di acquistare uno studio di fattibilità sulla casa condensato in un volume di poco più di un centinaio di pagine. Io aderii e effettuai l’acquisto con la immobiliare Penta Pigna sebbene non avessi né come persona né come gruppo alcun interesse a questo studio. Fu un modo per far affluire liquidità al Pd”. Una versione che smentisce completamente quando raccontao ai pm da Bonifazi, indagato per emissione di fatture false e finanziamento illecito ai partiti, che ha negato di sapere nulla su quello studio venduto a Eyu all’immobiliare vicina a Parnasi in cambio di 150mila euro. Ai pm l’ex tesoriere dem ha detto aver solo messo in contatto Parnasi e Domenico Petrolo, il responsabile relazioni esterne di Eyu: “Di ciò che è accaduto dopo quella stretta di mano non so niente. Il Nazareno è davvero un corridoio lunghissimo. Per arrivare incontri prima Petrolo che me, io ero nella parte finale del corridoio, diciamo la parte nobile del Nazareno”. “Bonifazi in concreto era per me da un lato rappresentante di Eyu e dall’altro rappresentante, quale tesoriere, del Partito democratico”, ha detto Parnasi. “Per me – ha aggiunto il costruttore – fu un modo di fare affluire, come in passato, finanziamenti al Pd, con la differenza che i precedenti finanziamenti passavano per delibera ufficiale della società. Questo finanziamento viene mascherato da questo contratto di acquisto per l’importo di 150mila euro”. Al contrario per Parnasi sarebbero leciti i soldi donati all’associazione Più Voci, vicina al tesoriere della Lega Centemero, indagato solo per finanziamento illecito. “Con riferimento all’associazione Più Voci, a cavallo tra il 2015 e 2016 io ho effettuato due bonifici di 125mila euro. L’associazione era rappresentata da Giulio Centemero che io conoscevo e che era il tesoriere della Lega. Formalmente era un’associazione che promuoveva lo sviluppo immobiliare nel Nord Italia e io avevo interesse a finanziarla perché mi apriva la strada per estendere la mia attività anche in quella zona”, ha sostenuto il costruttore. Secondo alcuni messaggi scambiati su Telegram tra gli indagati, Centemero portò a cena a casa di Parnasi anche Matteo Salvini e Giancarlo Giorgetti. “Ci furono due cene, una Roma e una Milano. In quest’ultima cena intervennero una decina di imprenditori di tutti Italia ed era presente Parisi e solo per un saluto Salvini. Nella cena a Roma intervenne Salvini e forse anche la Meloni. Non so se lei sia intervenuta ma certo era in programma la sua presenza. In ciascuna delle due cene doveva essere presente il candidato sostenuto dall’associazione a Roma (Meloni) e a Milano (Parisi). Non si trattava di un finanziamento al partito. Centemero, tesoriere della Lega mi propose di dare questo sostegno all’associazione e io effettuato l’erogazione per sostenere l’associazione. Nelle conversazioni intercettate io ero solo preoccupato che tutto fosse stato fatto regolarmente”, dice Parnasi che si riferisce ai messaggi scambiati con Centemero dieci giorni prima della cena ai Parioli: “Sto organizzando il 19 a casa mia. Che ne dici?”, scrive il costruttore. “Direi ottimo. Fammi avere coordinate e ora per favore”, è la risposta del leghista. Che si spinge oltre e chiede: “Per Iban et similia facciamo de visu o vuoi tutto in anticipo?”. E in effetti i due si danno appuntamento per il giorno seguente in stazione Centrale a Milano. Nei giorni seguenti Centemero torna a scrivere al costruttore: “Ciao Luca, volevo ringraziarti molto per la cena, hai messo al tavolo delle persone di valore e sono contento Matteo ci si sia confrontato”. Dalla conversazione è impossibile risalire a chi fossero gli altri invitati, di certo la risposta di Parnasi fa capire che l’incontro fosse riservato. “Come fa Francesco Storace a sapere della cena con Matteo?”, chiede il palazzinaro. “Mmm Storace? O glielo ha detto Matteo – ipotizza Centemero – o l’addetta stampa di Matteo. Indago… oppure Storace ha contatti in questura (Matteo gira con la scorta)”.
Federico Giuliani per ilgiornale.it il 17 novembre 2019. La Guardia di finanza non sarebbe riuscita a tracciare l'esatta provenienza di alcuni fondi utilizzati negli ultimi anni dal Partito Democratico. Secondo quanto riportato dal quotidiano La Verità, le autorità fiscali avrebbero definito "sospetta" l'operatività della Fondazione Eyu, la stessa dalla quale sarebbero partiti i flussi di denaro senza giustificativi, nonché la stessa guidata da Francesco Bonifazi, ex tesoriere del Partito Democratico fino al marzo 2019. I soldi misteriosi sarebbero finiti sui conti di Democratica srl, una società in liquidazione che gestiva le testate L'Unità, Europa e Donna Europa. Analizzando nel dettaglio i bilanci di Eyu, si scopre come i suoi conti siano pressoché in ordine, con 1.444.527 euro in entrata e 1.401.856 in uscita. Eppure c'è qualcosa che non convince le Fiamme gialle, insospettite da alcuni nomi noti alla giustizia che in tempi più o meno recenti hanno versato denaro alle casse della fonazione somme ingenti. Ad esempio Luca Pranasi, arrestato per la vicenda dello stadio della Roma, aveva sborsato 150 mila euro: soldi, questi, destinati probabilmente al Pd e non iscritti nei bilanci. A proposito dei bilanci, le entrate di gestione ammontano a 846.769 euro, ovvero la metà di quanto è transitato sul conto corrente Eyu analizzato. Il mistero si infittisce quando prendiamo in considerazione le spese. L'informativa della Guardia di finanza parla chiaro: “Considerato che da statuto la fondazione persegue le proprie finalità operando prevalentemente attraverso l' assegnazione di contributi a progetti e iniziative, dalle disposizioni effettuate non è possibile risalire ai singoli progetti finanziati e dal bilancio consuntivo del 2017 gli oneri da attività istituzionali ammontano a 244.803 euro, cifra decisamente inferiore agli addebiti effettuati”.
I conti non tornano. Gli addebiti, infatti, tra il 9 ottobre 2017 e il 5 novembre 2018 hanno toccato auota 1.274.885 euro, arrivati sul conto Eyu attraverso 46 differenti bonifici, sia provenienti dall'Italia che dall'estero. Le uscite riguardano per lo più la Festa dell'Unità del 2017, costata 61 mila euro, anche se il totale dei fondi transitati da Eyu a Democratica arrivano a 122 mila euro, cioè il doppio. Presente anche un bonifico da 20 mila euro (5 giugno 2018) per la Fondazione Open, impegnata all'epoca organizzare la Leopolda. In poche parole Eyu, in passato definita "cassaforte del Partito Democratico" sostiene anche altre entità vicine allo stesso Pd. La Guardia di finanza ha scavato ancora più in profondità e ha preso in esame anche i conti di Democratica. I bonifici provenienti dal Pd ammontano a 895.750 euro ma 565.210 euro “non sono connessi alle attività editoriali” ma “si riferiscono ai corrispettivi pattuiti per l'organizzazione della Festa dell'Unità”. Ancor più nel dettaglio, una parte della somma è stata utilizzata per la Festa dell'Unità, mentre 160.924 euro per il "riaddebito di costi" riguardante il quotidiano L'Unità. Al di là della motivazione ufficiale, secondo i finanzieri l'importo "risulta incompatibile" con gli accrediti transitati sul conto intestato alla società. In totale, considerando Eyu e Democratica, non tornano i conti su oltre 400 mila euro: 244.803 per Eyu, 160924 per Democratica. Gli accrediti pervenuti sul conto Eyu non trovano corrispondenza nei dati di bilancio 2017, inoltre ci sono giroconti “pervenuti da altro intermediario di cui non è possibile verificare l'origine della provvista”. I conti proprio non tornano.
Mic. All. per “il Messaggero” il 17 novembre 2019. Ha raccontato che l'imprenditore Luca Parnasi gli aveva proposto di finanziare il Pd con 250mila euro e che lui, visto che il limite consentito dalla legge era di 100mila euro, suggerì al costruttore di sostenere economicamente la fondazione Eyu. È il 18 luglio scorso quando l'ex tesoriere del Partito democratico (oggi emigrato in Italia Viva) Francesco Bonifazi, indagato dalla procura di Roma per finanziamento illecito ed emissione di fatture false insieme a Parnasi - che è già a processo per associazione a delinquere e corruzione in relazione alla realizzazione dello Stadio di Tor di Valle - racconta alla pm Barbara Zuin la sua versione dei fatti. Nelle scorse settimane la procura ha chiuso l'inchiesta sia su Bonifazi che sul tesoriere della Lega, Giulio Centemero, accusato solo di finanziamento illecito per i 250mila che sarebbero stati destinati al suo partito. Sono 7 i nomi finiti sul registro degli indagati per i finanziamenti occulti, mascherati da contributi economici all'associazione Più voci, considerata emanazione della Lega, e da studio commissionato da una società del costruttore alla fondazione Eyu, appunto. L'interrogatorio, anticipato ieri dal quotidiano La Verità, è agli atti dell'inchiesta. L'incontro con Parnasi risale alla fine del 2017, poco tempo prima della campagna elettorale. «Guarda c'è anche la fondazione», avrebbe detto Bonifazi all'imprenditore. «Ricordo il contenuto di questa chiacchierata, che fu anche piacevole. Venne fuori la cifra che lui poteva sostenere, che era intorno a 250.000 euro. Io feci una precisazione, in realtà obbligatoria per un tesoriere, perché è di legge, e cioè che un soggetto non può finanziare un partito per più di 100.000 euro», ha raccontato Bonifazi. Sostiene di avere pensato a Eyu, una fondazione che, a suo dire, era autonoma dal partito ed era nata per la tutela del quotidiano Europa e dell'Unità. «La fondazione Eyu non riceve alcuna sovvenzione o finanziamento dal partito. L'unico spostamento di denaro tra Pd e Eyu può essere avvenuto in occasione della festa dell'Unità per il pagamento dell'affitto di alcuni stand da parte di Eyu», ha precisato. Poi, la pm Zuin gli ha chiesto conto delle fatture che la procura considera false: sono relative alla ricerca commissionata dalla Pentapigna srl - di Parnasi - alla fondazione. Lo studio, di poche pagine, sarebbe stato pagato attraverso due bonifici bancari, da 100mila e 150mila euro. Un escamotage, secondo gli inquirenti, per giustificare il passaggio di denaro. Agli atti c'è anche un'informativa della Finanza in cui viene definita «sospetta» l'operatività della fondazione. In questo caso Bonifazi ha detto di essersi limitato a mettere in contatto Parnasi e Domenico Petrolo, responsabile relazioni esterne di Eyu, indagato. Sostiene di non essere mai stato a conoscenza di alcun accordo: «Di ciò che è accaduto dopo quella stretta di mano non so niente. Il Nazareno è un corridoio lunghissimo. Per arrivare incontri prima Petrolo che me, io ero nella parte finale del corridoio, diciamo la parte nobile».
Valentina Errante per “il Messaggero” il 23 novembre 2019. Dopo avere sostenuto la Lega con 250mila euro, tra il 2016 e il 2017, Parnasi aveva un progetto chiaro: costruire lo stadio a Milano ed era pronto a finanziare il Carroccio anche alle ultime politiche. Lo dice lui stesso ai pm, rivelando che era sua intenzione firmare un contratto a Radio Padania, ma che la carenza di liquidità glielo aveva impedito. A ridosso delle elezioni, invece, il costruttore, con il progetto dello stadio a Roma, che viaggiava velocemente verso il traguardo, riuscì a versare 150mila euro alla Fondazione del Pd, Eyu, simulando una consulenza per uno studio sulla casa. Ma Parnasi, adesso a processo per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, pensava che la Lega avrebbe governato. e si preparava, tanto che, a Natale del 2017, organizza una cena riservata a casa sua con il leader Matteo Salvini, il suo braccio destro, Giancarlo Giorgetti e il tesoriere Giulio Centemero. Lui stesso, intercettato spiega che «temevano di essere beccati». Il 28 giugno dell'anno scorso Parnasi spiega ai pm: «Io avevo già deciso da circa due anni di spostare il mio baricentro su Milano. Tanto è vero che avevo preso il mandato per fare lo stadio di calcio del Milan». Per questo, chiarisce il costruttore, decide di versare all'associazione Più Voci, rappresentata da Giulio Centemero, tesoriere della Lega, 250mila euro. Ma spiega che un contributo era in programma anche nel 2018: «Avevamo idea di fare un altro contratto di pubblicità con Radio Padania, che poi non fu perfezionato perché non c'era liquidità da parte delle nostre aziende». Come sia andata con i dem, Parnasi lo spiega sempre a verbale: «Eyu l'ho conosciuta quando era uno dei soci dell'Unità. Io fui anche chiamato dal tesoriere del partito democratico, Francesco Bonifazi e di fatto per rappresentava Eyu, se ero interessato addirittura a entrare all'interno del capitale sociale del giornale e io declinai. In quest'ultima fase di campagna elettorale, fui chiamato proprio da Francesco Bonifazi a Sant'Andrea delle Fratte, lì dove ha sede il partito democratico. Mi fu offerto questo studio, questo rapporto sulla casa, è un volume piuttosto corposo. Ovviamente per onestà intellettuale io non avrei mai comprato questo volumotto sulla casa se non fosse stato legato al rapporto col partito democratico».
Giacomo Amadori per “la Verità” il 24 novembre 2019. Altro indagato, altro giro. Dopo i genitori (Tiziano e Laura), il cognato (Andrea Conticini), l' ex braccio destro (Luca Lotti), il consigliere economico (Filippo Vannoni), l' autista del camper (Roberto Bargilli), i presidenti delle sue fondazioni (gli avvocati Alberto Bianchi e Francesco Bonifazi), l' uomo comunicazione (Patrizio Donnini), adesso è stata iscritta sul registro degli indagati anche Lady Leopolda, al secolo Lilian Mammoliti, la donna che con la sua agenzia, la Dot media, ha organizzato per anni la kermesse renziana e si è occupata di allestimento, merchandising e gestione dei social. Dunque, nonostante a Firenze Matteo Renzi presenzi alle feste degli «ottimisti», quasi tutto il Giglio magico è iscritto sul registro degli indagati per una lunga lista di addebiti: bancarotta, false fatture, appropriazione indebita, riciclaggio e autoriciclaggio, favoreggiamento, ma anche traffico di influenze e finanziamento illecito che sono reati che presuppongono la presenza di un pubblico ufficiale, nel caso specifico di un politico. Nonostante questa lenta manovra a tenaglia delle procure, per ora l' ex premier mostra di dormire sonni tranquilli, tra cene vip, conferenze retribuite e interviste. In realtà i suoi avvocati seguono con grandissima attenzione quanto gli sta accadendo intorno e in particolare le indagini che a Firenze e a Roma hanno messo sotto inchiesta gli uomini che gestivano sue casseforti «politiche», ovvero le fondazioni Open ed Eyu. Bianchi, ex presidente di Open, è accusato di finanziamento illecito e traffico di influenze, Bonifazi, (senatore di Italia viva) per finanziamento illecito e false fatture. Bianchi ha emesso quasi tre milioni di parcelle (per la precisione 2.948.691,20) per prestazioni professionali nei confronti della famiglia Toto, schiatta di imprenditori abruzzesi renziani. Per l' accusa però quei soldi nasconderebbero una ricompensa per una mediazione illecita verso il Giglio magico e finanziamenti all' attività politica di Renzi. Infatti parte di quel denaro (400.838 euro) è stato girato nel settembre 2016 sui conti di Open e del Comitato per il sì al referendum. Ma sotto la lente d' ingrandimento sono finiti anche i 4,3 milioni che un altro dei Renzi boys, Donnini, avrebbe ricevuto dal gruppo Toto, tra consulenze, plusvalenze e altro. Per quei pagamenti è adesso indagata anche la sua amica e socia Lilian Mammoliti. La premiata ditta Donnini-Mammoliti avrebbe incassato attraverso tre società: la Dot media, la Immobil green e la Pd consulting; quindi avrebbe investito il denaro in altre aziende, come la Keesy, ditta del settore turistico controllata per l' 82 per cento dalla stessa Immobil green. La Mammoliti è la maggiore azionista: possiede il 95 cento della Immobil green e il 50 per cento della Dot media (il 20 è, invece, di Alessandro Conticini, altro indagato per appropriazione indebita e autoriclaggio, ma nella cosiddetta inchiesta Unicef). Donnini e la Mammoliti al momento sono accusati di appropriazione indebita e autoriciclaggio per una plusvalenza da 950.000 euro ottenuta grazie all' acquisto al prezzo di 68.200 euro di cinque società rivendute per più di un milione di euro alla Renexia spa dei Toto (l' ad Lino Bergonzi è indagato). A quanto risulta alla Verità l' inchiesta, però, sta rapidamente virando verso altri lidi e potrebbe portare a nuove accuse, come il traffico di influenze e il finanziamento illecito. Alfonso Toto, condannato a luglio per il mancato versamento di 27 milioni di Iva, a Ferragosto ha incontrato Bianchi a Cortina. Nell' occasione si sarebbe lamentato per tutti i soldi che Donnini gli avrebbe fatto spendere proponendosi come intermediario con il Giglio magico. Certo risulta difficile credere che un imprenditore esperto possa aver sganciato milioni senza «vedere cammello», anche se l' avvocato di Toto, Augusto La Morgia, sostiene che tutti i pagamenti (consulenze e plusvalenze) siano state regolarmente fatturate e giustificate. In ogni caso l'indagine toscana pare destinata a svelare il propellente della scalata al potere di Renzi e del suo Giglio magico. Ci risulta che dai pc e dai cellulari degli indagati siano stati estrapolati messaggi e email piuttosto compromettenti. Per esempio Donnini nelle sue agende annotava tutto alla virgola (incontri, pagamenti, ecc.) e sui suoi dispositivi elettronici i magistrati hanno trovato un' inaspettata quantità di documentazione. Nelle comunicazioni tra lui e Alfonso Toto viene nominato anche un noto politico del Giglio magico, che potrebbe portare (se non è già successo) all' incriminazione di Donnini per traffico di influenze. Anche in questo caso gli investigatori non escludono la pista del finanziamento illecito e hanno puntato l' attenzione sui pagamenti di Open (289.592 euro), del Comitato per il sì (122.000), ma anche di illustri politici renziani alla Dot media. Erano pagamenti reali oppure fatture che dovevano mascherare il sostegno economico di terzi all' attività politica di Matteo Renzi, magari in contanti? Se a Firenze è sotto esame la fondazione Open, a Roma i pm hanno rivoltato la fondazione Eyu, nata ufficialmente per promuovere «attività di ricerca scientifica che hanno l' obiettivo di elaborare un nuovo linguaggio e nuove pratiche per i decisori politici di oggi e di domani», in realtà altra macchina da fundraising dei renziani. I magistrati capitolini, guidati dal procuratore aggiunto Paolo Ielo, hanno contestato all' ex presidente Bonifazi (già tesoriere del Pd, ora in Italia viva) i reati di finanziamento illecito ed emissione di fatture per prestazioni inesistenti. In questo caso i soldi non provenivano dai Toto, ma dal costruttore Luca Parnasi, sospettato di corruzione dagli inquirenti capitolini e rinviato a giudizio nell' inchiesta sullo stadio della Roma. Resta da vedere se saranno solo Toto e Parnasi gli imprenditori accusati di aver finanziato sotto banco il fu Rottamatore.
Pd, non c’è soltanto lo scandalo Umbria: ormai cinque regioni traballano sotto il peso delle inchieste giudiziarie. Eccole. Salgono a cinque le regioni travolte da inchieste a carico di dirigenti locali e governatori daem. Mentre i sondaggi rianimano il partito e il tempo restituisce all'ex sindaco Marino la sua innocenza, nel Pd tornano la questione morale e il no giustizia. Il nuovo segretario marca la linea della "fiducia nella magistratura", ma sotto le ceneri cova l'anatema berlusconiano, scrive Thomas Mackinson il 13 Aprile 2019 su Il Fatto Quotidiano. In Umbria lo scandalo sanità fa saltare la testa del partito, con l’arresto dell’assessore Luca Barberini e del segretario regionale Gianpiero Bocci, ai domiciliari. Indagata la governatrice Catiuscia Marini. Nicola Zingaretti commissaria, Salvini chiama elezioni subito. Nel fianco del Pd ci sono però anche Abruzzo, Basilicata, Puglia, Calabria. Macigni sulla campagna elettorale di un partito uscito un anno fa con le ossa rotte e che ora sta cercando di ricomporsi. Zingaretti tutto poteva aspettarsi, tranne che il banco di prova della sua reggenza delle europee iniziasse a traballare sotto il peso delle inchieste giudiziarie. Proprio ora che i sondaggi sono in ripresa e il tempo ha restituito a Ignazio Marino, l’ex sindaco di Roma, la patente di estraneità al malaffare degli scontrini cavalcato dalla corrente capitolina e renziana in ascesa. L’ultima tegola travolge l’Umbria, affare di assunzioni pilotate in sanità che riempie ancora i giornali di episodi e ricostruzioni che – oltre al possibile criminale in senso tecnico – illuminano consuetudini clientelari e dinamiche di potere difficilmente compatibili con il passo che il neosegretario vorrebbe imprimere al partito. Il rapporto con la giustizia, al di là del caso locale, è una variabile importante del suo mandato. Nel Pd che ha eredito cova da tempo una spaccatura profonda sul tema, emersa con più evidenza in occasione dell’indagine a carico dei genitori dell’ex segretario Matteo Renzi, quando qualcuno – ricorda oggi Repubblica – ha rispolverato la formula berlusconiana della “giustizia a orologeria”. Il segretario-governatore sembra indisponibile a seguire questa linea, avendo limitato il suo commento ai fatti di Perugia alla “piena fiducia nella magistratura”.
Basilicata, la débâcle dopo un quarto di secolo. Appena due settimane fa, il Pd aveva subito un storica sconfitta in Basilicata, regione che governava da 25 anni. Determinante l’inchiesta giudiziaria che a luglio aveva portato all’arresto del governatore Marcello Pittella. Sempre storiaccia di concorsi truccati, raccomandazioni e sanità usata come ascensore per ricchezza e potere dei notabili locali del partito e loro amici e parenti. A fine marzo si è votato per il rinnovo del consiglio regionale, Pittella disarcionato dall’inchiesta sulla sanità lucana è tornato in consiglio forte di oltre 8mila preferenze e la sua lista “batte” quella del Pd. E i suoi ex assessori, indagati, siedono insieme al lui in consiglio.
Puglia, Emiliano e le primarie. In Puglia è finito sotto inchiesta Michele Emiliano per una vicenda legata al finanziamento delle primarie del Pd, quando il governatore sfidava Renzi e Orlando. Per la procura di Bari due imprenditori con interessi diretti sugli appalti della Regione pagarono la campagna elettorale dell’ex magistrato. Da qui l’accusa di abuso d’ufficio e traffico illecito di influenze alle quali Emiliano si dichiara estraneo.
Calabria, Oliverio tentato dal ritorno. Guai per il Pd anche in Calabria dove è indagine anche il presidente della Regione, Mario Oliverio. Per lui era stato disposto l’obbligo di dimora, misura però annullata a marzo dalla Cassazione. L’indagine riguarda presunte irregolarità in due appalti gestiti dalla Regione e per i quali la guardia di finanza, oltre ai presunti reati contestati a Oliverio, per gli altri indagati aveva riscontrato quelli di falso, corruzione e frode in pubbliche forniture. Dopo più di tre mesi, il presidente Oliverio torna libero con un provvedimento della Cassazione che, a questo punto, potrà sfruttare anche in chiave politica: siamo agli sgoccioli della legislatura, presto si tornerà a votare per le regionali e ha intenzione di ricandidarsi nonostante le perplessità di parte del Pd calabrese.
Il terremoto delle inchieste in Abruzzo. In Abruzzo proprio due giorni fa il tribunale dell’Aquila ha disposto l’archiviazione della posizione dell’ex presidente regionale Luciano D’Alfonso, oggi senatore dem. L’inchiesta era uno dei filoni seguiti dalla procura della Repubblica dell’Aquila sugli appalti della Regione: tra i principali, la gara per l’affidamento dei lavori di ricostruzione di palazzo Centi, sede della giunta regionale all’Aquila. Il primo di ottobre però si terrà l’udienza preliminare per un’altra vicenda in cui rischia il processo, quella della Procura di Pescara su una delibera di giunta del 2016, avente come oggetto la riqualificazione e la realizzazione del parco pubblico Villa delle Rose di Lanciano (Chieti) con le accuse di falso ideologico, per aver falsamente attestato, stando all’accusa, la presenza del governatore in giunta.
È ARRIVATO IL CONTO. Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 17 aprile 2019. Spiace per Nicola Zingaretti, che è appena arrivato alla segreteria del Pd e non ne ha certo selezionato la classe dirigente. Ma quello che sta accadendo con lo scandalo della (in)sanità in Umbria, il rinvio a giudizio della deputata Micaela Campana per falsa testimonianza su Mafia Capitale e la fine delle indagini sul governatore calabrese Oliverio & his friends è la resa dei conti finale di un equivoco durato troppo a lungo, dai tempi di Tangentopoli: quello della "diversità morale" del partito della sinistra. Una diversità che aveva una ragion d' essere ai tempi del vecchio Pci, più per l' onestà personale (indiscutibile) di Enrico Berlinguer che per la correttezza (molto opinabile) delle sue classi dirigenti. Mani Pulite dimostrò che il Pci-Pds era pienamente integrato nel sistema della corruzione. E fu solo per la tenuta stagna dei cassieri-faccendieri alla Primo Greganti se lo scandalo coinvolse solo dirigenti locali, quasi tutti dalla corrente filocraxiana che si faceva chiamare "migliorista" (e tutti chiamavano "pigliorista"). Infatti Greganti, in cambio del suo preziosissimo silenzio sugli anelli superiori della catena, fu sempre protetto dal partito, tant' è che ancora cinque anni fa faceva il bello e il cattivo tempo nel sistema degli appalti per l' Expo di Milano. Ma, nell' immaginario collettivo, anche se decine di ex Pci furono arrestati e condannati per tangenti, la sinistra riuscì a perpetuare la leggenda della sua diversità: un po' perché i suoi rubavano perlopiù per il partito, senza lo scandalo supplementare degli arricchimenti personali; un po' perché l' altro fronte era dominato prima dal Caf e poi dal campione mondiale dell' illegalità, Silvio B. che non temeva confronti. Il centrosinistra s' impegnava allo spasimo per stargli appresso e tenere i suoi ritmi, ma non ce la faceva: e così, per 25 anni, è riuscito a gabellare da "mele marce" (in un cestino sano) e da "compagni che sbagliano" la miriade di amministratori locali e nazionali presi con le mani nel sacco. A ogni elezione l' appello al fronte comune anti-Caimano funzionava, almeno fra chi non fuggiva nell' astensione: il giorno del voto milioni di persone, imprecando e giurando che era l' ultima volta, accettavano di subire il ricatto e si turavano il naso sugli scandali del centrosinistra per non ritrovarsi nella Cloaca Maxima. Il bipolarismo penale fra berlusconiani e menopeggisti è durato fino al 2013, quando il sistema è diventato tripolare con l' avvento dei 5Stelle. Che proprio della questione morale facevano una delle loro bandiere. Infatti i due vecchi poli si misero insieme al seguito di Letta, Renzi e Gentiloni. Prima direttamente con B., poi coi suoi cascami (alfanidi e verdiniani). Per la prima volta in 25 anni il centrosinistra che aveva sempre finto di opporsi a B., salvo poi chiedere i voti contro di lui e sopravvivere a se stesso grazie a lui, dimostrò quanto era simile a lui. Al punto da governare per cinque anni (e riformare la Costituzione e la legge elettorale) con lui o chi per lui. Così, alle elezioni del 2018, il ricatto "votateci o vince B." smise di funzionare. Infatti il Pd si ritrovò a tifare espressamente per lui, in vista di nuove "larghe intese" contro il nuovo spaventapasseri creato ad arte per gabbare gli elettori più gonzi e trascinarli un' altra volta alle urne con gli occhi tappati e il naso turato: i "populisti". Contro di loro si invocava un nuovo fronte comune senza andare troppo per il sottile, un' Union Sacrée per stomaci forti dal Pd a FI . Lo spauracchio funzionò all' incontrario: Pd e FI ai minimi storici, M5S e Lega ai massimi. Finalmente liberi da tutti i ricatti (prima "votate Dc sennò vince il Pci", poi "votate B. se no vincono i comunisti", infine "votate Pd se no vince B."), gli elettori hanno ritrovato la vista e l' olfatto, e si sono divisi secondo le proprie inclinazioni: uno strano e confuso movimento post-ideologico di centro, che però assorbe molte battaglie disertate dalla sinistra, cioè i 5Stelle; e una destra estrema, popolare, demagogica e xenofoba che si identifica fideisticamente in un capo rude e parolaio, ma empatico e abile a spacciare la vecchia Lega per una novità. Ed ecco questo governo Frankenstein che ha senso solo come espiazione di tutti i precedenti. Convinti di aver visto tutto il peggio possibile, gli elettori rifiutano i tentativi dei partiti sconfitti di ricondurli all' ovile con nuovi ricatti: tipo "votateci sennò torna il fascismo", "votateci perché siamo competenti", "votateci perché siamo cambiati". Il fascismo era una cosa seria (purtroppo), la Lega è una mezza farsa. Di competenza se ne vedeva poca anche prima, altrimenti non saremmo da 30 anni sull' orlo della bancarotta. Quanto al cambiamento, be', un pregiudicato mezzo rintronato di 82 anni che si ricandida in Europa parla da sé. E Zingaretti, col poco tempo che ha avuto dal congresso alle Europee, ha cambiato poco o nulla. E lo scandalo dell' Umbria, come se non bastassero quelli in Campania, in Basilicata, in Calabria ecc., sembra fatto apposta per fotografare un partito sopravvissuto a ogni "rottamazione" e rimasto fermo a Tangentopoli. Ma ormai nudo, senza più il trio Craxi-Forlani-Andreotti e la Banda B. a fare da schermo e da alibi. Le carte dell' inchiesta sui concorsi truccati nella sede del Pd umbro, sui disabili costretti a farsi raccomandare dal partito per non essere scavalcati da quelli con tessera e padrino, sui direttori generali di stretta osservanza che "se mi intercettano mi scoprono cinque reati all' ora", richiederebbero ben altro che le giaculatorie di padre Zinga sulla "fiducia nei magistrati" e sul "senso di responsabilità della governatrice Marini" (che finalmente se n' è andata). Sennò la gente scuote il capo e, casomai si fosse riavvicinata al Pd, scappa a gambe levate.
Il Travaglio dei perdenti. Pubblicato il 20 Febbraio 2019 da INFOSANNIO. (Tommaso Merlo) – Travaglio si scaglia contro il Movimento 5 Stelle per il voto online sulla Diciotti e diviene di colpo un eroe nazionale. Viene circondato da microfoni avidi di carpirne il Credo, i talk-show mostrano il suo Verbo a tutto schermo. Fino a ieri era un impestato, oggi che si scagliato contro il Movimento 5 Stelle i suoi colleghi giornalisti festeggiano il ritorno all’ovile dell’intrepido torinese e si apprestano ad ergergli un monumento bronzeo a futura memoria. Vanno capiti. Che Travaglio torni in linea col vecchio regime è in effetti una notizia importante per la malconcia stampa nostrana che ormai priva di ogni credibilità potrà contare su uno dei pochi giornalisti che ancora ne ha una. Il Fatto era l’unico quotidiano che non urinava quotidianamente sul Movimento 5 Stelle, vedremo dove svuoterà la vescica dopo il doloroso voto sulla Diciotti. Travaglio ravanava da giorni con sta storia, ha vivisezionato il caso fino allo sfinimento, si è speso anima e core. Alla fine i militanti non hanno però votato come voleva lui e così Travaglio si è incazzato e si è messo a scrivere addirittura di ‘suicidio” del Movimento e di “virus berlusconiano” che avrebbe infettato chissà chi e di “truffa”. Una reazione davvero rabbiosa ma che pare abbiano avuto in tanti anche nel Movimento e questo è meno comprensibile. Va bene il disappunto per la sconfitta, ma mandare in malora tutto perché un voto (seppur significativo) non è andato come volevi te, non è democratico. Il volere della maggioranza si rispetta. Ma soprattutto, tale astio tranchant non ha politicamente senso per come è fatto il Movimento 5 Stelle. Travaglio e tutti i malpancisti sembrano dimenticarsi che il Movimento non è altro che un gruppo di cittadini. Un gruppo di cittadini al servizio dei cittadini che alle prossime elezioni tornerà in gran parte a casa sua ed altri subentreranno. Un gruppo di cittadini può anche sbagliare, ma nessuno può metterne in dubbio la buona fede. E soprattutto, se alcune scelte si rivelassero sbagliate, il Movimento potrà sempre fare di meglio in futuro. Il Movimento non è un partito, non è statico, non ha in cima un boss e una classe dirigente perenne come ad esempio Forza Italia o il Pd. Ma è un gruppo di cittadini che sta “imparando facendo” e per cui ogni ostacolo che incontra è un’opportunità di crescita e di apprendimento. Essendo in continua evoluzione, in futuro il Movimento potrebbe anche gestire situazioni simili al caso Diciotti in maniera differente. I vecchi partiti come Forza Italia o il Pd sono identici a se stessi da decenni e sono convinti di aver ancora ragione loro su tutto nonostante i mille fallimenti. Per questo una volta che quei partiti hanno tradito è meglio abbandonarli, perché tradiranno ancora. Ma il Movimento è tutt’altro. È vivo, è dinamico, è aperto, è un gruppo di cittadini al servizio di altri cittadini che può anche sbagliare ma che lo farà sempre in buona fede e che un domani potrà correggersi e fare meglio. E se in casi controversi come quello della Diciotti secondo alcuni ha sbagliato, i delusi dovrebbero rimboccarsi le maniche e dare un contributo affinché al prossimo bivio prevalgano le loro ragioni. La loro delusione dovrebbe cioè essere uno stimolo a partecipare di più, non una scusa per mollare. Il Movimento è un bene troppo prezioso per sprecarlo così, è un’occasione storica di cambiamento troppo rara per buttarla via così. Che i malpancisti prendano dunque qualche goccia di Maalox e che Travaglio rinunci al monumento bronzeo ed insieme alle sue prestigiose penne continui ad urinare negli appositi siti.
· E tu quanto conosci davvero la sinistra italiana?
Fusaro fa a pezzi il Pd: «Liquame fucsia delle sinistre arcobaleno». Gabriele Albertilune dì 12 agosto 2019 su Il Secolo d'Italia. “Facile previsione: Salvini vince e vincerà”. A pronunciare questo vaticinio il filosofo orinese Diego Fusaro, che sta intervenendo in maniera costante via social sulla crisi di governo e sull’ “orrida” ipotesi della grande ammucchiata anti-Lega, di cui si parla in questi giorni. Fusario argomenta con un giudizio al vetriolo: “L’avversione che gli italiani provano per lui sarà sempre inferiore a quella che provano per il liquame fucsia delle sinistre arcobaleno, liberiste e cosmopolite del ‘più Europa’, ‘più globalizzazione’, ‘più migranti'”. Fusaro ha spesso e volentieri ridicolizzato il Pd, le sue piazze semivuote, le loro parole lontane dal comune sentire. Memorabili le sue liti furibonde con Davide Parenzo su La 7.
Fusaro ridicolizza Pd, M5S e antifascisti. In un altro tweet, Fusaro ridicolizza un altro fronte, se la prende con i cosiddetti antifascisti: “E ora si approntano a proporre il solito liquame del fronte unico antifascista. Per poter combattere il fascismo che non c’è e accettare in pieno il capitalismo, che dilaga: più Europa, più globalizzazione, più mercato, più Tav, più Soros, più openness, più deregolamentazione”. Sì, lo sprezzo del ridicolo a cui si stanno sottoponendo coloro che vogliono procrastinare il momento del voto è senza limiti ed avrà un prezzo. Fusaro sottolinea le contraddizioni di questo fronte mostruoso. Chi pagherà il prezzo più alto, tra u Pd scisso tra Zingaretti e Renzi e Il M5S? Fusaro anche in questo caso non ha dubbi: con un commento pubblicato sui suoi account social fa un’altra profezia mortifera nei confronti dei pentastellati: «Se il 5 Stelle si allea col Pd, sparisce per sempre. E giustamente, aggiungo io».
Diego Fusaro bombarda Papa Francesco, Soros e Greta: "In barca a vela con Casiraghi, la sua presa in giro". Antonio Rapisarda su Libero Quotidiano il 12 Agosto 2019. Che cosa fanno insieme la sinistra "fucsia" e i "Papulisti"? Seguono «il Vangelo secondo Soros». Per capire l' entità del "tradimento" dei post-comunisti nei confronti delle «classi subalterne» Diego Fusaro, filosofo sovranista di scuola neomarxista, traccia un parallelo sullo stato dell' arte delle due "chiese": «Quella di Bergoglio sta diventando tutto ciò contro cui Cristo combattè. Proprio come la sinistra "arcobaleno" è diventata tutto ciò contro cui Marx e Gramsci hanno lottato per tutta la vita...».
Partiamo con Richard Gere sulla nave di Open Arms, finanziata anche da George Soros. L'istantanea di Fusaro?
«Una trovata pubblicitaria straordinaria. Fatte le foto e i servizi per i rotocalchi Richard Gere potrà tornare tra i dollari che scorrono copiosi ad Hollywood e i migranti potranno finire nell' inferno del caporalato a morire sotto il sole, come vogliono i padroni del capitale e le sinistre "fucsia", quelle che chiedono i "porti aperti"».
Si è "imbarcato" nella polemica politica contro i sovranismi pure papa Bergoglio.
«Lo aveva previsto Pasolini: o la Chiesa si sarebbe scontrata con il mondo del capitale, combattendolo eroicamente, o si sarebbe piegata lasciandosene assorbire. Mentre Ratzinger era la lotta contro il capitale, la chiesa di Francesco è figlia del capitale, ha scelto questo ruolo. Ma c' è di più: abbiamo addirittura un partito, quello dei "papulisti", gli allievi di Bergoglio».
E chi sono?
«Quelli che seguono il Vangelo secondo Soros. Gesù Cristo avrebbe detto davanti ai migranti "basta deportazioni", invece i papulisti dicono "porti aperti" che è il discorso del padronato: libera circolazione delle merci o delle persone mercificate».
La "destra divina", citando Pasolini, esiste?
«Per ora non vedo destre divine. Vedo destre finanziarie e del mercato. La destra di Soros e di Rockefeller che vogliono la deregolamentazione dei mercati e vedono una sorta di appoggio fondamentale nelle sinistre che dovrebbero intitolare i loro centri sociali non a Lenin ma agli squali finanzieri».
Non è che diventato troppo nichilista?
«Io auspico un superamento di destra e sinistra. O meglio mi definiscono di sinistra nelle idee, di destra nei valori. Di sinistra lo sono per il lavoro, la comunità, per la solidarietà e la difesa dei deboli. Di destra per i valori come la nazione, la patria e Dio. Oggi sostengo, come spiego nel mio libro "Storia e coscienza del precariato. Servi e signori della globalizzazione" (Bompiani, ndr), la necessità di un populismo sovranista e socialista che non sia né nazionalista né cosmopolita ma internazionalista, cioè che coordini stati sovrani nazionali solidali e fratelli. Quell' internazionalismo che le sinistre fucsia hanno tradito vigliaccamente».
Dimenticavo. Su un' altra barca troviamo Greta e il principe Casiraghi.
«È la presa in giro per eccellenza rivolta alle plebi italiche che faticano ad arrivare a fine mese: Greta che invece va a salvare il mondo in barca a vela con Casiraghi. Sono gli "avatar" del potere che fanno sì che si creda ai finti rivoluzionari i quali in realtà hanno la funzione di conservare l' ordine».
Abbiamo un' invasione di ragazzine idoli della sinistra liberal. Come se lo spiega?
«Olga in Russia, Greta in Svezia e poi c' è Carola Rackete, quelle che io chiamo i "capitali coraggiosi". Il potere esalta i finti rivoluzionari che produce e massacra a colpi di manganellate i veri rivoluzionari come le giubbe gialle in Francia. Anche lì con l' appoggio servile delle sinistre fucsia che urlano al fascismo di fronte ai moti rivoluzionari dal basso».
Eppure la democrazia continua a fare i dispetti all' establishment: Brexit, Putin, i nazional-populisti. Gli toccherà abolirla tra un po'...
«La democrazia è già in larga parte abolita. Per me la democrazia oggi è il nome che diamo all' autogoverno dei mercati e dei ceti possidenti. Tuttavia ci sono qua e là guaiti di popoli che non si arrendono. Penso ad esempio alla gloriosa Russia di Putin. Penso a tutte le forme di stati nazionali non allineati con il nuovo ordine mondiale statunitense: penso all' Iran, alla Corea del Nord, a Cuba e alla Siria. A tutti gli Stati che resistono: che Dio li abbia in gloria». Antonio Rapisarda
E tu quanto conosci davvero la sinistra italiana? Cosa succede nella galassia che si muove oltre il Pd, tra scissioni e tentativi di alleanze in vista delle Europee ve lo raccontiamo sull'Espresso in edicola da domenica 7 aprile. E qui vi mettiamo alla prova: vediamo a quante di queste 17 domande siete in grado di rispondere, scrive il 05 aprile 2019 L'Espresso. Il progetto De Magistris di fare una lista della sinistra non Pd aperta e fuori dagli steccati dei partitini? Fallito. L'idea di una lista a prevalenza femminile basata su parità di genere, ambientalismo e giustizia sociale? Un buco nell'acqua anche questa. L'ipotesi di riunire almeno tutti i partitini in un'unica lista, visto che lo sbarramento alle europee è del 4 per cento? Naufragata anch'essa. E così alla fine le liste della sinistra extra Pd saranno due - tre se si conta anche quella di Pizzarotti con Emma Bonino - tutte fatte dai partitini e dalle loro burocrazie, frutto di mesi di trattative, litigi, scissioni, controscissioni, ricongiungimenti e litigate notturne. Il suicidio collettivo avrà dunque questa forma: una lista che si chiamerà “La Sinistra”, espressione della somma di Sinistra Italiana e Rifondazione comunista; un'altra lista che si chiamerà “Europa Verde Possibile”, che riunirà quel che resta dei verdi con il gruppo Possibile (quello fondato da Civati); più appunto la lista “+Europa Italia in Comune”, che metterà insieme la Bonino con Pizzarotti e i suoi sindaci. Rimasti fuori dalla corsa quelli di Potere al Popolo, che pure avevano preso parte ai vari “tavoli” finiti in altrettante risse. L'ultima frammentazione a sinistra è talmente caotica che molti possono aver perso il filo: per questo L'Espresso, che pubblicherà domenica nel numero in edicola un'aggiornata e tragicomica geografia del tutto, vi propone questo test a risposta multipla. Mettetevi alla prova.
Tutti in piedi e pugni chiusi: il congresso Mdp canta l'Internazionale, scrive Silvia Bignami il 6 aprile 2019 su Repubblica tv. Tutti in piedi, qualcuno anche col pugno chiuso, per cantare l’internazionale socialista. Si apre cosí, con l’inno italiano, quello europeo e l’Internazionale, l’assemblea nazionale di Mdp a Bologna, con tutti i big in sala per discutere dell’ipotesi di una alleanza col pd per le europee. In prima fila Massimo D’Alema, applaudito al suo ingresso in sala. Ci sono anche Pierluigi Bersani e Vasco Errani. Sul palco per la relazione di apertura Roberto Speranza.
La grottesca telenovela della sinistra radicale che continua a litigare e a spaccarsi
Alle europee, fuori dal Pd, ci saranno tre liste divise. Vi raccontiamo come ci si è arrivati: tra veti, tradimenti e vanità. Un viaggio solo per stomaci forti, scrive Alessandro Gilioli il 05 aprile 2019 su L'Espresso. In Italia, dove c’è stato il più grande Partito Comunista d’Occidente, la vita dell’altra sinistra non è mai stata facile. Oggi però la sua situazione è tragica (o tragicomica), almeno a livello di rappresentanza e di ceto politico. E le elezioni europee potrebbero segnarne la fine. Nata negli anni ‘60 e ‘70 - con il gruppo eretico del Manifesto, poi con le varie sigle dei movimenti “extraparlamentari” fino al Pdup e a Democrazia Proletaria - nel tempo quest’area ha attraversato una miriade di forme, alleanze, scissioni e leader che per ricapitolarle non basterebbe un trilione di terabyte. Ha avuto però anche due momenti di relativo fulgore: uno nel 1996, quando Rifondazione comunista ha preso quasi il 9 per cento alle politiche; un altro nel 2011-2012, quando i suoi candidati sono diventati sindaci di grandi città uno dopo l’altro (Milano, Napoli, Cagliari, Genova, Palermo), spesso vincendo le primarie del centrosinistra a scapito di big piddini.
LA CARBONERIA RENZIANA. Brunella Giovara e Giovanna Vitale per ''la Repubblica'' il 6 aprile 2019. Elegantissimo nel suo cappotto d' alta sartoria, il medico ospedaliero Antonio Solano varca trafelato il portone di Palazzo reale dove, in una saletta della Fondazione per il Mezzogiorno, da qualche mese ha piantato le tende il comitato civico Crescita Napoli. «Oggi dobbiamo affrontare una serie di questioni per capire come andare avanti», esordisce con un sorriso che è di incoraggiamento ma anche preoccupazione. Il suo gruppo è il più grosso d' Italia: con 62 iscritti, è uno dei motori di quella "azione civile" auspicata da Renzi alla Leopolda. Ci sono prof universitari ed ex sindacalisti, imprenditori e infermieri, sociologi e pensionati. Età media alta: intorno ai 60. È così ovunque: da Milano a Palermo passando per Roma, le articolazioni territoriali di quello che in tanti chiamano "il partito di Renzi" si muovono ancora in semi-clandestinità, si riuniscono più o meno una volta al mese nelle case, negli studi professionali, in pizzeria: un tema come fil rouge, ma senza ordini del giorno, né strutture cui appoggiarsi, in una spontanea autodeterminazione difficile da sostenere, alla lunga. Specie adesso che il senatore di Firenze sembra essersi rintanato in un limbo. E qui tutti restano appesi, dentro e fuori il Pd.
MANTOVA. Il megafono? «Eh, ce l' hanno prestato i ragazzi di un centro sociale». Vero reperto degli anni Settanta a vederlo così, tenuto insieme dal nastro adesivo, passato si immagina di padre in figlio o figlia, ora nelle mani di un gruppo di signore che battagliano per lo ius culturae, «e non confondiamolo con lo ius soli, come fanno molti pure a sinistra». Servirebbe una sede, ma se ne può fare a meno se si è quasi tutte colleghe, questo è il Comitato Società aperta Mantova, uno dei circa 50 lombardi, e stavolta ci si vede in trattoria. Dieci femmine, più un maschio, tre iscritti al Pd, gli altri no. Rita Coppi: «Noi che lavoriamo nel sociale siamo arrabbiate con il decreto Salvini, che indebolisce i deboli». Rita lavora al Consorzio Solco, 18 cooperative sociali, 1.300 dipendenti, utenti con disabilità, tossicodipendenti, «giovani che fanno fatica», migranti, «il clima di intolleranza e di precarietà» dato dai fondi tagliati le ha spinte a organizzare una marcia «contro ogni tipo di intolleranza e discriminazione», e lì il megafono è stato utile. Assunta Putignano è la coordinatrice, di tutte le sfide «che i cittadini possono raccogliere, noi abbiamo scelto quella della società aperta, tanto più necessaria ora che non abbiamo più i soldi per fare i corsi di italiano agli stranieri». Ma la gente li capisce questi problemi? «Sì, sente il rumore dell' odio che avanza», dopodiché «ragazze, qui bisogna raccogliere le firme per la legge, fare i banchetti». Ci penserà Tiziana Silvestrini, impiegata in Comune e scrittrice, lei sa «come si ottiene un gratuito patrocinio», ed è già qualcosa.
ROMA. Eleonora De Santis è appena rientrata dal lavoro, mette gli auricolari e si collega al pc. Un click sull' icona di Skype e parte il video-collegamento con i nove di Vero Roma 6, numero obbligatorio per segnalare che in città sul tema delle fake news esistono già altri cinque comitati. Lei è «un' ex grillina disgustata», ha iniziato invitando due amici, gli altri sono arrivati tramite il sito di "Ritorno al Futuro", ma siccome abitano in quartieri lontanissimi, per discutere si riuniscono sul web. Quattro sono sulla quarantina come Ele, il resto pensionati, con più tempo e voglia di impegnarsi: un classico. «Ragazzi dobbiamo stringere», incalza, «abbiamo contattato il responsabile dello Sprar che deve venire a spiegarci come funziona il sistema dell' integrazione?». In cantiere c' è un incontro pubblico «per sfatare i falsi miti sull' immigrazione». Perché questo è il bello dei comitati: «L' agenda politica la facciamo noi». Poco più in là, a Villa Bonelli, la vulcanica Claudia Costa ha convocato il direttivo Società aperta Roma: dopo l' iniziativa sull' integrazione alla libreria Eli con Neri Marcorè, ne stanno preparando un' altra su famiglie arcobaleno e omofobia. «Il nostro è volontariato allo stato puro, ci muove l' opposizione a questo governo, ma aggregando persone con storie diverse», dice. Lei non è più iscritta al Pd, se n' è andata «quando Renzi ha dato le dimissioni», come la psicanalista Chiara Tozzi, 65 anni: «Sentiamo il dovere di fare qualcosa contro la deriva su cui sta scivolando il Paese». E se dovesse nascere un partito guidato dall' ex leader fiorentino? «Ci penseremo, qui dentro c' è gente che pensa con la sua testa, non siamo un gregge». Intanto, nel suo studio fotografico, Marcello Leotta sta comunicando agli iscritti di Vero Roma 4 che l' idea di una kermesse sull' Europa va accantonata: «Ho scritto a tutti i 65 comitati del Lazio, mi hanno risposto solo in 22, gli altri è come se non esistessero». Faranno qualcosa di meno ambizioso: una campagna sui fallimenti della sindaca Raggi, in attesa dell' 11 maggio, la grande manifestazione di piazza per dire basta alla giunta 5S. «E magari stavolta riusciremo a coinvolgere anche i nostri figli», sospira Silvia Checchi, «bisogna far tornare i giovani alla politica».
MILANO. Ci si vede al Pacino Cafè, piazzale Bacone. Giusto in tempo per l' aperitivo, ogni tanto, per il resto si viaggia su Facebook. Gianluca Pomo è un ingegnere del campo energetico di 35 anni, oltre che coordinatore del comitato Vero Milano, in città ne sono nati finora trenta, «e altri si stanno formando. La cosa più importante è che siamo aperti a tutti, non c' è limite politico. Da noi solo due su otto sono iscritte al Pd». Carlo, 55 anni, scultore: «Mai fatto politica. Poi mi sono chiesto se era possibile concretizzare il mio impegno civile». Stefano Mengotto, project manager: «Ormai sembra che vincano i bulletti da quattro soldi» quindi bisogna impegnarsi, si prepara un' iniziativa a difesa di Radio radicale, una contro le fake news e la raccolta firme per lo Ius culturae. Pomo: «Significa dare la cittadinanza a chi ha completato un ciclo di studi in Italia, questo è, su questo puntiamo».
VERONA. Si entra nello studio dell' avvocato Donatella Fanini, 55 anni, giuslavorista. Al momento riunita assieme a Paolo, dipendente pubblico, e a Marco Caberlotto, 27 anni, produttore cinematografico e fondatore di un comitato a Venezia contro le fake news. Tutti reduci dalla manifestazione contro il convegno degli ultrà cattolici, «dove ci siamo ritrovati per protestare contro il cappello politico dato dalla Lega e dal sindaco». I problemi sono sempre gli stessi: vanno raccolte le firme, ma «qui non basta change.org, bisogna validarle, consegnarle ai segretari comunali, o trovare notai e consiglieri comunali». I giovani? «Facciamo delle iniziative divertenti, bisogna tirarli dentro, non le solite conferenze noiose». Nei comuni più piccoli le cose sono più difficili e «poi noi siamo una città provinciale», dice Fanini, mica come Milano, perché il Nord non è tutto uguale.
NAPOLI. Al comitato Crescita Napoli il coordinatore Solano spiega: «Ci eravamo dati l' impegno di trattare temi sia nazionali sia locali, ma quelli locali li stiamo un po' abbandonando. Da che cosa ripartiamo?». La risposta è corale: «Dalla grata», una delle loro prime battaglie. Ovvero la griglia di aerazione che impedisce di completare i lavori della linea 6 della metropolitana «progettata per Italia 90»: per i comitati del no deturperebbe i basoli di una delle più belle piazze del centro, ma il Tar gli ha appena dato torto. «È un tema locale ma con un risvolto nazionale: questo è il governo dei no che sta bloccando il Paese» approva la sociologa Brunella Rallo. «E poi facciamo un censimento degli edifici in disuso per farne centri ricreativi e culturali» propone l' economista Francesca De Felice. «Il nostro scopo è incidere sulla città» fa eco Mario Bartiromo. Comunque vada, una bella scommessa.
Giovanna Vitale per ''la Repubblica'' il 6 aprile 2019. Anche uno dei discendenti della famiglia Agnelli ha fondato, a Roma, un comitato civico. Lupo Rattazzi, nato in Svizzera 66 anni fa dal conte Urbano e da Susanna Agnelli, laurea in Economia alla Columbia e master ad Harvard, presiede la compagnia aerea Neos e l' Italian Hospital Group, Cosa spinge un uomo come lei a fondare un comitato renziano? «Questi gruppi servono a tenere alta l' attenzione e a risvegliare le coscienze in un momento in cui bisogna alzare la voce su quello che sta avvenendo in Italia. Io sono un imprenditore e ne ho fondato uno focalizzato sull' andamento dell' economia, sulle misure che questo governo non ha adottato per far ripartire il Paese e su quelle che, sbagliando, ha invece approvato, a cominciare da reddito e quota 100».
Come le è venuto in mente?
«È scaturita da un' idea degli amici del Pd di Monte Argentario».
Perché lei è pure iscritto al Pd? È entrato con Renzi segretario?
«Sì, credo che Matteo sia stato uno dei pochi leader con una visione chiara del Paese e del suo sviluppo. E sono entrato perché il Pd è l' unico partito antisovranista ed europeista che ha affinità con le mie idee. Certo non potevo ritrovarmi in quello di Borghi e Bagnai (leghisti anti-euro, ndr) o nel M5S, che è un mix di approssimazione e populismo».
Ma i comitati non rischiano di entrare in conflitto col Pd?
«Assolutamente sì e in vari modi. Se per esempio il Pd si alleasse con i 5S la mia tessera verrebbe stracciata in un secondo, e pure se dovesse prendere una deriva bersaniana».
Eppure anche Prodi ha detto che con l' addio di Renzi e l' arrivo di Zingaretti il Pd sta cambiando, "non è più il partito dei ricchi" come lei...
«Con tutto il rispetto, mi sembra un' affermazione stupida. Una volta in tv mi sono permesso di difendere Renzi davanti a Emiliano, che ha risposto: "Lupo è l' elettore medio del Pd di oggi". Ma un partito che ha un elettorato del 20% come fa a essere un partito di soli ricchi? È una frase a effetto per rivendicare l' appartenenza a una sinistra pauperista abbastanza superato».
Ma se Renzi dovesse uscire, lei cosa farà, lo seguirà?
«Bella domanda a cui francamente non so rispondere. So solo che è un evento da scongiurare perché, in caso di scissione, uno più uno farebbe meno di due. E si finirebbe per indebolire il campo europeista e anti-sovranista».
· I Comunisti italiani!? Esterofili.
Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 9 luglio 2019. Cantaci, o Tsipras, tutte le volte in cui la sinistra italiana, nelle sue varie terminazioni nervose, si è appiccicata a qualche leader vincitore nel vasto mondo; e quante volte, dopo la sua sconfitta, si è ritrovata più sola, malmessa, vuota, svergognata e in definitiva inutile. Accade infatti piuttosto spesso, per non dire sempre. E adesso è un gioco crudele ricordare che qualche anno fa nacque addirittura un partito, nel nome dell' incolpevole Alexis Tsipras, e pure che parte della pubblica opinione ne venne a conoscenza nel modo che segue: «Ciao. È iniziata la campagna elettorale e io uso qualsiasi mezzo. Votate l' Altra Italia con Tsipras», appunto; e la giovane portavoce accluse su Fb una bella foto di se stessa in bikini, accucciata di sedere sulla spiaggia, acque turchine e barche come fondale. Qualche mese dopo, era il gennaio 2015, i compagni italiani, autobattezzatesi "la Brigata Kalimera", volarono ad Atene a festeggiare la vittoria del leader primigenio e a «fumarsi - sintetizzò Luciana Castellina - una canna di buona politica ». Ora, a parte il fatto che la graziosa portavoce in bikini, Paola Bacchiddu, si è da poco sistemata nella Rai sovranista, comparto Comunicazione, verrebbe anche il dubbio: si può riassumere un' esperienza politica andando dietro a storie del genere? E onestamente tocca rispondere: beh, un pochino sì. Perché il sospetto è che nella memoria collettiva della sinistra, bombardata di inezie, si è perso il numero delle appropriazioni indebite e inopportune, delle scopiazzature, dei pappagallismi, degli scimmiottamenti, dei bamboleggiamenti, delle trepide cotte e delle chiassose sbandate per questo o per quel Tsipras di turno, in un' unica, superficiale, ma continuativa degenerazione messianica ad alto tasso di usa e getta - come d' altronde è nei codici di quello che a Roma si definisce: "accollo". Con sommaria risolutezza si può dire che l' originaria frenesia del super- leader straniero risale alla fine degli anni 80 quando il comunismo italiano - un tempo più che saldo nelle sue radici ideali e culturali - cominciò sotto la guida di Occhetto a dare i numeri e anche i nomi, timidamente oscillando fra Gorbaciov (già "Gorby" per l' Unità ), la prima premier donna della Norvegia, Greg Harlem Brutland, e nientemeno che il sindaco di Manaus, Brasile, di cui si è dimenticato il nome, ma non il volto in quanto materializzatosi in qualità di visitor attraverso uno dei primissimi video-congressuali sugli schermi del Palasport. Quindi nei primi 90 la vittoria di Clinton si riverberò con maggiore slancio - guarda che bello, facciamo come lui! - soprattutto sul piano di una emulazione e requisizione di stile, anche coniugale, appetibile, adattabile e comunque vantaggio dei nuovi leader di quella promettente stagione, a cominciare da Mario Segni e Francesco Rutelli. Solo in seguito il modello Clinton e il clintonismo ispirarono D' Alema, che pure tentò di coinvolgere l' ex presidente americano in un improbabile "Ulivo mondiale" di cui non resta impresso molto più che un principesco banchetto a Firenze, by Vissani, trancio di ragno con ravioli di finocchi al profumo di arancio e così via. Nel frattempo, Mandela: eroico. Qua e là Ségolène Royal: telegenica, Ena, tre figli. Quindi la lezione spagnola, il premier gentile, il leader cerbiatto: todos Zapatero. E di nuovo si perdoni il tono irrispettoso e le apparenti futilità, ma già allora s' intuiva qualcosa di molto serio dietro la foga un po' furbastra o nella nevrosi emulativa con cui la sinistra cercava all' estero quello che non riusciva più ad essere a casa. Un deserto di progetti, una fragilità rispetto al dominio delle emozioni (e del marketing), un allontanamento da se stessi. O peggio. La figura di Blair, ad esempio, non servì solo a lanciare la moda della camicia bianca e scravattata, ma anche la svolta securitaria: manganelli ai vigili urbani, ordinanze contro i lavavetri, cani lupo anti-droga nei licei, ovviamente all' italiana. Vero anche che Renzi, "il Blair italiano", si tenne stretto all' ingombrante alias fuori tempo massimo, quando cioè l' ex premier britannico era entrato nel mondo non molto riformista del business e tra una conferenza e l' altra svolazzava attorno alla moglie cinese di Murdoch. Poi, sia pure per poco, all' insegna dell' intercambiabilità, Matteo passò per "il Macron italiano", ma senza avere la medesima fortuna. Poco prima, anche se sembrano decenni, era nato il Pd sotto il segno di Obama, l' ultimo messia. In un mondo sempre più interconnesso, Veltroni, che già era predisposto a un certo suggestivo americanismo, ci diede dentro, e tutti dietro, "Yes, we can", "Yes, we can", "Yes, we can". Ecco, veramente no. «Yes, week end - se ne uscì D' Alema, che qualche volte le azzecca - nel senso che perse le elezioni avremo un sacco di fine settimana liberi». E così fu, in attesa del prossimo Salvatore (astenersi, possibilmente, da Papa Bergoglio).
· Parlando di Rossana Rossanda.
«Lucio è morto per una scelta anche politica». Pubblicato sabato, 08 giugno 2019 da Maurizio Caprara su Corriere.it. «Un’Italia così non me la ricordavo. L’avevo lasciata nel 2005-2006 per trasferirmi a Parigi. Il clima di adesso è pieno di risentimento. Tutti ce l’hanno con tutti», sostiene Rossana Rossanda, classe 1924, un nome che dice poco ai ragazzi di oggi e che tra la fine degli anni Sessanta e nei due decenni successivi era noto a parecchi nelle università e nelle scuole. Nata a Pola, diventò comunista tra Milano e Venezia nel 1943 mentre la repressione nazifascista contro i partigiani era feroce. «Li ho visti gli impiccati, il collo storto, le membra lunghe e abbandonate», scrisse successivamente. Il viso di questa donna che adesso si muove su una sedia a rotelle sembra tuttora meno anziano di quanto è. In gran parte lo si deve a un aspetto: agli occhi di molti, li ha da sempre i capelli di un grigio argentato. Le si imbiancarono a 32 anni d’età, cambiarono di colore nel 1956. Successe durante i giorni dell’invasione sovietica dell’Ungheria. Dirigente locale del Partito comunista italiano, combattuta tra un certo spirito libertario e un’usurata fiducia per Mosca, lei rimase colpita dalla foto di un funzionario durante la rivolta ungherese. Era impiccato a un fanale. «Il povero e l’oppresso hanno sempre ragione. Ma i comunisti che si fanno odiare hanno sempre torto», affermò 50 anni più tardi Rossana Rossanda nel ricordare quel periodo e i tormenti nella sua coscienza. Con un ragionare pacato nei toni e radicale nella sostanza, ha affascinato sia studenti della «sinistra rivoluzionaria» sia intellettuali italiani e stranieri. Nel 1969 sdegnò numerosi dirigenti del Pci, partito nel quale era cresciuta e che la radiò perché con il gruppo del Manifesto aveva condannato risolutamente l’invasione sovietica di Praga. Una nuova pagina nera, quell’aggressione sferrata da Leonid Breznev contro la capitale della Cecoslovacchia, in una storia immaginata in precedenza migliore. Rossana Rossanda rimase comunista anche quando Achille Occhetto, chiudendo un’era della politica italiana, dopo il 1989 propose di trasformare in Partito democratico della Sinistra il Pci nel quale lei non era mai rientrata. Nonostante tutto, non si è arresa. Con Luciana Castellina, il mese scorso, è intervenuta a un incontro nella Casa delle Donne per la campagna elettorale de La Sinistra. Mente lucida, labbra vivide con rossetto brillante, «La ragazza del secolo scorso», come Rossana Rossanda si definì in un suo libro edito nel 2005 da Einaudi, è seduta nello studio di casa a Roma. Qualche sguardo agli scaffali della libreria permette di rintracciare ingredienti sparsi della sua formazione e dei suoi interessi: La città futura 1917-1918di Antonio Gramsci, saggi in francese e in inglese, letteratura, filosofia. Molta la storia, dai ricordi di Marco Aurelio a The nemesis of power. The German Army in politics 1918-1945. La conversazione che segue comincia parlando della ragazza diciassettenne lasciatasi morire in Olanda, giorni fa, perché non desiderava più vivere. Fu Rossana Rossanda, nel 2011, ad accompagnare in Svizzera Lucio Magri, 79 anni, un altro dei fondatori del Manifesto, quando lui fece porre fine alla propria esistenza. Per età e motivazioni della scelta, due casi diversi. Così l’incontro è proseguito parlando di Magri e altri argomenti che il suo suicidio assistito può evocare. Che cosa è la vita, la propria vita, per alcuni ex dirigenti comunisti cresciuti nel sogno di un’uguaglianza nella giustizia secondo i termini teorizzati da Karl Marx. Che cosa hanno provato queste persone, nel Paese che ebbe il più forte partito comunista dell’Occidente, quando soltanto al principio degli anni Novanta riconobbero l’uscita del comunismo dagli eventi realizzabili in un futuro accessibile ai contemporanei. Che cosa è l’Italia di oggi vista a 95 anni dalla ragazza del secolo scorso. Doveroso premettere che Rossana Rossanda, tra 1978 e 1979, al Manifesto quotidiano è stata direttore di chi scrive queste righe.
Quali riflessioni derivarono dall’accompagnare Magri al suicidio assistito?
«Pensavo e penso che lui avesse diritto. Non mi sono opposta alla sua volontà di finire».
Affinché arrivasse il suo ultimo giorno andaste insieme vicino Zurigo. La misura nell’uso delle parole rende l’idea di quanto accade più di alcuni toni alti. Sulla morte di Magri la tua descrizione fu questa: «È stato tristissimo. Non terribile, ma tristissimo».
«Lucio aveva perduto sua moglie a causa di una malattia».
Mara, scomparsa tre anni prima. La mancanza di lei accentuò un suo malessere?
«Sì. Rispetto agli altri amici che non erano d’accordo sulla scelta di Lucio io non ho avuto difficoltà ad accompagnarlo. Ma per lui, come per tutti, decidere di morire non è semplice. E lui aveva la sensazione che ormai non c’era più niente da fare. Non solo, come è ovvio, per la sua compagna. Anche per la vita politica».
Dunque per quanto era successo dopo il 1989, l’apertura del Muro di Berlino, e la fine dell’Unione Sovietica nel 1991. Ma tu Magri e altri, nel 1969, foste radiati dal Pci perché eravate in contrasto con il vostro partito sull’Urss e sull’invasione della Cecoslovacchia. Perché risentire fino a quel punto della sconfitta sovietica? Fosti tu tra 1977 e 1979 a promuovere i convegni del Manifesto sulle «società post-rivoluzionarie», atti d’accusa contro la dittatura di Breznev.
«Fummo radiati perché eravamo in dissenso con il partito. Il nostro dissenso con l’Unione sovietica però veniva da lontano».
E come mai il collasso dell’Urss doveva essere motivo di disperazione per Magri?
«Perché non era solo il crollo dell’Unione sovietica, ma delle nostre speranze in Italia. Del resto guarda un po’ come va oggi. Non è che Lucio sbagliasse. Allora al governo c’era stato fino a poco prima Silvio Berlusconi».
Tuttavia sei stata ragazza durante il fascismo. Non è che in gioventù avessi vissuto momenti politici migliori per una comunista. Erano stati infinitamente peggiori.
«Ero giovane».
Rispetto alla vita, la vostra generazione ha conosciuto molto più dolore rispetto a chi in Italia è giovane adesso.
«Vedere finire ogni speranza di una vita diversa non è cosa da poco».
Non credi di aver dato ad altri insegnamenti che non si disperdono?
«Non mi pare di aver fatto niente di speciale».
Davvero?«Davverissimo».
Venivi ascoltata sempre con attenzione e rispetto in riunioni e assemblee. Le divergenze politiche e vicende della vita ci hanno portato in tanti su strade diverse da quella del Manifesto, ma, solo nel campo del giornalismo, tu sei stata considerata una dei maestri anche da Gianni Riotta, Lucia Annunziata, Norma Rangeri che invece al Manifesto è rimasta e lo dirige.
«È una vostra fantasia. Molte cose sono state insegnate a me. Avevo 15 anni nel 1939. Dal 1939 al 1945 ero già abbastanza grande. Ho imparato. Non era semplicissimo. Non è che si trovassero i comunisti o gli antifascisti così facilmente. Quindi sono stati i libri ad avermi fatto maturare, soprattutto quelli esteri. Penso a Fascisme et grand Capitaldi Daniel Guérin».
Credi che non esista alcuna prospettiva per la sinistra? E, dal tuo punto di vista, nessuna possibilità per un miglioramento del genere umano?
«Comunque quello che era un nostro progetto era proprio fallito. Adesso poi le cose sono peggiorate. Non è semplice accettare che la persona adesso con più peso in Italia sia Matteo Salvini. Non è un problema?».
Un italiano, qualunque sia la sua posizione politica, se lo considera problema non lo ritiene certo di vita o di morte. E tu, Pintor, Valentino Parlato, altri dirigenti della sinistra diffidando di vari estremismi insegnavate a fare i conti con la realtà: cercare di capire qual è il campo di battaglia e se le vie desiderate non funzionano, trovarne di nuove.
«In effetti è solo Lucio che anche per le valutazioni politiche ha deciso di finire. Noi no».
Che la fine di un sogno strutturato in ideologia possa causare disagio, dolore è comprensibile. Eppure a sinistra c’è chi rispetto ai comunisti ha azzardato meno nell’ambizione, nell’utopia, e ha compreso meglio la realtà. Molti socialisti, laburisti, socialdemocratici.
«Ma non è che il realismo ti obblighi ad accettare tutto».
Questo «tutto» è riferito alle ingiustizie, allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Però le condizioni dei lavoratori italiani sono migliori di 50 anni fa. Senza rinunciare a uno spirito critico sulla società attuale, è un dato di fatto. Andrebbe riconosciuto.
«Dipende. Bisogna misurarsi anche con le speranze. In ogni modo, io non mi sono uccisa. Ho accompagnato Lucio. E non credo che in Italia si stia meglio di 50 anni fa. Perché conta anche l’investimento che fai nelle speranze. Adesso ce n’è molto poco».
Un po’ come una spiegazione che il Manifesto diede delle proteste studentesche del 1977? Contava relativamente che i giovani non fossero poveri come lo erano stati i genitori, si sosteneva, se in tempi di crisi economica l’aver studiato non garantiva loro il tipo di lavoro sperato. È un paragone valido anche per l’oggi?
«Le aspettative delle persone contano. Anche adesso».
Tornando al rapporto tra situazione attuale, passato, speranze e delusioni incontrate dalla tua generazione, non solo da chi era comunista: ma voi non avete visto di peggio? E in tanti non reagiste con tenacia? C’erano stati la guerra e i campi di sterminio, in Europa, mentre eravate giovani voi.
«È un’altra dimensione quella dei campi di sterminio. Vale la riflessione di Primo Levi: chi non l’ha provato non ha conosciuto quel senso di annullamento».
Sopravvissuti ai lager nazisti della Shoah sono poi emigrati in Israele e lì hanno contribuito a far nascere banane nel deserto, a trasformare aree desertiche in zone coltivate. A maggior ragione la storia va spinta in avanti, non indietro.
«Sì, è vero. Però in questo contesto che cosa vuol dire: che Lucio aveva torto?».
Vuol dire che il suo dolore esistenziale e individuale merita rispetto, ma la sua scelta non era una via per tutti voi.
«Se rileggi i libri di Luigi neanche lui era molto positivo (Luigi Pintor, altro fondatore del Manifesto, direttore e corsivista brillante che spiccava per graffiante ironia e che allo stesso tempo soffriva il peso interiore di un’amarezza provata da quando nel 1943 il fratello Giaime morì su una mina, ndr)».
Di sicuro Luigi Pintor non era sempre ottimista. Il suo Servabo, parola latina che ha tra i suoi significati «conserverò» oppure «servirò, sarò utile», è un libro sofferto. Tuttavia sul serio anche molto utile.
«Certo. A quale aspetto ti riferisci in particolare?»
Pintor spiegò così come mai gli esseri umani, mortali, si sforzano «in forme esasperate» per accumulare denaro, costruire relazioni e avere potere: perché sentono di doversi curare quando in un momento dell’esistenza arriverà «l’accerchiamento finale». Però a chi assiste una persona cara che sta male alcuni passaggi di Servabo possono dare conforto. Soprattutto uno: «Non c’è in un’intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi».
«Comunque puoi capire che per qualcuno la speranza ideale, politica, sia una sfida di vita o di morte. Puoi dire: “Non sono d’accordo”».
Che cosa legge attualmente Rossana Rossanda? Che cosa guarda o che ascolta?
«Ho cercato di capire un po’ più della politica italiana ed è veramente desolante, devo dire».
Lo sostengono in parecchi, al di là delle collocazioni politiche. A volte, comunque, le persone delle quali non si condividono le idee possono fornire insegnamenti a ciascuno di noi se riescono a vedere qualcosa di noi che non vediamo o non vogliamo vedere.
«Vero, eppure nella circostanza specifica aiuta poco. E personalmente non ho rancori. Se penso al passato, neanche verso Giorgio Amendola. Constato che alcuni dirigenti del Pci, più tardi, hanno voluto demolire il Partito comunista. Hanno fatto bene? Non lo penso».
Parlavi di fallimento di un progetto. Ritieni possibile migliorare lo stato delle cose senza sottoporre a cambiamenti criteri e finalità dell’ideologia nella quale ti formasti?
«Domanda del tutto legittima. Ma sono convinta che l’Italia sia peggiorata, non migliorata in questo periodo. Da quando l’avevo lasciata, poi, è un Paese involgarito».
Rossana Rossanda e la radicalità del nuovo femminismo Politica. Lea Melandri il 26 Maggio 2019 su Il Dubbio. Non mi stupisce che Rossana Rossanda ancora una volta abbia saputo cogliere, in quella ripresa duratura del femminismo che è la rete Non Una Di Meno, la radicalità di un soggetto politico capace di portare allo scoperto il rapporto di potere e di sfruttamento che passa da secoli sul corpo delle donne. Al suo senso di giustizia attribuisco la lucidità con cui ha saputo sottrarsi a contrapposizioni semplificatorie e divisive intorno a temi come la prostituzione e la gravidanza per altri. Rossana Rossanda e la radicalità del nuovo femminismo. Se c’è un tratto particolare che distingue Rossana Rossanda dalla “donna qualunque tra milioni di altre”, appartenenti alla cultura greco romano giudaica – così come ama definirsi nell’articolo uscito su L’Espresso -, è il suo profondo senso di giustizia. Non saprei come definire altrimenti quel suo “dover essere” che l’ha portata fin dalla giovinezza a tenere fermi gli occhi sulla miseria, a diventare comunista, ma anche a riconoscere, dall’orizzonte del mondo e della grande Storia, l’anomala, imprevista “sfida” del femminismo degli anni Settanta alla politica: un movimento – scrisse allora Rossana – la cui portata “eversiva” consisteva nell’essersi inoltrato nelle “acque insondate delle persona”, in una materia segreta, imparentata con l’inconscio. La centralità che ha avuto sempre la lotta di classe nel suo percorso di donna, marxista ortodossa, militante nel Pci fino alla sua espulsione, fondatrice de il manifesto, non le ha impedito di vedere allora la “dimensione immensa” che sta nella identità di sesso, e nella cultura femminista, non un complemento, ma una “critica vera e perciò antagonista, negatrice della cultura altra”. Ma aveva fretta Rossana, avrebbe voluto che quella presa di coscienza delle donne cadesse con tutto il suo peso dentro il mondo personale e pubblico dell’uomo, che accelerasse la scomposizione dei poteri, che investisse come tema di riflessione l’insieme delle forze e dei soggetti sociali e politici. Temeva, a ragione, che da quelle acque “un po’ torbide” sarebbe stato difficile risalire, difficile dare umanità e immediatezza alla politica senza perdere la capacità di comunicazione, senza atomizzarsi nella pure cerchia della persona. La nostra amicizia si è collocata allora su questo crinale, fatto di curiosità, interesse reciproco e di sguardi affettuosamente critici. Non l’ho mai giudicata “una donna di potere”, non ricordo di averle neppure detto “tu sbagli” – come ha scritto in un articolo di Lapis. Capivo soltanto che la sua fretta, dopo l’avvicinamento degli anni Settanta e Ottanta – le trasmissioni su Radio Tre sulle parole della politica in dialogo con amiche femministe, gli articoli raccolti nel libro Anche per me, in cui ammetteva di essersi concessa “qualche scorreria” in territori del pensare rimasti per lei privati, vincendo l’indiscrezione del raccontarsi -, l’avrebbe allontanata da noi. Non è stato così, come dimostra la sua collaborazione negli anni 90 alla rivista Reti, diretta da Maria Luisa Boccia, e alla mia rivista Lapis, a cui ha regalato pagine sorprendenti per la coraggiosa esposizione di sé – il rapporto col suo corpo, l’invecchiamento, la morte, l’amicizia tra donne, la dipendenza dalle immagini del femminile ricevute dall’altro sesso e stratificate nella memoria profonda di ogni donna. Ma soprattutto, come ci tiene a sottolineare nell’articolo su L’Espresso, ha condiviso tutte le battaglie delle donne, sia pure con qualche riserva. Non mi stupisce perciò che, ancora una volta, con una maggiore distanza generazionale, abbia saputo cogliere, in quella ripresa duratura del femminismo, che è la rete Non Una Di Meno, la radicalità di un soggetto politico capace di portare allo scoperto il rapporto di potere e di sfruttamento che passa da secoli sul corpo delle donne, dalla sessualità alla maternità, dalla divisione sessuata del lavoro al binarismo di genere, all’eterosessualità obbligatoria, vista come fondamento biologico della famiglia patriarcale. Al suo senso di giustizia attribuisco la lucidità con cui ha saputo sottrarsi a contrapposizioni semplificatorie e divisive intorno a temi come il polimorfismo sessuale, la prostituzione e la gravidanza per altri. Quello che più conta per ogni scelta – dice Rossana -, anche quelle su cui abbiamo riserve, è la libertà di chi la pratica. Così è per l’aborto – «va eliminata dalla 194 l’obiezione di coscienza da parte dell’operatore della sanità pubblica» -, così per la Gpa – «impedirla vorrebbe dire mettere un limite alla libertà della donna e dell’uomo che lo desidera». Ma poi aggiunge: «Non per questo si deve ignorare che consentirla comporta un pericolo permanente di mercificazione». Altrettanto articolato nella sua complessità e nelle sue contraddizioni è il giudizio che Rossana dà per l’uscita dal binarismo sessuale: se sono augurabili forme più libere, polimorfiche, di sessualità e di famiglia, è importante tenere conto che non scompare per questo la tentazione di fissare regole, leggi, e di conseguenza nuovi rapporti di potere, che si parli di un terzo sesso, nuove intimità o famiglie omogenitoriali. Piuttosto che “nuove definizioni”, dichiara in modo sorprendente, meglio “incertezze e disordine”. Al suo sguardo partecipe e insieme “luciferino” non poteva sfuggire neppure quel “patto” che ha visto per secoli le donne esercitare, nella indispensabilità all’altro, un sottopotere sostitutivo di altri loro negati. Dalla sua intelligenza profondamente umana e dalla sua passione politica, abbiamo ancora molto da imparare.
· Parlando di Paola De Micheli.
De Micheli, un ministro delle infrastrutture che tra gaffes e decisioni discutibili sta facendo rimpiangere Toninelli. Andrea Sparaciari il 2 dicembre 2019 su it.businessinsider.com. L’impresa non era semplice. Ma alla neo ministra delle Infrastrutture e Trasporti, la 46ene Paola de Micheli (Pd), sono bastati tre mesi scarsi per far rimpiangere il più che discusso predecessore, Danilo Toninelli. Tra gaffes (la ventilata cooptazione dell’ex ad di FS, Mauro Moretti – condannato in appello a 7 anni per la strage di Viareggio – a consigliere ministeriale, nomina poi negata quando la notizia è trapelata e i parenti delle vittime hanno minacciato la rivoluzione); atteggiamenti “morbidi” verso i concessionari autostradali (l’ultima umiliazione tre giorni fa, quando il neo ad di Aspi, Roberto Tommasi, le ha risposto “neanche ci sogniamo di abbassare i pedaggi”); siluramenti di professionisti già indicati per guidare nuove agenzie di controllo; scudi protettivi concessi ai controllori dei concessionari di autostrade e ferrovie; il pasticcio dei seggiolini; in molti hanno iniziato a rimpiangere l’ex ministro assicuratore del primo governo Conte. Soprattutto la sua voglia di rompere l’enpasse burocratico-amministrativa che ha portato l’Italia ad avere infrastrutture traballanti. L’ultima scivolata – nonché esempio chiaro di quanto de Micheli abbia abbracciato un approccio morbido a questioni ruvide – è la sua “rivisitazione” dell’art 13 del Decreto Genova (scritto dopo la tragedia del Ponte Morandi), il quale prevedeva la creazione in tempi rapidi di una banca dati nazionale delle opere pubbliche. Incredibilmente, infatti, l’Italia a oggi è priva di un database centrale che contenga tutte le informazioni sulle opere pubbliche. Per ovviare a tale macroscopica mancanza, il testo originale del decreto Genova prevedeva che “entro e non oltre il 30 aprile 2019” sarebbe dovuto entrare in funzione l’Ainop, l’Archivio informatico nazionale delle opere pubbliche. Nella creanda banca dati, ogni ente, amministrazione centrale e periferica dello Stato, regione, autonomia locale (Province Autonome, Province, Città metropolitane, ecc.), tutti i comuni e concessionari (come Fs, Aspi e Anas) avrebbero dovuto riversare i documenti riguardanti:
Ponti, viadotti e cavalcavia stradali;
Ponti, viadotti e cavalcavia ferroviari;
Strade;
Ferrovie nazionali e regionali – metropolitane;
Aeroporti;
Dighe e acquedotti;
Gallerie ferroviarie e gallerie stradali;
Porti e infrastrutture portuali;
Edilizia pubblica.
Non l’impresa titanica che ci si potrebbe aspettare, visto che questi dati enti amministrativi e concessionari dovrebbero già averli “in casa”. Il problema che è che molti concessionari li hanno solo parzialmente (e quelli che posseggono sono datati, quando non veritieri), mentre le Regioni e, soprattutto le Provincie, non li hanno proprio. E sono privi anche dei fondi e dei mezzi per ricrearli. Naturalmente in un Paese dove ponti e viadotti crollano come castelli di sabbia (lo dice la cronaca) e dove la rete ferroviaria ha un allarmante gap manutentivo e strutturale (come attestato dalla stessa Agenzia per la sicurezza ferroviaria, Ansf), quei dati sono oro. E, soprattutto, sarebbe necessaria la loro disponibilità immediata, fosse solo per quanto stanno scoprendo i pm riguardo ai concessionari autostradali e alle loro mancate ispezioni/manutenzioni. Del resto, lo dice il testo stesso della legge: “Il “fascicolo dell’opera”, nella sua globalità, fornisce gli elementi per individuare le opere da porre in sicurezza con interventi ad hoc, classificandole anche in base alle priorità d’urgenza”. Secondo molti la Ministra avrebbe dovuto, da una parte, obbligare i concessionari a mettere a disposizione le informazioni, considerandoli responsabili e sanzionandoli per le eventuali mancanze/falsità, dall’altra concedere una proroga alle amministrazioni, dotandole delle risorse necessarie per sanare il gap. De Micheli ha deciso di non fare nessuna delle due cose. In compenso ha messo mano alla formulazione di quel decreto entrato in vigore il 21 novembre scorso, aggiungendo il nuovo art.3, il quale recita: “Al fine di coordinare il processo e le modalità di alimentazione dell’Ainop e garantire il rispetto delle tempistiche (…), è istituito presso il Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti un Tavolo tecnico permanente. I cui Membri sono nominati entro 60 giorni dall’entrata in vigore del presente decreto con provvedimento del Ministero”. Cioè ha preso tempo. Di tale Tavolo fanno parte tutti i direttori dei vari dipartimenti del ministero. Gli stessi che fino a oggi hanno avuto il compito di vigilare sui concessionari autostradali e ferroviari con risultati che sono evidenti a tutti. Insomma, Ainop non si farà certo in tempi brevi. E, forse, neanche lunghi. Ma la ministra ha inteso fare anche un enorme favore ai vertici della nuova dell’Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie e delle infrastrutture stradali e autostradali (Ansfisa): con un emendamento nato all’interno del Mit, ma presentato dal Movimento 5 stelle, al decreto legge di Riforma dei ministeri, ha infatti sollevato da ogni responsabilità i controllori dell’Agenzia. Da organismo deputato a “garantire la sicurezza”, Ansfisa si è trasformata in organismo deputato ad assicurare “la vigilanza sulle condizioni di sicurezza”. Una piccola differenza lessicale ma dall’enorme peso giudiziario: a norma di legge (ma bisognerà vedere come la prenderà la magistratura) il controllore non sarà più – come era stato previsto dalla norma “toninelliana” – responsabile se il suo controllato non fa manutenzione a un ponte e questo crolla. Così come non sarà più chiamato a rispondere se un treno deraglia, perché un giunto rotto della linea ferroviaria non è stato sostituito nei tempi previsti e dei passeggeri perdono la vita. Un esempio tutt’altro che ipotetico, visto che la Procura di Milano ha chiesto il processo per l’ex presidente di Ansf (la vecchia Ansfisa) e del suo vice, per la strage di Pioltello. In compenso, con quello stesso decreto di riordino si è prolungato il “periodo transitorio” nel quale Ansfisa non potrà essere operativa. Il che significa che i controlli ricadono ancora in capo alle singole direzioni ministeriali. Tuttavia, gli ispettori del ministero non hanno la possibilità di fare ispezioni sull’operato dei concessionari, perché queste non sono espressamente previste dalle convenzioni. Un cane che si morde la coda. L’effetto finale è che oggi nessuno controlla nessuno. E sempre in tema di Ansfisa, De Micheli ha “silurato” il presidente dell’Agenzia che era stato designato da Toninelli. È quell’ingegner Alfredo principio Mortellaro che da oltre un anno aveva avviato una serie di attività per dare piena operatività all’Agenzia, secondo quanto emerge da convegni e tavole rotonde. Un lavoro svolto – oltretutto – a titolo gratuito. L’ex uomo del Sisde era quello che aveva investigato sul cedimento del ponte Morandi, presiedendo la Commissione ministeriale d’inchiesta, le cui conclusioni mai smentite da Aspi-Atlantia stanno trovando ogni giorno nuove conferme dall’autorità giudiziaria. Il ministro piacentino lo messo da parte anzi tempo (l’incarico sarebbe comunque scaduto a gennaio), nominando al suo posto l’ingegnere Fabio Croccolo, già Dirigente Generale della Direzione Generale per le investigazioni ferroviarie e marittime. Un ottimo tecnico del settore ferroviario, ma che acquisterà i pieni poteri non prima di due/tre mesi, considerando l’iter previsto dalla legge per la nomina. Nel frattempo Ansfisa è senza una guida. Mortellaro infatti ha dato le dimissioni a inizio settimana scorsa: “Me ne vado perché tutte le mie istanze sono cadute nel vuoto”, aveva dichiarato al Corriere della Sera, “ho avuto un colloquio con la ministra il 4 ottobre, le ho scritto una lettera il 4 novembre. Cercavo un incontro successivo per rendere concreto l’avvio dell’Agenzia e non ho avuto alcuna risposta, nemmeno a Savona dove entrambi ci siamo recati per valutare l’ennesimo crollo (quello del viadotto Madonna del monte, sulla A6, caduto domenica 24 novembre, ndr)”. Manca la testa, ma manca anche il corpo dell’Agenzia, visto che ancora non sono stati assunti i 61 tecnici specializzati che il decreto Genova prevedeva di cooptare con chiamata diretta entro aprile 2019. E, qualora non venissero assunti prima dell’entrata in vigore del Regolamento dell’Agenzia – che attende solo la definitiva firma del ministro dopo l’approvazione del Consiglio di Stato –, si dovrà procedere alla loro individuazione attraverso un concorso pubblico. Con i tempi biblici che il concorso pubblico prevede. E, mentre tutto ciò accade nel palazzo del Mit, le infrastrutture restano senza controlli.
Alessandro Giuli per “Libero quotidiano” il 29 luglio 2019. In un partito normale Nicola farebbe le fotocopie per Paola e le porterebbe il caffè in ufficio con il taccuino nell' altra mano e la matita dietro l'orecchio, pronto a ricevere disposizioni sulla giornata politica. Ma il Pd, si sa, non è un partito normale e accade così che i ruoli siano invertiti: alla corte del segretario Zingaretti c'è una capa naturale che svetta per meriti propri e per il vuoto intorno a lei: De Micheli Paola, piacentina, scienziata della politica ulivista, fresca vice segretaria del Pd, «cattolica scollata che nessuno si è mai cagata» - parole sue, perché è pure autoironica - e che ha attraversato in scioltezza tutte le stagioni e i toni di rosso di cui si sono ammantate le principali leadership democratiche. Gli antipatizzanti l'accusano di essere stata bersaniana con Pier Luigi Bersani, lettiana con Gianni Letta, renziana con Matteo Renzi e adesso zingarettiana nell'attesa del prossimo giro. Nessuno si è mai domandato se invece non siano piuttosto stati demicheliani, perfino obtorto collo, i maschietti segretari che l'hanno via via ingaggiata e valorizzata lungo il cammino. Per la verità lei è sempre stata se stessa: emiliana catto-sinistra e secchiona per necessità: orfana di padre a 19 anni, con due fratelli minori cresciuti insieme a sua madre Anna allora quarantaquattrenne, si laurea in Scienze politiche alla Cattolica di Milano dopo aver fatto studiare i più piccoli, inizia a lavorare nel settore agroalimentare, aderisce alla causa prodiana che la porterà in breve tempo nel dipartimento Economia del Pd accanto a Stefano Fassina durante la segreteria del conterraneo Pier Luigi Bersani (2012). Dopo il disastro alle politiche del 2013, l'ingaggio al fianco del premier grancoalizionista Enrico Letta non è che la prosecuzione della battaglia ulivista con mezzi aggiornati. Nel congresso post elettorale De Micheli sostiene Gianni Cuperlo contro Matteo Renzi e, quando un anno dopo il bullo di Rignano si prende anche Palazzo Chigi, per lei si pone un problema di spoils system nei gruppi parlamentari: che fare della vicaria del capogruppo bersaniano alla Camera Roberto Speranza? Rimossa e promossa sottosegretario al ministero dell'Economia, dove sostituisce Giovanni Legnini in rampa di lancio per la vicepresidenza del Csm. Dal Mef, nient'affatto renziana, De Micheli tesse la sua tela, fa valere il rigore femminile del suo segno zodiacale (Vergine) e diventa una risorsa neutrale di un partito in perpetua ebollizione. Matteo prende a stimarla e lei lo ricambia dopo il funesto referendum costituzionale del 2016, sostenendolo nel successivo congresso con l'obiettivo di salvare il Pd dall' implosione definitiva. Se De Micheli ha avuto una sbandata renziana, insomma, questo è avvenuto quando l'ormai ex segretario aveva imboccato la via del (momentaneo) tramonto. Regnante Paolo Gentiloni a Palazzo Chigi, nel settembre 2017 Paola viene nominata commissario straordinario alla ricostruzione delle aree centro-italiane colpite dal terremoto dell'anno precedente. Un diadema istituzionale che non stona sulla sua testa materna (è la moglie risolta di un agente di commercio nonché madre d'un cucciolo di tre anni e mezzo). Il resto è storia dell' altroieri. La batosta nelle urne del marzo 2018, la nascita del governo nazionalpopulista, le ferite sanguinanti del Pd affidate all' infermiere Zingaretti che sceglie De Micheli come vice e si avvale delle sue indiscutibili doti comunicative. Perché in tivù Paola funziona bene: regge alla grande il conflitto, sa articolare il messaggio economico con una certa autorevolezza, aggredisce l'avversario di turno con capacità seduttive molto feline e un po' felliniane, ma senza quel maliardo o imbarazzato "flap flap" nelle palpebre che ha reso celebri alcune esibizioni di Maria Elena Boschi, alla quale De Micheli viene talvolta accostata. A voler essere benevoli con lui, si potrebbe dire che Paola e il fratello di Montalbano si completano a vicenda. Zingaretti è un fenomeno della retroguardia: tanto moscio in tivù e sui social quanto esperto nella gestione del potere di quella grigia struttura fondamentale sulla quale poggia la sopravvivenza di un partito ciclotimico com' è il Pd. De Micheli è invece la cuspide dell' avanguardia, un' ardita del popolo che spunta sulla lavagna i bersagli raggiunti e ricarica subito il moschetto. Dire che la zingarella in chief vale da sola un battaglione di amazzoni renziane è forse eccessivo, ma siamo lì.
RITRATTONE DI PAOLA DE MICHELI BY PERNA. Giancarlo Perna per “la Verità” l'8 giugno 2019. Sono le sfaccettature che prevalgono in Paola De Micheli, rendendola indecifrabile. La deputata del Pd brucia le tappe, senza che se ne capisca il perché. Ora, è neo vicesegretario del partito (l'altro è l'opaco Andrea Orlando) e braccio destro di Nicola Zingaretti. Fu due volte sottosegretario in passati governi e commissario straordinario per il terremoto del Centro Italia. Perché lei? Mancavano le premesse, i titoli di merito, il curriculum. Eppure è stata nominata, ha fatto le sue cose ed è in corsa per altro. Insomma, Paoletta qua, Paoletta là, De Micheli oggi è ovunque. Soprattutto, in tv dove la multifaccialità del personaggio raggiunge il massimo. Sono cinque anni che la vediamo ogni giorno. Talvolta, inguainata in abiti sexy, stivaletti tacco 12, niente frustino. Altre volte, appare come un prezzemolino su tutto. Altre ancora, è un'Orietta Berti dei tempi d'oro, con le guanciotte paciose e la quieta cadenza piacentina. Personalmente, la trovo gradevole. Non scende mai in polemiche gridate. Anzi, pare strizzi l'occhio all' avversario, per dirgli che dopo si va a cena insieme. E i canali se la contendono. Ha tali capacità di galleggiamento e propulsione che sorge spontanea la domanda: dove arriverà? Io, che non sono la Pizia, so solo da dove viene. Paoletta è una democristiana che si è avvicinata agli ex comunisti facendo il cammino inverso di Piacenza, la sua città, considerata un' oasi bianca nel rosso romagnolo. De Micheli, che in settembre avrà 46 anni, è sbocciata in una famiglia di pii agricoltori, titolari di una bella impresa dei luoghi. A 17 anni, studentessa di liceo (classico), era già nella direzione della Dc piacentina. Crollata la Dc con Tangentopoli, la giovinetta, che nel frattempo si era iscritta a Scienze politiche alla Cattolica di Milano, prese a guidare i giovani del Ppi, che del partito defunto indossò brevemente le spoglie. Fin qui, un'adolescenza segnata da una precoce intraprendenza politica che annunciava le future ambizioni della ragazzina. Una mattina però Paoletta si sveglia e getta all' aria politica e studi per darsi all' imprenditoria. Ghiribizzo? Sfaccettatura? L'enigma De Micheli si complica. Cominciò a farsi le ossa nell' azienda di famiglia, passò a un' assicurazione ramo agricoltori, e approdò alla sua grande esperienza, l'Agridoro, coop di trasformazione del pomodoro in sughi. Dal 1998 al 2003, Paola ne fu il presidente e l' ad, ossia tetto e fondamenta. «Agridoro è stato lo scopo della mia vita. Non c' era altro per me. Sono un' idealista che vive per i suoi valori», disse una volta da Bruno Vespa, rievocando quegli anni. Se avesse anche aggiunto come finì, e non lo fece, il lirismo sarebbe apparso stonato. Nel suo quinquennio, infatti, la Coop si dissolse, finendo in liquidazione coatta, con un buco di 5 milioni e spicci. Qualche mese prima del naufragio, la capitana aveva lasciato la nave ma ebbe egualmente una scia di guai. Stando alle cronache, Il tribunale di Piacenza la indagò e le inflisse una multa di 2.000 euro per una trascuraggine: 188 fusti di pomodori verminosi e dall'«odore nauseabondo» erano stati accatastati vicini ai prodotti destinati al mercato, anziché in area separata. Addirittura, inizialmente gli investigatori dubitarono che i putrefatti stessero per essere venduti anziché smaltiti. Il sospetto si sgonfiò e Paoletta, almeno sotto questo profilo, fu risparmiata. Intanto, con un bel po' di ritardo, la ragazza, ormai donna, riprese gli studi milanesi, laureandosi dopo nove anni. Vuoi per la frustrazione manageriale che per il riaccendersi dell' antica passione, Paoletta tornò alla politica e stavolta a tempo pieno. Si legò alla Margherita, che del Ppi era l' erede, e confluì col nuovo partito nel Pd appena nato (2007). Mentre faceva comizi, i fantasmi dell' antico fallimento si affacciavano sotto il palco in forma di contadini coi forconi. Erano i soci-coltivatori che, rimasti sul lastrico, minacciavano sfracelli contro l' ex presidentessa responsabile dei loro guai. In realtà, la sventurata aveva colpe relative. A sconfiggerla era stata la concorrenza pomodoresca cinese che aveva buttato l' Agridoro fuori mercato. Io un pizzico di rancore verso il Celeste Impero l' avrei avuto. De Micheli, no. Tanto che, poco dopo la batosta, soggiornò in Cina per fornire ai concorrenti di colà una consulenza su pomodori, loro imbarattolamento e cose così. Strana donna. Nel triennio 2007-2010, De Micheli fu assessore alle Finanze e Risorse umane del Comune di Piacenza. Aveva un legame di ferro con il sindaco, Roberto Reggi, anch' egli del Pd. Lui grintosissimo, al punto da scalare il campanile del Duomo per farsi notare dagli elettori, lei con le dieci dita in pasta sulle cose della città. Entrambi erano in concorrenza con il loro quasi concittadino, Pier Luigi Bersani. In vista delle elezioni del 2008, si accordano tra loro per una staffetta: Reggi a Montecitorio, De Micheli, sindaco al suo posto. Ma alla Camera, per non so quale maneggio, ci andò Paoletta. Fu il primo dei proverbiali scatti con cui spiazza chiunque. Lei va al sodo: entra nelle grazie del potente di turno. Tra i suoi agganci celebri, Bersani, l'avversario d' antan, diventato segretario. Da lui, colmato di servigi, ottenne: a) la cooptazione nel dipartimento di economia del Pd, b) la conferma del seggio alla Camera nel 2013. Salito in auge Enrico Letta, nominato premier nello stesso anno, Paoletta ci si asserpolò. Organizzò a Piacenza la presentazione della corrente lettiana, ospitandola in pompa magna al Teatro municipale. Per amore di Letta, si inimicò l'insidioso Matteo Renzi accusandolo di tramare nell' ombra. Quando Enrico, col celebre «stai sereno», fu defenestrato, De Micheli pianse. Ma in un pugno di mesi la ritroviamo sottosegretario all'Economia al fianco dell'usurpatore fiorentino. Poiché non era, né indispensabile, né Adamo Smith, si pensò che l'incarico fosse dovuto all' arte di insinuarsi. La faccio breve. Entrò anche nel governo Gentiloni, come sottosegretario alla presidenza, e in quota Renzi. Fu poi Commissario al terremoto in veste di bersaniana, poiché bersaniano era Vasco Errani al cui posto si era insediata. Lascio agli storici il compito di darle i voti nei ruoli ricoperti. Intanto, lei è già oltre. Ha messo le ali nello zingarettismo, il vento nuovo che spira a sinistra. È la vice del capo, la donna più in vista del Pd, ha l' ultima parola su tutto. Torniamo così, senza scioglierlo, all' interrogativo iniziale: dove finirà? A 40 anni, e con questo concludo, Paoletta convolò a nozze nel giugno del 2013, quando era semplice deputato, impalmando Giacomo Massari, uno come me. Eppure, mezzo mondo si mosse in direzione Piacenza. Dall' aeroporto militare, in lungo corteo arrivò il premier Letta con la first lady, Gianna Fragonara. La basilica di San Sisto blindata, accolse la sposa in abito bianco e coda, piangente per l'emozione. Letta in persona lesse la Lettera ai Corinzi. Tra gli invitati, col Gotha del Pd, un florilegio trasversale, dal leghista Giancarlo Giorgetti, al berlusconiano Fedele Confalonieri, che, parlando della sposa, esclamò estatico: «Ce ne vorrebbero di politici così». E con questo mi pare di avere detto molto. Dimenticavo: dal 2016, Paoletta è anche presidente della Lega volley.
· Parlando di Andrea Marcucci.
Andrea Marcucci, il trasformista per la poltrona. Prodiano, poi super renziano ma anche fan di Minniti ma oggi accanto a Zingaretti. Così il senatore Pd si tiene stretta la poltrona. In attesa della prossima svolta. Francesco Bonazzi il 13 novembre 2019 su Panorama. In politica ci sono quelli che cambiano leader, quelli che cambiano maggioranza, quelli che cambiano premier. Poi c’è Andrea Marcucci da Barga in Garfagnana, 54 anni, capace di cambiare tutto senza battere ciglio e restando sempre nello stesso partito, ben intarsiato nella propria poltrona di presidente dei senatori del Pd. Prima prodiano, poi renziano della prima ora, quindi fan di Marco Minniti alle ultime primarie, ma sempre al suo posto con Nicola Zingaretti segretario. Dell’amico Matteo, che ha lasciato il Pd per fondare Italia viva, ha detto: «Sbaglia». Di Giuseppe Conte, quando era presidente del Consiglio del governo gialloverde, Marcucci ha invece detto che sembrava «Alice nel paese delle meraviglie» ed era anche una reincarnazione di «mago Silvan» (con il quale in effetti «l’avvocato del popolo» condivide l’eleganza sartoriale e una certa esuberanza tricologica). Del Conte reloaded, da quando è presidente del Consiglio del governo giallorosso, Marcucci ha invece prontamente apprezzato «l’invito a lavorare a un progetto riformatore» e il fatto che sia «una personalità autorevole e terza». E due giorni dopo aver bigiato la decima Leopolda di Renzi, ai cronisti che gli chiedevano se Conte rischi di fare la fine di Enrico Letta, il capo dei senatori piddini ha dato una risposta da brividi: «Non credo ci siano minimamente le condizioni». Eh, «le condizioni», gioia e dolore di ogni vero politico italiota. Oggi ci sono e domani non ci sono. Giustificano tutto, «le condizioni». Chissà che condizioni c’erano nell’inverno 2013, quando Renzi telefonò a Enrico Letta e lo invitò a pranzo per stringere il seguente patto: «Chiunque di noi riceva l’incarico dal presidente Napolitano, avrà il sostegno dell’altro». Sostegno a tempo, s’intende. Il retroscena è stato raccontato dallo stesso Renzi quasi in tempo reale in un libro (Oltre la Rottamazione, Mondadori) uscito a maggio 2013. Renzi si era limitato a parlare dell’ufficio di «un senatore amico». Ovvero un altro toscano che non era Denis Verdini, il regista del Patto del Nazareno con Silvio Berlusconi, ma Andrea Marcucci (come ha svelato Federico Ferrazza sul Sole 24 ore), che dietro via Veneto ha la disponibilità di vari uffici delle aziende di famiglia. Già, perché i Marcucci, ovvero Andrea, il fratello Paolo e la sorella Marialina, figli di Guelfo, grande imprenditore scomparso qualche anno fa, sono i Berlusconi della Garfagnana. Ancora oggi Andrea vive nella tenuta all’interno del Ciocco, la grande pineta-resort che il padre, negli anni Settanta, trasformò in un grande centro sportivo (ha ospitato i ritiri della Nazionale di calcio) e turistico, la cui gestione è stata abilmente ceduta a un colosso Usa come il gruppo Marriott. Ma i Marcucci avevano visto giusto anche sulle tv private: ne hanno fondate un po’ nei meravigliosi anni Ottanta e la più celebre, Videomusic, l’hanno rifilata nel 1995 a Vittorio Cecchi Gori. Il cuore dell’impero, mandato avanti dal fratello Paolo, resta comunque la Kedrion, che raccoglie sangue umano da 23 centri in tutto il mondo e ne ottiene proteine a fini terapeutici. La società lucchese fattura oltre 650 milioni di euro l’anno e conta 2.450 dipendenti. Proprio alla fine del suo ultimo governo, nell’autunno 2011, Silvio Berlusconi ebbe un raro slancio antitrust e mise fine al monopolio dei Marcucci (per altro ex editori dell’Unità, e poi di Europa, il giornale della Margherita) nel campo dei farmaci emoderivati. In realtà, a distanza di tanti anni, manca ancora qualche decreto attuativo. Nel frattempo, fin da giovane, il rampollo Andrea si è impegnato in politica. Ha cominciato con il Pli di Renato Altissimo, proprio mentre il padre Guelfo era impegnato in una durissima battaglia giudiziaria per il sequestro del Ciocco, accusato di abusivismo edilizio (battaglia vinta pienamente a metà anni Novanta), e a difendere l’azienda degli emoderivati dagli appetiti delle multinazionali Usa. Andrea si fa le ossa come assessore alla Scuola della provincia di Lucca, a soli 25 anni. Nel 1992, a 27, è uno dei più giovani deputati nella storia del Pli: eletto nel collegio di Pisa, spende ben 505 milioni di lire per approdare in Parlamento. Nella legislatura poi travolta da Mani pulite, passa agli annali per essere stato il relatore di un’illuminata riforma del tempo libero che alla fine si concretizzava nell’apertura di 11 nuovi casinò. Anche il giovane Marcucci se l’è dovuta vedere con Antonio Di Pietro, quando, nel 1993, gli contestano di aver dato 70 milioni di lire al ministro della Sanità Francesco De Lorenzo, come raccontato dallo stesso politico liberale. Marcucci non fa una piega e nell’interrogatorio del 24 giugno 1993 sostiene che sono denari donati liberamente, «il contributo di un privato cittadino al proprio partito». Liberale mica per nulla. Delle eventuali marachelle del «privato cittadino» Marcucci si perdono le tracce per anni. Ma il 21 dicembre 1999, il tribunale di Napoli accoglie la richiesta di prescrizione presentata dai suoi legali, visto che i fatti a lui contestati si fermavano al 1991, aveva risarcito il danno e aveva ottenuto le attenuanti generiche. Ma di Marcucci è giusto raccontare anche particolari più divertenti, come la passione per gli spostamenti in elicottero, che mette volentieri a disposizione degli amici. Ne sa qualcosa l’ex deputato di Rifondazione comunista Francesco Speranza, che nel 1992 accusò il collega Vittorio Sgarbi di aver usato un elicottero della Protezione civile per andare a Montecatini Terme in una tv locale. Si beccò una sanguinosa querela del critico d’arte perché la «Protezione civile» in questione era quella del giovane Andrea Marcucci e del suo parco velivoli. Del resto, nel privato, è un tipo generoso e sa anche come gestire la notevole ospitalità al Ciocco e le virtù di padrona di casa della moglie Marianna, che in caso di ulteriore carriera è descritta dalle amiche come perfetta First lady, nel senso di dedizione totale alla causa. Di Renzi è amico da sempre, fin dalla prima Leopolda di dieci anni fa. Ma all’ultima, com’è noto, non è potuto andare. Tutti mormorano che sia rimasto nel Pd a fare il capogruppo a Palazzo Madama per marcare Zingaretti, in attesa del «rompete le righe» renziano, ma si tratta di sospetti ingenerosi. Del resto, se ha detto che la scissione «è uno sbaglio», Renzi ha risposto con parole dolci: «Io e Andrea restiamo amici». Ci mancherebbe. Marcucci ha fatto persino il sottosegretario alla Cultura (nel governo Prodi del 1996) perché in fondo è geneticamente nato per stare al governo, come certi industriali. E quando stava per lasciare la guida del gruppo Pd, dopo la scissione di Italia viva, lo hanno fermato l’affetto dei colleghi, capitanati da Gianni Pittella, ovvero il Marcucci della Lucania. Però va detto che il governo gialloverde gli piaceva poco. In 14 mesi ha definito Conte, «premier a sua insaputa» (22 maggio 2018), «un premier degradato al ruolo di portavoce» (21 maggio 2018), «tutto chiacchiere e distintivo» (5 giugno 2018). Poi ha lanciato l’hashtag #contenonconta dopo la crisi della nave Diciotti (settembre 2018) e sui conti gli ha dato anche del «mago Silvan» (19 dicembre 2018), mentre la scorsa estate lo ha paragonato ad «Alice nel paese delle meraviglie» (21 giugno 2019). Quando il Marcucci già si preparava all’accostamento seguente, qualcosa tipo Pinocchio, ecco che quello fa il governo con il Pd e a lui tocca dire cose così: «È una personalità autorevole e terza», «In quella banda di sciagurati aveva un atteggiamento istituzionale sopra il livello medio», fino al meraviglioso «Conte lo abbiamo sempre rispettato» (27 agosto). Che sia lui il vero maestro di Renzi?
Giorgio Meletti per il “Fatto quotidiano” il 22 settembre 2019. Andrea Marcucci, capo dei senatori Pd, non segue nella scissione Renzi, di cui è devoto palafreniere, per impedire che la sagrestia di Nicola Zingaretti sia ripresa dai D' Alema e dai Bersani. L'ha detto: "Resto tra i democratici perché ciò non accada". Strano partito: Zingaretti invita quelli che con lui acclamavano Enrico Berlinguer a festeggiare l' arrivo della turbo-berlusconiana (obbedienza Paolo Bonaiuti) Beatrice Lorenzin. Bisogna essere inclusivi e plurali, ecologisti e industrialisti, statalisti e liberisti, progressisti e reazionari e anche anti-abortisti ma solo a una certa età. Forse funziona, comunque fatti loro. La figura di Marcucci invece raffigura l' incapacità del sistema politico di esprimere un' idea che vada oltre gli interessi personali. A chi sospetta che non sia andato con Renzi per rimanere a fare la guardia al bidone Pd al Senato, Marcucci ha opposto lacrime di commozione come prova di purezza: "Mi ha ferito il dubbio di qualcuno come se io avessi fatto cose al servizio di qualcuno altro". Purtroppo è vero ed è la la tragedia della politica italiana: Marcucci non è mai stato al servizio di nessuno se non di se stesso. Più che chiedersi se sia un infiltrato di Renzi, Zingaretti dovrebbe notare che Marcucci è l' unico politico italiano (oltre naturalmente a Berlusconi) coinvolto nell' inchiesta Mani pulite non per aver preso soldi ma per averli dati, essendo un ricchissimo industriale farmaceutico con tanto di elicottero. E gli italiani dovrebbero credere che in Senato guiderà la battaglia del Pd contro le diseguaglianze e le ingiustizie sociali il padrone della Kedrion, 700 milioni di fatturato e centinaia di dipendenti. La vera natura di Marcucci tutti la conoscono ma nessuno ne parla. Eppure è tutto molto chiaro. Nel 1992 il 27enne figlio dell' imprenditore farmaceutico e televisivo Guelfo Marcucci diventa deputato del partito liberale. Subito dopo esplode l'inchiesta Mani pulite, e Giovanni Marone, segretario dell' ex ministro della Sanità Francesco De Lorenzo, accusa Andrea Marcucci di avergli dato almeno 70 milioni di lire per ottenere la pianificazione sulla sua tv Videomusic degli spot anti-Aids. Marcucci si difende e parla del "contributo di un privato cittadino al proprio partito" che in effetti subito dopo lo fa deputato. Marone insiste: se non pagava la stecca gli spot su Videomusic non li avrebbe visti neppure con il binocolo. La storia sfuma in un nebbione di patteggiamenti e prescrizioni e anche Marcucci svanisce. Sulla scena politica dove gli dà il cambio la sorella Marialina che dal 1995 al 2000 presidia la giunta regionale della Toscana (dove sono le fabbriche di famiglia) come vicepresidente in quota Ds. Poi prosegue il suo sostegno padronale alla sinistra acquistando l'Unità. Con le politiche del 2006 torna in pista Andrea candidandosi nella Margherita, fiducioso che le sue disavventure giudiziarie siano dimenticate. Viene trombato, ma la Margherita non può fare a meno del contributo di uno così dotato e ordina a Romano Prodi di farlo sottosegretario. Stare nel governo per Marcucci è strategico. Pochi mesi prima l'ala operaista del governo Berlusconi ha fatto la norma che pone fine al monopolio della Kedrion sui farmaci emoderivati. La legge per diventare efficace ha bisogno di decreti attuativi che ancora aspettiamo dopo 14 anni durante i quali Marcucci è rimasto granitico membro del governo o del Parlamento e il sistema sanitario ha pagato cifre stellari alla famiglia reale della Garfagnana. L'unico che in questi anni ha provato a sfidare il monopolio dei Marcucci è stato Ignazio Marino, anni fa. Poi è diventato sindaco di Roma e i renziani gliel' hanno fatta pagare come sapete. È il modo del Pd di gestire i suoi rapporti con il capitalismo.
· Maria Elena Boschi e la confessione.
Maria Elena Boschi e la confessione sulla "grande storia d'amore": cosa c'è dietro? Una scomoda teoria. Costanza Cavalli su Libero Quotidiano il 28 Novembre 2019. Mentre il suo sodale Matteo Renzi è di nuovo sotto schiaffo per l' allargamento dell' inchiesta sulla Fondazione Open e combatte all' arma bianca a colpi di Twitter, Maria Elena Boschi, vestale più che mai, soave come non mai, quasi senza toccar terra ha confessato al golosissimo Chi di avere avuto una storia d' amore. Così e nient' altro: «Il fatto che non mi sia sposata o che non abbia un compagno ufficiale, non vuol dire in questi anni sia sempre stata sola. Diciamo che sono stata brava a vivere la mia storia importante senza che nessuno se ne accorgesse. Eravamo entrambi liberi, non c' erano problemi». Ora, che la Boschi faccia una cosa che fanno più o meno tutti, per di più in private sedi e senza rivelare il nome dell' impalmato - sempre stando all' anticipazione diffusa ieri dall' astuto Alfonso Signorini, direttore del settimanale uscito stamane - dovrebbe essere pruriginoso quanto una foglia che cade. Invece la nota d' agenzia è stata rilanciata in tempo reale da tutti i giornali online. Evidentemente 'sta cosa dei fidanzati della Boschi per qualche motivo assilla gli italiani. Alcuni certamente sì, quelli per esempio che hanno reagito su Twitter alla notizia con una lunga teoria di contumelie: il tono medio, è "anche i correntisti delle banche fallite hanno vissuto qualcosa di importante, chissà se te ne sei accorta" (autore tale Stevevic); i retwittatori più briganti alludono in varie maniere a Matteo Renzi.
MA QUALE PRIVACY. A noi dei fidanzati della Boschi importa nulla, ma non possiamo fare a meno di notare l' astuzia. Se fosse stata davvero così affezionata alla sua privacy, l' ex pasionaria avrebbe potuto evitare di rilasciare l' intervista a un settimanale di gossip che conta più o meno centomila copie vendute in edicola; o, se proprio stimolata, avrebbe potuto parlare di begonie e di politica, imponendo il silenzio sui temi sentimentali. Perché non lo ha fatto? Chi può piacere o meno, ma è una vetrina imponente, e soprattutto su certi temi deflagrante. E lei sa bene che, per la sua grande visibilità passata e per l' avvenenza che aveva fatto di lei un sogno proibito presso un certo numero di maschi italiani - un magico miscuglio di antipatia, potere e sensualità - la caccia alle sue avventure intime non è mai scemata, anzi è stato un fuoco tenuto vivo dalla scarsezza di risultati. Non per niente, dopo aver sottolineato di essere cresciuta ed essere diventata «resiliente» (molto di moda, dire di essere resilienti), c' è un lieve fumus provocatorio e dai tempi perfetti nel suo commento al botta e risposta della scorsa estate con Salvini che le aveva dato della mummia, quando postò una foto in bikini con le amiche: «Il fatto che nessuno abbia fatto polemica su Salvini che mi attaccava in boxer, ma solo su di me che ho risposto in bikini, la dice lunga su quanto maschilismo ci sia ancora da noi». Riassumiamo: tralasciando le voci su Matteo Renzi, di certo si sa di un fidanzato, Tommaso Romoli, con il quale rimase insieme per un anno, quando lei aveva vent' anni e lui 25, poi dell' attore e regista fiorentino Andrea Bruno Savelli, lasciato dopo quattro anni, pare per l' eccessiva gelosia di lui, e infine dell' ex tesoriere del Pd Francesco Bonifazi, conoscenza risalente ai tempi in cui lei era una giovane praticante avvocato, mentre a marzo Dagospia ha insinuato che la fiamma fra i due si sia accesa di nuovo.
I PETTEGOLEZZI. Il resto è nebbia: ai tempi in cui la Boschi era ministro si parlò di tale Mattia Mor, ex del Grande Fratello e poi imprenditore, poi di un avvocato di Grosseto battezzato Enrico, il cognome non si seppe. Lo scorso maggio si è vociferato di una storia con l' attore di La figlia di Rivombrosa Giulio Berruti, poi smentita quando è venuta fuori la vera fidanzata di Berruti, l'attrice austriaca Francesca Kirchmair. Un paio di mesi fa ancora il diabolico Signorini ha spifferato sul suo settimanale l'ipotesi che la Boschi avesse una liason con il deputato di Italia Viva Luigi Marattin. Difficile muoversi nel vischio dei gossip, non sappiamo se abbiamo dimenticato qualcuno. Resta comunque il quesito sul perché rilasciare una intervista di questo tipo. Forse una scorciatoia per tornare sulla breccia, anzi di far breccia nel cuore di Italia Viva con un' irruzione sulla stampa popolare a temi leggeri, una mossa dai tempi disgraziatamente sfortunati. O forse, al contrario di quanto l' ex ministro per le Riforme ha negato recisamente («tornerò a fare l' avvocato») quando le è stato ricordato che Maurizio Costanzo ha avuto per lei parole di apprezzamento, Maria Elena Boschi, passati i 38 anni, pensa davvero al futuro. Non al matrimonio (d' altra parte non ce lo direbbe, per quanto tiene alla sua privacy, giusto?), e la politica forse non è più tanto cosa, ma a una nuova carriera. Magari in televisione, magari con qualche ospitata prima, poi con qualche cosa di più. Ma forse no, forse Maria Elena Boschi davvero voleva farci sapere, tramite l' implacabile Signorini, che non ha nulla da dirci. Costanza Cavalli
· Franco Bassanini, il potente che fa sistema.
Franco Bassanini, il potente che fa sistema. E' stato appena indicato come Presidente di Telecom; lui si è defilato. In attesa di occasioni ancor più cruciali. Francesco Bonazzi il 18 ottobre 2019 su Panorama. Riserva della Repubblica, ma anche del Capitale. Nei giorni scorsi, quando l’ex ministro Franco Bassanini si è tirato fuori dalla corsa alla presidenza di Telecom Italia, lo ha fatto con l’eleganza che contraddistingue uno degli ultimi highlander della Prima Repubblica, capace, in mezzo secolo di onorata carriera, di attraversare con l’aria pensosa del civil servant partiti, fondazioni, governi, banche, rami del Parlamento, cadreghe pubbliche e private. Senza restare mai a piedi, neanche per sbaglio e dimostrandosi anche un formidabile incassatore. Come nel 2015, quando Matteo Renzi lo sfrattò dalla Cassa depositi e prestiti e lui ottenne in cambio un ufficio a Palazzo Chigi. Ed è sempre di Bassanini un altro capolavoro assoluto: quello di essersi fatto eleggere per il Pds senatore a Siena tra il 1996 e il 2006, per poi farsi trasferire in Sicilia (dove non fu eletto) proprio alla vigilia del crack del Monte dei Paschi di Siena, sul quale non a caso è difficile trovare una sua dichiarazione. Lui a Siena non c’era e se c’era dormiva, ma i voti nella città della banca-partito gli arrivavano lo stesso. E Marco Morelli, l’attuale amministratore delegato di Rocca Salimbeni, è un suo fedelissimo. A fine settembre, dopo giorni di compiaciute indiscrezioni sulla sua prossima poltrona in Tim, in spregio all’ottantesimo compleanno in arrivo e a qualunque nozione di conflitto d’interesse, visto che da presidente di Open Fiber (metà di Cassa depositi e prestiti e metà di Enel) avrebbe poi dovuto contrattare proprio con Telecom l’unificazione della rete in fibra ottica, Bassanini ha dunque fatto un passo indietro con una nota in cui si assicurava che «la sua attività è pienamente dedicata alla presidenza di Open Fiber e a sostenere il progetto strategico e di grande valenza sistemica che sta realizzando in Italia». Qualunque cosa possa significare la locuzione «valenza sistemica», lui è quella cosa lì. Un uomo di «valenza sistemica» per l’Italia, anche se ama sfoggiare al bavero della giacca la Legion d’onore ed è sicuramente, insieme al suo grande amico Luigi Abete, presidente di Bnl-Bnp Paribas, la pedina francese più importante nella Penisola. Prima di Tangentopoli, il milanese Bassanini militava nelle file del garofano in quota sinistra lombardiana. La cattedra di diritto pubblico la prende alla Sapienza di Roma e alla fine degli anni Settanta guida l’ufficio legislativo del Psi. È stato deputato dal 1979 al 1996, prima come socialista e poi come indipendente nel Pds-Ds, e poi senatore dal 1996 al 2006. Anche prima di farsi espellere nel 1981 da Bettino Craxi, che lo accusò di aver gettato la croce addosso al partito denunciando una linea troppo morbida sulla P2 di Licio Gelli, Bassanini è stato sempre un campioncino della cosiddetta questione morale. Memorabili le sue tirate in Parlamento sugli scandali dei fondi neri dell’Iri, sui maneggi intorno alla Montedison, sul riassetto Rizzoli dopo lo scandalo Calvi-Sindona. Uno così, seppure da indipendente, non poteva che finire che con Achille Occhetto e compagni. Ma l’uomo ha sempre avuto anche una discreta fantasia e nel 1987 propose l’abolizione dei pedaggi autostradali. Una misura proto-grillina che, rendendo la società Autostrade non privatizzabile, ci avrebbe risparmiato i signorotti del casello. E per capire che Bassanini ha un’idea indulgente (e avvolgente) del potere, basta ricordare che fu tra i pochi deputati che si batterono negli anni Ottanta contro la chiusura e la criminalizzazione della rivista satirica Il Male, insieme a Egidio Sterpa, Luciano Violante, Vincenzo Scotti, Giacomo Mancini, Ugo Spagnoli e Rino Formica. Dieci anni dopo, Bassanini è andato al governo con quella che riteneva la parte sana della Dc e del Pci che ha sempre combattuto. Quella sopravvissuta alle manette di Mani pulite. E allora, nella legislatura 1996-2011, eccolo ministro della Funzione pubblica e degli Affari regionali nel primo governo Prodi, sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel primo esecutivo D’Alema e poi ancora a occuparsi della macchina statale come ministro con il secondo D’Alema e il secondo governo Amato. Sforna una serie di meritorie riforme anti-burocrazia e a distanza di anni, i suoi grandi puntelli sono ancora loro: Amato, Prodi e D’Alema. I tre non vanno sempre d’accordissimo, ma Bassanini va d’accordo con tutti loro. Soprannominato non a caso «l’Immarcescibile», Bassanini non è certo andato a rinchiudersi nell’amata Valle d’Aosta quando la marea di Forza Italia lo travolse alle elezioni del 2001. Spostato dal collegio sicuro di Siena alla Sicilia, comincia a «fare network». Crea subito la «Fondazione per l’Analisi, gli Studi e le Ricerche sulla Riforma delle Istituzioni Democratiche e sulla innovazione nelle amministrazioni pubbliche». Non agilissima e infatti è meglio nota come Astrid. Nel direttivo, si trova il solito Abete. Ma è nel comitato scientifico che la «valenza sistemica» di Bassanini dispiega tutta se stessa, con una mezza dozzina di ex presidenti della Consulta arruolati e un paio di «figli di» come Giulio Napolitano e Bernardo Giorgio Mattarella. E come a ogni vero socialist chic, a Bassanini piace la Francia e lui alla Francia piace: Legion d’onore ottenuta nel giugno del 2002, consigliere di amministrazione dell’Accademia di Francia in Italia, dell’Ena (2002-2005), consigliere economico dell’ex premier Jean-Pierre Raffarin insieme a Emmanuel Macron, membro della commissione Attali su chiamata di Nicolas Sarkozy, consigliere della Federazione francese delle assicurazioni. Nella folle estate delle scalate bancarie, nella guerra tra finanza cattolica e laica, da che parte si è schierato Bassanini? Contro il governatore Antonio Fazio e a difesa della Bnl di Abete. E a proposito di banche, a Siena, prima dell’arrivo di Giuseppe Mussari alla guida del Monte e dello scandalo del 2007, il futuro presidente della Cdp contava eccome. Come ricorda un altro ex socialista, Fabrizio Cicchitto: «In sostituzione di Franco Piccinni, considerato a un certo punto inaffidabile, fu nominato Mussari che non era un banchiere ma un militante politico. Sulla sua elezione, fu d’accordo il quadrilatero di ferro, che poi si è diviso, costituito da Luigi Berlinguer, Massimo D’Alema, Franco Bassanini e Giuliano Amato» (Ansa, 9 febbraio 2013). Prima di litigare, il quadrilatero approvò operazioni mefitiche come l’acquisizione di Banca agricola mantovana e Banca del Salento, ben prima del suicidio Antonveneta. E al momento della scalata Unipol su Bnl, Bassanini e Amato si opposero a D’Alema e compagni. Ma Bassanini ha saputo capitalizzare anche la battaglia condotta contro la riforma delle fondazioni bancarie voluta a Natale 2001 da Giulio Tremonti. L’allora ministro dell’Economia volle sancire la natura pubblica della fondazioni, che continuavano ad amministrare banche come ai bei tempi, ma fu accusato di voler mettere le mani su di queste per conto di Silvio Berlusconi. Il presidente dell’Acri, il comasco Giuseppe Guzzetti, scatenò la sua artiglieria, tra cui Bassanini e Astrid. La Consulta, con due sentenze del 2003, fece a pezzi la riforma e con il senno di poi è giusto ricordare un paio di combinazioni: il giudice relatore di quelle sentenze, Gustavo Zagrebelsky, ha poi avuto alcuni incarichi nella Fondazione Cariplo. E la riconoscenza per le entrature romane di Bassanini ha prodotto, sempre da parte di Guzzetti, la scelta del nostro come presidente della Cdp nel novembre del 2008, con stipendiuccio da 295 mila euro l’anno. Un regno interrotto nella primavera del 2005 da Renzi, che mise al suo posto Claudio Costamagna. Anche qui, alle prese con il Rottamatore, si può apprezzare una certa superiorità antropologica dell’highlander Bassanini, che negoziò con pazienza la sua prossima poltrona per settimane e settimane, resistendo a ogni sgarbo e insulto. E quando ottenne un ufficietto a Palazzo Chigi come consigliere personale del premier per l’innovazione (a 75 anni, un genio), si diede da fare come fosse al primo incarico. Arrivato Paolo Gentiloni, è stato confermato. Nel frattempo, quando il centrosinistra ha dovuto metter su Open Fiber per dare la sveglia alla Telecom sulla fibra ottica, chi meglio di lui poteva farne il presidente? Era il dicembre del 2016 ed è stata l’ennesima resurrezione del Grande Incassatore. Che oggi rifiuta la poltrona Telecom, ma presto sarà il regista dell’unificazione della rete. Intanto, quando Bassanini torna a casa, a sera, ci trova la moglie Linda, sposata in seconde nozze nel 1996. Trattasi di Lanzillotta Linda, ex collaboratrice di Giuliano Amato al Tesoro, braccio destro di Francesco Rutelli al Campidoglio (sue le privatizzazioni), ex socialista, ex parlamentare della Margherita, del Pd, dei Montiani, poi ancora del Pd e anche vicepresidente del Senato, oltre che ex consulente della banca d’affari Jp Morgan, che ha imbottito di derivati decine di enti locali italiani. Si siedono a tavola, ed è subito cda.
· Liliana Cavani.
LILIANA CAVANI. “Comunismo? Fu un sogno, a metà tra Cristianesimo e Rivoluzione Francese”. Francesco Agostini l'1.11.2017 su Il Sussidiario. Liliana Cavani parla del suo personale rapporto con il Comunismo e con l’ideale di un movimento che ha ereditato le idee del Cristianesimo e della Rivoluzione Francese. Liliana Cavani è ancora oggi uno dei nomi forti del cinema italiano, uno di quei nomi sinonimo di qualità di contenuti e di alto tasso culturale. A 84 la Cavani ha ancora voglia di rimettersi in gioco e di affrontare temi delicati come quello del Comunismo, una linea di pensiero estrema che in Italia ha sempre incontrato un certo grado di favore. Sulle pagine de La Stampa la Cavani ha espresso il suo libero pensiero su quello che fu il Comunismo, un movimento iniziato con grandi ideali e poi degradatosi alla stesse stregua del fascismo o del nazismo. La visione della Cavani è lucida, asciutta, storicamente competente e con una elevata coscienza critica. Sulle pagine de La Stampa leggiamo: "Il Comunismo è stato una specie di sogno, almeno all’inizio. Tentava di mettere in pratica tutti quei principi di eguaglianza che erano tipici del Cristianesimo e anche in seguito della Rivoluzione Francese." Poi un approfondimento su un personaggio a lei molto caro, San Francesco: "Anche Francesco puntava all’uguaglianza. Non lo ha mai predicato apertamente ma la sua vita diceva esattamente questo, è innegabile." Per comprendere la storia bisogna essere anche in grado di contestualizzare ciò di cui si sta parlando, senza estremismi o preconcetti di alcun tipo. Liliana Cavani, nella sua speciale critica, si sofferma su quella che è stata una data importantissima per il Comunismo: il 1917: "Nel 1800 non c’era altro che miseria, analfabetismo ed emigrazione. Lenin, con la sua rivoluzione, riuscì a riscattare tutti quanti. Purtroppo, però, gli intellettuali finirono tutti come le rivoluzionarie francesi, ossia lottarono per essere escluse.’ Dopo Lenin e alcune altre vicende politiche, inizierà il buio assoluto per la Russia, che cadrà sotto il giogo di Stalin, un dittatore terribile e mostruoso che percorrerà la strada già battuta dal fascismo prima e dal nazismo poi. Nonostante la terribile pressione staliniana, comunque, Liliana Cavani ha cercato lo stesso di intravedere un minimo spiraglio di luce: ‘Rimanne comunque valida la buona idea che l’essere umano meriti l’emancipazione politica." In questo spaccato di storia si inserisce anche un elemento che fu di fondamentale importanza per la propaganda: il cinema. Tutte le dittature si avvalsero dell’azione di convincimento di massa grazie all’operato del cinema. In primis perché era un mezzo nato da poco, agli albori della sua storia; nonostante questo si capiva già benissimo che le sue potenzialità erano enormi. La Cavani infatti afferma: "L’arte del cinema era una cosa completamente nuova per quegli anni e fu proprio in quel periodo che nacque il cinema sociale. Nacque il montaggio e si comprese che la storia poteva diventare facilmente un romanzo filmato." Di questa particolare situazione ne approfittarono, come già spiegato, le terribili dittature dell’epoca: nazismo, fascismo e comunismo. Continua la Cavani: ‘Non dobbiamo affatto sorprenderci se i totalitarismi dell’epoca ne approfittarono in toto. Il cinema riusciva a trasmettere il messaggio della modernità.’ Le pellicole venivano utilizzate, infatti, come mezzo autoreferenziale: i regimi lodavano se stessi e presentavano un’immagine di sé amplificata, volta soprattutto ad autoesaltarsi. Ma,come sappiamo benissimo dallo svolgersi della storia, anche quella non era altro che finzione. Liliana Cavani ha avuto una carriera meravigliosa e tutti continuiamo a ricordarla per i suoi film di grande qualità. Due su tutti, forse: Galileo, con la sua regia limpida, fredda, austera e Francesco, un gioiellino in cui Mickey Rourke, da sempre simbolo di trasgressione e machismo, venne invece utilizzato per interpretare il santo d’Assisi patrono d’Italia. Riuscendo anche ad essere pienamente credibile e convincente. Ma tornando a Galielo, la Cavani ricorda come il ‘suo’ scienziato fosse molto distante da quello rappresentato da Bertolt Brecht: ‘Non ho mai amato quel Galileo, quello di Brecht; il mio lo feci molto diverso. Molti pensano che lui tradì quando abiurò le proprie idee ma le cose non stanno così. Galileo aveva compreso che la vita è la cosa più importante di tutte e infatti, in seguito all’abiura, scoprì il microscopio.’ Una donna straordinaria Liliana Cavani, capace di regalare emozioni con film densi di significato, soprattutto spirituale; un modo di vedere la vita e il cinema che oramai non c’è più e che resta, per fortuna, ben impresso nella nostra memoria.
Liliana Cavani: «Io, il sesso e le censure. Ho un film già scritto e in Italia aprirei solo scuole». Pubblicato lunedì, 08 luglio 2019 da Giuseppina Manin su Corriere.it. «Fosse per me in Italia farei solo scuole. Scuole, scuole, scuole... Il bene primario, ma da noi nessuno se ne occupa. Se si vuol far crescere un Paese è lì che bisogna investire. Il sapere è l’unica garanzia di progresso, civiltà, benessere. Altrimenti vinceranno “gli altri” quelli che ragionano non con la testa ma con le armi». Liliana Cavani, 86 anni di battaglie, di cinema e di vita, guarda dritta al futuro. E il futuro per cui val la pena di esistere e sognare per lei comincia dalla materia prima per diventare cittadini, l’educazione. «Va difesa, bisogna ridarle peso e qualità, approfondire la conoscenza del passato. Altro che tagliare storia e storia dell’arte! E poi, sostenere gli insegnanti, così vilipesi e sottopagati».
Da come ne parla, a lei la scuola ha dato molto.
«Non sono stata un’alunna modello. Ho cominciato male, alle elementari a Carpi, dove sono nata, finivo spesso in castigo. Tutto è cambiato al liceo, a Modena. Ottima scuola, professori che mi hanno fatta innamorare di greco, latino, filosofia. E poi Lettere Antiche a Bologna, avrei voluto fare archeologia ma non conoscendo il tedesco... Mi laureai in Filologia linguistica, tesi sul dialetto della mia regione».
A Carpi è rimasta sempre legata.
«Tutto è cominciato lì. I miei genitori si sono separati presto, mio padre è sparito, non porto neanche il suo cognome. Non l’ho voluto. E la mamma era un po’ naif, spesso in Liguria per sospetta Tbc, quando tornava a Carpi mi portava al cinema. Sono cresciuta con i nonni e gli zii, in modo laico e libertario. La passione per la politica, il gusto per la ribellione li ho respirati in quella famiglia della Romagna di una volta, il nonno anarchico e sindacalista, la zia Delfina discriminata a scuola perché si rifiutava di indossare la divisa del fascio, la nonna che appoggiava la Resistenza. Ero bimbetta quando vidi in corridoio una borsa piena d’uva, mi avvicinai per piluccare qualche acino, scoprendo nascoste sotto i grappoli delle bombe. Intanto in cucina la nonna stava discutendo con due partigiani, loro volevano sgozzare due prigionieri tedeschi, lei insisteva per un giusto processo».
Clima rovente, aveva paura?
«Ma no! Il paese era piccolo e diviso in due. Tutti sapevano che noi eravamo contro i fascisti, tutti sapevano che il nostro vicino di casa era un fascistone. Eppure mia nonna era molto amica di sua madre, la difendeva, “non ha colpa se il figlio è uno squadrista” diceva. I valori erano opposti, si è sfiorata la guerra civile, ma ci si parlava. Una tolleranza oggi perduta, con così tanta gente piena di odio, incarognita a difendere il proprio piccolo castello».
Quella visione di stampo sociale l’ha segnata per sempre?
«Mi ha dato le ali per volare senza tema. Mio nonno, tra una boccata e l’altra di toscano, ogni tanto mormorava convinto “Eppur si muove”. Una frase che mi tornò buona quando girai Galileo. Suggerii a chi lo interpretava di avere, al momento dell’abiura, quell’espressione di certezza».
«Galileo» girato nel ‘68, vietato ai 18 anni, mai visto in tv...
«Troppo anticlericale dicevano allora. E anche dopo visto che né Rai né Mediaset l’hanno mai mandato in onda».
La sua prima censura per un eretico. Ma anche il santo Francesco d’Assisi non ebbe vita facile.
«Non piacque che a interpretarlo fosse Lou Castel, reduce dai Pugni in tasca di Bellocchio dove faceva fuori tutta la famiglia. Ci fu un’interpellanza parlamentale, il patrono d’Italia non poteva avere quella faccia. Ma io volevo raccontare un ribelle, mica un santino».
Fu il suo film d’esordio, come riuscì a realizzarlo?
«Grazie alla Rai di un tempo. Dopo la laurea ero venuta a Roma, tentai il concorso Rai: 11mila partecipanti per 30 posti. Prova finale sul Wilhelm Meister di Goethe. Oggi sa di fantascienza, ma anche allora non è che l’avessero letto tutti. Per caso io sì, comprato su una bancarella pochi giorni prima, edizione Bur. Passai l’esame. Iniziai con dei documentari, il Terzo Reich, le Donne della Resistenza... Poi mi capita in mano un altro libro, la Vita di Francesco di Paul Sabatier, storico eretico messo all’indice dalla chiesa. Vado da Angelo Guglielmi, gli dico che voglio farne un film. L’idea gli piace ma bisognava trovare i soldi. Gli viene in mente un giovane, Leo Pescarolo: “Mangiamo una pizza con lui”. Pescarolo, simpatico e pure bello, voleva iniziare la carriera da produttore. Il suo primo film fu il mio. Partii per l’Umbria, cinepresa a mano, troupe di 7-8 persone, ma con un gigante delle luci come Domizio Ercolani. Abbiamo girato in povertà davvero francescana. Costo totale 30 milioni».
Soldi ben spesi, il film andò dritto al festival di Venezia.
«Era il ‘66, Rossellini vi portava La presa del potere da parte di Luigi XIV. I critici decisero che il suo e il mio erano i due film più belli della Mostra. Ci intervistarono insieme come il maestro e l’allieva. Alloggiavo al Des Bains, mi sentivo chissà chi...».
Trasmesso in due puntate, Francesco fu visto da oltre 20 milioni di spettatori.
«La prima mini-serie Rai! Un successo che mi permise di andare avanti nella mia indagine, di girare un secondo (con Mickey Rourke) e poi un terzo film, sempre su Francesco. Così avanti nei tempi per il suo amore per la natura, la sua idea di fraternità, ben più interessante dell’uguaglianza della sinistra. Non si può essere uguali, ma fratelli sì».
Bollata come cattolica dai comunisti, estremista dai democristiani, messa al rogo dai benpensanti per «Il portiere di notte», film-scandalo degli anni Settanta.
«Non era mia intenzione. Il tema, una donna scampata a un lager che ritrova il suo aguzzino e inizia con lui un rapporto sado-maso, era disturbante. Ma lo spunto era reale. Anni prima una signora della Milano borghese sopravvissuta a Auschwitz mi aveva confidato di una relazione oscura nata lì, che le aveva permesso di salvare la vita ma l’aveva lasciata morta dentro. Il Portiere è nato così. Da quel legame melmoso vittima-carnefice, metafora di tanti conflitti irrisolti. Dirk Bogarde e Charlotte Rampling hanno saputo interpretarlo con la dolorosa ambiguità necessaria. Quando il film uscì in Francia, Le Nouvel Observateur parlò de Il portiere “della” notte, il custode delle tenebre che hanno generato fascismo e nazismo. L’irrazionalità e la paura in cui l’Europa è tuttora immersa».
All’estero si accesero dibattiti sul nazismo sommerso, in Italia la censura vide il sesso...
«Fu ritirato tre volte. Poi vietato ai minori di 18 anni. Quando chiesi a uno della commissione di censura il perché di quel divieto, mi rispose: “Perché c’è una scena erotica dove la donna sta sopra l’uomo”. Restai di stucco. Trovai solo la forza di mormorare: “Beh, capita”».
Cosa è stato il cinema per lei?
«Una passione e una salvezza. Lavorare con una troupe è difficile, ma trovi sempre gente animata dal desiderio. Il cinema salva dal pessimismo».
Vale anche per il teatro e la lirica?
«Certo. I meccanismi sono gli stessi. L’opera mi coinvolge, mi emoziona, ne ho dirette tante... La Traviata realizzata anni fa per la Scala è diventata uno spettacolo-simbolo, l’anno prossimo la porteranno in Giappone per le Olimpiadi».
Il cinema italiano di oggi?
«Mah, mi pare che si occupi solo di mafia. Film, serie tv, traboccanti di malavitosi violenti, volgari... Dicono che è denuncia. A me sembrano solo pessimi modelli da proporre ai giovani. Sono così contraria a questo genere di film che, pur amandolo moltissimo come attore, non ho perdonato a Brando di aver offerto il suo talento al Padrino».
E il cinema italiano di ieri?
«Il più grande è stato De Sica. Dovessi salvare un film dall’apocalisse non avrei dubbi, L’oro di Napoli. Dentro c’è tutta l’Italia. Non ho mai incontrato De Sica ma amo ogni suo film, li proiettavo al cineclub che tenevo a Carpi».
Ora i cineclub sono quasi spariti e i grandi film del passato non li conosce nessuno.
«Andrebbero insegnati a scuola! Se non hai visto tre De Sica, tre Bergman, tre Fellini, non puoi dire di amare il cinema. I cineclub spariscono? Fossi sindaco, li darei da gestire agli anziani. I cinema di quartiere dei nonni per far scoprire i capolavori del passato ai nipoti».
E lei, quale film vorrebbe ancora realizzare?
«Le idee sono tante... Avevo in mente un film sul Bosone di Higgs, le nuove frontiere della fisica sono più affascinanti di qualsiasi fantascienza. Se il tempo non esiste non esiste neanche la morte... Non finisce nulla, si cambia! La nuova fisica è come la fede, ti dà speranza di continuare a vivere in altri modi... E la speranza è la virtù più civile che ci sia. Ma questo ai produttori fa sbarrare gli occhi. Adesso ho pronta una storia dei nostri giorni che riunirà due attori a me cari, Charlotte Rampling e Mickey Rourke. Ho finito di scrivere il copione, vediamo se riuscirà a andare in porto».
· La donna non è più tanto comunista!
Nicola Zingaretti e Pd umiliati dalle donne alle urne, il documento e la rabbia delle compagne. Filippo Facci su Libero Quotidiano 4 Giugno 2019. Solo una donna su dieci ha votato Partito democratico per il Parlamento Europeo, mentre Lega e Movimento Cinque Stelle sono gli unici che hanno eletto più donne che uomini. E non ce ne saremmo neanche accorti, se alcune donne del Pd non si fossero messe a rognare nella loro bacata convinzione di dover essere corporazione, categoria, quota, donne in quanto donne. È stata La Stampa, in una sua rubrica titolata «Il calendario delle donne», a dare notizia dell' analisi realizzata da You Trend sul voto delle italiane: ne scaturisce che il Pd ha fatto eleggere 12 uomini e 7 donne, quasi la metà, mentre sette italiane su 10 si sono astenute o hanno votato Lega; quest' ultima ha eletto 15 donne e 14 uomini, i Cinque Stelle 8 donne e 6 uomini. E attenzione, il sistema elettorale per le Europee è un proporzionale vecchia maniera, con tanto di preferenze, quindi non si può neanche incolpare una maschia casta dei nominati o dei listini fallocrati: sono proprio gli elettori - termine neutro - ad aver deciso di votare o non votare tizia e caia. E attenzione, ancora: per la prima volta si votava con un meccanismo che garantiva la «parità di genere» (espressione che merita le virgolette a vita) e il risultato è che il partito di Salvini, nonostante la presenza anche di soggetti pochissimo femministi, è riuscito a garantire una parità numerica più di altre forze che ammiccavano specificamente al femminismo progressista. Sono dati. Il risultato, ora, è una prevedibile cagnara progressista, con varie piddine che perpetuano l' errore storico di considerarsi anzitutto «donne» prima che politici o esseri umani asessuati, quindi meritevoli o meno di un voto. L' elezione di caia, o la sua trombatura, è sempre l' indice della maturità civile di un Paese o di un partito: non è mai l' indice del fatto che caia sia stata recepita come immeritevole o invotabile o cretina. Non viene mai in mente che una donna la quale sia ritenuta una brava politica, in potenza, se non riesce a fare politica come meriterebbe, è perché forse tanto brava non è: che poi è lo stesso discorso che si fa per gli uomini.
«ASSEGNAZIONE». La candidata trombata Francesca Puglisi, per esempio, è una specialista nell' incolpare la questione sessuale in caso di sconfitta: lo fece anche alle scorse politiche. Aveva dato vita a «Twanda», una rete di donne interne al partito (immaginate se qualcuno facesse una rete di soli uomini) per poi ritrovarsi tre maschi candidati alle primarie, un segretario maschio e un presidente maschio. E ora una maggioranza di uomini eletti alle Europee. Lei era candidata, e ha preso 11mila voti, ma non sono bastati: eppure sono stati voti dati dalla gente, qual è allora il complotto? «I maschi si pianificano le carriere a tavolino e lasciano alle donne il compito di eliminarsi a vicenda, questo accade perché non riusciamo a fare gioco di squadra hanno vinto gli uomini messi in posizione blindata o le donne che sono state perennemente in televisione». Divertente questa idea che gli uomini non cerchino di eliminarsi a vicenda, e tra loro si vogliano tutti bene. La soluzione, comunque, secondo la Puglisi o le puglisi, è sempre quella: l' assegnazione di ruoli importanti. La parola è proprio «assegnazione», che implica delle nomine rigorosamente non elettive per valorizzare il «genere». E perché assegnare proprio a lei, o a una donna, un ruolo importante? Perché è una donna, in quest' ottica. Punto.
RUOLI. Un risultato che lascia intendere che determinate assegnazioni a donne di ruoli importanti, in altri partiti, siano state fatte con lo stesso criterio: perché erano donne, non perché meritevoli più di altri uomini e più di altre donne. La Puglisi - che stiamo prendendo ad archetipo - si è messa poi a rielencare una serie di auspicabili provvedimenti pro-donne (congedi parentali retribuiti, parità di salari, tutela delle madri) dimenticando o non sapendo che i temi più importanti per chi ha votato, sempre secondo You Trend, sono restati comunque la sicurezza, l' immigrazione e il lavoro, temi che a quanto pare - dai dati - hanno attratto l' attenzione di entrambi i sessi in maniera abbastanza omogenea. Quindi il problema è a monte, diciamo.
LE QUOTE. Un'altra candidata progressista non eletta, Mila Spicola, ha spiegato invece che «i gangli del potere sono maschili, se il leader è femminista, le donne possono anche ottenere dei ruoli, ma se il leader è poco sensibile alla parità non c' è da sperare in nulla. Per una donna candidarsi è l' unico modo per avere rilievo in questo partito». Come se fosse poco. Come se Giorgia Meloni si fosse fatta largo, e avesse fondato un partito, a forza di assegnazioni e benemerenze di uomini illuminati. Che poi non si tratta di negare l' evidenza: un certo maschilismo, in Italia, permane in politica come in molti altri settori. Ma in molte professioni le donne hanno raggiunto la parità o la preponderanza senza mai quote o «assegnazioni»: le quali, spesso, per le donne, sono state una più o meno consapevole umiliazione. Le quote - come gli incarichi - restano basate sul fatto che ad assegnarle sono perlopiù uomini, è vero. Ma per banale che sia dirlo, il potere non si assegna: si prende. Il resto è fuffa, o decisione di mettere «tot donne» in lista a manciate, quote-emancipazione, calcoli prettamente maschili che spesso sono valsi anche per l' assegnazione dei ministeri. Dove qualche ministra, non di rado, si è limitata a opporre un clientelismo femminile a quello maschile. Filippo Facci
· C’era una volta il pugno chiuso.
Claudio Bozza per il “Corriere della Sera”l'8 luglio 2019. Oppresso dai debiti, il Pd dice addio anche alla Festa de l' Unità di Reggio Emilia. Ma è qualcosa di più di un «dato contabile»: la Festa di Reggio Emilia, con la Federazione del partito oberata da 2 milioni di rosso, è un simbolo nella storia della sinistra dell' Emilia-Romagna. Qui, come ricordava ieri il Corriere di Bologna , nel settembre del 1983 Enrico Berlinguer tenne un comizio rimasto nella storia: ad ascoltare il leader del Pci c' erano un milione di persone. Ma torniamo a oggi: «FestaReggio» non si farà. Un ulteriore colpo del popolo dem, già fiaccato dalla crisi identitaria e di consensi del partito, a cui si sono aggiunti i recenti scandali che hanno colpito alcune amministrazioni locali emiliane. Eppure, prima che la popolarità del Pd perdesse punti, la Festa de l' Unità di Reggio Emilia, uno spazio sterminato con dibattito e stand con ristoranti e volontari, era una macchina da soldi che dava forte autonomia a tutto il partito regionale, e non solo. Poi il vento è cambiato: lo scorso anno, dopo l' addio al Campovolo, l'evento ha causato una perdita dei 350 mila euro, portando a 2 milioni il rosso della federazione provinciale dem. Un quadro non proprio ottimale per affrontare le elezioni di novembre, quando si voterà per le Regionali. E per la prima volta l' Emilia-Romagna è ritenuta conquistabile dal centrodestra a trazione leghista. «Siamo ridotti a un quarto rispetto alle 6 mila Feste di un tempo - racconta una fonte dal Nazareno - E capita anche che comici e cantanti rifiutino l' ingaggio per evitare di associare a noi il proprio nome». Anche a Bologna la Festa tornerà nella sua sede storica dell' Arena Parco Nord, per tentare una rinascita dopo il grande flop del 2018. Idem a Modena e Firenze, dove le Feste saranno in versione mini. A Roma le Feste sono praticamente scomparse: solo piccoli eventi nei municipi. Ravenna, anche se ridimensionata, è stata confermata come palco della kermesse nazionale a fine agosto. L' unico esempio che pare andare un po' in controtendenza è quello di Milano, anche grazie al contributo di molti giovani volontari e ai tanti eventi organizzati anche in periferia.
Fausto Bertinotti: «Il cachemire? Era usato E i tre Wharol sono regali». Pubblicato domenica, 07 luglio 2019 da Candida Morvillo su Corriere.it. Fausto Bertinotti, 79 anni compiuti a marzo, un passato da sindacalista, poi da leader del Pci e quindi di Rifondazione comunista, dal 2008 solo nonno, conferenziere e direttore della rivista Alternative per il Socialismo, sprofonda sul divano in velluto arancione di casa, in una scenografia di molti quadri di pregio, molte statuine di damine e cavalieri, di cui dice «tutta opera di Lella, io mi considero un ospite, un commentatore ex post». Solo i libri che tappezzano le pareti, tripartiti fra letteratura, Marx e dintorni, e filosofia e religione, sono stati scelti da entrambi: «Molti da giovani, facendo debiti coi librai, che pagammo coi regali di matrimonio».
Quanti libri ha?
«Tanti, ma meno di quelli che mi piacerebbe. Molte prime letture le devo alla clemenza del libraio Ottavio di Novara, che quando ero studente, mi prestava i volumi chiedendo di ritornarli non stropicciati».
Tante letture, eppure fu bocciato tre volte.
«Semplicemente, non andavo a scuola, ma in biblioteca. Gli studi da perito elettrotecnico non mi erano graditi quanto le letture di filosofia».
Come sono stati undici anni lontano dalla politica attiva?
«Mi sono mancati le donne e gli uomini con cui ho camminato, quel rapporto, l’assemblea, la riunione... Mai mi è mancata la politica istituzionale».
Che errori si riconosce?
«In 50 anni, tanti. In generale, non aver saputo rinnovare le ragioni dei “vinti ma giusti”. L’ultimo, aver protratto Rifondazione comunista oltre il tempo politicamente maturo. Serviva il coraggio di scioglierlo nel movimento altermondista. Siamo stati protagonisti nei social forum da Porto Alegre a Mumbai, moltitudini di giovani si erano rimessi in cammino... Invece, quel passaggio non l’ho visto».
Tra gli errori, annovera il cachemire e le serate nei salotti per cui la chiamavano BertiNight?
«Era in larga misura una campagna sistematica di denigrazione. Per esempio, da Maria Angiolillo, andai, per cortesia e solo da presidente della Camera, una o due volte. Detto questo, ho sottovalutato l’onda contro la casta, ho reagito come in tempi in cui erano consentite buone frequentazioni e ho avuto la presunzione che aver distribuito milioni di volantini dovesse immunizzarmi dalle critiche. Dal punto di vista esistenziale, difendo tutto. Sulla tattica politica, dovevo essere più sorvegliato».
Alla fine, quanti pullover di cachemire ha?
«Dovrei chiedere a Lella, ma l’unico comprato fu il primo. Lo prese lei al mercato dell’usato, però quando la leggenda prese corpo, me ne furono regalati. Il più bello da due operaie di una fabbrica di cachemire. Me lo mandarono con una lunga lettera. Scrivevano: fa male ad arrabbiarsi per le polemiche, noi siamo proletarie e vorremmo che lei valorizzasse il nostro lavoro».
I tre Mao di Andy Warhol appesi in salotto sono veri?
«Sì, regali ed eredità di Mario D’Urso. Tutti i quadri della casa sono donati o dagli autori, come i Dorazio, o da amici, come gli Schifano».
Le statuine di Limoges?
«Tutte dono di un’amica regista».
Lei ce l’ha un Rolex da «comunista col Rolex»?
«Porto da sempre un Rado bellissimo, regalo di compleanno di un compagno e amico, podologo».
È un regalo pure l’orologio?
«Lella, scherzando, dice sempre: viviamo di carità. Mi fu regalato da Rubinacci pure il cappotto con cui entrai in Parlamento. L’età induce alla nostalgia, ma il mio mondo era popolato da persone meravigliose. Quando feci le rimostranze all’amico per l’orologio, lui disse: non posso fare un regalo al mio segretario? Erano persone meravigliose perché erano comuniste. In questo senso, analogamente ai cristiani».
Ultimamente, frequenta i meeting di CL, è diventato credente?
«No, tuttavia, la ricerca di Dio da parte dei credenti ha una ricaduta su società e uomini da cui i non credenti non possono prescindere».
Come vede la politica?
«Mi coglie in una fase di pessimismo».
Fase iniziata quando?
«È un processo durato un quarto di secolo e acutizzato negli ultimi 15 anni. Però, sebbene abbia sempre pensato secondo il principio gramsciano del pessimismo dell’intelligenza e dell’ottimismo della volontà, a me rimane un ottimismo della speranza come lo intendeva Ernst Bloch, come intrapresa e investimento in ciò che accade e anche nell’imprevisto».
E in quale imprevisto, ora, riporrebbe la speranza?
«Nella rivolta».
Lei ha speranze impudenti.
«Parto da Machiavelli e da quel fenomeno che, nei momenti di crisi, riattiva i processi di cambiamento. Per cui, la rivolta di cui vedo le tracce mi pare obbligata».
Dove vede le tracce?
«È rispuntato persino lo sciopero dei metalmeccanici, che sembrava una citazione. Soprattutto, guardo alla lotta dei rider, degli addetti della logistica, al protagonismo del sindacato Usb dei migranti... Siamo in ambiti in cui il conflitto si credeva impossibile, poiché non c’è la concentrazione di lavoratori, la fabbrica fordista. Delle rivolte di Algeri, sa che immagine mi ha emozionato?».
Quale?
«Quella di un tavolo lungo forse chilometri, dove le persone mangiano insieme. Ci ho visto un ritorno alla forma più ancestrale della politica, al mettersi in comune. Lo dico perché Algeri, qualche anno fa, sembrava un regime stabile, poi scoppia questa rivolta dal nulla che non si ferma mai e, alla fine, cosa deposita? Una lunghissima mensa. Nel mio linguaggio, questo si chiama: annuncio di comunismo».
Può esserci rivolta, in un Paese, il nostro, in cui gli scontenti hanno già eletto un governo?
«La rivolta come io la intendo non può coniugarsi con l’elettorato, ma è la formazione di un popolo. È come coi Gilets Jaunes, che si sono costruiti forme di democrazia, organizzazione, istituzioni di movimento. Questa è rivolta, mentre l’elettorato è un animale diverso, è l’animale del conflitto nella democrazia rappresentativa. Solo che oggi la politica si è separata dalla dimensione sociale, legge solo l’elettore, ha smesso di leggere la costruzione d’umanità».
Com’è messa la sinistra italiana?
«Alle Europee, ho votato La Sinistra, ma penso che il termine “sinistra” andrebbe sospeso per un po’. Infatti, quando la sinistra era forte, si chiamava socialista, comunista, laburista... Ormai, la rinascita può avvenire solo sul terreno dell’agire e del pensare».
Bertinotti con la moglie Lella: «Lella, che faceva l’impiegata, mi ha consentito di fare il sindacalista, guadagnando la metà di lei. Momenti difficili ce ne sono stati ma non sono mai uscito di casa».
Mi dica un modo in cui lei e sua moglie siete stati comunisti.
«Penso all’investimento di vita dei primi anni: Lella, che faceva l’impiegata, mi ha consentito di fare il sindacalista guadagnando la metà di lei».
Momenti di difficoltà?
«In 54 anni, ce ne sono stati, ma non sono mai uscito di casa, come è stato scritto».
Compirà 80 anni, che bilancio farà?
«Con autoironia, prendo in prestito San Paolo: “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede”. Io certamente ho conservato la fede socialista».
Fausto Bertinotti. Chi è - Fausto Bertinotti è nato a Milano, nel quartiere di Precotto, a Milano, il 22 marzo del 1940, da Enrico, macchinista delle Ferrovie dello Stato, e da Rosa, casalinga. Ha un fratello, Ferruccio.
Gli studi - Nel 1962 si è diplomato perito elettrotecnico all’istituto Omar di Novara con tre anni di ritardo in seguito ad alcune bocciature.
I ruoli - Iscritto al Partito socialista italiano nel 1960, entra nella Cgil nel 1964 diventando segretario della Federazione italiana degli operai tessili (Fiot) di Sesto San Giovanni. Aderisce al Pds nel 1991 per poi uscirne nel 1993 e iscriversi al Partito della Rifondazione comunista, del quale sarà segretario dal 1994 al 2006. È stato presidente della Camera dal 2006 al 2008.
COM'ERA LA VITA NEL PCI? Antonio Gnoli per ''la Repubblica'' del 20 aprile 2019. Quasi trequarti di secolo trascorsi vivendo, pensando e ripensando il comunismo. Gran bella idea, gran bella condanna. Verrebbe da dire pensando a Emanuele Macaluso. Da un mese ha compiuto novantacinque anni, vive in un piccolo appartamento a Testaccio, un tempo considerata la zona più autentica di un certo modo di essere romani. Emanuele è nato a Caltanissetta, la città degli angeli e delle miniere di zolfo. Fu quel mondo a strapparlo dai sogni di adolescente e a spingerlo dentro alle grandi problematiche sociali: "Durante i mesi trascorsi in sanatorio conobbi il primo compagno. Fu lui a introdurmi al comunismo. A fare da tramite presentandomi a Calogero Boccadruti, uomo straordinario cui era affidata l'organizzazione della rete clandestina del partito: lì nel 1941 ebbi i primi contatti".
Parli di un periodo trascorso in sanatorio. Che cosa avevi?
"Mi avevano diagnosticato la tubercolosi. Me ne accorsi dopo una notte passata a tossire. La mattina seguente vidi il cuscino e il lenzuolo macchiati di sangue. Lo dissi ai miei fratelli e loro lo riferirono a nostro padre. Lui chiamò un medico che mi fece prontamente ricoverare nel sanatorio. Era su una collina da cui si vedeva Caltanissetta".
Cosa provasti?
"Avevo 16 anni e nessun senso della tragedia. I miei erano preoccupati. Si diceva che chi entrava in quel luogo era facile che ne uscisse con i piedi allungati. Si pensava che la tubercolosi si trasmettesse anche per via aerea e questo determinò il mio isolamento. Erano in molti a temere il contagio. Un'eccezione fu quel mio amico, Gino Giannone, più grande di un paio d'anni, figlio di un libraio e sufficientemente colto da instradarmi oltre che alla politica anche alla lettura dei libri. In casa avevamo dei testi che mio padre aveva raccolto nel tempo".
Di che cosa si occupava?
"Era manovale delle ferrovie. Impromovibile, come fu scritto su una scheda aziendale. Il fascismo lo considerava un elemento inaffidabile. Solo dopo la liberazione gli fu riconosciuto il grado di aiuto macchinista".
Ti fece studiare?
"Per quel poco che le condizioni economiche lo consentivano. Eravamo tre fratelli. Avrei fatto volentieri il ginnasio. Ma alla fine dovetti accettare l'istituto tecnico minerario. Comunque fu una scuola dura, dove si studiava per otto ore al giorno. Non l'ho amata. Me ne sono fatto una ragione".
La malattia che conseguenze ha avuto?
"Nessuna. Lentamente tutto si riassorbì. Tra gli effetti imprevisti, oltre l'incontro che avrebbe contribuito alla mia scelta comunista, ci fu la conoscenza di una donna, della quale mi innamorai. Era sposata. Ma viveva separata con due figli. Cominciammo ad avere una storia clandestina".
Non ti bastava la cellula.
"Che avrei dovuto fare? Strombazzare la nostra storia? Dopo la liberazione resi pubblico il legame. Le famiglie si opposero. Ma cosa ben più grave il marito di Lina, probabilmente istigato dai notabili locali, ci denunciò per adulterio. Fummo arrestati. Feci qualche settimana di carcere e poi venimmo condannati a sette mesi. Uscii con la condizionale e ripresi il lavoro, dividendomi tra una tipografia e l'impegno politico. Nel frattempo la madre di Lina, una vedova piuttosto facoltosa, ci mise a disposizione un appartamentino dove andare a vivere. Insomma, la situazione si normalizzò".
Come reagì il partito alle tue vicende?
"All'inizio male. Una situazione come la mia non poteva che essere disapprovata. Era il 1944. L'organizzazione politica in pieno fermento. Gli appelli al rigore e alla moralità erano quotidiani. Il Pci di fatto mi processò per la mia condotta privata. Ne uscii assolto e iniziai a percorrere seriamente la mia strada. Ma invece di abbracciare il partito, come alcuni dirigenti volevano, preferii il lavoro sindacale. Un impegno che mi portò a ricoprire il ruolo di segretario regionale, carica che tenni fino al 1956, l'anno dei fatti di Ungheria".
Nel sindacato la figura di riferimento era Giuseppe Di Vittorio. Hai avuto rapporti con lui?
"Fu lui a propormi come segretario regionale. Perciò l'ho conosciuto bene e ritengo sia stato un leader straordinario. Il più amato dell'intera storia sindacale. Aveva doti umane e politiche come raramente si ritrovano in un uomo. Sapeva comprendere le esigenze di chi lavorava. Guardava ai suoi braccianti, ai contadini, agli operai con l'intelligenza di chi sa andare oltre la rivendicazione salariale immediata, che pure era la questione imprescindibile da cui partire".
Da un certo punto in poi i rapporti tra lui e il Pci si inasprirono. Un altro caso di divisione a sinistra.
"Credo che in questo siamo degli specialisti. Ma per restare a Di Vittorio, lo scontro avvenne in relazione ai fatti di Ungheria del 1956. Il segretario della Cgil disse che lì era in corso una rivolta dei lavoratori. E che bisognava condannare l'invasione sovietica. Tutta la direzione del partito si schierò contro di lui. In pratica fu lapidato. E ho la certezza che quello fu il più grave errore commesso da Togliatti".
Tu con chi stavi?
"Ero appena entrato nella direzione. Mi vergogno a dirlo, sostenni la posizione del partito".
Tu che c'hai vissuto più di cinquant'anni com'era la vita nel partito?
"Si sono dette tante cose su quel partito. La più ricorrente è che fossimo una specie di chiesa con i suoi sacerdoti e i suoi riti".
Io penso che il partito comunista senza liturgia sarebbe incomprensibile.
"Tu trovi? Io non credo che fosse il nostro problema. Avevamo una organizzazione, estesa e radicata sul territorio. Con regole ben precise. Da rispettare. Sentivamo da vicino quali fossero i bisogni della gente, perché erano anche i nostri bisogni".
Da un lato la casa del popolo, dall'altro il campanile.
"E che c'è di male? Siamo andati avanti per trent'anni con questa dialettica. Sapendo che c'era una democrazia da rafforzare e una Costituzione da difendere. Poi, capisco che le cose cambiano, che la gente si rompe i coglioni di lottare o sacrificarsi per un partito. Ma c'erano delle idee, cazzo! Un bracciante o un operaio avevano letto più libri dei nostri vice premier. E lascia stare se erano i libri giusti o meno (per me lo erano), però si informavano, crescevano culturalmente".
Crescevano e viaggiavano su binari precisi e guai a deragliare.
"Tutta questa storia del partito occhiuto controllore di un'ideologia culturale a me ha stancato. Che ti aspettavi, che un partito di quelle proporzioni non provasse a esercitare anche un'egemonia culturale? Gli altri che cosa pensavi volessero fare? Noi avevamo i mezzi, le persone, le strutture per poterci provare. Lo dico senza pentimenti, perché non c'è battaglia culturale che non sia anche politica e viceversa".
La politica quasi sempre aveva il sopravvento sulla cultura. Pensa al caso Vittorini.
"Elio l'ho conosciuto bene. Nella biblioteca della camera del lavoro di Caltanissetta tenevano la serie "Americana" e posso capire che alcuni dirigenti del partito non apprezzassero queste aperture".
Ti stai riferendo a Mario Alicata.
"Proprio a lui che commentò acidamente che Vittorini avrebbe dovuto leggere meno Hemingway e più Marx. E quando uscì Uomini e no, il libro ebbe una recensione favorevole sull'Unità di Milano e una stroncatura sull'edizione romana".
Chi firmava la stroncatura?
"Fabrizio Onofri, il quale parlò del libro in modo impietoso al punto che Togliatti scrisse una lettera a Vittorini dissociandosi da quel giudizio ed esprimendogli tutta l'ammirazione per quello che aveva scritto".
Lo stesso Togliatti che nel 1947 gli stroncherà la rivista "Il Politecnico".
"Potremmo stare qui a discutere su quell'episodio fino a domattina. Sta di fatto che Vittorini non fu espulso, se ne andò e Togliatti ironizzò su quell'uscita scrivendo: "Vittorini se n'è ghiuto e soli ci ha lasciato!"".
La vita culturale del Pci è segnata da ricorrenti scontri. Un altro conflitto, che vide coinvolto un segretario, fu quello tra Berlinguer e Sciascia.
"Le premesse di quello scontro non ebbero nulla di ideologico visto che riguardavano il rapimento Moro e le Brigate rosse. Tieni conto che io ero molto amico di Leonardo e lavoravo nella segreteria di Berlinguer. Sapevo benissimo com'era".
E com'era appunto?
"Un uomo fondamentalmente timido, come Sciascia del resto. Qualcuno disse che fu un dialogo tra due muti che finirono col querelarsi a vicenda per incomprensione. La storia in breve è questa: Sciascia chiese a Berlinguer se le Br si addestravano militarmente in Cecoslovacchia. E scrisse che Berlinguer glielo aveva confermato. Il quale negò, di qui l'alterco che stava per finire in tribunale. Poi le querele furono ritirate e Sciascia commentò: vedi, le liti giudiziarie in Italia finiscono sempre così".
In quella vicenda fu coinvolto anche Renato Guttuso?
"Renato fu sentito come testimone, perché pare fosse presente. E diede ragione a Berlinguer. Sciascia se ne risentì al punto da rompere l'amicizia con Guttuso. Non volle più vederlo. Quando andai a trovare Sciascia che era già ammalato gli chiesi se voleva in qualche modo riappacificarsi con Guttuso. Mi guardò, sollevandosi lievemente dal guanciale: non lo voglio neppure al mio funerale, disse con un filo di voce".
E Guttuso?
"Era dispiaciuto, lui avrebbe volentieri fatto pace. In ogni caso morì prima di Sciascia. E strano a dirsi fu anche lui toccato da un gran rifiuto".
A cosa ti riferisci?
"Posto che è sempre stato un uomo cui piacevano le donne, non accettò di buon grado che la contessa Marzotto si fosse messa con uno più giovane".
Ti riferisci a Lucio Magri?
"A lui. Ricordo un viaggio che feci in Unione Sovietica con Renato e la moglie Mimise. Io ero con Ninni Monroy, la mia nuova compagna. Ogni tanto arrivavano in hotel delle telefonate complicate. Renato mi diceva: "Ti prego distrai Mimise che al telefono c'è Marta". Fu un rapporto tumultuoso il loro. Ma alla fine di tutta la loro lunga storia lui non volle più vederla. Mimise era morta da qualche mese. Me lo ricordo Renato sdraiato sul divano perché non ce la faceva a stare in piedi a dire no. E la Marzotto accusò me e Antonello Trombadori di impedirle di vedere Renato. Anche in questo caso rischiammo di finire tutti in tribunale".
Anche tu sei stato uno sciupafemmine.
"Non userei quell'espressione. Diciamo che ho avuto donne con cui ho condiviso delle lunghe stagioni. Accompagnate da cose belle e da episodi dolorosi, come quando ahimè lasciai una ragazza senza poter immaginare le conseguenze di quel gesto".
Tu ne hai scritto come se volessi liberarti da un peso. La ragazza era la sorella di Eugenio Peggio, importante economista del Pci.
"E mio grande amico. Conobbi Erminia nel 1964 dopo un paio di anni tra noi nacque una storia d'amore. A un certo punto mi chiese di metterci insieme e io, poiché ero già legato e con dei figli, non ebbi il coraggio".
Lo hai definito un gesto di "viltà".
"Tale fu, perché non riuscii ad affrontare la situazione, nella convinzione che né Lina né i miei figli avrebbero accettato la rottura. Fu un bel casino e tutto precipitò quando Erminia, segnata da alcune fragilità, pochi mesi dopo si suicidò".
Ci furono ripercussioni nel partito?
"Sono stato malissimo ed era l'ultima cosa che mi importava. Però ci furono. Amendola istruì una specie di inchiesta. Ma ne venni a conoscenza molto tempo dopo. Fu lo stesso Eugenio, fratello di Erminia, a dirmi, quando finalmente c'eravamo riappacificati, che Amendola gli aveva chiesto di formalizzare l'accusa di "scorrettezza morale". Ma poi non se ne fece niente".
Contavano un po' meno i doveri del militante.
"Diciamo che si stava attenuando l'accanimento moralistico. Pensa a quello che ha dovuto passare Togliatti dopo essersi messo con Nilde Iotti. Ma come il suo o il mio caso, ce n'erano altri. Questo era il partito comunista, con le sue grandezze e le sue miopie".
Ti manca, intendo il partito?
"Mi mancano le persone che ho incontrato e con cui ho stretto rapporti di conoscenza e di amicizia. Mi mancano certi gesti, certe intelligenze: come quella sottile di Togliatti, dotta di Bufalini o sofferta di Berlinguer. Qualche giorno fa ho festeggiato i novantacinque anni. C'erano ancora amici, molti dei quali più giovani. Ero lì e pensavo ai pochi della mia generazione rimasti, come Giorgio Napolitano, e ai tanti che non ci sono più. Mi mancano. Ma non mi manca il partito. Soltanto un cretino potrebbe pensare di rifare il Pci. Però mi manca la sinistra. Di quella abbiamo bisogno. Quella va ripensata. Ma non so se avrò il tempo di vederla. Temo che arriverò prima io al capolinea".
IN FONDO A SINISTRA (NON C'È PIÙ NIENTE) - È PIENO DI CANTANTI, ATTORI, FOTOGRAFI, SCRITTORI, GIORNALISTI, PRESENTATORI E SOUBRETTE CHE DIFFONDONO MESSAGGI ''PROGRESSISTI''. SOLO CHE DIETRO NON CI SONO PIÙ I POLITICI, NON C'È PIÙ UN'IDEA, E RESTANO SOLO I CANTORI. E IL POPOLO, DEI BENIGNI SENZA I BERLINGUER DA PRENDERE IN BRACCIO, NON SE NE FA NULLA…Daniele Mencarelli per ''Avvenire'' il 20 giugno 2019. C’è un dato che unisce le forze progressiste di, quasi, tutto il mondo occidentale, partendo dai democratici americani sino ad arrivare al nostro meraviglioso Paese. La questione è sotto gli occhi di tutti, coinvolge quella gigantesca nebulosa, spesso con valori antitetici, che raggruppa le varie sinistre internazionali. In estrema sintesi, potremmo riassumerla in questi termini: la rappresentazione dei valori che incarnano il pensiero democratico, e che dovrebbe arrivare agli strati sociali più sensibili a certi argomenti, il vecchio proletariato, è affidata esclusivamente al mondo della comunicazione. Dove per comunicazione si intende quella sterminata serie di mezzi con cui l’uomo contemporaneo veicola un contenuto che vuole proporre, che sia informativo, commerciale, di natura artistica, e chi più ne ha più ne metta. Per fare l’elenco dei mestieri assorti a difensori del pensiero socialdemocratico non basterebbe tutto un giornale. Dai cantanti agli attori, dai pubblicitari ai fotografi, passando per registi e un esercito di scrittori, non meno i giornalisti, presentatori e soubrette. Oramai, tanti di questi comunicatori fanno a tempo pieno i politici. Qualcuno potrà obiettare: sai che novità! È indiscutibile il fatto che un certo mondo, e della comunicazione e della cultura tout court, sia sempre stato organico alla sinistra, anzi, in anni peggiori di questi si è assistito a vicende oggi impensabili, ma quella era l’epoca del credo ideologico, che giustificava tutto e tutti. L’originalità di questi anni rispetto ai passati sta altrove, e si può riassumere in questi termini: il Partito comunista italiano di quarant’anni fa aveva sì tanti cantori a disposizione, ma c’era anche ben altro, incarnato nella mente e nel cuore dei lavoratori grazie a un’azione politica concreta. Come dire: Roberto Benigni rispondeva a Enrico Berlinguer. Il cantore, il giullare, quindi, era 'al servizio' di chi, con il lavoro, nelle fabbriche, nei quartieri, si prendeva la responsabilità di rappresentare e difendere materialmente i diritti del popolo. Oggi, invece, abbiamo solo un esercito sterminato di cantori, al servizio di una parola svuotata di carne, una specie di campagna pubblicitaria dove il prodotto da vendere non esiste. Il prodotto mancante, in questo caso, è la politica reale, per mano di uomini che più degli altri, per storia personale o qualità universalmente riconosciute, decidono di mettersi al servizio dei più deboli per migliorarne le condizioni umane e sociali. Anche perché i tempi sono cambiati: l’uomo della strada, ma ormai è più aderente alla realtà dire l’uomo dello schermo, si è fatto consumatore raffinato, smaliziato, bombardato com’è da messaggi pubblicitari coglie al volo lo slogan privo di sostanza, e altrettanto bene sa ripagare. Non solo, a questo si aggiunga un effetto paradosso: nell’immaginario popolare ai cantori-comunicatori, nelle varie declinazioni citate prima, è richiesto di svolgere al meglio il proprio mestiere: devono saper raccontare, affabulare, intrattenere, ma non possono ergersi a paladini, perché, semplicemente, non lo sono, perché il loro lavoro è un altro. Quando lo fanno corrono il rischio dei rischi, ovvero l’ipocrisia: la simulazione di un sentimento che non esiste. Il prodotto che vendono, in sostanza, non possono essere loro stessi, anche perché appartengono socialmente a gruppi umani diversi dal popolo, quelle che oggi definiamo élite, quindi il rischio concreto è che non sappiano nemmeno di cosa stanno parlando. Ecco il paradosso: tutti questi urlanti difensori del pensiero progressista rischiano di essere loro stessi, in primis, motivo di rifiuto da parte di chi dovrebbe affidarsi allo schieramento che con tante belle parole dicono di difendere. Torniamo all’esempio fatto poc'anzi: Benigni rispondeva a Berlinguer. Per spiegare al meglio la relazione basti tornare con la mente a uno scatto che è entrato nella memoria storica del nostro Paese: Roma, 1983, campagna elettorale per le politiche del 26 giugno. Benigni invitò Berlinguer sul palco, nello sconcerto generale, per dimostrargli tutta la sua vicinanza, lo sollevò di peso e se lo mise in braccio per pochi secondi. Una sintesi impareggiabile. In quell’istantanea convivono affabulazione e promessa, messaggio e contenuto. Oggi, invece, sulle migliaia di fonti informative a disposizione assistiamo a un canovaccio che è quasi sempre lo stesso, con i comunicatori nei panni dei politici, spesso aggressivi, per non dire inferociti, nella loro parte di difensori della parola progressista. Il risultato finale, la somma di questa confusione di ruoli e missioni, è sotto gli occhi di tutti ed è quello che esce dal segreto dell’urna. Un risultato avvilente, che cambierà solo il giorno in cui l’universo della comunicazione (a quello che accade a sinistra, corrisponde a destra un 'canto della politica' che si fa sistematica e spesso mistificante aggressione dei diversamente pensanti e scriventi) tornerà alla sua funzione originale, quella di medium, al servizio di un contenuto, in questo caso la politica reale. Il giorno in cui ognuno tornerà ai propri mestieri, con il giornalista che fa il giornalista, il cantante il cantante, il politico, finalmente, il politico.
Sinistra e drag queen: polemiche per il tweet del giornalista del Tg2. Pubblicato martedì, 11 giugno 2019 da Corriere.it. La sinistra operaia con il pugno alzato degli anni ‘50, ‘70 e ‘90 è diventata oggi una drag queen con i capelli arcobaleno mezzo nuda sugli stivali con il tacco alto: la vignetta di Improta rilanciata da Luca Salerno, giornalista del Tg2, sul suo account twitter ha scatenato la polemica. E poco dopo il giornalista ha cancellato il suo post. «Un giornalista del Tg2 usa il suo account twitter con una vignetta squallida e denigratoria. Che cosa ne pensano il direttore del tg2 e l’ad Salini? I dipendenti della Rai che vorranno potranno offendere il buon senso? Che cosa aspettano ad intervenire?», dichiara il senatore Pd Davide Faraone, capogruppo dem in Vigilanza. Sulla stessa linea anche un altro deputato dem, Ivan Scalfarotto: «Un dipendente Rai che spende pubblicamente il nome del Tg2 nel proprio nick twitta questa porcheria. Vorrei sapere cosa ne pensino il direttore del Tg2, l’ad della Rai Salini, il presidente della Vigilanza Barachini e ovviamente il governo a cui rivolgerò un’interrogazione».
Rai, per il giornalista del Tg2 l'evoluzione della sinistra finisce con le Drag Queen. Bufera sul tweet di Salerno. Scalfarotto, Pd: "Indegno che un dipendente Rai diffonda queste porcherie". E il direttore Sangiuliano lo fa rimuovere. Giovanni Vitale l'11 giugno 2019 su La Repubblica. Da quando per volere di Matteo Salvini alla guida del Tg2 è arrivato Gennaro Sangiuliano, in redazione è scattata la corsa a esibire non solo le proprie simpatie sovraniste, ma anche l'antipatia verso la sinistra. L'ultimo caso riguarda il cronista degli Esteri e conduttore del telegiornale delle 20,30 Luca Salerno, una decina d'anni fa portavoce dell'allora ministro della Difesa Ignazio La Russa. Giusto per ribadire da che parte sta, stanotte il giornalista ha pubblicato sul suo profilo Twitter una vignetta di scherno contro lo schieramento politico avverso ai leghisti. Titolo: evoluzione sinistra. Si vedono quattro uomini in sequenza, tutti col pugno alzato: il primo è un contadino con la vanga (sotto la scritta "anni 50"), il secondo un operaio in tuta da metalmeccanico ("anni 70"), il terzo un professionista in doppiopetto e copia dell'Unità sottobraccio ("anni 90"), l'ultimo una drag queen seminuda, in stivali viola e capelli arcobaleno (poggiata sotto la scritta "oggi"). Immediata la reazione del deputato dem e omosessuale dichiarato Ivan Scalfarotto: "Un dipendente Rai che spende pubblicamente il nome del Tg2 nel proprio nick twitta questa porcheria. Vorrei sapere cosa ne pensino il direttore del Tg2, l'ad della Rai Salini, il presidente della Vigilanza Barachini e ovviamente il governo a cui rivolgerò un'interrogazione". Una vignetta dal "chiaro significato omofobo e diffamatorio", attacca il segretario della Vigilanza Michele Anzaldi, invitando il numero uno di Viale Mazzini a sollecitarne la rimozione e a valutare "il danno di immagine per il servizio pubblico". L'ennesima bufera sulla Rai. Che non si placa neppure quando Salerno, pressato da ogni dove, decide di cancellare l'incauto "cinguettio". A rivendicare la "spinta" è Sangiuliano in persona: "Quando ho appreso del tweet del collega sono prontamente intervenuto per farlo rimuovere", spiega il direttore del Tg2, prendendo le distanze. "E' ovvio che non ne condivido né la sostanza né la forma".
Davide Turrini per Il Fatto Quotidiano il 12 giugno 2019. L’evoluzione della sinistra? Dal contadino degli anni cinquanta, passando per l’operaio degli anni settanta, dall’intellettuale (con l’Unità sottobraccio) degli anni Novanta, fino alla drag queen del 2019. Questa la vignetta “satirica” del disegnatore Mario Improta retwittata da uno dei conduttori del Tg2, Luca Salerno, che ha creato un gran polverone sui social. Molti utenti contestano il tweet parlando di vignetta “omofoba”, rispondono con parolacce rivolte al conduttore Rai, e segnalano di non voler più spendere euro per il canone. “Un giornalista del Tg2 usa il suo account twitter con una vignetta squallida e denigratoria”, afferma il capogruppo Pd in Vigilanza Rai, Davide Faraone. “Un dipendente #Rai che spende pubblicamente il nome del Tg2 nel proprio nick twitta questa porcheria. Vorrei sapere cosa ne pensino il direttore del @tg2rai, l’ad #Salini, il presidente @abarachini, e ovviamente il governo a cui rivolgerò un’interrogazione”, rilancia con un tweet il deputato Pd vicino alla causa LGBTQ, Ivan Scalfarotto. Chiamato in causa, è intervenuto il direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano: “Quando ho appreso del tweet del collega sono prontamente intervenuto per farlo rimuovere. E’ ovvio che non ne condivido nè la sostanza nè la forma”, ha spiegato. Così, tempo qualche ora e lesto Salerno, che sul suo profilo Twitter si descrive come “laziale estremista, italiano anomalo (…) qui solo opinioni personali e non del mio giornale”, cancella il tweet con il disegnino. A questo punto però l’indignazione social passa alla richiesta di scuse e a un suggerimento: apra un account slegato al Tg2 e, nel caso, dica quello che vuole. D’altro canto c’è anche chi prova a ironizzare. Qualcuno rivede la vignetta disegnando le diverse fasi dell’evoluzione dei giornalisti del Tg2 con nell’ultima casella un suino oppure l’evoluzione dei leghisti con una foto di un tizio con cappello da vichingo ad un raduno del Carroccio. A ruota segue la fine citazione da 2001 Odissea nello spazio, con Salerno rappresentato da uno dei primati che nei primi minuti di film spacca con un osso altre ossa animali, o chi ricorda che la vignetta non è offensiva perché “l’Onda Pride in tutta Italia rivendica DIRITTI PER TUTTI: donne, precari, lavoratori, disabili, migranti, poveri… molto meglio di come abbiano fatto sinora a sinistra”.
C’ERA UNA VOLTA IL PUGNO CHIUSO. Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 2 aprile 2019. Un tempo c' erano pugno chiuso, stili di vita e romanzi a identificare i progressisti. Poi tutto è cambiato e ora si fa fatica a individuare un immaginario Mentre l' intellettuale è ormai stato soppiantato dal canzonatorio "radical chic" Quando troppo e quando niente, l' immaginario della sinistra non c' è più. Fino a ieri estenuato, caotico, oggi dissolto, sparito. Da Gramsci al nulla attraverso l' ormai compiuta estinzione di storie, segni, sogni, simboli, memorie, racconti, esempi, martiri, eroi, maestri, testimoni, personaggi immaginari, e stili di vita, modi di vestire, mangiare, arredare la casa, fare le vacanze. Eppure c' è stato un tempo, certo pieno di politica, nel quale dirsi di sinistra voleva dire distinguersi e riconoscersi anche per abitudini, gusti, architetture, romanzi, riviste, case editrici, film, canzoni, desideri, consumi, anche. Cosa è più adesso di sinistra o, peggio, "de sinistra" come dicono quelli che le fanno il verso? Rovine fumanti di scompigliatissima futilità. L' antica definizione di intellettuale di sinistra sembra divenuta addirittura innominabile, sostituita da una raffigurazione canzonatoria, quasi una macchietta, qual è "radical chic". Tra parentesi: sulla copertina del gustoso Il censimento dei radical chic di Giacomo Papi (Feltrinelli) il soggetto in questione ha in mano un volume che s' immagina di Adelphi, di cui tutto si può dire, ma non che sia di sinistra. Salgono intanto sugli scaffali delle librerie i volumi della Storia d' Italia Einaudi; ammuffiscono in cantina le giacche di tweed, i vellutini, le cravatte regimental; e dio ne scampi non solo le bandiere rosse, il pugno chiuso, la parola compagno, i funerali di Togliatti, ma una volta apertasi la cateratta del ripudio, anche le salamelle e la cucina macrobiotica, puah! Per molti versi è la sinistra stessa che non c' è più, ridottasi a pigra entità residuale e nominale, fantasmatico automatismo del pensiero, ricordo sfuocato di ieri l' altro. Ma fra le prove di questa estinzione c' è proprio il venir meno di un corpo di immagini in cui rispecchiarsi, per cui è il classico cane che si morde, anzi si è già mangiato la lunga coda. C' era una volta la sinistra (Paper first): così Antonio Padellaro e Silvia Truzzi hanno voluto intitolare quattro interviste con Occhetto, D' Alema, Bertinotti e Bersani. Ma leggendole si capisce che l'"eclissi", parola confortevole, non dipende tanto da un deficit di idee forti, errori, divisioni, autolesionismi e scandali. Manca spaventosamente l' autenticità di un mondo di emblemi, concetti ed emozioni condivise alle spalle. Hai voglia con i santini di Berlinguer e Moro, nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo passato nella miseria. Il guaio è che negli ultimi anni il vuoto è stato riempito di infinite e spasmodiche chiacchiere, come se si trattasse di decorare le cabine di una nave che stava affondando. E neanche a dire che non ci fossero stati segnali e avvertimenti. È del 2005 Perché siamo antipatici (Longanesi) di Luca Ricolfi; del 2006 Sinistrati (Laterza) di Claudio Rinaldi; del 2008, ancora, I sinistrati (Mondadori) di Edmondo Berselli. Ma nulla ha fermato i maggiorenti dall' andare alla ricerca di connessioni sentimentali nei salotti romani (dall' Angiolillo alla Verusio), sulle terrazze, nei ristoranti di lusso, dentro i Cafonal, alla Tribuna Vip dell' Olimpico, lungo i corridoi della Rai, sulle poltroncine dei talk. Perché l' immaginario si nutre pur sempre di frequentazioni, e allora in pratica sono stati solo giornalisti, attori, autori, comici, satiri, cuochi, imprenditori, fichetti marketing-oriented. E non per fare i sovranisti, ma certo non ha giovato l' idea di riempire i vuoti con quella specie di smania anglofila tra Alberto Sordi e Carosone: il loft, lo storytelling, il politically correct, i videomaker cialtroni, le playlist menzognere, «People have the power», diffondevano gli altoparlanti, ma per favore, indietro popolo, piuttosto. D' accordo. Col senno di poi è come sparare sulla Croce rossa. Ma se è vero che nessuna civiltà è stata distrutta senza prima essersi rovinata da sé, sul piano della fantasia e degli atteggiamenti gli elenchi hanno il vantaggio di condensare per difetto il più documentabile e avventato Destra e sinistra (Donzelli, 1994). A un quarto di secolo di distanza il sospetto è che l' antica dicotomia orizzontale sia stata integrata, se non surrogata, da una nuova e ancora più antica suggestione verticale che pone in conflitto l' alto e il basso. Nel basso la destra, o ciò che ne rimane, ci sguazza. Culto del capo, plebeismo, nazionalismo e semplicismi accendono l' immaginazione attraverso uniformi, marketing della paura, uova al tegamino postate, armi da difesa, senza tante "pippe mentali", come dicono. Perciò viva le file ai gazebi e auguri a Zingaretti, che non è propriamente un radical chic, ma il Pd resta un disastro sospeso a mezz' aria, un deserto di idee e memorie rispetto al quale Montalbano che salva gli immigrati in tv francamente non basta. Nel pieno della crisi "Sea Watch" un autorevole dirigente democratico ha detto: «Faremo ricorso al Tar». Caspita! Così viene da chiedersi se questo benedetto immaginario della sinistra non sia andato perduto perché nessuno da quelle parti mette più in gioco il proprio corpo, nessuno è pronto ad andare in galera, nessuno vuole guai. Il povero sindaco Mimmo Lucano, alla fin fine, è rimasto solo. Non resta che la nostalgia per Pannella, che affrontava platee ostili, prendeva sputi, metteva i polsi nelle manette, a volte vinceva, nel senso che certi valori restavano anche quando perdeva. Forse le immagini della sinistra sono implose perché è finita la militanza, che evidentemente nel suo fideistico grigiore, nella sua disciplina perfino sacrificale, garantiva fegato e coraggio; mentre la comunicazione alla lunga dissecca l' uno e l' altro. Forse sono anche il culto dell' immediatezza e l' abbandono di quello che Amendola chiamava "il duro studio al tavolino" a far apparire il messaggio così finto da preferire il niente. Forse l' esito nichilista deriva pure dal fatto che il Pantheon della sinistra si è via via gonfiato e afflosciato a dismisura: ogni leader vi aggiungeva i suoi provvisori idoli, una mezza dozzina a botta e a freddo: campioni dello sport, della tv, dei fumetti, della propria infanzia o senescenza, Tex, Dylan Dog, il Subcomandante Marcos, i monaci del monte Athos. In penultima fase, fra giaguari, mucche e tacchini, si è arrivati al papà del segretario, "Pinu", con pellegrinaggio alla stazione di servizio in cui lavorava. Così come Renzi, ondeggiando fra Dostoevskij e Walt Disney, prima delle interviste cambiava i foto-ritratti alle sue spalle: via La Pira, metti Kennedy, aggiungi Mandela...E si fa presto a sghignazzare, o a disperarsi, ma il tema è sfuggente perché l' immaginario non si inventa, né si comanda: viene da sé, come un fiume che scorre naturalmente verso la foce, come il vento che soffia dove vuole. E le cose dello spirito, quando non ci sono più, le chiami e le chiami, ma non rispondono.
Trent'anni anni dopo la Bolognina, raccontaci come hai vissuto la fine del Pci. Il 12 novembre del 1989 iniziava il processo politico che in pochi mesi avrebbe portato alla fine del Partito Comunista italiano. Un evento storico e, per molti versi, anche traumatico. Raccontateci la vostra esperienza di quel periodo. L'Espresso l'11 novembre 2019. Le lacrime dell'ultimo segretario comunista Occhetto, il crollo del muro di Berlino, l'abbandono del simbolo con falce e martello. Il 12 novembre del 1989 a Bologna iniziava il processo che in pochi mesi avrebbe portato alla fine dello storico PCI. Un evento ricordato oggi come "la svolta della Bolognina" che investì nel profondo milioni di elettori di Botteghe Oscure e, ancora oggi, alimenta sentimenti contrastanti tra coloro che al tempo ne erano militanti. In occasione dei 30 ani da quell'evento, L'Espresso vi chiede di raccontarci come avete vissuto quei giorni, quali sono le esperienze e le sensazioni che ancora ricordate di quel lontano 1989. Una raccolta delle vostre testimonianza sarà poi pubblicata.
Intervista. «La svolta della Bolognina fu la cosa giusta. E una scelta disperata». Occhetto, il muro, il partito. Parla Fabrizio Rondolino, il Casalino di D'Alema: «Il Pci era come il Grande fratello. Di quella storia resta il Pd. Che si estinguerà, senza conquistare un voto». Susanna Turco 11 novembre 2019 su L'Espresso. «Eh no, un’intervista sulla fine del Pci non può cominciare da Rocco Casalino, mi rifiuto». Dio è morto, Marx è morto (anche il Pd non si sente molto bene), giusto trent’anni fa Occhetto fece la svolta della Bolognina, e Fabrizio Rondolino utilizza l’ultimo briciolo del comunista che fu per fermare l’avanzata, anche dentro all’intervista, del grillismo, del suo portavoce, e di ciò che si porta dietro. I due, vi è da dire, hanno una biografia incrociata: «Ci siamo incontrati vent’anni fa al Grande fratello: io venivo da Palazzo Chigi, e Casalino ci sarebbe andato. Anche se nessuno dei due all’epoca lo immaginava», racconta. Eppure, a parte questo, i due rappresentano i lembi di un fenomeno che si snoda per trent’anni: il processo per il quale, proprio a partire dalla Svolta del 12 novembre 1989, la comunicazione si è affiancata alla politica, e via via si è presa il centro della scena, finendo per sostituirla. Un processo del quale Rondolino è stato in parte testimone e in parte artefice: giornalista dell’Unità al seguito di Occhetto segretario del Pci, portavoce di Massimo D’Alema a Palazzo Chigi , capo della comunicazione del primo Grande Fratello, infine renziano convinto, rispecchia la storia del Pci-Pds-Ds-Pd, anche nella sua ultima svolta. Dopo la sbornia renziana, da un paio d’anni si è ritirato in campagna, con cani e gatti. Insomma metaforicamente si è messo a coltivare pomodori. «Sarebbe il riflusso, no? Come per il Pd: ogni volta che si vota, un certo numero di elettori se ne va. E non torna».
È cominciato tutto con la Bolognina?
«La Svolta fu un’invenzione geniale di Occhetto. La mise su in tre giorni. Decise senza avvertire nessuno: chiamò l’Unità il pomeriggio stesso. Io non sapevo niente, mi ero preso tre giorni di ferie, quel giorno non c’ero. Comunque fece la mossa giusta, anzitutto perché spostò l’attenzione: prima regola della comunicazione è spostare».
Lo fa anche Casalino.
«Casalino è un ragazzo molto intelligente, anche vista la media dei Cinque stelle, però io penso che politica e comunicazione siano la stessa cosa da sempre. La politica esiste nel modo in cui la racconti. Le due cose coincidono. Ma è così dai greci. Anche nell’Età di Pericle la democrazia era fatta di manipolatori, imbroglioni, fake news. Tutto uguale».
La pensava così anche quando da trentenne faceva il cronista all’Unità appresso a Occhetto?
«No. Ho avuto una partenza molto idealista, ho sempre molto creduto a quel che facevo, alla politica, alla possibilità che migliorasse le condizioni di vita delle persone».
E quando ha smesso di crederci?
«Beh, diciamo, con Renzi . Ma io di lui non voglio parlare. Non sopporto questi che l’hanno incensato e poi l’hanno abbandonato. Non voglio arruolarmi in quell’esercito. Però il suo fallimento è evidente: aveva l’Italia in mano, e adesso ha il 4 per cento. Pensavo che da lì potesse venire quella cosa che non è mai venuta: il rinnovamento della sinistra».
Il famoso rinnovamento. Quello che tentò anche Occhetto, di cui dovremo parlare.
«Il primo che ci prova è Craxi, che finisce come finisce; il secondo è Occhetto, con la Svolta, e finisce come finisce. Poi c’è il D’Alema blairista, il mio D’Alema diciamo, che finisce come finisce; poi c’è Walter Veltroni, che fa una cosa bella che dura un anno e poi lo fanno scappare. Conclusione: tutti i tentativi erano stati un fallimento, una serie ininterrotta di catastrofi, dalle monetine dell’hotel Raphael alla ditta di Bersani. A quel punto, nulla che venisse dal Pci poteva essere più spendibile. E arriva questo qua, Renzi, che ha il vantaggio di non entrarci niente col Pci e sembra fare il miracolo. L’uscita dall’incubo. Renzi è grillismo democratico, straordinario dal punto di vista della filosofia della storia: nel momento in cui vince la plebe - e i suoi istinti peggiori diventano dibattito pubblico - c’è uno che prende tutta questa roba, questo Mississippi di merda, e se ne fa carico, lo cavalca, lo argina».
Ma poi fallisce.
«Così mi sono ritirato in campagna. Se non c’è riuscito Renzi non ci riuscirà nessuno. Non penso che dalla sinistra possa venire fuori qualcosa di nuovo, utilizzabile, e maggioritario. Poi per carità c’è sempre Emma Bonino, Gianni Cuperlo. Amici cari, però...».
Di Cuperlo disse una volta che D’Alema lo doveva licenziare perché era un mediocre.
«Una cattiveria, di cui gli ho chiesto scusa personalmente. Momenti polemici. Erano i tempi dello staff dalemiano, abbiamo avuto scontri anche violenti, perché lui era un comunista berlingueriano, e noi facevamo i liberali».
Ora, Cuperlo prepara la Costituente delle idee di Zingaretti. Emergenti sono Provenzano, Martina, Gualtieri.
«E che devo dire? Bravi ragazzi. Però sono antichi. Nel 1803 un visconte è una persona squisita, però c’è stata la rivoluzione francese: i visconti sono destinati a scomparire. Ma non è che puoi dire niente di male. Questo è il Pci, di cui prima o poi parleremo. O meglio: è quello che rimane del Pci senza il Pci. Oggettivamente inservibile. Gli voglio bene, è la casa dove sono cresciuto, ma è totalmente inutilizzabile. Quel 20 per cento tale rimarrà finché muoiono tutti. Non arriverà più un voto nuovo - non con questa politica, non in questo recinto».
Due mesi fa Renzi ha consumato l’ennesima scissione. A proposito della Bolognina: è stata quella di Rifondazione la prima, dolorosa divisione della sinistra?
«A parte che la sinistra è stata divisa sempre, a partire dal 1921, comunque dolorosa per me no: fu una cosa assolutamente liberatoria. Lo è stata anche la scissione di Pier Luigi Bersani con Articolo 1, nel 2017. I partiti sono organizzazioni volontarie che si reggono sul principio di maggioranza. Se tu reputi che i tuoi principii siano conculcati, prendi e te ne vai. Ognuno è più libero. Non sono contro le scissioni. Anche quella di Matteo. Se ritiene che vada meglio cosi, bene».
Cosa resta, oggi, della Svolta di Occhetto?
«Resta il Pd. Che è il partito nato alla Bolognina, pur avendo cambiato alcuni nomi. Nel quale la minoranza della sinistra dc ha subito pesantemente l’egemonia culturale della maggioranza del Pci: tolto il renzismo, il Pd di Bersani e di Zingaretti sono il Pds, come testa».
Quel Pd di cui preconizza l’estinzione comincia nel 1989?
«L’89 è un anno fantastico. Occhetto è da poco segretario, Gorbaciov sta per sciogliere il comunismo, ma in Italia si celebra il congresso del “Nuovo Pci”, che in italiano vuol dire “rifondazione comunista”. Cioè Occhetto legge Gorbaciov come uomo che riforma il comunismo, e dice: anche noi ci rinnoviamo. Poi arriva Tien An Men. Mi ricordo quell’estate perché andai in vacanza in Romania, nella zona del Banato: una situazione allucinante, non c’era da mangiare. Andammo in macchina verso l’Ungheria, incontrammo una fila infinita di Trabant. Erano le centinaia di migliaia di tedeschi in fila per andare all’ovest: si era sparsa la voce che le frontiere forse si stavano aprendo. Tornai in Italia con l’idea che qualcosa stesse per succedere. Quel settembre andai alla festa dell’unità a Genova. E trovai lo stand della Ddr. Nel settembre 1989, lo stand della Ddr. Quindi di che parliamo? Il Pci era completamente in quel mondo, e pensava che fosse sul punto di rinnovarsi. Poi Gorby apre il muro, tre-quattro giorni dopo Occhetto si inventa questa cosa qua».
La svolta.
«Ecco il baco della Bolognina: non è una scelta del gruppo dirigente del Pci. È un tentativo, disperato, di reagire a un evento per loro inaspettato. E nello stesso tempo è un’invenzione geniale. Perché è la cosa giusta. In un Paese normale, si sarebbe detto: ragazzi, fino a ieri ci avete portato lo stand della Ddr, adesso vi processiamo tutti. Che è la linea di Claudio Velardi. Lui nei momenti difficili diceva sempre: dovremmo essere tutti in galera, quindi non ci possiamo lamentare di niente. Comunque, Occhetto sposta. Non più il comunismo che crolla addosso al “nuovo” Pci, ma i comunisti che con coraggio trovano una nuova strada, si rinnovano. Trovo geniale e difenderò sempre la memoria politica di Occhetto, ma le condizioni in cui la svolta si verifica sono queste. Non: ho capito che il mondo sta cambiando e quindi divento socialdemocratico. Ma: io rifondo il comunismo, nel frattempo quello che voleva rifondarlo decide di scioglierlo, e allora decido di oltrepassare il comunismo e fare una cosa nuova».
Quindi una necessità?
«Disperata. Il paragone è stucchevole, ma il Pci è veramente una chiesa. Il bello delle chiese è che non si può dimostrare l’inesistenza di Dio. Ma se si potesse farlo, sai che casino? Se domani uno dicesse in tv: mi dispiace, Dio non c’è. La svolta che inventi dopo è una scelta disperata. L’altro baco è che, tra l’89 e il 92, la sinistra riformista poteva far pace, Pci e Psi trovare un accordo, costruire una alternativa: invece non accade, prosegue la lotta fratricida tra Craxi e Occhetto. E quando esplode Tangentopoli c’è il terzo errore fatale: identificarsi con le ragioni delle inchieste. Occhetto pensa, come molti di noi, che erano ladri e una volta arrestati si sarebbe aperta la strada alla rinascita del Paese, in cui la sinistra avrebbe avuto un ruolo dirigente. Ma invece a quel punto non c’è più niente. C’è solo Berlusconi, Grillo, Salvini».
La sinistra paga ancora le conseguenze di quei bachi?
«Tre errori clamorosi che sono alla base della situazione in cui viviamo. Mani pulite – parlo dei risvolti politici - ha ucciso l’idea di futuro, e ha alimentato il rancore sociale che oggi è maggioritario. Quelli che tiravano le monetine sono diventati il 70 per cento del Paese, e lì dentro c’è anche la sinistra, perché poi metà degli elettori grillini vengono da là».
Cosa capisce un ragazzino di tutta questa storia?
«Non so, credo poco. Ho provato a spiegare alle mie figlie il Pci, a raccontare quella dimensione. Ma è difficile perché la politica è stata espunta subito, con la svolta di Salerno nel ’44, quando Togliatti decide di non fare il colpo di stato e di non rompere coi sovietici, e segna così il destino del Pci come una forza di opposizione permanente. Che si costruisce un mondo parallelo. La casa editrice, il quotidiano, anche la miss Italia del partito. A Botteghe oscure c’era il generatore di elettricità nel garage, nel caso il Viminale tagliasse la luce. Insomma era come la Casa del Grande Fratello. Un luogo immenso ma completamente autonomo. Un nodo di stare insieme che si basava su una menzogna colossale. I dirigenti ci hanno sempre imbrogliato: questa roba che al governo non si poteva andare neanche per sbaglio, mica te la dicevano in sezione. Ma fino a un certo punto nessuno sapeva che era Truman show, e tutti vivevano in un posto bello».
Quando si è rotto, tutto questo?
«Con la morte di Berlinguer. Almeno, io parlo della mia generazione. Avevo 24 anni, ho pianto per giorni. Con lui stavo seppellendo il partito».
Cinque anni e mezzo prima della svolta.
«Occhetto era simpaticissimo, io ero entusiasta. Il direttore, Renzo Foa - ma prima D’Alema - mi faceva fare quel che volevo. Avevo l’accesso a Botteghe Oscure, l’unico giornalista ammesso: ho scritto quasi tutto. Si incazzavano tutti. Anche Achille, certo. Avevo un approccio giornalistico, ma che me lo facessero fare era segno dell’epoca. Ai miei predecessori non sarebbe stato permesso. C’era un dibattito appassionante, è qualcosa che ha attraversato le famiglie, le coscienze, le amicizie, fidanzamenti, stava ovunque. Per dire, la Schelotto pubblicò un pezzo in cui raccontava di due pazienti scoppiati per via della Svolta: lei per il sì, lui per il no. Foa lo mise in prima pagina. Occhetto si inalberò: “Mi dite che sono pure uno sfascia famiglie!”».
Poi perdonava?
«Certo. Altrimenti mi avrebbe sostituito. Di base il protocollo era rigido. Ad esempio: il compagno segretario va a fare un comizio, due giorni prima io - resocontista - potevo leggere la bozza del discorso. Di solito non me la lasciavano, non si fidavano. Pensavano che il mio lavoro fosse un mero editing: sfrondare, tagliare. Io invece rimontavo il discorso, con le frasi che mi sembravano più significative. Occhetto si infuriava: “Se io dico prima questo poi quello, ci sarà un motivo”. Lui, poi, soffriva di invidia nei confronti dell’Avanti. Perché l’Unità non pubblicava sempre i suoi pezzi in apertura. E allora, per scherzare, Occhetto mi mostrava l’Avanti. Che aveva sempre in apertura Craxi. E mi diceva: ecco, impara».
Vent’anni fa ha detto che la sinistra è un ente inutile. Adesso il Pd cosa è?
«È utile al modo in cui lo sono le comunità di recupero, i centri anziani. Fai cose, vedi persone, va bene anche per combattere la solitudine. Non voglio essere sprezzante: però se il problema è andare al governo, è un ente inutile. Se invece si tratta della gestione dell’esistente, in un modo educato, allora il Pd di Zingaretti ha una funzione sociale indiscutibile».
Una volta ha detto: «L’Urss mi faceva schifo, ma avevo il ritratto di Lenin in stanza». È ancora così?
«Vivo una condizione postuma, sono diventato un libertarian. Mi considero tutt'ora un rivoluzionario, ma penso che esistano solo gli individui. E che ogni gruppo, a partire dalla famiglia, sia una struttura totalitaria, e quindi illiberale. È la mia evidente e definitiva fuoriuscita dal comunismo. Mi sembra di essere diventato più tollerante».
Su 7 intervista a Occhetto: «Quel bacio rivoluzionario e i vetero babbioni». Pubblicato domenica, 28 luglio 2019 da Vittorio Zincone su Corriere.it. Entroterra maremmano. Casale incastonato tra querce e ulivi: zero lusso, molto silenzio. Achille Occhetto è con la moglie Aureliana Alberici, il figlio Malcolm, la sorella Paola e la nipote Carlotta. Buen retiro familiare. Racconta: «Tre anni fa ho festeggiato qui anche i miei ottant’anni. Vedo che molti si auto-celebrano. Il mio è stato un brindisi senza clamore». Gli ricordo il clamore causato dalle foto scattate a pochi chilometri da qui, a Capalbio, nell’estate 1988, quando lui era appena diventato segretario del Partito comunista italiano ed Elisabetta Catalano lo immortalò mentre baciava la consorte. Su quel bacio si scatenarono dibattiti giornalistici e referendum (più o meno scherzosi) tra militanti. Occhetto venne accusato di essere un narciso. Sorride: «Quando sentii i vetero-babbioni del partito che criticavano quelle immagini, ne difesi la pubblicazione. In realtà, però, non le avevamo concordate». Elisabetta Catalano era una celebre ritrattista, non una paparazza. «Finito il servizio fotografico ufficiale, posato, ci disse, “Ora faccio qualche scatto personale, per voi”. Ridendo siamo stati al gioco. È stata furba». Occhetto nega che quel bacio sia stato uno dei primi momenti in cui la politica italiana ha virato verso la personalizzazione. Dice: «È Berlusconi, nel 1994, ad aver introdotto il modello del leader risolutore, insieme con il primato della comunicazione politica. E così si sono spalancate le porte a quel populismo che viviamo in maniera esacerbata. Ora si intravede un’altra pagina del tutto inedita della politica italiana: la democrazia illiberale. Sono preoccupato». Da qualche anno il Leitmotiv dell’ex segretario del Pci e del Pds è la creazione di una grande convenzione aperta a tutte le sinistre per mettere al centro alcune grandi idee-forza. Ne ha scritto anche nel suo ultimo saggio La lunga eclissi.
Nicola Zingaretti, segretario del Pd, ha parlato di una Costituente delle idee.
«Ho colto con favore l’iniziativa. Zingaretti si dovrebbe porre come obiettivo quello di uscire dal male oscuro delle divisioni interne. E le alleanze... Oggi l’alternativa è tra le forze che credono nella liberaldemocrazia e quelle che vogliono introdurre una democrazia illiberale».
Sta parlando di Salvini?
«Esiste un’Italia che mal sopporta gli elementi di mussolinismo salviniano. Anche se non mi pare che ci sia ancora molta consapevolezza. È inaudito il modo in cui manda al diavolo contemporaneamente l’Onu, il Papa e il Presidente della Repubblica. Un tempo, se un leader avesse sbeffeggiato le istituzioni come fa lui, ci sarebbe stata una rivolta morale e politica».
“Un tempo” lo scontro politico era anche più duro di quanto non lo sia oggi.
«Ma il patto Costituzionale era ancora forte. Si sentiva il dovere di educare il popolo italiano alla democrazia. Sia la Dc sia il Pci sapevano che a destra e a sinistra pulsa un sovversivismo che va combattuto e non accarezzato».
Cominciamo a parlare della formazione delle classi dirigenti. Tra il momento in cui Occhetto entra nel Comitato Centrale del Pci e la prima elezione in Parlamento trascorrono una quindicina di anni. Un’eternità. Racconta: «Uno degli incarichi che mi inorgoglì di più prima di entrare alla Camera fu quello di responsabile dell’amministrazione della mia sezione: scalinata per scalinata, pianerottolo per pianerottolo, andavo nelle case degli operai a chiedere i soldi per il bollino della tessera. Si parlava, ci si conosceva. Quella era la nostra università politica». Occhetto in vena di Amarcord. Gli propongo il gioco delle decadi: un’immagine per ogni decennio vissuto.
Da zero a dieci anni? È vero che Cesare Pavese le correggeva i compiti?
«Succedeva a Forte dei Marmi. Ma non è quella l’immagine indelebile della mia infanzia».
Qual è?
«Io che vengo portato sul balcone per vedere i piccoli carri armati che escono dalla Fiat col Tricolore e con le bandiere rosse. L’inizio dell’insurrezione del 25 aprile 1945. L’abitazione torinese dei miei genitori era una specie di sede clandestina della sinistra cristiana frequentata da partigiani di tutti i colori, che io consideravo come apostoli».
Da dieci a venti.
«La classe in cui discutevamo la linea editoriale del Rudere, il giornale del liceo Beccaria di Milano. Lo diressi all’inizio degli anni Cinquanta».
L’immagine dai venti ai trenta.
«Il dibattito al circolo Banfi, che era la sezione degli universitari comunisti, su un articolo che avevo scritto contro l’intervento sovietico in Ungheria nel 1956».
La radiarono dal Pci?
«No. Il partito aveva ben altre preoccupazioni. Il pezzo venne pubblicato sul numero zero di Nuova Generazione, la rivista della Fgci che allora era diretta da Sandro Curzi. Titolo: “Il furore alberga nel cuore dei giovani comunisti”. Aggiungo un ricordo: il viaggio con Giancarlo Pajetta, nel 1965, inviati in Oriente dal segretario Luigi Longo, e la cena coi cinesi durante la quale emerge la rottura tra Pci e Pcc. All’epoca guidavo la Fgci».
Dai trenta ai quaranta.
«C’è il Sessantotto. Portammo i massimi dirigenti del Movimento Studentesco romano a un colloquio con Longo. E lui si rivelò aperturista».
Quaranta-cinquanta.
«È il decennio tra il 1976 e il 1986. Troppa roba».
Chiuda gli occhi. La prima immagine...
«Marzo 1978. L’edicola vicino casa. Ci arrivo ripassando il discorso con cui in direzione mi sarei dichiarato contrario ad appoggiare il governo Andreotti. Chiedo l’Unità e l’edicolante sbuffa: “Questo giornale ormai è vecchio”. Domando: “Perché?”. E lui? “Ma come, non lo sa? Hanno rapito Aldo Moro”. Mi allontanai ripensando il discorso da fare in direzione: era il momento dell’unità nazionale per combattere il terrorismo. Nel 1984…».
È l’anno della morte di Enrico Berlinguer.
«Io ero responsabile della propaganda. Mentre era in coma, lo sostituii in un comizio a Comiso, in Sicilia. La notizia del decesso l’ho avuta mentre rientravo a Roma».
Berlinguer. Pierluigi Bersani sostiene che avesse uno sguardo insostenibile.
«La sua serietà e il suo modo di essere schivo ti mettevano un po’ in imbarazzo. Ma... io da giovane ho incontrato Palmiro Togliatti, che era considerato un Dio».
Racconti.
«Nel 1959 mi ricevette perché avevo chiesto di fargli leggere un numero di Nuova generazione, di cui ero direttore. Eravamo molto critici con il XXI congresso del Partito Comunista Sovietico, perché non c’era stato il rinnovamento atteso».
Togliatti come reagì?
«Bene. Mi chiese di diffondere l’articolo».
Torniamo al 1984. La leggenda narra che dopo il funerale di Berlinguer lei e Massimo D’Alema vi siete messi d’accordo per una staffetta alla segreteria del Pci: prima lei, poi D’Alema. Viene chiamato “il Patto del garage”.
«Quel patto se lo è letteralmente inventato D’Alema. Non c’è mai stato».
D’Alema, qualche settimana fa, su 7, ha detto pure che nel 1990 fu lei a inviare lui e Walter Veltroni sul camper di Bettino Craxi durante la conferenza programmatica del Psi, a Rimini.
«Una balla anche questa. Io ero in Spagna e non considerai una cosa bella quella visita voluta da Craxi. Ma è vero che, caduto il Muro, lavorai per raggiungere una nuova unità delle sinistre. Ho sempre pensato che se non ci fosse stata la Svolta della Bolognina, Craxi, dopo il crollo del Muro di Berlino, si sarebbe mangiato mezzo Pci».
La Bolognina. Novembre 1989. Il decennio tra i suoi cinquanta e i suoi sessant’anni. Tra poco c’è il trentennale. Lo festeggerà?
«Cercherò. La cosa curiosa è che quelli che mi hanno seguito in quella scelta, non hanno mai contribuito ai festeggiamenti. Ho sempre fatto tutto io. Il rapporto di una parte della classe dirigente del mio partito con la Bolognina e con la mia persona è una pagina infame della storia politica italiana».
Fuori i nomi.
«Ma no, basti la sostanza: io volevo che la Bolognina fosse un’uscita a sinistra dalla crisi. Invece dopo di me, si sono assunte posizioni distorte, inciuci, compromessi: è il processo che ha portato alla degenerazione della Svolta e ha aperto la strada al renzismo».
Passiamo al decennio Sessanta-Settanta.
«Ho avuto la sensazione che si stesse aprendo una nuova fase di corruttela e che stesse riemergendo la questione morale. Alle Europee del 2004 mi alleai con Antonio Di Pietro. Fu un errore».
L’immagine di quel periodo?
«È una brutta immagine. Quella della damnatio memoriae nei miei confronti, messa in atto dagli epigoni del mio partito. È una damnatio che ha sporcato anche il decennio successivo. Per molti, anche grazie alla complicità di alcuni ex comunisti, c’è stato Berlinguer, poi il buio, e poi Renzi. E viene dimenticato quel processo intermedio senza il quale non ci sarebbe stato né l’Ulivo né la nascita del Pd».
Lei con chi parla della Bolognina?
«Oggi? Non parlo più con nessuno. Faccio prima».
Intendevo... Con chi ne parlò? C’è chi le ha rimproverato una scelta troppo personale e poco condivisa.
«Io avevo creato una serie di premesse che aprivano la strada al processo: la celebrazione del monumento dedicato a Togliatti, a Civitavecchia, in cui dichiaro che il Migliore è stato parzialmente colpevole dei delitti di Stalin; il viaggio a Budapest con l’omaggio a Imre Nagy; la manifestazione sotto l’ambasciata cinese dopo Tienanmen durante la quale dico che il comunismo è finito... Forse qualcuno non ha voluto sentire. Io ho preparato il terreno, poi quando è caduto il Muro ho reagito e ho proposto di cambiare nome al Pci. Alla mia proposta è seguita una discussione».
Nanni Moretti ci ha girato un film: La cosa.
«La discussione più democratica che ci sia mai stata in un partito. Persino troppo democratica».
Concetto Vecchio per “la Repubblica” il 4 novembre 2019. L' ex segretario del Pci e quel 12 novembre 1989 alla Bolognina di Concetto Vecchio.
Achille Occhetto, trent' anni dopo la sua Svolta, la sinistra non è mai stata così in difficoltà. Dove ha sbagliato?
«Nella subalternità al neoliberismo. È accaduto che di fronte alla crisi del capitalismo, che ha prodotto enormi disuguaglianze, invece che una risposta da sinistra ne è arrivata una da destra: il populismo».
Le ex regioni rosse votano a destra. Quando lei diventa segretario il Pci in Umbria aveva il 44.4%. Ora nel 90% dei comuni umbri la Lega è il primo partito. È stupito?
«C' è una crisi della democrazia, non solo in Italia, che riguarda la crisi della sovranità. In certe analisi i populisti hanno ragione, ma poi offrono risposte sbagliate, pericolose. Tutte le forze di sinistra, anche il Pd, devono fare un salto culturale, per democratizzare la globalizzazione e l' Unione europea».
A cosa pensa?
«A una grande costituente delle idee. Trent' anni fa dovemmo fare i conti con il crollo del comunismo, la nuova svolta deve fare i conti con la crisi delle sinistre. Contro l' onda di destra occorre mobilitare tutta la democrazia militante. Ma per fare questo tutti devono cambiare. Non gli statuti, che non interessano a nessuno, ma l' anima».
Zingaretti le sembra la persona giusta per realizzarla?
«Sta lavorando con grande serietà. Rifugge dalla politica urlata, e perciò trova delle difficoltà. Ma va valutato sul lungo periodo. Spero che riesca a fare la mossa del cavallo per la costruzione di un campo democratico largo».
Cosa la spaventa del populismo?
«Gramsci diceva che il popolo andava salvato dal "sovversivismo endemico", dandogli una prospettiva democratica. Senza mediazioni il popolo può diventare una brutta bestia».
Cosa ricorda della notte in cui prese la decisione di cambiare nome al Pci?
«Era il 9 novembre 1989 ed ero a Bruxelles per incontrare il leader laburista Neil Kinnock. Rimanemmo ipnotizzati di fronte alle immagini televisive che giungevano da Berlino. Stavano picconando il Muro. Dissi subito ai giornalisti: "Qui non crolla soltanto il comunismo, ma tutto il Novecento". "Cambierete nome?" mi domandò Kinnock. Ed io: "È molto difficile, è molto difficile, è molto difficile"».
Tre giorni dopo, il 12 novembre 1989, alla Bolognina lei, senza avvertire nessuno, lancia la sua proposta.
«Ma io, davanti ai partigiani della battaglia di Porta Lame, dissi un' altra cosa: "Ora bisogna cambiare tutto!": quel tutto poteva implicare anche il nome, ma la mia attenzione in quel momento era sui contenuti, "sulla cosa". Puntavo a una costituente riformatrice per unire insieme, per la prima volta, tutti i riformismi».
Perché non ne parlò prima con i dirigenti del partito, com' era costume nel Pci?
«A parte che molte altre volte - si pensi all' ombrello della Nato di Berlinguer - la proposta fu fatta prima di ogni discussione. Ma io mi trovai a dichiarare di fronte a un evento che nessuno aveva previsto e non dovevo certo informarli che era caduto il Muro».
Dissero: "Occhetto ha chiuso il Pci".
«Così si offende un grande e combattivo partito che non si faceva chiudere da nessuno. Il segretario può fare la proposta, ma poi il cambio del nome è stato deciso dopo un processo democratico lunghissimo, dieci direzioni, quattro comitati centrali, due congressi. E ci fu una votazione, nella quale il 70% dei militanti votò a favore».
Che flash ha di quel giorno alla Bolognina?
«M' incamminai con il partigiano William, medaglia d' oro della Resistenza. Gli anticipai con un po' di timore la mia decisione. Sa, all' epoca non era mica scontato che potessi spuntarla. "Ti capisco benissimo", mi rincuorò William.
"Bisogna cambiare tutto, anche se quel nome rimarrà nel mio cuore", e si batté il pugno sul petto. "Le ragioni per cui abbiamo combattuto non saranno divelte", risposi commosso».
Fu una decisione estemporanea?
«Ma no. Era nell' aria da mesi. A giugno, mentre tenevo un comizio per le Europee dell' 89 a Firenze, mi portarono un biglietto con il quale mi si informava della repressione di piazza Tienanmen a Pechino.
Tornai subito a Roma, dove facemmo un sit-in davanti all' ambasciata cinese. Lì dissi: "Se questo è il comunismo, il comunismo è morto».
Trent' anni dopo la Svolta le sembra dimenticata?
«In tutti questi anni ho ricordato gli anniversari da solo. All' epoca, anche quelli contrari al cambio del nome, e che poi confluirono in Rifondazione comunista, mi accusarono di averlo fatto per andare personalmente al governo. Loro ci sono andati tutti, prima o poi, l' unico che non ci è andato sono io».
Sente di avere subito un torto?
«La Svolta fu un grande melodramma. Si discusse in tutte le fabbriche,nelle scuole. Le famiglie si divisero. Ci furono coppie che si separarono. Fu una necessaria discontinuità. Ma nella narrazione della sinistra italiana si passa direttamente daBerlinguer al Pd, saltando un passaggio fondamentale. Come definirla diversamente se non una damnatio memoriae? Una vera infamiastorica».
Quali meriti si attribuisce?
«Di aver previsto un percorso che poi si è verificato esattamente. Quando mi presentai al comitato centrale dissi: "Guardate che la campana del nuovo inizio suona per tutti". Infatti, la Dc dovette cambiare nome, di lì a poco. I socialisti sono scomparsi. Anche il Msi fece la sua svolta, diventando An. Senza la Svolta non ci sarebbe stato l' Ulivo. Nulla è rimasto in piedi. Non era crollato un muro di pietra, ma una barriera ideologica. Per questo dissi che bisognava riunire tutti i riformisti laici e cattolici divisi da quel muro».
Come spiega la sua solitudine?
«Lo dovrebbe chiedere agli altri. Io avevo un progetto ideale, per molti la Svolta fu invece l' occasione per raggiungere il potere. Nel congresso di Roma del Pci, primavera del 1989, posi con forza il problema ambientale, la questione dell' Amazzonia. Oggi è di stretta attualità, ne parla perfino il Papa. Bettino Craxi allora mi irrise come terzomondista».
Cosa intendeva per progetto ideale?
«Una nuova cultura politica. Oltre alla questione ambientale parlavamo già dell' esigenza di democratizzare la globalizzazione, di una nuova governance del mondo, della centralità dell' integrazione europea in rapporto con il socialismo democratico. Preconizzammo il mutamento di tutto il sistema politico ponendo, con il movimento referendario, le condizioni istituzionali per il passaggio all' alternanza».
Molti la ricordano per quella frase sulla "gioiosa macchina da guerra" contro Berlusconi.
«Non perdemmo certo per quell' uscita ininfluente le elezioni del 1994. E nemmeno perché, come talvolta ricordano, durante il confronto televisivo col Cavaliere indossavo un' antiquata giacca marrone».
Cosa pensa del governo giallorosso?
«Era giusto non assecondare la richiesta di Salvini, che dalla spiaggia, attorniato da cubiste, pensava di scavalcare il Quirinale e dichiarare finita la legislatura. È un governo di emergenza cui non possiamo chiedere più di tanto».
Non decolla, però.
«Infatti occorreva passare al più presto da una fusione a freddo a una fusione a caldo. Questo non solo non sta avvenendo, ma i 5 Stelle da un lato e Renzi dall' altro fanno solo una politica corsara. Così non si può andare avanti. Ci vuole un' anima».
Crede che la sinistra possa perdere anche l' Emilia?
«Spero proprio di no».
Si riconosce in questa politica?
«È molto diversa dalla mia, che era intrecciata potentemente con la cultura. Per quelli della mia generazione la politica era vocazione, non mestiere».
Che famiglia era la sua?
«Papà lavorava all' Einaudi, a Torino, negli uffici amministrativi. Italo Calvino, Natalia Ginzburg, Cesare Pavese, erano spesso a casa nostra. Pavese, durante le vacanze a Forte dei Marmi, mi correggeva i temi. Era un uomo austero, di poche parole».
Lei esce di scena a 58 anni, come "un altoforno spento all' improvviso", come spiegò una volta.
«All' inizio non è stato semplice. Poi ho trovato un mio equilibrio».
Cosa fa adesso?
«Leggo. Ho scritto dei libri, uno anche sulle bioscienze».
L' ultimo libro letto?
«I dialoghi di Platone».
Cosa guarda in tv?
«Mi piacciono i bei film. Guardo anche i talk, ma evito quelli gridati».
La morte le fa paura?
«No, ma quando vedo che parlano di come sarà l' Italia nel 2040 o nel 2050, mi dico: "Beh, io non ci sarò più"».
· Affidati alla sinistra.
Dove c'è l'affare li ci sono loro: i sinistri.
La lotta alla mafia è un business con i finanziamenti pubblici e l'espropriazione proletaria dei beni.
I mafiosi si inventano, non si combattono.
L'accoglienza dei migranti è un business con i finanziamenti pubblici.
Accoglierli è umano, andarli a prendere è criminale.
L'affidamento dei minori è un business con i finanziamenti pubblici.
Toglierli ai genitori naturali e legittimi è criminale.
Affidati alla sinistra. Alesandro Bertirotti l'1 luglio 2019 su Il Giornale. È tutta questione di… sporcizia. Certo, rimanere sconcertati di fronte a notizie come queste è il minimo. Anche il Cristo esprime parole durissime quando si riferisce a coloro che avrebbero osato “scandalizzare” i bambini. E dice, al tempo stesso, che per entrare nel Regno dei Cieli occorre farsi, appunto, come bambini. Questi sono i due concetti dai quali parto per il ragionamento che segue, perché penso siano non solo concetti cristiani ma appartenenti alla sensibilità che l’Occidente credeva di aver conquistata e mantenuta. Non siamo nuovi in Italia a notizie del genere, perché sono sicuro che molti di voi ricorderanno esattamente quello che è stato scoperto sul Forteto di Firenze. E potete trovare ancora materiale in rete, oltre a questo. Ma abbiamo di più, e cioè la presenza di una organizzazione a delinquere contro la famiglia tradizionale, la figura paterna per avvantaggiare famiglie alternative, ossia omosessuali et similia (anche bisessuali, tanto non fa male un po’ di creatività…), come si evince da questo articolo ulteriore. Coloro che conoscono la legge Cirinnà sulle unioni civili sanno perfettamente che penalizza qualsiasi unione eterosessuale a vantaggio di quelle omosessuali, perché ovviamente questo significa voti, per quella sinistra che appoggia da sempre la creatività evolutiva. È ovvio, mi riferisco alla creatività che ghettizza, attraverso le manifestazioni come il Gay Pride, i circoli con tessera Arci e altre amene iniziative ricreative. Quindi, possiamo sostenere che per la sinistra la famiglia tradizionale è qualche cosa da superare, desueto, démodé e quindi reazionario. Un padre che fa il padre, amando una madre che fa la madre, con la colpa di essere eterosessuali, sono sicuramente inadatti all’educazione dei figli. Ecco perché è utile organizzare il peggio possibile, per condurre questi bambini ad un vero e proprio lavaggio del cervello, con sevizie psicologiche e fisiche. Io sono convinto che non tutta la sinistra sia in queste condizioni, almeno la poca che ancora pensa, e che non sia piegata all’ideologia di qualche multinazionale. È anche vero che gli esponenti politici attuali non hanno rivolto nessuna attenzione a quanto sta uscendo fuori da questa scandalosa storia emiliana. E non si sono assolutamente recati in Emilia, magari con qualche dichiarazione di condanna, preferendo, giustamente secondo loro, imbarcarsi per difendere bambini, famiglie, padri e madri del tutto normali, ma poveri ed immigrati. È evidente, che esiste una normalità che a loro piace, e che magari proviene dal mare. Mentre la normalità di una Emilia che lavora duramente è assolutamente da evitare, visto che si inventano persino storie per sottrarre i bambini alle proprie famiglie, e attraverso un interessantissimo giro di denaro, affidarli a famiglie creative. In questo caso, il termine “creative” è sinonimo di delinquenti, almeno queste sono le accuse. Vedremo se ci sarà un rinvio a giudizio e dunque un giudizio. Intanto, “la politica progressista per il bene dell’umanità intera” (locuzione che esprime tutto l’amore possibile per la povera gente…) prende il sole in Sicilia e se ne frega dei criminali che alimenta in patria. Cosa dovremmo pensare di tutto ciò?
“Io accusato di omofobia per togliermi il figlio e darlo a una coppia gay”. "Mi dissero che io ero omofobo. E che dovevo cominciare ad abituarmi alle relazioni di genere". Costanza Tosi, Lunedì 01/07/2019 su Il Giornale. Da un lato bambini traumatizzati, plagiati dagli psicologi e strappati dall'affetto dei loro cari. Dall'altro i loro genitori che non si danno pace. Tutte vittime di una rete di donne e uomini disposti a tutto, come si legge nelle carte dell'inchiesta "Angeli e demoni". Ma non solo. Incontriamo un uomo - che ci chiede di restare anonimo e che chiameremo Michele - che inizia a parlarci. La sua odissea inizia nel 2017, quando gli vengono strappati i figli per darli in adozione a una coppia gay. Tutto inizia con una denuncia per maltrattamenti (adesso archiviata dal tribunale di Reggio Emilia) fatta dalla sua ex moglie. I servizi sociali della Val D'Enza cominciano a monitorare la famiglia, come ci racconta lo stesso uomo: "Venivano a controllare in continuazione. Mi contestavano che la casa non fosse idonea a far vivere i miei figli. Mi hanno detto che la camera dei bambini era troppo pulita, quasi che loro non avessero mai dormito in quella stanza. I giocattoli erano riposti nell'armadio e anche questo a loro non tornava. Cercavano sempre delle scuse, a volte banali". Ispezioni assidue e incontri continui. Gli assistenti stilavano lunghe relazioni, spesso fantasiose, secondo Michele. Relazioni che però non corrispondevano alla realtà dei fatti in quanto falsificavano gli eventi. Tra le righe delle relazioni infatti ci sarebbero racconti di fatti che però non sarebbero mai avvenuti. Mese dopo mese, anzi, i servizi sociali aggiungevano ulteriori dettagli per creare la figura del "papà cattivo", un pretesto - per gli inquirenti - per togliere i bambini al genitore e affidarli alla madre che, dopo essere andata via di casa, viveva con la sua nuova compagna. Michele doveva quindi diventare l’orco cattivo, il padre violento sia con i figli che con la moglie. “Un giorno - racconta Michele a ilGiornale.it - mentre mi stava per salutare, mio figlio ha iniziato a piangere perché non voleva andare con la madre. Io non riuscivo a capire, ma siamo riusciti a calmarlo e tutto si è sistemato. Poi è andato via con lei". Ma non solo. Poco dopo Michele scopre dei dettagli agghiaccianti, nelle relazioni dei servizi sociali: "Scopro che Beatrice Benati, che aveva redatto la relazione, nel raccontare i fatti scriveva: 'I bambini si riferivano al padre, insultandolo'. Lì ho capito che c’era qualcosa di strano. Perché avrebbero dovuto scrivere una cosa per un'altra? A che scopo? Ancora oggi me lo chiedo". Il 15 giugno del 2018 Michele viene convocato dagli assistenti sociali. Incontra Federica Anghinolfi e Beatrice Benati (oggi agli arresti domiciliari) che gli comunicano che non potrà più vedere i suoi figli se non “in forma protetta una volta ogni 21 giorni.” La motivazione? "Lei è omofobo!", gli spiega la Anghinolfi, responsabile dei servizi sociali, e attivista Lgbt. "Io ero sconvolto, non volevo crederci - spiega Michele- Chiesi spiegazioni e mi dissero che io ero omofobo. E che dovevo cominciare ad abituarmi alle relazioni di genere". Adesso, dopo un anno, Michele pensa solo ai suoi figli, soprattutto al più piccolo. A causa delle pressioni psicologiche e dei traumi subiti durante il percorso di allontanamento dal padre ora il bambino soffre di problemi psichici. "Sta soffrendo molto, questa situazione lo sta distruggendo e io ho le mani legate. Ha degli atteggiamenti preoccupanti, me lo hanno detto anche le insegnati di scuola - sospira Michele, che fa fatica a parlare e ha la voce rotta dal dispiacere - Dice spesso che non sa che farsene della sua vita, che vuole morire". Sono questi i pensieri di un bambino allontanato dalla propria famiglia. Pensieri che nessuno dovrebbe mai fare. Soprattutto un bambino.
· "Porti aperti".
Per la sinistra l'immigrato conta più dell'italiano. "Perché?". Feltri, la domanda che ammazza il Pd. Libero Quotidiano l'8 Luglio 2019. Alcuni giorni orsono tale Faraone, parlamentare del Partito democratico, ha dichiarato di essere molto onorato di aver servito la cena agli immigrati. È stato bravo ad offrire i propri servigi ai poveracci provenienti dall' Africa e pubblicamente lo lodiamo. Però abbiamo un appunto da rivolgergli. Come mai si è messo a disposizione con tanto entusiasmo degli sfigati, indubbiamente meritevoli di soccorso, ricevendo elogi a tutto spiano, mentre se ne è sbattuto, lui e il Pd, dei terremotati i quali da anni sono condannati a vivere peggio che sui barconi dei neri. Se gli italiani sono nella disperazione, ricoverati in baracche, al freddo o al caldo torrido, non c' è anima che si intenerisca, nemmeno quella apparentemente gentile di Faraone. Vengono abbandonati dallo Stato e in genere dalle istituzioni, devono arrangiarsi e macerarsi in indicibili sofferenze. Le loro afflizioni sono considerate normali, effetto di calamità naturali inevitabili. Essi sono visti quale problema noioso pressoché irrisolvibile. Mancano i mezzi per aiutare i senzatetto, coloro che hanno perso tutto, persino la speranza, a causa del sisma. Questi ultimi sono costretti ad invidiare i naufraghi del Mediterraneo dato che costoro vengono assistiti a furor di popolo, accolti, coccolati, sono oggetto di dispute politiche tra chi vuole chiudere i porti e chi invece li vuole spalancati a qualsiasi persona proveniente dalla Libia. Le vittime delle scosse telluriche al contrario sono rompiscatole che piangono e basta, e bisogna che si arrabattino con mezzi propri, mentre gli extracomunitari provenienti dal mare richiedono ogni riguardo. Non solo di essere salvati, ma ricoverati, favoriti. Almeno a parole. Se poi, una volta sbarcati sono buttati quali cenci per strada, costretti a campare all' addiaccio, a fare i propri bisogni nelle aiuole delle metropoli, non importa: si rassegnino. L'importante è dare l' illusione a questa gente di essere ricevuta e accudita. Intanto i nostri connazionali del Lazio e dell' Abruzzo ridotti in miseria possono morire. Della loro sorte non frega nulla a nessuno. Si vergogni Faraone e tutti quelli della sua risma. Vittorio Feltri
L'INESORABILE HARAKIRI A SINISTRA. Giovanna Casadio per ''la Repubblica'' il 4 aprile 2019. Nicola Zingaretti si è anche arrabbiato: « Finire sotto processo per una cosa che non ho detto ». E tuttavia il segretario dem ha dovuto smentire di avere mai pensato a una patrimoniale da utilizzare per lanciare un grande piano di investimenti come invece chiedono Maurizio Landini e la Cgil. Ha dovuto assicurare, nella riunione dei parlamentari del Pd a Montecitorio: « Non so se è una proposta del sindacato, di certo non è una proposta del Pd». Zingaretti ha stoppato così chi nel partito era già sul piede di guerra e gli chiedeva conto, a cominciare dai renziani Luigi Marattin e Anna Ascani, se stesse per caso imbarcando il Pd su quella rotta. « La battaglia politica si fa sui nostri temi, non su temi che vengono da altri soggetti istituzionali», ha chiarito il segretario. Durante la sfida delle primarie del Pd del resto, nessuno dei candidati leader né Zingaretti, né Maurizio Martina o Roberto Giachetti aveva ipotizzato il ricorso a una patrimoniale. Non in programma. E non si torna certo adesso, alla vigilia delle europee, su un tema elettoralmente spinoso. Tra i dem a sposare la causa della Cgil è solo Cesare Damiano. L' ex ministro del Lavoro ed ex segretario Fiom invita: « Noi non dobbiamo avere tabù di fronte a una distribuzione più equa della ricchezza » . Precisa: « Che 26 famiglie abbiano le risorse di 3 miliardi di persone sarà una questione che va affrontata o no? » . Andrea Orlando, l' ex Guardasigilli che quando si candidò alle primarie nel 2017 a una prelievo patrimoniale aveva pensato, non prende in considerazione l' ipotesi: «In una fase di recessione una tassa sul patrimonio non è la soluzione». Comunque l' intervista del segretario della Cgil a Repubblica agita le acque nel centrosinistra. Vicenzo Visco, l'ex ministro delle Finanze, economista e presidente di Nens, il centro studi economici fondato da Pierluigi Bersani, attacca: «Mi preoccupa il riflesso condizionato di perbenismo fiscale del Pd » . I compagni dem insomma sbagliano. Spiega Guglielmo Epifani, ex numero uno della Cgil ed ex segretario del Pd ora passato con Mdp: « Non è una novità quella della patrimoniale per la Cgil. È una proposta sempre in campo, tanto che Bruno Trentin pensava a un prelievo leggero per trovare risorse per investimenti e una maggiore equità fiscale » . Visco dal canto suo invita a distinguo: «L' imposta patrimoniale che tutti evocano con terrore è ritenuta una espropriazione di una parte del patrimonio dei ricchi. Ebbene questo è ciò a cui proprio il governo gialloverde ci sta condannando visto l' indebitamento a cui ci porta » . Altra cosa è una base imponibile sul patrimonio invece che sul reddito con aliquota bassa allo 0,3 o 0,5 per cento. «Non ci sarebbe nessuna confisca del patrimonio » . Visco ricorda che Mdp di Bersani aveva proposto di finanziare il reddito di cittadinanza in modo alternativo con una patrimoniale. Non entra nel merito Enrico Letta, l' ex premier che di patrimoniale non volle sentire parlare durante l' anno del suo governo. Mentre Carlo Calenda l' ex ministro dello Sviluppo economico boccia senza appello la proposta di Landini: « Una patrimoniale non sta né in cielo né in terra. Sarebbe una seconda tassa. Le tasse non possono aumentare ma solo diminuire. L' unico aumento di gettito possibile è quello derivante dalla lotta all' evasione fiscale».
PiazzaPulita, Nicola Zingaretti kamikaze sugli immigrati: "Porti aperti", mira al 4%? Scrive il 19 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Tra gli ospiti di PiazzaPulita, il talk-show del giovedì sera su La7 condotto da Corrado Formigli, ecco spuntare Nicola Zingaretti, il segretario di un Pd che dopo i botti post-primarie sta letteralmente crollando nei sondaggi, settimana dopo settimana, tornando assai vicino alla quota di consensi racimolata alle elezioni politiche del 2018. E per comprendere le ragioni di una simile flessione è sufficiente ascoltare le proposte di Zingaretti in tema di immigrazione. Si parlava di Matteo Salvini, della sua linea dei porti chiusi e ancor più chiusi in questi giorni, quella della crisi libica e dell'emergenza migratoria che potrebbe comportare. Bene, Zingaretti da par suo insiste sul "coraggio di dire porti aperti". E ancora, il segretario del Pd aggiunge: "Avrò il coraggio di dare all'Italia una legge che regoli l'immigrazione, abolendo la Bossi-Fini". Nulla da eccepire sul coraggio: Zingaretti ne ha da vendere, insistendo in un momento come questo su un punto impopolare come pochi. Quanto altro perderà nei sondaggi dopo questa presa di posizione?
Antonio Polito per il “Corriere della sera” 18 aprile 2019. È strano: in una Repubblica a lungo dominata dai cattolici e dai comunisti, questo è il primo intervento contro la povertà (in realtà aveva cominciato il governo Gentiloni, ma troppo tardi, a fine legislatura, e troppo poco, due soli miliardi). C' è da chiedersi perché. Forse per un pregiudizio. La maggioranza degli italiani sospetta sempre che i poveri siano finti, perché veri evasori o semplici fannulloni. Per la sinistra, alla povertà doveva pensarci il lavoro. Per i cattolici, doveva pensarci la famiglia. La tradizione politica italiana non ha così mai elaborato una cultura del Welfare universale, di tipo nordico, che stende una rete sotto la quale nessun cittadino può cadere. Perfino i Cinque Stelle, inventori e promotori della misura, a un certo punto hanno vacillato, e sotto la pressione del partito del Nord e del Pil, contrario all' assistenza, hanno tentato di torcere il progetto: da reddito di cittadinanza a sussidio di disoccupazione. Ma il ritardo dei centri dell' impiego e la realtà sociale descritta dalle domande, così concentrate nelle regioni del Sud, hanno fatto ammettere allo stesso presidente dell' Inps Tridico che l' obiettivo di sottrarre persone alla povertà conta di più che avviarle al lavoro: «Il primo obiettivo è propedeutico al secondo». Su questo ha ragione. L' inclusione sociale è condizione necessaria, anche se non sufficiente, per l' ingresso nel mondo del lavoro. È molto più difficile per chi non ha un' auto, un televisore, il riscaldamento o un pasto ricco di proteine, trovare lavoro. Ma ci sono povertà anche più moderne e più subdole. L' isolamento, una separazione, una malattia cronica, l' analfabetismo di ritorno. La sinistra, sindacato compreso, non ha capito l' importanza di stendere questa rete. Abbagliata dalla new economy e dalla speranza taumaturgica nell' arrivo dell' euro, ha creduto che il problema sociale si potesse risolvere con l' istruzione, «Education, education, education», era lo slogan di Blair, tanto citato da noi. L' economia della conoscenza avrebbe fatto il miracolo, eguaglianza delle opportunità per tutti. Non l' ha fatto. Ma quel che è peggio è che in questi vent' anni, oltre al lavoro, non è arrivata neanche l' education. Alla fine ha prevalso il corporativismo, e le poche risorse sono state destinate a difendere lo status quo. Quando la destra era al governo, proteggeva partite Iva e commercianti; quando c' era la sinistra, statali e lavoratori dipendenti. Tutti ceti «garantiti», con un lavoro e un reddito, come i destinatari degli 80 euro di Renzi. E invece proprio l' epocale trasformazione dei lavori in corso, la transizione verso sharing e la gig economy , e da ultima la doppia recessione che ha stroncato l' Italia, richiedevano e giustificavano un intervento pubblico a sostegno dei perdenti della nuova competizione sociale. I forgotten men , che il populismo ha raccolto dietro le sue bandiere, sempre sul punto di diventare un lumpenproletariat pronto ad ogni avventura, sono la sanzione della storia a una sinistra che ha dimenticato il disagio sociale. Per ragioni opposte ma speculari, anche l' intervento del governo che parte tra qualche giorno può però rivelarsi improduttivo. Per ora è solo una erogazione di denaro. È difficile che 520 euro medi a famiglia mettano fine alla povertà, se la intendiamo nei termini in cui l' abbiamo descritta. Ancor di meno lo faranno con le famiglie dai due figli in su, le più penalizzate dal sistema escogitato dal governo, che tende a privilegiare i single per salvare la cifra feticcio dei 780 euro sbandierata in campagna elettorale. Istruzione, cultura, salute, non solo non vengono assicurate dal reddito di cittadinanza, ma potrebbero addirittura impoverirsi se le risorse usate dal governo (8 miliardi) fossero sottratte a un moderno sistema di Welfare. A Napoli ci sono più infartuati, più obesi, più diabetici, che nel resto d' Italia. Questa è povertà che il reddito non cura. L' inclusione sociale non è una card ricaricabile. Soprattutto non lo è per i minori, il cuore del problema della coesione sociale. Di più: affianco ai poveri disoccupati ci sono i poveri che lavorano, i working poor , che guadagnano poco più o poco meno del reddito di cittadinanza, e che rischiano così di essere incentivati a una nuova forma di esclusione sociale: vivere di assistenza. Salvare chi sta cadendo non è solo un dovere morale, è anche un affare per la società. Non può prosperare un Paese con molti poveri e pochi occupati. Ma immettere nel circuito virtuoso del lavoro chi è ai margini della società richiede una politica sociale, della formazione e dell' istruzione, di cui questa maggioranza non ha finora mostrato di avere neppure un' idea. Passate le europee, e incassato il dividendo politico, c' è speranza di parlarne?
Il saggio di Rampini, l’errore della sinistra. Ha dimenticato i «penultimi». Pubblicato sabato, 01 giugno 2019 da Aldo Cazzullo su Corriere.it. Inesorabile, implacabile, ogni anno arriva l’appuntamento con la serata della consegna degli Oscar. L’attendo con ansia quando vedo che la data si avvicina. So già che cosa mi riserva. Tutti i media progressisti — americani, mondiali — quella sera danno il peggio di sé. Un’orgia di banalità politically correct, una discesa verso gli inferi dell’ipocrisia. Le star di Hollywood lo sanno benissimo, hanno imparato a manipolare la dabbenaggine dei commentatori. Ogni celebrity ha i suoi addetti alle relazioni esterne, che ne curano anche l’immagine “valoriale”; la passerella degli Oscar viene usata per mandare messaggi che provocano l’orgasmo dei media progressisti. Di volta in volta, l’attrice o l’attore verranno edotti dagli esperti di comunicazione, istruiti in anticipo. Bisogna sapere se quell’anno va più di moda il cambiamento climatico o il razzismo, gli immigrati o le molestie sessuali. La star deve avere bell’e pronto il suo discorsetto sugli orsi polari, o le violenze della polizia americana contro i neri, o gli abusi sulle donne (meglio se attrici), o il dramma dei morti annegati nel Mediterraneo...». «La notte della sinistra» (Mondadori, pagine 180, euro 16)È un Federico Rampini che non ti aspetti. Di solito, leggendo i suoi libri, si impara sempre qualcosa. È così anche questa volta (molto belle, ad esempio, le immagini su un Paese da oltre cento milioni di abitanti di cui non si parla mai, l’Etiopia). Ma La notte della sinistra (Mondadori) è anche un’invettiva. Con punte di amara ironia; come il passaggio sugli orsi polari interscambiabili con i bambini annegati, che torna in altre pagine del libro, come memento della spregiudicatezza delle star progressiste di Hollywood (e dei loro uffici stampa). È un libro di grande coraggio intellettuale. Qualcuno, in buona o in malafede, l’ha frainteso — o ha finto di fraintenderlo — e ha concluso: Rampini è diventato di destra. È vero il contrario. L’autore non rinnega la militanza giovanile, e neanche lo sguardo con cui ha seguito le vicende degli ultimi decenni, nei molti luoghi dove la vita e il mestiere l’hanno portato: la Bruxelles dell’Europa nascente, la Parigi di Mitterrand, la Milano di Mani Pulite, la San Francisco della new economy, la Pechino e la New Delhi del boom di Cindia, la New York di Obama e ora di Trump. Ma proprio per questo Rampini è giustamente indignato per quello che la sinistra è diventata. E per i suoi errori, che l’hanno portata a perdere il popolo. Pendere dalle labbra dei miliardari dello spettacolo — e dai padroni della rete che accumulano denaro e potere senza neppure pagare le tasse — è solo uno degli abbagli gauchisti che hanno spalancato le porte alla Brexit, a Trump, ai fenomeni che l’autore cerca di capire, rifiutando di liquidarli frettolosamente come «fascismo alle porte» e «peste nera». Perché a eleggere Trump sono stati gli operai bianchi del Michigan, della Pennsylvania, dell’Ohio che per due volte avevano eletto il primo presidente afroamericano della storia. «Razzisti anche loro?» si chiede Rampini. Federico Rampini (Genova, 1956), editorialista de «la Repubblica» Demonizzare l’avversario, ecco un altro errore. Tutto è colpa di Trump, pure il rischio dell’estinzione delle balene (almeno secondo Ian Buruma). E appena si scopre che non è stato Trump ma la polizia messicana a far scrivere un numero — in pennarello — sul braccio dei bambini alla frontiera, non è stato Trump ma Clinton ad avviare la costruzione del Muro, non è stato Trump ma Obama ad avviare la pratica orrenda di separare i figli dai genitori, ecco che l’argomento alla gran parte dei media non interessa più. Denunciare questo non significa essere trumpisti; al contrario, significa segnalare il pericolo che un grande comunicatore come Trump si avvalga dell’evidente parzialità del sistema dell’informazione, per dire agli elettori: vi stanno ingannando, loro sono l’élite, voi il popolo; e io sto con voi. Esattamente quel che è accaduto nella campagna elettorale del 2016, e sta accadendo ancora. Ma l’errore più grave della sinistra è stato non accorgersi che, preoccupata degli ultimi — per buon cuore o anche per autocompiacimento —, si stava scordando dei penultimi. Degli americani — e degli italiani — poveri. Degli operai che hanno perso il lavoro, o dei «nuovi operai», il commesso di Amazon, il centralinista dei call center, i giovani precari che si sentono e a volte sono davvero scavalcati da migranti arrivati clandestinamente e disposti a lavorare molto in cambio di poco, magari in nero; del resto, se sono entrati in un Paese violando le sue norme, perché dovrebbero rispettarle in seguito? Ricorda Rampini che i messicani o gli africani non sono certo venuti in America o in Italia per comprimere i diritti e i salari dei lavoratori; ma un’immigrazione senza controllo è destinata inevitabilmente a comprimere i diritti e i salari dei lavoratori. Non a caso i due presidenti-icona del progressismo del XX secolo, Franklin Delano Roosevelt e John Fitzgerald Kennedy, fecero una politica molto dura sull’immigrazione, chiudendo di fatto le frontiere; mentre i capitalismi d’assalto di frontiere non vogliono sentir parlare, perché hanno bisogno di manodopera a basso costo. Rampini fa giustizia di molti luoghi comuni. Non è più vero che «gli immigrati fanno i lavori che i nostri giovani non vogliono più fare». Non è vero neppure che «gli immigrati ci pagheranno le pensioni»; perché anche loro invecchieranno e avranno diritto a una pensione, ma a quel punto serviranno altri immigrati che lavorino per pagare la loro, e quindi se davvero la Social Security o l’Inps devono dipendere dalle migrazioni, allora le migrazioni devono continuare all’infinito. A chi abbia giovato, ad esempio, la carovana dall’Honduras messa in piedi da organizzazioni umanitarie come sfida a Trump, è evidente: ha giovato a Trump, che anche così ha salvato la maggioranza in Senato nelle elezioni del novembre 2018. Ma siamo sicuri che l’emigrazione giovi ai Paesi poveri? Certo che no. «Aiutarli a casa loro» non è una formula di destra, ricorda Rampini. E cita l’esempio del Malawi: metà dei medici formatisi nel Paese africano sono ora a Londra; questo agevola la sanità inglese e i suoi pazienti, ma distrugge la possibilità del Malawi di darsi un sistema sanitario efficiente.
Da Libero Quotidiano il 15 aprile 2019. Federico Rampini (giornalista di sinistra), ospite di Massimo Gramellini a Le parole della settimana su Rai 3 attacca il Pd in diretta, lasciando esterrefatti gli ospiti in studio. Rampini infatti boccia completamente la politica pro-immigrati della sua parte politica: "Pur di fare opposizione al governo la sinistra è diventata il partito dello straniero. Applaudono il presidente francese Emmanuel Macron prendendo per buono il suo europeismo quando sulla Libia sta facendo delle porcherie difendendo solo i suoi interessi e applaudono Juncker". Una critica feroce la sua che fa impallidire Gad Lerner: "Guardare la sua faccia in studio", commenta Giorgia Meloni su Twitter, "è tutta un programma. Da non perdere".
LE ALTRE RAMPINATE SULLA SINISTRA:
PARLA ANCHE DEL SUCCESSO DI CASAPOUND NELLE PERIFIERIE: ''NON È CHE È TORNATO IL FASCISMO, È CHE CERTI MOVIMENTI SONO GLI UNICI CHE DIFENDONO I PENULTIMI, OVVERO GLI ITALIANI POVERI''.
''LA SINISTRA RADICALE E LE DESTRE PUTINIANE HANNO SEMPRE DESIDERATO CHE L'AMERICA SMETTESSE DI IMPICCIARSI DEI FATTI DEL MONDO. ORA L'ISOLAZIONISTA TRUMP ESAUDISCE IL DESIDERIO: VIA DALLA SIRIA, PACE COI TALEBANI, ZERO INTERVENTI IN VENEZUELA E LIBIA. VI LAMENTATE? QUEL CHE VIENE DOPO LA "QUASI" PAX AMERICANA È IL TRIONFO DEL CAOS'' - GLI USA ORMAI SONO INDIPENDENTI PER GAS E PETROLIO. PER QUESTO TRIPOLI PUO' PURE BRUCIARE".
''NON VEDO UN FUTURO PER LA SINISTRA ITALIANA SE SI OSTINERÀ A ESSERE IL PARTITO DEI MERCATI FINANZIARI E DEI GOVERNI STRANIERI, IN NOME DI UN EUROPEISMO BEFFATO PROPRIO DA TEDESCHI E FRANCESI. BASTA RACCONTARCI CHE SIAMO MORALMENTE SUPERIORI E CHE LÀ FUORI CI ASSEDIA UN'ORDA FASCISTA. È SUPERFICIALITÀ, MALAFEDE, IGNORANZA DELLA STORIA…''
Federico Rampini per ''la Repubblica - Affari & Finanza'' il 28 maggio 2019. Donald Trump ha presentato finalmente la sua proposta di riforma dell' immigrazione. Da un certo punto di vista, è la montagna che partorisce il topolino. Naturalmente se uno guarda solo la Cnn o legge solo il New York Times, pensa che sia un progetto ignobile, da respingere con orrore. Il riflesso pavloviano dei media d' opposizione è scattato, automatico, e per trovare delle analisi lucide bisogna cercarsele con attenzione. (Se ne trovano però. Finalmente un pezzo della sinistra americana - incluse firme prestigiose come Thomas Friedman e David Frum, sul New York Times e The Atlantic - comincia a ragionare sull' immigrazione, con paragoni storici e analisi sul campo). La verità è che quel progetto di legge al suo centro ha qualcosa di banale. E' il ritorno ad un sistema di selezione degli immigrati fondato sui loro talenti e abilità professionali. Apriti cielo: discriminazione! Ma questo è il sistema in vigore da tempo nel civilissimo Canada, governato non da un sovranista bensì da un illuminato liberal-progressista. Né la sinistra canadese lo ha mai condannato. Inoltre quel sistema di quote funzionò a lungo negli Usa, proprio quando la sinistra era più forte. D' altronde anche in Europa, chi fa la fatica di analizzare i flussi migratori, si accorge che i paesi nordici dalla Germania alla Scandinavia operano implicitamente un tipo di selezione simile: da loro finiscono molti più medici siriani e ingegneri informatici pakistani, di quanti ne rimangano in Italia. Il problema vero, per usare uno slogan spesso frainteso e strumentalizzato, è se così facendo "li aiutiamo a casa loro". Se i paesi più ricchi scelgono quali immigrati gli servono, e decidono di privilegiare quelli che hanno più competenze, il risultato qual è? E' di prosciugare ulteriormente di talenti i paesi più poveri. Ho ricordato, nel mio libro "La notte della sinistra", che la metà dei medici del Malawi lavorano nella sola città di Londra. Per loro è una fortuna. Per il sistema sanitario inglese, anche. Un po' meno per gli abitanti del Malawi. Né ci si può consolare - come fanno alcuni economisti - guardando alle rimesse degli emigrati. Se le rimesse fossero un volano di sviluppo, il nostro Mezzogiorno negli anni Cinquanta sarebbe diventato la Florida. L' idea di regolare i flussi scremando la fascia qualificata si limita a trasferire l' effetto-concorrenza alle professioni intellettuali: quelle che non votano per Trump. In questo senso, si potrebbe dire che c' è un calcolo politico perfido. Se l' America fa come il vicino Canada, e comincia ad assegnare i visti soprattutto a medici e informatici, "finalmente" la pressione al ribasso sulle retribuzioni colpirà le élite professionali anziché i metalmeccanici del Midwest. Ma non sarà certo di aiuto ai paesi di partenza. Non è mai accaduto nella storia, che l' emigrazione abbia arricchito le terre d' origine.
Se i comunisti si scoprono fascisti. Michel Dessi il 17 maggio 2019 su Il Giornale. Salvini non è il nuovo Duce. Basta con queste cazzate, avete rotto! Lo dico a tutti quei “compagni” che, da qualche settimana, non fanno altro che esasperare il clima politico nel nostro Paese. Altro che Salvini e i suoi slogan contro gli immigrati e le navi delle ONG. Sono loro che alimentano odio e rancore. Accusano, puntano il dito e censurano, come nel caso di Chiara Giannini e del suo “Io sono Matteo Salvini”. Ma chi sono i veri fascisti? Sono loro, i sinistroidi, gli unici in questi mesi a mettere un limite alla libertà. Di scegliere e pensare. O meglio, ci provano. Inutilmente. Non c’è comizio di Matteo Salvini che non venga preso di mira dai “moscerini rossi” che, pieni di odio, vorrebbero mettere il bavaglio al “ministro della malavita” (così lo chiamano). Cantano cori e offendono. Urlano, si sgolano tentando (invano) di coprire la voce di chi parla. Provocano persino i pensionati (magari con quota 100) che, indecisi su chi votare, vanno ad ascoltare i comizi del “capitano”. Certo, non va proprio giù ai “rossi di sera” che Salvini sia il Vice Premier di questo Governo. Salvini, piaccia o no, è stato democraticamente eletto. (Traduco per i compagni dei centri a-sociali: ha incassato i voti, tanti voti. La gente lo ha preferito a voi, alle vostre bandiere rosse e alla vostra “bella ciao”). Eppure, imperterriti, continuano nella loro missione: portare scompiglio e disordine. D’altronde questo è il loro unico scopo. Contestare. Sempre, a prescindere. Il problema non sono le lenzuola colorite, piene di insulti contro la Lega e Salvini appese ai balconi delle città (male ha fatto chi ha ordinato ai vigili del fuoco di rimuoverne uno), ma è la violenza. Quella che abbiamo visto a Napoli. Una violenza che non può essere giustificata. Mai. Eppure, uno sparuto plotoncino di ragazzini arrabbiati più dei cani e di ragazze isteriche dai capelli blu e viola, ha pensato bene di lanciare con forza una transenna contro un poliziotto spaccandogli la testa. Volevano raggiungere a tutti i costi la prefettura di Napoli (il palazzo del Governo) per inveire contro Salvini. Perché? Questa non è democrazia. Non è così che si difende la libertà. La violenza porta violenza. Ma come, non erano proprio loro ad issare la bandiera colorata della Pace? Ah, sicuramente l’avranno tenuta da parte, pronta per essere sbandierata al prossimo gay pride.
Federico Rampini si è rotto dell'antifascismo, la sua lezione alla sinistra. Renato Farina su Libero Quotidiano il 17 Maggio 2019. È un giornalista di Repubblica, una prima firma, pupillo dell'Ingegner Carlo De Benedetti, e suo biografo, quello che ha descritto meglio di tutti, profeticamente, l' attuale indirizzo di Repubblica, diretta da Carlo Verdelli. Il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari è tornato guida, con uno slogan al giorno, della sinistra tornata all'antica, alla steppa cosacca, alla mitologia del proletario dai nobili sentimenti barricadieri, contrapposti al becerume salviniano, uno da appendere ogni giorno, per ora simbolicamente, a piazzale Loreto. Perché? Ma certo: perché sì. A sinistra basta la parola: è fascista. Matteo è l'Uomo Nero con la sua onda del medesimo colore, cui si oppone la magnifica "onda rossa" anche nelle sue sfumature di porpora: un giorno è il sindaco di Riace a incarnarla incriminato perché «difende i migranti», un altro giorno è il cardinale elettricista, che infrange la legge per una ragione superiore alla legge, restituendo la luce come Jean Valjean ai miserabili. Di fronte a questi esempi di probità, si staglia Belzebù-Salvini, il nemico della democrazia contro cui dirigere ogni forza residua di bene: dal Pd di Nicola Zingaretti, ai Cinquestelle di Di Maio; dai cattolici delle parrocchie all' estrema sinistra situazionista di Action. Fila liscio? Non proprio. Si alza Federico Rampini a lanciare anatemi contro questo vecchiume purulento. Leggere per credere. «Se la sinistra vuol sopravvivere deve smetterla di infliggere ai più giovani delle lezioni di superficialità, malafede, ignoranza della storia. Si parla ormai a vanvera di fascismo, lo si descrive in agguato dietro ogni angolo di strada, studiando pochissimo quel che fu davvero Si spande la retorica di una nuova Resistenza, insultando la memoria di quella vera (o ignorandone le contraddizioni, gli errori, le tragedie)». Questa citazione è tratta da un libro uscito lo scorso marzo: "La notte della sinistra" (Mondadori, pagine 180, 16). Rampini aveva capito tutto sin dai primi sintomi di questo rigurgito di nostalgia da Biennio Rosso. Fantastico.
NUOVO SESSANTOTTO - Non si è fermato qui. Ha scritto ancora, anticipando i fasti sessantottini redivivi in questi giorni all' assemblea dell' Università La Sapienza di Roma per celebrare l' antifascismo. Copio da repubblica.it, 13 maggio scorso: «Mimmo Lucano è arrivato a La Sapienza "scortato" da centinaia di persone. Una marea umana che sulle note di "Bella Ciao" e con il coro "Siamo tutti Mimmo Lucano" ha accompagnato l' ingresso dell' ex sindaco di Riace nell' aula 1 della facoltà di Lettere. "In Italia c' è un clima di odio e di forte divisione. Il ministro dell' Interno è uno degli autori di questo clima di odio. Noi siamo l' onda rossa che contrasta l' onda nera che sta oscurando anche i nostri orizzonti", ha detto Lucano agli studenti». Tutto previsto nel libro di Rampini: «Mi vengono ancora in mente le orribili assemblee studentesche degli anni Settanta, dove gli estremisti, decidevano chi aveva diritto di parola e chi no. "Fascisti", urlavano a chiunque non la pensasse come loro. L' élite di quel momento (giovani borghesi, figli di papà, più i loro ispiratori e cattivi maestri tra gli intellettuali di moda) era una Santa Inquisizione che sottoponeva gli altri a severi esami di purezza morale, di intransigenza sui valori».
IL PROGETTO - Questo sta accadendo in Italia oggi. L' accerchiamento di Salvini prelude al tentativo di una sorta di golpe parlamentare di emergenza antifascista. Una maggioranza M5S+Pd+Leu contro la risorgente dittatura nera. Per questo prima Salvini rompe con gli pseudo-soci di un contratto cretino, e impedisce quella congiunzione con un forte successo alle europee, o in quindici giorni sarà strizzato dal concentrato di mass media, istituzioni, finanza mondiale. Bravissimo Rampini allora. Ricordo che nelle assemblee studentesche chi criticava la sinistra premetteva al suo intervento in assemblea questa frase: destra o sinistra in realtà qui non interessa. Importa mettere sassi nell' ingranaggio che sta triturando il confronto tra le diverse opinioni e idee politiche. Rampini ci aiuta tutti a tenere desta la coscienza dinanzi all' osceno ostracismo con cui si sta buttando fuori dal circuito democratico chi non si allinea al pensiero unico alla Mimmo Lucano. È una menzogna inoculata ogni dì, quella secondo cui il monopolio dei sentimenti e dei valori umani appartenga alla sinistra nelle varie tonalità di rosso. Conta un minimo di obiettività davanti a quanto sta accadendo in Italia. E ringraziare chi, diversamente pensante, però intravede e denuncia la medesima minaccia. Per me è una lezione di vita, quella di Rampini. Nessuna vergogna a dirlo. Una testimonianza di capacità critica rischiando l' anatema del proprio mondo. Era stato Libero, grazie ad Antonio Socci, a mettere in luce il 31 marzo scorso, in prima pagina, il coraggio di uno da cui - leggendone la biografia - non te l' aspetteresti. Ma alla fine è l' imprevisto quello che consente di imparare qualcosa. Di ribaltare gli equilibri dell' ovvio. Chi è Federico Rampini. Volto, voce e abbigliamento sono popolari. Ha 63 anni, è corrispondente di Repubblica da New York, dopo essere stato a San Francisco, Pechino, eccetera eccetera. Uno che graffia quando può, naturalmente con unghie curatissime, Donald Trump. Non c' è nulla che somigli di più di lui all' intellettuale radical-chic. Postura, chioma elettrica in piedi, per dimostrare che è trapassata da colpi di genio alla Einstein, smorfia di superiorità e bretelle accondiscendenti verso la plebe, erre morbida scuola Agnelli. Se uno immagina un comunista che non mangia ma al massimo deliba delicatamente, eppure con indifferenza, il caviale con il cucchiaino, solo Beluga iraniano però: vede lui. Il cosmopolita contro il nazionalista. La raffinatezza mondialista contro la rozzezza sovranista. Federico Rampini è - televisivamente parlando - il lato serio della medaglia del progressismo americano in Italia (quello frou-frou è Beppe Severgnini). Alla faccia del pregiudizio del sottoscritto, Rampini sta dimostrando un coraggio leonino, e una dote profetica non comune. La sinistra come fa ad esorcizzarlo? Criticandolo? Ma va'. Ha sigillato le tesi di Rampini in un acquario isolato acusticamente, le lascia rinchiuse nei suoi libri, nelle sue rubriche. Va benissimo l' etichetta che ha appiccicato a quest' uomo Il Fatto quotidiano per depotenziarne la carica esplosiva: «intellettuale cosmopolita di proverbiale eleganza dégagé». Qualunque cosa voglia dire, uno scappa. Rimediamo, come possiamo, noialtri, gente volgare. Renato Farina
Antonio Socci, la confessione di Federico Rampini sulla sinistra: "I veri fascisti siamo noi", scrive il 31 Marzo 2019 su Libero Quotidiano. «Debuttai come giornalista (in nero e senza un contratto di lavoro, proprio come si usa oggi) nel 1977 alla Città futura. Era il giornale della Federazione giovanile comunista italiana». Così impietosamente Federico Rampini - oggi firma di punta di Repubblica - ricorda il suo esordio professionale nel suo ultimo libro, "La notte della sinistra", dove affonda il coltello nelle contraddizioni, nelle ipocrisie e negli errori della sua parte politica, che elenca: «dall' immigrazione alla vecchia retorica europeista ed esterofila, dal globalismo ingenuo alla collusione con le élite del denaro e della tecnologia». Il libro di Rampini in pratica demolisce la Sinistra. L' autore invita anzitutto a smetterla di «raccontarci che siamo moralmente superiori e che là fuori ci assedia un' orda fascista». Invita anche a smetterla «di infliggere ai più giovani delle lezioni di superficialità, malafede, ignoranza della storia. Si parla ormai a vanvera di fascismo, lo si descrive in agguato dietro ogni angolo di strada, studiando pochissimo quel che fu davvero... Si spande la retorica di una nuova Resistenza, insultando la memoria di quella vera (o ignorandone le contraddizioni, gli errori, le tragedie)». Poi l' autore ricorda le orribili assemblee studentesche degli anni Settanta, dove «gli estremisti, decidevano chi aveva diritto di parola e chi no. "Fascisti", urlavano a chiunque non la pensasse come loro. L' élite di quel momento (giovani borghesi, figli di papà, più i loro ispiratori e cattivi maestri tra gli intellettuali di moda) era una Santa Inquisizione che sottoponeva gli altri a severi esami di purezza morale, di intransigenza sui valori».
FILASTROCCHE. Attualmente sembra si sia disinvoltamente cambiato tutto, ma «nel politically correct di oggi sono cambiate solo le apparenze, il linguaggio, le mode. Tra i guru progressisti ora vengono cooptate le star di Hollywood e gli influencer dei social, purché pronuncino le filastrocche giuste sul cambiamento climatico o sugli immigrati. Non importa che abbiano conti in banca milionari, i media di sinistra venerano queste celebrity. Mentre si trattano con disgusto quei bifolchi delle periferie che osano dubitare dei benefici promessi dal globalismo». Le parole d' ordine e gli slogan dell' attuale Sinistra vengono demoliti con chirurgica precisione. I sovran-populisti sono accusati di alimentare la paura? «Da quando in qua» si chiede Rampini «la paura è una cosa di destra, anticamera del fascismo? Deve vergognarsi chi teme di diventare più povero? Chi patisce l' insicurezza di un quartiere abbandonato dallo Stato?». E le parole identità, patria, interesse nazionale? Rampini sconsolato scrive: «dobbiamo smetterla di regalare il valore-Nazione ai sovranisti...». A loro - dice - «abbiamo lasciato» la parola Italia: «certi progressisti» si commuovono per le grandi cause come «Europa, Mediterraneo, Umanità» mentre ritengono la nazione «un eufemismo per non dire fascismo». Solo che la liberal-democrazia è nata proprio «dentro lo Stato-nazione» e Mazzini e Garibaldi «erano padri nobili della sinistra», la quale peraltro ha «venerato tanti leader del Terzo Mondo - da Gandhi a Ho Chi Minh a Fidel Castro - che erano prima di tutto dei patrioti». La Sinistra nostrana si entusiasma solo per il sovranismo altrui. Rampini osserva: «non si conquistano voti presentandosi come "il partito dello straniero". Negli ultimi tempi in Italia il mondo progressista ha sistematicamente simpatizzato con Macron quando attaccava Salvini e con Juncker quando criticava il governo Conte». Così si conferma «il sospetto che la sinistra sia establishment, e pronta a svendere gli interessi nazionali. Ed è un' illusione anche scambiare Macron per un europeista: è un tradizionale nazionalista francese, che dell' Europa si serve finché gli è utile, ma per piegarla ai propri interessi». Su Juncker poi Rampini è durissimo ricordando che faceva parte del governo del Lussemburgo quando adottava certe politiche fiscali, cioè offriva «privilegi fiscali alle multinazionali di tutto il mondo: uno dei principali meccanismi di impoverimento del ceto medio e delle classi lavoratrici di tutto l' Occidente».
ERRORE GRAVE. Secondo Rampini «uno che ha governato il Lussemburgo» non dovrebbe essere «promosso» a dirigere la Commissione europea. L' autore trova incredibile che «opinionisti di sinistra abbiano tifato per Juncker». E poi si chiede: «Perché solo gli italiani dovrebbero vergognarsi di avere cara la propria nazione? Definirsi europeisti in chiave antinazionale, il vezzo attuale della nostra sinistra, è un errore grave: a Bruxelles né i tedeschi né i francesi dimenticano mai per un solo attimo di difendere con determinazione gli interessi del proprio paese». Il primo capitolo del libro s' intitola "Dalla parte dei deboli solo se stranieri". La fissazione delle élite progressiste per gli immigrati (che sono utilissimi a un certo capitalismo per abbattere retribuzioni e protezioni sociali) va di pari passo con la dimenticanza della stessa Sinistra per i nostri poveri e il nostro ceto medio impoverito. Qui l' analisi di Rampini si fa spietata per moltissime pagine. E fa capire perché il popolo e i lavoratori hanno divorziato dalla Sinistra e questa è diventata il partito delle élite e dei quartieri-bene: «L' Uomo di Davos ha plagiato la sinistra, i cui governanti si sono alleati proprio con quelle élite». La conclusione di Rampini è questa: «non vedo un futuro per la sinistra italiana se si ostinerà a essere il partito dei mercati finanziari e dei governi stranieri, in nome di un europeismo beffato proprio da tedeschi e francesi». Antonio Socci
I saputelli, scrive Alessandro Gnocchi, Il Giornale 13 aprile 2019. No, incredibile. Prima la sinistra ci ha fatto una testa così con Berlusconi cattivo, Salvini cattivo, l’allarme populismo, l’allarme sovranismo; e poi viva i competenti, l’Unione europea, l’euro e Matteo Renzi. Adesso torna sui suoi passi e con la stessa sicumera ci dice che l’Europa non è così buona, l’euro non è il paradiso, il sovranismo non è sbagliato se inteso come patriottismo, i competenti curano i propri affari e Matteo Renzi è stato una sciagura per la sinistra, diventata la cameriera del sistema economico «neoliberista», considerato diabolico dai post comunisti. Federico Rampini, cresciuto con Enrico Berlinguer, scopre all’improvviso un fatto di cui tutti si erano accorti all’incirca nel 1989: la sinistra non ha uno straccio di idea sul futuro. Si è rifugiata nel culto delle minoranze e dei diritti, dimenticandosi di tutto il resto, cioè dei problemi della maggioranza degli italiani. Secondo Rampini, firma di Repubblica, il Partito democratico è diventato il partito dello spread che tifa per l’Europa «a prescindere», anche quando è governata dai campioni della pirateria fiscale. Chi lo avrebbe mai detto? Beh, Augusto Del Noce aveva previsto all’inizio degli anni Sessanta la trasformazione del Pci in una sorta di partito radicale di massa; il sociologo (di sinistra) Christophe Guilluy ha realizzato circa vent’anni fa studi cruciali sul cambiamento dei partiti di sinistra, francesi o italiani poco cambia, e del loro elettorato, sempre più borghese e cosmopolita. Ma ora che queste cose ce le dice Rampini nel suo La notte della sinistra (Mondadori) siamo tutti più tranquilli. Federico Fubini, dalle colonne del Corriere della Sera, è sempre stato un sostenitore a spada tratta del progetto europeo contro i trogloditi del sovranismo e del populismo. Ora ci viene a dire che l’Europa è bella ma non bellissima e che noi italiani dobbiamo essere orgogliosi di quello che siamo e non rinunciare alla nostra identità. Chi l’avrebbe mai detto? Beh, Ida Magli aveva letto e criticato i trattati europei in diretta, alcune decine di anni fa. Ma ora che ce lo dice Fubini nel suo Per amor proprio (Longanesi) siamo tutti più tranquilli. L’autore sostiene che l’Europa deve marciare unita per resistere alla pressione di forze imperiali come la Cina. Tra trent’anni ci dirà quello che fior di storici scrivono oggi: l’Unione europea ha una dimensione politica imperiale ma con una stranezza. Al posto dell’imperatore c’è una moneta, l’euro. Infine la ciliegina sulla torta. Sta per uscire un libro che non ha paura di sferzare i poteri forti, le élite che, ignorando il pueblo, hanno causato la deriva populista. Chi è dunque questo visionario autore che arriva neanche trent’anni dopo le opere fondamentali di Christopher Lasch? Ferruccio de Bortoli, l’ex direttore del Corriere della Sera, del tutto estraneo alle élite, notoriamente escluso dal mondo del potere. Meno male che ha scritto Ci salveremo, in uscita per Garzanti. Ci vediamo tra quarant’anni per i saggi di sinistra che ci spiegheranno i danni dell’immigrazione incontrollata e la rabbia dei perdenti della globalizzazione.
“Macchè fascismo!, ormai gli Italiani non li difende più nessuno”, scrive ilgiornaleoff. il 15 aprile 2019. ilgiornale.it/2019/04/15. “La sinistra è diventata la sinistra del Fondo Monetario Internazionale e delle agenzie di rating“. “La sinistra ha smesso da tempo di occuparsi dei penultimi, italiani poveri […] e è diventata il partito dello straniero. Applaude a tutto quello che fa Emmanuel Macron prendendo per buona la favola del Presidente europeista che sta facendo in Libia delle porcherie contro l’interesse dell’Italia […]. Ho visto politici ed esponenti di sinistra applaudire a tutte le bacchettate che arrivano da un personaggio come Jean Claude Junker, che esorta l’Italia a rimanere ingabbiata nelle politiche di bilancio dell’austerity europea […]; così facendo la sinistra diventa il partito che sta sempre per gli stranieri e getta via il suo patrimonio di critica all’austerity, è una cosa inaccettabile“. E’ la notte della sinistrasecondo Federico Rampini, inviato storico di Repubblica che, ospite di Massimo Gramellini a Le parole della settimana su Rai 3, non le manda a dire alla sinistra italiana. E a proposito di CasaPound: “Non è che è tornato il fascismo, è che certi movimenti sono gli unici che difendono i penultimi, ovvero gli italiani poveri“. Un Federico Rampini quasi “trumpiano” suona il requeim della sinistra, con un Gad Lerner, anche lui ospite di Gramellini, di sale…
"Rom e immigrati? No ai Parioli". Ed è ancora bufera su Lerner. Duello tra Federico Rampini e Gad Lerner a Le parole della settimana su Rai Tre. Al centro del dibattito l'accoglienza per i nomadi e i richiedenti asilo, scrive Angelo Scarano, Mercoledì 17/04/2019, su Il Giornale. Duello tra Federico Rampini e Gad Lerner a Le parole della settimana su Rai Tre. Il giornalista di Repubblica di fatto in un suo intervento in tv punta il dito contro la sinitra che da qualche tempo si schiera sistematicamente a difesa di rom e immigrati. Una presa di posizione che di fatto, come ha ricordato ilGiornale, spiazza il panorama dei commentatori rossi, come lo stesso Gad Lerner. E così va in scena lo scontro. Rampini non usa giri di parole e affonda il colpo: "Guarda caso queste storie terribili accadono soltanto nei quartieri popolari, dove ormai il Partito Democratico prende voti. Non è ai Parioli che ci sono questi problemi di convivenza tra poveri. E se la sinistra prende voti solo ai Parioli ci sarà una ragione". A questo punto arriva, stizzito, l'intervento di Lerner che ribatte proprio sul tema dell'accoglienza per rom o richiedenti asilo: "Il problema è che ai Parioli e nelle altre zone dei centri cittadini, un edificio, un locale ha un tale valore immobiliare che nessuno mai penserebbe di destinarlo all’accoglienza dei richiedenti asilo o dei rom". Insomma tra le righe il concetto che passa è abbastanza chiaro: i risedenti dei quartiri borghesi possono giudicare chi non vuole immigrati e rom come vicini di casa, ma di certo "dato l'elevato valore degli immobili" non possono certo accogliere loro i disperati. La dittatura del radicl-chic dunque si palesa un'altra volta. Accoglienza sì, ma lontano da casa mia...
· La Sinistra e l’Islam.
L'alleanza tra sinistra e islam che sfocia nell'antisemitismo. Così dietro l'immigrazione incontrollata e la difesa dei palestinesi si nasconde l'odio contro gli ebrei. Fiamma Nirenstein, Sabato 20/07/2019, su Il Giornale. La questione dell'antisemitismo continua ad agitare il Partito laburista britannico e a perseguitare il suo leader, Jeremy Corbyn. Ancora in questi giorni è in primo piano sulla stampa britannica la denuncia fatta da 64 membri laburisti della Camera dei Lord i quali hanno acquistato una pagina di pubblicità sul quotidiano The Guardian per accusare Corbyn di «aver fallito il test di leadership» con la sua gestione dei casi di antisemitismo all'interno del Labour. «Questo è il tuo lascito, Corbyn: il Partito laburista accetta chiunque eccetto gli ebrei», recita il testo della denuncia sottoscritta da un terzo degli esponenti laburisti della Camera dei Lord. L'iniziativa fa seguito alle polemiche scoppiate nel Partito laburista dopo la messa in onda sul primo canale della Bbc di un documentario intitolato «Il Labour è antisemita?». Inoltre, decine di ex funzionari del Partito laburista sono pronti a testimoniare davanti alla «Commissione indipendente per l'uguaglianza» che i più stretti collaboratori di Corbyn hanno interferito nelle procedure disciplinari interne per impedire l'adozione di misure contro molti esponenti laburisti accusati di antisemitismo. In questo clima si muove la riflessione che la nostra collaboratrice Fiamma Nirenstein affida alle pagine del Giornale. L'antisemitismo diventa ancor più pericoloso quando molte acque afferiscono alla sua corrente. Così è oggi. Si può dire che l'antisemitismo contemporaneo sia un «coacervo intersezionale», come si dice oggi, alla rovescia... Ma poiché esiste lo Stato d'Israele, esso può essere fermato. Lo dico in maniera chiara: finché si permetterà all'antisemitismo di travestirsi, non ci sarà alcuna strategia adeguata per batterlo. Per esempio, ho trovato del tutto insufficiente la comparazione - per altro scelta dalla prestigiosa firma del presidente dell'«European Jewish Congress» Moshe Kantor - fra la pericolosità dell'aggressione del «Nordic Resistence Movement», un gruppo neonazista pure molto violento e feroce, agli ebrei di Umera nel 2016, con lo svuotamento imposto agli ebrei di Malmö dall'odio della comunità musulmana antisemita. La fuga da Malmö, dove la presenza islamica è diventata devastante, è specialmente significativa se si considera che l'anno scorso la Svezia ha sperimentato il più alto numero di morti violente: 306. La maggior parte degli attacchi sono avvenuti per mezzo di Kalashnikov, un'arma classica del conflitto israeliano-palestinese, in aeree «vulnerabili» abitate soprattutto da immigrati non occidentali. La polizia parla nei suoi rapporti di «presenza» di simpatizzanti di gruppi terroristi... Malmö, città da cui sta svanendo la comunità ebraica, soffre la presenza di un estremismo diffuso, tanto che il Comune ha stampato delle «guidelines» per i suoi impiegati e li invita fra l'altro a fare attenzione prima di lasciare un edificio «per evitare di finire in una situazione indesiderata». Il rischio più comune è quello dei continui incendi e distruzioni vandaliche: insomma la presenza islamica crea, e non solo a Malmö, una vera e propria «situazione di guerra», come la definiscono molti autorevoli commentatori. La violenza importata dall'immigrazione islamica incontrollata o mal controllata si è trasformata in antisemitismo: ma nessuno ha voglia di dirlo, per paura di essere accusato di islamofobia. Ne sa qualcosa l'ex presidente dell'Unione Europea Romano Prodi che nel 2003 nascose un'inchiesta che provava la presenza di diffusi sentimenti antisemiti presso i musulmani in Europa. L'antisemitismo svedese è un caso di studio molto speciale, in cui si trovano esaltati tutti gli elementi dell'antisemitismo europeo di oggi. C'è, in primis, un sottofondo di antico antisemitismo cristiano, un antico fantasma utilizzabile al bisogno. È l'antisemitismo light: a volte lo vediamo nello sciocco snobismo dell'upper class, altre volte invece è plebeo e demenziale negli stadi. In secondo luogo esiste una minoranza, residuo del passato, di idioti marciatori all'ombra di una svastica di suprematisti privi di riferimenti politici e culturali che non siano miserie razziste o memorie ipernazionaliste con le loro icone. E poi - terzo elemento - ecco la grande immigrazione islamica, il fenomeno contemporaneo per eccellenza, quello che fa tremare il mondo occidentale e arriva con un carico di antisemitismo pressoché invincibile, che parte dall'educazione dei bambini, come scrive Ayaan Hirsi Ali, che «imparano da piccoli che gli ebrei sono figli di scimmie e maiali», «disumani uccisori di palestinesi». Nella Carta di Hamas si dice chiaramente: «Le pietre e gli alberi diranno O Abdullah, c'è un ebreo qui nascosto, vieni e uccidilo». Nell'antisemitismo islamico si trova il nocciolo più duro dell'antisemitismo israelofobico, condito da incitamento e caricature ripugnanti. Infine c'è la maggiore di tutte le macchine da guerra antisemite, che ora viene chiamata in un modo e ora in un altro, che si basa sull'immensa costruzione della cultura contemporanea di Sinistra, coi suoi film, i suoi libri, le case editrici e i centri di cultura. Alla base c'è la storia europea vista attraverso il messaggio sovietico che in piena Guerra Fredda amava accusare gli Usa e i suoi alleati di essere colonialisti e guerrafondai. Israele, e quindi gli ebrei, diventano nemici dei drappelli per la pace, antimperialisti, contro il nazionalismo, che manifestano per l'uguaglianza, la libertà d'opinione, il femminismo, la difesa dei gay ... Che peccato, tante belle battaglie insozzate dal comune odio antisemita.
Torniamo in Svezia. Io stessa, quando guidavo la Commissione esteri del Parlamento italiano, nel luglio 2009, poco dopo che il giornale Aftonbladet aveva pubblicato un lungo articolo in cui spiegava che i soldati israeliani uccidono i giovani palestinesi per rubargli gli organi e poi farne commercio, mi sono sentita rispondere dal presidente della riunione delle Commissioni esteri europee, il ministro degli esteri svedese Carl Bildt, che «non esiste nessun antisemitismo in Svezia». Gli avevo chiesto che cosa intendesse fare per bloccarne l'evidente ondata. La sua risposta fu: «nulla». Perché il problema, secondo lui, non esisteva. E in effetti è difficile estrapolare l'antisemitismo dal mainstream contemporaneo. Si tratta di rivoluzionare l'intera costruzione ideologica dell'Occidente post bellico, che oggi marcia nel segno di un evidente antisemitismo. La confusione, dovuta anche alla faciloneria ideologica delle classi dirigenti con cui si è affrontato il problema dello Stato-Nazione (come se si potesse cancellare con un colpo di spugna ciò che ha volto, confini, lingua, identità, cibo, famiglia...), dei confini, delle minoranze, dell'immigrazione, della condizione della donna, si è trasformata in quella famosa «intersezionalità» per cui chi si batte per la libertà della condizione omosessuale, alla fine arriva, secondo l'ideologia dei «diritti umani», a essere anti israeliano. Israele è uno dei Paesi più gay friendly del mondo. Eppure lo si dipinge sempre come se usasse le sue leggi e i suoi costumi a favore dei gay come una bandiera di «pinkwashing». Perché la vera natura dello Stato degli ebrei deve essere quella oppressiva e quindi anti-gay, come è anti-palestinese. I mille affluenti ideologici del liberalismo conducono a una quantità di altre stravaganze anti-israeliane, fra cui considerare Israele un Paese genocida (mentre la popolazione palestinese, prima di Israele un popolo alquanto volatile, adesso raddoppia, triplica, quadruplica...). O di essere un Paese in cui vige l'apartheid, o antidemocratico. Tutte accuse che i fatti smentiscono. Basta una passeggiata in un Mall, o in un ospedale, o alla Knesset. Ma tant'è: Bildt quando diceva che in Svezia non esiste l'antisemitismo voleva dire che se c'era una vibrante critica allo Stato d'Israele, se persino lo si criminalizza, ciò è giustificato dalle azioni perverse che quello Stato, sin dalla sua nascita, compie contro i palestinesi. Israele, per così dire, è la somma perfetta dell'«intersezionalità rovesciata»: ovvero chiunque al fondo abbia il germe del trimillenario malanno che affligge l'umanità, può trovarne il germe in tutte le possibili lotte per i diritti umani. Imbarazzante? Dovrebbe esserlo, in un mondo che solo 70 anni fa ha perpetrato l'Olocausto. E invece ogni organizzazione, anche quelle che come l'Unesco dovrebbero dedicarsi a preservare la bellezza del mondo, ha nell'ispirazione internazionalista il paravento per l'avversione agli ebrei. Quando scrivevo in anni molto lontani il mio primo libro sulle donne comuniste, restavo attonita scoprendo che sin dal loro inizio le prime riunioni internazionali femministe, sempre sotto l'egida dell'Urss, mettevano in relazione la rivoluzione sociale necessaria in Sud America con i movimenti femminili, mentre però l'assemblea votava l'espulsione delle donne israeliane dal loro consesso.
La Sinistra mondiale ha adottato sempre di più questo modello per cui un oppressore o presunto tale è il coacervo di tutti i mali, dall'odio anti-omosessuale allo sfruttamento economico. Israele incarna la connessione del tema dell'identità col potere, e da qui a farne l'assassino di bambini palestinesi il passo è breve. La cosiddetta «Grande marcia del ritorno» dei palestinesi di Hamas, un'organizzazione terrorista che uccide, quella sì, donne e bambini innocenti e teorizza l'antisemitismo, è considerata spesso simile alle manifestazioni dei neri d'America, alle masse di immigrati disperati, tutti perseguitati dai privilegiati, dai potenti. I missili e gli attentati di Hamas, i palloni incendiari, sono considerati epifenomeni non collegati alla natura terrorista di Hamas che domina la Striscia di Gaza. Così gli ebrei sono tornati nell'empireo degli sfruttatori e dei mostri dopo le sofferenze della Shoah. La battaglia contro l'antisemitismo deve partire dal difendere Israele dalle accuse di genocidio, colonialismo, apartheid, ossia le bandiere del nuovo antisemitismo. Gli ebrei sono i nazisti moderni, e quindi non si meritano di esistere, tanto meno come Stato nazione, di per sé un'identità che incarna il potere, la prepotenza, l'espulsione dei miseri. Se chiedessimo a Jeremy Corbyn, il leader del partito laburista britannico, perché è antisemita, risponderà che i suoi migliori amici sono ebrei, e che è semplicemente contro l'oppressione che Israele infligge ai palestinesi. Se gli si chiedesse perché tuttavia è amico di Hamas, la risposta invocherà i valori della resistenza contro l'oppressione. Questa è la bandiera europea dell'antisemitismo odierno, qui si combatte la battaglia. E di nuovo il centro è Israele, attaccato sì, ma forte: lo Stato degli ebrei oggi esiste per difenderli in tutto il mondo. Ed è solo rafforzandolo ulteriormente che si batte l'antisemitismo.
· Primarie Pd: storia, dati, vincitori.
Bufera Procure, Boschi: «A Lotti più attacchi dentro al Pd che dagli avversari». Pubblicato domenica, 16 giugno 2019 da Paola Di Caro e Tommaso Labate su Corriere.it. «Sono arrivati più attacchi a Lotti dall’interno del Pd che dagli avversari politici. Autosospendendosi, ha fatto una scelta che non era scontata e dovuta, di grande generosità verso la comunità del Pd e va quindi rispettato». Così Maria Elena Boschi, oggi ad Assisi per intervenire al primo incontro nazionale della mozione «Sempre Avanti» guidata da Roberto Giachetti e dalla deputata democratica umbra Anna Ascani, ha parlato dell’ex sottosegretario e della vicenda toghe del Csm. Boschi si è augurata però che «in una comunità come il Pd, vista anche la disponibilità di Lotti, ci si possa parlare guardandosi negli occhi». «E non - ha concluso Boschi - con interviste che sparano addosso ai compagni del proprio partito». «Dentro il Pd ci sono tante anime che speriamo possano essere ascoltate e anche valorizzate», ha poi detto Boschi, «il nostro segretario ora è Zingaretti, rispettiamo il suo lavoro ma ci aspettiamo di avere qualche proposta nuova». La segreteria, dice poi Boschi, «esprime il segretario ed è scelta legittimamente tra chi lo ha sostenuto. Da toscana, visti i risultati che abbiamo riportato alle europee e alle amministrative, mi sarebbe piaciuto qualche toscano in segreteria ma auguro buon lavoro ai colleghi che dovranno impegnarsi. Però noi ci siamo e tante persone nel Pd possono dare una mano. Anche Renzi c’è - conclude Boschi - visto che sta facendo il suo lavoro da senatore, sta lavorando in Parlamento e ha fatto campagna elettorale per i nostri sindaci anche a Firenze».
Il ritorno di Maria Elena Boschi e la resa dei conti nell’ex «Giglio magico». Pubblicato domenica, 16 giugno 2019 da Paola Di Caro e Tommaso Labate su Corriere.it. «Sono arrivati più attacchi a Lotti dall’interno del Pd che dagli avversari politici». Tra quelli che la conoscono bene, e codificano alla perfezione stilemi e liturgie della vecchia corazzata renziana, più d’uno è disposto a scommettere che dietro la frase con cui Maria Elena Boschi è tornata ieri a occupare il centro della scena ci sia, in realtà, più di un significato nascosto. Come quei vecchi dischi in cui solisti e rock band si divertivano a inserire una traccia fantasma, anche l’ex ministro delle Riforme ha elaborato il suo messaggio in codice. Diretto non a Nicola Zingaretti, ipsa dixit, «con le cui scelte non c’è alcuna polemica», che ha costruito «una segreteria nominando solo donne e uomini che l’hanno sostenuto», che ha compiuto decisioni «legittime». Bensì al suo rivale interno, Luca Lotti. Col quale, salvo obblighi dettati dalla contingenza o dalla fredda buona educazione, di fatto non si parla da anni. Sia chiaro, anche la Boschi è personalmente colpita dal caos che s’è abbattuto su Lotti. E la sua solidarietà umana è senz’altro sincera. Ma dietro quell’annotazione all’apparenza diretta alla nuova maggioranza del Pd — «gli sono arrivati più attacchi da dentro che dagli avversari politici» — c’è in realtà il senso della resa dei conti finale in seno al vecchio giglio magico. Negli ultimi mesi, a Lotti, la Boschi ha privatamente imputato il tentativo di chiudere i conti col renzismo «consegnandosi» a Zingaretti. Mentre il primo tesseva la tela col favorito alla vittoria finale del congresso del Pd, la seconda s’è spesa con tutte le sue forze perché «il patto» non venisse sottoscritto. Adesso, come annotano i deputati a lei più vicini, è arrivato il conto salato, salatissimo. «Luca era l’unico che parlava con Zingaretti e questi sono i risultati. Visto come la maggioranza del Pd l’ha scaricato subito?». La disputa che un tempo avrebbe avuto il significato della resa dei conti per chi dovesse essere il braccio destro del «Capo», ora che Renzi non è più il capo, assume i contorni di un romanzo d’appendice. Che la Boschi e Renzi stiano da una parte (entrambi hanno votato al congresso per la coppia Giachetti-Ascani) e Lotti dall’altra (che aveva definito «incomprensibile» la candidatura di Giachetti) è, per ora, quasi un dettaglio. Per ora. Il domani, a dispetto della decisione di fermare gli orologi già sintonizzati sulla scissione dal Pd, riguarderà il ruolo che la Boschi punterà a riavere negli assetti del centrosinistra allargato. Chi la conosce bene, sa che lei è perfettamente consapevole di non poter ambire a ruoli di primo piano. E in omaggio (forse inconsapevole) al detto che circolava nelle nomenklature dei vecchi partiti comunisti del Patto di Varsavia — «quando non hai una soluzione non hai neanche un problema» — non si pone problemi di leadership. Ma rimane in campo, questo si. Resta da vedere quali saranno i confini del campo. L’altro giorno, su Instagram, ha postato le foto di un aperitivo coi colleghi di Forza Italia Andrea Ruggieri e Alessandro Cattaneo. Non sono ovviamente prove di un percorso comune. Ma indizi, magari, sì.
Renzi, Boschi e Lotti: così finisce rottamata una generazione di ex-potenti. Francesco Storace domenica 16 giugno 2019 su Il Secolo d'Italia. Matteo Renzi è rimasto senza voce. Senza potere. Senza soldati. Solo, un uomo sempre più solo, eppure sembrava un imperatore invincibile. Tutti lo temevano, lui si sentiva eterno. Sondaggi a mille, poi il capitombolo. Con la fine – inevitabile – dell’assalto alla diligenza, tramonta una stagione politica e fa pure un po’ pena il giovane e già vecchio leader rottamato dal tempo che lo sorpassa. Non c’è più nemmeno la nostalgia se non nella ridotta parlamentare del renzismo. Il collante del potere ammazza tutti quando finisce. Ed è facile che finisca, perché le promesse impossibili si svelano come menzogne, prima o poi. Matteo Renzi scompare così, come tanti che lo hanno preceduto. Gli invincibili perdono. Li sconfigge la loro arroganza. Anche le vicende di questi giorni sono tristemente esemplari per l’ex premier. Lui e la sua falange non riescono a distinguere tra reato ed etica. Non è detto che se una cosa non sia vietata dalla legge possa essere consentita. Valeva per Marco Carrai e i suoi progetti sulla cybersicurezza, valeva per Maria Elena Boschi e la banca di famiglia, vale per Luca Lotti e la giustizia. Nessuno può fare come gli pare.
Non riescono a frenare gli ardori. Ed è abbastanza ridicolo che se la prendano sempre con i giornalisti, gli sbandieratori del leader che fu. Non si interrogano sui comportamenti quantomeno discutibili dei loro capi, ma se la prendono con chi ne scrive ai lettori. Mai che frenino invece i loro ardori modello regime. Proprio Luca Lotti e prima ancora la Boschi hanno rappresentato l’essenza di un sistema vocato esclusivamente al potere. Tutti gli altri come impaccio nella corsa sfrenata a comandare, teste da tagliare, “vecchi” da cancellare, passato da abbattere. Ora tocca a loro, con le meste cronache di un magistratura dilaniata e azzannata dai colpi di coda del renzismo. Bulimia, si chiama, bulimia di potere, senza poltrone d’eccellenza non vivono. Ma come non indignarsi – e duramente – per quello che pare aver combinato Lotti? E Renzi che lo difende, e i renziani che lo difendono. “Lo attaccano perché è dei nostri”. Bella roba, se i vostri sono così. Decidere i vertici delle procure, oppure in maniera meno maleodorante, contribuire a decidere. Questo è il compito dei “vostri”? Questa è la bella politica che fingevate di predicare? Tanta teoria della pratica, scarsa pratica della teoria, imputò Giorgio Ruffolo a Claudio Martelli in un lontanissimo congresso socialista a Bari. I renziani non paiono così lontani.
Il gusto dell’impunità. Il rampantismo ha contagiato pure quella che sembrava una generazione destinata a restare a lungo al potere. Che si è affezionata ad un certo gusto dell’impunità, non quella giudiziaria – un incidente in tribunale può capitare – ma quella popolare. Hanno calcolato male lo sguardo della rete, che sembrava una specialità anche del mondo renziano. Ma ne sono stati travolti, perché non basta la fretta di arrivare a comandare, la conquista delle postazioni più importanti, gestire anziché governare. Morti di potere. Sarà difficile per Matteo da Rignano risultare di nuovo credibile. Parliamoci chiaro: l’uomo è sveglio e intelligente, ma è straordinariamente capace di farsi male da solo. Se ha la febbre, dà la colpa al termometro. La guerra è finita, dovrebbero dire a lui e ai suoi. Ma nella foresta ci sono ancora giapponesi. Li chiamano renziani.
Matteo Renzi ha affondato il Pd: la sua segreteria lascia in eredità 600mila euro di debiti. Libero Quotidiano il 15 Giugno 2019. Una pesante eredità, quella lasciata da Matteo Renzi al Pd: si chiude infatti con 600.495 euro di passivo il bilancio del Partito democratico relativo al 2018. Il documento è stato approvato lo scorso giovedì insieme alla relazione di Luigi Zanda, il tesoriere. I conti non hanno niente a che fare con la gestione di Nicola Zingaretti, poiché costituiscono - sottolinea l'Huffington Post - l'ultimo resoconto finanziario della segreteria Renzi. Cinque anni complicati, con la progressiva riduzione dei rimborsi elettorali, che ovviamente ha avuto un grande peso specifico sul bilancio. Molto peggio di Renzi, comunque, fece Pier Luigi Bersani: lasciò le casse del Pd all'allora tesoriere Francesco Bonifazi con un passivo-monstre pari a 10,8 milioni di euro.
Primarie Pd: storia, dati, vincitori. Dal 2005 al 2019 i vincitori ed i votanti (in calo) alle varie Primarie del Pd, scrive Panorama il 9 marzo 2019. Domenica 3 marzo si sono svolte le primarie del Partito Democratico. Si tratta della settima volta che il partito di sinistra chiama a raccolta elettori e sostenitori dalla prima consultazione del 2004. Dopo la fine dell'epoca di Matteo Renzi e le dimissioni del suo successore, Martina, i votanti dovranno scegliere il prossimo segretario del Pd tra tre candidati: Maurizio Martina, Roberto Giachetti e Nicola Zingaretti. La storia delle primarie parte dal 2005 ad oggi.
Le primarie del 2005. Il 16 ottobre 2005 il popolo del centrosinistra unito venne chiamato a scegliere il leader dell'intera coalizione per sciegliere il candidato alle elezioni politiche del 2006. Numerosi i candidati: Bertinotti, Di Pietro, Mastella, Pecoraro Scanio. A vincere fu però Romano Prodi. Notevole il numero dei votanti: furono ben 4 milioni e 300 mila le persone che si presentarono ai gazebo (dove però non mancarono alcune piccole irregolarità).
Le Primarie del 2007. Il 14 ottobre 2007 ci furono le seconde primarie del Pd, le prime per scegliere il segretario del Partito Democratico. Tra i diversi candidati vinse Walter Veltroni che superò Enrico Letta e Rosy Bindi. I votanti furono 3 milioni e 500 mila.
Le Primarie del 2009. La segreteria di Weltroni dura poco. La sconfitta alle regionali in Sardegna apre la crisi dentor il Partito Democratico che deve scegliere il nuovo segretario ed indice le primarie. Il 25 ottobre i simpatizzanti eleggono con il 55% dei voti Pierluigi Bersani che supera Dario Franceschini e Ignazio Marino. I votanti furono 3 milioni e 100 mila. Un numero in calo ma pur sempre molto consistente.
Le Primarie del 2012. Dopo la caduta del Governo Berlusconi ed il via libera al Governo Monti (quello dei "tecnici") il centrosinistra deve scegliere il nuovo capo della coalizione candidato alle politiche che ci saranno dopo pochi mesi. Il 12 novembre del 2012 si svolgono le primerie denominate "Italia. Bene comune". Al primo turno nessuno dei candidati (Bersani, Renzi, Vendola, Puppato, Tabacci) riesce a ottenere la maggioranza assoluta. Al ballottaggio vanno Pierluigi Bersani e Matteo Renzi. Vince il primo con il 60,9 per cento contro il 39,1 di Renzi. A votare sono andate 3 milioni e 100 mila persone al primo turno e 2 milioni e 800 mila al ballottaggio.
Le Primarie del 2013. IL "pareggio" alle politiche porta all'ennesima crisi interna del Pd. Parte l'epoca del "rottamatore", Matteo Renzi, che supera Gianni Cuperlo e Pippo Civati con un plebiscito (64%, 18%, 14%). I votanti furono 2 milioni e 831mila.
Le Primarie del 2017. Il Pd è nel pieno della crisi interna tra renziani e non renziani. Siamo nell'epoca delle inchieste sulle banche e delle polemiche che porteranno alla caduta del Governo Renzi sostituito da Gentiloni. Si vota il 30 aprile per ctabilire chi sarà il nuovo segretario. Matteo Renzi vince ancora. I votanti sono 1 milione ed 830 mila.
Le Primarie del 2019. Dopo le dimissioni di Renzi e la sconfitta alle politiche del 2018, il Pd chiama i suoi sostenitori ai gazebo per la scelta del nuovo segretario. Tre i candidati: Maurizio Martina, Roberto Giachettie Nicola Zingaretti che vince con più del 60% dei consensi. I votanti sono un milione e 600 mila, con un calo del 15% rispetto a due anni prima.
Nicola Zingaretti, rispunta l'audio durante il processo Mafia Capitale: "Ho preso contributi da Buzzi", scrive il 9 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Il nome del governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, torna a circolare sui social associato al processo Mafia Capitale dopo il trionfo alle primarie del Pd che lo hanno eletto nuovo segretario. Nel corso del processo in cui era imputato Salvatore Buzzi, Zingaretti aveva ammesso: "Da lui ebbi un finanziamento di 5mila euro durante la campagna elettorale per le Regionali del 2013. La raccolta era aperta a tanti e raggiunse quasi un milione di euro. È tutto regolarmente documentato agli atti". Sui social le parole di Zingaretti tornano a risuonare, aggiungendo nuovi dettagli sul passato del segretario dem, finora poco noto agli elettori fuori dalla sua regione. "Conoscevo Buzzi - aveva detto in aula Zingaretti - era il promotore di una forma imprenditoriale che si era presentata a Roma come esperienza di riscatto di ex detenuti attiva nel settore sociale. L'ho incontrato più volte in occasioni pubbliche, anche se, nella mia esperienza di presidente della Provincia prima e della Regione poi, non sono mai stato alla guida dell'amministrazione con cui lavorava di più, ovvero il Comune".
Quell'audio su Mafia Capitale che ora imbarazza Zingaretti. Sul neo segretario del Pd pende un'accusa di falsa testimonianza per le dichiarazioni in Aula su Buzzi, scrive Felice Manti, Lunedì 11/03/2019, su Il Giornale. Il fantasma di Mafia Capitale sta turbando il sonno del nuovo segretario del Pd. Nicola Zingaretti aspetta con ansia la decisione del gip del tribunale di Roma che deve decidere se archiviare o meno l'inchiesta che vede l'ex presidente della Provincia e governatore del Lazio accusato di aver reso falsa testimonianza al processo che ha condannato l'ex Nar Massimo Carminati e Salvatore Buzzi, ras delle coop rosse che faceva affari sull'immigrazione e finanziatore ufficiale del Pd e dello stesso Zingaretti. Finora il successore di Matteo Renzi l'ha fatta franca: è stato accusato di corruzione per una mazzetta a un collaboratore che sarebbe servita a finanziare la sua campagna elettorale da presidente della Provincia di Roma e per la compravendita di una sede della stessa Provincia. Poi è stato sfiorato dall'indagine sulla turbativa d'asta con al centro una storiaccia legata alla gestione della gara per il servizio Cup bandita nel 2014 dalla Regione Lazio. I tre filoni d'indagine sono finiti nel nulla con la richiesta di archiviazione avanzata il 5 ottobre 2016 dalla procura e accolta dal gip Flavia Costantini il 7 febbraio 2017. Zingaretti era stato chiamato in causa da Buzzi negli interrogatori resi ai pm. Ma per la Procura quelle accuse de relato non erano sufficienti per costruire un'ipotesi accusatoria. Ad accusare Zingaretti di falsa testimonianza erano stati gli stessi giudici della decima sezione penale del tribunale che avevano condannato Buzzi e Carminati. Secondo le toghe i pm avrebbero dovuto verificare se Zingaretti e un'altra ventina di testimoni sfilati nell'aula bunker di Rebibbia avessero reso in udienza dichiarazioni false o reticenti su alcune circostanze. In effetti ad ascoltare alcuni stralci della sua deposizione, in cui Zingaretti viene interrogato dagli avvocati di Buzzi come teste in favore della difesa del ras delle coop rosse si capisce perché i giudici l'hanno giudicata reticente. Al tempo se ne era accorto anche Alessandro Di Battista che aveva rilanciato il file audio sul Blog delle stelle, ricomparso magicamente in questi giorni su alcune pagine Facebook vicine a M5s. Nel file audio che dura 6 minuti circa si sente Zingaretti ammettere di aver ricevuto finanziamenti da Buzzi, parla di un editore «amico» a cui la Provincia ha dato diverse migliaia di euro e della famigerata gara per il bando del Cup, vinta da un imprenditore che guarda caso aveva finanziato lo stesso Zingaretti. Le risposte incerte avevano convinto i giudici che qualcosa non tornasse in quella deposizione: a proposito di Zingaretti, il tribunale - stando alle motivazioni - scrive che «ha reso testimonianza (richiesta dalla difesa di Buzzi) escludendo radicalmente e con indignazione qualunque contatto con chiunque per la gara Cup, di cui si sarebbe occupato solo a livello di indirizzo politico nella fase della programmazione. E tuttavia tali dichiarazioni non risultano convincenti». Ora la palla passa al gip. Insieme al leader Pd sono finiti diversi esponenti di peso del Pd come la responsabile nazionale del Pd al Welfare e Terzo Settore Micaela Campana e l'ex viceministro all'Interno Filippo Bubbico. Su di loro si decide il 18 marzo.
Attacchini africani per Zingaretti. Pagati da chi? Scrive il 4 marzo 2019 Enrico Salvatori su Il Giornale. ripubblichiamo volentieri un video che girammo nel 2013 durante le Regionali nel Lazio in cui riuscimmo a filmare due attacchini africani mentre tappezzavano le borgate della Capitale con manifesti abusivi del candidato Zingaretti. Da chi venivano pagati? Avevano forse un contratto regolare col Partito Democratico? Si trattava forse di liberi professionisti pronti ad emettere fattura? Difficile immaginarlo, anche perchè si sottrassero ad ogni tipo di chiarimento. Come è difficile immaginare che con i comitati per Zingaretti presidente non c’entrassero nulla. Storie di sfruttamento “democratico”.
Stefano Zurlo per “il Giornale” dell'8 marzo 2019. Non era il primo della classe. E non ha lasciato tracce memorabili della propria carriera scolastica. Anzi. All'istituto De Amicis, nel quartiere capitolino del Testaccio, il dirigente scolastico Massimo Quercia accoglie i segugi di Open con una battuta che trasuda sarcasmo: «Perché il fratello dell'attore ha pure studiato?» Sembra di stare in un film di Alberto Sordi o, se ci fosse una rima, in un sonetto del Belli. E invece Nicola Zingaretti ha passato i canonici cinque anni proprio al De Amicis, istituto tecnico, per diventare perito odontotecnico. Un percorso anonimo, grigio ma cosi grigio da suscitare rigurgiti dietrologici, come sempre accade nel nostro claustrofobico Paese quando un personaggio guadagna la ribalta. E allora Mario Adinolfi, presidente del Popolo della famiglia, accende le polveri: «Nicola Zingaretti ha la terza media e se ne vergogna un po'. Infatti in tutte le notine biografiche ai giornali evita di citare il proprio titolo di studio». Siamo in pieno giallo curriculare, un filone che in Italia ha una straordinaria tradizione: basta pensare ai master generosamente seminati qua e là dal premier Conte, al pasticcio combinato dall' ex ministro Valeria Fedeli che aveva cercato in tutti i modi di rivendere come laurea un più modesto diploma. E poi, naturalmente, scavando un po', si può risalire fino al thriller dai colori scuri ambientato alla Statale di Milano in anni lontani, quando Antonio Di Pietro scivolava silenzioso fra i banchi della facoltà di legge, tanto da alimentare un indimostrato, fantomatico complotto spionistico secondo cui la sua laurea fu confezionata dalle manine esperte di obliqui 007. E dunque Mani pulite fu telecomandata da un'occulta regia. La storia del fratello di Montalbano, oggi presidente della Regione Lazio e fresco segretario del Pd, è più prevedibile. Nicola, classe 1965, infanzia nella periferia profonda della Magliana, papà funzionario di banca, arriva fino ai gradini della Sapienza e li si arena. Lui, che è già un tipo ecumenico e arrotondato, non vuole alimentare polemiche di retroguardia, ma il suo staff lascia filtrare una dichiarazione risolutiva, in attesa dei documenti che arriveranno nei prossimi giorni: «Si iscrisse alla facoltà di lettere e filosofia, numero di matricola 597468, e sostenne tre esami». Con un exploit in storia del risorgimento: 30. E un ottimo 28 in storia dei partiti politici, dove in seguito avrebbe detto la sua. Poi abbandonò i libri, risucchiato dal demone della politica. Una vicenda ordinaria, senza doppifondi e retroscena, già portata a galla da Enrico Lucci nel corso del programma Nemo. «Me devi dì una cosa - aveva esordito Lucci nella puntata del 23 novembre 2018 - non ti chiederò. Tu... Stavamo insieme all' università, ma te sei laureato?». Insomma, Lucci e Zingaretti erano compagni di corso e il conduttore televisivo confessa all' onnipresente Open di ricordare benissimo l'allora coordinatore della cellula comunista della Sapienza, Nicola Zingaretti. Da escludere che si tratti di un caso di omonimia. E infatti il successore di Renzi alla guida del Pd non si sottrae alla domanda: «Ahi, ahi, ahi, no. Questa è una delle colpe della mia vita». Un invito a nozze per l'irriverente microfono che subito banchetta su quella frase: «Me lo ricordo, studiava. Studiava tanto. Era tanto serio». Sberleffi e pagelle. Nel giorno in cui la biografia del governatore e della sua famiglia restituisce un frammento drammatico: la bisnonna materna fu deportata ad Auschwitz. La madre, invece, si salvò fortunosamente. E le beghe scolastiche sono spazzate via dal vento della storia.
· Della serie. Comunisti: intolleranti, ignoranti e camurristi fascisti.
La Figlia di Che Guevara, Aleida, ad Assisi, la Lega “Non ci sta”! Scrive il 28 Febbraio 2019 su assisioggi.it. Stefano Pastorelli, Responsabile Lega Assisi Bastia. Apprendiamo da una testata online che la figlia di Che Guevara, Aleida, sembra torni ad Assisi in occasione della Pro Civitate Christiana. Inizia così la riflessione indirizzata a questa redazione da parte di Stefano Pastorelli, Coordinatore della Lega per il Comprensorio di Assisi, Bastia, Cannara.e Valfabbrica. Il tema che verrà discusso nell’incontro pubblico – continua Pastorelli – tratterà del sogno del Che e dell’attualità dei suoi valori, il che francamente stona alquanto, con la nostra bellissima Assisi, riconosciuta in ogni dove come città della Pace. Precisiamo che non intendiamo far ricadere le colpe dei padri sui figli, ma é innegabile che Aleida Guevara condivida il passato del padre, tanto è da scrivere lei stessa un’immaginaria lettera, in cui lo elogiava: “il tuo esempio, il tuo pensiero e la tua azione sono presenti negli uomini onesti”. Si, chi vince scrive la storia – dice il Coordinatore Leghista – ma é altrettanto vero che non c’è niente di più falso e lontano, dal mito che la sinistra disegna. Per motivi storici, l’Italia è fondata sull’antifascismo ma non sull’anticomunismo, ma per appartenere alla famiglia democratico-liberale, sarebbe invece necessario dissociarsi da tutti i totalitarismi. Per questo – si interroga il Coordinatore della Lega Pastorelli – prima di tutto ci chiediamo se non sia fuori luogo, nonché blasfemo, l’accostamento del Che alla città di San Francesco, ed in tutto questo la sinistra assisana che posizione prende? Non furono i compagni di partito, a firma Fiano, nel 2017 a promuovere un disegno di legge ancor più rigido contro l’apologia del fascismo? Allora chiediamo: non fu Che Guevara personalmente coinvolto in non meno di 144 esecuzioni sommarie, favorevole a una guerra nucleare con gli Stati Uniti anche al prezzo di sterminare l’intera popolazione cubana, promotore dei campi di lavoro forzato per “rieducare” i giovani, acerrimo avversario della musica e delle mode moderne, principale istigatore di ogni forma di repressione? Non si finiva in campi di concentramento solo per ascoltare musica rock, indossare jeans o usare termini anglosassoni, cacciando per strada i “capelloni” o chi era troppo alla moda? Non fu il Che a introdurre a Cuba i lager nei quali finivano dissidenti, omosessuali, cattolici, testimoni di Geova, sacerdoti afro-cubani e altri ancora. Lager per tutti. Il Che – continua Pastorelli riassumendo questa parte di storia in alcune citazioni del dittatore – asseriva: “Ho giurato davanti al ritratto del vecchio compagno Stalin di non mollare fino a quando non avrò annientato questi polipi capitalisti”; “per costruire il comunismo occorre creare l’uomo nuovo”, il Che ammetteva come unica musica permessa ai giovani “i cantici rivoluzionari”, ricordando loro che dovevano “concentrarsi sul lavoro, sullo studio e sul fucile (…) abituandosi a pensare e agire come una massa, seguendo le iniziative (…) dei nostri capi supremi”. E allora chiediamo ancora, cosa c’è di liberale in quest’uomo per la sinistra, e quanti giovani che pure indossano le magliette con il volto del Che sarebbero disposti a seguire un programma di vita nello stile del Che? Signori – conclude Pastorelli – se questa non è la storia che avete studiato voi, ci chiediamo quale storia avete intenzione di raccontarci. Il Che Guevara che la sinistra utilizza come santino, è lontanissimo dal mito propagandistico che ha sempre professato. Abbiamo visto che a distanza di 70 anni la sinistra si sente in pericolo verso il fascismo, ma perché lo stesso metro di giudizio non viene adottato anche verso i crimini contro l’umanità commessi anche e non solo dal Che e dal comunismo in genere? Ma del resto questa non è altro che la solita contraddizione della sinistra italiana, che vieta il Duce ma santifica Che Guevara. Ci aspettiamo ad ogni modo spiegazioni riguardo tale evento, ed invitiamo caldamente gli organizzatori ad una valutazione più attenta sulla definizione dell’evento stesso e la scelta degli invitati, e soprattutto una eventuale ricollocazione evitando di strumentalizzare e di bestemmiare il nome di Assisi e di chi lo ha portato in auge, ossia, San Francesco, lui si, Santo.
Aleida Guevara ad Assisi, Francesca Vignoli risponde a Stefano Pastorelli, scrive il 3 Marzo 2019 assisioggi.it. Aleida Guevara ad Assisi, Francesca Vignoli risponde a Stefano Pastorelli: "Pastorelli scrive che l’incontro pubblico con Aleida Guevara, organizzato dal Circolo culturale primomaggio, in cui si parlerà del sogno del Che e dell’attualità dei suoi valori, “stona alquanto, con la nostra bellissima Assisi, riconosciuta in ogni dove come città della Pace”. Mi piacerebbe chiedergli se ha mai avuto modo di documentarsi sul “sogno del Che” e sui “valori del Che”. Direi di no, perché allora avrebbe evitato di scrivere. A parte la totale assenza di correttezza grammaticale delle sue considerazioni (invece di “prima gli italiani” sarebbe meglio che praticasse “prima l’italiano”), dopo aver precisato di non voler far ricadere le colpe dei padri sui figli, a sostegno della sua tesi di stonatura Pastorelli dichiara che “è evidente che Aleida Guevara condivida il passato del padre”. Dunque il rischio della proprietà transitiva “padre rivoluzionario-figlia rivoluzionaria” secondo Pastorelli è massimo. Ma non aveva appena detto di non voler far ricadere le colpe dei padri sui figli? Ops, è vero, questa è una figlia! Prosegue Pastorelli: “per appartenere alla famiglia democratico-liberale, sarebbe invece necessario dissociarsi da tutti i totalitarismi”. Bella questa! Invitare Aleida Guevara a parlare di suo padre ad Assisi significa sostenere i totalitarismi? Ma che mente contorta può produrre un ragionamento simile? Sono tuttavia contenta del fatto che Pastorelli sappia che “per motivi storici, l’Italia è fondata sull’antifascismo ma non sull’anticomunismo”: gli è noto dunque che nella storia del nostro paese il fascismo – non il comunismo – è stato uno dei momenti più bui. Benito Mussolini spinse l’Italia in una guerra che costò la morte, tra civili e soldati, a più di 470 mila connazionali; attaccò l’Etiopia autorizzando l’impiego di armi chimiche che causarono la morte di decine di migliaia di etiopi. Per non parlare delle leggi razziali che consegnarono tanti ebrei italiani nelle mani di Hitler. Misfatti del fascismo storicamente provati, questi. Quali documenti, invece, Pastorelli ha consultato per elencare quello di cui accusa Che Guevara? Dalle “non meno di 144 esecuzioni sommarie” all’essere “acerrimo avversario” della musica rock, dei jeans, dei termini anglosassoni, dei “capelloni” o chi era troppo alla moda, fino all’introduzione a Cuba dei lager nei quali finivano dissidenti, omosessuali, cattolici, testimoni di Geova, sacerdoti afro-cubani e altri ancora. Immagino documenti velocemente reperiti nella rete, facendo copia e incolla. Li ho trovati anche io: nel sito “dedicato al Prof. Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995) pensatore e leader cattolico, ispiratore delle Società per la difesa della Tradizione Famiglia e Proprietà – TFP”, farneticante associazione romana; o nell’altrettanto farneticante libro auto pubblicato da un certo Antonio Giangrande, dal titolo “Il comunista Benito Mussolini”. Tutta documentazione chiaramente attendibile! Nell’epoca delle fake news (fandonie in italiano) dilaganti, il mio consiglio a Pastorelli è quello di informarsi meglio. Se avesse voluto, in rete avrebbe trovato anche ben altre cose: per esempio che il Che resta, come scrisse il giornalista Gianni Minà, “il simbolo della lotta contro le dittature, lo sfruttamento, le sofferenze e la fame” e “il simbolo di riscatto non solo degli oppressi di un continente, ma anche di tutti coloro che nel mondo, come lui, sognavano e sognano una società più solidale, non schiava solo del profitto”. Ma anche che il prestigio del personaggio è legato alla sua coerenza, all’assenza di calcoli politici, all’indifferenza con cui abbandonava onori e glorie, alla caparbietà nel rifiutare privilegi, alle sue denunce degli sprechi, delle furberie, della burocratizzazione, dell’approssimazione. E ancora: che la componente etica è stata il perno dell’agire di Guevara. Che parlava sì di forgiare l’uomo nuovo, ma inteso come uomo pronto a donare se stesso a favore della collettività, spinto a questi comportamenti dall’istruzione, dall’esempio, dalla mobilitazione. Perché Che Guevara credeva nella perfettibilità dell’essere umano, nella sua capacità di diventare popolo pur rimanendo individuo, nella possibilità di saldare la politica a un’eticità superiore. Inutile dunque che Pastorelli si chieda “cosa c’è di liberale in quest’uomo per la sinistra”. La storia parla: chi ha avuto l’onore di conoscerlo ricorda il Che come uomo rigido ma di grande generosità e umanità, una persona capace di essere dura senza mai perdere la tenerezza. E tornando alla presenza di Aleida Guevara ad Assisi alla ProCivitate Christiana, è anche inutile che Pastorelli chieda “soprattutto una eventuale ricollocazione evitando di strumentalizzare e di bestemmiare il nome di Assisi e di chi lo ha portato in auge, ossia, San Francesco, lui sì, Santo”: i valori del Che non contrastano né con la città della pace né con San Francesco e infatti Aleida Guevara incontrerà il custode del Sacro Convento e i frati le faranno una visita guidata della Basilica. Francesca Vignoli".
Antonio Giangrande risponde a Francesca Vignoli. La signora ha asserito: "Misfatti del fascismo storicamente provati, questi. Quali documenti, invece, Pastorelli ha consultato per elencare quello di cui accusa Che Guevara? Dalle “non meno di 144 esecuzioni sommarie” all’essere “acerrimo avversario” della musica rock, dei jeans, dei termini anglosassoni, dei “capelloni” o chi era troppo alla moda, fino all’introduzione a Cuba dei lager nei quali finivano dissidenti, omosessuali, cattolici, testimoni di Geova, sacerdoti afro-cubani e altri ancora. Immagino documenti velocemente reperiti nella rete, facendo copia e incolla. Li ho trovati anche io: nel sito “dedicato al Prof. Plinio Corrêa de Oliveira(1908-1995) pensatore e leader cattolico, ispiratore delle Società per la difesa della Tradizione Famiglia e Proprietà – TFP”, farneticante associazione romana; o nell’altrettanto farneticante libro auto pubblicato da un certo Antonio Giangrande, dal titolo “Il comunista Benito Mussolini”. Tutta documentazione chiaramente attendibile! Nell’epoca delle fake news (fandonie in italiano) dilaganti, il mio consiglio a Pastorelli è quello di informarsi meglio."
Cara signora, quale motivo c’era di citare fuori contesto il mio saggio “Il Comunista Benito Mussolini”. E definirlo gratuitamente in modo diffamatorio: Farneticante.
Bene signora. Oltre a scrivere "Il Comunista Benito Mussolini", che lei non ha letto, ho scritto anche "Comunisti e Post Comunisti. Se li conosci li eviti" che lei non vorrà leggere. E li sì che si parla del "Che". Saggi di inchiesta e non romanzi di appendice. Tutta documentazione (copiata ed incollata e non frutto di propria insignificante opinione) chiaramente attendibile! Nell’epoca delle fake news (fandonie in italiano) dilaganti, il mio consiglio alla signora è quello di informarsi meglio. Nell'epoca delle Fake News, dove sicuramente si informa la signora, onde evitare che si legga l'imposto omologato, è mio stile contrapporre opinioni e scritti diversi, affinchè il lettore non sia conformato. E' ovvio che chi è abituato alla subcultura ed all'oscurantismo, è poco propenso ad accettare opinioni diverse da quelle imposte dal suo capo gregge. E l'imposto, per intolleranza, viene allargato anche a chi non ha subito il lavaggio del cervello.
Se a destra son coglioni sprovveduti, al centro son marpioni, a sinistra “So camburristi”. Ad Avetrana, come in tutto il sud Italia c’è un detto: “si nu camburrista”. "Camburrista" viene dalla parola italiana "camorra" e non assume sempre il significato di "mafioso, camorrista" ma soprattutto di "persona prepotente, dispettosa, imbrogliona, che raggira il prossimo, che impone il suo volere direttamente, o costringendo chi per lui, con violenza, aggressività, perseveranza, pur essendo la sua volontà espressione del torto (non della ragione) del singolo o di una ristretta minoranza chiassosa ed estremamente visibile.
Associazione Tradizione Famiglia Proprietà: “I nostri articoli non sono farneticanti”. La replica a Francesca Vignoli che aveva criticato le fonti del coordinatore leghista Stefano Pastorelli. Il 5 marzo 2019 su assisinews.it. Riceviamo e pubblichiamo dal presidente dell’Associazione Tradizione Famiglia Proprietà, Julio Loredo, una replica all’articolo di Francesca Vignoli e in particolare al pezzo in cui si parla delle "fonti" di Stefano Pastorelli. «Li ho trovati anche io: nel sito "dedicato al Prof. Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995) pensatore e leader cattolico, ispiratore delle Società per la difesa della Tradizione Famiglia e Proprietà – TFP", farneticante associazione romana; o nell’altrettanto farneticante libro autopubblicato da un certo Antonio Giangrande, dal titolo "Il comunista Benito Mussolini". Tutta documentazione chiaramente attendibile! Nell’epoca delle fake news (fandonie in italiano) dilaganti, il mio consiglio a Pastorelli è quello di informarsi meglio».
«Ho appena letto sul vostro sito l’articolo in cui Francesca Vignoli replica a Stefano Pastorelli riguardo alla visita di Aleida Guevara ad Assisi. Non posso rispondere in nome di Pastorelli che, infatti, sembra abbia fatto qualche copia e incolla. Devo rispondere, invece, in nome dell’Associazione Tradizione Famiglia Proprietà, sbrigativamente qualificata da Vignoli di "farneticante". La critica di Vignoli si riferisce a due articoli pubblicati sul nostro sito (atfp.it) e che riguardano Ernesto Guevara de la Serna, detto “Che”. Il primo articolo, intitolato “Che Guevara, il mostro dietro il mito”, è tratto dal libro «Guia politicamente incorreto da América Latina», scritto da due giornalisti brasiliani, Leandro Narloch e Duda Texeira. Gli autori citano non meno di ottanta documenti, alcuni dello stesso Che, come «Textos políticos» e «Diarios de motocicleta». Il secondo è tratto dal libro «Che Guevara, missionario di violenza», curato dal giornalista cubano Pedro Corzo, e che raccoglie trentatré testimonianze di persone che hanno conosciuto il Che, anche intimamente. Si tratta, dunque, di testimoni diretti, molti dei quali ex-compagni di lotta. Di fronte a questa inoppugnabile documentazione – scrive il presidente di Associazione Tradizione Famiglia Proprietà parlare di “farneticante” è alquanto azzardato, soprattutto senza essersi presi la briga di confutare nemmeno uno dei documenti citati. Il Che Guevara era un missionario di violenza, che mal si addice alla figura del Poverello di Assisi».
Che Guevara: il mostro dietro il mito. Leandro Narloch e Duda Texeira. Personalmente coinvolto in non meno di 144 esecuzioni sommarie; favorevole a una guerra nucleare con gli Stati Uniti anche al prezzo di sterminare l’intera popolazione cubana; promotore dei campi di lavoro forzato per “rieducare” i giovani; acerrimo avversario della musica e delle mode moderne. Il vero Che Guevara è anni luce lontano dal mito propagandistico inventato dalla sinistra.
La Rivoluzione, lo sappiamo, è largamente costruita sulla menzogna. Dalla presa della Bastiglia nel 1789 (in realtà consegnata dai difensori), al ladro di cavalli tramutato in “Eroe dei due mondi”, al sanguinario dittatore sovietico presentato come “good uncle Joe”. Mai, però, un’operazione di maquillage propagandistica è stata così inverosimile e incurante della realtà storica, come l’invenzione del mito di Ernesto “Che” Guevara, il medico argentino divenuto guerrigliero sotto l’egida di Fidel Castro. Dalla famosa foto dallo sguardo “idealista”, che lo ritrae invece in preda a una crisi di asma, alla sua morte “eroica”, quando in realtà morì implorando clemenza, praticamente tutto nel “Che” Guevara è pura propaganda. Recenti studi hanno cominciato a smontare, pezzo a pezzo, questo mito prediletto della sinistra. A battere l’ultimo chiodo sulla bara del Che due giovani giornalisti brasiliani, che hanno scritto una divertente quanto ben documentata «Guida politicamente scorretta dell’America Latina». Il primo capitolo, il più lungo, è dedicato proprio a Ernesto Rafael Guevara de la Serna, più noto come Che Guevara. Gli autori vi svelano “flagranti contraddizioni fra la sua vita e l’ammirazione che essa ispira”.
Dittatura artistica. Una prima contraddizione è quella di usare l’immagine del Che come simbolo della libertà giovanile. Prima della rivoluzione, Cuba era una Mecca della cultura. Nel 1950 l’isola contava 1.700 scuole private e 22mila pubbliche, che le garantivano il più alto indice di scolarità nell’America Latina. Il 23% del bilancio era speso nell’educazione. Nel 95% delle abitazioni c’era una radio, attraverso cui ci si poteva sintonizzare su oltre 140 canali. Il Paese contava ben sette case discografiche, alcune multinazionali, 600 cinema e 15mila juke box. Gli artisti cubani erano star a Broadway, come le star americane erano di casa a La Havana. Le TV americane trasmettevano in diretta da Cuba, mentre grandi magazzini come Sears Roebuck si facevano pubblicità sui giornali dell’Isola. C’erano più turisti cubani negli USA che turisti americani a Cuba, serviti da ventotto voli giornalieri e quattro traghetti navetta. Tutto questo all’insegna d’una economia fiorente. Suona strano dirlo, ma gli investimenti cubani negli Stati Uniti, alla vigilia della rivoluzione, superavano il mezzo miliardo di dollari. Tutto finì nel 1959. La maggior parte degli artisti cubani fu costretta all’esilio, e impedito l’ingresso agli artisti stranieri. Le musiche e le mode americane ed europee furono proibite in quanto “imperialiste”. Si finiva in un campo di concentramento solo per il fatto di ascoltare rock ‘n roll a casa, oppure di indossare jeans o di utilizzare vocaboli anglosassoni. Iniziò la caccia nelle strade ai ragazzi “capelloni” e troppo “moderni”. Silvio Rodríguez, direttore dell’Instituto de Radio y Televisión de Cuba, fu indotto alle dimissioni per aver citato i Beatles. I cinema chiusero i battenti. A L’Havana ne restò solo uno. Il Che era il principale istigatore di questa repressione: “Ho giurato davanti al ritratto del vecchio compagno Stalin di non mollare fino a quando non avrò annientato questi polipi capitalisti”. Affermando che “per costruire il comunismo occorre creare l’uomo nuovo”, il Che ammetteva come unica musica permessa ai giovani “i cantici rivoluzionari” (6), ricordando loro che dovevano “concentrarsi sul lavoro, sullo studio e sul fucile (…) abituandosi a pensare e agire come una massa, seguendo le iniziative (…) dei nostri capi supremi”. Quanti giovani che pure indossano le magliette con il volto del Che sarebbero disposti a seguire un simile programma di vita?
I lager castristi. Una seconda contraddizione è quella di presentare il Che come simbolo delle cause democratiche. Tutti sanno che, molto prima che i nazisti li trasformassero in lugubre marchio del loro regime, i campi di concentramento erano già molto diffusi nell’Unione Sovietica. Pochi, però, sanno che fu proprio Che Guevara a introdurli in Cuba. Il primo lager tropicale, personalmente creato dal Che, è il campo di lavori forzati di Guanahacabibes, destinato a “rieducare” le persone refrattarie alla rivoluzione. “A Guanahacabibes inviamo coloro che non devono stare in prigione, coloro che hanno commesso reati contro la morale rivoluzionaria, sia gravi che lievi” – affermava il Che in una riunione del Ministero dell’Industria nel 1962. Questo lager servì poi da modello per le Unidades Militares de Ayuda a la Producción (Umaps), che giunsero a contenere più di 30mila prigionieri. Leggiamo in un rapporto del 1967 della Commissione Interamericana dei Diritti Umani: “I giovani sono reclutati a forza dalla Polizia e rinchiusi in questi campi di lavoro, senza nessun tipo di processo giudiziario né diritto alla difesa. (...) Questo sistema svolge due funzioni: a) facilitare manodopera gratuita allo Stato; b) castigare i giovani che si rifiutano di partecipare alle organizzazioni comuniste” . Il Che fu, inoltre, il principale artefice della svolta comunista del regime di Fidel Castro. “Il Movimento 26 Luglio non era di per sé comunista — ricorda Huber Matos, rivoluzionario della prima ora e poi dissidente in esilio — Furono Fidel e il Che a condurre la rivoluzione per le vie del comunismo sovietico”.
“Io amo l’odio”. Ed eccoci alla terza contraddizione: quella di presentare il Che come simbolo dell’idealismo e dell’amore, come talvolta succede anche in ambienti cattolici. La famosa immagine del Che che guarda “idealisticamente” verso l’infinito fu scattata da Alberto Korda, fotografo del regime, il 5 marzo 1960 nel corso di un memoriale per le vittime dell'esplosione della nave belga “La Coubre”, ma rimase sconosciuta fino al 1967. Fu l’editore Giangiacomo Feltrinelli a comprarne allora i diritti e a iniziarne la diffusione. L’effige fu utilizzata per la prima volta come simbolo rivoluzionario nel corso di una manifestazione di piazza a Milano nel novembre dello stesso anno. La foto del Che è stata trasformata in icona internazionale di pace, amore e idealismo, quasi alla stregua del Mahatma Gandhi e di Madre Teresa di Calcutta. Ma chi conosce il vero pensiero del guerrigliero castrista? Per rinfrescarci la memoria, i due autori brasiliani citano alcuni brani tratti dai suoi «Testi Politici»:
— “L’odio come fattore di lotta. L’odio intransigente contro il nemico, che permette all’uomo di superare i suoi limiti naturali e lo trasforma in una efficace, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere. I nostri soldati devono essere così: un popolo senza odio non può distruggere un nemico brutale. Bisogna portare la guerra fin dove il nemico la porta: nelle sue case, nei suoi luoghi di divertimento. Renderla totale”.
— “Amo l’odio, bisogna creare l’odio e l’intolleranza tra gli uomini, perché questo rende gli uomini freddi e selettivi e li trasforma in perfette macchine per uccidere”.
— “La via pacifica è da scordare e la violenza è inevitabile. Per la realizzazione di regimi socialisti dovranno scorrere fiumi di sangue nel segno della liberazione, anche a costo di vittime atomiche”.
Guerra nucleare. Tale esaltazione dell’odio e della violenza non restava confinata al campo delle dichiarazioni idealistiche, ma veniva attuata in modo molto concreto. Il Che era favorevole a scatenare una guerra nucleare contro gli Stati Uniti, qualunque fossero i costi. Nel 1961 egli si recò in Unione Sovietica per firmare un accordo militare che prevedeva, tra l’altro, l’installazione di ogive nucleari sul suolo cubano, giustificando tale mossa con il proposito di lanciare qualche missile sugli Stati Uniti per provocarne la reazione. “Vorrei utilizzare tutti questi missili, puntati contro il cuore degli Stati Uniti, compresa New York”, dichiarava al London Daily Worker, giornale del Partito comunista inglese. Secondo il Che, la causa della Rivoluzione ben valeva il sacrificio della popolazione cubana: “Cuba è l’esempio tremendo di un popolo disposto all’auto-sacrificio nucleare, perché le sue ceneri possano servire da fondamento per una nuova società”. Bisogna sottolineare che l’accordo era ultrasegreto. Appena sei membri del Governo cubano ne erano a conoscenza. Il popolo cubano era in questo modo collocato a sua insaputa sull’altare sacrificale. Il popolo, non certo i dirigenti. In previsione del conflitto nucleare, Fidel e Raul Castro, insieme al compagno Che Guevara, presero contatto con l’Ambasciatore sovietico per ottenere asilo nel bunker antiatomico sotto l’ambasciata...In quest’ottica, la presenza di immagini del Che durante talune Marce per la Pace appare una tragica quanto beffarda ironia...
Esecuzioni sommarie. Nel 1980, la fondazione Cuba Archive lanciò il progetto “Verità e Memoria”, allo scopo di raccogliere la documentazione sulle persecuzioni a Cuba. Dagli archivi risulta che, negli anni dal 1957 al 1959, cioè dalla guerriglia nella Sierra Maestra fino al primo anno di governo rivoluzionario, Ernesto Che Guevara è stato personalmente coinvolto in non meno di 144 esecuzioni sommarie, alcune eseguite da lui stesso. Fra le vittime c’erano colleghi guerriglieri non sufficientemente motivati, soldati e poliziotti, giovani e, soprattutto, oppositori politici. È tristemente noto, per esempio, il massacro di decine di civili nella città di Santa Clara, espugnata nel 1958 dalle truppe rivoluzionarie al comando di Che Guevara. Poi, come Procuratore del Tribunal Revolucionario di stanza al Forte La Cabaña, nel solo anno 1959, egli ordinò l’esecuzione di 104 dissidenti. Questo stando ai documenti scritti. I testimoni poi parlano di almeno 800 morti in quel periodo. “Non possiamo ritardare la sentenza —incitava il Che ai suoi collaboratori — Siamo in rivoluzione. Le prove sono secondarie”. Non possiamo, però, negarle al Che una certa coerenza nel suo delirio sanguinario. Già nel 1952, nel famoso «Diario dalla Motocicletta» — raccolta di annotazioni fatte nel corso di un viaggio in moto per l’America del Sud — egli scrisse: “Bagnerò la mia arma nel sangue e, pazzo di furore, taglierò la gola a qualsiasi nemico che mi capiti fra le mani. Sento le mie narici dilatarsi con l’acre odore della polvere da sparo e del sangue dei nemici morti”. Non possiamo nemmeno negargli una rozza franchezza. Dopo il suo famoso discorso all’Assemblea Generale dell’ONU, il 12 dicembre 1964, egli dichiarò: “Fucilazioni? Certo! Noi abbiamo fucilato, fuciliamo, e continueremo a fucilare finché sarà necessario. La nostra lotta è fino alla morte!”.
Frivoli? Idioti utili? Via di questo passo, i due giovani giornalisti brasiliani vanno avanti per quasi cinquanta pagine, esibendo ben sessantanove fonti a corredo delle loro affermazioni. A questo punto, però, siamo autorizzati a domandarci: ma coloro che indossano le magliette del Che, o appiccicano le sue immagini su muri, moto, macchine e qualsiasi superficie serva all’uopo sanno, o ignorano, tutte queste cose? Frivoli? Idioti utili? Giocattoli nelle mani della propaganda comunista? A voi la scelta…
Che Guevara, missionario di violenza. Pedro Corzo. La nostra rivista ha già dedicato alcuni articoli a smascherare il surreale mito di Ernesto “Che” Guevara. Com’era il leader guerrigliero in realtà? In questo numero ne offriamo ai nostri lettori un vivido ritratto, descritto da chi lo ha conosciuto personalmente. Trentatré testimonianze dirette. Trentatré cubani che hanno conosciuto personalmente Ernesto Guevara de la Serna, detto “Che”, e sono sopravvissuti all’esperienza. Buona parte dei loro compagni non ha avuto la stessa sorte: sono stati fucilati dall’irascibile comandante, che non tollerava la minima avversità nei suoi confronti. Trentatré testimonianze raccolte, con cura, dal cubano Pedro Corzo nel libro «Che Guevara, missionario di violenza» (Spirali, Milano 2009). Ex prigioniero politico, l’autore, scrittore e giornalista, dirige oggi, a Miami, l’Instituto de la Memoria Histórica contra el Totalitarismo.
Aspetto personale sgradevole. L’aspetto personale del Che era molto sgradevole. “All’inizio la gente lo chiamava El Chancho, il Porco, perché non gli piaceva lavarsi. Non mi va di parlare di cose personali, ma quell’uomo aveva sempre addosso un odore di rognone fritto che spaccava il naso a chiunque”, ricorda il suo istruttore militare in Messico, Miguel Sánchez, detto El Coreano. Per tale motivo, forse, fu sempre un solitario. Egli socializzava di rado. Oltre al suo temperamento misantropo, il fatto è che nessuno supportava il suo odore. Nelle innumerevoli discussioni con i cubani – dei quali disprezzava la razza meticcia e ne scherniva l’accento caraibico – questi chiudevano la questione dicendogli: “Tu nemmeno ti lavi!”, come riferisce Jaime Costa, assaltatore del Cuartel Moncada, membro della spedizione del Granma, comandante dell’Ejército Rebelde. “Queste discussioni erano roba di ogni giorno. Era il suo carattere prepotente e sprezzante a suscitare l’antipatia della gente”. Originariamente, Guevara era soprannominato dai compagni proprio El Chancho, il Porco. Il nomignolo “Che” (gergo basso-popolare argentino per rivolgersi a un’altra persona), era il modo spregiativo con cui i cubani, stanchi delle ironie razziste di Guevara, gli rispondevano per le rime. Poi, alla fine, è rimasto legato al suo nome.
Carattere prepotente e pieno di odio. Tutti i testimoni concordano nel descrivere il suo carattere come arrogante, prepotente e pieno di odio. “Credo che Guevara fosse caratterizzato da un atteggiamento prepotente, arrogante e sprezzante. Odiava tanto, anzi secondo me sapeva solo odiare. Provava molto disprezzo nei confronti del popolo cubano. Era un uomo di odio, di risentimento, di vendetta e anche di basse passioni”, dichiara un suo ex commilitone, Armando Fleites, fondatore e capo del Segundo Frente Nacional del Escambray, cioè della guerriglia nel centro dell’isola, nonché comandante capo dell’Ejército Rebelde. La pensa in modo identico Lázaro Asencio, anch’egli capo del Segundo Frente: “Le peggiori caratteristiche del Che sono presenti in tutti e in ciascuno dei suoi gesti. Anche nella vita privata, le caratteristiche del Che erano quelle di un uomo senza valori morali, anzi era un amorale, totalmente amorale. (…) Guevara era un guerrafondaio, ingiusto, crudele, non conosceva pietà. La sua vita a Cuba è costellata di tradimenti. (…) La vera immagine di Ernesto Guevara è assolutamente il contrario di quella mostrata dalla propaganda. Tutto quello che dicono i sostenitori di Guevara è un’assoluta menzogna”. Non diversamente racconta Orlando de Cárdenas, giornalista, amico personale di Fidel Castro, collaboratore del Movimiento 26 Julio: “Il suo modo di fare con gli altri era molto brusco, molto rude. Era un tipo assolutamente asciutto, freddo, senza sentimenti. Era dispotico e insolente fino alla villania”. Un commilitone di Che Guevara, Lázaro Guerra, non lesina parole denigratorie: “Era una perfetta canaglia, un criminale, un codardo”. Negli incontri sociali cui il Che partecipava insieme a Fidel Castro, era frequente sentire il commento degli altri invitati: “Ma guarda che carogna si è portato qui Fidel!”. Usa toni identici un altro suo compagno nella guerriglia della Sierra Maestra, Agustín Alles Soberón: “Era un tipo freddo e arrogante, uno psicopatico. (…) Una volta scrisse ‘Odio la civiltà!’”.
Indifferente ai problemi sociali dell’America Latina. L’immagine dell’idealista, addolorato per i problemi sociali dell’America Latina, e quindi impegnato nelle lotte liberatrici per risolverli, si infrange davanti al fatto che, nei suoi innumerevoli giri per il Continente negli anni Cinquanta, sui quali scrisse numerosi Diari, Ernesto Guevara mai menzionò una sola situazione sociale o politica che gli destasse preoccupazione. Voleva solo “fare la vita da milionario”, come scrisse in una lettera al padre. Mentre era in Guatemala nel 1954, esplose la rivoluzione di Castillo Armas. Guardando i combattimenti dalla finestra ebbe questa reazione, raccontata a una zia: “Me la faccio sotto delle risate nel vedere la gente che scappa sotto le bombette lanciate da questi aerei”. L’assalto al Cuartel Moncada in Santiago de Cuba, il 26 luglio 1953, punto di partenza ideale della Revolución, che produsse titoli cubitali in tutta America Latina, non trovò nessuna eco nelle lettere né nei Diari del Che. “Guevara in gioventù non ha mai avuto nessuna preoccupazione di carattere sociale. Era un tipo indifferente, un bohémien che non si interessava ai problemi del suo paese né dell’America Latina. (…) Era solo un turista spensierato”, racconta il suo principale biografo, il cubano Enrique Ros. Fu la sua prima moglie, la peruviana Hilda Gadea, militante comunista, a indottrinarlo sul marxismo-leninismo. Fu pure Gadea a presentargli, in Messico, il rivoluzionario cubano Antonio López, detto Ñico, che lo introdusse nel gruppo di Fidel Castro, che allora cospirava contro il presidente cubano Fulgencio Batista, addestrandosi alla guerriglia in una proprietà rurale. Il Che, racconta Miguel Sánchez, l’istruttore militare del futuro gruppo guerrigliero, “era un avventuriero che il destino aveva portato in Messico. A leggere la sua biografia ci si rende conto che partecipò alla spedizione del Granma [lo yacht che portò i guerriglieri a Cuba] per puro miracolo. (…) Sono convinto che nemmeno lui sapesse perché si fosse messo in quel pasticcio”. Un motivo, però, c’era, e lo rivelò alla moglie Hilda: “Sono assetato di sangue!”.
Crudele con gli animali. Miguel Sánchez riferisce anche di un aspetto poco conosciuto della personalità di Che Guevara: la sua crudeltà con gli animali. Mentre era in Messico, egli usava acchiappare gatti randagi con grandi reti e, dopo averli martoriati con lo scalpello, li sbatteva per terra fino a ucciderli: “Era una cosa orrenda, una crudeltà che non avevo mai visto. Vedendo ciò, non ebbi più dubbi sulla sua crudeltà e sul suo sadismo. Era una persona priva di compassione. Prima sfogò i suoi istinti criminali sui poveri animali, poi sappiamo tutti le storie delle cose che fece a Cuba. (…) Aveva istinti psicopatici”.
Il primo crimine. Sbarcato a Cuba, non ci mise molto a commettere il suo primo delitto: l’assassinio di Eutimio Guerra. Mentre il Consiglio discuteva se giustiziare o no questo contadino, accusato di tradimento, il Che estrasse la pistola e gli sparò un colpo in testa: “Da quel momento, io non ero più il medico della spedizione, ora ero diventato un rivoluzionario”, scrisse nel suo Diario. Commenta a proposito Enrique Ros: “Il Che è diventato un rivoluzionario perché ha commesso un omicidio a sangue freddo. Non per le sue idee o per le sue imprese, ma solo perché ha ammazzato un altro essere umano”. Questo fu solo l’inizio di una lunghissima serie di assassinii a sangue freddo. “Lui ammazzava la gente senza scomporsi, come se fosse una cosa senza molta importanza”, racconta il suo compagno, comandante Jaime Costa. Un testimone dell’assassinio di Eutimio Guerra, il comandante Roberto Bismarck, opina: “Il Che non è mai stato altro che un assassino, un ipocrita e uno sfaticato”.
Il massacro di Santa Clara. Resterà nella storia, per esempio, il massacro di Santa Clara. Anticipandosi alla seconda colonna, guidata dal comandante Camilo Cienfuegos, Che Guevara conquistò la città di Santa Clara, nel cuore dell’isola. Senza aspettare ordini superiori, cominciò a uccidere militari e civili senza dar loro la possibilità di difendersi. Racconta Jaime Costa: “Senza procedere a nessun interrogatorio, [Che] cominciò ad ammazzare tutti. Le prime non erano fucilazioni, ma vere e proprie esecuzioni alla cinese, con un colpo alla nuca”. Una volta arrivato, Cienfuegos si rese conto di ciò che stava accadendo ed esclamò: “Questo è un bagno di sangue! Ci sono un mucchio di morti! Dove sono le carte dei processi?”. Le carte, ovviamente, non c’erano.
Il boia di La Cabaña. Dopo il trionfo della Revolución, Che Guevara fu nominato procuratore del Tribunale rivoluzionario in stanza nella prigione La Cabaña, chiamato Comisión Depuradora, una sorta di Norimberga non solo contro gli oppositori di Fidel Castro, ma anche contro chi potesse fargli ombra. Fu qui che il Che commise la maggior parte dei suoi crimini. “Era un uomo sempre disposto ad ammazzare. Non faceva domande né processi, semplicemente era disposto a togliere la vita a chiunque”, racconta Lázaro Guerra, un suo commilitone. Fu proprio alla Cabaña che Guevara coniò la massima “Nel dubbio, ammazzalo!”. Scrive José Vilasuso, pubblico ministero della Comisión Depuradora: “Le fucilazioni erano tanto frequenti, che la pulizia non poteva essere mai sufficiente. Restavano sempre pozze di sangue”. L’avvocato Napoleón Vilaboa, membro della Comisión Depuradora, racconta: “Le sentenze erano dettate prima che il processo iniziasse. Prima del processo si sapeva già quali condanne sarebbero state pronunciate. Guevara segnalava personalmente con una matita o una penna le persone che sarebbero state fucilate”. Difficilmente gli imputati trovavano un avvocato difensore, i pochi che si azzardavano ad assumere tale ruolo venivano a loro volta accusati di “complicità”, e quindi processati e fucilati. I testimoni parlano di almeno 800 fucilazioni nel breve periodo (1959-1960) in cui Che fece da procuratore del tribunale rivoluzionario.
L’uccisione di Jesús Carreras. Uno degli episodi più bui nella vita di Che Guevara è l’uccisione del comandante Jesús Carreras. Tra i fondatori del movimento rivoluzionario a Cuba, Carreras comandava il Segundo Frente Nacional de Escambray, cioè la guerriglia nel centro dell’isola, strategicamente più importante di quella comandata da Fidel Castro sulla Sierra Maestra, cosa che il Líder Máximo non poteva tollerare. Inviò, quindi, Che Guevara ad operare anche in quella zona, cosa che Carreras, militare molto superiore, impedì. L’argentino se la legò al dito. Dopo il trionfo della Revolución, Che Guevara fece arrestare Carreras e il suo aiutante, il comandante americano William Morgan. Dopo un processo farsa, furono entrambi fucilati.
Pessimo leader. Che Guevara non fu mai un buon leader guerrigliero. Anzi, era un incompetente. Ricorda Miguel Sánchez: “El Chancho non aveva la minima capacità organizzativa. (…) Tutti i progetti cui partecipò finirono in un fallimento. Ha fallito come marito, come padre di famiglia, come guerrigliero e anche come rivoluzionario. (..) Era un incompetente in tutto quello che intraprendeva. (…) Era un ignorante in questioni militari”. Che Guevara era consapevole di questa inefficienza. “Io di guerra non so niente – ammise una volta al comandante Huber Matos – io mi sono battuto, ma ho anche dovuto correre parecchio e darmela a gambe”. L’avventura militare nella Repubblica Dominicana, nel 1959, fu un disastro. Quasi tutti i suoi uomini furono uccisi dall’esercito di Rafael Leónidas Trujillo. Egli stesso dovette essere messo in salvo in fretta e furia. La sua spedizione nel Congo, nel 1965, finì pure in catastrofe. Fu “una specie di manuale della sconfitta, un manuale di tutto ciò che non si deve fare”, come espone il suo biografo Enrique Ros. Guevara fallì anche in Bolivia, dove trovò la morte nel 1969. Il suo movimento non ebbe mai l’appoggio dei contadini. Conclude Ros: “Nelle sue guerre, Che commise tutti gli errori che un guerrigliero può commettere”.
Il Diario adulterato. Tutto nel Che è menzogna, perfino il suo famoso Diario in Bolivia. I manoscritti furono, infatti, portati a La Havana e redatti di nuovo, agli ordini di Fidel Castro. “Quando venne pubblicato – ricorda Huber Matos – Fidel ci mise quello che gli interessava e tolse quello che avrebbe potuto nuocergli. Il Diaro del Che è una storia adulterata”.
La fabbricazione del mito. Diversi testimoni sollevano un quesito assai inquietante: a metà degli anni Sessanta, Ernesto Che Guevara era diventato una presenza ingombrante in Cuba. Lo stesso Fidel Castro voleva sbarazzarsene. Perciò lo inviò in Bolivia, senza il minimo appoggio logistico, verso una morte sicura. “Fu una bidonata per togliersi il Che di torno. Non ho il minimo dubbio”, afferma Huber Matos. Morto il personaggio, se ne fece un mito, poi manipolato con scaltrezza per l’avanzamento della rivoluzione comunista nel mondo intero. Si lamenta Orlando de Cárdenas, già collaboratore intimo di Fidel Castro: “Si è svolta una campagna per trasformarlo in una specie di mito. La sua morte prematura, le condizioni in cui morì hanno favorito l’immagine che si vuole dare di lui. Ma noi che lo abbiamo conosciuto, ben sappiamo che lo hanno totalmente trasformato”. “Si è data un’altra immagine del Che, un’immagine lontanissima dalla realtà di quello che fu quest’uomo”, conclude Agustín Alles Soberón, che lo conobbe intimamente sulla Sierra Maestra.
Tra Primarie e Sardegna il PD spaccia sconfitte per vittorie. Alla vigilia del voto nei gazebo fanno pensare alcune dichiarazioni (da perdenti) dei principali esponenti del Pd, scrive il l'1 marzo 2019 Panorama. In attesa delle primarie Pd indette per il 3 marzo per cercare di eleggere il nuovo segretario fanno davvero pensare alcune, recenti, dichiarazioni di esponenti del Partito Democratico legate appunto alla chiamata ai gazebo dei suoi elettori ma anche al post elezioni regionali in Sardegna. Dichiarazioni con cui si cerca di trasformare una sconfitta in un successo. Ma andiamo con ordine.
Un milione alle Primarie. "Ci aspettiamo un milione di votanti, forse più" è la frase che i tre candidati (Giachetti, Zingaretti e Martina ma anche altri uomini del vertice del Pd come Gentiloni) hanno ripetuto in queste ore parlando di "grande coinvolgimento popolare", decisamente "superiore ai 70 mila votanti della piattaforma Rousseau". Ecco quindi stabilita la quota per cui domenica sera politicamente il Pd parlerà di successo delle primarie: 1 milione. In realtà se così fosse ci sarebbe poco da stare allegri. Lo dicono i dati delle altre primarie dal 2004 al 2013. Nella prima edizione ai gazebo affluirono 4 milioni e mezzo di persone. Fu un successo indiscutibile. Poi, con il passare delle votazioni, il calo, lento ma costante fino ai 2 milioni ed 800mila delle ultime primarie, quelle del 2013. Come si fa oggi a dire che passare da 2milioni ed 800 mila ad un milione (con una riduzione del 63%) sia un successo? Sono i numeri di una sconfitta e pure pesante.
Il post Sardegna. C'è poi la Sardegna. Nel post elezioni, lasciando perdere le dichiarazioni che parlavano di un "testa a testa" dopo gli exit poll (finito poi 48 a 32 per il centrodestra), diversi esponenti del Pd ed autorevoli commentatori hanno parlato di successo del Partito Democratico che "ha tenuto" ed "è il primo partito della Regione". Non sono poi mancati quelli che hanno parlato di "risultato positivo perché Salvini non ha sfondato". Appunto. Premesso che in Italia, si sa, alle elezioni vincono tutti e nessuno perde e ammesso che ognuno può dire quello che vuole, questi commenti sembrano davvero delle battute da cabaret. La verità è che in Sardegna il Pd ha perso un'altra regione ed ha chiuso con la sua coalizione a 15 punti dal centrodestra; inoltre, rispetto alle politiche del 2018 il partito è calato ancora passando dal 14,8% al 13%.
Queste le verità dei numeri. Che non mentono. A leggere tutto questo, la sensazione è che il Pd sia ormai un partito che ragioni da "perdente" ed i suoi componenti sembrano allenatori di squadre di calcio che non vinceranno mai ma si accontentano o di qualche pareggio o delle sconfitte (quando ci sono) di chi vince sempre. Un atteggiamento che di sicuro non potrà portare alla rinascita di una sinistra valida e credibile. Per farlo serve chiarezza, lucidità ed il coraggio di raccontare la verità. A se stessi ma soprattutto agli elettori.
· I comunisti sono ignoranti per scelta. E hanno rovinato l’Italia.
Venezuela: il socialismo è solo morte e povertà, scrive il 25 febbraio 2019 Mirko Giordani su Il Giornale. Il Venezuela è a migliaia di Km dall’Europa e dall’Italia, sembrano fatti lontani che non ci riguardano, storie di ordinaria amministrazione per un Sudamerica sempre alla ricerca di se stesso e del suo posto nel mondo. Eppure la storia venezuelana ci insegna una cosa fondamentale: non esiste un socialismo positivo. Il socialismo o riduce alla fame e alla povertà o non è socialismo. Il socialismo o crea cumuli di morti o non è socialismo. Il socialismo o fa scappare milioni di persone in cerca di cibo e condizioni economiche migliori o non è socialismo. Talvolta per far capire dei concetti così semplici serve toccare con mano e vedere in Tv i drammi che l’ideologia della povertà porta nei popoli. Stavolta è toccato ai poveri venezuelani, la prossima volta per chi suonerà la campana? Per chiunque suonerà, ci sarà sempre qualche quinta colonna occidentale che dall’alto della sua intellighenzia o del suo amore per qualunque cosa suoni un po’ esotica e lontana, ti dirà sempre che i socialisti di oggi non sono veri socialisti, che Chavez ha liberato il Venezuela dagli yankees e che ora gli stessi yankees stanno tornando per rubare il petrolio venezuelano. Gli stessi yankees che ora portano aiuti umanitari in Venezuela che vengono prontamente sequestrati e bruciati dagli sgherri di Maduro. Sono un tipo pacifico e solitamente non mi piace vedere in Tv scontri a fuoco, ma aspetto e spero il giorno in cui i venezuelani con gli schioppi facciano una bella pernacchia al socialismo e caccino in tutti i modi possibili l’affamatore del popolo. Che sia da monito a tutte le quinte colonne europee che appoggiano questo regime assassino.
L’Italia invasa dai migranti economici con il benestare della sinistra. I Comunisti hanno il coraggio di cantare con i clandestini: “. ..una mattina mi son svegliato ed ho trovato l’invasor…” Bella Ciao
Quel che si rimembra non muore mai. In effetti il fascismo rivive non negli atti di singoli imbecilli, ma quotidianamente nell’evocazione dei comunisti.
Estratto dell’articolo di Alessandro Ferrucci per “il Fatto Quotidiano” del 17 febbraio 2019. Con Filippo Nigro la sorpresa è già dalla stretta di mano, decisamente vigorosa; poi la conferma dello stupore arriva da tutto il resto: parole a profusione, sorrisi (…) e insieme la soddisfazione per la prossima uscita di Suburra 2, la fiction sul sottobosco romano, in onda dal 22 febbraio su Netflix (interpreta Amedeo Cinaglia, un politico in teoria molto idealista, in pratica molto corrotto). (…)
«Stefano Sollima una volta mi ha definito in un modo stupendo: "Sei il corpo di Bruce Willis con la testa di Woody Allen".
Calza
«Abbino questa fisicità a un atteggiamento impulsivo e scattoso».
Compreso con Giuliano Ferrara.
«Che storia, quella».
Quasi un caso politico.
«Con un gruppo di amici stavamo per strada a chiacchierare, a un certo punto vediamo passare Ferrara, da poco nominato ministro del primo governo Berlusconi, a passeggio con la moglie e il cane; e così, a cacchio, abbiamo iniziato a insultarlo».
Cosa dicevate?
«Non eravamo lucidissimi.
E questa è la giustificazione.
«Detto di tutto, lui come niente fosse, neanche una minima reazione, poi uno di noi balbetta la parola magica: "Ri-riii-riiinnegato!". Silenzio improvviso. Ferrara immobile. E Molla il cane alla moglie, torna indietro e gli dà una pizza (schiaffo) in faccia».
A quel punto?
«Gli siamo saltati addosso, e ricordo la sua mole incredibile, non riuscivo a fermarlo, le mie braccia affondavano nella sua pancia, mentre la moglie piagnucolava: "Ogni sera la stesa storia, non possiamo più uscire di casa".
E poi?
«Il giorno dopo ci siamo ritrovati sui giornali con titoli enormi e dal tono: "Quattro cretini danno del ciccione a Ferrara". (…)»
Dagospia il 19 febbraio 2019. Riceviamo e pubblichiamo da Anselma Dell'Olio: “Un’attrice è qualcosa in più di una donna; un attore qualcosa in meno di un uomo.” La dimostrazione che la boutade di Oscar Wilde può calzare a pennello è un omuncolo morale d’attore di nome Filippo Nigro. Un tipino che deforma la realtà per farsi più bello nei propri ricordi, e vendersi a buon mercato come schiaffeggiatore di leoni. Racconta su quella carta igienica usata di Il fatto quotidiano, che lui e quattro (4) amicucci della parrocchietta politicamente correttissimi, nei primi anni 90, avrebbero insultato per strada Giuliano Ferrara, che avrebbe a sua volta schiaffeggiato uno di loro senza che questi infoiati reagissero. Poi io – io! – avrei “piagnucolato” parole che non ho mai detto sugli “insulti continui” al maritozzo. Mente, l’ometto Nigro, per darsi un tono che tutti gli studi medievali e tutti i licei classici del mondo non posso conferire a siffatto imbroglione. Ecco la verità non deformata. Che scrivo esclusivamente pro domo mia, perché Giulianone si difende benissimo da solo. Erano i primi anni 90. Usciamo io, marito e Lupo, il nostro amatissimo pastore tedesco bastardo, che aveva adottato mio marito e poi me, per una passeggiata serale. A Via di Monte Brianzo, un gruppetto di sette (7 di numero, li ho contati) maschietti de’ sinistra, in golfini e mocassini, circonda Giuliano e inizia a insultarlo. Lui non ha toccato nessuno. Gli rispondeva, questo sì. Li riconosceva, ragazzi cresciuti come lui, a pane e Gramsci, prima che Giuliano sbattesse la porta in faccia al Pci e alle sue seriali menzogne. Vedendo che i sette lo avevano chiuso a cerchio, io mi sono infilata in mezzo a loro. Li ho guardati in faccia ‘sti energumeni in cachemire e con il mio noto tono da mite madamina svenevole, ho detto queste parole e non altre. “Aho, in sette contro uno - ma siete impazziti?” Come spesso succede quando galletti in gruppo si fingono bravi del Quarticciolo (perché abbaiano isterici solo se si sentono protetti, come i cani al guinzaglio) la presenza improvvisa di una femmina stupita dalla bullaggine di ragazzi “per bene”, ha sgonfiato i rivoluzionari da bar sport e li ha riportati in senno. Infatti hanno abbassato toni e capetti, vergognandosi per il tentato stupro di gruppo da me denunciato, e se ne sono andati quatti quatti con la coda tra le gambucce, con l’aria di scolaretti beccati a fumare in bagno dalla prof. È l’unica esperienza del genere che ho fatto in trentun anni di matrimonio (non che mancassero gli insulti per strada - ma se c’ero anch’io, partiva un carnevale d’improperi - miei - che lévati) e ringrazio lo stronzetto vigliaccone mitomane Nigro Filippo, per avermelo riportato alla memoria. Quella autentica. Ma fa’ l’omm, Nigro, ca nun è difficile. Anselma Dell'Olio
P.S. abbiamo riso parecchio sul suddetto incidente in famiglia, e per un po' mi sfottevano come "il bodyguard" di Giuliano.
Non ditelo ai comunisti ma in politica Balzac era sovranista. L'autore della «Commedia umana» mise sempre al primo posto l'interesse nazionale, scrive Dino Cofrancesco, Domenica 17/02/2019, su Il Giornale. Ricorre quest'anno il 220º anniversario della nascita di Honoré de Balzac (1799-1850) e il 190º anniversario del suo primo grande romanzo storico, Les Chouans. Autore di un'opera gigantesca che, con qualche immodestia, volle chiamare Comédie humaine - un grande ciclo di affreschi che raccontavano la storia passata e ancor più quella recente della Francia - sentendosi, non senza qualche ragione, il Dante dell'età moderna, Balzac, legittimista e conservatore sui generis, nella cultura contemporanea viene spesso ricordato per gli elogi che gli riservarono i fondatori del materialismo storico - Karl Marx e Friedrich Engels - e i loro epigoni novecenteschi - da Antonio Gramsci a György Lukacs. Nella lettera a Margaret Harkness del 1888, Engels scrive di aver imparato più da Balzac «sull'ascesa sociale e politica della borghesia che da tutti gli storici professionisti, gli economisti e gli statisti del periodo, messi insieme». «Che politicamente e socialmente egli sia un reazionario - rileva Gramsci -, appare solo dalla parte extra-artistica dei suoi scritti (divagazione, prefazioni, ecc.)». A mio avviso si tratta di una lettura riduttiva. Balzac vede, sì, lucidamente le contraddizioni della borghesia, sul piano culturale, sociale, giuridico ed economico, ma non le vede anche il principe del liberalismo ottocentesco, Alexis de Tocqueville, che considera il regno di Luigi Filippo d'Orléans (1830-1848) una sorta di «compagnia industriale, in cui tutte le operazioni si fanno in vista del beneficio che i soci ne possono ritrarre»? Il giudizio di Balzac sulla borghesia è tagliente e impietoso. È una classe sociale, si legge nel Gabinetto delle antichità (1837), «che offusca con le sue piccole passioni i grandi interessi del paese, incostante nella politica, oggi per il potere e domani contro, che compromette tutto e non salva nulla, che si dispera per il male che ha fatto e che continua a generarlo, non volendo riconoscere la propria meschinità e infastidendo il potere nel momento stesso in cui si dichiara al suo servizio, a un tempo umile e arrogante, pretendendo dal popolo una subordinazione che essa non concede da parte sua alla monarchia, inquieta per la superiorità altrui che vorrebbe portare al proprio livello, come se la grandezza potesse essere piccola, come se il potere potesse esistere senza la forza». Sennonché il riduzionismo sociologico nella lettura dei grandi romanzi di Balzac - da Eugenia Grandet a Storia della grandezza e della decadenza di Cesare Birotteau - e la sottovalutazione gramsciana delle sue divagazioni e prefazioni ci impediscono di cogliere un aspetto cruciale della sua riflessione storica e artistica. Mi riferisco a quel terrore dello sradicamento, della perdita di identità della Francia storica che viene da lontano e che non è solo il prodotto di quella borghesia che «ha strappato il commovente velo sentimentale al rapporto familiare e lo ha ricondotto a un puro rapporto di denaro (...) ha svelato come la brutale manifestazione di forza che la reazione ammira tanto nel medioevo, avesse la sua appropriata integrazione nella più pigra infingardaggine (...) ha dimostrato che cosa possa compiere l'attività dell'uomo» e, in tal modo, «ha compiuto ben altre meraviglie che le piramidi egiziane, acquedotti romani e cattedrali gotiche, ha portato a termine ben altre spedizioni che le migrazioni dei popoli e le crociate» (Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels, 1848). Il pensiero fisso di Balzac, piaccia o non piaccia, è «l'unità e la potenza della nazione» ed esso spiega le apparenti oscillazioni delle sue simpatie politiche, la giovanile ammirazione per Robespierre e il repubblicanesimo, il culto costante della memoria di Napoleone nonché la conversione al legittimismo dell'età matura. Gli attori che, sul grande palcoscenico della storia, non sono stati all'altezza del loro compito, che si sono rivelati impari alla grande politica, che non hanno saputo «impiegare abilmente le passioni degli uomini o delle donne come molle che si fanno muovere a vantaggio dello stato, mettere i meccanismi al loro posto nella grande macchina che chiamiamo governo, e compiacersi a racchiudervi i più indomabili sentimenti come detenuti che ci si diverte a sorvegliare», che non hanno compreso che governare gli uomini «è creare, e, come Dio, mettersi al centro dell'universo» (Les Chouans), sono investiti dal suo disprezzo, si tratti degli aristocratici d'ancien régime, degli uomini del Direttorio o dei fautori di un'impossibile Restaurazione. D'altra parte, non a caso si richiama a Hobbes e a Spinoza come ai pensatori classici che, più degli altri, hanno messo in guardia dalle forze del caos e del disordine sociale e, soprattutto, tesse l'elogio di Caterina de' Medici (1841). La Reggente al trono di Francia, alla quale viene imputata (a torto) la strage degli ugonotti nella Notte di S. Bartolomeo (1572) comprese a cosa avrebbero portato il libero arbitrio, la libertà politica (da non confondersi con la libertà civile) alla Francia del 1840, «un paese esclusivamente dedito agli interessi materiali, senza patriottismo, senza coscienza in cui il potere è senza forza, l'elezione, frutto del libero arbitrio e della libertà politica, innalza solo i mediocri e in cui la forza bruta è divenuta necessaria contro le violenze popolari e la discussione, estesa alle cose futili, stronca ogni azione del corpo politico: in cui il denaro domina tutte le questioni e in cui l'individualismo, prodotto orribile della divisione all'infinito delle eredità che sopprime la famiglia, divorerà tutto, anche la nazione, che l'egoismo abbandonerà un giorno allo straniero». Di qui la necessità del risveglio delle energie nazionali, l'abbandono di ogni rimpianto improduttivo per il passato, l'auspicio dell'«uomo forte» e la coscienza (così estranea ai profeti del passato come i suoi maestri de Bonald e de Maistre) che il sottosviluppo economico non renderà mai forte uno stato - vedi l'utopia saint-simoniana del Medico di campagna. Ma la rinascita della comunità esige (in ciò Balzac è un autentico liberale e non certo un precursore del modernismo della destra radicale) il riconoscimento del valore del pluralismo, nel rispetto profondo di quelle che Maurice Barrès chiamerà «le diverse famiglie spirituali della Francia». Nella «Prefazione» del 1841 a Una tenebrosa vicenda, scrive che «la difesa di un paese è un principio tanto sacro quanto la difesa della regalità» e che quanti avevano seguito Luigi XVIII in esilio erano «altrettanto rispettabili» quanto quelli che avevano difeso la Repubblica contro l'intera Europa.
I Paesi ex comunisti Immagini e simboli dell'eredità passata che non si scorda. Dall'Albania all'ex Ddr, dalla Bulgaria alla Polonia, la storia degli ex regimi resta impressa. Il tour dell'artista Giovanni Vitali che ha raccolto quelle memorie indelebili, scrive Stefano Zurlo, Venerdì 15/02/2019, su Il Giornale. Il lager di Spac, un centinaio di chilometri da Tirana, era uno dei luoghi più cupi di quella prigione a cielo aperto che era l'Albania. Oggi il raro visitatore si aggira spaesato fra quelle celle colme di dolore e di abbandono, poi, all'improvviso, ecco fra tanto squallore un murale fresco e sorprendente: alla base la scritta Fear, paura, subito sopra l'aquila bicipite, segno dell'identità nazionale, è ingabbiata dal pensiero sinistro di Enver Hoxha, il dittatore di quello sciagurato esperimento pararivoluzionario. La testa del tiranno domina il graffito che mescola passato e presente, suggestioni e ossessioni, l'epoca oscura del socialismo e la stagione attuale carica di ansie e speranze. Il pennello gioca con i fantasmi del Dopoguerra. Falce, martello e sogni infranti. Giovanni Vitali, giovane artista lombardo, ha compiuto un viaggio singolarissimo in otto tappe in altrettante capitali europee, un tempo province dell'impero sovietico. Nessuna demonizzazione e nemmeno un briciolo di nostalgia, come pure va di moda oggi fra le popolazioni che sono sprofondate nella povertà più affilata e nell'insicurezza più traballante. Vitali si muove nello spazio, a Est, e nel tempo, riafferrando i bordi della Cortina di ferro, ma senza rimanerne schiacciato. Si va avanti e indietro, con i colori in acrilico, con le foto e con le parole, insomma lungo molti sentieri paralleli, sempre attenti alle sorprese, perché quell'epoca almeno a queste latitudini è finita per sempre, ma non è morta la macchina dell'ideologia che ha generato quegli esperimenti di ingegneria sociale. Otto murales, dunque, realizzati in studio a Milano e poi collocati in altrettanti punti infiammati, otto ferite aperte, di quell'universo. Otto opere e un volume, Infedeli alla linea, appena pubblicato da SilvanaEditoriale, denso di spunti per navigare senza affondare nella corrente della storia. Vitali parte dall'Albania, forse la terra più devastata di quell'Europa orientale così diversa fino al 1989. Ed entra fra le celle di Spac offrendoci, in quella cornice cosi martoriata, il volto spettrale di Hoxha. Potrebbe sembrare una chiusura dei conti ma non è cosi; l'autore riporta in uno dei testi a corredo una frase per niente rassicurante di Madre Teresa che vale come bussola per tutto il lavoro: «I peggiori tiranni non sono Hitler, Stalin, Milosevic. Il nemico più terribile dell'essere umano è l'odio che si annida nel suo cuore». Nessuno può osservare quella tragedia come si osserva un paesaggio dal balcone. E non solo per la pietà che ispirano i drammi infiniti che si sono susseguiti sotto i regimi di Tito, Hoxha, Ceausescu e via elencando. No, è che le capriole della storia e dell'animo possono far tornare quel che sembrava sepolto per sempre. Non siamo al riparo da nuovi guasti e orrori. Il pennello e la macchina fotografica di Vitali ce lo ricordano. E però questo pellegrinaggio senza precedenti ci restituisce con tutto il suo fascino tenebroso e sbrecciato quel mondo ormai naufragato. Quei condomini immani, senza orizzonte, retaggio di un impero che non c'è più. Le statue di Lenin incombenti. Le piazze disadorne. Le case del popolo con la loro iconografia magniloquente e didascalica. I monumenti grandiosi, ossequienti a un potere che pareva eterno ed è evaporato contro ogni previsione. Un tour che assomiglia a un ghiotto documentario inedito in bianco e nero, una corsa a ritroso sulla macchina del tempo. Ma poi, a togliere certezze e seminare dubbi, ecco le contaminazioni fra la grande storia e il piccolo pennello arrivato con la sua curiosità e la sua sensibilità da Milano. In Bulgaria l'artista ci porta in vetta a una montagna, a quota 1500 metri, per farci contemplare il Buzludzha Monument, un colosso di cemento armato abbandonato al suo destino nel 1991, dieci anni dopo la sua arrogante edificazione. Doveva essere un centro congressi, in un posto assurdo ma simbolico, perché qui nel 1891 Dimitar Blagoev aveva fondato il Partito Socialdemocratico bulgaro, «germoglio del successivo Partito Comunista». All'ingresso qualcuno ha cercato di celebrare frettolosamente il funerale a quella follia, scrivendo con la vernice parole scacciapaure: «Forget your past», dimentica il tuo passato. Come se si potesse cancellare o peggio rimuovere un trauma lungo almeno due generazioni. Vitali arriva a contemplare quel sacrario saturo di malinconia e non trova più nulla. Una mano ha eliminato la raccomandazione. E allora d'istinto riscrive: «Never forget your past», non dimenticare mai il tuo passato. Perché la torre di Babele può sempre rinascere ed è vecchia come la storia dell'uomo. Cosi da Tirana a Sofia, da Budapest e Praga, zigzagando fra alveari di edilizia socialista e memorie sbrindellate, a tratti putrefatte, di quel cosmo tramontato con tutta la sua imponente retorica. Come documentano le palestre, i caffè, persino gli immancabili bassorilievi di Lenin che sono sparsi qua e là in quella necropoli contemporanea che è Vogelsang, la città modello, l'avamposto sovietico in quella che era l'altra Germania, la Ddr. Tre interviste a Annalia Guglielmi, Toni Capuozzo e Luigi Geninazzi aiutano il lettore nel suo percorso. E Geninazzi, giornalista e scrittore di lungo corso, riporta la fulminate sintesi tracciatagli a suo tempo da Lech Walesa, ex leader di Solidarnosc, per spiegare l'inspiegabile: «Io facevo sempre le solite cose, io mi battevo per il sindacato per difendere gli operai, però ci trovavamo in 10 colleghi... poi nel 1980 ci siamo trovati in 10 milioni, non in 10. Era il fattore Wojtyla».
I comunisti sono ignoranti per scelta. E hanno rovinato l’Italia. Domenica, 29, luglio, 2018 Il Giornale. Sono Andrea Pasini un giovane imprenditore di Trezzano Sul Naviglio, non mi vergogno di dire: anzi ne sono orgoglioso, che i comunisti sono gli unici colpevoli della rovina del nostro meraviglioso paese e che hanno plagiato volontariamente tramite la scuola in maniera subdola e meschina milioni di giovani italiani inculcando nella loro mente l’ideologia infame comunista e l’odio verso le istituzioni. I comunisti sono ignoranti per scelta e per nostra fortuna non conquisteranno mai il mondo proprio per questo loro limite mentale. Da Marx a Lenin il programma era chiaro: “ingannare le masse perchè facciano ciò che l’intellighenzia comanda”. Lo scrivevano in modo più raffinato e meno diretto, ma questo è il fondamento scientifico con cui il comunismo voleva conquistare il mondo. Lavaggio del cervello alla massa perchè una bugia ben piazzata uccide più di mille spade, queste erano le parole di Lenin. La rivoluzione sarebbe stata possibile solo ingannando il popolo, il fine giustifica i mezzi. Da Togliatti, Gramsci a seguire i comunisti in Italia hanno tentato il lavaggio del cervello alle masse occupando tutti gli organi di informazione, tutte le università, tutte le case editrici, tutti i sindacati e qua vorrei stendere un velo pietoso su certi sindacati italiani. Hanno raccontato agli italiani una realtà che non esiste, inventata, mistificata, deformata ad arte per farli arrabbiare e farli ribellare. Hanno formato così intere generazioni di ignoranti puri, che ora ci ritroviamo nella scuola a fare gli insegnanti e, peggio ancora, nelle università. Non hanno ottenuto nessuna rivoluzione e questo anche grazie all’intervento attivo della Chiesa quella vera, quella che difendeva i Cristiani non certo come sta facendo l’attuale gestita da Papa Bergoglio cha ha scelto di inginocchiarsi diventando di fatto schiava dei poteri forti di sinistra e dell’Islam entrambi dichiaratamente anti Cristiani. Grazie anche agli Stati Uniti il comunismo non ha ottenuto nessuna rivoluzione, ma è riuscito a portare solo terrorismo, stragi e il disastro culturale che ancora oggi purtroppo per il nostro paese è ancora presente e vivo. Sono stati ingannati gli italiani negli anni ’70, quando un manipolo di femministe comuniste ha distribuito notizie assolutamente inventate, false sugli aborti clandestini così da indurli a votare a favore della legge nazista 194; sono stati ingannati gli italiani dai sindacati che hanno usato i lavoratori solo per ricevere compensi personali dalla classe politica e lasciando i lavoratori a morire di fame e di incidenti sul lavoro; sono stati ingannati gli italiani da lobby potentissime e comuniste di omosessuali che mistificando la realtà vogliono che i loro capricci diventino diritti; sono stati ingannati gli italiani sulla nostra storia nascondendo i crimini vergognosi e spaventosi che i comunisti hanno perpetrato per anni contro gli italiani; sono stati, e continuano ad essere, ingannati gli italiani per ciò che riguarda oggi il fenomeno dei migranti perché per i comunisti questa gente rappresenta solo ed unicamente un enorme business che hanno gestito per anni con le loro cooperative rosse e che ora grazie al buon senso del Ministro Matteo Salvini vedono piano piano sciogliersi come neve al sole. Ora il plotone dei bugiardi comunisti spara a zero sul governo del fare, ed in particolare sulla Lega, inventando di sana pianta ogni sorta di falsità. Ricordiamo che L’Italia possiede una specie di ben poco commendevole primato” mondiale: avere avuto il più “grande” e “influente” partito comunista del mondo. Fatte salve le debite proporzioni in relazione e ambito del numero dei votanti, in nessun altro Paese del mondo l’ideologia di sinistra ha avuto tanto seguito elettorale, tanto successo, tanta reverenza, tanto stabile e duraturo e pervasivo potere. Cioè senza “colpi di stato”, senza vera forza militare, senza “aiuto fraterno” da parte di avide potenze straniere, senza sommosse popolari. A parte il fatto che le sommosse popolari sono generalmente avvenute “dopo”. Raramente il “popolo” ha deciso di propria iniziativa le sorti di una Società. Il popolo è “bue”. E le rivoluzioni nascono nella mente dei borghesi. Che poi, dopo, utilizzano il “popolo” come carne da cannone per raggiungere i loro premeditati obiettivi. Paradossale: una “dittatura” stabilita tramite libere e reiterate scelte elettorali. Ancora più paradossale: una “dittatura” insediata in un Paese inserito almeno stando all’apparenza in un sistema di alleanze tra Paesi “liberi”, dove tale “dittatura” risultava politicamente, socialmente, storicamente, incompatibile. Dove, addirittura, tale “dittatura” NON avrebbe dovuto attecchire e svilupparsi proprio. Ma tant’è. Visto da un punto di osservazione generico dell’Occidente, potrebbe essere un caso di “eterogenesi dei fini”. Ma sì: nella generale follia umana, passa anche questo. Fatto sta che oggi in Italia il comunismo ovvero il pensiero di “sinistra” fallito e morente sta tentando per nostra fortuna senza successo di trascinare nella propria decomposizione e rovina il resto “sano” della Società che tanto a lungo ha condizionato, e per compiere cotanta lodevole opera si avvale della “collaborazione” anche degli islamici “veri” islamisti che ha accolto quando era al governo a braccia aperte incurante della assoluta incompatibilità di praticamente tutto ciò che rappresenta la “sinistra”, con l’islam politico-religioso salvo una unica cosa: il condiviso odio per la libertà individuale. Forse tentare di comprendere le cause della degenerazione della nostra Società potrebbe aiutarci a tentare di porvi rimedio sia per il presente che sopratutto per il futuro. Le economie forti danno origine al pensiero debole, che è poi una delle principali cause della loro rovina. Le ideologie di sinistra sono nate in ambito di un sistema economico “forte”. E sono state il “pensiero debole”. E mi pare di scorgere una sorta di perverso nesso eziologico tra la “affezione endogena” prodotta dalla “sinistra” e la “infezione esogena” portata dall’islam vero” che sinergicamente agiscono per il male sociale. La strada della ripresa passa attraverso la riconsiderazione, rivalutazione e sviluppo dei concetti di “libertà onore patria” concetti, guarda caso, generalmente poco familiari alla “sinistra”, e pare ancor meno all’islam che possono rappresentare punti di riferimento per cittadini italiani (o per quelli che aspirassero a diventarlo) bene intenzionati e liberi da condizionamenti preconcetti. Ciò che purtroppo è rimasto oggi sono solo macerie. Nei giovani soprattutto che non sanno più ragionare perché la loro mente è oscurata da notizie false, contraddittorie, inesistenti e loro non hanno nemmeno la forza e la volontà di verificare le informazioni che arrivano da certi giornalisti e da certi professori ignoranti ed ingannatori di sinistra. Il mio appello è di ricostruire. Mi rivolgo ai docenti, agli editori, ai giornalisti di buona volontà ed ai politici con la mente libera da qualsiasi ideologia preconcetta che hanno il desiderio di lasciarsi illuminare dalla verità perché la società nostra si riappropri della luce della ragione critica, quella che i comunisti hanno tentato di abbattere con tutte le loro forze. Solo così potremo definitivamente sconfiggere questa vera e propria mentalità comunista che rappresenta un cancro nella nostra società e che abbiamo il dovere di combattere, estirpandolo alla radice per salvare il presente ma sopratutto per garantire un futuro libero alle nuove generazioni di italiani. Andrea Pasini Trezzano Sul Naviglio
Vittorio Feltri il 6 Giugno 2014 su Libero Quotidiano: maledetti comunisti, avete reso l'Italia un inferno. Maledetti comunisti, avete rovinato l'Italia. E' l'anatema di Vittorio Feltri su quel quarto di italiani che per anni, secondo il fondatore di Libero, è stato la zavorra del Paese. Un Paese, dicono i dati economici, sempre più in calo tra quelli industriali, superato anche dal Brasile. "E la marcia del gambero ci porterà ancora più in basso in futuro", è la profezia di Feltri sul Giornale. Il perché è presto detto: i nostri imprenditori "non sono stupidi" ma soffrono le conseguenze di una "campagna anti-capitalistica iniziata quarant'anni fa e portata avanti con tenacia fino ad oggi da coloro i quali consideravano il denaro lo sterco del demonio oppure, peggio ancora, uno strumento per opprimere il proletariato". In una parola: la sinistra italiana. Dalla politica ai sindacati rossi - "Gli stessi comunisti si vergognano di esserlo stati - prosegue Feltri - ma la mentalità pauperistica è rimasta e non ha cessato di provocare danni". Risultato: in Italia è impossibile fare impresa o artigianato, aprire un'azienda, essere liberi professionisti senza essere considerati "sfruttatori, evasori fiscali se non addirittura ladri". E anche lo Stato, influenzato da alcuni partiti di ispirazione marxista, non aiuta con tutta una serie di vincoli burocratici, lacci e lacciuoli. E i sindacati "hanno completato l'opera, contribuendo ad avvelenare i rapporti tra datore di lavoro e dipendenti", trasformando le fabbriche in "luoghi d'odio e di lotta violenta", per "umiliare i padroni e il personale non ideologizzato". Il combinato disposto di questo attacco continuo da parte di politica e sindacati di sinistra da un lato e crisi economica globale dall'altro è la bandiera bianca alzata da molti imprenditori italiani, costretti a chiudere bottega. L'Italia, dunque, è "un inferno" per i volenterosi. "Serve una rivoluzione culturale opposta a quella di Mao - è l'appello conclusivo di Feltri -, per rieducare gli italiani. Finora siamo stati bravi soltanto a distruggere le fabbriche, è assurdo avere la velleità che dal cimitero industriale si ricavino stipendi, benessere e stabilità sociale".
Nina non aver paura di "uccidere" Stalin. La Berberova racconta il processo dove il primo dissidente sovietico fece a pezzi il comunismo, scrive Alessandro Gnocchi, Venerdì 18/01/2019, su "Il Giornale". Il legal thriller più bello? Il caso Kravcenko di Nina Berberova. Direte voi: è un documento storico, non un legal thriller. Vero. Però gli elementi ci sono tutti: abbiamo un assassino (Stalin), un eroe (il dissidente Kravcenko), una sfilata di testimoni, avvocati battaglieri, un saggio presidente del tribunale, un pubblico delle grandi occasioni (Aragon, Sartre e tanti altri scrittori). Poi c'è lei. Nina Berberova, nata a San Pietroburgo nel 1901 in una famiglia di altissimi dignitari dello zar, nel 1922 fugge a Berlino e nel 1925 approda Parigi dove vivrà fino al 1950. Dopo questa data, Nina sceglie come patria adottiva gli Stati Uniti. Morirà nel 1993. Autrice di una biografia di Cajkovskij in cui per la prima volta si parlava della omosessualità del compositore (Il ragazzo di vetro. Cajkovskij, Guanda), la Berberova si è cimentata nel romanzo e nella poesia. La nuova edizione de Il caso Kravcenko (introduzione di Marco Belpoliti, Guanda, pagg. 296, euro 18,50) spiega il motivo per cui Nina è considerata una delle grandi autrici del XX secolo. Il resoconto del processo, pubblicato prima su rivista e poi in volume, è strabiliante per concisione, precisione e finezza nel cogliere i dettagli (una risata soffocata, una voce dal pubblico, un gesto del procuratore). La lettura è elettrizzante. Ma chi era Viktor Kravcenko? È stato uno dei primissimi dissidenti. Durante la guerra viene assegnato alla ricerca di risorse militari. In altre parole: viene inviato negli Usa col compito di procurare materiale da spedire nell'Unione sovietica (i due Paesi erano alleati). Nel 1944 però diserta e chiede asilo politico agli Stati Uniti. Nel 1946 pubblica le sue memorie, che usciranno in Italia due anni dopo col titolo Ho scelto la libertà (Longanesi). Il contenuto è esplosivo. Kravcenko racconta le conseguenze tragiche della collettivizzazione dei campi in Ucraina, ricostruisce il clima di terrore provocato dalle purghe staliniane, mostra un Paese precipitato nella miseria materiale e morale. I comunisti europei iniziano una campagna di diffamazione contro Kravcenko. Si distingue, tra gli altri, il settimanale politico-letterario Les Lettres françaises con una serie di articoli firmati con uno pseudonimo. Tra le accuse rivolte al dissidente, c'è anche quella di non aver scritto il libro e di essere espressione dei menscevichi fuggiti nel continente americano. A questo punto, Kravcenko fa partire una querela per diffamazione che culmina col processo celebrato a Parigi tra gennaio e marzo 1949. Il processo è scioccante. I testimoni della difesa si scoprono, uno a uno, come mentitori imboccati direttamente da Mosca. I testimoni dell'accusa raccontano storie raccapriccianti di morte e povertà. Il momento clou è la deposizione allucinante di Margarete Buber-Neumann. Sposata con Heinz Neumann, membro del Politbüro e parlamentare del Reichstag, rimane vedova al termine della fuga in Russia per evitare le persecuzioni di Hitler. A Mosca Neumann viene arrestato e fucilato come elemento sospetto. Margarete è spedita in un Gulag kazako. Nel 1940, in seguito agli accordi tra Hitler e Stalin, viene restituita alla Germania. Ma essendo comunista finisce subito nel lager di Ravensbrück. In seguito, proprio nel 1949, pubblicherà le sue memorie: Prigioniera di Stalin e Hitler (Il Mulino). Il tribunale non lascia scampo. Le menzogne sovietiche sono smontate, anzi: sbriciolate. Presto fu chiaro che i veri imputati erano la Storia e il comunismo. Dopo il processo Kravcenko c'era poco da gingillarsi con il socialismo reale. Chiunque fosse dotato di occhi e orecchie non tappate da cerume ideologico non poteva non sapere. La propaganda comunista era spazzatura oltre il limite della decenza: questo fu il risultato ottenuto con la decisione di far testimoniare automi teleguidati dal Cremlino. Nell'aula passò gran parte dell'intellighenzia francese ma per buttare giù il muro del silenzio (e della complicità morale) ci vorranno ancora decenni, quando nel 1973 arriva in Europa il microfilm di Arcipelago Gulag, opera monumentale del futuro premio Nobel per la letteratura, il grande Aleksandr Solzenicyn. L'anno successivo Solzenicyn venne condotto in Germania Ovest e privato della cittadinanza: è esiliato. In Italia ci fu qualcuno (Giorgio Napolitano) che giudicò positiva la decisione sovietica. In Francia, Arcipelago Gulag scatena una tempesta e un regolamento di conti (intellettuali). In Italia scrittori e artisti fingono che sia successo nulla. E questo atteggiamento offre la misura esatta del pantano culturale in cui siamo vissuti e ancora viviamo.
Il sogno di Rosa Luxemburg: il comunismo senza il potere. Cento anni fa l’uccisione della leader e pensatrice Rosa Luxemburg, scrive Paolo Delgado il 17 gennaio 2019 su "Il Dubbio". Il sogno di una rivoluzione mondiale che, dopo Mosca e san Pietroburgo, conquistasse anche le capitali dell’occidente spezzando l’isolamento dell’Unione sovietica si spense a metà del gennaio 1919. “L’ordine regna a Berlino” aveva scritto il 14 gennaio su Die Rote Fahne, l’organo della Kpd, il neonato partito comunista, Rosa Luxemburg, commentando la sconfitta della rivolta spartachista iniziata il 4 gennaio e stroncata dopo una settimana dai Freikorps arruolati dal governo social- democratico. ‘ L’insurrezione è stata sconfitta. Forse non era matura né organizzata. Ma dalla sconfitta di oggi fiorirà la vittoria futura’, proseguiva l’ultimo articolo della più brillante dirigente comunista dell’epoca, l’unica ad aver ipotizzato una strategia rivoluzionaria alternativa a quella del partito militante a ranghi serrati di Lenin, che pure la stimava moltissimo. Non ebbe il tempo di provarci di nuovo. La sera del 15 gennaio, a rivolta ormai domata, lei e Liebknecht furono catturati dai miliziani del Freikorp guidato dal capitano Waldemar Pabst. Furono interrogati, malmenati, poi nella notte Pabst diede ordine di ucciderli. Rosa fu caricata su una macchina, colpita col calcio del fucile alla testa, poi giustiziata con un colpo alla testa, infine il corpo fu gettato nel canale Landwher. Fu ritrovato solo il primo giugno. Libeknecht fu fucilati nel Tiergarten, il parco al centro di Berlino e il corpo fu scaricato alla Morgue. L’insurrezione spartachista in realtà non fu affatto una rivolta organizzata e neppure realmente guidata e diretta. I dirigenti del Kpd, nato appena quattro giorni prima e nel quale era confluita la ‘ Lega di Spartaco’, fondata nell’agosto 1914 dopo che i socialdemocratici avevano votato i crediti di guerra dalla stessa Rosa, furono colti di sorpresa dalla rivolta e ne furono in realtà trascinati. La Luxemburg come l’uomo di raccordo tra i comunisti tedeschi e i bolscevichi russi, Karl Radek non credeva alla possibilità di un’insurrezione che si ponesse per obiettivo la presa del potere, ma quando la base procedette da sola all’occupazione delle redazioni dei principali giornali e della stazione, poi delle tipografie non si tirò indietro. Non era la prima volta che la base forzava la mano ai dirigenti. Quando al congresso fondativo del partito i leaders si erano schierati a favore della partecipazione alle imminenti elezioni per l’Assemblea costituente erano stati i delegati a imporre la scelta opposta.
A innescare la miccia era stata la decisione del governo di destituire il capo della polizia di Berlino Emil Eichhorn, militante della Uspd, il partito della sinistra che si poneva a metà strada tra i socialdemocratici arrivati al governo con la rivoluzione di novembre e i comunisti vicini a Berlino. Eichhorn aveva svolto un ruolo determinate nella rivoluzione di novembre a Berlino, quella che aveva rovesciato il kaiser Guglielmo II e posto fine sia alla monarchia che alla guerra. Ma i socialdemocratici, che erano arrivati al governo proprio con l’impegno di frenare la rivoluzione bolscevica Echhorn era del tutto inaffidabile. Le manifestazioni di protesta convocate dal Kpd per il 4 gennaio andarono molto oltre la partecipazione prevista dal partito. Scesero in piazza non solo molti militanti dell’estrema sinistra e dell’Uspd ma anche molti socialdemocratici. Il giorno dopo centinaia di migliaia di manifestanti occuparono il centro di Berlino armati. Il gruppo dirigente del Kpd fu di fatto travolto dagli eventi, non riuscì a prendere una decisione sul cosa fare, rimase di nuovo spiazzato quando i manifestanti occuparono le redazioni dei giornali anti- spartachisti. Liebknecht si schierò a favore di una vera insurrezione, chiedendo non più solo il reintegro di Echhorn ma le dimissioni del governo socialdemocratico. Rosa Luxemburg pur temendo il disastro che poi effettivamente si realizzò. In quello stesso giorno il presidente socialdemocratico Ebert decise di chiedere il soccorso dei corpi franchi, i Freikorps di estrema destra che avevano mantenuto buona parte dell’equipaggiamento militare e la cui superiorità in termini di armamento era decisiva. A guidare la repressione sarebbe stato l’uomo forte del governo, Gustav Noske, il ministro della Difesa che già si occupava di mantenere i contatti con l’esercito e con i Freikorps. "Se qualcuno deve fare il macellaio, io non mi tirerò indietro", commentò il giorno stesso dell’incarico. Non era solo azzardo estremo quello dei leader che puntavano sull’insurrezione, né quello di Rosa Luxemburg che si fece convincere a propria volta. Non avrebbe potuto fare altrimenti. La sua stessa fede, ribadita anche nell’ultimo articolo, nelle masse, le rendeva impossibile non seguire una rivolta che partiva dal basso, pur cogliendone con lucidità massima i rischi estremi. I comunisti contavano sull’appoggio dei soldati, in particolare sulla Divisione della marina del popolo, che era già stata elemento chiave nella rivoluzione di novembre. Le informazioni che erano arrivate ai dirigenti spartachisti, poi rivelatesi tragicamente infondate, assicuravano che i marinai erano pronti a schierarsi come avevano fatto due mesi prima. La Divisione decise invece di restare neutrale e il grosso delle truppe di stanza nella capitale confermò la fedeltà al governo. Il 7 gennaio, con la città paralizzata dallo sciopero generale, Ebert e l’Uspd avviarono dei colloqui che naufragarono nel giro di poche ore. Il giorno dopo il governo fece intervenire l’esercito. Il 12 gennaio entrarono a Berlino i Freikorps e repressero la rivolta nel sangue. Nonostante le insistenze dei loro compagni la Luxemburg e Karl Liebknecht non vollero abbandonare la città. Si limitarono a nascondersi ma i Freikorps li rintracciarono rapidamente. Quelle giornate di sangue cambiarono tutto. Da quel momento l’Unione sovietica passò dalla scommessa sulla imminente rivoluzione mondiale, a partire proprio dalla Germania, alla consapevolezza dell’isolamento e dell’assedio. La Repubblica di Weimar nacque sotto la peggior stella possibile. Con Rosa Luxemburg scomparve la più lucida dirigente che, pur vicina ai bolscevichi, immaginava un modello diverso da quello del partito sovietico. La scacchiera sulla quale tutti si sarebbero mossi nei decenni successivi fu definita allora.
"Io come un automa. Così sparai a Togliatti". Le memorie di Antonio Pallante: nel '48 tentò di uccidere il leader comunista, scrive Stefano Zurlo, Martedì 15/01/2019, su "Il Giornale". «Tremavo. Tremavo, anche se non me ne accorgevo, e pensavo solo a portare a termine l'impresa. Mi ero votato a quel compito: uccidere il segretario del Partito comunista Palmiro Togliatti, il nemico dell'Italia. Il resto non contava, ancora di più quella mattina. Era il 14 luglio 1948, giornata caldissima e anniversario della presa della Bastiglia, un caso naturalmente, ma si sa le coincidenze sono terreno fertile per giornalisti, storici, dietrologi, tutti pronti ad accreditare le teorie più ardite e fantasiose e a sviluppare i collegamenti più astrusi. Ma questo è quello che è successo dopo, nei settant'anni successivi, quando hanno cercato di farmi passare per la pedina di non so bene quale complotto. In quelle ore, appena uscito dalla pensioncina in cui alloggiavo a Roma, in zona Termini, il mio unico problema era Togliatti. L'avevo visto il giorno prima in Parlamento e avevo capito che spesso e volentieri non usciva dal portone principale, ma da una porticina laterale che dava su via della Missione, dove l'attendeva lo chaffeur e dove in generale stazionavano gli autisti dei parlamentari. L'Italia è sempre stata un Paese curioso: avevo notato, con una certa soddisfazione, che l'ingresso di Montecitorio era presidiato dai carabinieri, ma bastava girare l'angolo e in via della Missione non c'era nessun militare. In ogni caso, avevo messo in conto qualunque conclusione: l'arresto, praticamente sicuro, e una lunga detenzione; peggio, la morte. Comunque, la fine della vita come l'avevo vissuta fino ad allora: avevo 25 anni, non ancora compiuti, ed ero studente di legge all'università di Catania. In fondo, il futuro era tutto davanti a me, ma io, in nome di un ideale superiore, ero pronto a cacciarlo via con un bel calcio. Avevo indossato la giacca e nella cinta dei pantaloni avevo nascosto la pistola, la Hopkins & Allen calibro 38 Special acquistata al mercato nero di Catania. Saranno state le 11.30. Dalla porticina a vetri vedo Togliatti in compagnia di Nilde Iotti. Camminano a braccetto, come due fidanzati qualunque, anche se la loro liaison ha scandalizzato i compagni di mezza Italia. Stanno per uscire. Mi apposto, lui le cede signorilmente il passo. Sono fuori. Scendono i gradini. Lei davanti, lui dietro. I ricordi si fanno sfuocati, pallidi, imprecisi. Sono un automa, un automa che spara. No, non mi ricordo la successione esatta dei colpi, l'ho letta sui resoconti dei giornali e mi ci ritrovo con fatica. Un proiettile, forse il primo, sfiora l'obiettivo e colpisce un manifesto pubblicitario, il secondo centra Togliatti alla nuca. Potrebbe essere il colpo fatale, ma non lo sarà perché la pallottola si schiaccia contro l'osso occipitale; lui si volta, come per guardare il suo aggressore, e io faccio fuoco ancora, da un paio di metri di distanza. Sono concentrato e non ho paura di sbagliare e prendere la Iotti che pure è al suo fianco. Un proiettile raggiunge il polmone, l'altro, il quarto, una costola. Anche se per me, nella mia percezione, l'ultimo colpo esploso è quello alla testa. Togliatti vacilla, cade per terra, la Iotti urla: Hanno ucciso Togliatti, hanno ucciso Togliatti. Anch'io mi fermo e lascio cadere la rivoltella. Il quinto colpo resta nel tamburo. Non ce n'è bisogno. Il capo dei comunisti italiani non c'è più, almeno nella mia mente. Ma non ho di riflettere e pensare. La gente grida e scappa, io resto modo immobile. Attimi di sospensione, mentre gli onorevoli cominciano a uscire di corsa dalla Camera. Mi sento afferrare per un braccio: Vieni con me, mi dice il capitano Perenze che ha sentito gli spari mentre era sulla sua camionetta in servizio intorno a Montecitorio. Salgo sulla jeep, accanto a lui. Appena in tempo. Cinque minuti, non di più, e mi avrebbero linciato sul posto. La prontezza di riflessi di Antonio Perenze, che due anni dopo sarà il protagonista della misteriosa uccisione del bandito Giuliano, mi ha salvato la vita.»
· Sindacati: «Il cambiamento siamo noi».
La Triplice torna in piazza e sfida il governo: «Il cambiamento siamo noi». Cgil, Cisl e Uil si danno appuntamento in Piazza San Giovanni per ridare “Futuro al Lavoro”, scrive il 9 Febbraio 2019 Il Dubbio. «A chi va in giro ad ascoltare chi protesta diciamo di ascoltare questa piazza e aprano un confronto. Noi siamo il cambiamento. Qui chiediamo il cambiamento e la giustizia sociale». Il battesimo della piazza di Maurizio Landini, da segretario della Cgil, avviene nel luogo simbolo delle manifestazioni sindacali: Piazza San Giovanni, a Roma. È qui che Cgil, Cisl e Uil, di nuovo unite, si danno appuntamento alla fine di un corteo – partito da Piazza della Repubblica – scandito dallo slogan “Futuro al lavoro”. Le bandiere della “Triplice” riempiono la visuale dal palco, dove Maurizio Landini, Annamaria Furlan e Carmelo Barbagallo si alternano al microfono. «La domanda di cambiamento che arriva da questa piazza la rivolgiamo anche fuori dall’Italia», dice il neo segretario della Cgil, «tutti uniti dobbiamo andare in Europa per costruire un’altra Europa, quella dei diritti e del lavoro», spiega Landini, sottolineando l’importanza della manifestazione per il mondo del lavoro: «Oggi siamo qui unitariamente. Questa è una grande cosa, è una grande novità». Un’unità da cercare anche oltre i confini italiani. «Come in Italia dobbiamo unire tutti i lavoratori e i sindacati in tutta Europa. Dobbiamo avere in questa fase il coraggio di osare», scandisce l’ex capo dei metalmeccanici. Landini invita i lavoratori a diffidare di chi semplifica la realtà, diffondendo paura, quando non riesce ad affrontare la complessità: «Se incontrate qualcuno che dice di avere una soluzione per tutto e fa tutto da solo, dategli la mano e cambiate strada perché vi sta prendendo in giro», dice. «Nella legge di stabilità i salari nel pubblico impiego aumentano di 14 euro lordi nei prossimi tre anni: non si rendono conto che così offendi te stesso e quelli che lavorano. Investire sul lavoro pubblico significa non solo dare un riconoscimento salariale ma anche intervenire su una idea di crescita del paese». Non mancano i riferimenti al reddito di cittadinanza «Noi non siamo in piazza contro la povertà ma abbiamo presentato una piattaforma precisa su cui avviare un dialogo», incalza il leader della Cgil. E sui 6mila navigator in arrivo per il reddito di cittadinanza incalza: «È un capolavoro, 6 mila lavoratori che saranno assunti con un contratto di collaborazione per reclutare altri lavoratori che a loro volta saranno precari». C’è spazio anche per un passaggio sui migranti. «Proporrei di fare un corso di formazione a chi pensa che siamo invasi», afferma. Infine Landini si rivolge direttamente al governo in questi termini: «Io credo che dopo questa giornata, se il governo ha un minimo di saggezza, dovrebbe aprire un tavolo di trattativa, ma se non dovesse succedere sappia noi ci non fermeremo e andremo avanti finché non porteremo a casa quello che abbiamo chiesto». Il monito viene ribadito poco dopo anche dalla segretaria della Cisl Annamaria Furlan, che dal palco scandisce: «Il governo cambi rotta, siamo a un passo dalla recessione economica, la produzione industriale cala, lo spread aumenta, servono interventi per ritornare a crescere, a cominciare dalle infrastrutture. Esca da realtà virtuale e si cali nella realtà del lavoro». Per il capo della Uil, Carmelo Barbagallo, invece, «il governo non può essere autoreferenziale perché l’economia sta andando male e un governo del cambiamento non può cambiare il paese in peggio. Si confronti con i sindacati, noi siamo pronti a fare la nostra parte». La Triplice è tornata.
Sindacati in piazza. E Landini (sì, proprio lui) dice: “Siamo il cambiamento”, scrive Adolfo Spezzaferro su ilprimatonazionale.it il 9 Febbraio 2019. Cgil, Cisl e Uil uniti contro il governo Lega-M5S. I sindacati sono scesi in piazza a Roma sotto lo slogan di “Futuro al lavoro”, per una manifestazione nazionale unitaria a sostegno delle proposte su crescita, sviluppo, lavoro, pensioni e fisco e soprattutto per chiedere all’esecutivo gialloverde di cambiare la politica economica.
Landini: “Vogliamo la giustizia sociale”. “Alle persone che governano questo Paese e vanno ad incontrare chi protesta in altri Paesi diciamo che se hanno un briciolo di intelligenza ascoltino questa piazza: noi siamo il cambiamento, noi vogliamo la giustizia sociale”. Così il neosegretario della Cgil, il compagno Maurizio Landini, dal consueto palco in piazza S. Giovanni critica i 5 Stelle per aver incontrato i gilet gialli in Francia. Per Landini (alla sua prima manifestazione unitaria da leader della Cgil), “se il governo ha un briciolo di saggezza deve aprire il tavolo con i sindacati. Se non dovesse succedere deve sapere che noi non ci fermeremo qui e andremo avanti finché non porteremo a casa quello che abbiamo chiesto, risultati”.
Barbagallo: “Governo ci convochi o mobilitazione va avanti”. Un po’ più morbido il segretario Uil Carmelo Barbagallo: “Non siamo contro il governo ma gli chiediamo di convocarci o la mobilitazione proseguirà. Con l’unità faremo stare zitti coloro che non vedono che c’è un Paese che deve crescere”.
Furlan: “Esecutivo esca dalla realtà virtuale”. “Il governo esca dalla realtà virtuale e si cali nel mondo reale, del lavoro”, ha chiesto Annamaria Furlan, segretario Cisl, dal corteo della manifestazione, sostenendo che “il governo deve cambiare la linea economica. L’Italia è ad un passo dalla recessione economica. Il governo deve cambiare assolutamente rotta. Si confronti finalmente con i sindacati, perché dopo tanti anni di sacrifici degli italiani, non possiamo permetterci che il Paese torni a decrescere. Nessuno da solo riesce a risolvere problemi così complessi”.
Di Maio a Landini: “Contro quota 100 protestate, contro la Fornero non l’avete fatto”. Alla manifestazione dei sindacati ha risposto a distanza il vicepremier Luigi Di Maio: “E’ un po’ singolare vedere che si scende in piazza contro quota 100 e non si è scesi in piazza quando si è fatta la legge Fornero”. “Oggi i sindacati scendono in piazza e attaccano il governo dicendogli "uscite dalla realtà virtuale". Io dico – ha replicato Di Maio – che la realtà virtuale era quella dei governi precedenti che hanno massacrato tutto quello che gli italiani avevano sull’altare dell’austerity: risparmi, lavoro, imprese. Comunque mi auguro che Landini voglia sostenere la mia proposta di taglio delle pensioni d’oro degli ex sindacalisti”. A manifestare con le tre sigle sindacali c’era anche una delegazione di industriali, quella di Confindustria Romagna, che “contesta le politiche adottate dal governo nel decreto semplificazioni” ed in particolare lo stop alle trivelle (fortemente voluto dai 5 Stelle): un “suicidio industriale”, per il presidente, Paolo Maggioli. Alla manifestazione, che ha visto la partecipazione di decine di migliaia di tesserati, oltre ai due candidati alla segreteria Pd, Maurizio Martina (uscente) e Nicola Zingaretti (dato per vincente), sono rispuntati fuori personaggi “sinistri” come Massimo D’Alema, Sergio Cofferati e Guglielmo Epifani. Segno che se tanti italiani stanno col governo gialloverde, la sinistra sta con i sindacati. E Landini, comunista, marxista ex leader dei metalmeccanici Fiom, che parla di cambiamento fa un po’ sorridere. Adolfo Spezzaferro
Legge Fornero, Mario Monti: "I sindacati fecero solo due ore simboliche di sciopero". M5S: "Una vergogna assoluta", scrive Silenzi e Falsità il 10 febbraio 2019. Il Movimento 5 Stelle ha rilanciato su Facebook un video in cui Mario Monti racconta cosa fecero i sindacati nel “gelido dicembre 2011”, quando il governo da lui guidato presentò per decreto legge la riforma Fornero sulle pensioni. L’ex premier afferma: “L’abbiamo presentata, più che discussa, con i leader delle federazioni sindacali, che poi non hanno colto quello per fare una specie di rivolta sociale”. E ancora: “Ci sono state, qualche settimana dopo, due ore simboliche di sciopero ma non c’è nessun Paese in cui una riforma così forte delle pensioni sia stata adottata così semplicemente dal punto di vista politico”. I 5Stelle hanno commentato così: “Avete visto ieri i sindacati scendere in piazza contro reddito di cittadinanza e quota 100? Si sono schierati contro milioni di italiani in difficoltà, perfettamente in linea con la posizione di Confindustria”. “Nessuno si ricorda, però,” sottolineano “le stesse vibranti proteste contro la legge Fornero, una riforma che ha tolto il diritto alla pensione ai lavoratori e ha lasciato per strada centinaia di migliaia di esodati”. “E infatti, come racconta Mario Monti, i sindacati erano d’accordo con la legge Fornero ed hanno fatto solo due ore di protesta simbolica. UNA vergogna assoluta,” concludono i pentastellati.
"Che sinistra è quella che chiama animale da divano chi spera nel reddito di cittadinanza?" "Sono la figlia di uno di quelli che vengono chiamati scansafatiche: perché mio padre ha 50 anni e ha perso il lavoro. Siamo una famiglia di sinistra che non ha votato 5 Stelle, ma non si può insultare chi spera di poter vivere in modo dignitoso". Vi riportiamo il commento di una nostra lettrice, scrive Mauro Munafò il 18 gennaio 2019 su "L'Espresso". Come si rapporta il popolo "di sinistra" con una misura come quella del Reddito di Cittadinanza appena approvato dal Consiglio dei ministri? In quale modo le critiche nel merito della norma rischiano poi di sfociare nel classismo? Sono i temi di un dibattito che si sta alimentando sulla mia pagina Facebook, Il Paese che non ama. Tra i tanti commenti arrivati, dopo aver ricevuto l'autorizzazione dell'autrice, ne riporto qui uno che alla redazione dell'Espresso sembra un interessante spunto di dibattito e che, per questo vogliamo allargare anche a tutti i nostri lettori. Fateci sapere cosa ne pensate nei commenti. "Io sono una dei tanti figli di quei cinquantenni che troppo spesso si ritrovano disoccupati che potrebbero solo trarre beneficio dal trovate un lavoro nella maniera semplice che promette il Governo. Nessuno nella mia famiglia ha votato il Movimento 5 Stelle, sia per orientamento politico (siamo da generazioni una famiglia che ha sempre votato esclusivamente a sinistra) sia perché, pur essendo una delle famiglie che fa effettivamente parte del possibile bacino di utenza di questa fantomatica misura, nessuno di noi crede (o ha creduto al momento del voto) che questa possa essere realizzabile nei tempi e modi tanto declamati in pubblica piazza dall'attuale Governo. In casa mia, come nelle case di molti intorno a noi, sappiamo fin troppo bene cosa significhi andare nei centri d'impiego. Tutto troppo spesso si limita a ''mi lasci la mail, la contattiamo se saltasse fuori qualcosa'', e con ciò non voglio recriminare i dipendenti di questi centri, anche perché se il lavoro non te lo propongono è perché probabilmente (e questo è ovvio) non esiste. Dal momento che, come detto, sono convintamente di sinistra, il mio dispiacere nel leggere questi giudizi su persone come mio padre, e i padri e le madri di tanti altri, è ancora più opprimente. Ogni volta che leggo (o troppo spesso sento) bollare, persone come lui, che vorrebbero solo vivere serenamente e far vivere serenamente i propri affetti con un onesto lavoro, come ''animali da divano'' o ''scansafatiche'' o ''parassiti in nero'' mi si stringe il cuore. Non è questa la sinistra in cui credo. La sinistra in cui credo è quella che si sofferma sui problemi delle minoranze grazie al proprio lato progressista (il lato che probabilmente mi sta maggiormente a cuore, perché il tema dei diritti per me è essenziale), ma che si occupa anche di creare soluzioni per il mondo del lavoro. Perché fare opposizione a suon di ''non funziona perché quella gente non vuole lavorare'' è di fatto esternare una posizione classista, che non risolve il problema o propone soluzioni, ma che di fatto non fa altro che cercare di nascondere la polvere sotto il tappeto, cercando di mascherare il fatto che non si hanno soluzioni concrete con le quali fare opposizione. E in tutto questo cosa succede: si scade nell'attacco aggressivo. Per cui sono stanca di vedere sempre e solo fare di tutta l'erba un fascio. In tutto il Paese è sicuramente pieno di persone che si strofinano le mani al pensiero di avere 200€ in più in tasca a spese di tutti, ma è anche pieno di persone che non credono che questo Governo riesca a concludere qualcosa, ma che sotto sotto ci spera, e non per campare con una stupida tessera da 200€ da spendere rigorosamente nei negozi che non faranno parte delle blacklist, ma per trovare finalmente il lavoro dignitoso che ogni persona spera di trovare prima o poi nella vita. Un lavoro che ti fa dormire sereno la notte, che ti fa pensare al presente e non con ansia al futuro. Cordiali Saluti. La figlia di ''uno scansafatiche''.
· Preti, società civile e oratori: così la sinistra vince nei comuni…
Preti, società civile e oratori: così la sinistra vince nei comuni…Cristiano Puglisi 20 giugno 2019 su Il Giornale. Perché alle elezioni amministrative (e solo in quelle) gli italiani continuano a votare PD? La domanda che in molti si saranno posti è il legittimo frutto dei risultati del voto comunale dello scorso 26 maggio e dei successivi ballottaggi che, a dispetto di dati per le consultazioni europee decisamente premianti per Lega e alleati di centrodestra, ha in diverse città italiane e, soprattutto, in svariati piccoli centri ribaltato pronostici che, in base alle preferenze espresse per l’emiciclo dell’europarlamento, sembravano davvero scontati. Eppure i cittadini che sono entrati nella cabina per partecipare al voto continentale sono stati gli stessi che hanno deciso, con un tratto di matita, il risultato del voto comunale. Che cosa è successo? Ebbene le dinamiche, in realtà, sono ovunque piuttosto simili. Innanzitutto è bene partire dal presupposto che il voto, nell’attuale e desolante panorama della politica-marketing, è ormai sempre meno fidelizzato e sempre più liquido e le appartenenze partitiche sono estremamente flessibili. In questo scenario l’elettore-cliente sceglie, come un vero consumatore, in base al principio di convenienza. Oppure di conoscenza personale, in base alla propria rete di relazioni sociali. E soprattutto in questo secondo caso si sono inserite le sinistre. Che, a livello di tessuto sociale, avendo conservato l’influenza sul mondo dei sindacati e su quello dei circoli per tradizione politicamente collocati (ARCI, ANPI e via dicendo) possono oggi, in aggiunta, disporre quasi liberamente di quell’universo che un tempo costituiva l’ossatura della presenza sui territori della Democrazia Cristiana: l’associazionismo e il volontariato, soprattutto quello di matrice “bianca”, cioè cattolica. Così, mentre i militanti dei partiti di destra sono spesso impegnati a fare campagna per tematiche nazionali, la sinistra (soprattutto il Partito Democratico) penetrando il tessuto sociale con le associazioni e i gruppi di volontariato che guardano alle parrocchie (la cosiddetta “società civile”, un tempo perno del “centro” politico), soprattutto nelle piccole comunità (nei grandi centri il voto a sinistra è dettato da altre dinamiche, come la dissoluzione delle identità congenita allo sviluppo di metropoli cosmopolite), è in grado di captare elettori che, normalmente, in sede di una consultazione diversa, sceglierebbero altri simboli, altre idee. Ma, in un piccolo centro, in un medio comune italiano, quella grande famiglia che è la comunità locale conta ancora. E contano ancora gli oratori. E i parroci… E i moderni “don Camillo” oggi hanno occhi, come (purtroppo) risaputo, solo per la sinistra del Padre…
· “La maggioranza silenziosa” ora è populista.
Stefano Zurlo per Il Giornale il 10 luglio 2019. È il momento della destra. Anche in Grecia. «Sì - spiega Vittorio Emanuele Parsi, direttore dell'Alta scuola di economia e relazioni internazionali della Cattolica - ma non si possono paragonare le affermazioni in Italia o Ungheria con ciò che è accaduto ad Atene».
Perché, professore?
«Nuova Democrazia rappresenta l'establishment che riprende le redini del potere dopo la parentesi dell'era Tsipras. Mitsotakis è l'erede di una famiglia molto importante nella storia politica greca».
Quindi, niente a che fare con Salvini, Orban e Trump?
«Questa è una destra popolare nei modi e nelle forme, che combatte lo status quo. Nuova Democrazia è il ritorno dello status quo. E mi lasci dire che tutto questo è paradossale. Nuova Democrazia e il Pasok sono stati i principali protagonisti del disastro greco».
Resta il fatto che il vento sembra soffiare sempre dalla stessa parte.
«Questo è indubbio. La Polonia, come gli Stati Uniti, come l'Ungheria, l'Austria e l'Italia. Destre identitarie e securitarie, destre che sanno parlare al popolo con le parole del popolo, destre che hanno colto la grande crisi delle sinistre».
Insomma, più che vincere le destre, perdono le sinistre?
«Questo è un fatto innegabile. Le sinistre sono state al potere in molti Paesi per molti anni e hanno finito con l'identificarsi con le élite. Lontane dai problemi reali, incapaci di affrontare la crisi di sistema che ha investito tutto l'Occidente. La gente non ha più feeling con quei partiti ora si riconosce in Trump o in Orban».
Continuerà questo processo di riposizionamento delle opinioni pubbliche?
«Difficile azzardare previsioni, anche perché c'è un'altra regola sacrosanta nella politica: chi è al governo di solito perde nelle urne. È quel che stiamo verificando in Europa negli ultimi venti anni».
Semplificando, la destra vince perché intercetta il disagio del ceto medio impoverito e delle classi che sono in fondo alla scala sociale?
«Certo. È questa la fase che stiamo vivendo: le masse virano a destra perché la sinistra ha sposato l'aristocrazia. Solo che qui, a mio parere, si innesta una contraddizione che prima o poi esploderà: la mancata risposta alla perdita di potere d'acquisto e direi di dignità di questi ceti».
La destra non si fa destra sociale?
«I sovranisti di mezzo mondo se la stanno cavando puntando il dito contro i migranti e accendendo i riflettori sulla questione sicurezza».
Le paiono temi di poco conto?
«No, ma non risolvono i problemi degli italiani o degli ungheresi. Orban ha allungato la giornata di lavoro e ha reso obbligatori gli straordinari. I lavoratori forse si aspettavano altro».
Che cosa?
«Il ripristino di un minimo di stato sociale».
Dunque, più asili, più scuole, più università?
«Sì, asili e università pubblici, di alto livello, e con costi tendenti allo zero per l'utente. Questa è la vera rivoluzione. Ma mi pare si vada in altra direzione».
D'accordo, ma questi leader non hanno la bacchetta magica e devono ricostruire sulle macerie degli errori precedenti.
«Lo so, non è facile, ma la direzione di marcia non mi convince e temo non convincerà nemmeno milioni di elettori. Certo, ci sono gli stupri e i reati commessi dai clandestini. Ma le priorità sono altre: cosa fanno questi governi per fermare lo strapotere di Amazon e delle altre grandi multinazionali? Come cercano di contrastare la concentrazione di ricchezza, favorita dalla globalizzazione, in sempre meno mani? Lo scivolamento verso il basso di milioni di persone che prima vivevano nel benessere sembra inarrestabile. È su questo versante che attendiamo le proposte dai vincitori di oggi».
La tribù rossa che non molla il potere, scrive Francesco Alberoni, Domenica 06/01/2019, su "Il Giornale". In un recente articolo Angelo Panebianco ha dato la sua risposta al quesito che avevo posto nel mio articolo del 30 dicembre su il Giornale, in cui mi domandavo perché chi appoggia questo governo disprezzi e respinga come insignificanti le critiche fatte dai giornalisti, dagli intellettuali, dagli studiosi. E preferisca credere a persone inesperte, purché diverse, nuove. Panebianco spiega questo rifiuto osservando che la vecchia élite del potere non era più capace di capire i bisogni popolari. Questo perché, mentre in una vera democrazia la classe dominante emerge a poco a poco grazie al merito, in Italia ha raggiunto il potere attraverso legami famigliari o di parentela, cioè perché uno era figlio, o figlia, o fratello, o sorella, o marito, o moglie o ex marito o ex moglie di qualche potente. E questo in tutti i campi, dalla finanza al giornalismo, alla letteratura, alla televisione, al cinema, agli alti gradi della burocrazia statale, della sanità, della magistratura. La classe dirigente italiana, osserva Panebianco, non è una élite democratica, è una oligarchia formata da parenti. Io aggiungerei, a quanto lui scrive, che il suo tratto distintivo non è solo la parentela, ma anche una comune ideologia di sinistra, senza la quale non potevi far carriera, vincere un concorso, nemmeno essere ricevuto dalle persone che contano. Le forze politico-culturali contrarie (Democristiani, Psi, Psdi, Repubblicani e Liberali) sono state annientate da Mani Pulite e Berlusconi, ma quest'ultimo non ha mai raccolto attorno a sé gli intellettuali, non ha mai creato per loro istituzioni idonee. Ha lasciato che la gente di sinistra si infiltrasse anche nelle sue televisioni. Panebianco, quindi, ha ragione, ma aggiungendo che la struttura familistico-tribale dominante è anche una consorteria ideologica che respinge e ostacola tutti coloro che la pensano diversamente. Questa consorteria chiusa è stata incapace di capire i problemi della popolazione, che si è ribellata ed ha votato per i grillini e Salvini. Però i suoi intellettuali e i suoi giornalisti continuano a occupare le posizioni chiave nella televisione. I più noti volti televisivi come Gruber, Fazio, Mieli e Travaglio sono sempre gli stessi.
"Il capitalismo non è un’idea, è una malattia che ci è passata nelle cellule". Boris Pahor, 105 anni autore di “Necropoli”, lancia il suo manifesto contro la dittatura del denaro. E aggiunge: «Per essere di sinistra non serve fare la rivoluzione, basta ascoltare il popolo. È ora di ribellarsi», scrive Marco Pacini il 04 gennaio 2019 su "L'Espresso". Boris Pahor: «Quello che mi preoccupa di più è che non vedo una rivolta contro il capitalismo. Dove ci sta portando il capitalismo? Non posso lasciare fuori questa domanda. La crisi, le crisi che stiamo vivendo non sono nate dalla gente semplice, ma dalla vittoria del denaro su tutto e tutti. Stéphane Hessel, che è stato in campo di concentramento con me, scrisse “Indignatevi!”. Ma io non vedo più nemmeno questo: vedo piccoli fuochi, proteste, frustrazione... ma non la rivolta morale contro il capitalismo. Viviamo in una società egoista, che fa schifo; il capitalismo non è un’idea, è una malattia che ci è passata nelle cellule, glielo dice un anticomunista». È come un grido questo congedo di Boris Pahor, dopo oltre un’ora di colloquio. Nonostante il sillabare lento, il tono basso della voce, come può esserlo quello di un uomo che il prossimo agosto compirà 106 anni. Che ha attraversato il buio del Novecento raccontandolo in migliaia di pagine. Soprattutto in “Necropoli”, il capolavoro che ha preso forma nel campo di concentramento nazista di Natzweiler-Struthof e che l’Italia ha scoperto nel 2008, con quasi 40 anni di ritardo da quando fu pubblicato per la prima volta, in sloveno. «Necropoli riesce a fondere l’assoluto dell’orrore con la complessità della storia», scrisse Claudio Magris nell’introduzione alla prima edizione italiana (fatta eccezione per un una piccola traduzione apparsa nel ’97 con diffusione locale) dell’opera. E con la complessità della storia, con il dovere della memoria, Boris Pahor continua il suo corpo a corpo quotidiano. Lavora ancora lo scrittore della minoranza slovena di Trieste, più volte candidato al Nobel. Qualche pagina al giorno. Nel tinello, su un piccolo tavolo c’è una vecchia macchina da scrivere, una Remington Deluxe, con un foglio infilato che attende l’inchiostro. «L’ho acquistata a Lubiana tanto tempo fa. L’ho fatta pulire bene, vede? Batte forte... La uso da 40 anni». In veranda ci sono dei panni appena stesi dalla badante con cui Boris Pahor parla solo in sloveno. Tra i panni si intravede l’azzurro. Chiediamo di uscire. Là sotto c’è il golfo di Trieste: la vista spazia da Pirano, gioiello veneziano incastonato nella piccola fetta di Istria slovena, al castello di Miramare. La Storia in uno sguardo, da questa villetta sul Carso: la Serenissima, gli Asburgo, la Resistenza, la pulizia etnica e linguistica dei fascisti in quest’altopiano slavofono di pietre e boscaglia, le leggi razziali annunciate laggiù a sinistra, tra quei palazzi imperiali un po’ sfuocati da qui, in piazza Unità. L’Italia in attesa fino al 1954, quando finisce l’amministrazione alleata, la cortina di ferro, il confine del “nostro mondo” che passava qui, qualche centinaio di metri più su. Al numero di cellulare aveva risposto lui, che a 105 anni fa ancora il segretario di se stesso. «Chi? Ah, l’Espresso? Venga, venga a trovarmi, ma io i 105 anni li ho compiuti ad agosto... di cosa vuole parlare?».
Della storia professore, di quella che stiamo vivendo, e di quella che si annuncia. Del passato, del Novecento, lei forse ha già detto e scritto tutto.....
«Molto, forse. O forse non abbastanza, visto che voi giornalisti in Italia non vi siete mai occupati veramente della comunità slovena di Trieste... Noi eravamo la pietra dello scandalo, sa. L’Italia voleva Trieste ma noi triestini sloveni eravamo qui da secoli... Eravamo una comunità culturale forte. Poi è arrivato il fascismo e ci hanno caricati sui treni. In Francia conoscono la nostra storia, nelle scuole italiane non se ne è mai parlato».
E sarebbe più che mai necessario, al risorgere dei nazionalismi, di nostalgie di regime...
«La memoria non è necessaria, è indispensabile. Ma quando si parla di nazionalismo io distinguo. Finché c’era l’Unione sovietica anche l’Europa aveva costretto i popoli alla sottomissione. Appena è crollata l’Urss i popoli hanno cominciato a respirare, a sentirsi liberi».
Ci sono nazionalismi buoni e cattivi? È questo che sta dicendo, professore?
«Senta, le faccio un esempio: i poeti e gli scrittori classici sloveni sono fioriti sotto l’impero austro-ungarico. Li lasciavano fare, non erano oppressi, era un nazionalismo onesto... Poi arrivano il fascismo e il nazismo, e oggi spuntano funghi velenosi qua e là. Ma io sono un disgraziato, ho visto i campi di concentramento e dopo questo non vedo nulla di simile all’orizzonte».
Insomma i “funghi velenosi” non prenderanno il sopravvento?
«Questo dipenderà... Se rinascerà una sinistra più persuasiva resteranno fenomeni isolati e probabilmente non duraturi. Per il momento la sinistra è andata a ramengo, ovunque. Per essere di sinistra non serve essere rivoluzionari: sarebbe stato sufficiente ascoltare il popolo. Invece non sono riusciti a proporre nulla, a costruire uno scenario di sinistra senza comunismo che potesse convincere il popolo. Dire questo non è populismo. Bastava essere di sinistra “a metà” invece di inseguire la destra. E se insegui la destra, se costruisci un modello sociale fatto solo di arrivismo, se non riesci a trovare punti di mediazione e vivi di contrasti interni... beh, allora vince la destra, è ovvio».
Le cronache, e non da oggi, raccontano di un razzismo che rialza la testa, in molti luoghi d’Europa. E in Italia.
«Io sono al limite delle mie forze... questo forse mi induce a non voler vedere? Non credo sia così. Nella società europea in generale non vedo ancora spinte così forti verso il razzismo. Certo i bulbi per una a rinascita di questo fenomeno ci sono ma sono minoranze e io ho visto altro... e come le dicevo sono al limite delle mie forze».
Lei è stato definito nazionalista da una parte della sinistra della Slovenia, poi c’è stato l’episodio di quel sindaco di colore nella cittadina slovena di Pirano e qualcuno le ha dato anche del razzista, quando lei fece intendere di non aver gradito quell’elezione. O almeno così fu interpretato...
«È stato un gigantesco malinteso. Io mi sono incontrato con quel sindaco e mi ha detto: “Forse sono l’unico che ha capito quello che lei voleva dire”».
E che cosa aveva capito?
«Che la memoria, la storia di un luogo, contano. Il che non vuol dire che in loro nome non si debba accogliere. Lui mi disse “vengo dall’Africa e ci sono legato, quello resta il mio essere. Ora sono qui e provo a fare del mio meglio”. Io avevo solo detto che non poteva conoscere, sentire profondamente la storia di Pirano, non che non potesse essere un buon sindaco. Ecco, era tutto qui».
La memoria, la storia...
«Purtroppo siamo senza memoria, senza storia. E quando accade questo tutto viene rimesso in discussione, libertà compresa. Anche gli sloveni hanno interpretato la libertà in modo sbagliato e hanno cominciato presto e rubare».
Ha votato alle ultime elezioni politiche?
«No, non ho seguito le elezioni italiane. Noi della minoranza slovena votavamo sempre con la sinistra, ma vista la malaparata della sinistra italiana mi sono disinteressato. Del resto nemmeno in Slovenia avrei votato la sinistra. Quale sinistra?».
Provi a immaginarne una.
«E come? Come si fa a creare un governo sociale se si è completamente immersi nel credo capitalista? È la grande domanda. Sicuramente avrà sentito anche lei la favola dei cospirazionisti che racconta dei grandi capitalisti del mondo riuniti attorno a un tavolo per mettere i popoli l’uno contro l’altro con lo scopo di dominarli meglio... È una favola, naturalmente. Ma non la vediamo questa tendenza al dominio inarrestabile del capitale, del denaro?».
Professore, qualcuno potrebbe leggere queste sue parole come un’evocazione dei “poteri forti”, categoria che va per la maggiore tra i leader di questo governo.
«Questo governo? Lasciamo stare. Sto cercando di capire come pensano di rovinare ancora l’Italia. Non riesco a capire che qualità abbiano per fare questa rivolta di cui io parlo, quella necessaria. Facendo debiti invece di pagarli? Non si può governare con le illusioni. Mai».
Tornando al dominio del denaro, “inarrestabile” suona come una sentenza definitiva. Se la politica nulla può, cos’altro? Una fede? Un miracolo?
«I miracoli non esistono o può farli l’uomo... Io sono un panteista. E mi riconosco nelle parole di Einstein: “sono religioso ma non credente”. Mi inchino davanti alla natura, lo faccio ogni giorno da quando sono uscito dal campo di concentramento. Possono distruggere loro stessi gli uomini e con sé stessi questa palla che chiamiamo mondo, il nostro mondo. Uno mi può dire: ma cosa te ne importa che tu fra poco sarai sottoterra? Dico che me ne importa perché c’è gente che vive, gente che nasce. Pensare a questo è un vivere onesto. La natura è senza coscienza, ma noi ce l’abbiamo, o dovremmo averla».
Che cosa significa “i miracoli può farli l’uomo”?
«Io ricordo noi dei “triangoli rossi”... gli internati politici nei campi di lavoro nazisti. Un pezzo di pane, una minestra di rape, nient’altro. Ho preso la tisi, dovevamo morire come tutti gli altri: gli ebrei gli zingari... Sono qui».
In questo mondo che non le piace.
«Ma potrebbe. Una sola cosa ci vuole: non il tavolo dei capitalisti che tengono in pugno il mondo come nella favola (ma neanche tanto) dei cospirazionisti. Ci vuole un altro tavolo, un incontro universale per l’uomo e la sua sopravvivenza. Durerà un giorno? Un anno? Dieci anni? Non importa. Dobbiamo cercare uno scopo per l’uomo finalmente, interrompere una storia che da Alessandro Magno a Hitler ha significato sterminio. Un incontro universale tra medici, poeti, ingeneri, religiosi... Mi si dice che è un’utopia? Se un uomo è capace di fare “miracoli” come quelli che ogni giorno ci fanno vedere le tecnologie, perché non è in grado di fare questo? Una ricerca per l’uomo, per vivere con senso una vita diversa da quella dell’avere, del conquistare. Nessuno che si chiami uomo resti senza pane. Si può. Solo così l’umanità della grande innovazione avrà creato qualcosa di Nuovo».
Lei è uno scrittore. Che contributo può dare la letteratura, se può darlo, a questa “innovazione”?
«La letteratura vale dove c’è già disposizione di spirito. Vale quando c’è chi accetta, è all’altezza, per ricevere questa ricchezza. Ma che con la letteratura si possa innescare questa rivoluzione morale, intellettuale, psicologica... non ci credo. Altrimenti ci sarebbe riuscito il cristianesimo».
Come trascorre le sue giornate?
«Ho molti incontri, vengono a trovarmi. Ho una biblioteca a Prosecco dove ho messo quasi tutti i libri. Porto lì chi viene a trovarmi, e parliamo. Poi scrivo ancora qualche paginetta. Leggo, possibilmente in lingua originale... Mi sono appena riletto “Vita di Gesù” di Renan».
C’è ancora il tempo per un caffè, che si raffredda nella tazza mentre Boris Pahor ha un’ultima parola da aggiungere: rivolta.
"La maggioranza silenziosa ora è populista. E noi di sinistra non ce ne siamo accorti". I partiti sovranisti al potere sono la sua voce. Che chiede Legge e Ordine, confini fisici (ma anche di genere e di classe) impermeabili. E con la libertà di xenofobia, scrive Wlodek Goldkorn il 4 gennaio 2019 su "L'Espresso". Detto con una certa brutalità: in questi ultimi anni, forse decenni, noi, la sinistra (vale l’autocertificazione) ci siamo inventati una destra immaginaria. Quando parlavamo della destra pensavamo a una forza politica che in fondo condividesse la nostra visione del mondo. Certo, lo sapevamo, la destra era costituzionalmente contraria all’ideale dell’uguaglianza. D’altronde quell’antica parola d’ordine, la seconda dopo la “Libertà”, fra le tre parole chiave della Rivoluzione francese, neanche per noi era davvero importante. Ci siamo accontentati, appunto della Libertà e abbiamo parlato, e tanto, di Fratellanza. La Libertà poi è un concetto così vago da averci indotto a presumere che pure la destra seguisse il nostro modo di declinare quella parola. Ecco quindi che la destra creata nel nostro immaginario era come noi, favorevole alla liberalizzazione dei costumi e all’autodeterminazione delle persone - al diritto di disporre del proprio corpo e della propria vita; ai matrimoni tra persone dello stesso sesso, seppur con qualche rigidità, dovuta al ritardo culturale, da superare con la forza della persuasione e con qualche forzatura (in Parlamento o in piazza) da parte nostra. Certo, la destra era meno ligia di noi ad assimilare l’idea della Fratellanza, per cui era più guardinga nei confronti dei migranti, con punte di cattiveria addirittura, ma nel nostro immaginario si trattava di eccessi, di prese di posizioni provvisorie, perché in fondo, anche la destra sarebbe ormai stata immune ai discorsi xenofobi e al nazionalismo di stampo etnico («peccato originale dell’Europa» secondo la filosofa Agnes Heller). Poi, una mattina ci siamo svegliati e abbiamo visto che la destra aveva e ha anche un volto diverso da quello che le abbiamo attribuito. Ma quale volto? Procediamo con ordine. Partendo da una frase di Romano Prodi. Il fondatore dell’Ulivo dice spesso: «L’Europa è una federazione delle minoranze». Possiamo aggiungere che lo era anche l’Ulivo, un’aggregazione che fuori Italia era visto come un modello di una sinistra nuova, moderna, vogliosa di governare. E del resto, l’Europa come l’abbiamo conosciuta è stata inventata da tre uomini politici, nati e cresciuti in terre di confine e che conoscevano l’arte di federare: Schumann, De Gasperi e Adenauer. I tre, dopo l’esperienza della due guerre mondiali, volevano valorizzare l’aspetto “periferico” del vissuto delle persone del Vecchio Continente. Se poi, nella prassi non sempre ci siano riusciti è un’altra questione. Oggi, comunque la destra al potere e le destre che aspirano a prendere il potere pensano di smantellare quell’Europa. Per andare dove? Verso il fascismo, come alcuni temono, o verso altre forme della democrazia, conosciute nel passato? In questi giorni, l’editore Laterza ha dato alle stampe un libro, “Piccola città”, un testo che in apparenza parla di una realtà marginale e appunto periferica e cioè della questione della droga, dell’eroina in fattispecie, in una città per niente centrale come Grosseto, decenni fa. Lo ha scritto Vanessa Roghi, una storica e giornalista. Leggendolo ci si imbatte in alcune parole, ma anche nella descrizione di alcune pratiche che abbiamo dimenticato. La parola è capellone, la pratica è il ricovero nei manicomi di persone dai comportamenti considerati devianti. I devianti, in questo caso sono ovviamente i drogati, ma anche i maschi che portano i capelli come le femmine, le donne che praticano amore libero e via dicendo. E allora, diciamocelo: la democrazia liberale, quella democrazia che oggi vediamo minacciata dalle destre che con una dizione post-moderna chiamiamo sovraniste e populiste, quella democrazia inclusiva delle minoranze, dei deboli, dei devianti, attenta ai diversamente abili (e che giustamente ha abolito parole come invalido, handicappato, cieco, sordo e via elencando) è esistita solo per un istante fugace, durato, sì e no, una trentina di anni, dalla caduta del Muro di Berlino e fino appunto a ieri, minata fin dalle sue fondamenta dalla crisi iniziata nel 2008. In questi anni di euforia, inclusione, apertura, abolizione delle frontiere, frontiere anche del linguaggio, noi, la sinistra per alcuni anni egemone in quanto erede della rivoluzione culturale del Sessantotto (ci torneremo), abbiamo rimosso la vera storia delle democrazie nel nostro Continente. E allora, raccontiamocela, al di là dei miti. L’Europa del dopo la seconda guerra mondiale (al di là delle intenzioni dei tre fondatori, citati appena) è quell’insieme di Paesi coinvolti in sanguinarie guerre coloniali. La democrazia francese ha un volto atroce in Algeria, ed è solo l’esempio più eclatante, ma si potrebbero citare il Congo belga. E sempre in Francia, il conflitto in Algeria porta alla pratica di tortura (denunciata da Sartre e da Henri Alleg). E ancora, la pena di morte è stata abolita, sempre in Francia solo nel 1981, l’anno in cui in Italia (qualcuno se lo ricorda ancora?) fu abolito il delitto d’onore. Il diritto delle donne di interrompere la gravidanza era fino alla metà degli anni Settanta un’utopia femminista e in alcuni Paesi le stesse donne non potevano aprire il conto in banca senza l’autorizzazione del marito. Il linguaggio razzista era la norma, i confini tra gli Stati non erano permeabili, ad eccezione dei richiedenti asilo fuggiti dai paesi comunisti. Gli omosessuali se non puniti erano discriminati, gli ospedali psichiatrici assomigliavano a veri lager e vi finivano non solo i malati mentali, ma pure bambini irrequieti, donne non sottomesse al maschio, maschi considerati poco virili, nei commissariati di polizia prendere a schiaffi un arrestato era un fatto normale, più volte le forze dell’ordine avevano sparato sugli operai in piazza, in Germania le persone considerate estremiste non potevano essere assunte nella pubblica amministrazione e si potrebbe continuare con l’elenco per dire una cosa semplice: la democrazia così come si era configurata dopo la seconda guerra mondiale nell’Occidente europeo (a Oriente vigevano le dittature comuniste) era una democrazia che non metteva in questione il potere e l’egemonia culturale della maggioranza. Contestare il principio che la maggioranza avesse sempre ragione comportava una certa dose di eroismo. Quella maggioranza veniva definita “silenziosa”: uomini (maschi) che lavoravano e stavano zitti. A Parigi si palesò il 30 maggio 1968, milioni in piazza a sostegno di De Gaulle e contro gli studenti “anarchici”. La maggioranza silenziosa parigina pose fine a quel che fu chiamato il Maggio. Ma poi, sotto la spinta del Sessantotto e dello stesso Maggio quindi, e soprattutto del femminismo, le minoranze e “i diversi” (le donne), trovarono la propria voce e prevalsero. E per tornare al vocabolario di Prodi: a partire dalla caduta del Muro, abbiamo vissuto in un Occidente egemonizzato dalla federazione delle minoranze. La sinistra a quella federazione ha dato rappresentanza politica. Ora è tornata la maggioranza silenziosa, con la sua richiesta di Legge e Ordine, dei confini, fisici (ma anche di genere e di classe) impermeabili e con la libertà di xenofobia. I partiti populisti e sovranisti al potere sono la sua voce. Come una volta quindi? No. Il passato non torna mai uguale: però l’idea che chi non fa parte della maggioranza non solo è “strano” e “deviante” ma è escluso dal corpo del popolo, giustifica una certa inquietudine.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Nella mente di un terrorista
Nella mente di un terrorista. Luigi Zoia, psichiatra Junghiano, ci guida dentro la mente dei terroristi per comprendere le ragioni che li spingono a gesti estremi, scrive Luca Sciortino il 14 gennaio 2019 su Panorama. La mente del terrorista è una stanza piena di fantasmi. Con le chiavi della psicanalisi la porta si apre e gli spettri rivelano il loro vero volto. Hanno le sembianze di istinti primordiali e paure ataviche, talvolta di disturbi mentali collettivi, radicati nelle società del nostro tempo. Questo è un giro dentro quella stanza in compagnia di Luigi Zoja, autorità internazionale nel campo della psicoanalisi junghiana, che ha analizzato la mente dei terroristi jihadisti in diverse pubblicazioni (tra le quali il “Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre" per Bollati Boringhieri e "Nella mente di un terrorista” per Einaudi con il giornalista e carabiniere Omar Bellicini). A indicarci la strada in questa esplorazione sono gli elementi comuni nelle vite e nelle personalità degli autori dei recenti attentati. Eccone alcuni: «Spesso i terroristi hanno un padre umiliato, non carismatico, moderato nella fede religiosa o frustrato» esordisce Zoja «sono disoccupati o lavoratori precari, frequentatori assidui di social, condannati per vari reati minori e, infine, sono giovanissimi, cresciuti in Occidente in famiglie venute dal Medio Oriente». Come autori di stragi, hanno collaborato con uno o più fratelli, basti pensare a Said e Cherif Kouachi colpevoli dei delitti nella sede di Charlie Hebdo il 7 gennaio del 2015, a Salah e Brahim Abdeslam coinvolti negli attentati di Parigi del 13 novembre 2015, a Driss e Moussa Oukabir, parte attiva nell'attacco al cuore di Barcellona del 17 agosto 2017. E basti ricordare, infine, che dopo l'ultimo attentato di Strasburgo da parte del killer di origine marocchina Chérif Chekatt, sono stati fermati dalla polizia francese con il sospetto di complicità anche due suoi fratelli. L'assenza di una figura paterna, un ruolo che anche una madre potrebbe ricoprire, ha enormi implicazioni nella vita di un individuo. «Bisogna pensare alla paternità come a una guida spirituale che detta le regole della vita e stabilisce i limiti delle proprie azioni» afferma Zoja. La psicanalisi junghiana la definisce come un archetipo psicologico, ovvero una sorta di immagine primordiale e universale dell'inconscio. Oggi il ruolo di proibizione e autorità della famiglia si è indebolito, tanto che quando un ragazzo non va bene a scuola, non viene rimproverato il figlio ma l'insegnante. «Se manca una guida spirituale o una figura paterna, la mente umana necessita di un fantasma, un simulacro che la sostituisce. In psicologia come in fisica il vuoto deve essere sempre colmato. Nella mente del terrorista è il capo di un'organizzazione jidahista a riempire il posto rimasto vacante dalla scomparsa di punti di riferimento» conclude Zoja. Ecco anche spiegata la complicità di uno o più familiari nell'organizzazione delle stragi: in mancanza di figure paterne, si rafforza il legame con i fratelli. Questi ultimi, trovandosi nella stessa condizione di smarrimento, amplificano il desiderio inconscio di cercare altrove un sostituto dell'archetipo della paternità. La cesura tra padri e figli è netta perché i giovani hanno adottato i costumi degli europei che i padri rifiutano, per esempio nell'uso di alcolici e nel rapporto con il sesso. La mancanza di un lavoro stabile in cui identificarsi e con il quale mettere alla prova se stessi facilita poi il lavoro delle organizzazioni terroristiche che cercano adepti su Internet. «Il fondamentalismo islamico incarna alla perfezione la nostalgia nei confronti di una società patriarcale. Come si vede nelle biografie di molti attentatori, la figura di riferimento non è però tanto un padre forte e protettivo ma un maschio aggressivo e prevaricatore» continua Zoja «Questi si ammanta del ruolo di guida spirituale, forte delle verità rivelate dell'Islam, interpretate fanaticamente dal terrorista come fossero regole rigide e ferree, proprio quelle regole che il suo subconscio sta cercando». La giovane età degli attentatori gioca anch'essa un ruolo cruciale perché a quell'età la psiche è più fragile alla propaganda. Questi fantasmi mentali non bastano di per sé a spiegare il gesto folle di mettere a repentaglio la propria vita compiendo una strage. Cosa c'è di più anti-istintivo di guidare un aereo contro una torre come fecero i terroristi dell'11 settembre 2001? Ci riesce impossibile concepire un tale gesto mettendoci nei panni di un terrorista. La psicanalisi lo spiega chiamando in causa altri istinti primordiali che si contrappongono a quello di conservazione. Uno di questi è l'anelito a recuperare una dimensione epica, a compiere azioni che, sfidando la morte, riscattano i terroristi dalla condizione di inferiorità in cui sentono di essere. «Questi giovani hanno alle spalle la frustrazione di famiglie che si arrabattano a vivere lontane da Paesi dalle storie travagliate e ferite dal colonialismo» ricorda Zoja «La maggior parte delle civiltà del passato si affidava a riti di passaggio che accompagnavano i giovani verso la maturità. Per esempio la funzione di cacciatore consentiva di sfogare l'aggressività individuale nobilitandola come un'attività socialmente utile. Ora che l'identità maschile ha confini più labili e il modello paterno tradizionale è venuto meno, la mente di molti giovani si trova in uno stato di smarrimento. Un gesto eroico come quello di andare incontro alla propria morte diventa quindi un istinto irresistibile». E' l'istinto del “cupio dissolvi” di cui parlava anche Freud, che in certe circostanze può avere il sopravvento perfino sull'istinto di autoconservazione. I gruppi terroristici come l'Isis conoscono con esattezza questi istinti tanto da veicolare i loro messaggi manipolatori attraverso video di eroi delle guerre stellari o delle lotte di religione. Raggiungono menti prive di senso critico, l'antidoto più potente contro gli istinti e fanatismi, forse il regalo più grande che un giovane possa mai ricevere.
· Milano, 25 aprile 1969: la Fiera Campionaria e la bomba.
Milano, 25 aprile 1969: la Fiera Campionaria e la bomba. L'edizione della mostra internazionale finì tragicamente con un'esplosione e 20 feriti. Avrebbe dovuto anticipare la strage di Piazza Fontana nel giorno della Liberazione, dando il via agli anni di piombo. Scrive Edoardo Frittoli il 23 aprile 2019 su Panorama. La 47a edizione della Fiera Campionaria di Milano si svolse dal 14 al 25 aprile 1969. La rassegna segnò il record di partecipazione di paesi di tutto il mondo, con ben 90 nazioni rappresentate. Dal punto di vista architettonico, la manifestazione internazionale presentava un nuovo palazzo battezzato "Meccanica 7", uno spazio multipiano di 42.000 mq. con un grande terrazzo posto a 24 metri dal suolo. I temi principali dell'edizione 1969 riguardarono la salute del pianeta, in particolare "Acqua per domani", l'"Inquinamento del mare" e la zootecnia con "L'alimentazione e nutrizione degli animali".
La 47a Fiera Campionaria, la sintesi del progresso dell'industria. Inaugurata dalla visita dal Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat e dal Ministro dell'Industria Mario Tanassi, la Campionaria apre i cancelli a centinaia di migliaia di visitatori tra professionisti del commercio e semplici cittadini. Si confermava la presenza delle grandi aziende italiane pubbliche e private come Enel, Eni, Montecatini e Fiat. Quest'ultima presenta un padiglione allestito per celebrare i 70 anni dalla fondazione del colosso torinese e dove per l'occasione sarà presentato un futuro best seller, la "128". Il padiglione dell'ENEL rivolgeva lo sguardo al passato, dedicandosi ai grandi impianti che diedero vita al settore dell'energia elettrica in Italia: viene ricostruita le sala comando della centrale idroelettrica di Muscoline in provincia di Brescia (1896) con il suo primitivo alternatore monofase messo a paragone con le ultime soluzioni tecnologiche nel campo della produzione nazionale di elettricità. L'edizione 1969 vide tra le manifestazioni in calendario anche una singolare gara di aerostati, inaugurata dal pioniere del volo in pallone Generale Umberto Nobile accompagnato dall'appassionato di mongolfiere Giorgio Dompé ed alla presenza della madrina d'eccezione Caterina Caselli.
All'improvviso, gli anni di piombo: 25 aprile 1969, ore 19:00. La chiusura della entusiasmante 47a edizione della Fiera Campionaria era fissato per il tardo pomeriggio del 25 aprile, anniversario della Liberazione. La Banda dell'Esercito avrebbe dovuto accompagnare l'ammainabandiera delle 19:30 alla presenza delle autorità schierate. Mezz'ora prima della chiusura, poco dopo le 19:00, un boato assordante si levava dal padiglione Fiat. Era il segnale di inizio degli anni di piombo. L'attentato dinamitardo alla Fiera giungeva nel pieno della tensione politica e sociale che aveva caratterizzato il biennio iniziato con la contestazione del 1968 ed inasprita dall'ondata della protesta operaia dell'inizio dell'anno successivo. Anche il 25 aprile 1969 era stata una giornata piena di tensioni esplose in occasione del tradizionale corteo per l'anniversario della Liberazione , durante il cui svolgimento si verificarono disordini in diverse città italiane da parte di gruppi extraparlamentari di sinistra e destra. A Venezia il Vicepresidente del Consiglio, il socialista De Martino, è contestato da maoisti che gli ricordano i fatti di Battipaglia come espressione di uno stato di polizia "borghese". A Brescia un gruppo di estrema destra assale e devasta la sede dell'Anpi locale. Milano non fece eccezione. Nel pomeriggio dell'attentato al padiglione Fiat, il corteo della celebrazione venne in contatto con gruppi di "filo-cinesi" e di comunisti "marxisti-leninisti" all'altezza di piazzale Oberdan a Porta Venezia. L'intervento pronto del servizio d'ordine dell'Anpi evitò il peggio e riuscì a respingere i "provocatori da sinistra" che disturbarono senza sosta il corteo in movimento fino al contatto che costerà un ferito per la violenta bastonata di un filo-cinese. Anche negli uffici della Fiera, nonostante il trionfo dei numeri dell'edizione 1969, l'inquietudine di quei giorni si era fatta concreta per una serie di telefonate anonime giunte ai centralini in occasione delle visite di Rumor e del Ministro dell'agricoltura statunitense che minacciavano un imminente attentato. Nella sala delle proiezioni del padiglione Fiat, mentre sullo schermo giravano le immagini della storia di Mirafiori, gemevano 20 feriti nella nube di polvere e detriti intrisa dell'odore acre dell'esplosivo. Soltanto il caso volle che nessuno dei presenti perse la vita a causa dell'ordigno nascosto in una valigetta di cuoio proprio ai piedi dello schermo. Mentre la macchina dei soccorsi si metteva in moto e il piazzale antistante la Fiera si riempiva di ambulanze e mezzi delle forze dell'ordine, un altro ordigno esplodeva a qualche chilometro di distanza, all'interno della Stazione Centrale. Un'altra bomba ed un'altra grazia ricevuta per l'assenza in quel momento del personale dell'Ufficio Cambi, squassato da un ordigno del tutto simile a quello esploso poco più di un'ora prima all'interno della Fiera. Dalle prime dichiarazioni emerse che i testimoni videro un uomo sul metro e 70 vestito di scuro e con i capelli lunghi allontanarsi dalla sala proiezioni del padiglione appena prima della deflagrazione. Gli inquirenti cominciano le indagini coordinati dal Questore di Milano Giuseppe Parlato, con cui collaborano i dirigenti dell'Ufficio Politico (la Digos di allora) Antonino Allegra e Luigi Calabresi. Già il 26 aprile la Polizia irrompe nelle sedi dei circoli anarchici milanesi: la sede centrale di Piazzale Lugano e al circolo "La Comune" dove due militanti sono arrestati presso i locali della centrale via Lanzone, già sotto la lente degli inquirenti per una serie di attacchi dinamitardi tra il 1967 e il 1969 alla Filiale della Citroen milanese, alla Banca d'Italia e alla Biblioteca Ambrosiana. Sembrò, ad una prima analisi dei fatti, che gli inquirenti si stessero dirigendo in modo univoco verso la pista anarchica con ulteriori fermi presso lo storico circolo del Ponte della Ghisolfa. In realtà negli uffici di via Fatebenefratelli si vennero a trovare tra i fermati anche tre esponenti vicini alle Sam, l'organizzazione di estrema destra Squadre D'Azione Mussolini. Il che lascia presagire che Calabresi ed i suoi, pur avendo elementi per spingere verso la pista anarchica, non avessero escluso nessuna ipotesi.
La pista anarchica e quella nera. Mentre nelle sedi anarchiche venivano trovati candelotti e materiale per confezionare bombe per cui gli uomini dell'Ufficio Politico stringevano il cerchio attorno a quattro soggetti dell'ultrasinistra, la Questura di Milano continuò a porre attenzione ai movimenti dell'estrema destra, in particolare agli ambienti padovani dove avevano avuto origini le posizioni dette "nazimaoiste" germogliate negli ambienti universitari negli anni della contestazione dalle organizzazioni studentesche di destra "La Caravella" e "Primula Goliardica". DI tali movimenti uno degli esponenti di spicco era il nazimaoista padovano Franco Freda. Mentre a Milano le indagini proseguivano con la successiva carcerazione degli anarchici Eliane Vincileone, Giovanni Corradini, Paolo Braschi, Paolo Faccioli, Angelo Piero Della Savia e Tito Pulsinelli, veniva recapitato da un rappresentante della resistenza ellenica un rapporto segreto al corrispondente del "The Observer" Leslie Finer. Il documento era stilato da un agente dei servizi segreti di Atene in Italia e indirizzato direttamente al primo ministro della giunta dei colonnelli Georgios Papadopoulos. Nel dossier, i cui contenuti saranno sostanzialmente minimizzati dalla stampa italiana, si faceva riferimento diretto alle bombe della Fiera e della Stazione Centrale. Nel secondo capitolo intitolato "azione concreta", che faceva riferimento ad un ipotetico piano di pressione su alcuni esponenti delle Forze Armate italiane (in particolare dell'Arma dei Carabinieri) verso la sollevazione militare sul modello ellenico, si dichiarava che "le azioni la cui realizzazione era prevista per epoca anteriore non hanno potuto essere realizzate prima del 20 aprile. La modifica dei nostri piani è stata necessaria per il fatto che un contrattempo ha reso difficile l'accesso al padiglione Fiat. Le due azioni hanno avuto un notevole effetto". (…). Per l'arresto degli anarchici ( ai quali effettivamente erano stati attribuite azioni e possesso di materiale esplosivo) gli uomini dell'Ufficio Politico della Questura (tra cui Luigi Calabresi) attirarono l'odio delle frange più estreme della sinistra extraparlamentare, così come della destra eversiva in quanto le indagini non esclusero mai la pista nera nonostante gli arresti di quei giorni. Un punto di svolta decisivo si verificò tra il 1971 e il 1972 quando il giudice di Treviso Giancarlo Stiz raccolse i frutti delle indagini sul gruppo padovano di "Ordine Nuovo" e dispose l'arresto di Franco Freda e Giovanni Ventura con riferimento agli attentati dinamitardi in Veneto nel 1968 e quindi a Torino e Milano nel 1969 (tra cui le bombe della Fiera e della Stazione Centrale). Poco dopo viene arrestato anche Pino Rauti, uno dei massimi esponenti del "Centro Studi Ordine Nuovo". Nei giorni che videro svolgersi gli interrogatori del gruppo dei nazimaoisti il Commissario Luigi Calabresi veniva assassinato di fronte alla sua abitazione milanese di via Cherubini. Era il 17 maggio 1972. Cinque giorni più tardi, gli ordinovisti venivano inquisiti anche per la strage di Piazza Fontana, il cui processo si stava svolgendo a Milano. Pino Rauti, scarcerato dopo la custodia cautelare nell'aprile 1972 sarà eletto deputato nelle file del MSI, mentre l'inchiesta che coinvolgeva gli ordinovisti sarà affidata al giudice Gerardo D'Ambrosio che già si stava occupando della morte dell'anarchico Giuseppe Pinelli. Freda e Ventura saranno condannati per la bomba del 25 aprile e rimarranno in carcere fino alla metà degli anni '80. L'inchiesta sulla strage di Piazza Fontana, trasferita a Catanzaro, scagionerà invece in via definitiva i due ordinovisti con la conferma della sentenza già espressa dalla Corte di Cassazione di Bari. La strage più tristemente famosa della storia dell'Italia repubblicana avrebbe potuto essere anticipata di qualche mese durante quell'ammainabandiera di 50 anni fa nei viali della Fiera, che indicò simbolicamente l'inizio della lunga e drammatica stagione del terrorismo e degli attentati. Per quanto riguarda la Fiera di Milano, l'ordigno del 25 aprile era la seconda bomba esplosa durante una edizione della Campionaria dopo quella del 12 aprile 1928.
· Ecco dove nasce il nuovo terrorismo italiano.
50 anni fa la "battaglia di via Larga" e la morte dell'agente Annarumma. Il poliziotto fu la prima vittima degli anni di piombo, ucciso da un tubolare di ferro durante gli scontri tra Polizia e manifestanti di gruppi della sinistra extraparlamentare. Edoardo Frittoli il 19 novembre 2019 su Panorama. Cinquant'anni fa l'agente di Pubblica Sicurezza Antonio Annarumma, ventiduenne irpino in forza al Reparto Celere, perdeva la vita nel centro di Milano durante gli scontri tra le Forze dell'Ordine e i manifestanti nel giorno dello sciopero generale. Fu la prima vittima della lunga scia di sangue degli anni di piombo.
Milano, mattina del 19 novembre 1969: gli antefatti. La città era deserta per la proclamazione dello sciopero generale a cui avevano aderito quasi tutte le categorie del lavoro. Al Teatro Lirico in via Larga era in corso un'assemblea delle tre sigle sindacali sui temi chiave del'"autunno caldo": i rinnovi contrattuali, il carovita, la casa. A poca distanza dall'assemblea sindacale l'Università Statale era occupata dalla sera precedente e gli studenti del Movimento Studentesco si erano asserragliati all'interno dell'ateneo simbolo della contestazione sin dall'anno precedente. Dopo le 10 del mattino altri due cortei andavano formandosi: il primo, sul sagrato del Duomo, era costituito dai "filo-cinesi" dell'Unione Dei Comunisti Marxisti-leninisti e di "Servire il Popolo". Dall'Università occupata andò invece formandosi il corteo degli studenti del Movimento. Il primo gruppo si mosse dal Duomo poco prima delle 11:30 con bandiere e striscioni con l'effigie di Mao Tse-Tung ed alcuni volantini che inneggiano alla "violenza rivoluzionaria" e all'"abbattimento di Esercito e Polizia". Erano scortati da uomini e mezzi del Reparto Celere, alla guida di uno dei quali c'è il giovane agente Annarumma. Dalle barricate della Statale cominciarono a confluire verso via Larga i primi manifestanti. Quando si vennero a trovare nei pressi del Teatro Lirico, alcuni di questi forzarono il blocco del servizio d'ordine dei sindacati. Una trentina di manifestanti riuscirono a penetrare all'interno del teatro. Il resto del corteo si avviò in seguito verso il palazzo di Giustizia, dove la manifestazione si concluse senza incidenti.
La battaglia di via Larga e morte di un agente. La situazione precipitò poco più tardi, quando davanti al Lirico si concentrarono gli studenti che nel frattempo avevano organizzato ben 8 barricate nelle vie circostanti. Il corteo si presentò al termine dell'assemblea sindacale, mentre i partecipanti uscivano dal teatro. Nel caos che si generò, il cordone di polizia rimase tagliato in due e gli agenti cercarono con le camionette una manovra di disimpegno, che allora prevedeva la pratica del "carosello" con le jeep. Nella confusione che seguì uno dei mezzi colpì un manifestante nei pressi di un uscita secondaria del Lirico. Fu la scintilla che fece detonare la battaglia. Gli studenti e i marxisti-leninisti infiltrati risposero con violenza all'azione della Celere. Oltre ai cubi di porfido divelti dal pavé furono asportati lunghi tubolari di ferro da un cantiere nei pressi del Palazzo dell'Anagrafe. In mezzo alla battaglia si gettò anche il "gippone" (un OM "CL-52") guidato da Annarumma. Durante la corsa, la tragedia. All'improvviso il parabrezza andò in frantumi, il mezzo sbandò andando a impattare violentemente contro una Fiat "Campagnola" della Polizia. Un pesante tubolare da impalcatura scagliato contro la camionetta aveva colpito in pieno volto l'agente 22enne, penetrando in profondità nella scatola cranica con un danno devastante. Durante la breve agonia di Annarumma la battaglia non si fermò. Per dare la misura della violenza che quel giorno si sfogò per le strade del centro di Milano, basti pensare che i sassi e i tubi di ferro colpirono anche un'ambulanza della Croce Verde e due della Croce Bianca, con un milite volontario finito al pronto soccorso. Alla fine della guerriglia il bilancio fu di circa 70 feriti (la maggior parte poliziotti) e di 19 arresti, mentre gli studenti rientravano nella Statale occupata e protetta dalle barricate. Annarumma fu portato d'urgenza al vicino Policlinico dove fu tentato il possibile per salvargli la vita Ma alle 14:27 i medici del padiglione "Beretta" si arresero, dichiarando la morte delle prima vittima caduta sulle strade dell'Italia degli anni di piombo. L'assassinio di Antonio Annarumma rimane senza un colpevole, non essendo stato possibile individuare con certezza la mano che scagliò quel "tubo Innocenti" in un'Italia che entrava in uno dei decenni più drammatici dal dopoguerra e che l'innocenza l'aveva perduta quella tragica mattina sul selciato di via Larga.
"Lo vidi nella jeep col buco in testa". Il racconto del commissario Pagnozzi: «Per la prima volta attaccavano la polizia». Luca Fazzo, Martedì 19/11/2019, su Il Giornale. Cominciò tutto per caso, con una camionetta che facendo manovra urtò un manifestante, all'uscita dal comizio sindacale al Teatro Lirico. Quel che seguì fu un inferno reso possibile solo dal clima di rivolta crescente di quegli anni, dalla convinzione sempre più diffusa che la rivoluzione fosse dietro l'angolo. E che lo scontro di piazza fosse la scorciatoia preferibile. Antonio Annarumma, agente di polizia, immigrato al nord per cinquecentomila lire al mese, lasciò la vita sul gippone che guidava, colpito al cranio da un tubo Innocenti usato come un rostro dai manifestanti. Pochi giorni dopo, il settimanale Lotta Continua - diretto allora da quel raffinato intellettuale di Piergiorgio Bellocchio - festeggiò l'evento con una grande foto in prima pagina dell'assalto alle camionette: «La violenza operaia dalla fabbrica alle strade». Sono passati cinquant'anni e finalmente da ieri mattina il proletario Antonio Annarumma, ucciso in nome della rivoluzione, ha una lapide che lo ricordi, scoperta ieri mattina dal sindaco Sala in via Larga, di fronte al luogo in cui il Terzo reparto Celere e i manifestanti dello sciopero generale, entrarono in rotta di collisione. A tenere a galla il suo ricordo, in questo mezzo secolo, è stato solo il suo nome dato alla caserma della polizia in via Cagni. Ma il suo reparto era di stanza in un'altra caserma, quella tutt'ora in servizio di piazza Sant'Ambrogio: dove i suoi commilitoni pazzi di rabbia, rientrai dopo la battaglia di via Larga, diedero l'assalto ai loro comandanti, accusandoli di mandarli al massacro contro i violenti dell'ultrasinistra. Il generale Arista venne cacciato dalle camerate, ci furono scontri e feriti, si dice che volarono persino candelotti lacrimogeni. «Siamo stanchi di essere trattati come bestie», urlavano piangendo i colleghi dell'agente ucciso. Per capire i fatti di via Larga, bisogna dare voce a quello che quel giorno era un giovane commissario dell'Ufficio politico e che sarebbe diventato uno degli sbirri più famosi della Milano nera: Antonio Pagnozzi, futuro capo della Squadra Mobile. «Con i miei uomini ero all'ex Verziere e quando udii gli ululati della sirene corsi in via Larga. Per la prima volta nel corso di un servizio di ordine pubblico ho visto i dimostranti attaccare decisamente la polizia. Ho notato subito, tra il fumo dei candelotti lacrimogeni, una figura con un'asta proiettata verso l'interno di un gippone. Questo gippone sbandò a sinistra e urtò una jeep. Mi avvicinai e vedi l'autista, il povero Annarumma, con un buco nella testa». Quel buco il poliziotto non se l'era fatto, come sostenne l'ultrasinistra, andando a sbattere contro il montante del parabrezza. Il primario del Policlinico Vittorio Staudacher che si vide portare l'agente ormai privo di vita, non ebbe dubbi: «La natura della ferita consente di affermare che l'agente Annarumma è morto subito dopo essere stato colpito da un lungo e pesante pezzo di tubo, lanciato con forza da qualche metro, oppure usato come una vera e propria lancia per colpire l'agente». I due verbali di Pagnozzi e Staudacher non vengono dal processo all'assassino di Annarumma ma da quello, celebrato per direttissima poche settimane dopo, a tredici manifestanti (ma loro, all'unisono, dissero di essere passati in via Larga per caso) arrestati al termine degli scontri e accusati di radunata sediziosa e danneggiamento. «I dimostranti ci gridavano carne venduta, fascisti», testimoniò il poliziotto che era accanto ad Annarumma. Il giudice Angelo Salvini (padre di Guido, il giudice che decenni dopo scoprì gli autori della strage di piazza Fontana) ne condannò solo alcuni. E a pene assai miti. E l'inchiesta sull'omicidio dell'agente che fine fece? Negli archivi del tribunale, il calvario del celerino è riassunto in poche righe: fascicolo 38286, pubblico ministero Elio Vaccari, iscritto a modello B il 21 novembre 2019, parte lesa Annarumma Antonio. Ultima annotazione del Nucleo investigativo dei carabinieri, il 6 febbraio 1970. Il 27 marzo 1971 il pm Vaccari chiede il «non doversi procedere», ovvero l'archiviazione del fascicolo, perché il reato è «commesso da autori ignoti». Il poliziotto Annarumma ha il suo nome su una caserma, da ieri ha una targa appesa dove morì. Ma non ha avuto giustizia.
Anarchici, il terrorismo parte da Torino. Dagli scontri in piazza alla lettera-bomba al Sindaco Appendino, scrive Panorama il 21 aprile 2019. C’è chi pensa che gli anni di piombo potrebbero tornare e chi crede che questa stagione non si sia mai conclusa. La lettera-bomba recapitata nei giorni scorsi al sindaco di Torino Chiara Appendino è un campanello d’allarme importante. Perché, a Torino, le cellule del terrorismo si passano il testimone da una generazione all’altra. La manifestazione di sabato 30 marzo è la conclamata conferma che la galassia dei gruppi anarchici è una pentola a pressione. Affrontare questo fenomeno così allarmante è come camminare sulle sabbie mobili e Panorama ci ha provato intervistando il questore Francesco Messina - in partenza per il Viminale - e un pugno di investigatori capitanati dal capo della Digos, Carlo Ambra. Gli esperti poliziotti, più di un anno fa, sono stati inviati nel capoluogo piemontese per studiare e monitorare il piccolo esercito di anarchici, ben organizzati e presenti in tutto il Paese e anche nel resto dell’Europa. «Abbiamo giocato una partita a scacchi e questa volta la mossa vincente è toccata a noi» dice la competente investigatrice che non nasconde la stanchezza, ma anche la grande soddisfazione. E aggiunge: «Perché l’arsenale rinvenuto è la prova che più di 750 anarchici non volevano manifestare e basta». Gli inquirenti, pur non celando la preoccupazione, si limitano a mormorare all’unisono: «Finché la preparazione militare e il numero dei terroristi si manterrà a questi livelli, il pericolo della lotta armata è sotto controllo. Ma non possiamo abbassare la guardia perché potrebbe esplodere un casino. In tempi rapidissimi». La città della Fiat, della miriade di fabbriche chiuse e dei casermoni fatiscenti è ritenuta un laboratorio dell’organizzazione eversiva. Si alimentano, in questa miscellanea torinese, le cellule degli anarchici insurrezionalisti che sono ritenuti i più pericolosi, perché usano la rivolta violenta come mezzo per indebolire le istituzioni e per creare un nuovo ordine sociale. Il cavallo di battaglia del movimento rivoluzionario o, meglio di questo sodalizio criminoso, è l’azione contro la macchina delle espulsioni dei migranti: per raggiungere tale scopo cercano di creare le migliori condizioni per uno sbocco insurrezionale di massa. In un’intercettazione ambientale si evidenzia chiaramente lo scopo dell’attività sovversiva: «Io voglio distruggere il sistema… Rompere gli equilibri di potere, che ti permettono di avere spazi se puoi anche di non controllo da parte dello Stato e… in autonomia. Perché quello che conta è raggiungere l’obiettivo finale. Io non devo guardare alla rivolta come singolo evento in cui non siamo riusciti a fare niente, ma devo vedere il fatto che tu hai progettato perché rimane chi è determinato…». Per indebolire lo Stato, oltre alle manifestazioni di piazza, il gruppo anarchico attacca le strutture di rimpatrio (i Cpr), sabota le società che prestano la propria opera in tali strutture. La cellula anarco-insurrezionalista sociale è diventata una sorta di catalizzatore della miriade di gruppi anarchici sparsi in Italia, Europa e anche oltreoceano. Si potrebbero descrivere come piccoli nuclei di combattenti - al massimo dieci compagni - che somigliano alle sette e che, se fossero più coesi, potrebbero raggiungere un numero che neppure gli inquirenti dell’Antiterrorismo saprebbero quantificare. «I numeri? Potrebbero essere 300-400 persone» dicono gli inquirenti. «Quando parte il tam tam anche virtuale - via Facebook, in modo particolare - è quasi impossibile prevedere quanti saranno gli anarchici allertati per azioni di sabotaggio o per mimetizzarsi durante le manifestazioni di piazza». La parola d’ordine? «Sono un anarchico perché lotto contro gli sfratti, il Cie, le carceri, la polizia, i ricchi: vogliamo la rivoluzione perché la gente come voi deve scomparire». «Il giorno dello sgombero dell’Asilo gli anarchici hanno dimostrato una vera preparazione bellica e il controllo capillare del territorio. La nostra scrupolosa attività investigativa è cominciata quasi due anni fa» spiega il questore Messina. «Abbiamo capito che questo gruppo eversivo è così ermetico che si può paragonare a una monade; inoltre, è un’organizzazione fluida che non è collegata ad altre enclave terroristiche. L’operazione Scintilla ha destabilizzato i loro piani e in questa fase hanno bisogno di creare una saldatura con il resto dei movimenti anarchici e dei centri sociali». E aggiunge: «Francamente mi è sembrato fuori luogo la solidarietà nei confronti dello sgombero dell’Asilo di certi gruppi che manifestano pacificamente e che seguono la strada della legalità. Mi riferisco ai movimenti No Tav e a quelli degli studenti». L’Asilo era la dépendance di setteotto attivisti, arrestati perché considerati la «mente operativa» del gruppo, punto d’approdo di anarchici italiani, spagnoli, greci, francesi, peruviani; in modo particolare, di quelli che hanno il fiato sul collo degli sbirri e cercano un rifugio sicuro. Per maggiore tranquillità perfino le telecamere che si trovavano negli edifici a due passi dall’Asilo erano state disattivate («Dobbiamo fare un rilievo completo delle telecamere con proprio la mappa di Openmap con il raggio che ha la telecamera: cosa vede, cosa non vede e poi studiare le cose» spiegava uno degli anarchici arrestati). Gli investigatori della Digos torinese durante le indagini hanno trovato un escamotage per incastrarli - avendo la certezza che proprio l’Asilo era la base logistica e operativa degli attentati dinamitardi compiuti in Italia, che portavano all’invio di plichi esplosivi alle società di servizi che collaborano con il Cpr - e si accorgono che il gruppo pianifica minuziosamente tutte le fasi di attuazione ed esecuzione delle azioni più violente, cercando anche di non lasciare tracce che potrebbero ricondurre all’identificazione dei responsabili. Così i poliziotti della Divisione investigativa fanno partire sei misure cautelari nei confronti di 13 militanti e dispone pure il prelievo del Dna. Questa disposizione scatena il panico fra gli autori degli attentati che si sentono vulnerabili e temono di avere lasciato qualche traccia di materiale biologico durante la fase di preparazione e di esecuzione delle azioni violente. E quindi alzano il «livello di attenzione» e prendono alcuni accorgimenti come fanno i latitanti mafiosi: recuperano i mozziconi di sigarette gettati a terra e li mettono in tasca; lasciano i cellulari in un’altra stanza durante le riunioni operative; fanno una mappatura delle telecamere nell’area, dove pianificano azioni anche violente. Il vero grimaldello investigativo è che dopo il prelievo del Dna, improvvisamente, termina la strategia eversiva: la spedizione appunto di plichi esplosivi alle ditte che collaborano con i Centri d’identificazione e d’espulsione. Forse sarebbe stato più opportuno non eseguire i test del Dna, aspettare ancora qualche mese. «Abbiamo messo in fuga altri anarchici con progetti belligeranti?» si chiede il capo della Digos Carlo Ambra. E si lascia sfuggire: «Sicuramente le indagini non si fermano qui e lo abbiamo dimostrato in questi giorni». Ci potrebbe essere una pista che porta all’estero. Peraltro un indagato non italiano dell’operazione Scintilla è finito nella rete della polizia e le forze dell’ordine sono certe che abbia lasciato l’Italia. Intanto, dopo la manifestazione di fine marzo la risposta degli anarco-insurrezionalisti non si è fatta attendere: «Riteniamo che sia quella la pista della busta contenente un congegno rudimentale recapitata al sindaco di Torino, Chiara Appendino» conferma la Digos. Questi segnali inquietanti potrebbero portare a un’evoluzione, anche armata, nella lotta? «C’è già stata» dice il questore Marino senza esitazione.
"La Balzerani ospitata. dal Comune Il sindaco tace?", scrive Il Giornale Giovedì 18/04/2019, su Il Giornale. È servito a poco protestare, denunciare, opporsi. Stasera alle 19 l'ex brigatista rossa Barbara Balzerani presenterà il suo libro dal titolo «L'ho sempre saputo» alla Comasina nei locali del comune di Milano gestiti dalla cooperativa sociale onlus Volontari senza frontiere. «Il Sindaco Sala su questa vicenda si è sentito poco- attacca l'assessore alla sicurezza della Regione Lombardia Riccardo De Corato- Al contrario di altre iniziative che lo hanno visto in prima fila brandendo la costituzione e mobilitando l'esercito per impedire qualche saluto romano, non è stata vista nemmeno la sua ombra...». Il libro della ex terrorista, mai dissociatasi dalle idee eversive, sarà presentato in via Senigallia 60 e a darne notizia sulla sua pagina Facebook è la stessa «scrittrice» che due giorni fa ha postato la locandina dell'evento con scritto «Milano, che non è solo da bere! Metro gialla, fermata Comasina». «Sono queste le associazioni amiche della sinistra?- si chiede l'assessore- Il Comune non può lavarsene le mani e stare alla finestra a guardare. Il Sindaco di Milano apra gli occhi e metta in piedi ogni possibile iniziativa per revocare la gestione della struttura alla Comasina e per far cessare ogni rapporto di collaborazione, ove ce ne fossero, con l'Associazione Volontari senza Frontiere. A Milano da ormai 8 anni si accarezzano le idee nostalgiche sessantottine. Ora però ci si è spinti oltre, arrivando a coccolare persino una Brigatista che non si è mai né pentita, né dissociata».
· "Io gambizzato dalle Br. Una follia equiparare le vittime ai carnefici".
"Io gambizzato dalle Br Una follia equiparare le vittime ai carnefici". L'ex Dc Iosa: «Gli assassini facciano mea culpa invece di nascondersi dietro l'ideologia», scrive giovedì 11/04/2019 Il Giornale. Nessun approccio talebano è utile per spiegare la strategia della tensione e degli opposti estremismi sia per il terrorismo rosso che per quello nero. Chi ha sbagliato deve pagare e non illudersi della proprio innocenza ideologica che giustifica l'assassinio politico! Apprezzo, però, chi con discrezione e misura, dopo avere espiato la propria pena per gli errori del passato, si è riacquistato una considerazione e una identità sociale, familiare e professionale di tutto rispetto, senza concedergli il diritto all'oblio. Non si può pretendere un abbraccio misericordioso su fatti terroristici che hanno lastricato di sangue le strade e le piazze del nostro Paese. Lasciamo che siano certi sprovveduti a predicare l'equiprossimità e a equiparare le sofferenze delle vittime a quelle dei carnefici, pur di smussare i contrasti e di riscrivere faziosamente la storia degli anni di piombo. I famigliari delle vittime e i feriti non sono stati portatori di interessi politici, ma appartenevano alla società civile e nulla hanno da spartire con gli ex terroristi, né sono in grado o tenuti a capire le ideologie politiche e le farneticanti dichiarazioni strategiche dei teorici e dei protagonisti della sovversione armata, che ha provocato una tragedia nazionale che non è stata ancora capita nella sua gravità. Non si fa la rivoluzione in democrazia, contro l'ordinamento costituzionale dello Stato, per cambiare le regole e portare il «paradiso del comunismo leninista» in Italia. Gli errori dei terroristi sono stati spaventosi con tutto quel sangue di vittime innocenti. Abbiamo vissuto bollettini di guerra e le uccisioni ci hanno fatto riflettere che nessuno delle vittime aveva colpe di nessun tipo. Tutto questo ha aperto gli occhi ai gruppi extraparlamentari e agli stessi simpatizzanti eversivi. Come non può esistere il diritto all'oblio, non può esistere il diritto alla riabilitazione storica del crimine commesso, in virtù di una riconciliazione frutto di un baratto «Verità Impunità». Il delitto va sempre e comunque condannato e mai giustificato o nobilitato per faziosità ideologica o per dabbenaggine di chi perdona per liberarsi dai mostri che lo affliggono. Gli ex, per uscire dal tunnel, devono liberarsi da un residuo di mentalità vetero rivoluzionaria, con la narrazione autoreferenziale, nostalgica e, magari, eroica della loro militanza e devono mutare anche il linguaggio che spesso ricalca il lessico terroristico. Tale narrazione vanifica l'esplicito rifiuto della radicalizzazione della violenza contemporanea. Io ricordo tutto e non sono uno sbirro! Non cerco il male o il nemico, perché questo è compito dei moralisti e degli angeli sterminatori. Non cerco l'innocenza o la redenzione, perché è compito dei preti, dei santoni e dei fanatici vetero-comunisti, né come vittima voglio diventare persecutore, né rendere «martiri» gli ex terroristi, che si lamentano di avere sofferto le pene carcerarie mentre si consideravano eroi. Non sono un talebano e tanto meno un guerrigliero della memoria, ma ho sempre cercato il dialogo e la riconciliazione possibili, a condizione che gli ex terroristi si assumessero la responsabilità, coscienti del male commesso e di non essere stati eroi per giusta causa. Ricordo che, fra il pubblico del mio Circolo culturale Perini a Quarto Oggiaro, un giovane di 19 anni mi contestò in un pubblico dibattito, dicendo: «Con la Democrazia Cristiana non si dialoga, ma si spara». L'anno dopo, questo giovane (Roberto Adiamoli) imbavagliato e incappucciato, il 1° Aprile 1980, faceva parte del commando delle brigate rosse che organizzarono una rappresaglia per vendicare i quattro terroristi uccisi dai carabinieri dell'antiterrorismo in via Fracchia a Genova dai carabinieri e che condannarono a morte me e altri tre amici democristiani nella sezione di via Mottarone 5 a Milano. All'ultimo momento, anziché spararci alla testa come avevano deciso, non essendoci noi inginocchiati, ebbero un momento d'esitazione e ci spararono alle gambe, perché assistevano alla esecuzione una quarantina di soci. Il mio sparatore fu Roberto Adiamoli. Bisogna farsi carico del dolore dei familiari delle vittime e di una «memoria condivisa» per continuare a stringerci le mani; per segnare una svolta di pacificazione; per chiudere un'epoca di odio e di violente contrapposizioni.
COSA C'ENTRA UNA ROCKSTAR ITALO-BRITANNICA CON LE BRIGATE ROSSE? Paolo Giordano per il Giornale il 31 marzo 2019. Che storia, quella di Jack Savoretti. Intanto è al numero uno in classifica in Gran Bretagna con un disco che profuma d'altri tempi, quel Singing to strangers nel quale canta anche un testo inedito di Bob Dylan (Touchy situation). Neanche due mesi fa è passato al Festival di Sanremo con gli Ex Otago, con i quali ha appena registrato una nuova versione di Solo una canzone. Ed è uno dei golden boy della canzone d'autore inglese, visto che The Guardian ha definito il suo disco «una lussuosa nuvola di sofferto romanticismo», Bruce Springsteen e Neil Young lo hanno voluto nei propri concerti e lui chiuderà il suo tour con uno show sold out nientemeno che alla Wembley Arena di Londra. «Ma io sono cresciuto ascoltando Tenco, Battisti, Dalla» spiega in perfetto italiano raccontando la sua storia. Suo padre è di Genova e, se Jack è nato a Westminster cioè a Londra, è tutta «colpa» delle Brigate Rosse, proprio così. «Mio papà Guido fu testimone della loro rapina a una banca (probabilmente la Popolare di Novara l'11 aprile 1978, ndr) e raccontò agli inquirenti quanto aveva visto». Insomma, come dice lui sorridendo, «aveva 19 o 20 anni, si sentiva come John Wayne o Charles Bronson e voleva cercare giustizia».
E poi?
«E poi lo misero sotto scorta per un bel po', diciamo due anni».
Ma lui che lavoro faceva?
«Era un mediatore marittimo ma voleva diventare attore, anzi aveva già recitato in due film, La Madama di Duccio Tessari del 1976 con Christian De Sica e Zorro con Alain Delon, dove però diceva solo una battuta: Dov'è la chiave?. Ancora adesso, quando lo voglio prendere in giro gli chiedo dove sia quella chiave...».
Ma cosa c'entra la Gran Bretagna?
«Mio nonno Giovanni, che fu uno dei partigiani che aiutarono a liberare Genova dai nazifascisti e poi si avvicinò alla Democrazia Cristiana prima di lasciare la politica, gli consigliò di non rischiare e di andarsene via, lontano dall'Italia per mettersi al riparo dalla vendetta dei brigatisti che lo avevano visto in faccia».
Gli anni di piombo.
«E così papà arrivò a Londra».
Nuova vita.
«Per un po' ha fatto il gundùn, come dicono a Genova, ossia se l'è goduta. Poi ha conosciuto mia mamma, che faceva la modella e aveva parecchi amici musicisti, tra i quali Keith Richards dei Rolling Stones».
Quindi Jack Savoretti aveva la musica nel destino.
«In realtà volevo fare il calciatore».
Non sempre si raggiungono gli obiettivi.
«A tredici anni mi è venuto il bisogno per la musica. E i miei genitori sono sempre stati dalla mia parte, anche se musicalmente non vanno d'accordo. A mia mamma piace di più il soul alla Marvin Gaye, mio padre è per Kris Kristofferson o Battisti».
Cosa dicono che Jack ora è al primo posto in classifica (e in Italia è nella top 20)?
«Beh mio padre è rimasto senza fiato».
E lei?
«Beh, non era parte del mio piano finire al primo posto in classifica, per di più sopra Tom Walker (noto qui da noi per il duetto con Mengoni in Hola, ndr). Io comunque non ho mai avuto fretta».
Questa è bella, e perché?
«Perché non è decisivo piacere subito a tutti. Bisogna aspettare. Per capirci, se suoni sempre nello stesso posto, alla prima volta ti applaudirà qualcuno. Alla seconda volta qualcuno in più e via così».
Sempre stato così saggio?
«Ora ho trentacinque anni ma, anche musicalmente, ho dovuto crescere e maturare. Prima mi sono perso paragonandomi a identità musicali più forti di me. Stavolta ho deciso di presentarmi per quel che sono: un italo-inglese che ama certe atmosfere romantiche e un tipo di musica passionale».
Dice poco. E Bob Dylan?
«È stato molto più semplice di quanto ci si possa immaginare. Vorrei avere una storia fantastica da raccontare ma non è così. Il mio manager ha saputo che c'erano dei testi inediti di Bob Dylan scritti negli anni Novanta e glieli ha chiesti. Ci hanno mandato un pezzo corto da rielaborare e un testo più lungo che avrebbe potuto essere usato tutto. Ho scelto quello, ho scritto la musica e ho avuto l'ok per pubblicarla. Facile no?».
E sua moglie, l'attrice Jemma Powell alla quale ha dedicato il disco Sleep no more del 2016?
«Anche per questa canzone è stata decisiva. Quando mi ha visto che componevo la musica con la chitarra, mi ha detto: Ma mica vorrai diventare uno che fa la copia di Bob Dylan con la chitarra?. Così sono passato al piano e così è nata Touchy situation».
La canterà anche dal vivo nel tour che parte il 16 aprile da Padova?
«Se capita, sì. Ad aprire i concerti per me ci sarà Afra Kane, una prodigiosa italo-nigeriana».
Magari la verranno a trovare anche i suoi conterranei (da parte di padre) Ex Otago.
«A me piacciono moltissimo le collaborazioni. E poi loro hanno anche un altro merito: mi hanno fatto innamorare del Festival di Sanremo, prima lo ero molto meno...».
"Mio marito poliziotto, che arrestò la brigatista Nadia Lioce ma poi non riuscì più a vivere". Parla la vedova di Bruno Fortunato, agente ferroviario che un giorno si trovò davanti due brigatisti, finì in un conflitto a fuoco, vide il suo miglior amico morire. E dopo anni di solitudine decise di andarsene anche lui, scrive Sara Lucaroni l'1 aprile 2019 su L'Espresso. Esistono dei gradi per assurgere al rango di eroi. L’ultimo, quello che conferisce il titolo universale, è la morte per mano del nemico. Se ci arrivi solo vicino, puoi finire a vivere in un limbo o addirittura essere messo da parte come se avessi violato un copione, una consapevolezza: vittima è soprattutto chi muore. Il poliziotto Bruno Fortunato soffriva perché gli avevano fatto sentire che l’epica del sacrificio non gli apparteneva del tutto, nonostante avesse visto uccidere un amico, fosse stato riformato per i danni fisici, abbia sempre detto «ho fatto solo il mio dovere». Gli sarebbe bastato un “grazie” in più. «Ha sempre avuto questo rammarico, non aver sparato anche alla Lioce». Filomena Fortunato lo dice con fermezza. Ha davanti il telefono col numero che apparteneva al marito, è orgogliosa dei tre figli tutti in Polizia e ogni tanto la sera va a rivedere i ritagli di giornale. «Prima o poi smetterò, non mi fa bene». Raccontano del regionale Roma-Firenze che si bloccò a Castiglion Fiorentino il 2 marzo 2003, e di quando lui, Emanuele Petri e Giovanni Di Fronzo, tre poliziotti della Polfer di Terontola durante il servizio di controllo sui passeggeri di un treno a scelta, non sapevano di aver preso quei fantasmi armati che avevano ucciso il giuslavorista Marco Biagi il 19 marzo del 2002 a Bologna e prima ancora il consulente del lavoro Massimo D’Antona, il 20 maggio 1999 a Roma. Le Nuove Brigate Rosse.
«Il pensiero di Ezio Tarantelli rimane sempre attuale». Anche quest’anno la Cisl ha ricordato l’economist ucciso il 27 marzo del 1985 dalle Brigate Rosse a Roma, scrive il 31 Marzo 2019 Il Dubbio. Aveva solo 44 anni Ezio Tarantelli quando cadde freddato dai colpi delle Br proprio nel luogo che gli aveva e stava dando soddisfazioni ed i giusti riconoscimenti. «A distanza di 34 anni dal suo barbaro assassinio, Ezio Tarantelli rimane un punto di riferimento costante per la Cisl». Così la leader di via Po, Annamaria Furlan, ha ricordato l’economista, figura chiave nella storia italiana e non solo, barbaramente ucciso il 27 marzo del 1985 dalle Brigate Rosse nel parcheggio della facoltà di Economia e Commercio della Sapienza di Roma, dove aveva da poco concluso una delle sue seguitissime lezioni di economia politica. «Era un grande intellettuale, Ezio, animato da una profonda passione civile e sociale», ha aggiunto il Segretario confederale Ignazio Ganga che per la Cisl, assieme ai vertici di Cgil e Uil, alla famiglia, al Rettore della Sapienza, al Preside di Economia e a tanti amici e colleghi, ha partecipato alla commemorazione dell’ economista presso il cippo nel luogo dell’attentato. «Attualissimo il suo pensiero, sempre rivolto al mondo del lavoro, ai giovani, al Sud da tutelare e rilanciare, alle disuguaglianze da combattere- ha più volte ricordato Ganga. Tarantelli era animato da un impegno caparbio e “illuminato” volto a contrastare negli anni Ottanta l’inflazione, la cui sconfitta si concretizzò in una vittoria della democrazia di cui si giovarono soprattutto i lavoratori, la gente comune, gli italiani più poveri». Per questo Ezio Tarantelli può considerarsi uno dei padri della concertazione, di quegli accordi e di quella politica virtuosa che ci permise di entrare a testa alta in Europa. Aveva sempre preferito al conflitto ed allo sterile scontro la cooperazione fra forze politiche e parti sociali, Tarantelli. A più di trent’anni dalla morte, l’attualità del suo pensiero sta proprio nell’aver intuito l’importanza della collaborazione responsabile tra sindacato, imprese ed Istituzioni, contro i governi della disintermediazione e del rapporto diretto con i cittadini. «Questa Italia va cambiata in meglio» sosteneva e per questo aveva messo i suoi studi e la sua esperienza al servizio del Paese. Nel suo pensiero riformista un posto privilegiato lo occupava l’impegno continuo per migliorare le condizioni delle lavoratrici e dei lavoratori. Una vera utopia, la sua, a favore dei deboli, contro l’arroganza di coloro che ostacolano il cambiamento e che trovano alleati nell’estremismo populista ed antagonista. Riprendere l’insegnamento di Tarantelli, oggi, significa rafforzare le maglie della coesione sociale, riproponendo la centralità della condivisione e soprattutto della “partecipazione”, uno strumento fondamentale per dare voce, ricercare soluzioni ai problemi di tutti e non solo di una parte e tenere insieme imprese, posti di lavoro, giovani, pensionati, territori, etnie. In un’Italia che tenta con fatica di uscire dalla crisi, dove il senso di insicurezza ed il disagio economico e sociale sembrano ancora prevalere e devono quindi essere affrontati, è fondamentale il valore della memoria del pensiero di un riformatore vero che voleva migliorare le condizioni dei lavoratori con la forza delle idee, il confronto con la realtà, l’impegno quotidiano, la fiducia nell’uomo e nelle sue possibilità di tendere sempre al bene comune. E non è un caso che una delle sue frasi più citate e conosciute suoni proprio così: “Non preoccupatevi, la gente capisce sempre, se gli si spiegano le cose”…
· Sette aprile 1979: la madre di tutte le inchieste bufala.
Sette aprile 1979: la madre di tutte le inchieste bufala. QUARANT’ANNI FA LA RETATA DEI 21 MILITANTI DI POTERE OPERAIO UNA VICENDA KAFKIANA CHE PORTAVA LA FIRMA DELL’ALLORA PM DI PADOVA PIETRO CALOGERO. Scrive Paolo Delgado il 31 Marzo 2019 su Il Dubbio. Tra pochi giorni, il 7 aprile, saranno quarant’anni tondi da una delle date più nere nella storia della giustizia italiana. Iniziò quel giorno, con 21 mandati di arresto spiccati dal pm di Padova Pietro Calogero, una vicenda processuale nella quale sarebbero state ridotte a carne da macello le garanzie minime senza le quali è impossibile parlare di uno Stato di diritto. Un’odissea che andrebbe definita surreale, se non fosse stata invece drammatica e a volte tragica, nella quale articoli e saggi vennero considerati prove a carico. Una pagina scura nella quale un partito politico, il Pci, si occupò in prima persona di trovare i ‘ testi’ e indicarli alla Procura. Un percorso kafkiano che comportò nel corso degli anni numerosi cambi dei reati contestati, senza che però la sostituzione facesse decadere le fattispecie dimostratesi nel frattempo inconsistenti, al solo fine di prolungare per anni la carcerazione preventiva degli imputati. Un’offensiva politica mascherata da inchiesta giudiziaria nella quale la grande stampa, con appena un paio di rilevanti eccezioni, scelse non di cercare e raccontare la verità ma, al contrario, di difendere un teorema puntualmente smentito dai fatti in nome di una esigenza, la ‘ lotta al terrorismo’, considerata prioritaria rispetto alla verità e alla deontologia professionale. Nel mirino c’erano alcuni tra i principali teorici e dirigenti dell’area detta allora ‘ dell’Autonomia’, da Toni Negri, il pesce più grosso, a Franco Piperno, da Oreste Scalzone alla redazione del periodico Metropoli, il cui primo numero era uscito nella stessa primavera del ‘ 79. Sullo sfondo una scelta strategica assunta dal pool di magistrati che si occupavano della lotta armata, riassunta nella formula ‘ togliere l’acqua intorno al pesce’: significava colpire l’area limitrofa alle organizzazioni armata, quella sospettata di coprire e fiancheggiare anche senza partecipazione diretta. Il caso 7 aprile è un labirinto: ricostruirlo puntualmente significherebbe cimentarsi in un’impresa titanica. Furono coinvolte, dopo quella di Padova, diverse Procure, in particolare quelle di Roma e Milano. Agli arresti del 7 aprile si aggiunsero quelli del 21 dicembre 1979, una cinquantina e passa di mandati, in seguito al pentimento di Carlo Fioroni, ex militante di Potere operaio e poi dei Gap fondati da Giangiacomo Feltrinelli, in carcere dal 1975 per il sequestro e l’uccisione dell’amico Carlo Saronio, e poi una terza ondata nella primavera dell’ 80. Confluirono nel caso una quantità di inchieste tra loro molto diverse, senza arrivare mai a una vera unificazione anche se essenzialmente il processone fu diviso in due tronconi, quello romano e quello padovano. L’uso disinvolto della sostituzione a più riprese dei reati contestati contribuisce a propria volta a rendere arduo districarsi nella vicenda. In concreto, l’ipotesi accusatoria da cui partiva Pietro Calogero era un modello di “ dietrologia” fondata sul nulla. Il magistrato si era convinto che Potere operaio, forse il gruppo della sinistra extraparlamentare più radicale e favorevole all’uso della violenza tra il 1969 e il 1973, quando si era sciolto al congresso di Rosolina, non avesse mai davvero chiuso i battenti. Si era tratto di un finto scioglimento, una messa in scena che permetteva ai dirigenti di quella organizzazione di costituire una ‘ cupola’ che dirigeva sia le organizzazioni armate, in particolare le Brigate Rosse, sia l’Autonomia, due facce della stessa medaglia. La galassia della sinistra estrema, apparentemente divisa in un’area che agiva alla luce del sole, l’Autonomia, e un’altra clandestina, le organizzazioni armate, ciascuna delle quali composta a propria volta da gruppi apparentemente distinti, rappresentava invece una realtà unica e monolitica, diretta nell’ombra dagli ex leader di Po. Un simile impianto, i cui tratti ricordavano da vicino il delirio paranoico, non era supportato da nessun elemento concreto ma solo dall’attento studio dei documenti prodotti da quell’area da parte del magistrato padovano e dalle testimonianze raccolte grazie all’attivo interessamento del Pci, nessuna delle quali aveva però vero valore probatorio. Su questa base furono spiccati il 7 aprile, tra gli altri, i mandati contro Negri, contro il direttore di Radio Sherwood, emittente dell’Autonomia padovana, Emilio Vesce, contro gli ex leader di Pot op Oreste Scalzone, Franco Piperno e Lanfranco Pace, ma gli ultimi due sfuggirono all’arresto riparando in Francia, ma anche contro il giornalista di Repubblica Pino Nicotri. Lo stesso 7 aprile si aggiunse a quella di Padova la Pocura di Roma, diretta allora da Achille Gallucci. Negri fu accusato di aver organizzato e realizzato il sequestro Moro, e fu indicato anche come ‘ telefonista’ delle Br durante i 55 giorni, accusa che ricadde peraltro anche su Nicotri. La stampa si schierò subito e senza un attimo di esitazione. Nessun dubbio, nessuna ricerca approfondita. Negri era “il rapitore di Moro” e anche quando la montatura crollò, nel giro di pochi mesi, non fece una piega. Quando Nicotri fu scarcerato, dopo 90 giorni, trovò di fronte al carcere una macchina del giornale che lo portò da Scalfari. Il direttore chiedeva di non difendere gli altri imputati e di non ‘ delegittimare’ l’inchiesta. Non fu accontentato. Nel panorama della stampa italiana solo Rossana Rossanda e Giorgio Bocca dissero quel che molti intuivano, e cioè che il processo era una montatura L’accusa fantasmagorica contro Negri si rivelò presto inconsistente ma le deposizioni di Fioroni permisero di mettere altra legna al fuoco. Br o non Br, Negri e gli altri imputati erano colpevoli di ‘ insurrezione armata’, più varie ed eventuali tra le quali un pacchetto di omicidi. Il caso 7 aprile si prolungò per anni. Squassò la procura di Padova con uno scontro violentissimo tra il procuratore Calogero e il giudice istruttore Giovanni Palombarini, convinto a ragione che non fosse possibile ‘ ricondurre a un’unica generale realtà associativa’ il fenomeno dei gruppi armati e delle strutture dell’Autonomia. Calogero reagì accusando il collega di sabotare o quasi l’inchiesta. L’Unità gli diede ragione. Il caso irruppe in Parlamento nel 1983. Negri, già in carcere da quattro anni in attesa di giudizio, fu candidato dal partito radicale ed eletto. La Camera si riunì, caso unico nella storia, a ferragosto per votare l’autorizzazione all’arresto. Nel Pci qualcosa era cambiato: decise di astenersi sino alla condanna in primo grado. La Federazione di Padova protestò indignata. L’autorizzazione passò comunque ma Negri, nonostante gli impegni assunti con Pannella aveva scelto di fuggire e raggiungere la Francia. In aula la montatura fu smantellata: nessuna condanna per insurrezione armata, nessuna conferma del ruolo occulto che nel terrorismo avrebbe svolto Potere operaio, a cui si negava la qualifica di banda armata, negazione assoluta della tesi portante della procura di Padova, quella sull’unicità dell’organizzazione sovversiva armata e autonoma. Le condanne in primo grado furono pesantissime, quelle del 1986 in appello, poi confermate dalla Cassazione nel 1988, molto meno. Pace, Piperno e Scalzone furono condannati solo per associazione sovversiva. Per Negri si aggiunsero le condanna per partecipazione a banda armata e concorso morale in rapina. Molti altri imputati, tra cui i redattori di Metropoli Paolo Virno e Lucio Castellano, furono assolti. Tutti avevano scontato lunghi periodi in prigione. Rispetto alle accuse originarie, le condanne erano robetta, e destavano il sospetto che servissero soprattutto a giustificare almeno in minima misura gli arresti e la lunghissima carcerazione preventiva. In questi casi si suole dire che si tratta di ‘ un’esperienza da dimenticare’. E’ precisamente quel che è successo. Lo scandalo del processo 7 aprile è stato semplicemente dimenticato. Nessuno ha mai rinfacciato quell’aberrazione giudiziaria ai magistrati che la edificarono con lo spago, i quali al contrario rivendicano a tutt’oggi con non ingiustificato e incomprensibile orgoglio. Il collega di Nicotri che aveva scritto “l’ergastolo non glielo toglie nessuno perché una perizia fonica dimostra senza possibilità di dubbio che la voce del telefonista delle Br era la sua”, si ritrovò anni dopo nella stessa redazione del mancato “telefonista”. Nonostante la perizia della quale aveva scritto non fosse mai esistita non si sentì neppure in obbligo di presentare le scuse. Il 7 aprile è stato dimenticato perché a tutt’oggi è opinione comune che in nome della ‘ lotta al terrorismo’ tutto fosse giustificato e su tutto la stampa democratica dovesse chiudere gli occhi per ‘ fare la propria parte’. Ma quel prolungato silenzio, la scelta consapevole di fare finta di niente, ha reclamato un prezzo persino superiore a quella dello scandaloso caso 7 aprile in sé. Allora, per la prima volta, la magistratura si sostituì alla politica e scelse di aggirare, se non ignorare, limiti e garanzie in nome di un’ ‘ esigenza superiore’. Quel sentiero pericoloso avrebbe potuto chiudersi “a guerra finita”. Invece, di emergenza in emergenza, si è allargato sempre di più.
Quel giorno di aprile di 40 anni fa quando la politica si consegnò ai Pm, scrive Piero Sansonetti il 31 Marzo 2019 su Il Dubbio. Quarant’anni fa, il 7 aprile del 1979, è nata quella che oggi conosciamo come democrazia giudiziaria. Tangentopoli era ancora lontana. La Dc e il Psi erano partiti forti, il Pci usciva appena dall’esperienza del compromesso storico. Cinque giorni prima erano state sciolte le Camere, proprio perché l’esperienza del compromesso storico era andata male. Il ministro dell’Interno era un uomo pacifico e serio come Virginio Rognoni. Pacifico, serio, ma non fortissimo. Il ministro della Giustizia si chiamava Tommaso Morlino, uno scudiero di Aldo Moro, orfano di Moro e anche lui abbastanza in ombra. Chi prese l’iniziativa fu un magistrato padovano che portava il nome di un filosofo liberale: Calogero. Lo seguirono alcuni giudici romani. Rasero al suolo tutto il vecchio gruppo di Potere Operaio, che era stato una delle colonne del sessantotto italiano, guidato da Toni Negri, Franco Piperno e Oreste Scalzone. Lo rasero al suolo nel senso che sbattono tutti in prigione, tranne i fuggiaschi che ripararono in Francia. Piperno riuscì a scappare, perché mentre si stava recando nella redazione di Metropolis ( la rivista del gruppo), siccome era in ritardo, si fermò ad un telefono a gettone e chiamò il giornale. Scalzone riuscì a rispondere – almeno, così si racconta – e disse: ti aspettiamo, Franco, c’è anche la polizia… Le accuse – gravissime – erano tutte infondate. La magistratura sosteneva che quelli di Potere Operaio e dell’autonomia operaia fossero la mente vera della lotta armata. Prove, indizi? Il tono degli articoli che quelli di Potere Operaio scrivevano sui giornali. Tutto qui. Come racconta molto bene Paolo Delgado alle pagine 8 e 9 , al processo si dimostrò che non era vero niente. Ma intanto quei poveretti si erano fatti vari anni di prigione, qualcuno, come Negri, aveva anche partecipato a una rivolta in carcere e si era beccato svariati anni supplementari di condanna, anche se, in realtà, in quel carcere della rivolta non avrebbe dovuto esserci. Il problema però non fu soltanto l’ingiustizia verso alcune persone. Fu anche che in quella occasione la magistratura ottenne la certificazione della delega in bianco che aveva ricevuto dalla politica. Dal Pci, soprattutto, che era il partito più esposto nella lotta all’estremismo di sinistra e al terrorismo ( categorie alquanto distanti, ma in quegli anni venivano accostate o anche sovrapposte, dai partiti e dall’informazione), ma non solo dal Pci. La politica si sentiva messa all’angolo dalla lotta armata ma anche dai movimenti giovanili, impetuosi, ribelli, talvolta anche violenti. E non trovava la soluzione. Allora cercò la soluzione nella magistratura. La quale, in cambio, come era logico, chiese qualcosa. Cosa? Leggi di emergenza e, nella sostanza, sospensione almeno di alcune parti dello Stato di diritto. Nell’inchiesta del 7 aprile, lo Stato di Diritto fu sospeso del tutto. Si stabilì che un teorema politico, una ipotesi sociologica o investigativa, poteva tranquillamente diventare atto di accusa e giustificare arresti e processi e prigione. I partiti accettarono queste condizioni. E accettarono che la magistratura attuasse la sua nuova strategia: colpire l’estremismo di sinistra, anche se non armato, per togliere ossigeno alla lotta armata. La pesca a strascico, si dice ora, la strategia del napalm, del bombardamento a tappeto, del diserbante, si diceva allora. Le conseguenze furono due. La magistratura fu mandata in prima linea, e pagò un prezzo anche molto alto (come, in situazione analoga, lo pagò qualche anno dopo nella lotta alla mafia), soprattutto in termini di sangue, di vite umane. La seconda conseguenza fu il ribaltamento dei rapporti di forza (e delle competenze) tra politica e magistratura. La magistratura assumendo il comando (e l’esclusiva) della lotta al terrorismo (e poi alla mafia) metteva fuori gioco la politica, la quale accettava di buon grado, in cambio del servizio svolto dai Pm. Senza accorgersi che quel processo che si era aperto rischiava di diventare irreversibile. Era più di un rischio. Le leggi speciali diventarono ordinarie, le leggi sui pentiti stravolsero il funzionamento della giustizia e dei processi, la magistratura vide il suo prestigio crescere in modo esponenziale, mentre in modo esponenziale decresceva il prestigio della politica. Quando, un po’ più di 10 anni dopo, arrivò Tangentopoli, i tempi erano maturi per il completo ribaltamento dei ruoli e per l’invasione di campo definitiva del potere giudiziario, che diventò un potere sovraordinato rispetto al potere rappresentativo ed esecutivo. Provate a mettere a confronto il processo sette aprile con il processo sulla presunta trattativa stato mafia, che si svolge in questi anni. L’impianto è identico: niente indizi, niente prove, ma una suggestione letterario- politica, cioè una ipotesi, un racconto, sostenuto dai Pm con l’aiuto, scarso, di qualche brandello di deposizioni di pentiti assai poco credibili. La differenza tra allora e oggi? Allora, comunque, il tribunale smantellò il teorema Calogero, anche se questo non ebbe nessuna conseguenza politica. Oggi il tribunale rende omaggio ai Pm e condanna. Senza prove, senza una logica, senza nemmeno qualche riscontro storico, ma condanna. Scalzone fu sbattuto in cella, allora, con Negri, Vesce e tanti altri. Poi presero anche Piperno. So – scrivendo quello che sto per scrivere – di urtare gli uni e gli altri, ma trovo grandi somiglianze tra quelle retate e il processo e la condanna e l’arresto di Roberto Formigoni. Piperno e Formigoni: il capo del sessantotto e il fondatore, negli stessi anni, del movimento ultracattolico che tentò – con qualche successo – il controsessantotto. Cosa hanno in Comune? La persecuzione giudiziaria.
Che senso ha vietare a uno stragista i funerali della figlia? Niente permesso per i funerali della figlia a Maurizio Tramonte, condannato all’ergastolo per la strage di Piazza della Loggia, scrive Damiano Aliprandi il 21 Febbraio 2019 su Il Dubbio. Ieri non ha potuto assistere al funerale della figlia di 18 anni Magda Francesca Nyczak, morta nel sonno giovedì scorso. Parliamo di Maurizio Tramonte, che sta scontando l’ergastolo per la strage di Piazza della Loggia a Brescia. Un permesso negato, quello nei confronti dell’ex informatore dei Servizi che sta scontando la condanna al carcere di Fossombrone. «Non hai mai odiato né invidiato. La tua onestà e la tua semplicità sono sempre state la tua ricchezza ed è questo che ci lasci in eredità», sono le parole di Maurizio Tramonte che sono riecheggiate ieri nella chiesa di Sant’Andrea a Concesio durante le esequie. Ha potuto mandare solo questa lettera, senza essere presente. Nel suo messaggio ha ricordato il giorno della nascita di Magda Francesca e di come «nel silenzio del sonno e senza disturbare ti sei ritrasformata nella più lucente stella». E poi: «Franci, la tua vita è stata breve ma non sei stata una meteora. Il tuo affetto, i tuoi sorrisi, la tua luce e la tua semplicità rimarranno nel mio cuore. Arrivederci tesoro mio». Una decisione, quella del permesso negato, che ha trovato disapprovazione anche da parte di Manlio Milani, presidente dell’Associazione Vittime della Strage e marito di una delle vittime. «Non condivido la decisione – ha spiegato Milani – di non concedere a Maurizio Tramonte di partecipare alle esequie di sua figlia adottiva. A un padre, come in questo caso, non può essere negata la possibilità di assistere al seppellimento della figlia». Parole, quelle del presidente dell’associazione vittime della strage che colpiscono al cuore di uno Stato diventato sempre più cinico. «Ci sono occasioni – ha concluso Milani – per compiere gesti umani che uno Stato democratico dovrebbe sempre rispettare anche nei confronti di chi ha commesso reati». Eppure anche gli ergastolani, così come anche nei confronti di chi rientra nel 41 bis, hanno il diritto al permesso di necessità. Non mancano sentenze della Cassazione, come quella riguardante un detenuto al 41 bis al quale morì un fratello, fissando il principio di diritto per cui: «Rientra nella nozione di evento familiare di particolare gravità eccezionalmente idoneo, ai sensi dell’articolo 30 secondo comma della legge 254 del 26 luglio 1975, a consentire la concessione del permesso di necessità, la morte di un fratello in conseguenza della quale il detenuto richieda la possibilità di unirsi al dolore familiare, in questo risolvendosi la sua espressa volontà di pregare sulla sua tomba, giacché fatto idoneo a umanizzare la pena in espiazione e a contribuire alla sua funzione rieducativa». Quando innescò l’ordigno di Brescia, Maurizio Tramonte aveva solo 21 anni ma già poteva contare diversi anni di militanza nel movimento neofascista di Ordine Nuovo, nato nel dicembre 1969 pochi giorni dopo la strage di Piazza Fontana a Milano. Originario di Camposampiero, paese alle porte di Padova dove era nato nel 1952, Tramonte è attivista dell’Msi sin dalla prima adolescenza. Dopo la militanza nell’estrema destra parlamentare di Ordine Nuovo a cavallo tra gli anni ‘ 60 e ‘ 70 sarebbe entrato in contatto con i settori deviati dei servizi segreti del Sid (Servizio informazione difesa), di cui diviene informatore con il nome in codice ‘ Tritone’. Con questo ruolo Tramonte avrebbe innescato l’ordigno a Brescia, mischiandosi tra la folla della manifestazione sindacale indetta quel giorno di 43 anni fa. Poco dopo la strage si trasferisce a Matera, terminando l’attività di informatore ed iniziando una serie di attività imprenditoriali che lo porteranno a guai giudiziari per bancarotta, finendo ai domiciliari all’inizio degli anni 90. Solo nel 1993, a quasi vent’anni dalla strage di Piazza della Loggia, sarà interrogato per il suo ruolo di esecutore materiale dell’attentato terroristico di Brescia. L’iter giudiziario lo vedrà imputato assieme al mandante, il neofascista Carlo Maria Maggi. Inizialmente assolto nei primi due gradi di giudizio, Tramonte sarà condannato in via definitiva nel 2015 dopo che la Cassazione aveva istruito un nuovo processo, durante il quale una complessa perizia antropologica lo aveva riconosciuto in un’istantanea scattata accanto al cadavere di una delle vittime. La sentenza che lo condanna all’ergastolo arriva nel giugno 2017. Pochi giorni prima Tramonte era andato in Portogallo attraverso la Francia e la Spagna. Viene arrestato a dicembre del 2017 a Fatima, durante una visita al Santuario. Maurizio Tramonte si dichiara però ancora innocente.
· Omicidio Pecorelli, procura Roma avvia nuova indagine.
Omicidio Pecorelli, procura Roma avvia nuova indagine. I pm della capitale hanno affidato alla Digos l'incarico di svolgere nuovi accertamenti. La richiesta di riapertura era stata avanzata dalla sorella del giornalista, ucciso quasi 40 anni fa, il 20 marzo del 1979, scrive il 5 marzo 2019 La Repubblica. La procura di Roma ha avviato una nuova indagine sull'omicidio di Mino Pecorelli, il giornalista ucciso nella capitale il 20 marzo 1979. A chiedere la riapertura era stata alcune settimane fa la sorella di Pecorelli. I magistrati romani hanno affidato agli uomini della Digos l'incarico di svolgere una serie di accertamenti preliminari dopo l'istanza depositata negli uffici della Procura da Rosita Pecorelli il 17 gennaio scorso. Il legale della donna, Valter Biscotti, chiedeva ai pm di avviare nuovi accertamenti balistici su alcune armi che furono sequestrate a Monza nel 1995 ad un soggetto in passato esponente di Avanguardia Nazionale. Si tratta, tra le altre, di una pistola Beretta 765 e di quattro silenziatori artigianali. Nella richiesta finita all'attenzione dei pm si fa riferimento anche ad una dichiarazione che l'estremista di destra Vincenzo Vinciguerra fece nel 1992 all'allora giudice istruttore Guido Salvini. Vinciguerra sosteneva di aver sentito un dialogo in carcere tra due militanti di estrema destra in cui si affermava che l'uomo poi arrestato tre anni dopo a Monza aveva in custodia la pistola usata per uccidere il giornalista. Il caso Pecorelli, dal punto di vista processuale, è chiuso dal 30 ottobre 2003, quando la Cassazione assolse definitivamente Giulio Andreotti dall'accusa di essere il mandante. In primo grado, il 24 settembre del 1999, il sette volte presidente del consiglio fu assolto per non aver commesso il fatto assieme agli altri presunti mandanti Gaetano Badalamenti, Claudio Vitalone, Pippo Calò e a due imputati accusati di essere gli esecutori materiali del delitto, cioè Massimo Carminati e Michelangelo La Barbera. Il 17 novembre del 2002, in appello, invece, fu confermata l'assoluzione per tutti ad eccezione di Andreotti e Badalamenti che vennero condannati a 24 anni di reclusione. Condanna che la Suprema Corte spazzò via annullando senza rinvio la sentenza di secondo grado.
«Tirate fuori quella pistola: voglio la verità su Mino». La sorella Rosita Pecorelli, 84 anni, chiede la riapertura delle indagini sull’omicidio del giornalista, scrive Simona Musco il 18 gennaio 2019 su "Il Dubbio". «C’è un appiglio ed io mi aggrappo». Rosita Pecorelli sta lasciando Piazzale Clodio assieme all’avvocato Valter Biscotti quando, con una foto del fratello tra le mani, pronuncia queste parole. Quaranta anni dopo l’omicidio di suo fratello Mino, giornalista scomodo ucciso in circostanze mai chiarite il 20 marzo 1979, i due si sono presentati in Procura a Roma, chiedendo la riapertura del caso. Un’istanza presentata sulla base di una vecchia dichiarazione di Vincenzo Vinciguerra, ex membro dei movimenti neo- fascisti Avanguardia Nazionale e Ordine Nuovo – all’ergastolo per l’uccisione di tre carabinieri nella strage di Peteano del 1972 – che nel 1992 fece il nome di colui che, a suo dire, conservava l’arma di quel delitto: l’avanguardista Domenico Magnetta. Quella dichiarazione nell’immediatezza, non portò a nulla. Ma il ritrovamento di alcune armi in suo possesso, tre anni dopo, potrebbe ora portare ad una svolta nella vicenda. Quel verbale è stato rispolverato dalla giornalista Raffaella Fanelli il 5 dicembre scorso ed è proprio da un suo articolo che Rosita Pecorelli ha tratto spunto per chiedere la riapertura del caso. Si tratta di dichiarazioni risalenti al 27 marzo 1992: Vinciguerra parla di una pistola, una calibro 7.65, l’arma usata per uccidere il giornalista. «Il Tilgher – si legge nel verbale – mi disse che Magnetta (vicino a Massimo Carminati, l’ex Nar processato e assolto per l’omicidio Pecorelli, ndr) si stava comportando male in quanto gli aveva fatto sapere che o veniva aiutato ad uscire dal carcere o lui avrebbe consegnato le armi in suo possesso, fra cui la pistola che era stata utilizzata per uccidere il giornalista Mino Pecorelli». Un verbale conservato in un fascicolo sul sequestro e l’omicidio di Aldo Moro, raccolto dal magistrato Guido Salvini, giudice istruttore negli anni di piombo. Vinciguerra fa riferimento a due avanguardisti con cui parla in carcere, tra il 10 e il 20 novembre del 1982, a Rebibbia. Si tratta di Adriano Tilgher e Silvano Falabella, con i quali parla dell’arresto di Magnetta e Carminati, avvenuto nel 1981. Si trovavano al valico del Gaggiolo quando furono fermati da una pattuglia, stavano tentando la fuga in Svizzera. L’arresto causò a Carminati la ferita che lo portò a perdere l’occhio sinistro. Magnetta, dice dunque Vinciguerra a Salvini, aveva l’arma usata per uccidere Pecorelli, una calibro 7.65 col quale venne colpito quattro volte, tre alla schiena e uno in faccia. Per ammazzarlo vennero usati proiettili marca Gevelot, molto rari sul mercato e dello stesso tipo di quelli sequestrati nell’arsenale della Banda della Magliana – alla quale Carminati era affiliato – nei sotterranei del Ministero della Sanità. Vinciguerra, conferma Salvini a Fanelli, è credibile. E quel verbale, spiega oggi l’avvocato Biscotti al Dubbio, «venne trasmesso subito a tutti i procuratori che si occupavano di terrorismo in Italia in quel periodo. Tra questi c’era Giovanni Salvi, al quale nel luglio del 1992 Vinciguerra confermò quella versione. Tutte le comparazioni fatte dalla Procura sulle armi, però, non portarono alcun risultato». Ma la storia non si ferma qui. E’ quanto accade tre anni dopo che oggi porta al deposito della richiesta di riapertura delle indagini. A Magnetta, infatti, il 4 aprile 1995 vengono sequestrate delle armi, ritrovate in un doppiofondo nel bagagliaio dell’auto: tra queste anche una semiautomatica calibro 7.65 Beretta con matricola parzialmente punzonata, una canna per pistola calibro 7.65 priva di numero di matricola e quattro silenziatori di fabbricazione artigianale. Su quelle armi, afferma Biscotti, «sicuramente non è stata fatta alcuna analisi. Quello che chiediamo noi – aggiunge – è che si vada ad individuare quella pistola e che venga fatto un confronto con proiettili agli atti del processo, che potrebbero ancora trovarsi nell’ufficio dei corpi di reato del tribunale di Monza. Una richiesta che la signora Pecorelli ha voluto presentare perché, finché avrà fiato in gola, vuole cercare di capire chi ha ucciso suo fratello. Se la comparazione fosse positiva allora questo signore dovrà dire chi gli ha dato quella pistola». Nell’articolo pubblicato dalla giornalista Fanelli sul sito Estreme conseguenze è proprio Guido Salvini a sostenere che, con molta probabilità, quel confronto balistico oggi chiesto dalla signora Pecorelli non è mai stato eseguito. «Non sapevo del sequestro di quest’arma – conferma a Fanelli – se fosse stata fatta una perizia lo saprei. Se non è stata fatta sarebbe interessante farla perché certamente c’è una corrispondenza». «Mio fratello sapeva troppe cose, era un pericolo per tutti e bisognava farlo fuori. Ho combattuto 40 anni per sapere la verità sull’omicidio di Mino e non mi arrenderò mai. Mi aspetto di avere giustizia – spiega Rosita Pecorelli, oggi 84enne – Mio fratello era tutto per me, mi ha fatto da padre, fratello e amico. Oggi – conclude – ci sono elementi per cui pensiamo ci sia qualcosa di nuovo che possa aiutare a raggiungere la verità».
· Lotta Continua e gli infiltrati e le bizzarre indagini sulla strage di Bologna.
Lotta Continua: c’era un infiltrato dei servizi? Scrive il 30/01/2019 Il Giornale Off. Il mercato editoriale italiano non è povero di libri sull’argomento terrorismo, alcuni dei quali molto interessanti per i contenuti (storici, suffragati da indagini e sentenze) non del tutto conosciuti alla pubblica opinione. Chissà se qualche editore pubblicherà un libro sull’argomento Lotta Continua scritto dal dottor Guido Salvini (o una lunga intervista), magistrato presso il tribunale di Cremona, già giudice istruttore e poi giudice per le indagini preliminari a Milano, che fra l’altro scrisse un’interessantissima prefazione a un libro sul..”suicidio/omicidio” di Giangiacomo Feltrinelli…A proposito del recente arresto del latitante dei PAC, Proletari Armati per il Comunismo, Cesare Battisti, il dottor Salvini ha dichiarato (fonte: Gianni Barbacetto per il “Fatto quotidiano” ripreso da Dagospia, n.d.r.): “Purtroppo la cattura di Battisti poco avrà da dirci sulle pagine rimaste ancora oscure degli anni di piombo. Ma ci sono altri latitanti che potrebbero chiarire le storie tragiche di cui sono stati protagonisti: Giorgio Pietrostefani, per esempio, il dirigente di Lotta Continua condannato per l’uccisione del commissario Luigi Calabresi. Di quell’omicidio, nonostante le condanne, non si sa tutto […]. Pietrostefani è a conoscenza di quei segreti e se tornasse in Italia potrebbe rivelarli. Non dimentichiamo che quello del commissario non fu un crimine qualsiasi, è stato il primo omicidio politico, legato a piazza Fontana e ideato prima ancora che iniziasse il terrorismo con i suoi crimini seriali”.
Adriano Sofri, fondatore di Lotta Continua e condannato nel 1997 per l’omicidio Calabresi (Sofri non ha mai presentato richiesta di grazia, ritenendo un tale atto incongruo a sanare la posizione personale di un innocente. Nel giugno del 2005 ottiene la semilibertà. Nel 2012 l’ufficio di sorveglianza di Firenze firma il provvedimento di fine pena, n.d.r.), replica dalle colonne del Foglio, dove da sempre ha una sua rubrica, affermando che Pietrostefani vive a Parigi e che ha scelto di fuggire all’estero “a malincuore, per una sola ragione: a differenza di Ovidio Bompressi e me, che avevamo figli grandi, aveva una figlia bambina e scelse di starle vicino. Gli costò. Io ne fui contento”. Controreplica di Guido Salvini, sempre sul Foglio, in una lettera al quotidiano: “Dopo le confessioni di Leonardo Marino e le sentenze delle Corti di Milano, nessuna persona di buon senso può credere che Lotta continua non abbia fatto la sua parte in quell’omicidio. È una storia che comunque non conosciamo per intero. Per esempio chi era l’informatore del Sid “Como”, di cui ho trovato negli anni Novanta le relazioni e che faceva parte dell’esecutivo di Lotta continua nel periodo dell’omicidio Calabresi? I dirigenti di Lotta continua dell’epoca sarebbero in grado di identificarlo; non si può escludere nessuno, lo dico come mera ipotesi, nemmeno che fosse Pietrostefani o una persona a lui vicina. Posto che militanti di Lotta Continua hanno certamente eseguito l’omicidio, a quale livello militare o politico è stata presa quella decisione? Ci furono dissensi interni? [..] Come è andata? […] Per ora non ci sono le risposte che sarebbe giusto avere prima che quella generazione scompaia. Senza dare queste risposte non si ha diritto di chiedere la verità su altro, quello che è avvenuto nel 1969, ad esempio, e negli anni successivi”. Chissà se seguiranno degli sviluppi. Chissà se prima del tempo alcuni snodi tragici e fondamentali della storia repubblicana troveranno risposte.
Strage di Bologna, le “bizzarre indagini” su Cavallini e il tragico precedente istriano, scrive domenica 10 febbraio Massimiliano Mazzanti su Secolo d’Italia. La Procura generale del Tribunale di Bologna non s’accorge – indagando sui fantomatici rapporti tra Gilberto Cavallini e Licio Gelli – di scadere quasi nel ridicolo, imponendo ai Carabinieri di ascoltare “a sit” – sommarie informazioni testimoniali – addirittura il figlio dell’ex-militante dei Nar. Giusto per inquadrare al meglio le dimensioni delle cose, si sta parlando di una persona che nacque proprio nell’estate del 1980 e che aveva solo tre anni, quando il padre fu arrestato. Un ragazzo, quindi, che è cresciuto senza aver rapporti diretti col genitore, almeno fino alla maggiore età, essendo stato quest’ultimo detenuto in forme “dure” o “speciali” per buona parte dei 36 anni scontati. Ora, già la sola idea di andare a perquisire la casa di Flavia Sbrojavacca – la donna che nell’80 era compagna di Cavallini -, al fine di trovarvi oggi riscontri degli eventuali rapporti “finanziari” tra Gelli e l’ex-Nar si è dimostrata per lo meno bizzarra; ma pensare che di questi rapporti potesse in qualche modo esserne al corrente il figlio, appunto, riduce questo secondo troncone delle nuove inchieste a poco più di una barzelletta. Se la generale serietà e tragicità della materia non lo impedisse, la notizia odierna dovrebbe essere liquidata con ironia, commentando col dovuto sarcasmo il fatto che a qualche magistrato sia baluginata l’idea che “papà Cavallini”, dovendo ricostruire dopo anni di detenzione un rapporto col figlio, gli parlasse del “buon zio Licio che tanto provvede alla famiglia”. Ricordando come l’unica traccia finora mostrata di questi possibili denari transitati dalle casse della Cia a quelle della P2 e, da qui, a quelle dell’eversione spontaneista, sia un’annotazione dello stesso Cavallini in cui la frase <3.500.000 IN franchi svizzeri> viene curiosamente cambiata e letta in <3.500.000 DI franchi svizzeri> – perché è fondamentale ipotizzare un finanziamento demoniaco di almeno qualche milione di dollari, non potendo seriamente pensare che qualcuno si sia prestato a uccidere 85 persone per un migliaio di “verdoni” o poco più -, più che alle investigazioni, si è appunto alla commedia degli equivoci. D’altro canto, non è stato qualche fazioso commentatore delle vicende processuali bolognesi, ma colleghi magistrati a bollare le ipotesi che legherebbero Gelli a Cavallini, la Strage di Bologna ad altre, determinate oscure pagine della Repubblica degli anni ’70 e ’80, come <bizzarrie logico-giuridiche>. Però, evidentemente, ciò che è “bizzarro” per la Procura della Repubblica, non lo è altrettanto per la Procura generale. E questo non contribuisce certamente ad accrescere il tasso di fiducia del cittadino comune nell’istituzione giudiziaria italiana. Per altro, in questo strano tentativo di creare “collegamenti” e “paralleli” storici nelle vicende terroristiche italiane, la giornata odierna ne suggerisce uno che, di norma, si tende a dimenticare. Bombe che vengono innescate e fatte esplodere ad agosto tra la gente; decine e decine di morti; la mano dei servizi segreti; il giornale “l’Unità” e il Pci che denunciano a gran voce le responsabilità delle strutture militari atlantiche, prima; oscure “trame neofasciste”, poi. Ovviamente, non si sta parlando della Strage di Bologna o di un’altra di quelle degli anni ’70, non ostante la curiosa ricorrenza degli eventi e delle circostanze; bensì, della strage di Vergarola, del 18 agosto 1946, con cui l’Ozna, i servizi segreti jugoslavi di Tito, assassinarono 65 istriani, spingendo crudelmente gli abitanti di Pola – non ancora assegnata alla neonata repubblica comunista – a dare il via al tragico e drammatico esodo. Già, la prima strage indiscriminata della storia italiana post-bellica fu certamente una strage comunista, compiuta da mani straniere e “inquinata” nell’individuazione delle responsabilità dalla stampa “rossa” italiana. Un bel precedente, no?
Strage di Bologna, il figlio smentisce il pentito. E adesso? Incriminiamolo… Sotto accusa adesso è Gilberto Cavallini. Esclusi tutti gli indizi che potrebbero scagionare i fascisti, scrive Paolo Delgado il 20 gennaio 2019 su "Il Dubbio". Da mesi, nel silenzio dei media e nel disinteresse generale, è in corso a Bologna l’ennesimo processo per la strage alla stazione del 2 agosto 1980. L’imputato è Gilberto Cavallini, oggi di 67 anni, 28 all’epoca della strage. Cavallini era un militante dei Nar in un certo senso anomalo. Aveva qualche anno in più dei giovanissimi militanti dei primi Nar, i fratelli Fioravanti, Alessandro Alibrandi, Franco Anselmi. Veniva da Milano, mentre il nucleo dei Nar era formato di fatto da un gruppo di giovani neofascisti per lo più amici e quasi tutti di Roma- Monteverde. Cavallini, in carcere per l’assassinio a Milano dello studente di sinistra Gaetano Amoroso, a Milano nel 1976, era evaso, latitante aveva raggiunto Roma e si era aggregato al gruppo dei primi Nar. La differenza fondamentale è nei legami che, a differenza dei romani, manteneva con il vecchio fascismo veneto di Ordine nuovo, col quale i romani non avevano invece alcun rapporto. Il processo in sé, come quasi tutto quello che riguarda la strage di Bologna, ha aspetti paradossali. Cavallini infatti è già stato processato e condannato per lo stesso reato ma con altra imputazione, banda armata. Nel 2017 è stato rinviato a giudizio anche per concorso in strage. Tra le altre cose a Cavallini è stato ed è contestato l’aver fornito a Valerio Fioravanti e Francesca Cavallini documenti falsi. Un capo d’accusa bizzarro in sé, dal momento che il supertestimone sul quale si basò di fatto la condanna dei due raccontava appunto di avergli procurato quei documenti falsi. Di fatto il processo a Cavallini si è rapidamente trasformato in un carrozzone nel quale è entrato di tutto: l’omicidio di Valerio Verbano, avvenuto sei mesi prima della strage, quello di Piersanti Mattarella, 7 mesi antecedente la strage, i nessi eventuali con le stragi dei primi anni ‘ 70. In compenso la corte ha deciso di non occuparsi della pista palestinese. Il presidente Michele Leoni ha respinto la richiesta di audizione di Carlos, al secolo Ilich Ramirez Sanchez, uno dei più noti terroristi internazionali degli anni ‘ 70. Carlos, una quindicina di anni fa, aveva a sorpresa dichiarato che alla stazione di Bologna, il 2 agosto 1980, era presente un militante vicino alla sua organizzazione, il tedesco Thomas Kram, membro delle Rz. Dal momento che Kram alla stazione c’era davvero non si capisce perché in un processo a spettro così ampio rifiutare di ascoltarlo e la giustificazione ufficiale, la “reticenza” di Carlos, non aiuta. In realtà si tratta di una scelta precisa: quella di escludere ogni segnale che non porti verso il neofascismo di quei tempi. La mole di elementi, che non è affatto probante ma neppure trascurabile a priori, emersi in questi anni, viene infatti liquidata derubricando il lodo Moro a “diceria”. Nonostante il medesimo lodo, che sarebbe secondo i sostenitori della pista palestinese all’origine della strage, sia invece stato ammesso ormai da una ressa di fonti, sia italiane che palestinesi. In realtà, a esaminare nei particolari le udienze, alcuni elementi nel processo sono emersi: in senso opposto alla condanna dei Nar. Uno degli elementi sui quali si basava l’accusa era infatti l’omicidio del neofascista siciliano Francesco Mangiameli a opera di Fioravanti e Giorgio Vale (altro militante dei Nar poi ucciso) un mese dopo la strage. Secondo i giudici di Bologna quell’omicidio era conseguenza della strage: i Nar volevano mettere a tacere un testimone. Nella panoplia di assurdità e contraddizioni che costella i processi per la strage del 2 agosto, nel processo per quell’omicidio, svoltosi a Roma e non a Bologna, il delitto viene spiegato con motivazioni opposte a quelle messe nero su bianco nelle motivazioni della sentenza bolognese. L’esecuzione sarebbe stata decisa per motivi che avevano a che vedere solo con il progetto di far evadere Pierluigi Concutelli e in particolare al ‘ furto’ dei fondi messi a disposizione dai Nar per quell’impresa a opera di Mangiameli. La moglie del siciliano, che all’epoca dell’omicidio era uno dei leader di Terza posizione, ha confermato in aula che i dissapori tra il marito e la coppia dei Nar era questione di soldi. Allo stesso modo, è stata dimostrata l’evanescenza delle due supertestimoni citate nel libro ‘ colpevolista’ di Riccardo Bocca Tutta un’altra strage. Ma è inutile sperare che queste contraddizioni abbiano qualsiasi peso in un processo come questo. Il cui clima è illustrato come meglio non si potrebbe dall’ ‘ incidente’ che rischia di costare a Stefano Sparti, figlio del pentito di cui sopra, il rinvio a giudizio per falsa testimonianza. Stefano Sparti, che all’epoca aveva 11 anni, aveva dichiarato, come a suo tempo la madre, la nonna e la Colf, che il 4 agosto suo padre non poteva aver incontrato a Roma Fioravanti e Mambro per i documenti falsi dal momento che si trovava a Cura di Vetralla. Più tardi Stefano Sparti ha anche raccontato che il padre, sul letto di morte, gli aveva confessato di aver mentito ‘ perché non potevo fare altro’. Nell’interrogatorio, Sparti ha parlato di una visita di Cristiano Fioravanti, appena uscito di prigione, nella casa di Cura di Vetralla dicendosi sicuro che si trattasse del 2 agosto. In realtà la visita di Cristiano Fioravanti avvenne il 3 agosto e la confusione dell’allora undicenne Stefano Sparti dipende dal fatto che il suo ricordo si basa sui servizi televisivi dedicati alla strage, che in realtà proseguirono per giorni e comunque l’equivoco non incide neppure superficialmente sugli aspetti rilevanti della sua testimonianza. Ciò nonostante è stato iscritto nel registro degli indagati per falsa testimonianza, come non accadde, nei processi contro Fioravanti e Mambro per il falsario De Vecchi, che materialmente aveva costruito, secondo Sparti, i falsi documenti. Per anni De Vecchi aveva sostenuto che nessuno dei due documenti era per una donna. Quando cambiò versione e disse che uno dei due documenti era per la Mambro si giustificò così: «Mi era stato chiesto se erano per una donna, mica se erano per la Mambro». Erano i processi per la strage di Bologna, il punto più basso raggiunto dalla giustizia italiana. E ancora lo sono.
Strage di Bologna, il processo Cavallini: pietra tombale sui segreti della Repubblica, scrive Gabriele Paradisi il 24 febbraio 2019 su Il Dubbio. Perché al processo Cavallini l’avvocato dello Stato e i legali della parte civile si sono opposti all’acquisizione di alcuni documenti? Nell’ultima udienza del processo sulla strage del 2 agosto 1980, che vede Gilberto Cavallini sul banco degli imputati, il presidente della Corte d’Assise di Bologna Michele Leoni ha rigettato l’istanza della difesa che chiedeva di acquisire il carteggio tra la nostra Ambasciata a Beirut e i Servizi segreti a Roma, nel periodo 1979 – 1980 ed in particolare le informative redatte dal capocentro del Sismi a Beirut, colonnello Stefano Giovannone. Giovannone era il garante per l’Italia del cosiddetto “lodo Moro”, quell’accordo segreto, oggi riconosciuto pacificamente dagli storici, tra il nostro governo e il Fronte popolare per la liberazione della Palestina che dal 1972- 1973, a fronte di una ampia indulgenza nei confronti dei commando palestinesi che utilizzavano il territorio italiano come libero transito e deposito di armi, manteneva il nostro Paese esente da azioni terroristiche. Su quei documenti venne apposto il segreto di Stato nel 1984 dall’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi, su richiesta di Giovannone nell’ambito del procedimento penale sulla scomparsa in Libano il 2 settembre 1980 dei due giornalisti Italo Toni e Graziella De Palo. Nell’agosto 2014, trascorsi 30 anni, il segreto è decaduto, ma immediatamente è stata ripristinata la classifica di segreto e segretissimo, facendo tornare di fatto quei documenti indisponibili alla consultazione. Gli stessi membri dell’ultima Commissione bicamerale d’inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro, che poterono prenderne visione sommariamente, vennero messi al corrente che rischiavano una pena fino a tre anni di carcere in caso di divulgazione. Nell’ambito di un procedimento penale per terrorismo e strage, la magistratura può richiedere anche atti sottoposti a segreto di Stato, era quindi nella possibilità della Corte di Bologna togliere finalmente, una volta per tutte, quel velo ormai inaccettabile e permettere di far luce su ciò che poté accadere nel nostro Paese negli anni di piombo, sotto l’oscura coltre protettiva di quella “diplomazia parallela”. Perché quei documenti potrebbero essere utili anche per la strage di Bologna del 2 agosto 1980? Lo schema della cosiddetta “pista palestinese”, sostiene che il “lodo” fu rotto con il sequestro, nel novembre 1979, di due missili e con l’arresto del responsabile per l’Italia dell’Fplp Abu Anzeh Saleh, garante dell’accordo per i palestinesi. In quei mesi a cavallo tra 1979 e 1980, si susseguirono le minacce di ritorsione da parte dell’Fplp. Testimonianze documentali – la deposizione del generale Silvio Di Napoli davanti al giudice Carlo Mastelloni, nonché documenti ritrovati negli archivi della Stasi, la polizia politica della Ddr – dimostrano che il Fronte prese contatti in quei drammatici giorni con il terrorista venezuelano Carlos, il cui gruppo compiva le azioni più sanguinose per conto dei palestinesi. La notte tra il 1° e il 2 agosto 1980, un uomo di Carlos “esperto di esplosivi”, il tedesco Thomas Kram era indiscutibilmente a Bologna e nel corso dell’inchiesta della Procura, che ha vagliato questa pista dal 2005 al 2014, non ha saputo in alcun modo giustificare il motivo di quella sua inquietante presenza, costringendo i magistrati bolognesi a scrivere nella richiesta di archiviazione che su di lui permaneva un “grumo residuo di sospetto”. La strage alla stazione fu dunque la sanzione dell’Fplp? Non è nemmeno del tutto vero che il carteggio da Beirut sia interamente secretato. Per un caso fortuito e inspiegabile, un paio di quelle informative sono emerse e chiunque può leggerle senza incorrere nei rigori della legge. Si trovano negli atti, liberamente consultabili da qualunque cittadino, del procedimento penale sulla strage di Piazza della Loggia a Brescia del 28 maggio 1974. È sufficiente riportare un breve passaggio dell’informativa datata 12 maggio 1980 per capire quanto sarebbe utile disporre dell’intero carteggio. In essa il “Maestro”, così era chiamato Giovannone, riferiva che qualora le “Autorità italiane” non avessero soddisfatto le richieste del Fronte – liberazione di Saleh e restituzione o indennizzo dei missili – «la maggioranza della dirigenza e della base dell’Fplp intende riprendere – dopo sette anni – la propria libertà d’azione nei confronti dell’Italia, dei suoi cittadini e dei suoi interessi con operazioni che potrebbero coinvolgere anche innocenti». Sono ormai trascorsi quattro decenni da quella stagione drammatica e pare inspiegabile che sia ancora così forte la resistenza degli enti erogatori che mantengono di fatto tale documentazione inaccessibile. Quali segreti indicibili nascondono quelle pagine? Perché al processo Cavallini l’avvocato dello Stato e i legali della parte civile si sono opposti all’acquisizione di quei documenti? Perché chi ha il potere di chiederli evita di farlo?
Bomba prima della strage di Bologna: i fascisti volevano annientare la giunta rossa di Milano. Un’inchiesta dell’Espresso in edicola da domenica 20 gennaio ricostruisce l’intera strategia della destra neofascista culminata nell’eccidio del 2 agosto 1980. I terroristi neri erano pronti ad uccidere anche il giudice di Piazza Fontana. E per depistare usarono la sigla dei killer di ultrasinistra di Acca Larentia, scrive Paolo Biondani il 18 gennaio 2019 su "L'Espresso". La strage di Bologna doveva essere preceduta e seguita, nell'arco di pochissimi giorni, da un altro attentato sanguinario e dal clamoroso omicidio di un giudice eroe della democrazia. Un'autobomba a Milano, programmata per colpire e annientare la storica giunta di sinistra. E un agguato con armi da guerra per eliminare il magistrato veneto che scoprì la pista nera su piazza Fontana. L'Espresso, nel numero in edicola da domenica 20 gennaio ricostruisce l'intera strategia della destra neofascista che è culminata nella strage di 85 innocenti alla stazione di Bologna. L'inchiesta giornalistica, che ha recuperato molti documenti che sembravano perduti di storiche istruttorie dei giudici di Milano, Roma e Bologna, documenta che l'attentato del 2 agosto 1980, il più grave nella storia italiana, era inserito in un piano politico-criminale ancora più folle e cruento. Con personaggi che dai lontani anni di piombo tornano a incombere sul presente. Due giorni prima della strage di Bologna, alle 1.55 della notte tra il 29 e 30 luglio 1980, a Milano esplode un’autobomba davanti a Palazzo Marino. L’ingresso del Comune di Milano viene devastato pochi minuti dopo la fine della prima lunga seduta del consiglio che ha eletto la nuova giunta di sinistra. Per Milano è la prima autobomba. Le cronache segnalano che al momento del boato molti consiglieri hanno appena lasciato il palazzo, mentre il sindaco, Carlo Tognoli, è ancora nel suo ufficio, con la luce accesa: la Fiat 132 imbottita di esplosivo è stata parcheggiata sotto la sua finestra, davanti al portone verso piazza San Fedele. Il messaggio politico è spaventoso: i terroristi volevano annientare la giunta rossa di Milano. L’attentato, che ferisce un passante, non diventa una carneficina perché scoppia solo uno dei tre carichi di esplosivo: sei chili di polvere da mina, stipati in un tubo di piombo. Altri otto chili, collocati in un secondo tubo e in una tanica, vengono scaraventati all’esterno senza deflagrare. L'autobomba del 1980 a Milano, oggi dimenticata, è rimasta impunita. Le successive indagini, ricostruite dall'Espresso, dichiarano però accertata la matrice di estrema destra che punta sui Nar, la stessa organizzazione terroristica di Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, i tre condannati in via definitiva per la strage di Bologna. L'attentato di Milano fu eseguito da loro complici, rimasti ignoti, come attacco preparatorio dell'eccidio del 2 agosto. L'inchiesta dell'Espresso ricostruisce anche il successivo, sofisticato depistaggio: l'autobomba di Milano fu rivendicata con una sigla di ultrasinistra, che era stata utilizzata in precedenza una sola volta, a Roma, dal commando di terroristi rossi che il 7 gennaio 1978 uccisero due giovanissimi militanti del Movimento sociale, Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta, davanti alla sede del partito in via Acca Larentia. Un terzo ragazzo di destra, Stefano Recchioni, morì nei successivi scontri con i carabinieri. Il vergognoso eccidio di Acca Larentia è rimasto totalmente impunito. Ma le indagini successive hanno dissolto ogni dubbio sulla matrice politica: una mitraglietta usata per sparare ai giovani missini fu sequestrata nel 1998 in un covo delle Brigate rosse. Per l’autobomba di Milano, su un opposto fronte politico, anni di istruttorie giudiziarie disegnano un quadro analogo: nessun condannato a livello individuale, ma una montagna di indizi a carico dei Nar, la destra neofascista romana, allevata e protetta dalla P2. Uno dei principali sospettati per l'attentato esplosivo del 30 luglio 1980, Gilberto Cavallini, vide archiviare quell'accusa per insufficienza di prove. Già condannato in via definitiva per omicidio e per banda armata con Mambro e Fioravanti, oggi Cavallini è il quarto terrorista dei Nar sotto processo per la strage di Bologna. I documenti giudiziari recuperati dall'Espresso completano il quadro con un ultimo piano omicida, fallito solo perchè i terroristi neri ebbero un incidente d'auto. Dopo l’autobomba di Milano e la strage di Bologna, ai primi di agosto del 1980 i Nar erano pronti ad ammazzare Giancarlo Stiz, il giudice veneto che scoprì la pista nera su piazza Fontana: indagini che, nonostante mille depistaggi, hanno portato alla condanna definitiva dei neonazisti Franco Freda e Giovanni Ventura per 16 attentati del 1969 (comprese otto bombe sui treni).
· Emilio Alessandrini, il giudice dalla "faccia mite".
Emilio Alessandrini, il giudice dalla "faccia mite", giustiziato dagli eversori che combatteva, scrive il 29 Gennaio 2019 su "Il Fatto Quotidiano" Otello Lupacchini, Giusfilosofo e magistrato. 1979 annus horribilis. A quella del primo sindacalista e militante del Partito Comunista Italiano, Guido Rossa, a Genova, seguiva l’uccisione, qualche giorno dopo, del primo magistrato a Milano, Emilio Alessandrini, che dal suo arrivo in città, alla fine del 1968, e sino alla sua tragica scomparsa, con funzioni di Sostituto procuratore, s’era sempre occupato di terrorismo e, in particolare, di eversione di destra. Il giornalista Walter Tobagi, che sarebbe stato ucciso il 28 maggio dell’anno seguente dal gruppo terrorista di estrema sinistra Brigata XXVIII marzo, scrisse sul Corriere della Sera: “Sarà per quella faccia mite, da primo della classe che ci lascia copiare i compiti, sarà per il rigore che dimostra nelle inchieste, Alessandrini è il prototipo del magistrato di cui tutti si possono fidare; era un personaggio simbolo, rappresentava quella fascia di giudici progressisti, ma intransigenti, né falchi chiacchieroni, né colombe arrendevoli”. Quelli di Emilio Alessandrini a Milano furono gli “anni di piombo” e, periodicamente, delle stragi. Piazza Fontana, piazza della Loggia, Italicus, Peteano, le uccisioni di magistrati, poliziotti, carabinieri, e l’ultimo delitto eclatante, l’assassinio di Aldo Moro, gli episodi maggiori, o i più visibili, fino a quel momento, di una guerra allo Stato, nella quale il nemico della democrazia indossava di volta in volta maschere diverse. E muoveva burattini dai colori apparentemente opposti, “rossi” e “neri”: figure di poco o nessuno spessore, sovente inconsapevoli dei fili che li guidavano, disposti a uccidere, e a essere uccisi, o, i più astuti e prudenti, a tacere su quello che sapevano o intuivano, per salvare la faccia, e soprattutto la pelle. Furono gli anni in cui i protagonisti della dura stagione di lotta anticomunista apertasi sul finire degli anni Sessanta, erano passati dal “partito del golpe” alla P2, strutturatasi come il club dell’oltranzismo atlantico, in cui si ritrovavano i vertici dei Servizi segreti italiani, alti ufficiali dell’Esercito, dell’Aeronautica, della Marina e dei Carabinieri, ministri, parlamentari e politici di vari partiti, dalla Democrazia Cristiana al Partito Socialista Italiano, dal Partito Socialdemocratico al Partito Liberale, fino al Movimento Sociale Italiano; alti magistrati, tra cui il procuratore generale della Repubblica di Roma, Carmelo Spagnuolo; e poi giornalisti, finanzieri, tra cui Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano, imprenditori, tra cui il futuro presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. L’impegno profuso e le doti investigative evidenziate nelle delicate indagini relative ad alcuni attentati dinamitardi compiuti a Milano dalle Squadre d’Azione Mussolini, erano valsi, il 14 febbraio 1972, a Emilio Alessandrini, insieme al collega Luigi Fiasconaro, un elogio per “la prontezza, la sagacia, l’energia e lo zelo” con cui aveva affrontato l’affaire. La stessa formazione terroristica, peraltro, a qualche giorno di distanza, si sarebbe resa protagonista di un nuovo attentato, questa volta diretto proprio contro di lui: un ordigno venne fatto esplodere nel cortile dello stabile dove risiedeva, provocando, fortunatamente, solamente danni alle cose. “Alle 16.30 del 12 dicembre 1969 un ordigno esplodeva nel salone centrale della Banca Nazionale dell’Agricoltura in Piazza Fontana a Milano, uccidendo 16 persone e ferendone 88. Un secondo ordigno, inesploso, veniva rinvenuto nella sede della Banca Commerciale di Piazza della Scala tra le 16.25 e le 16.30. Si trattava di una cassetta portavalori… chiusa a chiave e contenuta in una borsa in skai di colore nero. Gli inquirenti ne decidevano la immediata distruzione e così, la sera stessa la cassetta veniva fatta brillare nel cortile interno della Banca Commerciale senza verificarne il contenuto. Quasi contemporaneamente nell’arco di un’ora, altri tre ordigni esplodevano in Roma, dove rimanevano ferite 18 persone in totale”. Questo l’incipit della requisitoria del 6 febbraio 1974 con la quale il pubblico ministero Emilio Alessandrini chiedeva al giudice istruttore il rinvio a giudizio di Franco Freda, Giovanni Ventura ed altri per associazione sovversiva e strage in relazione alle bombe di Milano e Roma del 12 dicembre 1969. Emilio Alessandrini, peraltro, era stato uno dei primi a condurre indagini sull’Autonomia Operaia milanese. Come altri suoi colleghi meneghini, cercava non solo di affrontare il problema eversivo dal punto di vista giudiziario, ma di comprendere il fenomeno dal punto di vista sociale. In una relazione svolta ad un incontro di studio, organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura, nell’estate del 1978, aveva avuto modo di affrontare il problema delle connessioni fra criminalità comune e criminalità politica, dall’angolo visuale della istituzione carceraria. Gli argomenti utilizzati appaiono di estrema attualità e rilevanza rispetto agli odierni fenomeni di radicalizzazione che, nel contesto carcerario, trovano terreno fertile: sostenne che nella sua esperienza aveva potuto notare “persone che entrano in carcere per qualche episodio di intolleranza politica, escono, e poi, dopo qualche tempo, le ritrovi denunciate, arrestate per reati sicuramente comuni”; che i motivi che spesso caratterizzano il fenomeno inverso, criminali comuni che una volta in carcere abbracciano l’eversione, fossero da individuare nella “esigenza di dare uno scopo alla propria esistenza futura ed una spiegazione alla propria vita passata”; che lo strumento repressivo fosse necessario, ma non sufficiente nella soluzione dei problemi eversivi, credendo a tal fine fondamentale un’istituzionalizzazione del dissenso. Tra gli anni Settanta e i ruggenti anni Ottanta, erano cominciate anche le prime disavventure del Banco Ambrosiano: Roberto Calvi, indisturbato, creava società fantasma in Svizzera e in altri paradisi fiscali e utilizzava le stesse per intercedere con lo Ior, la banca vaticana; gli ispettori della Banca d’Italia, però, avevano cominciato a insospettirsi, fino a denunciare diverse irregolarità, inviate al magistrato Emilio Alessandrini, prontamente deceduto, tuttavia, in epoca utile, perché non se ne potesse occupare. “Oggi, 29 gennaio 1979 alle ore 8,30 il gruppo di fuoco Romano Tognini «Valerio» dell’organizzazione comunista Prima Linea, ha giustiziato il sostituto procuratore della repubblica Emilio Alessandrini. Era una delle figure centrali che il comando capitalistico usa per rifondarsi come macchina militare o giudiziaria efficiente e come controllore dei comportamenti sociali e proletari sui quali intervenire quando la lotta operaia e proletaria si determina come antagonista ed eversiva”. Rileggere questa rivendicazione dopo aver rievocato l’impegno professionale di Alessandrini dà la misura dell’abisso in cui erano sprofondate quelle formazioni terroristiche.
Quarant'anni fa l'assassinio di Alessandrini. E il suo killer è libero di contestare in piazza. Segio va in tv, partecipa ai cortei no Expo e scende in campo a fianco della Sea Watch, scrive Luca Fazzo, Martedì 29/01/2019, su "Il Giornale". «Difendeva la democrazia dall'eversione e dal terrorismo». Punto. Se un liceale di oggi si imbattesse nella lapide che all'angolo di viale Umbria ricorda il magistrato Emilio Alessandrini, apprenderebbe ben poco del motivo per cui Alessandrini venne assassinato. E ancora meno saprebbe degli autori della esecuzione, riassunti nell'imprecisato magma della «eversione e del terrorismo»: dove potrebbe stare dentro di tutto, dai fascisti ai servizi deviati a chissà cos'altro. Invece il delitto che questa mattina, dopo molti anni di silenzio, verrà ricordato davanti alla lapide di viale Umbria è un delitto che ha ideatori ed esecutori ben precisi. A decretare la condanna a morte di Alessandrini furono i vertici di Prima Linea, l'organizzazione che nel mondo del terrorismo rosso contendeva a suon di esecuzioni la leadership alle Brigate Rosse. Fu un delitto figlio, a pieno titolo, della sanguinosa utopia della rivoluzione comunista, della lotta armata che nel delirio di quegli anni doveva portare alla sollevazione operaia e alla dittatura del proletariato. Omettere questa matrice del delitto Alessandrini è un falso storico che contribuisce all'ignoranza che circonda quella stagione. Sono passati quarant'anni dal 29 gennaio 1979. Alessandrini aveva accompagnato il figlio all'asilo di via Colletta, e andava in auto verso il tribunale: senza scorta, anche se la sua foto era stata trovata nel covo di via Negroli dove poco tempo prima era stato arrestato Corrado Alunni, il capo delle Formazioni comuniste combattenti. Lo aspettano in cinque, hanno trovato l'indirizzo di Alessandrini sull'elenco telefonico, poi hanno individuato l'auto grazie al contrassegno per il parcheggio del tribunale. Tutto molto facile, troppo facile. A guidare il commando c'erano Marco Donat Cattin, figlio di un ministro democristiano, e Sergio Segio (nel tondo), capo della colonna milanese di Prima linea. Anni dopo, Segio cercherà di spiegare che Alessandrini aveva pagato con la vita il suo impegno per leggi più efficienti, per una magistratura al passo con i tempi. Ma forse la spiegazione più sincera la diede a botta calda, appena dopo l'arresto, uno dei cinque del commando, Umberto Mazzola: una spiegazione disarmante per la superficialità, la faciloneria con cui si decretava la condanna a morte di obiettivi che non si conoscevano. «Non so chi per primo ebbe l'idea di colpirlo. Si voleva colpire la magistratura ma nella scelta di Alessandrini non giocò alcun ruolo la sua specifica attività... Sapevamo che era un magistrato democratico ma questo non toglieva che fosse un magistrato». Oggi Sergio Segio va in televisione, partecipa ai cortei no Expo, scende in campo affianco a Sea Watch. Quando, dopo nove anni, ottenne la semilibertà, il figlio di Alessandrini disse: «Non mi oppongo, credo nel recupero. Vorrei solo che tenesse un basso profilo». Non è stato accontentato.
Anniversari. Rossa e Alessandrini, l'escalation terrorista che scosse l'Italia, scrive Nazareno Giusti, mercoledì 23 gennaio 2019 su Avvenire. I colpi assassini delle Brigate Rosse e di Prima Linea di fine gennaio 1979 segnarono un punto di non ritorno per le stesse istanze pseudo rivoluzionarie di matrice comunista. Il 29 gennaio a Pescara giornata in memoria del giudice Emilio Alessandrini. Dopo la santa messa nella cattedrale di San Cetteo, al teatro Massimo, alle ore 11, la proiezione del filmato Emilio vive di Stefano Falco. A seguire il concerto della Banda della Polizia di Stato. Ricorderanno Alessandrini i suoi compagni di classe al liceo “Gabriele d’Annunzio” tra cui, oltre a Di Francesco, Laura Bertolé, avvocato generale dello Stato presso la Corte d’Appello di Milano, e Vito Zincani, sostituto procuratore della Corte di Appello di Bologna. Nella livida alba del 24 gennaio 1979, a Genova, le Brigate Rosse uccidevano Guido Rossa, 44 anni, operaio all’Italsider e sindacalista della Cgil. Il 27 gennaio un corteo di 250 mila persone rese omaggio all’uomo che aveva osato sfidare i terroristi. Il presidente della Repubblica Sandro Pertini appuntò sul petto di Rossa la Medaglia d’Oro al Valor Civile. Ma perché Rossa era stato ucciso? Il 25 ottobre 1978 un suo collega, Francesco Berardi, era stato trovato mentre sistemava alcuni volantini delle Brigate Rosse: «Sviluppare la lotta armata nel cuore della produzione costruendo, a partire dalla fabbrica, il partito comunista combattente». Tra i colleghi c’era stata indecisione sul da farsi, poi si era deciso di denunciare il fatto. Al momento della firma, però, Rossa rimase solo. Firmando la denuncia, firmò la sua condanna a morte. Il 30 ottobre 1978 al processo presso la Corte d’Assise, confermò le sue dichiarazioni. Consapevole delle conseguenze del suo gesto, rifiutò sia la pistola sia la scorta offerta dai colleghi. C’era aria pesante in quegli anni a Genova. Qui era avvenuto il primo rapimento di lunga durata (Mario Sossi, 1974), il primo ferimento di giornalista (Vittorio Bruno, 1977) e il primo assassinio (Francesco Coco, 1976). La sera del 17 novembre 1977 venne colpito Carlo Castellano, direttore pianificazione dell’Ansaldo, cattolico e iscritto al Pci. Come ha fatto notare Paolo Andruccioli nel suo Il testimone. Guido Rossa, omicidio di un sindacalista: «Il suo ferimento è stato poco sottolineato in quegli anni zeppi di notizie, ma rappresenta una svolta nel percorso terroristico. È l’inizio dell’attacco al revisionismo del Partito comunista». E in questo attacco le Br uccidono l’operaio Rossa. Che, però, doveva essere “solo” gambizzato. Il compito spettava a Vincenzo Guagliardo, alla sua prima azione, che, in effetti, sparò alle gambe del sindacalista. In un secondo momento, però, un altro e più esperto brigatista, Riccardo Dura, tornò indietro per colpire al cuore l’operaio. Inizialmente, Rossa doveva essere oggetto di un atto dimostrativo: una gogna, con cartello e l’incatenamento ai cancelli della fabbrica. Ma l’opzione era stata ritenuta troppo macchinosa. E poi, quell’operaio, per il suo “tradimento di classe”, meritava di più. Ecco, allora, la scelta della gambizzazione. Ma perché poi ucciderlo? Un volantino parlò di «un’ottusa reazione» da parte di Rossa. Peccato però che ci fu solo «un atteggiamento difensivo» da parte del sindacalista. E, allora, Dura agì in preda a uno scatto d’ira o il suo gesto era previsto? Come fa notare Sergio Flamigni, «Dura è un capo, il braccio destro di Moretti». A quarant’anni da quella tragica mattina la domanda rimane. Certo è che con la morte di Rossa cascherà quell’atteggiamento di mal celata simpatia verso le Brigate Rosse, riassunto nel triste slogan «Né con lo Stato né con le Br». Dopo tanto tempo ci si rendeva conto che si trattava «di miserabili che sparano contro gli operai», per dirla con Pertini. Rossa, molti se ne sono dimenticati in questi anni, fu «tra i più forti alpinisti del secondo dopo guerra». Ma nel 1963, durante una spedizione in Himalaya, il suo sguardo era stato colpito dalle condizioni di indigenza delle popolazioni locali. Dirà: «La cosa che mi ha fatto più impressione è stata la grande fame dell’Asia. Quella miseria ha suscitato il grande desiderio di fare qualcosa per alleviarla». Rossa consapevole che bisognava abbandonare «le vette scintillanti» per «scendere giù in mezzo agli uomini e lottare con loro». Per questo l’impegno nel sindacato e nella società. Rossa era anche un uomo creativo. Realizzava dei crocifissi con gli scarti di produzione che poi regalava ai dirigenti per ricordare le fatiche dei lavoratori. Ennio Di Francesco, già funzionario di polizia e scrittore, in quegli anni era in servizio a Genova. «Quel giorno del ’73 – ci ha raccontato – c’era lui mentre dirigevo un servizio di ordine pubblico davanti ai cancelli dell’Italsider. Operai in tuta con cartelloni urlavano slogan contro i “padroni”, oltre a qualche insulto ai “servi in uniforme”. I capi dei manifestanti, tra cui Rossa, si erano avvicinati. Comunicammo. Gli insulti cessarono. La dimostrazione continuò tranquillamente. Dopo qualche giorno mi giunse in questura un pacchetto: dentro un crocefisso di pezzi di ferro e bulloni saldati. Avevo sobbalzato scoprendo che quel sindacalista, che diceva non credere in Dio, creava crocefissi saldando pezzi di ferro». Cinque giorni dopo l’assassinio di Rossa, in una Milano mangiata dalla nebbia, Prima Linea colpì Emilio Alessandrini, 37 anni, il magistrato che indagava sulla strage di piazza Fontana. Lo uccisero mentre era in auto, fermo al semaforo. La sua colpa, secondo quello che i terroristi scriveranno nella rivendicazione, era quella di essere «uno dei magistrati che maggiormente ha contribuito a rendere efficiente la procura della Repubblica». Ai funerali, tenutisi il 31 gennaio in piazza Duomo, parteciparono 200 mila persone. Di Francesco, compagno di scuola di Alessandrini al liceo “Gabriele d’Annunzio” di Pescara, oggi è presidente dell’associazione “Emilio Alessandrini, uomo d’Abruzzo, magistrato d’Italia”: «C’eravamo rivisti a Pescara per il Natale 1978, lo avevo accompagnato alla festicciola che, pieno di entusiasmo, aveva organizzato per il figlio Marco. Lo avevo notato giocare con tenerezza con quel bambino. Il 29 gennaio, prima di andare nel suo ufficio della Procura dove lo attendevano fascicoli scottanti, come faceva sempre, aveva accompagnato Marco a scuola. Doveva avere lui nel cuore quando i colpi di pistola li avevano separati per sempre».
· Mario Amato. Il pm con la scarpa rotta che combatteva da solo i nemici dello Stato.
Mario Amato. Il pm con la scarpa rotta che combatteva da solo i nemici dello Stato. Pubblicato sabato, 28 settembre 2019 su Corriere.it da Walter Veltroni. Mario Amato nella Roma della fine degli anni Settanta era l’unico magistrato a indagare sui terroristi neri. Chiese più volte aiuto, fu ucciso alla fermata del bus. Robert Doisneau, il fotografo del bacio nella Parigi del dopoguerra, diceva del suo lavoro: «Il mondo che cercavo di far vedere era un mondo dove stavo bene, dove la gente era gentile e dove trovavo la tenerezza di cui avevo bisogno. Le mie fotografie volevano dimostrare che un mondo del genere poteva esistere». Robert Capa, grande fotografo di guerra morto su una mina in Vietnam, diceva del suo lavoro: «La guerra è come un’attrice che invecchia. È sempre meno fotogenica e sempre più pericolosa». Non so invece chi sia l’autore della fotografia della quale stiamo per parlare. Forse uno di quei meravigliosi professionisti d’agenzia che accorrono, cuore in gola, a fotografare il dolore degli altri. Quella mattina del 23 giugno del 1980 qualcuno gli deve aver telefonato a casa, era presto, e non esistevano i cellulari. Gli deve aver detto di andare di corsa a Viale Jonio, più precisamente a Via Monte Rocchetta. Gli avrà detto, il giornalista di turno in questura, «hanno ammazzato qualcuno». Durante quegli anni orrendi ci sono stati centinaia di «qualcuno». Erano poliziotti, carabinieri, finanzieri, uomini della polizia penitenziaria, giornalisti, politici, imprenditori, sindacalisti. Pioveva sempre, in quegli anni, e la pioggia cancellava i segni col gesso che delimitavano le strane posizioni che assume un corpo morto.
Mario Amato nacque il 24 novembre del 1937 a Palermo. Il 23 giugno del 1980 venne assassinato dai Nar. E poi tanti magistrati. Tanti. In quei primi mesi del 1980 sono caduti, sotto il fuoco del terrorismo rosso, Nicola Giacumbi, Girolamo Minervini e Guido Galli. Li hanno uccisi in tre giorni di fuoco, quelli tra il sedici marzo e il diciannove marzo. A febbraio era toccato a Vittorio Bachelet. Quando il fotografo arriva vede la scena solita. Un corpo a terra, un lenzuolo pietosamente disposto per coprirne la vista, come se la vittima e non già gli assassini fossero un orrore, i curiosi, il confabulare delle autorità «prontamente accorse».Poi lo sguardo del fotografo scorge un particolare. Ad altri sarebbe sfuggito. Lui, dentro il mirino della sua Nikon o Canon, ha visto decine di scene così. Diverse e uguali. Ma i particolari, che spesso gli investigatori ignorano, a lui sembrano decisivi.Così i suoi occhi, aiutati dal teleobiettivo, si fissano su una scarpa, la sinistra, che spunta dal lenzuolo. Sulla punta c’è un buco. Un buco, come nelle descrizioni di Dickens o nei fumetti di Pippo. Forrest Gump diceva: «Mia mamma mi ha insegnato che dalle scarpe di una persona si capiscono tante cose: dove va, cosa fa, dove è stata».Quel buco nelle scarpe mi è rimasto nella memoria in tutti questi anni. Mi sembrava raccontasse molto dell’austera figura di un magistrato. Di questo magistrato. Mi sembrava dicesse «dove va, cosa fa, dove è stata». Un terrorista nero, Ciavardini, per non essere da meno dei colleghi rossi, aveva atteso Mario Amato, il proprietario di quelle scarpe bucate, alla fermata dell’autobus, gli aveva puntato la pistola alla nuca e poi aveva premuto il grilletto. Un altro, Cavallini, lo aspettava su una moto.
Alla fermata dell’autobus. Tre mesi dopo la mattanza dei magistrati il titolare delle inchieste sui terroristi neri viaggiava in autobus. Non poteva disporre della macchina di servizio, ovviamente non blindata, perché l’autista prendeva servizio alle nove e dunque non sarebbe stato in ufficio prima delle dieci. Lui invece voleva essere presto al lavoro. Per questo uscì di casa e fece pochi passi, per prendere l’autobus 319. Non aveva l’auto blindata anche perché, come aveva detto in audizione al Csm poco prima di essere ucciso: «C’era una sola macchina blindata. Ritenevo più opportuno lasciarla disponibile per i colleghi che si occupano del terrorismo rosso e svolgono un’attività di gran lunga più rischiosa di quella che svolgo io».Quel buco, quella palina di un autobus dicono molto, ma non tutto. Dicono di un uomo attaccato al lavoro, vissuto come una missione, dicono di chi non vuole perdere tempo, né occupandosi delle suole di una scarpa logora né aspettando una macchina pigra.Mario Amato era il magistrato che, nella Roma della fine degli anni Settanta, indagava sul terrorismo nero. Era solo. Era solo lui a farlo. Come solo era stato, prima di lui, Vittorio Occorsio. Non aveva un pool, qualcuno che lo aiutasse. I suoi colleghi a Roma, in Procura, dopo la mattanza di metà marzo si erano riuniti in assemblea permanente, cosa inedita e segno della tensione crescente. Amato quattro giorni dopo sale le scale del Csm e parla alla prima commissione referente. Ascoltiamolo, questo racconto di una paurosa solitudine. «Sono stato lasciato completamente solo a fare questo lavoro, per un anno e mezzo. Nessuno mi ha mai chiesto cosa stesse succedendo. Solo una volta sono stato chiamato dal procuratore capo a proposito del nominativo di un collega trovato nell’agenda di un professore arrestato. Recentemente ho molto insistito per avere un aiuto sia perché sono stato bersagliato da accuse e denunce in quanto vengo visto come la persona che vuole “creare” il terrorismo nero, sia perché le personalizzazioni tornano a discapito dello stesso ufficio. Affiancandomi dei colleghi sarebbe possibile, infatti, sia ridurre i rischi propri della personalizzazione dei processi, sia darmi un conforto in quanto, se dei colleghi giungessero a conclusioni analoghe alle mie, sarebbe evidente che le stesse non sarebbero frutto della mia asserita faziosità. Oltre a tali motivazioni vi è, poi, anche quella che non ce la faccio più da solo perché è un lavoro massacrante che comporta la necessità di tenere a mente centinaia di nomi e centinaia di dati, il che è impossibile per una persona sola. Nonostante, peraltro, le più reiterate e motivate richieste di aiuto, a tutt’oggi, tale aiuto non mi è stato dato». Oggi Giovanni Canzio, presidente emerito della Cassazione e magistrato che si occupava di terrorismo a Rieti, mi dice: «Mario era isolato. Fu lasciato solo. Sapeva di essere minacciato, le indagini sul terrorismo nero erano molto pericolose». E aggiunge: «Quando fu ucciso io provai un grande dolore, ma non fui sorpreso. Noi avevamo la sensazione di non avere dalla nostra parte l’intero Stato. C’era chi remava contro. E chi toccava quei fili rischiava». Il figlio di Amato, Sergio, che aveva sei anni quel giorno, ha pochi ricordi: il padre che suona il violino della sorella di sei anni più grande di lui; un’immagine di Cristina, talmente innamorata del papà che, quando lo sentiva tornare, gli preparava le pantofole davanti alla porta. Sergio mi racconta che ha passato la sua giovinezza a cercare ovunque le ragioni dell’accaduto. Nei libri di storia, per capire un fenomeno che non ha vissuto e in quelli di filosofia per comprendere come possa, un essere umano, arrivare alla ferocia disumana di un assassinio a freddo o di una strage. L’una e l’altra, di esseri innocenti. Sergio va spesso a Bologna dove si tiene un processo sulla strage del due agosto. È soddisfatto perché il tribunale ha chiesto al Csm le trascrizioni delle due udienze di Mario Amato. Sente che un filo lega quelle due vicende. Sergio mi dice che sua madre non gli ha insegnato l’odio, neanche nei confronti degli assassini che gli hanno tolto quel padre insieme al quale avrebbe potuto fare tante cose. Personalmente credo che l’omicidio di Amato non fosse un mero atto dimostrativo. D’altra parte nella rivendicazione i Nar sono espliciti: «Abbiamo eseguito la sentenza di morte contro il sostituto procuratore dottor Amato, per la cui mano passavano tutti i processi a carico dei camerati. Oggi egli ha chiuso la sua squallida esistenza imbottito di piombo. Altri la pagheranno». Valerio Fioravanti dirà: «Noi scegliemmo Amato come simbolo dello Stato per addivenire ad una rottura con quelle forze dello Stato stesso a cui eravamo “simpatici”, fino a quel momento, poiché ci consideravano “figli della borghesia” lasciandoci “fare” e scorrazzare liberamente per tutta Roma». Amato non viene ucciso solamente per impaurire. Con Amato i Nar mandano un segnale allo Stato e, allo stesso tempo, uccidono chi stava collegando i fili del rapporto tra terrorismo nero e pezzi di potere. Si spegne, con quel colpo alla nuca, la più potente banca dati di contrasto all’eversione nera. Quel cervello conteneva un’immensa quantità di informazioni, deduzioni, collegamenti che volano via. Un’esecuzione chirurgica, nei suoi effetti. Aveva detto, in quell’audizione: «Come esempio posso citare la famosa “banca dati” che tutti coloro che si occupano di terrorismo dicono da anni che è indispensabile. Ebbene, non se ne è mai fatto niente». Amato stava unendo i puntini, stava costruendo, dell’analisi del fenomeno, una visione sistemica. Il suo amico di sempre Paolo Cenni mi dice: «Negli ultimi quindici giorni Mario aveva cominciato ad organizzare una sua banca dati, richiamando fascicoli di inchieste che avevano invisibili collegamenti. Mi disse: “Quando vado in udienza mi accorgo che vengo osservato. Vogliono capire quanto ho capito, quanto so”. Attorno a lui c’era un brutto clima. Fui avvicinato dal giudice Alibrandi, suo collega, che mi sibilò minaccioso: “Dì al tuo amico che qui a Roma non si scherza, quelli si incazzano davvero”». Amato stesso dirà, poco prima di morire, «sto arrivando alla visione di una verità d’assieme, coinvolgente responsabilità ben più gravi di quelle degli stessi esecutori materiali degli attentati». Amato, prima dell’assassinio, è assediato. Giovanni Canzio racconta che andava a casa sua con dei pesantissimi fardelli di bobine che voleva ascoltare personalmente: «Non mi fido, possono non trascriverle per intero». Sergio lo ricorda nel suo studio in casa, con delle gigantesche cuffie sulle orecchie mentre ascolta le intercettazioni.
Amato è braccato. Un detenuto, un confidente, tal Marco Mario Massimi, al termine di un interrogatorio, gli aveva detto solo quattro parole, affilate come una lama: «Lei, dottore, la cercano». Un funzionario di polizia, come riporta il bel libro di Achille Melchionda Piombo contro la giustizia, aveva scritto, nella sua relazione di servizio, di avere a sua volta interrogato lo stesso pregiudicato. E chiudeva il rapporto così: «Il Massimi ha concluso indicando il dottor Amato come uno dei maggiori obiettivi del terrorismo di destra che, peraltro, potrebbe portare a termine, entro breve tempo, attentati in danno di poliziotti». Quindi sapevano. E lo hanno lasciato solo, alla fermata del 319.Amato torna al Csm, stessa commissione, dieci giorni prima di essere ucciso. Racconta di un esposto presentato da avvocati contro di lui nel quale si diceva, testualmente: «Segnaliamo alla S.V. se non sia il caso che il dottor Amato venga invitato ad astenersi a causa della sua conclamata militanza politica che è in netto contrasto con le idee professate da tutti gli inquisiti nelle varie istruttorie da lui condotte. Ci sembra inoltre molto strano che indagini di elementi appartenenti alla destra politica vengano sempre affidate, almeno negli ultimi tempi, al predetto magistrato». Il procuratore capo De Matteo, al quale l’esposto era indirizzato, non gli aveva detto nulla, se non che c’era una «cosa» che lo riguardava e, soprattutto, non lo aveva difeso pubblicamente. Amato non voleva essere solo, voleva aiuto. Voleva essere affiancato. Dice, con drammaticità in audizione: «Ricordo, a tal proposito, una riunione piuttosto spiacevole in cui il Capo disse che “il mio problema“ (era infatti divenuto il “mio” problema) era risolto perché vi erano due volontari senza, peraltro, farne il nome. Il collega Nicolò Amato domandò, allora, se si poteva sapere chi fossero tali due colleghi, al che il procuratore fece i nominativi di due colleghi che subito si alzarono protestando che loro “volontari non erano” e che, anzi, avevano manifestato una idea contraria. Uno dei due, successivamente, mi spiegò anche i motivi di tale sua reazione e cioè che lui vive in un quartiere in cui il Msi è particolarmente attivo ed aveva addirittura la sezione di detto partito sotto casa. Tale situazione mi mise ovviamente in imbarazzo in quanto sembrava, quasi, che si trattasse di un mio problema personale». Poco prima di essere ucciso gli vengono finalmente affiancati due magistrati. Uno di loro, il dottor Giordano, dice oggi: «Non avevamo uomini operativi. I carabinieri ci diedero solo un capitano. Sica ci disse che c’era il rischio che a Roma i terroristi uccidessero un magistrato. Ma ci disse “colpiranno l’ultimo della fila”. Non poteva essere Amato. Lui era stato minacciato in vari modi. Mario aveva preso un’arma come, dopo il suo assassinio, facemmo tutti noi. Eravamo arrivati tutti a Roma per dare una mano. Dopo l’omicidio Occorsio c’era stato il fuggi fuggi. Sentivamo il nostro lavoro come un dovere civile». Amato si interrogava sul fenomeno che stava investigando. Usava la ragione, non solo la legge. Disse in quella audizione: «Vi sono un sacco di ragazzi o addirittura ragazzini che sono come i miei o i vostri figli, o come i figli di persone assolutamente per bene e che vengono armati o comunque istigati ad armarsi e che poi ci troviamo che ammazzano. Ne troviamo con armi, con silenziatori o colti nel momento in cui stanno ammazzando. Si tratta, quindi, di un fenomeno grave anche sotto questo profilo che non può essere trascurato perché il problema non si può risolvere prendendo i ragazzini e mettendoli in galera, o meglio mettiamoli pure in galera, ma teniamo presente che il gravissimo danno sociale di questa massa di giovani che vengono travolti da vicende di questo tipo». E poi aggiungeva: «Sono tutte questioni che da troppo tempo sto “macerando” e che mi hanno messo in difficoltà e, non vi nascondo, mi hanno traumatizzato perché io pensavo, venendo a Roma, di trovare un Ufficio dove avrei imparato». Veniva da Rovereto. Dove lui, palermitano, era stato felice con sua moglie e dove diventerà sostituto procuratore della Repubblica.
Era un grande magistrato. Vissuto in quegli anni folli. A cercare di debellare con la sua testa, insieme ad altri coraggiosi servitori dello Stato, chi voleva instaurare una dittatura nella quale, a chi non la pensava come il presunto vincitore, veniva assicurata morte certa. Quegli anni orrendi, che solo chi non ha vissuto può rimpiangere, li dobbiamo ricordare senza distinzioni. Non esistevano assassinî o stragi più giustificabili di altre. Sono morti ragazzi solo perché erano di destra, altri solo perché erano di sinistra. Sono morti magistrati che applicavano la legge, giornalisti che raccontavano ciò che vedevano, politici che testimoniavano le loro idee, ragazzi in divisa perché facevano il loro dovere. La storia professionale di Mario Amato inizia il 15 giugno del 1970. Così ne parla la scheda del Csm a lui dedicata: «Presso il Tribunale ordinario di Roma, presta giuramento di fedeltà alla Repubblica; il rappresentante dell’ufficio del Pubblico ministero è, in quel momento, Antonino Scopelliti».Quel giorno, per quel giuramento al quale ciascuno resterà fedele, ci sono due prossimi «qualcuno». Uno, Amato, sarà ucciso dal terrorismo nero. L’altro, Scopelliti, il 9 agosto del 1991, verrà assassinato su ordine dei capi della mafia. Anche per lui un colpo alla testa. La testa, il cervello, gli studi raccolti in una borsa, come quelli di Massimo d’Antona, ucciso dalle Br. Di fronte al piombo la testa è fragile, indifesa. Specie se è condannata alla solitudine. Come quella di Mario Amato. Scarpe bucate e coscienza pulita.
· Così giustiziarono Rossa e il Pci gli dichiarò guerra.
Le Br: «Le spie si uccidono». Così giustiziarono Rossa e il Pci gli dichiarò guerra. Il commando avrebbe dovuto gambizzarlo, ma qualcuno decise in modo diverso. La sua morte segnò la fine della zona grigia tra terroristi e una fetta di militanti comunisti, scrive Paolo Delgado il 24 gennaio 2019 su "Il Dubbio". Chissà se è vero, come alcuni ritengono, che il tramonto delle Brigate rosse iniziò quarant’anni fa esatti, il 24 gennaio 1979 a Genova? Chissà se davvero a decidere la sorte della principale organizzazione armata italiana furono quei cinque colpi sparati contro il sindacalista della Cgil, Guido Rossa? Probabilmente non è così. Quasi certamente la parabola del gruppo che firmava documenti e attentati con la stella a cinque punte sarebbe stata identica. Ma quel giorno costituì lo stesso una cesura, una di quelle vicende rispetto alle quali si deve parlare di un prima e di un dopo. Il prima viene generalmente sottaciuto, parlarne appare sconveniente, merita tutt’al più qualche fugace accenno. Il prima sono i lunghi anni nei quali gli operai guardavano alle Br, se non con consenso, neppure come a dei nemici. Nelle grandi fabbriche molti sapevano o sospettavano chi fossero i brigatisti. Nessuno li denunciava. E quando uccisero a Torino il giornalista della Stampa Carlo Casalegno, il 29 novembre 1977, lo sciopero fallì. Giampaolo Pansa fu il solo ad avere il coraggio di scrivere apertamente che nei confronti del giornalista ucciso gli operai della Fiat non provavano alcuna solidarietà. Negli anni del conflitto duro in fabbrica, Casalegno era un giornalista del giornale padronale e le Br erano un’organizzazione operaia. Non amici magari, però neppure nemici. Le cose cambiarono solo in parte con il trauma del sequestro Moro, anche se probabilmente data proprio da quei tragici 55 giorni la prima vera e profonda dissociazione operaia dal partito armato. Con l’omicidio di Guido Rossa le Br varcarono una soglia. Per la prima volta la vittima era un operaio, un sindacalista della Cgil, un iscritto al Partito comunista. Da quel momento i brigatisti diventarono nemici anche per molti che, sino a quel momento, avevano mantenuto nell’intimo una sorta di inconfessata equidistanza e a volte di tacita complicità. Anche Guido Rossa aveva varcato una soglia. Aveva denunciato un brigatista, o più precisamente un simpatizzante, un pesce piccolissimo: Francesco Berardi, 50 anni, cinque più di Rossa. Era un postino, incaricato di far ritrovare volantini nella fabbrica in cui lavoravano sia lui che Guido Rossa, l’Italsider. L’ordine del partito era vigilare. Bisognava individuare i brigatisti, denunciarli, mobilitare contro di loro non solo le forze dell’ordine ma anche la classe operaia. Rossa, che non era un semplice operaio con la tessera del partito in tasca ma un militante convinto e motivato, lo fece sul serio. Individuò Berardi come principale sospettato di essere il postino che depositava periodicamente i volantini con la stella brigatista in calce vicino alla macchinetta del caffè. Con altri due delegati nel consiglio di fabbrica forzò il suo armadietto scoprendo effettivamente documenti e volantini brigatisti. A conferma di quanto sfumato fosse ancora il giudizio degli operai sulle Br, però, gli altri due delegati rifiutarono di denunciare Berardi. Lo fece solo Guido Rossa, il 25 ottobre 1978. Appena sei giorni dopo Berardi veniva condannato a 4 anni di reclusione. Per le Br il discorso delle armi non era una vuota formula. Non si limitavano a mettere le armi al servizio della politica, come quasi tutte le altre organizzazioni armate nella storia e nel mondo. Consideravano l’uso delle armi un gesto politico in sé, dunque meritevole di ampie discussioni politiche sul chi colpire e con quale impatto letale. E’ probabile che gli stessi Br si rendessero conto di trovarsi di fronte a un Rubicone, varcato il quale nel rapporto con la classe operaia, l’unica che davvero considerassero importante, tutto sarebbe cambiato, per un verso o per l’altro. Considerarono l’ipotesi della ‘ gogna’, cioè di far ritrovare Rossa incatenato ai cancelli della fabbrica come avevano fatto agli albori, nei primi anni ‘ 70, alcune volte. Bocciarono il progetto come irrealizzabile ripiegarono su quella che era allora una sanguinaria pratica quotidiana: la gambizzazione. La mattina del 24 gennaio 1979 un gruppo di fuoco aspettava Rossa sotto casa, quando l’operaio uscì alle 6.30 del mattino. A sparare fu Vincenzo Guagliardo, colpendo Rossa con quattro proiettili alle gambe. Doveva finire lì. Invece improvvisamente Riccardo Dura, anche lui operaio come la vittima e come Guagliardo, tornò indietro e sparò di nuovo, stavolta al cuore. «Le spie si uccidono» spiegò. Dura era un tipo tosto e rigido, Renato Curcio lo chiamava Pol Pot. Un simile colpo di testa, anche a costo di sfidare la rigida disciplina dell’organizzazione, era nelle sue corde. Il terzo componente del commando, quello alla guida dell’auto, Lorenzo Carpi è uno dei pochi brigatisti sfuggiti alla cattura e forse l’unico del quale si sono perse le tracce. Inevitabili le ipotesi fantasiose sul chi ne abbia facilitato la fuga, o chi lo abbia fatto scomparire e perché. La passione italiana per i misteri è invincibile. La tragedia di Genova non finì quel giorno. Berardi si uccise in carcere qualche mese dopo, il 24 ottobre. «Non reggeva la detenzione», spiegò l’avvocato di Soccorso rosso Edoardo Arnaldi, tra gli ultimi ad aver incontrato il ‘ postino’ in carcere. Sei mesi dopo, il 19 aprile 1980, si tolse la vita anche lui, denunciato come brigatista per sentito dire dal primo grande pentito delle Br, Patrizio Peci. Lo stesso Peci indicò al generale Dalla Chiesa l’indirizzo nel quale avrebbe trovato ciò che restava della colonna genovese Br, lo stesso Dura, Lorenzo Betassa e Piero Panciarelli, operai. L’appartamento in via Fracchia 12 era intestato a Annamaria Ludmann, segretaria e militante irregolare nelle Br. Quando i carabinieri di dalla Chiesa fecero irruzione nel ‘ covo’, nella notte del 28 marzo 1980, i quattro dormivano. Ancora oggi si parla di ‘ violento scontro a fuoco’. In realtà spararono solo i carabinieri. L’unico ferito tra le forze dell’ordine fu colto da un proiettile di rimbalzo. Riccardo Dura, stando alle conclusioni raggiunte due anni fa da un ricercatore, sulla base delle quali è stata aperta un’inchiesta, fu ucciso con un colpo di grazia. E’ un particolare. Tutti i giornalisti a cui, nei giorni seguenti e per pochi minuti, fu mostrato l’interno dell’appartamento dopo la strage capirono cosa era successo. Nessuno disse niente e Giorgio Bocca ammise, decenni più tardi, la scelta di tacere. La scomparsa di Carpi e la scoperta dell’uccisione a freddo di Dura, sommate con il fatto che nel giardino di via Fracchia i brigatisti seppellivano i loro documenti, incluso il memoriale Moro, ha innescato l’abituale ridda di ipotesi surreali. Il cui unico risultato è nascondere la verità sulla morte di Guido Rossa: la guerra civile a sinistra che è uno degli aspetti più eminenti e meno discussi nel chiacchiericcio generale sugli anni ‘ 70.
Damiano: «Una distesa infinita di 250 mila ombrelli accompagnò la bara di Guido Rossa». Al funerale c’era anche Cesare Damiano, allora giovane funzionario della Fiom- Cgil a Torino. «L’omicidio ruppe il legame tra le Br e le fabbriche e anche il sindacato si mobilitò». Intervista di Giulia Merlo del 24 gennaio 2019 su "Il Dubbio". Guido Rossa muore a Genova alle 6 e 35 del mattino del 24 gennaio 1979, falcidiato da quattro pallottole davanti a casa: tre alle gambe e una, quella fatale, al cuore. A ucciderlo è un commando della colonna genovese delle Brigate Rosse: il capo, Riccardo Dura, insieme a Vincenzo Guagliardo e Lorenzo Carpi lo attende fuori casa, a bordo di un furgone Fiat 238. Dura, poi, verrà ucciso in uno scontro a fuoco dagli uomini del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, nel covo di via Fracchia, a pochi metri da dove uccise Rossa. Gli altri due terroristi, arrestati, raccontano che l’obiettivo era solo gambizzare il sindacalista, ma Dura – dopo i colpi alle gambe che avevano lasciato Rossa a terra – tornò indietro per finirlo con un colpo al cuore, perché «le spie vanno uccise». A far pronunciare la sentenza di morte il fatto che Guido Rossa, comunista e sindacalista Cgil, aveva denunciato e fatto arrestare l’operaio Francesco Berardi, brigatista non ancora entrato in clandestinità, che distribuiva volantini delle Br alla macchinetta del caffè dell’Italsider. Rossa, nonostante fosse stato lasciato solo dagli altri due delegati di fabbrica, testimonia al processo e fa condannare Berardi, firmando così la propria condanna. Al suo funerale partecipano 250mila persone e prendono la parola il segretario della Cgil Luciano Lama e il segretario del Pci, Enrico Berlinguer. È presente anche il presidente della Repubblica, Sandro Pertini, che poi va in visita ai “camalli”, gli scaricatori del porto, per parlare contro il terrorismo. Da quel momento si scava un solco incolmabile tra il mondo operaio e le Brigate Rosse. Tra quei 250mila in marcia dietro la bara c’era anche Cesare Damiano, all’epoca giovane funzionario della Fiom Cgil di Torino. «Era una giornata di pioggia, livida e fredda. Ricordo una selva sterminata di ombrelli e le urla di protesta degli operai, mentre avanzavano in corteo. Io arrivai in treno da Torino, con una delegazione di compagni del sindacato: un viaggio carico di tristezza mista al senso di impotenza davanti a un avvenimento del genere».
Una manifestazione forse tardiva?
«Una manifestazione imponente, in cui gli operai di tutta Italia ripudiarono il terrorismo. Da questo punto di vista, il sacrificio di Guido Rossa rappresentò una svolta, perchè segnò l’inizio del declino delle Brigate Rosse. Con l’omicidio di un operaio, si ruppe il rapporto con quella parte, seppur minoritaria, di lavoratori che simpatizzavano per loro. Si fece strada anche nelle masse operai l’idea che il terrorismo rappresentasse un pericolo per le istituzioni democratiche».
Lei dov’era, in quel 1979?
«Come si diceva allora, ero un funzionario della Fiom Cgil di Torino. Ero il responsabile degli impiegati e dei tecnici della provincia di Torino e ricordo che mi stavo occupando della vertenza Olivetti nella quale, con l’arrivo del nuovo proprietario Carlo de Benedetti, si erano annunciati tremila licenziamenti. Prima, invece, la mia esperienza sindacale era maturata nel centro caldo per i metalmeccanici torinesi: la Fiat Mirafiori, nella mitica Quinta Lega della Fiom di corso Unione Sovietica».
Come si visse, all’interno del sindacato rosso per antonomasia, la stagione degli anni di piombo?
«Bisogna capire che la Torino di allora era teatro continuo di uccisioni, ferimenti e gambizzazioni, da parte delle Brigate Rosse e di Prima Linea, che riguardavano i grandi stabilimenti della Fiat. Tutto era cominciato nel 1973, con il sequestro di Bruno Labate a Mirafiori, rivendicato dalle Br. Lui era un sindacalista dell’allora Cisnal, attuale Ugl, considerato all’epoca un sindacato fascista: venne legato ad un palo fuori dalla fabbrica e rasato, come facevano i partigiani nei confronti dei traditori durante la resistenza».
Reagiste?
«No. All’epoca noi sindacalisti della FLM, la federazione dei lavoratori metalmeccanici, considerammo l’episodio come marginale, perchè non ci riguardava. Poi l’escalation crebbe, con il sequestro del capo del personale Fiat, Ettore Amerio. Anche in quel caso, valutammo l’episodio come marginale, perchè anche allora non ci riguardava. Ma i ferimenti e le gambizzazioni continuarono: sempre di dirigenti aziendali, però, dunque realtà non direttamente riconducibili al nostro mondo. Faceva parte del clima di quell’epoca, in cui le Br e Prima Linea non erano ancora chiaramente percepite come ciò che si sono poi rivelate».
E come erano percepite?
«Le dico con onestà: una parte dei lavoratori della fabbrica, seppure minoritaria, aveva qualche simpatia nei confronti di Br e Prima Linea. Eravamo negli anni Settanta, il conflitto nelle fabbriche era aspro e le Br si presentavano come un movimento anticapitalista e antipadronale, assumendo in qualche modo il ruolo dei giustizieri dei diritti negati ai lavoratori. Il clima nelle fabbriche era di parziale copertura e questo consentiva ad alcuni esponenti del terrorismo di nuotare in quel mare, forti di una sorta di protezione indiretta».
Fino a quando Guido Rossa, un anno dopo il tragico epilogo del sequestro Moro, non denunciò un operaio che faceva propaganda per le Br.
«Segnò un punto di svolta. Per smantellare questo tipo di fiancheggiamento di fabbrica al terrorismo il sindacato, unitariamente con le forze politiche dell’arco costituzionale, non si risparmiò. In quello stesso anno facemmo fir- mare ai 600 delegati del consiglio di fabbrica di Mirafiori – detto il “consiglione” perchè rappresentava i 60mila operai dello stabilimento – un documento di condanna del terrorismo. Solo pochi non lo firmarono, dichiarando così la loro connivenza, e vennero espulsi. Non bastò, però».
Perchè?
«Molti brigatisti lo firmarono per mascherarsi. Ricordo perfettamente Luca Nicolotti: era delegato della Fim Cisl e durante le lotte teneva discorsi da moderato. A un certo punto scomparve, dicendo di aver ricevuto la cartolina della leva e che doveva andare al sud. Gli facemmo una festa nella lega sindacale, prima della partenza. Non arrivo mai a destinazione: entrò in clandestinità. Così, scoprimmo che era un brigatista della prima ora. Un altro di loro era Nicola D’Amore, iscritto alla Cgil e pronto a prendere la tessera del Pci, pur di mimetizzarsi. Lavorava alle presse di Mirafiori, ma nel cambio turno sparava ai dirigenti di altre fabbriche. Uccise un capo officina della Lancia».
E la morte di Rossa segnò la svolta.
«Sì, perché i lavoratori capirono che il vero bersaglio di quella rivoluzione erano loro. Le Br avevano ucciso un comunista, un operaio, un delegato sindacale, uno di loro».
La percezione del fenomeno eversivo cambiò anche all’interno del sindacato?
«Cambiò attraverso lo studio del fenomeno. . Su questo terreno, il sindacato era veramente esposto, così come lo erano le forze dell’arco costituzionale. Non ci furono solo le assemblee nelle fabbriche per spiegare ai lavoratori il rischio del terrorismo, ma anche le assemblee nei quartieri, con i partiti. A Torino, per esempio, organizzammo la compilazione di un questionario per indicare situazioni che potevano destare sospetto nell’opinione pubblica. Insomma, si provava come si poteva a togliere l’acqua ai pesci».
In che rapporti eravate con il Pci?
«Il rapporto tra sindacato e i partiti, non solo il Pci, era ancora segnato dalla logica della cinghia di trasmissione. L’impeto del ‘ 68 aveva scomposto la rigida architettura della relazione tra sindacato e partiti, che per tradizione voleva ricondurre la Cgil al Pci e al Psi, la Cisl alla Dc e la Uil al Partito Socialista e Socialdemocratico ma, nonostante questo, soprattutto per la Cgil l’influenza del Pci era ancora forte. Per quanto riguarda il terrorismo, però, sindacato e partiti erano schierati dalla stessa parte e dunque il rapporto si rinsaldò e anzi, i sindacati aprirono le porte delle fabbriche alla politica».
Alla luce di tutto questo, a quarant’anni di distanza, direbbe che la sottovalutazione del fenomeno terroristico da parte del sindacato ebbe un ruolo indiretto nell’omicidio Rossa?
«La figlia di Guido Rossa è stata mia collega in Parlamento e da lei ho ricavato la percezione di una sorta di isolamento di Rossa. Quando denunciò il brigatista, si sentì abbandonato o comunque non sufficientemente protetto. Non ho elementi diretti per fare una valutazione, tuttavia è emerso successivamente che l’obiettivo delle Br era la gambizzazione e non l’uccisione. Forse, gli stessi terroristi avevano intuito la possibilità che un omicidio potesse provocare un distacco dai lavoratori che, a parole, la loro promessa messianica di rivoluzione prometteva di proteggere».
Guido Rossa, l'autista del commando che uccise l'operaio dell'Ansaldo, Lorenzo Carpi, è sparito da quarant'anni. L'omicidio del sindacalista si intreccia con l'assassinio di Aldo Moro. Il ruolo strategico della colonna genovese delle Br, scrive il 19/01/2019 Maria Antonietta Calabrò, giornalista, su Huffingtonpost.it. L'operaio Guido Rossa viene ucciso dalle Br il 24 gennaio di 40 anni fa, il 1979, a meno di un anno dal sequestro e dall'assassinio di Aldo Moro, l'anno prima. I due delitti sono accomunati dal ruolo strategico per le Br della colonna genovese e del suo capo Riccardo Dura, che era il vero capo militare dell'organizzazione armata denominata Brigate Rosse. Le zone d'ombra dell'omicidio di Rossa servirono a coprire i misteri rimasti insoluti del caso Moro. Alcune considerazioni. Innanzitutto. Dura si dimostrò un efferato assassino quando decise di uccidere a freddo Rossa. Secondo le testimonianze di alcuni brigatisti collaboratori di giustizia, il Comitato esecutivo e la direzione della colonna genovese volevano solo «gambizzare» il sindacalista: Dura, invece, uccidendolo, aveva agito di sua iniziativa, quando Rossa era già stato ferito alle gambe da un altro membro del commando. Dura cioè sarebbe intervenuto in un secondo tempo finendo Rossa con un colpo al cuore, sparato a bruciapelo. Secondo Sabina Rossa, figlia di Guido, ("Guido Rossa mio padre", 2006) l'omicidio non fu comunque la conseguenza di un eccesso di reazione di Dura al tentativo della vittima di ripararsi, quanto l'esecuzione di un piano premeditato di Dura e Mario Moretti (con il resto dell'organizzazione brigatista tenuta all'oscuro) per uccidere Rossa. Questa tesi presuppone la teoria di un doppio livello delle Brigate Rosse, con Moretti e i suoi luogotenenti considerati come portatori di progetti e scopi autonomi rispetto a quelli collettivi di tutte le Br. C'è poi un secondo fatto e cioè che l'autista del commando che uccise l'operaio dell'Ansaldo, Lorenzo Carpi, come denunciato nel libro "Uccidete Guido Rossa" (2019) è sparito da quarant'anni, di lui rimane solo una vecchia foto in bianco e nero. All'epoca ha 25 anni e dall'autunno del 1980 è formalmente latitante, nonostante sia stato condannato all'ergastolo per tre agguati e ad altri 16 anni per il ferimento di Roberto della Rocca oggi presidente dell'Associazione vittime del terrorismo. Si può ipotizzare che la "scomparsa " di Carpi, per oltre un anno servì "a coprire " Dura e il covo genovese di via Fracchia dove era nascosto - lo sappiamo solo oggi dopo il lavoro della Commissione Moro2 che ha chiuso i suoi lavori nel marzo 2018 e di cui è stato segretario il senatore genovese Federico Fornaro - il vero "tesoro" delle Brigate Rosse. Quale? Un'imponente documentazione relativa al caso Moro (almeno tre valigie di carte) che i brigatisti avevano "sepolto" nel giardinetto dell'appartamento di via Fracchia. Michele Riccio, il sottufficiale dell'Antiterrorismo del generale Dalla Chiesa - che guidava l'operazione- ha confermato di recente che obiettivo primario del blitz era acquisire nuove informazioni: "Dalla Chiesa cercava le carte" sul sequestro Moro, ha dichiarato. Quelle carte che non erano mai state trovate nel covo milanese di Via Montenevoso caduto il 1 ottobre 1978, ma che da qualche parte invece dovevano pur essere. Come ricostruito nel libro "Moro, il caso non è chiuso" (2018) tra quelle carte c'erano anche gli originali degli interrogatori di Moro, almeno trenta cartelle di pugno dello statista dc, il cosiddetto Memoriale, e anche gli originali dei piani di ripiegamento della struttura Nato 'Gladio' e tutti i nomi dei gladiatori italiani, documenti che durante il sequestro di Moro erano 'scomparsi ' dalla cassaforte del ministro della Difesa. E vi ricomparvero tre mesi dopo il blitz di via Fracchia, reso possibile dal pentimento di Roberto Peci, in cui morì anche Dura. Era passato poco più di un anno dall'esecuzione di Rossa. L'irruzione si svolse, in piena notte il 28 marzo del 1980. Quel blitz rappresenta una delle vicende più complesse del terrorismo brigatista e delle azioni che lo contrastarono. Quattro morti tra gli occupanti di quella base logistica delle Brigate Rosse, un sottufficiale dei Carabinieri ferito da un colpo d'arma da fuoco, la fine dell'inviolabilità dei siti della colonna genovese, strategici per l'organizzazione. E molti interrogativi sul reale svolgimento dell'irruzione, divenuto poi un evento cui si riferì simbolicamente la lotta armata, con la costituzione di un gruppo terroristico milanese denominato appunto «XXVIII marzo», che ucciderà l'inviato del «Corriere della Sera», Walter Tobagi, proprio a due mesi dall'irruzione, il 28 maggio 1980. L'uccisione di Dura assunse quasi le modalità di un'esecuzione. Tanto che nel 2017 la procura di Genova, a seguito dell'esposto presentato dal ricercatore Luigi Grasso, ha aperto un fascicolo con l'ipotesi di omicidio in riferimento alla morte del brigatista. La perizia necroscopica dei professori Renzo Celesti e Aldo Franchini sostiene che Dura era morto in modi e tempi assolutamente diversi dai suoi compagni e quindi sicuramente non durante l'azione. Lo uccide infatti – causa morte «encefalite acuta» –, un solo colpo di pistola, e non i colpi dei fucili a pompa che avevano devastato i corpi degli altri tre, sparato dall'alto in basso e da una distanza di più di trenta centimetri e meno di un metro. Il corpo del Dura inoltre non presentava abrasioni o contusioni o graffi come chi si sia battuto o abbia intrapreso una colluttazione nel corso della cattura. La quantità e l'importanza del materiale sequestrato in via Fracchia si desumono esaminando il verbale di perquisizione e sequestro (acquisito agli atti della Commissione) di un impressionante elenco di 753 reperti, quasi tutti documenti e carte. Che adesso non si trovano più. E su questo la Procura di Genova ha aperto una nuova indagine nella primavera del 2018. Chi ha fatto "sparire" l'autista dell'agguato a Guido Rossa, Carpi, ha dato oltre un anno di tempo alla latitanza di Dura e ai suoi segreti. Dopo la mancata estradizione per quarant'anni di due membri del commando che sequestrò Moro, Alvaro Lo Jacono e di Alessio Casimirri, i fatti di Genova, a cominciare dall'assassinio di Rossa, sollevano nuovi interrogativi sulle coperture fornite ai brigatisti da apparati dello Stato, con lo scopo di occultare la "verità indicibile" dietro il caso Moro.
Guido Rossa, quell'assassinio delle Br cambiò la storia d'Italia, scrive il 19/01/2019 Sergio Cofferati, Europarlamentare, su Huffingtonpost.it. Con l'assassinio di Guido Rossa da parte delle Brigate Rosse a Genova il 24 Gennaio del 1979 si aprì una imprevista fase nuova nella vita e nella politica del paese, come è storicamente provato. Cominciò a incrinarsi l'omertà e la tacita accettazione che le Br avevano lucrato in alcuni settori sociali e apparve clamorosamente falsa l'idea che la loro follia fosse rivolta a vantaggio dei lavoratori e dei più deboli in quella società. Guido Rossa era una figura esemplare di quel contesto; un operaio di grande professionalità, con passioni culturali e sportive, con una bella famiglia. Un lavoratore iscritto al sindacato (la FIOM-CGIL), a un partito (il PCI), e che lottava per rendere più dignitose e accettabili le condizioni della sua classe sociale. Lottava con gli strumenti della democrazia. Quella democrazia che le Br volevano distruggere. I loro proclami apparvero quel che erano veramente anche a molti incerti con l'uccisione di Guido. L'assurdo slogan "né con lo Stato né con le Br" divenne più difficile da proporre per molti perché Guido era parte attiva di quello Stato ed anche la tesi "dei compagni che sbagliano" s'incrinò perché Guido aveva visto uno di loro deporre materiale di propaganda di un movimento eversivo e lo aveva giustamente denunciato. E per questo era stato scelto come vittima. Che il clima politico e sociale sarebbe cambiato lo si percepì nettamente la mattina dei funerali. Chi le ha frequentate sa che le piazze "parlano" e quella di Genova fu molto eloquente quella mattina. Una folla enorme, incurante della pioggia battente riempì la città e Piazza De Ferrari per rendere l'ultimo saluto a Guido. Ero arrivato al mattino presto in pullman da Ravenna con i lavoratori dell'ANIC per partecipare a quel saluto. La CGIL e il PCI erano stati sempre, fin dall'inizio molto fermi nel giudicare le Br ed il terrorismo. Luciano Lama lo fu ovviamente anche quel giorno dal palco dal quale parlò a fianco di Pertini e Berlinguer. E non nascose affatto il colpevole isolamento nel quale Guido Rossa era stato lasciato. Furono parole che segnarono una continuità di giudizio e di comportamento verso un fenomeno eversivo che tante morti e tanto dolore aveva già creato ma la vera novità furono quelle persone venute da ogni parte del paese che reagivano con ancora più forza di quanto era capitato con altri delitti, compreso quello di Aldo Moro di qualche mese prima. La follia terrorista non si arrestò ma cominciò lentamente a incrinarsi, a isolarsi, favorendo l'azione repressiva nei suoi confronti dello Stato. Sono passati quarant'anni e, purtroppo però, quelle vicende non sono ancora per intero chiarite. Nel bel libro di Donatella Alfonso e Massimo Razzi, "Uccidete Guido Rossa", alcuni interrogativi vengono riproposti. Credo personalmente che la colonna genovese delle Br avesse un peso maggiore di quello che traspare dalla commissione d'inchiesta Parlamentare, non solo per il numero di delitti, ma per le tempistiche e il valore degli obiettivi scelti. Anche la morte di Guido Rossa non è chiara quanto dovrebbe. Riccardo Dura, il terrorista che uccise Rossa era persona importante nel gruppo di comando delle Br (non solo genovesi). E' credibile che abbia sparato per uccidere disobbedendo ad una decisione collegiale, aprendo così un grande problema al suo gruppo e che poi però restò esattamente nel posto di responsabilità che occupava? Dura venne ucciso in via Fracchia il 28 marzo del 1980 in una irruzione notturna dei carabinieri in un appartamento diventato covo delle Br. Nel violento conflitto a fuoco (del quale esistono versioni diverse anche da parte degli stessi inquirenti) vennero uccisi quattro brigatisti. Tre di loro crivellati di colpi, Dura invece colpito da un solo colpo alla nuca. Il dubbio che Guido Rossa dovesse morire e Riccardo Dura non dovesse parlare rimane purtroppo ancora forte.
· La vendetta delle BR: Roberto Peci.
Roberto Peci, vendetta Br «Grazie mamma per avermi dato il nome di papà». Pubblicato domenica, 15 dicembre 2019 su Corriere.it da Fabrizio Peronaci. Estate 1981: ucciso il fratello del pentito Patrizio. La figlia Roberta: «Senzani è libero, ma farà fatica a guardarsi allo specchio». «Per tanto tempo mi sono vergognata del mio cognome. Poi ho deciso di mettermi in gioco, di affrontare il passato per guardare al futuro mio e della mia famiglia, del mio compagno, degli amici più autentici...» Si chiama Roberta Peci e in queste ore festeggia il suo compleanno. Ma, di sé, vuole parlare il meno possibile. Altro non desidera che tornare nell’ombra. Ama la fotografia, il cinema. La differenza - dal nome e cognome di suo padre - la fa solo una vocale. Quel giorno lei non c’era: era nella pancia di sua mamma. Correva l’anno 1981. Tempo di sequestri regolarmente conclusi nel sangue, di omicidi in nome del proletariato e di truci vendette. Erano le Brigate rosse dell’ultima fase, quelle del dopo-Moro e di Giovanni Senzani, il criminologo teorico del Partito guerriglia: ormai disgregate, rantolanti. Giovanni Senzani, capo delle Br della fase finale, condannato all’ergastolo per il delitto Peci. La mattina del 3 agosto, nelle redazioni svuotate dalle ferie, arriva la notizia di un delitto alla periferia di Roma, in una casupola vicino l’ippodromo delle Capannelle. Luogo squallido, frequentato da prostitute. I cronisti scopriranno che i materassi buttati a terra venivano usati dalla «Secca» e dalla «Panzona» per soddisfare i clienti. Scena agghiacciante. Il corpo di Roberto Peci, antennista marchigiano venticinquenne, fratello di Patrizio, il primo pentito brigatista, viene fatto trovare supino, ammanettato, dilaniato da una pioggia di proiettili alla testa, al petto, alle braccia. Si conclude così un sequestro durato 55 giorni, lo stesso tempo della prigionia di Aldo Moro. Il sostituto procuratore Macchia ha un malore. Su un cartone la scritta: «Morte ai traditori». Assassinato dopo un processo-farsa, del quale era stato diffuso il video. Così – rendendo la nipotina orfana prima ancora di nascere – la scelta di Patrizio Peci di collaborare con lo Stato e denunciare i suoi compagni è vendicata.
Roberta, auguri. Mamma Antonietta quel tragico giorno d’estate era incinta, lei nacque il 16 dicembre 1981. L’omicidio di papà nella storia italiana resterà un evento politico-criminale inaudito, mentre per voi è stato lancinante dolore, senso dell’assenza.
Che babbo sarebbe stato, Roberto?
«Semplicemente un padre. Può sembrare una risposta lapidaria, ma per chi non ha avuto mai la possibilità di comprendere il significato della figura paterna, vuol dire tutto. Ora, finalmente, non ho più paura di confrontarmi con quel passato. Le cose che ho vissuto hanno fatto di me la donna che sono adesso».
Bambina, adolescente, ragazza: che vita è stata senza di lui?
«Una vita colma di domande. Avevo 6 o 7 anni quando, a scuola, appresi per caso che mio padre non era morto, per così dire, in modo normale. Di malattia o incidente. Poi, con la guida di mia madre, ho voluto sapere, capire».
E cosa ha scoperto?
«L’unica colpa di mio padre, un ragazzo di 25 anni, fu avere un fratello terrorista pentito. Era un bravo calciatore, avrebbe potuto anche sfondare nello sport. Poi tentò di entrare nei carabinieri e fu respinto per la fama che già aveva mio zio. Si mise a lavorare come operaio. Amava mia madre: con lei era felice anche se vivevano in un garage. Non mi piace stare sotto i riflettori, ma a un certo punto ho dovuto uscire allo scoperto per far conoscere la verità».
Il segreto è non pensarci o rielaborare il lutto attraverso la passione civile?
«La fine di papà è un pensiero costante nella mia vita. Una forma di impegno o militanza non può dare pace alla mia ricerca. Ciò che conta è la presa di coscienza che ho elaborato da sempre e mi ha definita come persona».
Giovanni Senzani, condannato all’ergastolo per il delitto Peci, tornò in libertà una decina d’anni fa. Frustrazione, rabbia?
«Verso Senzani provo completa indifferenza. Il mio odio è inutile, farebbe male solo a me. Aveva 40 anni in quel momento, non era un ragazzino, come molti della banda che aveva messo su per rapire e uccidere Roberto. Era un lucido calcolatore e ciò si evince bene dagli atti del processo. Parlava della morte di mio padre come di un tributo alla società dello spettacolo. Una persona così, dopo aver passato gran parte della vita in carcere, deve per forza aver fatto delle considerazioni su tutto ciò, e non credo lo aiutino a guardarsi allo specchio la mattina. Senzani è libero, ha scontato la pena, ma dovrà convivere con quel che ha fatto. La coscienza è meno indulgente della legge umana».
Desidera incontrarlo?
«No, un tempo avrei voluto. Sono andata a cercarlo a Firenze. Ora non ne sento più il bisogno, il tempo ha parlato per lui».
Alberto Franceschini, uno dei fondatori delle Br, si è dimostrato affettuoso con lei. In rete (tratto dal documentario «La via di mio padre») circola un vostro colloquio. Esistono le Br buone, delle origini, e quelle cattive della deriva armata, con la bava alla bocca?
«A mio parere non esistono Brigate rosse buone, neanche contestualizzando gli avvenimenti di quel periodo storico che ha caratterizzato il nostro Paese».
Walter Veltroni le è stato vicino. Nel libro «L’inizio del buio» ha legato delitto Peci e morte di Alfredino Rampi. Erano gli stessi giorni del 1981: l’uso-abuso delle telecamere mutò il nostro modo di vedere. Che opinione s’è fatta dei mass media?
«L’utilizzo che ne fece Senzani è stato finalizzato ai suoi scopi brutali e inumani. Io la imposterei così: i mass media sono una componente fondamentale della società in cui viviamo. Senzani anticipò di almeno vent’anni le tecniche del terrorismo di oggi, ma le strategie comunicative non bastano. Le Br decimate dalle rivelazioni dei pentiti ricevettero il colpo di grazia quando la gente capì che non erano paladini del proletariato: chi vuole cambiare il mondo non può esser capace di simili nefandezze. Se la storia di mio padre fosse stata spiegata meglio, altri terroristi avrebbero evitato di strumentalizzare i propri ostaggi».
I film-denuncia sulla vicenda Peci sono stati però decisivi, hanno portato anche a dedicargli una strada.
La via dove fu rapito, a San Benedetto del Tronto, nel 2010 è stata intitolata a Roberto Peci.
«Il regista Luigi Maria Perotti è stato una delle poche persone che ha raccontato l’accaduto con trasparenza e senso critico. Siamo diventati amici fraterni. Dopo l’uscita de L’Infame e suo fratelloe de La via di mio padrela mia vita non è stata più la stessa. Sono stata sul luogo dove fu ucciso. Ho fatto cose molto dolorose per raccontarne la storia. Lui, il regista, ne era consapevole e mi ha aiutata. È stato un passaggio straziante, ma sentivo di doverlo fare. Ora a San Benedetto del Tronto la strada dove mio papà fu rapito si chiama via Roberto Peci. Un risultato bellissimo, commovente».
Suo zio Patrizio, uscito presto dal carcere, si è rifatto una vita sotto falsa identità. In fondo fu lui la causa dell’omicidio. Che sentimenti prova?
«La stessa indifferenza che ho per Giovanni Senzani. Non ho interesse ad avere sue notizie, né a incontrarlo».
Ultima domanda, Roberta. Che effetto le fa chiamarsi come suo padre?
«Mi sento fortunata nel portare il suo nome. Grazie mamma».
· A casa di Alessio Casimirri, il latitante più ricercato d'Italia.
A casa di Alessio Casimirri, il latitante più ricercato d'Italia, scrive il 27 gennaio 2019 la redazione di Le Iene. Dopo Alvaro Lojacono, Gaetano Pecoraro va sulle tracce di Alessio Casimirri, il ricercato numero uno della lista dei trenta terroristi latitanti, e parte per il Nicaragua. Dopo l’arresto di Cesare Battisti, Matteo Salvini ha promesso di andare a prendere i terroristi oggi latitanti. Sarebbero trenta, e noi abbiamo incontrato la scorsa settimana il ricercato numero due, Alvaro Lojacono, oggi latitante in Svizzera. E’ stato lui stesso a dirci che il primo della lista dei ricercati è Alessio Casimirri, che si trova oggi in Nicaragua, a Managua. Brigatista, partecipa nel sequestro di Aldo Moro, è latitante dal 1982, e non ha scontato neanche un giorno di carcere, nonostante la condanna a sei ergastoli. E’ diventato cittadino del Nicaragua, paese che si è rifiutato di estradarlo. Oggi, a 67 anni, gestisce un ristorante a Managua, e i camerieri sarebbero ex sandinisti armati. Gaetano Pecoraro prova a incontrarlo, e va a mangiare nel suo ristorante. E per raccogliere informazioni va a parlare con l’ex moglie e con l’unico giornalista che è riuscito mai a incontrarlo.
· Lojacono: l'intervista esclusiva al latitante Br.
Lojacono: l'intervista esclusiva al latitante Br, da Salvini a Cossiga, scrive il 20 gennaio 2019 la redazione di Le Iene. Dopo il caso Battisti, Gaetano Pecoraro ha scovato in Svizzera Alvaro Lojacono, latitante delle Brigate Rosse condannato all'ergastolo in Italia. Che, a un tavolino di un bar, parla tranquillamente di vittime "come simboli" e sfida le autorità italiane. “Salvini? Paura non me ne fa”, resta spavaldo l’ex terrorista rosso e militante delle Brigate Rosse Alvaro Lojacono. Dopo la cattura in Bolivia e l’estradizione di Cesare Battisti (clicca qui per l’intervista esclusiva che gli avevamo fatto a Parigi), Gaetano Pecoraro ha scovato in Svizzera dove è latitante nonostante debba scontare l’ergastolo in Italia e dove lavora in Università. Per la magistratura è stato coinvolto il 16 marzo 1978 nel sequestro in via Fani a Roma del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro (nell’agguato furono uccisi 5 agenti di scorta), ha ucciso un magistrato Girolamo Tartaglione sempre nel 1978 e lo studente greco Miki Mantakas, militante del Msi nel 1975. “Io ho l’impressione che sia una parata: sceriffo, bandito… Su Cesare Battisti è stata costruita negli anni l’immagine di nemico pubblico numero uno, il cattivo assoluto”, dice. “Quello è odio, che giustizia è?”. “Io sono stato condannato per “cose che manco sapevo che erano state fatte”. Se si entra nello specifico sul rapimento Moro però dice: “Lascia perdere, non insistere…” e rimanda alla ricostruzione di Paolo Persichetti, brigatista estradato dalla Francia in Italia (secondo questa versione Lojacono era in un auto a bloccare l’accesso in via Fani). “Bisogna riconoscere che c’è una parte della società italiana che ha preso le armi perché si sentiva in dovere di tentare una rivoluzione”. Secondo Lojacono lo Stato dovrebbe riconoscerlo, come voleva fare con un’amnistia l’ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, ai tempi nemico numero uno delle Br. Noi sul sito vi riproponiamo integralmente sul sito l’intervista che facemmo a Cossiga nel 2003 proprio su questo tema (clicca qui per vederla tutta). “Fu il tentativo di innescare una guerra civile: chi combatté lo fece non con l’animo del terrorista ma con l’animo del partigiano”, dice Cossiga. E le vittime? “Non c’è mai stato niente di personale con nessuna delle vittime: tutto era simbolico e funzionale”, dice tranquillamente Lojacono, dichiarandosi disposto a scontare le condanne ma in Svizzera (in parte le ha già scontate così).
Moro, l’ex Br Lojacono: “Accetterei di scontare la mia pena in Svizzera. L’Italia non ha mai chiesto la mia estradizione”, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 18 Gennaio 2019. L'ex terrorista è oramai cittadino svizzero: rompe il silenzio dopo quasi vent'anni e il recente arresto dell’ex Pac Cesare Battisti con un'intervista al portale Ticinonline.it: "Perché non hanno chiesto mia estradizione? Forse non hanno voluto che uno Stato straniero mettesse il naso nel processo Moro". Fioroni: "Non ha voluto rispondere alle domande della commissione". Il figlio del caposcorta del presidente Dc: "Per ex Br è finita la pacchia". Accetterebbe di scontare l’ergastolo in Svizzera Alvaro Lojacono, uno degli esponenti delle Br condannati per l’agguato di via Fani in cui venne uccisa la scorta di Aldo Moro e il presidente della Dc venne rapito. Lojacono è oramai cittadino svizzero e rompe il silenzio dopo quasi vent’anni e il recente arresto dell’ex Pac Cesare Battisti con un’intervista al portale Ticinonline.it. Se l’Italia presentasse una richiesta di exequatur corretta e completa (cioè per tutte le condanne italiane cumulate), con la garanzia di non procedere più per gli stessi fatti, spiega Lojacono, “io l’accetterei senza obiezioni, almeno metteremmo la parola fine a questa vicenda”. In pratica, l’ex terrorista accetterebbe di scontare nel paese elvetico l’ergastolo inflittogli da un giudice svizzero, secondo le sentenze italiane. Lojacono, che per la strage di via Fani deve scontare appunto un ergastolo: all’epoca dell’agguato aveva 22 anni. Ora ha 63 anni e, grazie al passaporto e al cognome della madre, vive in Svizzera da uomo libero, sotto il nome Alvaro Baragiola. Lavora, ha una famiglia e la sua fedina è pulita dopo aver scontato una pena di 17 anni inflittagli per fatti di sangue (inclusi nella sentenza Moro-bis). “L’Italia non riconosce, né può riconoscere, la carcerazione sofferta in Svizzera per gli stessi fatti e reati – spiega – perché non solo non ha chiesto alla Svizzera l’estradizione, ma neppure ha chiesto alla Confederazione di processarmi in Svizzera”. Nel 2006 l’Italia presentò alla Confederazione una richiesta di exequatur, cioè di esecuzione in Svizzera delle condanne italiane ma, chiarisce l’ex Br, “la richiesta italiana riguardava solo la sentenza del processo Moro 4 – invece della decisione giudiziaria di cumulo delle pene dei diversi processi – e non garantiva che, una volta eseguita la pena in Svizzera, il paese richiedente l’avrebbe pienamente riconosciuta come scontata. Il rischio era che, una volta eseguita in Svizzera, l’Italia avrebbe poi proceduto per farla valere o eseguirla di nuovo, cosa illegale ma non sorprendente, o avrebbe chiesto l’esecuzione ulteriore delle altre condanne. Per questo motivo la richiesta italiana fu respinta dai giudici del Canton Berna”. Per quale motivo le autorità italiane hanno scelto di non chiedere l’estradizione o il processo in via sostitutiva? “Bisognerebbe chiederlo a loro. Io non lo so e posso solo fare delle ipotesi, forse l’Italia non ha voluto che uno stato straniero mettesse il naso nel processo Moro. Sarebbe comprensibile. Qualunque sia la ragione non sono le autorità svizzere, né una mia presunta opposizione, ad aver creato l’impasse attuale”, sottolinea Lojacono, aggiungendo: “Forse è più facile non fare nulla e sbraitare contro la Svizzera e il sottoscritto; su un latitante si può dire qualsiasi cosa perché non è in condizione di difendersi…”. “Sono passati 40 anni – continua Lojacono – e l’Italia si è sempre mossa in una logica di vendetta, come si è ben visto anche nel caso Battisti, e non ha mai rinunciato a un quadro giuridico d’eccezione. In una giustizia normale la ‘certezza della pena’ vale anche per il detenuto: io sono stato scarcerato quasi venti anni fa, e sto ancora come prima dell’arresto, senza sapere se un giorno o l’altro mi riarrestano o mi riprocessano per qualcosa. Se ora l’Italia decidesse di muoversi con una richiesta come quella che ipotizza, io l’accetterei senza obiezioni, almeno metteremmo la parola fine a questa vicenda”. A Lojacono replica Beppe Fioroni, presidente della Commissione parlamentare sul caso Moro. “E’ ora di farla finita – dice – Il parlamento ha approvato all’unanimità una relazione su fatti e prove certe, senza nessun complotto o interpretazione stravagante. Con Lojacono noi eravamo disponibili anche a una rogatoria, ad andare noi in Svizzera, queste verità poteva dirle da lì. Non c’era bisogno di farsi riarrestare per parlare. Con lui abbiamo avuto uno scambio epistolare. Ci ha spiegato che non intendeva rispondere alle domande perché, come risulta dagli atti, aveva scontato la sua pena con la giustizia elvetica”. Commenta l’intervista dell’ex Br anche Sandro Leonardi, figlio di Oreste, il capo della scorta di Moro trucidato in via Fani il 16 marzo 1978 con Francesco Zizzi, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Domenico Ricci. “Ho letto e sono rimasto senza parole. Lojacono venisse in Italia, se vuole scontare davvero la sua pena. E se no, se ne resti in Svizzera come fa da quarant’anni e ci lasci in pace. A Lojacono e a tanti altri, Casimirri in testa, dico che è finita la pacchia”, aggiunge Leonardi, secondo cui l’arresto di Battisti in Bolivia dimostra che per catturare i terroristi latitanti “basta la volontà”.
«Quarant’anni dopo in Italia resta la stessa logica di vendetta». Intervista esclusiva allo svizzero Alvaro Baragiola, 63 anni, l’uomo con cui Salvini vorrebbe riaprire i conti degli anni di piombo, scrive il 18.01.2019 tio.ch. Per l’Italia l’orologio della storia è sempre fermo alle 9 del mattino del 16 marzo 1978. Al giorno, cioè, del rapimento del presidente della DC Aldo Moro e Alvaro Lojacono, all’epoca 22enne, è un brigatista latitante all’estero che deve scontare un ergastolo per l’agguato di via Fani. Per la Svizzera Alvaro Baragiola, che ora ha 63 anni (e da una vita ha preso passaporto e cognome della madre), è un cittadino elvetico. Oggi lavora, ha una famiglia e la sua fedina è pulita dopo aver scontato nel secolo scorso una pena di 17 anni inflittagli per analoghi fatti di sangue (già inclusi nella sentenza Moro1-bis). A riaprire vecchie cicatrici è stato l’arresto e l’estradizione dalla Bolivia a Roma di un protagonista minore degli anni di piombo, Cesare Battisti. Ma tanto è bastato per far ripartire la caccia ai riparati oltre confine. Mediatica soprattutto. E non solo, come spiega in esclusiva per Ticinonline/20Minuti e dopo quasi vent’anni di silenzio, l’uomo finito nel mirino di Matteo Salvini & Co.
Anche la Lega dei ticinesi ha invitato il Governo federale a consegnarla alle autorità italiane. Come valuta lei questa richiesta?
«Per cominciare tengo a precisare che l’Italia NON ha MAI chiesto la mia estradizione alla Svizzera (il fatto è accertato dalla sentenza del Tribunale federale del 9 aprile 1991), ed una “consegna” come la richiede la Lega equivarrebbe a una deportazione alla boliviana, che la Confederazione non prevede».
Lei ha scontato una pesante condanna in Svizzera per fatti che le sono imputati in Italia, ma sembra che le autorità italiane non ne tengano conto. Perché?
«L’Italia non riconosce, né può riconoscere, la carcerazione sofferta in Svizzera per gli stessi fatti e reati perché non solo non ha chiesto alla Svizzera l’estradizione, ma neppure ha chiesto alla Confederazione di processarmi in Svizzera».
Ci risulta però che, nel 2006, l’Italia presentò alla Confederazione una richiesta di exequatur, cioè di esecuzione in Svizzera delle condanne italiane...
«È vero, però la richiesta italiana riguardava solo la sentenza del processo Moro 4 - invece della decisione giudiziaria di cumulo delle pene dei diversi processi - e non garantiva che, una volta eseguita la pena in Svizzera, il paese richiedente l’avrebbe pienamente riconosciuta come scontata. Il rischio era che, una volta eseguita in Svizzera, l’Italia avrebbe poi proceduto per farla valere o eseguirla di nuovo, cosa illegale ma non sorprendente, o avrebbe chiesto l’esecuzione ulteriore delle altre condanne. Per questo motivo la richiesta italiana fu respinta dai giudici del Canton Berna».
Per quale motivo le autorità italiane (i diversi governi che si sono succeduti) hanno scelto di non chiedere l’estradizione e poi in caso di rifiuto il processo in via sostitutiva?
«Questo bisognerebbe chiederlo a loro. Io non lo so e posso solo fare delle ipotesi, forse l’Italia non ha voluto che uno stato straniero mettesse il naso nel processo Moro. Sarebbe comprensibile. Qualunque sia la ragione non sono le autorità svizzere, né una mia presunta opposizione, ad aver creato l’impasse attuale».
Come si spiega questa “storia sospesa”?
«Forse perché è più facile non fare nulla e sbraitare contro la Svizzera e il sottoscritto; su un “latitante" si può dire qualsiasi cosa perché non è in condizione di difendersi, vengono addirittura qui con telecamere nascoste, figuriamoci. O forse perché il dossier dell’exequatur è stato affidato a qualche funzionario cialtrone e incompetente; non lo so, ma è evidente che il problema sta da quella parte».
E se l’Italia presentasse una richiesta di exequatur corretta e completa (cioè per tutte le condanne italiane cumulate), con la garanzia che l’Italia non precederà più per gli stessi fatti. Lei come reagirebbe?
«Sono passati 40 anni e l’Italia si è sempre mossa in una logica di vendetta, come si è ben visto anche nel caso Battisti, e non ha mai rinunciato a un quadro giuridico d’eccezione. In una giustizia normale la "certezza della pena" vale anche per il detenuto: io sono stato scarcerato quasi venti anni fa, e sto ancora come prima dell’arresto, senza sapere se un giorno o l’altro mi riarrestano o mi riprocessano per qualcosa. Se ora l’Italia decidesse di muoversi con una richiesta come quella che ipotizza, io l’accetterei senza obiezioni, almeno metteremmo la parola fine a questa vicenda».
Sta dicendo che accetterebbe l’ergastolo che un giudice svizzero, secondo le sentenze italiane, le dovrebbe infliggere?
«Sì».
Ripensa spesso a quel mattino in via Fani?
«Ogni volta che il tema è rilanciato dai media associandolo al mio nome ricevo insulti e minacce. È una pena supplementare, non ci posso fare niente. Ci sono memorie collettive diverse ed in conflitto tra loro, e nessuna sarà mai condivisa da tutti. Entriamo nel cinquantenario del lungo ’68, dopo mezzo secolo si dovrebbe poter trattare le cose storicamente, ma non è così, sembra che i fatti siano avvenuti ieri».
Cosa contesta nella lettura odierna dei fatti di allora?
«All’epoca, erano passati 30 anni dalla fine della guerra e dei suoi drammatici strascichi di guerra civile, ma quella era già storia, nessuno lanciava stagioni di caccia grossa agli "impuniti". Ho avuto un contatto con l’ultima commissione parlamentare italiana sul caso Moro, che ha purtroppo mancato l’occasione, scegliendo di dedicarsi alla ricerca di complotti».
Cosa ha detto a questi commissari?
«Quello che penso, e che dico a chiunque – pur evitando di farlo in pubblico, perché so quanto l’apparizione anche solo di una foto possa irritare i parenti delle vittime. C’è stata una "linea della fermezza" lanciata dal PCI al tempo del sequestro Moro, continuata poi con le leggi d’emergenza e con la politica della vendetta, che in questi giorni ha raggiunto livelli impensabili con l’esibizione del detenuto-trofeo. Una catena che neppure la commissione ha voluto interrompere, lasciando la verità nella palude del sospetto».
Dunque resta un tema tabù?
«Non vedo perché parlare con chi mi considera ancora oggi terrorista e nemico pubblico. Che non sono. Ma non è un tabù, ne parlo con storici e ricercatori con cui si può discutere, solo lontani dalla propaganda e dalle fake-news si può ritrovare un senso storico».
· Ex terroristi: dove sono e cosa fanno.
EX TERRORISTI: DOVE SONO E COSA FANNO.
Latitanti e contenti. Gli "altri" Battisti. Terroristi rossi e neri, assassini che non hanno mai pagato. Ma si sono rifatti una vita in giro per il mondo, scrive Maurizio Tortorella il 15 gennaio 2019 su Panorama. Non c’è soltanto Cesare Battisti, l’ex esponente dei Proletari armati per il comunismo condannato per quattro omicidi (il gioielliere Pierluigi Torregiani, il macellaio Lino Sabbadin, il maresciallo della polizia penitenziaria Antonio Santoro e l’agente della Digos Andrea Campagna), e latitante per 26 dei suoi 64 anni. Gli anni di piombo italiani, purtroppo, hanno lasciato molte altre scorie in giro per il mondo. La lista è lunga e davvero mortificante, per la giustizia italiana. Tra gli esponenti più significativi del terrorismo impunito ci sono Alvaro Lojacono e Alessio Casimirri, due vecchi brigatisti rossi (oggi hanno 63 e 67 anni) che non si sono mai formalmente pentiti. Facevano parte del commando che il 16 marzo 1978 entrò in azione a Roma, in via Fani, uccidendo i cinque uomini della scorta dell’ex presidente della Dc. Sette mesi dopo, insieme, avevano anche colpito mortalmente alla testa il magistrato Girolamo Tartaglione, direttore generale degli affari penali. La nostra Corte di cassazione, in contumacia, li ha condannati all’ergastolo ma sono riusciti a fuggire e in Italia non hanno mai scontato un giorno di pena. Oggi, però, nessuno dei due è estradabile perché Lojacono ha preso la cittadinanza svizzera, mentre Casimirri ha ottenuto quella nicaraguense. Lojacono, che in Italia era stato condannato a 16 anni di galera anche per l’omicidio di Nikis Mantekas, un simpatizzante di estrema destra ucciso a Roma nel 1975, era stato arrestato in Corsica nel giugno 2000, ma è stato subito liberato dalla giustizia francese che non riconosce le condanne in contumacia. In Svizzera, Lojacono ha cambiato cognome in Baragiola, e nel 1989 è stato condannato per l’omicidio Tartaglione a 17 anni di reclusione (ne ha scontati solo 11 per buona condotta). Dal 1988 anche Casimirri si fa scudo di un’altra cittadinanza: si è sposato a Managua, dove di recente il quotidiano La Verità ha ricordato che gestisce un ottimo ristorante di pesce, El buzo («Il subacqueo») frequentato anche da reduci dell’estremismo rosso italiano. Si era rifugiato in Spagna, invece, Claudio Lavazza, 63 anni: anche lui faceva parte dei Proletari armati per il comunismo, ed è stato condannato all’ergastolo per gli stessi quattro omicidi compiuti da Battisti. Lavazza è detenuto in Spagna dal 1996 per reati commessi in quel Paese: Madrid non ha mai dato seguito alla richiesta di estradizione italiana. Altri latitanti delle Br per i quali la giustizia italiana ha inutilmente chiesto la consegna alla Francia sono Sergio Tornaghi, 61 anni, legato alla colonna milanese Walter Alasia; la «primula rossa» Simonetta Giorgieri, 64 anni, che apparteneva al Comitato rivoluzionario toscano; e Carla Vendetti, 60 anni, arrestata, scarcerata e quindi entrata in clandestinità. Le due donne sono state condannate anche perché coinvolte negli omicidi dei giuslavoristi Marco Biagi, nel 2002, e Massimo D’Antona, nel 1999. La Francia, va detto, è sempre stata generosa con il nostro terrorismo rosso, e non soltanto con Battisti, che ha allegramente ospitato fino al 2004: dal 1982 dà rifugio anche all’ex Br Enrico Villimburgo, condannato all’ergastolo in una delle troppe appendici del processo Moro e per i tre omicidi dei giuristi Vittorio Bachelet e Girolamo Minervini, e del generale dei Carabinieri Enrico Galvaligi. A Parigi vive anche Giorgio Pietrostefani, 75 anni, l’ex dirigente di Lotta continua che la giustizia italiana ha condannato definitivamente a 22 anni di carcere per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi. Si dice sia residente in Perú Oscar Tagliaferri, condannato per la strage organizzata dai terroristi rossi di Prima linea in via Adige, a Milano, il 1° dicembre 1978. Tagliaferri è ricercato per omicidio, associazione sovversiva, partecipazione a banda armata, rapina. È uno degli autori della strage milanese di Prima linea anche Maurizio Baldasseroni, 68 anni, a sua volta espatriato in Sud America: nel 2013 si pensava fosse morto, ma l’anno successivo un giudice ha ordinato alla Procura di Milano che fossero riprese le sue ricerche. Il terrorista nero Vittorio Spadavecchia, 56 anni, si nasconde invece a Londra da oltre 36 anni, per l’esattezza dall’agosto 1982: membro dei Nar, i Nuclei armati rivoluzionari, è stato condannato per l’omicidio di alcuni poliziotti, tra i quali il commissario della Digos Franco Straullu, e per una serie di rapine. Oggi fa l’agente immobiliare. Sette richieste di estradizione da parte dell’Italia sono finite nel nulla.
Terrorismo e latitanti: i debiti vanno pagati. Maurizio Belpietro commenta la bella vita dei latitanti dell'epoca del terrorismo cui è dedicata la storia di copertina di Panorama, scrive Maurizio Belpietro il 4 febbraio 2019 su Panorama. Forse qualche lettore si chiederà se abbia senso, a quarant’anni dai fatti, parlare ancora dei fantasmi del terrorismo. I latitanti degli Anni di piombo sono vecchi, in qualche caso pure malati, e a quanto pare non più in attività. Dunque, nonostante molti di loro non abbiano mai regolato i propri conti con la Giustizia dovremmo dimenticarceli e far finta che non esistano invece di chiederne l’estradizione? Io credo di no e per una serie di motivi che cercherò di spiegare. Il primo è che se si dà la caccia a un comune assassino fino a che non sia stato preso, non si capisce perché si debba rinunciare a farlo per meriti politici. Un criminale è un criminale e un delitto è un delitto, a prescindere dalle motivazioni. Che si sia uccisa una persona per rapinarla, per vendicarsi o per fare la rivoluzione non cambia: si è sempre un assassino. Ho in mente un tizio che si fece giustizia da sé per quelli che gli atti di polizia giudiziaria chiamano «futili motivi». Per molti anni riuscì a farla franca, nascondendosi all’estero, ma alla fine, non essendosi dimenticati di lui, gli inquirenti gli presentarono il conto. Perché, dunque, non dovremmo farlo per un assassino che impugnava la pistola nel nome della lotta di classe? Lasciarli al loro destino significherebbe in qualche modo precostituire un attenuante ai delitti di terrorismo: uccidono ma, per degli ideali. Sparare a una persona è un reato gravissimo, a prescindere dal perché sia stato fatto. E dire che dopo quarant’anni si può dimenticare o perdonare una stagione di follia, è un insulto alle vittime e ai loro familiari. C’è poi una seconda ragione che mi spinge a dire che non si possa fare una specie di «amnistia della memoria», dimenticandosi delle condanne non scontate. Molti terroristi, dopo essere fuggiti all’estero, si sono rifatti una vita. C’è chi - grazie ai soldi di papà o di mammà - ha ripreso la vita comoda che conduceva prima di abbracciare la lotta armata, chi si è laureato ed è salito in cattedra, chi ha avviato un’intraprendente carriera commerciale, chi ha fatto figli e si è goduto la vita. Sebbene in molti fossero condannati all’ergastolo, al «fine pena mai» hanno condannato la moglie e i figli delle loro vittime, incatenati al ricordo di una vita spezzata all’improvviso, senza ragione. Per loro, per i famigliari delle vittime, la sentenza di morte per il congiunto ha rappresentato un’esistenza segnata dal dolore e dalle difficoltà economiche. Un contrasto, quello tra la nuova vita del terrorista e la vita difficile dei parenti delle vittime, che stride troppo e che ancora reclama giustizia. Anni fa, a Cortina d’Ampezzo, mi capitò di partecipare a un dibattito con la figlia di Guido Rossa, l’operaio genovese ucciso dalle Br per aver denunciato un terrorista, e Sergio D’Elia, coordinatore dell’associazione Nessuno tocchi Caino. Quest’ultimo, ex militante di Prima linea, il gruppo responsabile di decine di assassini, alla fine degli anni Settanta venne arrestato con l’accusa di aver fatto parte di una banda armata e di concorso nell’omicidio dell’agente penitenziario Fausto Dionisi, durante un assalto al carcere di Firenze. Condannato a 25 anni, ne scontò 12 e, una volta libero, si dedicò all’attività politica con i Radicali, in favore degli ex detenuti. A seguito di una sentenza che gli restituì i diritti politici, D’Elia nel 2006 si candidò al parlamento con La Rosa nel pugno e, una volta eletto, divenne segretario della presidenza della Camera, con un supplemento di stipendio. Ecco, chiesi al pubblico di Cortina, vi sembra giusto che la vedova di Fausto Dionisi, l’agente ucciso a Firenze, viva con una pensione da fame, pagata da quello Stato per cui il marito è morto, e quello stesso Stato corrisponda una retribuzione da favola a una delle persone condannate per concorso nel suo omicidio? D’Elia, colto di sorpresa, reagì accusandomi di populismo e io, a mia volta, replicai di preferire l’accusa di populismo piuttosto che avere sulle spalle una condanna per omicidio. Perché vi racconto tutto ciò? Per introdurre il tema a cui questa settimana abbiamo dedicato la copertina. La dolce vita dei latitanti non è un modo di dire. In molti, dopo aver ucciso o aver pianificato di uccidere, si sono rifatti una vita, spesso bella, piena di affetti, di figli e in qualche caso di nipoti. È un diritto farsi un’altra vita. Certo, ma è un diritto che si ottiene dopo aver saldato i conti con il passato. È un diritto che è stato negato ad altri, i quali avevano spesso il solo torto di essere servitori dello Stato, di quello Stato che li retribuiva con un salario minimo e che poi ha risarcito i familiari con una pensione ancora più minima. E a proposito di pensione, ricostruendo la dolce vita dei latitanti, abbiamo anche scoperto che a uno di questi, Giorgio Pietrostefani, condannato per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi, lo Stato paga la pensione. Millecinquecento euro che mensilmente vengono accreditati a Parigi sul conto di un latitante. Un uomo in fuga dalla giustizia, ma con il conto in banca e un assegno dell’Inps più cospicuo di quello che incassa la vedova della sua vittima.
Il terrorismo: storie dei protagonisti. Nell'ultimo libro di Guido Olimpio il fenomeno raccontato in maniera dettagliata attraverso le vicende, a volte inediti, di chi ha diffuso il terrore, scrive Francescapaola Iannaccone il 29 luglio 2018 su Panorama. Annichilisce gli avversari, capovolge i rapporti di forze, scompagina le certezze della vita quotidiana del singolo e come una fitta nebbia si diffonde, utilizzando forme diverse per imporre la sua violenza. Stiamo parlando del terrorismo così come viene presentato nel nuovo libro-inchiesta “Terrorismi. Atlante mondiale del terrore” del giornalista Guido Olimpio, esperto internazionale del fenomeno e che, attraverso storie inedite realizza una vera e propria analisi particolareggiata su quello che oggi rappresenta una grave minaccia per il mondo. Olimpio analizza su scala mondiale il problema, ripercorrendo con la memoria una lunga serie di attacchi terroristici che sono stati la realtà di una strategia impattante e capillare. All’interno delle pagine si trovano le storie degli uomini e delle donne che fanno parte del terrore: dove vivono, da dove provengono, la loro psicologia. Illustrando le macro aree dove sono avvenuti gli attentati, l’autore racconta le vite dei criminali come Abu Ibrahim, esperto di valigie bomba o come Junzon Okudaria, primula rossa alle spalle degli attentati compiuti a Napoli e Roma durante gli anni ottanta. La panoramica delle stragi che collega i movimenti jihadisti, risalendo ad Al Qaeda fino a giungere negli angoli remoti del mondo dove è presente il narco-terrore, in Messico, inizia con i dettagli dell’attacco terroristico del 14 luglio del 2016, dove persero la vita 86 persone, investite da un camion lanciato a tutta velocità sulla Promenade, a Nizza, alla cui guida c’era Mohamed Bouhlel, tunisino di trentun anni, un “mutante” che in pochi secondi si è trasformato in uno stragista; continua con il racconto del ventiduenne Salman Abedi che il 22 maggio del 2017, durante il concerto di Ariana Grande alla Manchester Arena, si fece saltare in aria, uccidendo 22 persone, prosegue analizzando i protagonisti più pericolosi di questa minaccia multipla e costante e i fronti caldi sui quali agiscono. Una classificazione dettagliata: “nomadi del jihad”, “taglia- erba”, “il fantasma”, “il professionista”, “cani randagi”, “lupi solitari” con la quale il giornalista spiega le azioni criminali, da chi vengono compiute, perché, e soprattutto con quali mezzi a disposizione. Questo volume è il racconto di una strategia dalle intenzioni nette come quella di destabilizzare la società, provocare reazioni e cicli di vendetta, diffondere il senso di insicurezza, colpire nel nucleo della polizia e dell’esercito perché visti come il simbolo della protezione. “Il terrorismo è un male complicato” scrive Guido Olimpio. Esso muta, si adegua all’avversario, ha in sé innumerevoli variabili e le politiche dei vari Stati non sempre sono preparate ai contraccolpi inferti da questa continua minaccia.
La dolce vita di Pietrostefani (e di altri latitanti), scrive Panorama il 30 gennaio 2019. Panorama ha scoperto che il condannato per l'omicidio Calabresi vive a Parigi con una pensione Inps da 1500 euro. L'arresto di Cesare Battisti ha riportato d'attualità il tema delle decine di ex terroristi latitanti all'estero, dove conducono vite assolutamente tranquille, senza aver mai pagato il loro debito con la giustizia italiana. Su tutti Giorgio Pietrostefani, condannato a 14 anni e due mesi di carcere per l'omicidio del Commissario Calabresi e fondatore con Adriano Sofri di Lotta Continua. Panorama ha scoperto che Pietrostefani vive a Parigi dove riceve una pensione dall'Inps di oltre 1500 euro. Oltre a lui Panorama ha scoperto chi sono e cosa fanno i 30 ex terroristi che hanno una pena da scontare ma vivono serenamente all'estero. Ecco un estratto dell'inchiesta che potete leggere sul numero in edicola dal 30 gennaio: Cinecittà hanno già pronta la «parte seconda» della cattura di Cesare Battisti, l’ergastolano consegnato dal governo boliviano alle patrie galere con la regia del neo-presidente del Brasile Jair Bolsonaro. Ovviamente non stiamo parlando degli studios capitolini, ma degli uffici della Direzione centrale della Polizia di prevenzione, l’antiterrorismo italiano, che si trova proprio di fronte alla nostra piccola Hollywood. Ai piani alti di quella che si chiamava Ucigos il direttore Lamberto Giannini e il suo braccio destro Eugenio Spina, capo dell’antiterrorismo interno, coordinati dal capo della Polizia Franco Gabrielli, stanno studiando nei dettagli l’elenco degli ultimi 30 «most wanted» degli anni di piombo, tra i quali 12 ergastolani, quelli che non sono stati graziati dalla prescrizione, una panacea che ha salvato anche nomi eccellenti della lotta armata come le due ex primule rosse Simonetta Giorgieri e Carla Vendetti. Per qualche anno i nostri investigatori hanno pensato che ci fossero loro dietro alle nuove Brigate rosse, quelle che hanno ucciso i professori Massimo D’Antona e Marco Biagi, ma quella pista è tramontata e nessuno cerca più le due signore...
Pietrostefani, il latitante mantenuto dallo Stato. Il terrorista di Lotta Continua vive a Parigi con la pensione dell'Inps. La sua storia e quella degli altri super latitanti degli anni del terrorismo, scrive il 3 febbraio 2019 Panorama. Cinecittà hanno già pronta la «parte seconda» della cattura di Cesare Battisti, l’ergastolano consegnato dal governo boliviano alle patrie galere con la regia del neo-presidente del Brasile Jair Bolsonaro. Ovviamente non stiamo parlando degli studios capitolini, ma degli uffici della Direzione centrale della Polizia di prevenzione, l’antiterrorismo italiano, che si trova proprio di fronte alla nostra piccola Hollywood. Ai piani alti di quella che si chiamava Ucigos il direttore Lamberto Giannini e il suo braccio destro Eugenio Spina, capo dell’antiterrorismo interno, coordinati dal capo della Polizia Franco Gabrielli, stanno studiando nei dettagli l’elenco degli ultimi 30 «most wanted» degli anni di piombo, tra i quali 12 ergastolani, quelli che non sono stati graziati dalla prescrizione, una panacea che ha salvato anche nomi eccellenti della lotta armata come le due ex primule rosse Simonetta Giorgieri e Carla Vendetti. Per qualche anno i nostri investigatori hanno pensato che ci fossero loro dietro alle nuove Brigate rosse, quelle che hanno ucciso i professori Massimo D’Antona e Marco Biagi, ma quella pista è tramontata e nessuno cerca più le due signore. La maggior parte dei ricercati nella lista in mano al ministro dell’Interno Matteo Salvini vive in Francia e ha potuto usufruire della cosiddetta «dottrina Mitterand» sino al 2002, quando anche la Francia l’ha messa in soffitta ritenendo che l’impegno politico del presidente non rappresentasse una fonte del diritto. Da allora i latitanti hanno dovuto ricorrere ad altre ciambelle di salvataggio: motivi di salute, l’acquisizione della cittadinanza francese, magari grazie al matrimonio con cittadini d’Oltralpe, la buona condotta, fino a ragioni più squisitamente tecnico-giuridiche. Tra i reduci parigini della stagione del terrorismo rosso il nome forse più noto è quello di Giorgio Pietrostefani, condannato insieme ad Adriano Sofri e Ovidio Bompressi per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi, a Milano. Fino a poco tempo fa aveva Twitter, ma solo per commentare (poco) il calcio italiano. All’inizio della latitanza, a Repubblica, giornale oggi diretto dal figlio della sua vittima, aveva dichiarato: «La mia vita è ridicola, ho 56 anni e gioco ancora a nascondino come un bambino». Alla fine il passatempo non deve essergli dispiaciuto e ci si è dedicato per altri quattro lustri. Oggi ha 75 anni, è separato, ha subito un trapianto di fegato, ma può usufruire di una pensione di vecchiaia dei lavoratori ex Inpdai erogata dall’Inps: oltre 1.500 euro al mese a partire dal 2017. Sì, avete letto bene.
STRATEGIA DELLA PENSIONE. L’istituto previdenziale presieduto da Tito Boeri paga un assegno mensile a un latitante, consentendogli di fatto di restare lontano dall’Italia. Per raggiungere l’agognato traguardo, dal 2000 al 2015, Pietrostefani ha versato in Francia 12 mila euro all’anno, contributi che in base a una convenzione esistente tra i due Stati sono stati riconosciuti dal nostro Paese. «Risultano periodi di lavoro all’estero comunicati dagli enti previdenziali di Francia. Tali periodi potranno essere presi in considerazione ai fini della liquidazione di una pensione italiana alle condizioni e nei limiti previsti dagli accordi internazionali» si legge nella scheda di Pietrostefani. «Potranno» e non «dovranno», ma comunque «tali periodi» sono entrati nel computo. In Francia Pietrostefani, architetto e dirigente d’azienda dagli interessi poliedrici, ha fatto il consulente d’affari e gestionale. Il suo ufficio era a due passi dal Louvre, al numero 20 di Rue de la Banque. Dal 2017, quando è andato in pensione, si è spostato in un indirizzo meno sfarzoso. Ma come è arrivato a racimolare un simile assegno, essendo stato praticamente sempre sotto indagine o latitante a partire dagli anni Settanta? Intanto, ha riscattato gli anni dell’università e vi ha aggiunto quattro anni di lavoro (1979-1983) non meglio precisato. Tra il 1983 e il 1992, per un totale di otto anni e 9 mesi, è stato assunto come manager presso la Finanziaria Ernesto Breda e poi è diventato consigliere d’amministrazione delle Reggiane officine meccaniche italiane. In quei nove anni ha visto crescere il proprio stipendio da 12 a 100 milioni di lire (1991). In Breda è rimasto cinque anni superando i 50 milioni di retribuzione, mentre nelle Officine è entrato nel 1988, con una retribuzione di quasi 70 milioni l’anno. Sempre nell’88 è stato arrestato e poi rilasciato. Ciò non gli ha impedito di veder crescere i propri emolumenti. In tutto in Italia ha dichiarato redditi a fini previdenziali per un ammontare di poco meno di 300 mila euro. Iscritto alla Cassa nazionale di assistenza di ingegneri e architetti e all’Ente nazionale di assistenza agenti e rappresentanti di commercio, nel 1992, ha lasciato il lavoro e nel febbraio 1993 è stato autorizzato alla contribuzione volontaria. Nel 1997, dopo sette processi, la Cassazione ha confermato in via definitiva la condanna per lui, Sofri e Bompressi.
UN confronto impietoso. Dopo la sentenza ha scontato solo tre anni di pena e nel 2000 si è rifugiato in Francia dove ha ripreso a versare i contributi, mettendo da parte ulteriori 180 mila euro. Nel 2017 ha iniziato a riscuotere a Parigi il sospirato assegno italiano: ricevendo 21.740 euro netti nel primo anno (1.811 euro al mese di media) e «solo» 17.700 (1.475) nel 2018. A gennaio 2019 ha incassato una rendita da 1.565 euro e grazie a questa vive a Parigi, coccolato dai tanti amici che in Italia e in Francia hanno sempre tifato per lui. Di fronte a tali cifre bisogna ricordare che la vedova del commissario Calabresi, Gemma Capra, percepisce una pensione di reversibilità di 400 euro. È un vitalizio quasi quattro volte inferiore rispetto all’assegno di Pietrostefani, che per fortuna è integrato da una personale pensione di vecchiaia. Ma non ci sono solo i latitanti di sinistra a ricevere l’assegno previdenziale. Anche l’ex avanguardista nazionale Mario Pellegrini (ricercato come i suoi due camerati Vittorio Spadavecchia e Pierluigi Bragaglia), originario di Papozze (Rovigo), riceve una pensione da artigiano da meno di 800 euro al mese. Nel 2002 è stato arrestato a San Isidro, in Argentina e gli è stata notificata una condanna definitiva a 12 anni e 6 mesi di reclusione (che deve ancora scontare) per concorso nel sequestro del banchiere Luigi Mariano, compiuto nel 1975 in cambio di un riscatto da 280 milioni di lire.
UN BRIGATISTA È PER SEMPRE. L’enclave italiana di rifugiati in Francia include anche un buon numero di condannati all’ergastolo. A Parigi vive con marito e figlio Roberta Cappelli, anche lei laureata in architettura. Nel 1995 la Chambre d’accusation ha dato parere favorevole all’estradizione, ma la dottrina Mitterand ha bloccato tutto. Nel 2004 Cappelli ha rivendicato: «La mia libertà è ormai un diritto acquisito». Ha lavorato prima come babysitter, poi in una casa editrice di fumetti ed è stata a lungo rappresentante dei genitori nella scuola del figlio. Ha fatto anche la responsabile vendite di un’azienda e oggi si occupa di risorse umane. Ma forse i giovani che vengono selezionati da questa signora di mezza età non immaginano che, 40 anni fa, doveva individuare non persone da assumere, ma da abbattere. Una responsabilità per cui non ha accettato di pagare pegno. Attualmente vive a pochi passi dalla Camera del lavoro, in un palazzo che delle eleganti linee parigine non ha nulla: somiglia più a un edificio sovietico. Dovrebbe trovarsi in Francia pure un altro condannato a vita: il 67enne genovese Lorenzo Carpi, uno degli autori materiali dell’omicidio del sindacalista Guido Rossa. Stessa pena per Enrico Villimburgo, classe 1954, tecnico informatico ed ex componente della colonna romana delle Br. Fino a qualche anno fa era domiciliato in una piccola via non lontano dalla chiesa di Notre-Dame-de-Lorette. Nonostante faccia poca vita sociale, gigioneggia su Facebook e gioca ancora a fare il barricadero. L’unica precauzione è quella di cambiare sui social il nome in «Enrique». La foto di copertina è dedicata ai vietcong, mentre quella del profilo ritrae un omone armato con il passamontagna con dietro una bandiera del Venezuela di Nicolás Maduro. Si interessa anche di politica italiana, Villimburgo: «A proposito di fascisti e venendo ai “problemi Italiani”... Qualcuno saprebbe indicarmi i superstiti comunisti rimasti in circolazione? Sono convinto che si possono contare sulla dita di una mano considerando l’esodo infame di chi comunista, socialista o anche anarchico non lo è mai stato è ormai votato al M5s. Il partito di Grillo, la Raggi, Di Maio, Casaleggio & c. tutti figli di vecchi nostalgici fascisti».
Parole d’ordine CHE corrono SU FACEBOOK. Su Internet Villimburgo ne ha anche per gli odiati yankee («Il fascista ratto-imperialista Donald Trump deve essere fermato al più presto con ogni mezzo. In caso contrario esso ridarà vita al nazifascismo») e nel 2011 invocava un ritorno alle armi («Come comunisti rivoluzionari è necessario giungere a una reale solidarietà combattente, colpendo uomini e strutture dell’attuale governo... La parola d’ordine d’oggi è quella di organizzare la lotta armata contro la politica mafio-fascista del governo Berlusconi»). Le tracce social di Villimburgo portano anche alle milizie marxiste-leniniste attive nella regione del Donbass, in Ucraina, attraverso una sedicente (e seducente) militante bionda di nome Alessia S. a cui il terrorista non ha mancato, su Facebook, di fare arrivare i propri complimenti. Villimburgo nel 2016 risultava anche in contatto con «Mario Tornaghi» (omonimo di Sergio Tornaghi, altro brigatista latitante con ergastolo da scontare), sedicente membro dell’Interunit, la compagine internazionale della cosiddetta Brigata fantasma, tra le armate filorusse, la più nostalgica del periodo sovietico. Su Facebook Villimburgo ha dedicato un pensiero anche a Pedro Alvarez de la Rua, «caro amico e combattente delle Farc (le Forze armate rivoluzionarie colombiane, ndr)». Ha le mani che ancora prudono anche l’ex compagno di Simonetta Giorgieri, Gino Giunti, a cui restano 4 anni e 6 mesi da scontare in Italia. Barba e chioma canute da anziano Jedi, sui social solidarizza con la Palestina (come Franco Pinna, altro terrorista rifugiatosi in Francia), ma soprattutto si segnala come acceso sostenitore della rivolta dei Gilet gialli, dei quali pubblica le foto e i video degli scontri con la polizia, che forse gli restituiscono il brivido di quando nelle campagne intorno a Montignoso, in Versilia, vagheggiava la rivoluzione. Ora, un po’ imborghesito, fa la sua parte da un appartamentino di Mansle, nord-ovest della Francia, e non disdegna di segnalare tra i «preferiti» il sito «Fatto in casa da Benedetta (Parodi, ndr)» e la trasmissione Striscia la notizia.
ESILIO TRA LE VIE DI MONTMARTRE. Stile di vita ben diverso quello del conte Paolo Ceriani Sebregondi, figlio di due eroici partigiani (il padre Giorgio è stato uno dei capi della Resistenza cattolica e, per il ministero degli Esteri, ha partecipato alle trattative per la costituzione della Cee). Condannato all’ergastolo risiede in una strada esclusiva di Montmartre. La sua casa è in un palazzotto costruito durante la Belle Epoque, dove quattro stanze costano non meno di 800 mila euro (la quotazione media nella zona è di oltre 7.500 euro al mq). Ceriani Sebregondi è stato a capo dei docenti di informatica e vicepreside di un liceo cattolico vicino al Jardin du Luxembourg, dove ha successivamente lavorato anche la figlia avuta con la compagna brigatista Paola De Luca negli anni del terrorismo. La ragazza è nata nell’anno del sequestro Moro (1978) e su Internet ha dedicato una poesia sul suo stato di figlia di latitanti, pubblicata tanti anni fa su un sito in difesa di Cesare Battisti: «La loro lotta non è mia, ma sono sconfitta. Prendo i vetri rotti senza aver ballato alla festa. Conosco le canzoni, ma non riesco a sollevare il braccio. Ho imparato a espiare prima di sapere come camminare». Nella lista dei latitanti che dovrebbero scontare l’ergastolo c’è anche Marina Petrella, nome di battaglia Virginia, condannata al carcere a vita nel processo Moro-ter. La signora si trova in Francia da un quarto di secolo. Ha lavorato come animatrice in una scuola materna e come maestra. Nel 2006, è stata assunta da Stéphanie Lacroix alla «Loca’rhythm», un’agenzia immobiliare con vocazione sociale che si occupa di trovare alloggi per le famiglie in difficoltà. L’anno dopo, si è diplomata come assistente sociale, campo nel quale opera tuttora. Ha avuto due figlie da un italiano e da un algerino. Da quest’ultimo si è separata da qualche tempo. L’ultimo domicilio conosciuto è ad Argenteuil, comune di 100 mila abitanti nel dipartimento della Val-d’Oise. Nel 2007 è stata lì lì per essere rimpatriata, ma alla fine l’allora presidente Nicolas Sarkozy preferì lasciar perdere. Forse a convincerlo fu la stessa Virginia: «La Francia rinnega se stessa, e l’Italia agisce per pura vendetta» protestò. «Tutti noi ci siamo costruiti in Francia una nuova vita, senza negare quello che siamo stati».
L’UNICORNO contro il poliziotto. Su Facebook la figlia maggiore Elisa, che condivide l’amicizia virtuale con la br Barbara Balzerani e con un altro latitante italiano, Maurizio Di Marzio, ha lasciato agli atti un duro atto d’accusa contro «quelli che poi sono stati chiamati “pentiti”». Nell’immagine del profilo si vede un unicorno di quelli che piacciono tanto alle bambine mentre infilza un poliziotto. «Anything is possible», tutto è possibile, recita la didascalia. Si è autoesiliato in Francia anche Narciso Manenti, un altro condannato che deve scontare un ergastolo. Dopo la cattura di Battisti e la richiesta da parte sua di un’amnistia per i terroristi, si è prudentemente cancellato da Facebook e Instagram. È l’operaio tuttofare in un piccolo centro nella Loira. Abita in una casa a due piani che è anche la base della piccola azienda che gestisce direttamente. Si occupa di manutenzioni domestiche (elettricista, giardiniere, idraulico) e si fa pubblicità sul web con offerte promozionali che partono da 30 euro a chiamata.
L’EVERSORE SALE IN CATTEDRA. Vive invece in Svizzera Alvaro Baragiola Loiacono, altro ex brigatista che si sottrae dall’ergastolo. Rampollo di una famiglia molto abbiente, approfittò della rete di protezione dei genitori. In una delle lussuose ville materne, disseminate tra la Svizzera e la Corsica, venivano organizzati party a base di vini esclusivi con influenti membri del Consiglio di Stato tra gli ospiti. Forse per questo la permanenza in prigione di Alvaro fu una parentesi istantanea. Più di quarant’anni dopo nell’Università di Friburgo, dove ha frequentato un corso di giornalismo, fa l’assistente presso il Dipartimento di economia e scienze sociale e si occupa di temi che, conoscendo il suo curriculum, suonano un po’ inquietanti. Ecco l’elenco delle sue abilità e competenze: «soluzione dei conflitti», «studi su pace e conflitti». «Sicurezza internazionale», «geopolitica», «studi sul Medioriente», ma anche, non poteva essere altrimenti, «terrorismo». Alla trasmissione delle Iene, che lo ha di recente intervistato, ha detto di essersi naturalizzato svizzero per sfuggire alla giustizia italiana, ma si è anche dichiarato pronto a espiare la pena nel suo nuovo Paese. Ha anche sostenuto di non temere Salvini («Non mi fa paura») e di dubitare che «venga fisicamente qui a far qualcosa». Infine, ha ammesso di sentirsi il secondo nella lista del vicepremier, dopo «Alessio». Il riferimento di Loiacono è al romano Casimirri, cresciuto in Vaticano da una famiglia di funzionari del Papa. È stato condannato all’ergastolo per il sequestro Moro e, in particolare, per la partecipazione all’agguato di via Fani. È riparato in Nicaragua, dove ha messo su famiglia. A Managua gestisce il ristorante «Gastronomia el Buzo» (che significa «il sub») e nel menù offre un piatto di spaghetti dedicato al br scomparso Prospero Gallinari. Gli oppositori del presidente Daniel Ortega, che difendono l’autonomia del distretto di Masaya, accusano la figlia Valeria Casimirri di far parte delle squadre di repressione sandiniste, con cui avrebbe collaborato pure il padre.
Restando oltreoceano, si troverebbe a Cuba un altro sostenitore dei Gilet gialli, Franco Coda. Sull’isola del Che e di Fidel avrebbe trovato ospitalità, stando ai racconti che ancora si tramandano i vecchi compagni della sezione Pci di Camogli (Genova), anche Livio Baistrocchi, definito dal professor Enrico Fenzi «l’unico vero terrorista» che avesse conosciuto nelle Brigate rosse. In Argentina ha fatto perdere le proprie tracce un altro br, Leonardo Bertulazzi e in Perù si sarebbe nascosto il 73enne milanese Oscar Tagliaferri, undicesimo nome nell’elenco degli ergastolani in fuga. Già, il Sudamerica, con i suoi spazi sterminati, potrebbe essere il set perfetto per la «parte seconda» del film che in questi giorni si sta preparando a Cinecittà.
I diari (segreti) dell'antiterrorismo: Battisti e i brigatisti milanesi a Parigi. Investigatori a caccia del finto reporter Cesare Battisti e dei brigatisti milanesi. I pedinamenti e le fotografie nei taccuini. Palazzi di lusso e hotel. Tutta la geografia dei movimenti a piedi e sui mezzi pubblici, scrive Andrea Galli il 24 gennaio 2019 su "Il Corriere della Sera". L’osservazione in fondo alla pagina scritta a macchina nella doppia versione italiana e francese, viene ripetuta: «Sembra essere diffidente». L’uomo si è appena incontrato con il terrorista Luigi Bergamin, monitorato dall’anti-terrorismo italiano a partire dalle 8 di martedì 10 aprile 1990, a Parigi. I successivi controlli permetteranno di scoprire che quell’uomo ha un passaporto messicano numero AJ 39193 a nome Jorge Nieves, fotoreporter nato a Città del Messico l’8 aprile 1954. Il documento è falso, come lo sono identità, professione e coordinate temporali. Anche se queste ultime lo sono di poco: la vera data di nascita è il 18 dicembre sempre di quell’anno, il 1954. Perché lui, come stabiliranno i successivi accertamenti, è Cesare Battisti. E questa è una delle sue tante recite in giro per il mondo e smascherate da chi gli ha dato la caccia. Nel caso specifico, dagli investigatori che l’hanno pedinato e fotografato in Francia, e hanno realizzato questi quaderni inediti letti dal Corriere.
I delitti del traduttore. Il punto di partenza dell’attività investigativa è Bergamin, uno dei più noti impuniti scappati in Francia e là capaci, grazie all’appoggio di intellettuali, scrittori ed editori, di vivere serenamente come traduttore di autori noir, tra Parigi e Metz. Un mandato di cattura del 1993 contro il terrorista, all’epoca residente al civico 17 di rue des Suisses a Parigi e impegnato ogni giorno a passare dalla macelleria a una brasseria, da un ristorante alla panetteria, gli addebita quattro omicidi (gli stessi di Battisti, ovvero Pierluigi Torregiani, Lino Sabbadin, Andrea Campagna e Antonio Santoro), e poi attentati all’ospedale Sacco, detenzione di armi nel covo di corso Garibaldi 55 (piano 5, scala C), esercitazioni di tiro nei boschi di Cerro Maggiore, il ferimento del medico del carcere di Novara Giorgio Rossanigo, e la cessione di esplosivi a un altro terrorista, Marco Barbone, l’assassino di Walter Tobagi. Secondo i magistrati, Bergamin ha avuto un «peso intellettuale notevolmente superiore» allo stesso Battisti, e una maggiore operatività nelle azioni terroristiche.
I depistaggi. La centralità di Bergamin, nato a Cittadella settant’anni fa, è manifesta nei report degli investigatori, esemplari sia per la capacità di pedinare e scattare fotografie quando la tecnologia non aiutava, e nella capacità di leggere le situazioni. Qui pedinamenti sono avvenuti a piedi, su linee del metrò e bus, in una città straniera ed enorme, e contro avversari abili nell’elaborare tecniche di depistaggio. Mercoledì 20 giugno: Bergamin «scende dall’autobus 95 in rue Saints-Peres. Percorre boulevard Saint-German. È diffidente e si gira di continuo. Entra nel bar con insegna “L’Escurial” all’angolo della rue du Bac e del boulevard Saint-Germain, e riparte su questo boulevard in senso inverso. Effettua degli acquisti in un magazzino al 159 boulevard Saint-Germain e riprende l’autobus 95. Ne discende in rue Caulincourt, prende rue des Abbesses, ed effettua degli acquisti in diversi posti...». Gli alloggi dei terroristi sono appartamenti e stanze d’albergo. Battisti ha come domicilio un palazzo al 3/9 di rue Xaintrailles ma frequenta l’hotel al 9 di rue des Gobelins, dove si incontra con un avvocato milanese, Giuseppe Pelazza, che si sposta frequentemente a Parigi per incontrare gli assassini. I colloqui, che avvengono nelle abitazioni private come in luoghi pubblici (il cimitero di Montmartre), sono brevi e numerosi. A volte, riportano gli investigatori, prima d’entrare in una casa Bergamin «scrive qualche parola su un pezzo di carta» da consegnare all’interlocutore. Di tutti questi soggetti osservati, non ce n’è uno che lavori. Ma i soldi non mancano. Ancora Bergamin, il 10 ottobre, acquista pregiate bottiglie di vino e di champagne in un negozio di rue Mouffetard.
Il residence di lusso. Le pagine dei diari dell’antiterrorismo, che hanno un’anonima copertina bianca, senza scritte, sono una meticolosa sequenza di dettagli (molti degli sbirri di oggi dovrebbero leggerli e rileggerli). Ore 13.20: «Bergamin, per la terza volta, va su sagrato di Notre-Dame, dove incontra un individuo alto m 1,80, capelli castani, 35-40 anni, grossi occhiali di tartaruga, indossa un jeans e un impermeabile beige, porta una borsa da viaggio a tracolla». Un altro dei pedinati, Salvatore Nicosia, «potrebbe abitare al 6 di passage Barrault. Il numero 6 corrisponde a una palazzina di due piani, in cattivo stato, della larghezza di due finestre. Questa costruzione si trova in fondo a un giardinetto separato dal passage Barrault da un muro in rovina, macchiato da graffiti multicolori». «Bergamin telefona all’angolo aux Ours e Saint-Martin dalla cabina n° 42777553, esce, si dirige al 47 di rue Montmorency dove vive Oreste Scalzone» (l’ennesimo terrorista), mentre una delle donne che poco prima l’hanno incontrato «entra in un negozio di vestiti e paga con una carta blueu n° 497400060....». Nel medesimo hotel di Battisti, vive una ragazza, che ha fornito copertura: «Nel corso del soggiorno nell’albergo di una sola notte, ha effettuato tre telefonate: 42007393: Merabet Ghana, 9 rue du Plateau, Parigi; 45808565: Corand André, 83 rue de l’Amiral-Mouchez, Parigi; Sanchez Marie Angele, 17 rue Eugene Carriere, Parigi». Indirizzi, numeri, descrizioni. Ecco tre persone frequentate da Bergamin: «L’uomo: 1,75, 35 anni, capelli castani corti, giubbotto blu e jeans; una donna: 1,65, 30 anni, capelli castano chiari e corti con meches, pullover e gonna nera; un’altra donna: 1,65, 30 anni, capelli medio lunghi neri, giubbotto e jeans». Sono stati (e restano) protetti, e chissà se potranno mai pagare il conto per i morti ammazzati. Nei diari compare uno dei covi, un immobile in rue de la Marne: «È un residence di lusso, nel quale si entra tramite quattro civici, il 79, l’81, l’83 e l’85. Tutte le porte sono sempre chiuse a chiave. Il parcheggio sotterraneo è situato sotto tutta la lunghezza dell’immobile. La porta dietro l’atrio che dà sul parcheggio è chiusa a mezzo di una chiave speciale che solo gli abitanti detengono».
Salvini rilancia: “Trenta ex terroristi nel mirino”. Sul tavolo del ministro i nomi dei ricercati, scrive il 19 gennaio 2019 "Il Dubbio". Salvini incassa e rilancia. Dopo aver “portato a casa” l’ex terrorista Battisti e il favore dei sondaggi, il ministro leghista fa sapere che in giro per il mondo ci sarebbero ancora tenta terroristi latitanti, 27 di sinistra e tre di destra: i loro nomi, a quanto si apprende da fonti del Viminale, sarebbero già sul tavolo del vicepremier e ministro dell’Interno Matteo Salvini. Si tratta dell’elenco aggiornato che Intelligence e Forze dell’Ordine hanno rielaborato dopo l’arresto di Cesare Battisti. Dei trenta, 14 sono localizzati in Francia. Il governo italiano, su impulso di Salvini, è pronto a passi ufficiali per chiedere collaborazione ai Paesi che stanno ospitando i latitanti. A partire da Parigi. L’obiettivo è “assicurare i terroristi alla giustizia italiana, come avvenuto per Cesare Battisti”. Neò frattempo esplode il caso dell’ex Br Lojacono: «L’Italia non ha mai chiesto la mia estradizione alla Svizzera e una consegna come la richiede la Lega equivarrebbe a una deportazione alla boliviana, che la Confederazione non prevede», fa sapere l’ex brigatista condannato all’ergastolo per la strage di via Fani, oggi cittadino svizzero. «Forse l’Italia non ha voluto che uno stato straniero mettesse il naso nel processo Moro. Sarebbe comprensibile – afferma l’ex br -. Qualunque sia la ragione non sono le autorità svizzere, nè una mia presunta opposizione, ad aver creato l’impasse attuale». Se l’Italia ora si muovesse con una richiesta di ’exequatur’, ossia del riconoscimento in Svizzera, delle sentenze emesse in Italia nei suoi confronti, «accetterei senza obiezioni – dichiara Lojacono – almeno metteremmo la parola fine a questa vicenda», e all’intervistatore che gli chiede se accetterebbe l’ergastolo, risponde «sì».
Simone di Meo per “la Verità” il 20 gennaio 2019. Si sono rifatti una vita, dopo aver annientato quelle degli altri. C' è chi ha trovato spazio nel mondo della cultura, chi della ristorazione, chi dell'insegnamento. Terroristi (rossi, in maggioranza, e neri) che si sono rifugiati all' estero con la speranza di farsi dimenticare. Sono 30, e i loro nomi sono inseriti in un dossier che le forze dell'ordine e l'intelligence hanno consegnato al ministro dell'Interno Matteo Salvini. Un atlante dell'eversione che spazia dal Nicaragua all' Argentina, alla Svizzera e persino al Giappone passando per il Perù e la Gran Bretagna. Quattordici di questi ricercati però si trovano in Francia, e sono quelli che - per vari motivi - potrebbero diventare presto oggetto di trattativa diplomatica e giudiziaria tra il loro Paese d' origine e quello di approdo. Fonti del Viminale assicurano che «il governo italiano», su input del vicepremier leghista, «è pronto a passi ufficiali per chiedere collaborazione ai Paesi che stanno ospitando i latitanti. A partire dalla Francia. L' obiettivo è assicurare i terroristi alla giustizia italiana, come avvenuto per Cesare Battisti». Il quale, non a caso, aveva fatto fortuna come romanziere noir proprio sulle sponde della Senna prima di scappare in Sudamerica. La relazione degli 007 italiani analizza a fondo le posizioni processuali di 27 terroristi rossi e di 3 neri lasciando intravedere, in diversi casi, margini operativi di intervento politico. Nei giorni scorsi la portavoce della ministra della Giustizia francese, Nicole Belloubet, aveva dichiarato che future domande di estradizione di rifugiati in Francia, «che saranno ricevute prossimamente da parte delle autorità italiane» verranno analizzate «in modo approfondito, caso per caso, come abbiamo fatto negli ultimi 15 anni. Al momento», aveva però precisato la portavoce, «non abbiamo liste di persone coinvolte». A Parigi vive e lavora come editore Giorgio Pietrostefani, fondatore insieme ad Adriano Sofri di Lotta continua, condannato a 22 anni di carcere per l'omicidio del commissario Luigi Calabresi. La stessa pena che deve scontare Giovanni Alimonti, che oggi fa l'insegnante di italiano. A 23 anni è stata condannata, per banda armata e concorso in omicidio, Paola Filippi: nel frattempo è diventata cittadina francese e oggi si mantiene lavorando come interprete e aiuto psicologa. Fu coinvolta nelle indagini sull' agguato al macellaio Lino Sabbadin insieme proprio a Battisti e al fidanzato dell'epoca, Diego Giacomini. Secondo il giudice Pietro Forno «si comportava da capo e dimostrava una freddezza che non aveva nemmeno il Battisti». È nutrita la schiera degli ergastolani che passeggiano sotto la Tour Eiffel. Ci sono Enrico Villimburgo e Roberta Cappelli, ritenuti colpevoli a vario titolo di diversi omicidi (Antonio Varisco, Vittorio Bachelet, Girolamo Minervini, Enrico Galvaligi, Michele Granato) e del rapimento del giudice Giovanni D' Urso. Massimo Carfora è titolare, invece, di una società di organizzazione eventi. Condannati all'ergastolo e localizzati in Francia anche Simonetta Giorgieri e Carla Vendetti (delitto Moro), Sergio Tornaghi (legato alla colonna milanese «Walter Alasia»), e Marina Petrella. Nel 2008, quest' ultima - dopo uno sciopero della fame in carcere che l'aveva portata a perdere 20 chili e una minaccia di suicidio - evitò di un soffio l'estradizione in Italia solo grazie all' intervento dell'allora presidente transalpino Nicolas Sarkozy. Massimo Bergamin, condannato a 26 anni, fa il traduttore a Metz. Vincenzo Spanò (Comitati per la liberazione proletaria) ha un ristorante come Maurizio Di Marzio (condannato a 15 anni). Si tratta soprattutto di brigatisti, ma non mancano fuggitivi appartenenti ad altre sigle che, negli ultimi anni, sono transitati per la Francia: Enzo Calvitti (condannato a 21 anni), Paolo Ceriani Sebregondi, Gino Giunti, Franco Pinna, Enrico Porsia (ha la cittadinanza francese), Alfredo Ragusi e Giulia Riva, Raffaele De Blasi (cellula per la costituzione del Partito comunista combattente); Paola De Luca, Giovanni Vegliacasa, Francesco Nuzzolo, Giancarlo Santilli e Anna Soldati (Prima linea); Raffaella Esposito e Walter Grecchi (Autonomia operaia, condannato a 14 anni); Ermenegildo Marinelli (Mcr); e Silvio Raffaele Ventura (Formazioni comuniste combattenti). La cattura di Battisti agita il mondo dei terroristi fuggiaschi: il latitante in Svizzera Alvaro Lojacono (condannato in contumacia all'ergastolo per vari delitti, fra cui l'omicidio dell'attivista greco Miki Mantakas nel 1975) ha rilasciato un'intervista alle Iene per affermare che «Salvini non mi fa paura». Il ministro ha ribattuto ancor prima della messa in onda del servizio: «Essere insultato da un assassino terrorista in vacanza in Svizzera per me è una medaglia: rida finché è in tempo, faremo tutto il possibile perché finisca finalmente in galera in Italia». Per tutte queste estradizioni è vitale la volontà politica delle autorità estere, in particolar modo francesi. Tant' è che Salvini ha immediatamente annunciato che «se serve», è «pronto a partire per Parigi per incontrare Macron, pur di riportare in Italia questi assassini». Confermando così la linea dura del Viminale sia sul fronte estero sia su quello interno. Nel corso di una diretta Facebook, difatti, tornando a parlare del decesso di Arafette Arfaoui, italiano di origini tunisine di 32 anni, morto a Empoli mentre era ammanettato e legato ai piedi durante una perquisizione della polizia, dopo che aveva dato in escandescenze, il ministro dell'Interno ha difeso l'operato delle forze dell'ordine intervenute nella cittadina toscana: «Se i poliziotti non possono usare le manette per fermare un violento, che cosa devono fare? Rispondere con cappuccio e brioche?».
Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 20 gennaio 2019. I «francesi» sono la metà esatta: 15 su 30 (sebbene nel conteggio reso noto dal ministro dell'Interno ci si fermi a 14). Ma ammesso e non concesso che il governo di Parigi decida di riaprire la questione sobbarcandosi polemiche che Oltralpe sono garantite, non tutti sarebbero estradabili. Oltre agli «assassini» ergastolani di cui parla Salvini, infatti, nell' elenco confezionato dagli investigatori ce ne sono molti (6 su 15) condannati a pene che hanno un termine (dai 27 anni in giù). E la legge italiana prevede che trascorso un periodo pari al doppio di quello stabilito dalle sentenze, quelle stesse sentenze non siano più eseguibili. Sono prescritte. Alcuni dei nomi compresi nella lista hanno già raggiunto quella condizione, e se ancora figurano tra i ricercati è solo perché alle forze di polizia italiane non risulta che gli interessati abbiano chiesto l'estinzione della pena. Se però la pratica per un'eventuale estradizione fosse davvero riaperta, finirebbe per richiudersi quasi automaticamente. Per tutti o quasi gli ergastolani e i «rifugiati» con condanne più basse, inoltre, la Francia ha già detto «no» alla riconsegna, anche se dopo verdetti altalenanti: da Marina Petrella, il cui rientro fu bloccato dal presidente Sarkozy per motivi umanitari legati alla sua salute, a Giovanni Alimonti, Enrico Villimbugo, Paolo Ceriani Sebregondi e altre persone che di tanto in tanto salgono alla ribalta delle cronache proprio perché latitanti a Parigi e dintorni, non certo in quanto nomi famosi della lotta armata. Probabilmente solo per Giorgio Pietrostefani (che peraltro non ha mai fatto parte di una formazione terroristica, era un capo di Lotta continua condannato per l'omicidio del commissario Luigi Calabresi) non risulta sia stato mai aperto un dossier. O per qualche personaggio minore, che però rientra nella categoria dei prescritti o prescrivibili a breve. Come altri, più noti, che per questo motivo sono stati depennati dall' elenco, anche se periodicamente le loro foto ricompaiono tra i ricercati: per esempio Carla Venditti e Simonetta Giorgieri, ex br, che vengono chiamate in causa ogni qualvolta l'argomento torna di attualità; o l'ex militante dei Colp (Comunisti Organizzati per la Liberazione Proletaria) Massimo Carfora, divenuto un imprenditore di successo, per il quale sono state dichiarate non più eseguibili anche le condanne più pesanti. Sono tornati liberi cittadini. Nonostante ciò se ne riparla poiché ciclicamente la questione torna alla ribalta. Soprattutto dopo che, tra il 1999 e il 2002, le «nuove» Brigate rosse riaprirono l'emergenza terrorismo uccidendo i professori Massimo D' Antona e Marco Biagi. In attesa di scoprire e smantellare il nuovo gruppo clandestino (che nulla aveva a che fare con i «rifugiati») investigatori e politici ripresero a fare pressioni sulla Francia per farsi restituire qualche ergastolano. Il «caso Battisti», per il quale Parigi aveva già detto «no» una prima volta, nacque da lì, e s' è trascinato fino a pochi giorni fa. Un altro ministro leghista, l'ex Guardasigilli Roberto Castelli, s' era impegnato con la collega Dominique Perben per riavere Roberta cappelli ed Enrico Villimburgo, ex militanti della colonna romana delle Br, ma non ci riuscì. E così il suo successore Clemente Mastella. Ora è possibile che qualche fascicolo venga riaperto, con esiti del tutto imprevedibili. Ma non ci sono solo i «francesi». Anzi, i due ex brigatisti più «importanti», se non altro perché parteciparono al sequestro di Aldo Moro, si trovano il primo in Nicaragua e il secondo in Svizzera. Fanno parte della lista, ma solo se si azzardano a uscire dai rispettivi Paesi di adozione rischiano qualcosa. Altrimenti non sembra esserci alcuna possibilità. Qualche anno fa, approfittando della sua passione per la pesca sportiva, la polizia italiana cercò di spingere Casimirri in Costa Rica, da dove sarebbe stato più semplice riportarlo indietro, ma senza successo. E Loiacono (che a differenza dell'altro la pena per un omicidio l'ha scontata) è cittadino svizzero, quindi l'estradizione è pressoché impraticabile. Di alcuni componenti della lista - per esempio l'ex br Lorenzo Carpi, che quarant' anni fa partecipò all' omicidio del sindacalista Guido Rossa - non si sa nemmeno dove abbiano trovato rifugio. Particolare che rende quasi impossibile l'impresa di portarli in una galera italiana. Ma sul piano della contabilità, rispetto alle circa 6.000 persone inquisite o condannate per terrorismo, 30 nomi sono lo 0,5 per cento.
Battisti & C., dove sono e cosa fanno gli ex terroristi? Mentre Cesare Battisti è in fuga, ecco la nuova vita di Renato Curcio, Barbara Balzerani, Mario Moretti e altri ex terroristi, tra libri e conferenze, scrive Eleonora Lorusso il 3 gennaio 2019 su Panorama. Di Cesare Battisti in Brasile si sono perse le tracce non appena è circolata la notizia del mandato di arresto nei suoi confronti e della possibile estradizione in Italia. L’ex terrorista è ufficialmente “latitante” e la polizia federale ha diffuso una sua foto segnaletica accompagnata da 20 rielaborazioni di come potrebbe essere ora (con barba o capelli bianchi, barba o cappello). Ma che fine hanno fanno altri ex esponenti delle Brigate Rosse e terroristi? Di alcuni non si hanno più notizie, mentre altri non mancano di alimentare ciclicamente polemiche, come Barbara Balzerani che la scorsa primavera, in occasione dei 40 anni dal sequestro di Aldo Moro ha presentato un nuovo libro accusando le vittime del terrorismo di approfittare della loro condizione. O come Renato Curcio, tra i fondatori delle BR, arrestato, evaso, condannato, uscito di prigione e al centro di una recente bufera per essere stato scelto come destinatario di un premio dell’ANPI (riconoscimento poi cancellato). Cosa fanno e dove vivono oggi gli ex “leader” degli anni di piombo?
Cesare Battisti. “Se mi arrivasse un invito ad andare e prendere un aereo per riportare in Italia un terrorista e un delinquente, che ha morti e morti sulla coscienza e che non dove starsene in spiaggia in Brasile ma in galera in Italia, io lo prendo al volo”. Così il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, il 16 dicembre a poche ore dalla notizia della scomparsa di Cesare Battisti in Brasile. Gli abitanti di Cananeia, dove risiedeva abitualmente da tempo, non lo vedono dal 28 ottobre, giorno della vittoria di Bolsonaro alle elezioni. Il nuovo presidente brasiliano in campagna elettorale aveva promesso di concedere l’estradizione dell’ex brigatista all’Italia. Il 14 dicembre un giudice federale ne ha ordinato l’arresto per “evitare il pericolo di fuga in vista di un’eventuale estradizione”. Ma il 63enne ex leader dei Proletari armati per il comunismo, condannato in Italia per 4 omicidi, si è dato alla fuga prima di essere catturato, forse diretto in Bolivia. Si trovava in Brasile dal 2010, quando aveva ottenuto la residenza permanente dall’ex presidente Lula Da Silva nell’ultimo giorno del suo mandato.
Renato Curcio. E’ stato tra i fondatori delle Brigate Rosse, condannato a 28 anni come mandante dell’omicidio di Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola (marzo 1974), due militanti del Movimento Sociale Italiano uccisi nella sede del partito in via Zabarella a Padova. Curcio scrisse il volantino di rivendicazione insieme agli altri dirigenti delle BR. Arrestato, evaso e tornato in cella più volte, all’indomani dell’uccisione di Aldo Moro definì l’omicidio “il più alto atto di umanità possibile per i proletari comunisti e rivoluzionari, in questa società divisa in classi”. Oggi, a 77 anni, Curcio è tornato a dedicarsi alla sociologia, studiata da universitario a Trento. Dopo aver fondato una cooperativa che si occupa di immigrati, disabili e detenuti, stava per ricevere un premio dall’ANPI, a Orsara di Puglia, paese d’origine della madre. Sarebbe salito in cattedra e tenere un seminario sull’Analisi sociale sulle condizioni di vita in alcune istituzioni italiane, con particolare attenzione a carceri, orfanotrofi e case di cura per anziani. Ma la lezione e la successiva cerimonia (con consegna da parte del Sindaco di una pergamena dell’ANPI alla memoria di Antonio Curcio, zio di Renato e giovane partigiano morto in guerra) sono saltate all’ultimo momento, dopo le polemiche scatenate dalla notizia. L’associazione dei partigiani ha fatto marcia indietro, prendendo le distanze dall’iniziativa, nel frattempo annullata dal primo cittadino del comune del foggiano. Curcio non ha commentato.
Barbara Balzerani. “Fare la vittima è ormai un mestiere”. Così Barbara Balzerani, in occasione della presentazione di un suo libro, lo scorso marzo a Firenze, criticando “questa figura stramba per cui la vittima ha il monopolio della parola. Io non dico che non abbiano diritto a dire la loro, figuriamoci. Ma non ce l’hai solo te il diritto, non è che la storia la puoi fare solo te” aggiunse, suscitando reazioni di condanna. Queste parole sono state pronunciate, infatti, in occasione dei 40 anni dell’anniversario della strage di via Fani in cui venne ucciso Aldo Moro. Un omicidio che vide coinvolta in prima persona la ex terrorista, membro delle Brigate Rosse dal 1975, arrestata a giugno dell’85, condannata a sei ergastoli e poi tornata in libertà nel 2011 dopo 21 anni di carcere. A gennaio del 2018 aveva già fatto discutere con un post su Facebook, in cui aveva scritto: “Chi mi ospita oltre confine per i fasti del 40nnale?”. Oggi la Balzerani, quasi 70enne, è una scrittrice prolifica con all’attivo libri come Compagna luna e Perché io, perché non tu, o Cronaca di un’attesa, o ancora Lascia che il mare entri.
Francesca Mambro. Anche la ex terrorista “nera” Francesca Mambro è stata al centro di polemiche. Dopo sei condanne all'ergastolo per vicende legate al terrorismo di destra, è intervenuta alla festa di Comunione e Liberazione del 2004 insieme a Nadia Mantovani, ex componente della direzione strategica delle Brigate Rosse ed ex compagna di Curcio. Entrambe sorridenti, hanno raccontato della propria vita e delle proprie esperienze da un palco del consueto meeting di Rimini. Nonostante le parole di pentimento (“Abbiamo scelto una strada senza uscita” ha detto Mambro, ex leader dei Nar, i Nuclei Armati Rivoluzionari) e “misericordia”, non sono mancate le critiche. Le stesse rivolte alla ex brigatista rossa Mantovani. Oggi Mambro è ancora imputata nel processo bis sulla strage di Bologna, insieme al marito Giusva Fioravanti, anche se ha sempre negato ogni responsabilità in quell’episodio, rivendicando invece decine di altre azioni dei NAR. E’ stata condannata complessivamente a 9 ergastoli, per un totale di 84 anni e 8 mesi di reclusione. Nel 1998 è stata ammessa al regime di semilibertà, trasformato nel 2002 in detenzione domiciliare speciale. Dal 2013 la pena è definitivamente estinta.
Nadia Mantovani. Quanto alla Mantovani, ex militante di Autonomia Operaia, entro poi nelle BR e fu compagna di Curcio, dopo la morte della moglie di quest’ultimo Margherita Cagol. Nota col nome di battaglia di Giulia, partecipò all’assalto alla sede della Dc di Mestre. In seguito venne arrestata, condannata ai domiciliari dai quali fuggì, e ricatturata nel covo brigatista di via Montenevoso a Milano, per poi essere condannata a 20 e 2 mesi per terrorismo, banda armata, sequestro di persona (per il coinvolgimento del rapimento Moro), rapina e associazione sovversiva. Si è dissociata dalla BR nel 1985 ed è diventata amica della Mambro dopo aver diviso con lei la cella per tre anni. Ha terminato di scontare la sua pena nel 1996 e ha fondato l’associazione Verso casa, che si occupa di reinserimento di detenuti nella società.
Alberto Franceschini. Ex terrorista ed ex fondatore delle BR insieme a Curcio e Cagol, anche Franceschini è diventato scrittore. Nel 1974 organizzò e partecipò al sequestro del giudice Mario Soss a Genova, liberato un anno dopo; arrestato, rivendicò dal carcere anche il delitto Moro, salvo poi prendere le distanze dalla violenza delle Br. Ottenuti i domiciliari alla fine degli anni ’80, dal 1992 la pena è stata ritenuta definitivamente stinta. Franceschini ha iniziato a lavorare presso l’Arci a Roma, come dirigente di una cooperativa che si occupa di immigrati, minori a rischio, tossicodipendenti e detenuti. Nel 2007 suscita polemiche (e l’intervento dell’ex Capo dello Stato, Napolitano) un suo intervento in tv da via Fani, nel quale racconta del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro e della scorta. Nel corso degli anni ha rilasciato numerose interviste sulla sua storia da ex brigatista e sullo stesso tema ha scritto diversi libri a partire dal 1988, tra i quali Che cosa sono le Br. Le radici, la nascita, la storia, il presente.
Mario Moretti. Anima delle Brigate Rosse, principale ideatore e organizzatore del sequestro Moro, fu lui a interrogare l’esponente politico durante i 55 giorni di prigionia e si ritiene sia stato l’esecutore materiale del suo omicidio. Dopo 9 anni di clandestinità, viene arrestato nel 1981 a Milano e condannato complessivamente a 6 ergastoli. Pur ammettendo il fallimento del progetto di lotta armata, non si è mai dissociato dalle BR e non ha mai voluto collaborare con gli inquirenti. Dal 1997 ha ottenuto il regime di semilibertà e presta servizio per il centro di recupero di ex detenuti Giorno dopo, facendo ritorno in cella alla sera nel carcere milanese di Opera. Sono una quindicina i libri dei quali è protagonista l’ex leader brigatista: tra questi anche Brigate Rosse. Una storia italiana, scritto insieme alle giornaliste Carla Mosca e Rossana Rossanda, entrate per sei giorni nell’istituto di pena per intervistarlo.
Giorgio Panizzari. Componente dei NAP, i Nuclei Armati Proletari, Panizzari venne arrestato nel 1970 insieme ad altri esponenti della formazione di estrema sinistra e condannato nel ’72 per l’omicidio di un orefice nel corso di una rapina. Dal carcere ha rivendicato il rapimento del giudice Giuseppe Di Gennaro, e ha sostenuto e partecipato a diverse rivolte di detenuti: al manicomio giudiziario di Aversa, dove nel ’74 sequestrò due guardie e ne ferì una, a Viterbo, dove ferì altre due guardie, infine all’Asinara, insieme ai brigatisti Curcio e Franceschini nel ‘79. Le BR ne avevano chiesto la liberazione in cambio di quella di Aldo Moro. Nell’84 fece scalpore la sua protesta contro la condizione in cella, perché arrivò a cucirsi i genitali e la bocca. Nel 1993 ha ottenuto la semilibertà, lavorando in una cooperativa informatica. Nuovamente arrestato per una serie di rapine in banca compiute con tre terroristi dei Nar anche loro in semilibertà, è stato assolto in appello, ma senza poter tornare in semilibertà. Per questo inizia uno sciopero della fame. Nel 1998 l’allora Capo dello Stato, Scalfaro, gli ha concesso la grazia. Nel frattempo ha scritto due libri, Il sesso degli angeli e Libero per interposto ergastolo. E’ stato coinvolto nelle indagini per l’omicidio di Massimo D’Antona e per costituzione di banda armata.
Massimo Canfora. Ex Lotta Continua e Prima linea, nel 1983 fu classificato dalle forze dell’ordine come appartenente al gruppo di Sergio Segio, uno degli ultimi e inafferrabili leader del terrorismo, arrestato quello stesso anno. Si disse che poteva contare su “pedine di rilievo nel nuovo gotha del terrorismo”. Collaborò con i Comunisti Organizzati per la Liberazione Proletaria e i Nuclei Comunisti, che avevano come scopo principale la liberazione dei compagni imprigionati e l’attacco alle carceri speciali. Ma è sempre riuscito a sfuggire all’arresto. Ufficialmente latitante il 62enne vivrebbe a Parigi dove sarebbe diventato imprenditore, fondando una casa editrice che nel 2016 si dice abbia fatturato oltre un milione e mezzo di euro.
Giuseppe Valerio Fioravanti. Insieme alla moglie, Francesca Mambro, Giuseppe Valerio Fioravanti (detto Giusva) rappresenta l’esponente di maggiore spicco e fama del terrorismo cosiddetto “nero”: ha fondato i Nuclei Armati Rivoluzionari, considerati dei estrema destra. Prima bambino prodigio come attore negli anni ’60 (nel popolare sceneggiato La famiglia Benvenuti), poi militante del Movimento Sociale Italiano, a metà degli ’70 diede vita i NAR. Il Tenente, come era soprannominato, venne arrestato nel 1981 e condannato complessivamente a 8 ergastoli, per un totale di 134 anni e 8 mesi di reclusione. Non ha mai rinnegato le sue responsabilità, tranne che per la strage di Bologna, a cui continua a dirsi estraneo. Dal 2004 ha ottenuto la liberazione condizionale. Cinque anni più tardi, come previsto dalla legge, e dopo 26 anni di detenzione, è tornato un uomo libero ottenendo la patria potestà sulla figlia. Dagli anni ’90 collabora con l’associazione Nessuno tocchi Caino, contro la pena di morte e in favore dei reinserimento sociale dei detenuti. Una decina i libri sulla sua storia, tra i quali quello firmato in prima persona, Questi benedetti genitori… Un libro per bambini che possono leggere anche i grandi, pubblicato nel 1969 dalle Edizioni Paoline. Sull’ex NAR e la moglie è stato realizzato anche un film nel 2014, Bologna 2 agosto... i giorni della collera firmato dai due registi i due registi Giorgio Molteni e Daniele Santamaria Maurizio. Nel 2004 Francesco Patierno aveva progettato un film sui due terroristi “neri” (Banda armata), ma le proteste dei familiari delle vittime e un esposto di Mambro e fioravanti fermarono i lavori in fase di pre-produzione. Nel 2011 lo stesso Patierno ha firmato un docufilm su Fioravanti.
Pochi in carcere. E gli altri? Dei protagonisti degli “anni di piombo” sono in pochi ad essere ancora in carcere. Dei 6.000 che vennero arrestati nel corso degli anni perché coinvolti a vario titolo nelle stragi terroristiche, oggi sono in carcere in poco più di una cinquantina, meno dell’1%. Tra questi ci sono personaggi protagonisti di episodi più recenti, come Nadia Desdemona Lioce, appartenente alle Nuove Brigate Rosse, condannata per aver partecipato agli omicidi Biagi e D’Antona. Molti degli ex terroristi degli “anni di piombo”, invece, sono ancora latitanti, per lo più fuggiti all’estero. L’elenco ufficiale ne conta 36. Tra c’è Paolo Ceriano Sebregondi, nobile poi diventato brigatista, condannato all’ergastolo per omicidio, ma che da tempo vivrebbe in Francia. Maurizio Baldesseroni, invece, era tra i componenti di Prima Linea e fu protagonista della strage di Via Adige a Milano, dove con altri terroristi fece irruzione in un locale nel 1978 aprendo il fuoco con pistole e fucili a pallettoni per la caccia al cinghiale. Per quel gesto non ci fu ufficialmente alcun “movente politico”. Non è chiaro se sia ancora vivo: le ultime notizie lo davano attivo nel traffico di droga in Perù. Incerto anche il destino di Sergio Tornaghi, ex BR condannato all’ergastolo, e di Oscar Tagliaferri, coinvolto anch’egli nella strage di Via Adige. Vivrebbe, invece, in Francia Ermenegildo Marinelli, ex membro del Movimento Comunista Rivoluzionario, che sarebbe diventato imprenditore nel settore del commercio all’ingrosso nella cittadina di Vincennes.
Cesare Battisti non era l’unico: sono 50 i terroristi ancora in fuga, scrive il 13 gennaio 2019 Mauro Indelicato su ""Gli Occhi della guerra" de "Il Giornale". L’arresto di Cesare Battisti desta ovviamente clamore, in quanto potrebbe a breve porre fine ad una pluridecennale fuga dell’ex membro dei proletari armati per il comunismo dalla giustizia italiana. Ma la vicenda che riguarda Cesare Battisti non è che la punta di un iceberg. Di quell’epoca buia per il nostro Paese, segnata dal terrorismo, dalle stragi e dal periodo di piombo dove le ideologie si scontrano a colpi di pistola per le strade, rimane ancora ampia traccia in giro per il mondo con i tanti protagonisti di allora latitanti o ricercati all’estero. La storia degli anni Settanta quindi, non è ancora chiusa ed anzi appare oggi drammaticamente attuale: sono 50 i terroristi per i quali da anni si aspetta il normale corso della giustizia.
Dove sono i terroristi protagonisti della stagione di fuoco degli anni ’70. Nomi, volti, biografie, condanne ed elenco di crimini commessi: nelle bacheche degli uffici che ospitano la direzione centrale della Polizia criminale, da anni è possibile scorrere l’elenco dei dati aggiornati di chi ancora, dopo essere stato protagonista di crimini ed attentati, si ritrova fuori dalle patrie galere. Secondo per l’appunto il Centro ricerca sicurezza e terrorismo, come riferisce l’AdnKronos, sono cinquanta i terroristi in fuga. Latitanti, ricercati oppure ben protetti dalla propria rete di contatti o dagli Stati che li ospitano. I casi analoghi a quelli di Cesare Battisti sono ancora tanti, troppi per un paese che a fatica prova a chiudere i conti con un passato ingombrante dove il ricordo della stagione di sangue è ancora vivo nell’opinione pubblica. Ad esempio, chi all’epoca risulta essere ancora un ragazzo ricorda perfettamente il 16 marzo 1978: l’Italia si ferma alle 10:00 del mattino perché l’edizione straordinaria del Tg1 mostra i corpi senza vita degli uomini della scorta di Aldo Moro. È la strage di via Fani, a Roma, che dà il via al sequestro moro che culmina poi con l’uccisione dell’ex presidente del consiglio. E tra chi si trova in via Fani quel giorno, mascherato con delle divise dell’Alitalia, c’è anche Alessio Casimirri. Il terrorista affiliato alle Brigate Rosse è tra coloro che rapisce l’esponente democristiano e fredda i ragazzi della scorta. Condannato a sei ergastoli, Casimirri è libero e vive in Nicaragua. Dal 1998 è sposato con una donna nicaraguense ed ha la cittadinanza del paese centroamericano, in cui si trova dal 1982 e dove, tra le altre cose, partecipa alla lotta dei sandinisti contro i contras. Tra chi partecipa all’azione criminale di via Fani, vi è anche Alvaro Lojacono. Anche lui oggi è libero e vive da uomo libero a ridosso dei confini italiani: il terrorista ha infatti cittadinanza elvetica e non può essere estradato dalla sua residenza svizzera. L’elenco di paesi che ospitano terroristi italiani è lungo: Francia, Brasile, Nicaragua e Svizzera appunto, ma anche Perù, Algeria, Angola, persino il Giappone. Nel sol levante vive infatti Delfo Zorzi, ex appartenente di Ordine Nuovo. In Argentina invece risulta la presenza di Leonardo Bertulazzi, ex colonna delle Br genovesi. Vi è poi, nell’elenco dei terroristi ricercati, una vecchia conoscenza di Cesare Battisti: si tratta di Germano Fontana, il quale dovrebbe trovarsi in Spagna.
La Francia e la “dottrina Mitterrand”. Ma è soprattutto la Francia ad ospitare i criminali protagonisti in Italia della stagione degli anni di piombo. Sui cinquanta terroristi per i quali si aspetta ancora l’arrivo della giustizia, trenta sono nel paese transalpino. Questo perché dagli anni ’80 e fino ai primi anni 2000 risulta in vigore una legge passata nota poi, a livello mediatico, come “dottrina Mitterrand”. A volerla è infatti l’ex presidente francese, in carica dal 1981 al 1995. Secondo questa disposizione, il governo francese valuta la possibilità di non concedere l’estradizione verso paesi in cui il sistema giudiziario non corrisponda “all’idea che Parigi ha della libertà”. Una norma applicata seguendo un’interpretazione molto “larga”: di fatto, per ottenere protezione dalla Francia, basta non essere implicati in azioni che minano la sicurezza transalpina. Ecco perchè decine di terroristi trovano a Parigi un porto sicuro. Ed ancora oggi, come detto, almeno trenta sono lì. Spicca, tra i vari nomi, quello di Giorgio Pietrostefani: si tratta del fondatore di Lotta Continua, implicato nell’omicidio del commissario Luigi Calabresi per il quale ha addosso una condanna di 22 anni. Scorrendo l’elenco, si trovano poi le ex brigatiste Simonetta Giorgieri e Carla Vendetti, così come Sergio Tornaghi e Giovanni Alimonti, anche loro affiliati fino agli anni ’80 alle Brigate Rosse. In Francia si trovano anche esponenti di Prima Linea, come ad esempio Giancarlo Santilli. Emblematico è poi il caso di Marina Petrella, libera nel paese transalpino in quanto la giustizia francese le ha riconosciuto lo status di prigioniera politica. La caccia dunque agli ex terroristi è ben lontana dall’essere chiusa e, con essa, appare lontana anche la definitiva chiusura di una delle pagine più terribili della nostra storia recente.
Dalla Francia, al Perù: dove sono i latitanti «rossi» e «neri» che l’Italia non può riavere. Sono una quarantina i condannati all’estero: la maggioranza in Francia, protetti da decenni dalla «dottrina Mitterrand». Pietrostefani e Manenti hanno anche profili sui social network, scrive Claudio Bozza il 13 gennaio 2019 su "Il Corriere della Sera". Tanti in Francia, protetti dalla «dottrina Mitterand». Sono una quarantina le «primule rosse» latitante all’estero. Sono quasi tutti ex terroristi o condannati per fatti degli «anni di piombo». E quasi tutti sono da decenni in Francia, protetti dalla «dottrina Mitterrand». Che f varata nel 1982 dal presidente francese: «La Francia valuterà la possibilità di non estradare cittadini di un Paese democratico autori di crimini inaccettabili», nel caso di richieste avanzate da Paesi «il cui sistema giudiziario non corrisponda all’idea che Parigi ha delle libertà». Il presidente francese si opponeva a certi aspetti della legislazione anti-terrorismo approvata in Italia negli anni 1970 e 1980. La «dottrina Mitterrand», secondo il principio iniziale, non si sarebbe dovuta applicare in caso di gravi fatti di sangue, ma molti condannati per omicidio sono stati comunque protetti.
Tornaghi, uccise un carabiniere. E’ in Francia.
Tagliaferri, da Prima linea alla fuga in Perù.
Villimburgo, pluriomicida imprendibile.
Pietrostefani ha anche un profilo Twitter.
Spadavecchia, il «nero» in fuga a Londra.
Bertulazzi, il brigatista fuggito in Argentina.
Manenti, lavora come tuttofare tramite Facebook.
Lojacono, protetto in Svizzera con un nuovo nome.
Grillo, l’ex di Potere operaio vive a Managua.
Giorgieri, la Br toscana in Francia da 40 anni.
Casimirri, la «primula rossa» col ristorante sul mare.
Petrella, «salvata» da Sarkozy.
Trentatrè terroristi in libertà Tra bella vita e amici potenti. Sono pluriergastolani, ma c'è chi ha aperto un locale, chi è diventato svizzero e chi aspetta la prescrizione, scrive Fausto Biloslavo, Lunedì 14/01/2019, su "Il Giornale". I terroristi italiani ancora latitanti in un sicuro rifugio all'estero sono 33, dei quali 28 rossi (e 15 delle Brigate rosse), ancora in vita e individuati. Uno dei casi più eclatanti riguarda Alessio Casimirri condannato in contumacia a 6 ergastoli per il sequestro e l'omicidio di Aldo Moro. Il brigatista ha aperto un ristorante in Nicaragua e si è fatto pure fotografare con enormi pescioni catturati grazie alla sua passione per le immersioni. Come Battisti ai tempi del presidente Lula in Brasile sarà difficile convincere l'ex guerrigliero marxista Daniel Ortega, che guida il paese con il pugno di ferro, a rimandarci il terrorista italiano. La Francia è sicuramente il paese più ospitale per i latitanti degli anni di piombo, dove aveva trovato scampo alla cattura pure Battisti. Grazie alla dottrina Mitterrand, dal nome del presidente francese che aprì le porte ai terroristi se rinunciavano alla lotta armata. A Parigi vive da tempo Giorgio Pietrostefani, dirigente di Lotta continua condannato a 22 anni di carcere assieme ad Adriano Sofri per l'omicidio del commissario Luigi Calabresi. Si è sempre proclamato innocente e la pena andrà in prescrizione nel 2027. I cugini d'Oltralpe ospitano le ex brigatiste Simonetta Giorgieri e Carla Vendetti condannate all'ergastolo nel processo Moro ter. Le due terroriste sono state chiamate in causa anche per i delitti D'Antona e Biagi. In Francia avrebbe trovato rifugio Sergio Tornaghi, milanese della brigata Walter Alasia condannato all'ergastolo per partecipazione a banda armata. Nel nord del Paese sarebbe riparato pure Giovanni Alimonti, leader delle Br-Pcc condannato a 22 anni al processo Moro ter. Il caso più controverso riguarda Marina Petrella condannata all'ergastolo per omicidio. L'ex presidente Sarkozy ha negato l'estradizione per motivi umanitari. Sua moglie, Carla Bruni, è sempre stata sospettata di essere coinvolta nelle coperture che hanno garantito a Battisti di lasciare la Francia per il Brasile senza scontare un solo giorno di cella in Italia. In Europa hanno trovato rifugio anche terroristi neri come Vittorio Spadavecchia, che ha fatto parte dei Nuclei armati rivoluzionari ed era fuggito dopo l'assalto alla sede dell'Olp di Roma. Un altro brigatista, Mauro Lojacono, coinvolto nell'agguato di via Fani, fuggì prima in Algeria, poi in Brasile e alla fine in Svizzera. Non sarebbe estradabile perchè ha la cittadinanza elvetica. Alcuni latitanti sono stati dichiarati morti presunti, come Franco Coda, uno dei fondatori di Prima Linea, che ha ucciso l'agente di polizia Fausto Dionisi. In realtà potrebbe essere ancora vivo dopo aver fatto perdere le sue tracce fra Brasile, Venezuela e Cuba. Pure il terrorista rosso Maurizio Baldasseroni è fuggito in sud America senza dare più sue notizie. Nel 2013 il nipote che voleva vendere un appartamento a Milano intestato pure allo zio latitante aveva fatto domanda di morte presunta, che per il momento è stata respinta. Altri terroristi avrebbero trovato rifugio in Libia ai tempi di Gheddafi, Angola e Argentina, ma quasi tutti hanno sempre mantenuto un basso profilo al contrario di Battisti. Ieri il ministro dell'Interno, Matteo Salvini, dal palco della Scuola di formazione politica della Lega a Milano ha dichiarato: «Ci sono altre decine di assassini a piede libero in Europa e nel mondo. Utilizzeremo tutte le energie possibili per riportarli nelle carceri italiane».
«Quando nascono i tribunali muoiono le rivoluzioni». A cinquant’anni dal Sessantotto un viaggio nella memoria con il leader del movimento studentesco. Intervista di Daniele Zaccaria del 26 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Conversare con Oreste Scalzone è un’esperienza proustiana e futurista allo stesso tempo. Il flusso della memoria scorre come un torrente, ma non è sempre un corso tranquillo, dalle acque affiorano improvvisi i vortici, e il gorgo dei ricordi procede agitato da un demone errante, con lo sguardo che punta fisso l’orizzonte in una specie di eterno presente. «Sono un ipermnesiaco (lo sviluppo eccessivo della memoria n. d. r.), anche se ogni tanto, come diceva Freud e come accadeva nel Rashomon di Kurosawa, posso vivere qualche illusione di memoria». Cinquant’anni fa, quando la società occidentale venne travolta dalla rivoluzione del ‘ 68, Scalzone era un giovane leader del movimento studentesco. In questi giorni di celebrazioni museali che fanno di quell’annata formidabile una specie di Risorgimento scamiciato, Scalzone accetta di tornare sul “luogo del delitto” per abbozzare quella che lui chiama con modestia una “anti- celebrazione”, una “anti- cerimonia”. Ma prima di tornare a quei giorni di marzo ‘ 68 vuole togliersi un sassolino dalla scarpa: «Questa vicenda dei fascisti che avrebbero avuto contatti con il movimento studentesco per organizzare gli scontri di Valle Giulia è una totale fake- memory che si basa unicamente sulle dichiarazioni di Delle Chiaie Stefano, detto “caccola”. Delle Chiaie era odiato in primis dai fascisti per così dire “puri”, che lo vedevano come un uomo dei servizi segreti. Il movimento non aveva alcuna contezza di quelle dinamiche, è probabile che ci furono tentativi di infiltrazione che però non riuscirono. I fascisti erano arroccati nella facoltà di giurisprudenza e il comitato di agitazione dell’Ateneo aveva deciso semplicemente di ignorarli, come fossero un tumore morto, non li vedevamo e intorno a loro c’era una specie di cordone sanitario. Le cose cambiarono la notte tra 15 e il 16 marzo, quando delle squadre di picchiatori del Msi entrarono alla Sapienza attaccarono i loro extraparlamentari sgomberandoli manu militari i e attaccarono il picchetto del movimento a Lettere ferendo alcuni compagni».
Cosa ricordi di quella mattina?
«Arrivai all’università di buon ora, quelli del Msi si erano già asserragliati dentro giurisprudenza con gli onorevoli Almirante e Caradonna. A quel punto noi lanciammo un attacco improvvido, generoso ma improvvido, tanto che avanzando potevamo contare i feriti, dall’alto ci lanciavano di tutto, biglie di ferro, vetri, oggetti di ogni tipo, poi sento uno schianto, la panca lanciata dall’alto colpisce di sbieco una sedia con cui malamente mi coprivo…, il contraccolpo mi schiaccerà due vertebre, vengo trascinato via, mi portano in ospedale, intanto la battaglia continua. Alcuni compagni scovano una porta secondaria e riescono a entrare, sono una dozzina e si trovano soli davanti Almirante, avrebbero potuto linciarlo, ma comprensibilmente esitarono, e l’attimo passò, fortunatamente non si aveva la stoffa di linciatori… A quel punto entrò in forze la polizia. Ora, per chi sostiene che ci fosse ambiguità tra il movimento e l’estrema destra, cito il dottor Paolo Mieli e il professor Agostino Giovagnoli, cosa avremmo dovuto fare? Linciare Almirante per dimostrare il contrario? Peraltro su quei giorni continuano a essere scritte e dette enormi sciocchezze. Molte ispirate da un misero “pasolinismo” di ritorno».
Cosa intendi?
«Parlo di questa divisione artificiosa tra i poliziotti figli del proletariato mandati nelle città a prendersi le botte dagli studenti figli della borghesia. Di sicuro Paolo Mieli era un figlio della borghesia, io ero un semplice pendolare di Terni, ma di cosa parliamo? Alla Sapienza c’erano più di 70mila iscritti, l’università era già un luogo di massa e nel movimento c’era di tutto, compresi i figli dei “cafoni” del sud, i figli degli operai mandati a studiare nella grande città per diventare ingegneri. Certo, la maggioranza dei leader proveniva da famiglie istruite ma solo perché, come diceva Don Milani, possedevano le parole sufficienti per diventare i capi, nelle facoltà e nelle piazze però il protagonista era altro, no?»
Pasolini si sbagliava dunque?
«Di sicuro si sbagliava sulla composizione sociale del movimento studentesco, e dire che sarebbe bastato aver ascoltato un mezzo discorso di Franco Piperno, non dico di aver letto Marx. Si sbagliava anche nella sua mitologia poetica della classe operaia che per lui era incarnata solamente dagli operai con la tuta e le mani callose e “professionali” quando già allora la figura centrale erano gli operai di catena, in gran parte immigrati dal Sud, quelli che si raccontano in Vogliamo tutto! di Balestrini; inoltre già allora avanzava il precariato tra le giovani generazioni. Si è sbagliato anche sulla natura del Pci, in questo sono d’accordo con lo storico Giovanni De Luna, Pasolini dice ai giovani di andare verso il Pci, pensare che quel movimento potesse andare verso il Partito comunista era una sciocchezza. Neanche il segretario Luigi Longo aveva il coraggio di affermare una cosa simile. Infine si sbagliava sui poliziotti, per lui erano «dei bruti innocenti» in quanto li riteneva delle bestioline irresponsabili, «li hanno ridotti così». Anche in questo caso è una lettura semplicistica, basterebbe un po’ di piscoanalisi, penso a Willelm Reich: esiste un margine di responsabilità in chi commette atti brutali e sadici, è la psicopatologia dell’ultimo dei crociati che s’intruppa dietro Pietro l’Eremita a fare la “teppa eterna” mentre a Gerusalemme, scrivono gli storici, «il sangue arrivava alle ginocchia». La stessa teppa descritta da Varlam Salamov nei Racconti di Kolyma che in quel caso erano i cechisti, ma potremmo parlare anche delle Guardie rosse, di chi andava a evangelizzare di chi andava islamizzare, di chi andava a colonizzare».
Un rapporto mortale e mimetico quello della sinistra rivoluzionaria e libertaria con il potere e la violenza costituita.
«Prendendo spunto dal Foucault di Microfisica del potere, quando si costituisce un tribunale del popolo o del proletariato, una giustizia istituita, la mutazione è già avvenuta, la rivoluzione è già diventata controrivoluzione. Il passaggio da «potere costituente» a «costituito», come dice Agamben, è stato la tragedia di tutte le «Rivoluzioni» che hanno «preso il potere». Questo, microfisicamente, è sempre in agguato anche per noi. Nei giorni del rapimento Moro, ero convinto che il movimento dovesse “interferire” con le Brigate Rosse per scongiurare il rischio che si lasciassero sospingere ad un epilogo annunciato, atteso e come prescritto della sentenza di morte».
Più volte hai criticato la sinistra e il suo antifascismo razziale, cosa intendi?
«Mi vengono in mente (oltre a Sergio Ramelli) i fatti di Acca Larentia: se un commando di estrema sinistra apre il fuoco su un gruppetto di ragazzotti fascisti uccidendone due e poi quelli escono con il sangue agli occhi e le forze dell’ordine ne uccidono un altro, io mi sento molto a disagio come dissi all’epoca a Giorgio Bocca che mi intervistò per Repubblica. Non si possono trattare i fascisti come fossero dei “diversi”, questo è un approccio etnico, razziale al conflitto politico e l’antifascismo rischia di diventare un ulteriore strumento di regime. All’epoca fui molto criticato per questa mia posizione, in questo caso come che Guevara, che per inciso è stato anche un uomo feroce: «Dobbiamo essere implacabili nel combattimento e misericordiosi nella vittoria»».
Il “fascismo” viene continuamente evocato come fosse il sinonimo, l’equivalente generale, del male assoluto.
«Potrei rispondere che le parole sono importanti, e che l’equivalenza fascismo- male assoluto è contraddittoria perché due totalità non possono convivere. Partirei invece dal fascismo storico, il cui demiurgo è stato Benito Mussolini, una figura di un’ambiguità degna del post- moderno. Mussolini aveva certamente letto il Manifesto del partito comunista, ma ignorava il primo libro del Capitale. Di padre anarchico e di madre maestrina dalla penna rossa, diventa già da molto giovane la figura di punta della sinistra massimalista italiana come scrisse lo stesso Lenin. Un personaggio social- confuso, ma pure questa non è necessariamente una colpa, anche il mio amico Pannella poteva sembrare un Cagliostro liberal- liberista che mischiava tutto. Soreliano, socialista, prima pacifista che gridava «guerra alla guerra», poi il transito per l’interventismo democratico di Salvemini un’area in cui peraltro passarono anche Gramsci e Togliatti. Poi si riconverte ancora, approda all’irredentismo, da avventuriero sfrutta il reducismo dei “terroni di trincea” messi in conflitto con gli operai delle fabbriche del nord, visti come un’aristocrazia operaia dei Consigli che partecipava alla produzione di guerra. Da talentuoso avventuriero Mussolini riesce a mischiare tanti elementi, ruba il nome dei Fasci siciliani, si prende il nero della camicia degli anarchici, si porta dietro sindacalisti rivoluzionari come De Ambris e Corridoni, si prende il futurismo suprematista italiano ma anche russo e crea uno strano melange, quasi un kitsch post- moderno».
L’antisemitismo era connaturato al regime?
«No, Mussolini non era un antisemita. Nel ‘ 32, rispondendo a una domanda sulla questione ebraica che gli pose il biografo tedesco Emil Ludwig afferma secco: «Quella è roba vostra. Cose da biondi, da tedeschi». Le svolte successive del regime vennero prese per opportunismo e non per convinzione ideologica. Però in tutto questo kitsch infinito rimane un elemento essenziale e coerente che può definire il fascismo: la guerra alle organizzazioni operaie, non alla classe operaia in quanto tale che può essere cooptata dalle corporazioni, ma alle sue organizzazioni, dalle più riformiste alle più sovversive. Quello è il nemico, la sua ossessione persistente, come l’antisemitismo fu l’ossessione psicotica dei nazisti. Qui c’è un filo conduttore che porta dritto al complottismo, un paradigma sinistro, che può guidare anche quelli che sventolano le bandiere rosse e di qualsiasi colore. Detto tutto questo vorrei però chiarire un punto».
Prego.
«I termini contano anche in quanto autodefinizioni, “terrore” nasce come autodefinizione di Saint Just e Roberspierre, “totalitarismo” non è una parola inventata da Hannah Arendt ma da Mussolini Benito proprio per definire il suo regime».
Oggi in Europa esiste un rischio concreto che movimenti o regimi di estrema destra, razzisti e autoritari prendano il sopravvento?
«Prendiamo il caso Traini, lo psicopatico neonazista e ultras leghista di Macerata che voleva compiere una strage di migranti, su questo punto la penso come Felix Guattari: Traini è senz’altro uno psicopatico ma se dieci psicopatici si mettono una divisa delle Sa non possono essere liquidati come dei malati di mente, diventano dei ne-mi-ci. E qui nasce un grandissimo problema. In questo sono d’accordo con l’analisi Bifo che parla di “inconscio disturbato della nazione”».
Qual è il più grande nemico della sinistra?
«È un nemico interno e si chiama complottismo, una vera e propria tragedia culturale, un pensiero demoniaco e cospirazionista che diventa responsabile di quella mutazione di cui parlavo, il passaggio dal potere costituente al potere costituito, mi piace citare Agamben e la sua riuscita formula (di risonanza spinoziana) “potenza destituente”. Per il complottismo qualsiasi gesto di rivolta, dal Camus dell’- Homme revolté al suicidio di Jan Palach è sempre un gesto manipolato, eterodiretto, ma il complottismo vive di falsità, di contro- revisionismi e generalizzazioni, non tocca mai un dente a quelli che chiama manipolatori, è inoffensivo per il potere ma letale per chi combatte il potere».
Il destino degli esseri umani è la ribellione?
«Non esercitare l’inferenza per la specie umana la pone al di sotto delle altre specie, la nostra specie si sporge fuori dall’essere per inseguire la conoscenza, l’arte, la politica. A differenza dei girini e dei puledri noi nasciamo prematuri, iniziamo a camminare a un anno e mezzo mentre il puledro cammina già poche ore dopo la nascita. Il leone è un predatore e caccia la gazzella che in quanto preda tenta di fuggire, nessuno di loro è felice o infelice. Noi invece, per realizzarci, abbiamo bisogno della protesi della conoscenza. L’albero del peccato in tal senso è proprio una bellissima metafora del nostro destino.
E il futuro?
«Il futuro non esiste, il futuro è la narrazione dei dominanti».
Buttiglione: “Il ’68? Aveva bisogno di Gesù invece ha scelto Marx…”. Rocco Buttiglione, filosofo allora ventenne, parla del Sessantotto. Intervista di Giulia Merlo del 25 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Lo racconta col sorriso di chi parla di una stagione felice e ingenua, com’è quella parte della giovinezza che forma il carattere e la visione del mondo. Per Rocco Buttiglione, nato a Gallipoli nel 1948, il Sessantotto è stato l’anno di una rivoluzione fatta di fede più che di lotta di classe e sfociato poi in un’organizzazione – Comunione e Liberazione – che rispondeva alle domande di una generazione con le parole del Vangelo di Giovanni. Eppure, da cattolico, si è sentito parte di quel grande movimento studentesco, ricorda le stesse piazze e, in fin dei conti, ne ha condiviso la stessa esigenza di cambiamento.
Lei a vent’anni che ragazzo era?
«Dov’ero, prima di tutto. Nel 1967 mi ero appena immatricolato alla facoltà di giurisprudenza a Torino e nel novembre di quell’anno iniziò l’occupazione studentesca di Palazzo Campana, che era la sede delle facoltà umanistiche. A Torino, però, arrivai prima, durante l’adolescenza. La mia famiglia si spostava molto e, seguendo il lavoro di mio padre, a Torino arrivai da Catania e mi volli iscrivere al liceo Massimo D’Azeglio, tempio della cultura torinese e dell’anticlericalismo. Mi consigliarono subito di ripensarci ma io mi intestardii: mi presentai in classe molto fiero del mio perfetto accento siciliano e scoprii che lì essere meridionale e cattolico non era un vanto. I torinesi erano imbevuti di cultura azionista e dunque fortemente anticattolica, mentre antimeridionali lo erano senza saperlo, gli veniva naturale».
Come stava un meridionale cattolico a Torino?
«Innanzitutto persi l’accento catanese, poi scoprii che anche i torinesi avevano i loro complessi di inferiorità. Verso l’estero, però, e in particolare nei confronti degli Stati Uniti e della scienza tedesca. Ironicamente, il fatto che parlassi correntemente inglese e tedesco riscattò il fatto che fossi meridionale e cattolico. Poi all’università trovai un porto franco: l’istituto di scienze politiche era presieduto da Alessandro Passerin d’Entrèves, professore cattolico, ma anche ex capo della resistenza e insegnante ad Oxford. Per questo suo profilo esterofilo e partigiano godeva di una sorta di immunità e aveva creato uno spazio in ateneo in cui i cattolici erano tollerati. Nel Sessantotto l’idea era che l’Università fosse nostra, un luogo in cui non eravamo ospiti e dove si imparava non un mestiere, ma un sapere critico che indagava la verità dell’uomo».
Come si spiegava questo antagonismo nei confronti dei cattolici?
«A Torino interagivano tradizioni diverse: io venivo da una famiglia che aveva combattuto la guerra contro i tedeschi e per i miei genitori la resistenza era stata la lotta per la liberazione dell’Italia. A Torino, invece, per molti la resistenza era una cosa diversa: era stata una lotta per il comunismo, interrotta dall’intervento degli americani, che sconfissero i tedeschi e occuparono il Nord, e del Vaticano, che mobilitò il popolo per votare contro un governo comunista. Ecco, per chi era cresciuto in quella prospettiva, il Sessantotto era la grande occasione per portare a termine la rivoluzione incompiuta che era stata la resistenza».
Si avvicinò allora alla politica?
«Nel 1967 fondai con un gruppo di amici Gioventù Studentesca, un movimento cattolico da cui poi nacque Comunione e Liberazione e che fu parte del movimento studentesco».
Partecipavate alle manifestazioni di piazza coi vostri colleghi dei gruppi di sinistra?
«Sì certo. Uno dei punti caratteristici del movimento era la scelta della non violenza e l’idea del sit-in. Ci siedevamo tutti, poi arrivava la polizia che ci prendeva di peso e ci portava via. Ricordo che i poliziotti ci alzavano quasi con garbo e anche con una certa simpatia nei nostri confronti. Era il novembre del 1967. Poi, l’anno dopo, mi trasferii a Roma e anche qui fondai Gioventù studentesca».
Voi cattolici vi sentivate parte del movimento giovanile?
«Nel ‘ 67 moltissimo. Non eravamo discriminati, organizzavamo i nostri controseminari ed eravamo parte di quel grande movimento generazionale. Perchè questo è stato: un enorme movimento di massa, centrato sul bruciante desiderio di rompere con l’ipocrisia della società che ci circondava e di creare rapporti nuovi, fondati sulle relazioni interpersonali. In una parola, volevamo liberarci dall’egoismo individualistico per creare una nuova comunità. La nostra era una domanda di autenticità».
E avete trovato una risposta?
«Noi pensavamo che la fede cristiana fosse la risposta. Ancora oggi, sono convinto che la grande domanda generazionale del Sessantotto fosse prima di tutto una domanda religiosa, non una domanda politica. Il terrorismo successivo, che cominciò nel 1969, nasce proprio da questo errore: l’idea di dare una risposta tutta politica a una domanda religiosa».
Quanto ha litigato coi militanti della sinistra?
«Moltissimo. Ricordo una discussione con Mario Capanna, qualche anno dopo il 1968, a Milano. Comunione e Liberazione cresceva e noi ci consideravamo parte del movimento studentesco, ma Capanna voleva spiegarci che non era vero. Io obiettai che anche noi eravamo pronti a condividere la lotta di classe come lotta per la giustizia, ma lui mi rispose che non era sufficiente. Mi disse: «Anche se dite co- sì, per voi al primo posto non ci sarà mai la lotta di classe ma Gesù Cristo. Quindi siete dei reazionari, in questa università non avete diritto di parola e non ci metterete mai piede». Sei mesi dopo, Cl vinse le elezioni alla Statale».
Il Sessantotto è stato anche il momento della rottura con un certo modello di famiglia. Lo fu anche per i cattolici?
«Anche noi, solidarmente con la nostra generazione, eravamo in rivolta contro le nostre famiglie. La differenza, però, stava nel fatto che a questa rivolta offrivamo un’altra prospettiva educativa, in chiave critica ma non di rottura. Noi pensavamo che il conflitto è un elemento necessario ma positivo, poi si deve riconciliare: contestare significa non prendere alla lettera gli insegnamenti ma verificarne la veridicità nella propria vita, mettendo alla prova i valori proposti. Contestavamo piuttosto un certo modo di essere famiglia e ci siamo riconciliati con essa cambiando profondamente i modelli di interazione familiare».
E’ stata la declinazione cattolica di quello che fu la cosiddetta “liberazione sessuale”?
«Noi l’abbiamo vissuta come l’acquisizione di libertà rispetto alla coazione familiare, ma anche l’acquisizione di una responsabilità. Una delle cose di cui sono più grato a Cl e a Don Giussani è che ci ha insegnato a innamorarci, ad avere fiducia nel nostro innamoramento, a sposarci, avere figli, fare famiglie e a vivere il sesso come forza che salda due destini individuali creando una comunità. Ecco, questo pensiero non è stato molto diffuso ed è stata una grave perdita, sia per gli uomini che per le donne».
A proposito di donne, il Sessantotto ha visto fiorire i movimenti femministi.
«Io considero il Sessantotto come un movimento largamente maschile e anche con tratti maschilisti: la liberazione sessuale è stata vissuta in modo prevaricante nei confronti delle donne. Il femminismo è emerso dopo, ma nel Sessantotto l’immagine della donna era ancora quella della segretaria, con in più la libertà di usarla sessualmente».
Quanto c’è, allora, di mitico in quella stagione vista a cinquant’anni di distanza?
«Il Sessantotto è stato una grande occasione perduta. E’ stato una speranza: per un attimo c’è stata la sensazione che un’altra vita fosse possibile, ma le mani in cui questa sensazione è stata posta erano fragili. Subito si è perduta ed è poi degenerata. In un’immagine, penso al Giudizio universale: Dio tende la mano verso l’uomo, ma questa volta l’uomo non l’ha afferrata».
In questa degenerazione c’è il lato oscuro di un movimento che oggi viene celebrato?
«Io credo che si sia vissuta una riedizione in commedia del grande dramma del Novecento, con le sue religioni secolari. In termini teologici si potrebbe dire: si mette qualcosa al posto di Dio. Quando anche l’ideale più alto viene messo al posto di Dio, questo diventa demoniaco: la giustizia sociale diventa comunismo, la nazione diventa fascismo. La politica si presentò come risposta a una domanda religiosa e si trattò di una risposta inadeguata e di per sè, dunque, rovinosa».
Perchè dice che fu l’eccesso di politica a generare il terrorismo?
«La prima esigenza dell’uomo non è la politica, ma la religione. Dal modo in cui io definisco il mio rapporto con Dio deriva anche il modo in cui definisco il mio rapporto con gli uomini e dunque la mia capacità di avere misericordia per le loro imperfezioni. I terroristi travisarono l’intuizione di portare il regno di Dio su questa terra, identificandolo con il comunismo. In quegli anni veniva citato spesso Engels, in un passo di un libretto su Ludwig Feuerbach: «L’essenza della dialettica è che tutto ciò che è merita di morire». Per loro, davanti al bene assoluto che coincideva con la rivoluzione, tutto ciò che c’era perdeva valore e meritava disprezzo».
E dunque legittimava sparare?
«Alcuni anni dopo, nel 1977, le Brigate Rosse uccisero Carlo Casalegno, vicedirettore della Stampa. Il figlio Andrea era militante di Lotta Continua e ricordo che scrisse un bellissimo articolo: «Anche io ho sempre detto che la lotta di classe è al primo posto, ma non immaginavo che potesse venire anche prima della dignità e del rispetto dell’uomo»».
Quando avvertì la rottura con lo spirito del Sessantotto e l’inizio della stagione successiva?
«Per me fu nel marzo del 1969. A Roma c’era una grande manifestazione di studenti delle medie, che venivano in corteo alla città universitaria. I fascisti erano asserragliati dentro a Giurisprudenza, i gruppuscoli dell’ultrasinistra stavano dentro Lettere e la grande maggioranza del movimento era fuori, perchè era una bella giornata di sole. D’un tratto, capimmo che i fascisti volevano uscire per aggredire i ragazzi, così organizzammo un cordone non violento per impedirglielo. Loro ci vennero incontro agitando le bandiere e, quando arrivarono vicini, smontarono le bandiere e tirarono fuori le mazze ferrate. Ci diedero un sacco di botte e ci sbaragliarono, fino a quando i gruppi della sinistra uscirono da Lettere e li ricacciarono dentro Giurisprudenza. Io rimediai una lesione al ginocchio, quel giorno per me è finito il Sessantotto ed è iniziata un’altra storia».
Con il 1969 cominciò un’altra storia.
«Anche nel movimento del Sessantotto c’erano i gruppi dell’ultrasinistra, ma erano fondati su un’idea di comunismo comunitario, che i marxisti definirebbero di socialismo utopistico. I gruppi armati di scienza marxista- leninista e mazze ferrate vennero dopo, e occuparono il campo. Da allora il movimento di massa finì, chi parlava a nome degli studenti non era più uno studente, la partecipazione crollò drammaticamente. Iconograficamente, il passaggio si compì quando, in manifestazione, smettemmo di chiedere “Vietnam libero” e si iniziò a urlare “Vietnam rosso”».
Cosa ha spinto quegli stessi giovani a prendere le armi?
«Le cito un capitolo della Fenomenologia dello spirito di Hegel, che si intitola “La libertà assoluta e il terrore”. Ecco, il tentativo di realizzare la libertà assoluta in chiave politica induce a rivolgersi con spietata violenza contro tutto ciò che c’è, perchè nulla è adeguato all’ideale. L’uomo di ieri va spazzato via perchè totalmente corrotto e i riformisti, quelli che identificano il cambiamento come un percorso a tappe, sono dei traditori. I gruppi che imbracciarono le armi si consideravano gli unici depositari della giusta visione, mentre tutti gli altri erano massa dannata. Nel loro calvinismo rivoluzionario furono indotti a svalutare ogni limite, soprattutto quello della legge, pur di mettere la lotta di classe al primo posto».
In che modo, invece, Cl ha guidato quella stessa generazione?
«Cl era un fenomeno di massa e col tempo divenne largamente maggioritario tra gli studenti attivi, vincendo tutte le elezioni universitarie. Il legante che ci cementava come gruppo sta nel nome stesso: la risposta alla domanda di liberazione dei giovani è la comunione cristiana. Questo ha significato amicizie che duravano una vita, sostegno nelle necessità materiali, creazione di una comunità che nasceva dall’incontro con Cristo come rottura dell’individualismo edonistico. Leggevamo spesso il Vangelo di Giovanni, capitolo XV e seguenti, in cui è contenuta la metafora della vite e dei tralci: chi riconosce Cristo come sua identità vera diventa più che un fratello e nasce un legame che è più forte di quella della carne. Io sono convinto che la fede fosse la risposta alla crisi di quella generazione».
Eppure verrebbe da obiettarle che, per soddisfare la richiesta di cambiamento di cui lei diceva all’inizio, la politica fosse la strada obbligata.
«Io amo la politica e l’ho fatta per 24 anni, ma per fare una politica realistica bisogna fare i conti con gli uomini per come sono e avere la capacità di perdonare al finito il fatto di non essere infinito. Questo si può fare solo capendo che la società è imperfetta: si può provare a renderla meno imperfetta, ma essa non sarà mai il regno di Dio. In altre parole, la domanda di regno di Dio deve trovare una risposta in qualcosa di diverso dalla società stessa, perchè altrimenti si tenta di imporre al terreno una perfezione che non è in grado di raggiungere. Ecco, solo sapendo che il regno di Dio non è di questo mondo ma che è il modello dal quale partire per migliorarlo, si può fare bene politica».
Dunque è stato sbagliato mitizzare quella stagione, che tanto ha inciso su quella successiva, caratterizzata dal terrorismo?
«Quando tenti di spiccare il volo ma non ce la fai, cadi e ti fai male. Non per questo, però, era sbagliato provare a volare».
La storia del brigatista Casimirri mai estradato in Italia, scrive il 14 gennaio 2019 Massimo del Papa su Lettera 43. Al contrario di Battisti, pochi conoscono la sua storia di terrorista e i politici non ne parlano, ma ha avuto un ruolo di primo piano nell'agguato di Via Fani. Ora vive in Nicaragua e gode di protezioni eccellenti. Se la cattura in Bolivia dell'esponente dei Pac (Proletari Armati per il Comunismo) Cesare Battisti sembra avere chiuso definitivamente la latitanza più famigerata degli Anni di piombo, esiste però tutta una serie di terroristi, rossi e neri, ancora da riscattare; fra questi ce n'è uno, assai rilevante sul piano storico, che non ha scontato un solo giorno di carcere e che da quasi 40 anni risulta blindato in Nicaragua. Si tratta del brigatista Alessio Casimirri, nome di battaglia “Camillo”, 67 anni ottimamente portati, coinvolto nella strage di via Fani del 16 marzo 1978 insieme alla ex moglie Rita Algranati, a sua volta chiamata in causa dal capo Br Mario Moretti, che ne rivelò partecipazione e ruolo alle giornaliste Rossana Rossanda e Carla Mosca nel 1993 per il libro Brigate Rosse - Una storia italiana (Mondadori). Ma se la vicenda penale per quest'ultima può dirsi esaurita con la cattura nel 2004 all'aeroporto del Cairo dopo prolungata latitanza in Algeria, per Casimirri la questione rimane apertissima, blindato com'è da un intreccio di poteri che, di fatto, lo rendono un intoccabile.
IL BRIGATISTA FIGLIO DI UN ALTO FUNZIONARIO DEL VATICANO. Scrive Sergio Flamigni nel suo libro La prigione fantasma (Kaos edizioni): «E' un dato di fatto che nella zona dove il 16 marzo [1978] si persero le tracce dei terroristi in fuga con l'ostaggio c'erano proprietà del Vaticano (palazzi e terreni dello Ior, la banca papale). Così come è certo che lungo quel tragitto di fuga un ruolo lo ebbe il brigatista Alessio Casimirri, figlio di un alto funzionario del Vaticano, e Casimirri sarà il solo brigatista, tra quelli identificati del commando di via Fani, a sottrarsi all'arresto: con l'aiuto dei servizi segreti, espatriò in Nicaragua, da dove non verrà mai estradato».
IL PADRE DIRESSE LA SALA STAMPA DI TRE PONTEFICI. Più nel dettaglio, la vicenda di Casimirri ha dell'incredibile per moltissimi aspetti, uno più inquietante dell'altro. Il combattente “Camillo”, infatti, ha radici saldamente piantate nel microuniverso della Santa Sede: la madre era una cittadina vaticana, il padre, Luciano Casimirri, diresse la Sala stampa vaticana sotto tre pontefici: Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI (che battezzò e comunicò il piccolo Alessio). Il giovane Alessio, ex militante di Potere operaio, segnalato nel 1975 in un rapporto dei carabinieri come soggetto «fazioso e violento», confluisce nelle Br nel 1976 e vi resta almeno fino 1980 prendendo parte all'azione più eclatante, quella in cui viene annientata la scorta del presidente Dc Aldo Moro, prigioniero senza ritorno. Subito la sua figura risulta al centro di parecchie stranezze, come una immediata perquisizione ancora nel pieno del sequestro di Moro, il 3 aprile 1978, nella sua casa di via del Cenacolo, 56 a La Storta, con contestuale perquisizione anche dell'abitazione dei genitori in via Germanico, 42, a ridosso del Vaticano: segno che gli inquirenti avevano già un quadro piuttosto chiaro della sua rilevanza in seno alle Br. Gli atti di indagine tuttavia non sortiscono alcun esito, così come non avrebbe portato a niente un successivo fermo, non confermato, risultante da un misterioso cartellino fotosegnaletico conservato nell'archivio del Nucleo investigativo dei carabinieri di Roma in data 4 maggio 1982, la cui effettiva attribuzione rimane dubbia; ciò che indusse la II Commissione parlamentare Moro – i cui atti vengono ripresi ancora nel recentissimo nuovo volume di Flamigni, Il quarto uomo del delitto Moro (Kaos edizioni) - a manifestare ulteriori riserve: «[...] fatto enorme […] che [a Casimirri] diede la possibilità di sottrarsi a due mandati di cattura e di proseguire la latitanza».
LA II COMMISSIONE MORO: «COSTANTE COPERTURA E PROTEZIONE». Ma siamo solo all'inizio. Casimirri, più volte segnalato, denunciato, perquisito, trova modo di recarsi nel 1980 in una stazione dei carabinieri ai quali consegna armi senza per questo destare giustificati sospetti; ancora due anni dopo, da ricercato, può ritirare quanto a lui dovuto dal datore di lavoro prima di darsi alla latitanza ed espatriare, verosimilmente con un passaporto rozzamente contraffatto a nome Guido Di Giambattista: entra in Francia, e, passando per Mosca, approda finalmente, e definitivamente, in Nicaragua. Secondo plurime risultanze di indagine, tra le quali la già citata II Commissione Moro, Casimirri ha potuto usufruire di «costante e ripetuta protezione nel nostro Paese, di cui […] godere in molte fasi della sua vita con modalità e intensità diverse e in molteplici ambiti». Non solo, come è ovvio, grazie alla potente influenza dei familiari, ma anche «con analoghi percorsi, elementi di collaborazione, più o meno ufficiale, con strutture dello Stato». L'ex compagno di militanza brigatista Raimondo Etro riferì alla Commissione una voce che voleva Luciano Casimirri, padre di Alessio, in rapporti di confidenza con il generale Giuseppe Santovito, capo del Sismi e affiliato alla loggia massonica coperta P2. Non è tutto. Sempre circa le ambigue protezioni in grado di sottrarre Casimirri alla cattura, è ancora la stessa II Commissione Moro a ipotizzare «un quadro inquietante di protezioni... [che contemplano] l'esistenza di un rapporto tra il generale dei carabinieri Francesco Delfino e Casimirri, il quale sarebbe stato dunque una sorta di infiltrato dell'Arma nelle Brigate Rosse»; ipotesi «valorizzata [dal giudice Antonio Marini e che], trova fondamento nelle dichiarazioni rese da Bou Ghebi Ghassan», un cristiano maronita libanese implicato in traffici di droga, alle autorità giudiziarie prima di Brescia e poi di Roma.
OGGI IN NICARAGUA GESTISCE UN RISTORANTE. Sta di fatto che l'ex bambino vaticano resta intoccato ed è l'unico fra tutti i suoi compagni di militanza. In Nicaragua ha dapprima collaborato col regime sandinista di Ortega contro i Contras, addestrando le truppe speciali in attività militari subacquee, delle quali è sempre stato esperto fin da giovane (altra circostanza che ha indotto qualcuno a ricondurlo più ad un ruolo da militare infiltrato che da terrorista); quindi, ottenuta nel 1988 la cittadinanza nicaraguense e messa su famiglia, ha aperto un ristorante rinomato e assai frequentato, oltre che gravido di richiami, più o meno criptici, al suo torbido passato. Ma per tutti egli è lo chef, un amico, uno che a tavola ti ridà la vita, seppure a prezzi non esattamente proletari. Pochissimi sanno di via Fani, di Moro, e anche del magistrato Girolamo Tartaglione, caduto esattamente 4 mesi dopo Moro, il 10 ottobre 1978, per mano di “Camillo” e di “Otello”, nome di battaglia di Alvaro Lojacono. Due richieste italiane di estradizione, nel 2004 e nel 2015, sono cadute come foglie morte. La sua vicenda è a suo modo esemplare di quella zona grigia di connessioni e protezioni statali e poliziesche che ha avvolto tanti terroristi, di destra e di sinistra, lui più di ogni altro. Oggi i Contras hanno problemi in Nicaragua, forse passeranno anche loro, ma Casimirri resterà. Alla luce del sole, senza doversi nascondere.
Alessio Casimirri, un altro Cesare Battisti. Membro del commando che rapì Moro: ora fa lo chef in Nicaragua. Alessio Casimirri, un altro Cesare Battisti: membro del commando che rapì Moro, ora fa lo chef in Nicaragua protetto dal regime sandinista, scrive Silvana Palazzo su "Il Sussidiario" il 2 gennaio 2019. Cesare Battisti è ancora latitante: la caccia in Brasile prosegue con la promessa del presidente Jair Bolsonaro di consegnare all’Italia il terrorista dei Pac. Ma non è l’unico fuggitivo: l’altro è Alessio Casimirri, che fece parte del commando delle Br che freddò in via Fani i cinque uomini della scorta di Aldo Moro. Personalmente uccise il giudice Girolamo Tartaglione. Prima di essere condannato ad ergastoli plurimi, scappò in Africa e poi in Nicaragua, dove approdò con l’alias Guido Di Giambattista. A parlarne oggi è La Verità, spiegando che Casimirri nella notte di San Silvestro ha offerto le sue specialità di pesce nel suo rinomato ristorante alla periferia di Managua, la capitale appunto del Nicaragua. Qui ha anche combattuto contro il tentativo dei Contras, paramilitari sostenuti dagli Usa, di rovesciare il governo rivoluzionario, quindi nel 1988, dopo la vittoria, ottenne la cittadinanza, anche perché aveva sposato una donna del posto da cui ha avuto due figli. Dopo aver fatto l’istruttore dei sub per le truppe speciali nicaraguensi, ha costruito una villa e aperto due ristoranti. Estradizione? Niente da fare: nel 2004 la Corte costituzionale nicaraguense ha negato la richiesta italiana. Nel 2015 il ministro della Giustizia Andrea Orlando annunciò l’intenzione di riportare Alessio Casimirri in Italia. Da allora però la vicenda è tornata nel silenzio totale. Nel 2017 c’è stato un piccolo “ritorno di fiamma” sui media grazie al lavoro svolto dalla commissione parlamentare d’inchiesta sull’omicidio Moro, ma tutto cadde di nuovo nell’oblio. Così Casimirri ha continuato a lavorare ai fornelli. Nel suo locale stupisce per il suo estro e la freschezza delle sue materie prime. Come riportato da La Verità, cattura anche personalmente il pesce a San Juan e coltiva vicino al ristorante le verdure. C’è anche chi apprezza la locanda proprio per i precedenti penali del proprietario: «Piatti stupendi preparati da un ex brigatista italiano mai passato dalle carceri grazie a protezioni in alto loco. Una esperienza unica! L’ex brigatista, ora cuoco, ci ha accolto con “quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così” che hanno i reduci dagli Anni di piombo. Niente da dire», recita una recensione su TripAdvisor. Nel menù c’è anche un omaggio ad un brigatista recentemente scomparso, Prospero Gallinari, da cui prende il nome un piatto di spaghetti. E non si fa neppure pagare poco Alessio Casimirri, visto che c’è chi definisce «scandalosi» i suoi prezzi. A Managua lo chiamano “don Alessio”, che non ha mai fatto un giorno di carcere per aver ucciso Girolamo Tartaglione, allora direttore generale degli affari penali del ministero della Giustizia.
Cesare Battisti, la storia della fuga del terrorista. Dal 2004 ad oggi le tappe della latitanza, tra fughe, arresti e scarcerazioni, del terrorista di estrema sinistra che si trova in Brasile, scrive Maurizio Tortorella il 29 ottobre 2017 su Panorama. Cesare Battisti va arrestato perché sussite il pericolo di fuga. E' la decisione, non troppo clamorosa, presa dai giudici brasiliani e che avvicina il momento dell'estradizione del latitante in Italia. Una mossa, la prima, che segue le dichiarazioni del neo Presidente del Brasile, Bolsonaro, da sempre favorevole all'estradizione del terrorista.
La fuga in Brasile. Approdato in Brasile nel 2004, il terrorista italiano è stato protetto per tutto questo tempo da una lobby condotta a livello internazionale da esponenti della cultura di sinistra. Quella stessa "gauche caviar" che a Parigi nel 1990 lo aveva accolto a braccia aperte grazie alla "dottrina" ispirata dal presidente Francois Mitterrand, il presidente che fu il teorico della difesa dei nostri terroristi rossi perché a suo dire inseguiti dalla brutalità giudiziaria italiana.
Le tappe della latitanza. In Brasile, quattro anni dopo il suo arrivo, nel 2009 Battisti era stato però “tradito” proprio dal Supremo tribunal federal, che in quel caso aveva autorizzato la sua estradizione. Otto anni fa la decisione dei giudici brasiliani era stata comunque pilatesca: la corte aveva infatti lasciato l'ultima parola all'allora presidente Luiz Inacio Lula da Silva. E il 31 dicembre 2010, proprio nel suo ultimo giorno di mandato, Lula aveva concesso a Battisti lo status di rifugiato politico, bloccando l'estradizione. Il ministro della Giustizia di Lula, Tarso Genro, un esponente trotzkista del Partito dei lavoratori, aveva giustificato quel passo clamoroso con "il fondato timore" che l’Italia avesse ordito "una vera persecuzione" nei suoi confronti. A nulla era servita, allora, l’indignata protesta esercitata dal governo di centrodestra, guidato da Silvio Berlusconi: Lula era stato irremovibile. La situazione non era cambiata nemmeno sotto la nuova presidente del Brasile, Dilma Rousseff, che l'8 giugno 2011 (in questo caso in pieno accordo con i magistrati) aveva negato una seconda volta l'estradizione, sostenendo che in Italia Battisti avrebbe potuto "subire persecuzioni a cause delle sue idee". Poi le cose sono molto cambiate dal punto di vista politico. L'ex presidente brasiliano, il centrista Miguel Temer che nell’agosto 2016 ha preso il posto della Roussef dopo la sua rovinosa caduta per via giudiziaria, il 12 ottobre scorso aveva annunciato la revoca dello status di rifugiato concesso a Battisti da Lula, e poi aveva pubblicamente dichiarato che dovrebbe essere estradato al più presto in Italia. Alla causa politica del terrorista non ha giovato la crisi del Partito dei lavoratori, la sinistra di governo la cui credibilità negli ultimi anni è stata fiaccata dalle ripetute Tangentopoli brasiliane. E ad alienargli le simpatie della politica brasiliana hanno contribuito probabilmente anche i suoi atteggiamenti polemici: le interviste, irritanti e spavalde, e soprattutto il tentativo di fuga in Bolivia del 4 ottobre (anche se Battisti nega di aver mai voluto espatriare di nascosto), che ha portato a un suo breve arresto. Ma una cosa è la politica, un'altra è la giustizia: c'è anche un altro elemento che potrebbe giocare a favore del latitante, ed è la lettera indirizzata dalla sua compagna al Supremo tribunal federal, nella quale la donna ha ricordato che l'estradizione priverebbe del padre il figlio, di soli 4 anni.
La fine di Lula, arriva Bolsonaro. La svolta arriva con le elezioni presidenziali del 2018. Il candidato della destra, Bolsonaro, fin da subito promette al Governo italiano che in caso di successo alle elezioni uno dei primi provvedimenti sarà proprio l'estradizione del terrorista in Italia. 14 dicembre 2018. Parte l'ordine di arresto per Cesare Battisti dato l'esistente "pericolo di fuga".
· "Ho sonno, datemi la coperta". Quelle richieste di Battisti dopo l'arresto.
“LA LOTTA ARMATA? NON È VALSA LA PENA”. Mauro Favale per “la Repubblica” il 10 settembre 2019. «C'è qualcuno oggi che può onestamente dire che la lotta armata era da fare, che ne sia valsa la pena?». La domanda retorica è il passaggio chiave di una "Lettera ai compagni" che dal carcere di Massama, a Oristano, dove è rinchiuso da otto mesi, Cesare Battisti, ex membro dei Proletari armati per il comunismo, consegna a una rivista letteraria on line "di movimento", "Carmilla". È la prima volta da quando è stato arrestato che l' ex fuggitivo (37 anni di latitanza passati tra la Francia e il Sud America), fermato dall' Interpol a Santa Cruz de La Sierra, Bolivia, lo scorso 12 gennaio, decide di parlare. Lo fa con chi, Carmilla appunto, più volte negli ultimi anni ha preso le sue parti, provando a smontare inchieste e processi conclusi con la condanna all' ergastolo per il terrorista accusato di aver partecipato o commesso quattro omicidi (il maresciallo Antonio Santoro, il gioielliere Pierluigi Torregiani, il negoziante Lino Sabbadin e l' agente della digos Andrea Campagna) alla fine degli anni '70. Una lettera nella quale Battisti si rivolge a chi, nella galassia della sinistra più radicale e movimentista, aveva criticato le dichiarazioni che aveva reso a marzo davanti al coordinatore del pool antiterrorismo di Milano, Alberto Nobili e al capo della Digos del capoluogo lombardo, Cristina Villa. «Mi si chiede, era veramente necessario assumermi le responsabilità politiche e penali? Mi chiedo quale necessità muove coloro che si pongono questa domanda », scrive oggi. Al procuratore di Milano, in un interrogatorio in carcere di 9 ore, Battisti aveva ammesso i 4 omicidi che gli sono stati imputati anche nella speranza di poter accedere (non prima di 10 anni, quando ne avrà 74) ai primi permessi premio. Ma intanto, seppur in una vicenda giudiziaria tutta in salita (il suo legale, Davide Staccanella, sta provando a commutare l' ergastolo in una condanna a 30 anni di reclusione), l' ex terrorista, già scrittore di romanzi noir, ci tiene a rivolgersi al suo mondo per sfatare il «mito Battisti », creato apposta, scrive «per abbatterlo. «Questo si capisce e ha una logica feroce. Quello che non si capisce è il mito ripreso anche dai compagni, un buon mito da sventolare in nome della lotta rivoluzionaria. Poco importa che quel mito sia fatto di carne e ossa, che non ne possa più di essere martirizzato, martire da agitare secondo i gusti da un lato o dall' altro della barricata». Per questo, dunque, Battisti decide di parlare con il magistrato, «perché se non smitizzavo il mostro, se non dicevo che sono appena umano, allora sarebbe stato meglio se mi avessero scaraventato subito giù dall' aereo di Stato». «È una lettera molto franca - afferma l' avvocato Staccanella - nella quale Battisti spiega di non voler più essere un vessillo, tirato da una parte o dall'altra. Per il resto, nella sua deposizione non c' è stato alcun atteggiamento di delazione». E, in effetti, al procuratore di Milano l'ex terrorista ha parlato solo di se stesso, senza fornire indicazioni su chi, nel corso di 37 anni, abbia coperto la sua latitanza. Nella lettera, allora, si concentra sugli ultimi 15 anni, dal febbraio 2004, quando venne arrestato in Francia, fino ad oggi: «Sono stati un inferno continuo, tra anni di carcere, arresti rocamboleschi, enorme dispendio di energia personale e di forze solidali». Poi, prima dei saluti («Un abbraccio a chi lo vuole») promette un' appendice alla sua lettera: «Se incoraggiato, posso raccontare in seguito i retroscena di Ciampino», di quando fu accolto dai sorrisi a favore di telecamere dei ministri dell' Interno e della Giustizia, Matteo Salvini e Alfonso Bonafede.
"Ho sonno, datemi la coperta". Quelle richieste di Battisti dopo l'arresto. Il terrorista dei Pac dopo l'arrivo in caserma ha chiesto un divano per dormire. Poi le lacrime davanti agli agenti, scrive Luca Romano, Lunedì 14/01/2019 su "Il Giornale". La fuga di Cesare Battisti è finita. Il terrorista dei Pac adesso è su un volo dei servizi italiani che lo sta riportando in Italia dopo la cattura in Bolivia per le vie di Santa Cruz. L'urlo del poliziotto resterà a lungo nella testa di Battisti: "Cesare fermati!". Poi, senza opporre resistenza, il terrorista capisce che la fine della sua fuga è arrivata. In tasca, al momento dell'arresto, Battisti ha solo qualche spicciolo, l'equivalente di tre euro. Appena arriva in caserma fa una richiesta precisa: "Ho sonno, avete una coperta?". Si stende su un divano nella sala comune dei poliziotti dove vedono le partite e pranzano caricando i cellulari. Come riporta il Corriere di fatto Battisti si riposa dopo una latitanza durata anni. La polizia era sulle sue tracce da Natale e dopo qualche avvistamento è arrivato il momento del blitz. Tra i dettagli che l'hanno tradito c'è anche quella sua assidua frequentazione delle pizzerie. Consumava prima della cattura pranzi e cene a base di pizza in diversi locali di Santa Cruz. Da lì sono inziate le ricerche senza sosta degli agenti. L'altro tallone d'Achille del latitante è stato l'alcol. Fiumi di birra bevuti nell'attesa di un'altra fuga per evitare la cattura. Fondamentalmente Battisti era solo. Non aveva guardie del corpo o qualcuno armato pronto a difenderlo. Battisti ha capito in pochi istanti che nessuno avrebbe tentato gesti eclatanti o avrebbe impugnato le armi per farlo uscire dalla caserma della polizia. Gli agenti lo hanno visto piangere. Le ultime lacrime di un delinquente che ha da troppo tempo un conto in sospeso con la giustizia italiana.
Emilio e Giuseppe, i due italiani che l'hanno seguito e catturato. Tradito da mail e telefonate. «In codice era detto il cantante», scrive Fausto Biloslavo, Lunedì 14/01/2019, su "Il Giornale". Emilio e Giuseppe, i due agenti italiani, sono appostati in macchina sul bordo della strada di un quartiere a Santa Cruz de la Sierra, popolosa città della Bolivia. E filmano Cesare Battisti, che cammina un po' ciondolando sul marciapiede costellato di negozi. Il super latitante è mezzo camuffato con una barbetta a pizzetto, occhiali scuri, maglietta nera senza maniche e pantaloni blu. Sembra assolutamente tranquillo, anche se un po' barcollante forse per gli effetti di una sbronza. «Da qualche giorno avevamo ristretto la zona di ricerche a un quartiere di Santa Cruz grazie alle intercettazioni telematiche, ma non eravamo ancora riusciti ad individuare il fuggitivo» spiega a il Giornale una fonte del Viminale che conosce l'operazione. «Poi nel pomeriggio inoltrato di sabato Battisti è stato notato che passeggiava e i nostri poliziotti l'hanno filmato - continua la fonte - Il video è servito a fare un riscontro facciale grazie all'arcata delle sopracciglia e altri tratti somatici. Alla fine dei riscontri, che non sono durati molto, abbiamo dato il via libera ai boliviani per arrestarlo». Sabato verso le 20 (l'una di notte in Italia) è finita la latitanza dell'ex terrorista dei Proletari armati per il comunismo, che durava da 37 anni. Agli agenti boliviani Battisti ha risposto in portoghese mostrando un documento brasiliano con il suo nome. In tasca aveva l'equivalente di un dollaro e mezzo e puzzava di alcol. Nelle foto scattate al comando della polizia locale la primula rossa sembra rispondere con un ghigno, ma in uno scatto si vede il volto tagliato a metà per non venire riconosciuto di uno degli italiani protagonisti dell'arresto. Un agente della Criminalpol, che indossa il giubbotto scuro senza maniche con lo stemma dello Scip, il servizio per la Cooperazione internazionale. L'altro agente italiano coinvolto nella cattura fa parte della centrale dell'Antiterrorismo a Roma. I due poliziotti italiani non mollano un attimo Battisti da quando è stato ammanettato. L'operazione segreta che ha portato alla cattura del super latitante ha coinvolto anche l'intelligente. La fase cruciale guidata come attività investigativa dalla Digos di Milano in sintonia con la Procura è entrata nel vivo lo scorso ottobre in collaborazione con l'Aise, i servizi segreti per l'estero. «Da una settimana stavamo stringendo il cerchio attorno a Battisti a Santa Cruz. Dopo essere sparito dal Brasile ha avuto più luoghi di dimora, ma alla fine lo abbiamo rintracciato in base ad alcuni spostamenti. La sua rete di appoggio lo ha sicuramente aiutato, ma pure favorito il nostro lavoro di pedinamento» spiega la fonte de Il Giornale. Una filiera composta da personaggi di sinistra e altri soggetti che Battisti ha conosciuto negli anni della latitanza. Grazie a un sistema sofisticato di intercettazione e monitoraggio su computer, tablet e telefoni di mail, chiamate e accessi a internet, Battisti è stato individuato in Bolivia, anche se usava di continuo cellulari usa e getta. Prima lo hanno segnalato a La Paz, la capitale, e poi in quattro punti distinti di Santa Cruz. La squadra italiana sarebbe già arrivata a Natale nel paese sudamericano. Il 21 dicembre, rivela un'altra fonte del Giornale coinvolta nella caccia, Battisti ha «presentato una richiesta di asilo alla Commissione nazionale per i rifugiati e i boliviani ci hanno avvisato». Almeno una trentina di uomini in Italia e all'estero lavoravano sul caso da mesi. «È stata sempre mantenuta la segretezza per evitare false speranze ai parenti delle vittime e allertare Battisti - spiega la fonte - Fra di noi lo chiamavamo il cantante, dato che ha lo stesso cognome di un famoso cantautore». Nel giugno scorso a una riunione dell'Interpol a Lione, alti funzionari del Viminale si incontravano con il capo della polizia brasiliana, Rogério Galloro, di origine italiane. Il 15 ottobre veniva sollecitata tramite l'Interpol «la massima attenzione ad eventuali tentativi di allontanamento del latitante» dal Brasile e allertati i Paesi confinanti. «Purtroppo la polizia brasiliana si è fatta sfuggire Battisti - spiega una delle fonti de Il Giornale - ma la squadra di agenti italiani arrivata nel Paese in novembre ha raccolto delle informazioni importanti, che ci hanno permesso poi di individuarlo in Bolivia».
Cesare Battisti, la vergogna politica dietro la fuga del terrorista: chi l'ha scortato con l'auto blu, scrive il 16 Gennaio 2019 Libero Quotidiano. A proteggere Cesare Battisti nel corso degli ultimi anni di latitanza tra Brasile e Bolivia non c'era solo la rete di fiancheggiatori, anche in Italia, che gli forniva informazioni e ripari. Il livello di amicizie di cui poteva godere il terrorista dei Pac era altissimo, secondo fonti della polizia boliviana sentite dal Corriere della sera. Ben prima dell'ultima latitanza in Bolivia, gli agenti boliviani assicurano che Battisti poteva circolare a bordo di macchine di colore scuro, con i lampeggianti, prive di insegne e sirene. Erano veicoli appartenenti a politici e funzionari di La Paz, il che confermerebbe i sospetti sui legami di Battisti non solo con certi ambienti criminali, ma anche politici. Contatti di peso, abbastanza da permettergli di progettare una fuga in Venezuela a bordo di un piccolo aereo da turismo. La partenza per il Venezuela, secondo la polizia boliviana, si sarebbe resa necessaria perché Battisti non riteneva più adeguata la protezione fornita dalla mala boliviana, fatta soprattutto di criminali poco avvezzi a un caso delicato e scottante come il suo. Resta ora il pericolo di ritorsioni, soprattutto per gli agenti boliviani che hanno aiutato la polizia italiana nella caccia a Battisti. Ma c'è ancora chi vuole andare fino in fondo a questa faccenda e svelare tutta la rete di fiancheggiatori che ha protetto il terrorista, a costo della vita.
Cesare Battisti, parla l’agente che l’ha catturato: «Ho lasciato mia figlia in auto e ho puntato la pistola su di lui». L’agente boliviano che lo ha preso: c’erano due colombiani, temevo fossero con lui, scrive Andrea Galli il 16 gennaio 2019 su "Il Corriere della Sera". Alle spalle, sui sedili posteriori della macchina, la figlia di pochi anni. Davanti, sul marciapiede, Cesare Battisti. In mezzo, la strada e uno scenario da inventare per liberare l’area e fermare il terrorista. «Ho guardato intorno, c’erano due ragazzi in motocicletta, mi sono qualificato, ho ordinato di mettersi di traverso e bloccare il traffico. Quando li ho identificati, perché non potevo permettermi il lusso di sbagliare, e ho scoperto che erano colombiani, allora ho pensato: che idiota, sono due sicari che proteggono Battisti... Adesso uccidono me e poi mi uccideranno la bambina». Quei due non erano al soldo di nessuno. Hanno eseguito. E lui, il protagonista della cattura, un agente boliviano, ha avvicinato il terrorista e gli ha puntato in faccia la pistola, una Beretta calibro 9 da quindici colpi. Una pallottola era già in canna. E quella non era l’unica arma in dotazione. «Giriamo con tre pistole. In Bolivia, per i poliziotti, è una gara a chi sopravvive più a lungo. O meglio, a chi non viene ucciso prima». Eccoli, gli uomini agli ordini del colonnello Paùl Saaveda. Il comandante e tre poliziotti. Compongono la squadra Interpol che ha aiutato i colleghi italiani a rintracciare Battisti. Queste sono le loro voci affidate al Corriere. Tre settimane di caccia. Un tempo che, in Sudamerica, è considerato «enorme». Domandiamo al colonnello che cosa abbia detto alla truppa: «Mi sono complimentato e ho aggiunto due cose. La prima: adesso tornate a casa dalle vostre famiglie. La seconda: da domani ricominciamo il lavoro interrotto... Dobbiamo recuperare». Storie per lo più di narcotrafficanti. Come l’ultima operazione firmata dai ragazzi di Saaveda, marito e moglie peruviani mercanti di cocaina, scappati in Bolivia. Ci sono persone che si stanno prendendo enormi meriti per la cattura del terrorista, e non sempre ne hanno avuti per davvero. Ma va così. E a maggior ragione è giusto ricordare questi poliziotti boliviani, dei quali gli italiani lodano la capacità di aver studiato i metodi dei nostri investigatori che sconfissero il terrorismo, e l’attitudine a non volersi inventare per forza degli effetti cinematografici: operano soprattutto con i pedinamenti e gli informatori, la conoscenza del territorio e la suola delle scarpe. Sbirri semplici e veri. Sanno, i boliviani, d’aver fatto un gran colpo, ma come precisa uno dei tre della truppa, «per noi Battisti era un assassino da scovare. Punto. Non ci è mai interessato il resto: le coperture in Italia e Francia, le amicizie politiche, il movimento degli intellettuali... Quando uno ha ammazzato, non servono i dibattiti». Il terrorista ha parlato a lungo, con l’Interpol boliviana. E ha ripetuto un messaggio minaccioso. Nella caserma di avenida Mutualista, il terrorista ha detto agli agenti: «Benissimo, mi avete arrestato. Ma adesso, la mia questione diventerà una questione di Stato. Non più vostra». Spavaldo come al solito. Ma affamato. «Insisteva che aveva saltato il pranzo, allora siamo usciti e abbiamo comprato del pollo e delle empanadas... Ha mangiato velocemente, ne voleva subito delle altre». L’azione della squadra di Saaveda è terminata con le manette a Battisti. Da «regolamento», questa squadra riceve la missione e la completa. Ma c’è ancora parecchio da setacciare. Spetterebbe ad altri investigatori farlo, e non è scontato che la Bolivia voglia continuare. Anzi. Il terrorista aveva a disposizione almeno quattro appartamenti. Uno è direttamente collegato a un partito politico. Quell’alloggio non è stato mai perquisito.
Carta di credito e memorie: il kit della fuga di Battisti, scrive il 14 gennaio 2019 Matteo Carieletto su ""Gli Occhi della guerra" de "Il Giornale". Cesare Battisti aveva riposto le ultime speranze nella Bolivia. Qui, ancora una volta, sperava di farla franca, grazie all’amicizia con il vicepresidente Álvaro García Linera. Sperava di ottenere asilo, ma così non è stato e La Paz gli ha voltato le spalle, molto probabilmente per convenienza politica. Nessuno ormai vuole il terrorista dei Pac. Né il Brasile di Jair Bolsonaro né la Bolivia di Evo Morales. Ormai Battisti è un peso e la sua storia, iniziata 37 anni, deve finire per sempre. Battisti, come è noto, non è stato arrestato in Brasile, ma in Bolivia è quella che doveva essere la sua ancora di salvezza si è poi dimostrata un boomerang, come ha spiegato Raffaele Piccirillo, che fino a giugno 2008 ha ricoperto l’incarico di capo del dipartimento Affari di Giustizia del ministero e ha seguito il caso: “L’espulsione diretta dalla Bolivia verso l’Italia di Cesare Battisti fa sì che l’accordo di estradizione con il Brasile che l’Italia accettò nell’ottobre del 2017 e che prevedeva un tetto sanzionatorio di 30 anni non valga più”. E ancora: “Noi accettammo quelle condizioni – ha affermato Piccirillo all’Agi – perché anche il nostro sistema giudiziario prevede una serie di benefici per gli ergastolani. A questo punto, però, Battisti ci viene restituito dalla Bolivia, attraverso un’espulsione di tipo amministrativo e nel momento in cui arriva in Italia quella condizione non opera più. È come se Battisti fosse stato catturato in una via di Milano”. Quando la polizia lo ha trovato, si è trovata davanti un Battisti inaspettato. Incapace di opporre qualsiasi resistenza. Il terrorista aveva con sé un documento d’identità brasiliano e a nulla è valso il pizzetto che gli nascondeva il volto né gli occhiali da sole calati sul naso. Grazie ai documenti diffusi da Wikilao, sappiamo cosa aveva in tasca Battisti al momento dell’arresto: una tessera sanitaria nazionale, una carta di credito del Banco do Brasil (bloccata, ma su cui forse sperava di fare ancora affidamento), cinque fotografie, otto fogli manoscritti e una banconota. L’attenzione ora è tutta sulla carta di credito, l’adagio “segui i soldi” diventa in questo caso ancora più fondamentale, e sui manoscritti. Che cosa ha vergato sui quei fogli Battisti? Sapeva che non aveva via di fuga e così aveva preparato dei messaggi da lasciare alla sua rete? Un ulteriore mistero in questa intricata vicenda.
Cesare Battisti, l'ipotesi: venduto perché non ha onorato un prestito? Scrive il 14 Gennaio 2019 Libero Quotidiano. Dopo 37 anni, intorno alle 12.30, è previsto l'arrivo in Italia, a Fiumicino, del terrorista Cesare Battisti: la sua fuga infinita si è spenta in Bolivia, dove si era rifugiato alla caccia dell'asilo dopo che il Brasile di Jair Bolsonaro aveva deciso di consegnarlo all'Italia. Le autorità sapevano che si trovasse proprio in Bolivia, ma rintracciarlo e catturarlo non è stato semplice. Ci è riuscita una task force dell'Interpol composta da italiani, brasiliani e boliviani soltanto poche ore fa. Ma cosa ha tradito, il terrorista rosso Battisti? Non solo le tracce elettroniche, i contatti con l'Italia e le reti wi-fi. Secondo quanto riporta il Corriere della Sera, Battisti - condannato a due ergastoli in Italia per quattro omicidi - potrebbe essere stato in una qualche misura anche venduto. Si suppone che abbia cercato rifugio nei villaggi più pericolosi della Bolivia, quelli più difficili da raggiungere e dove le persone, spaventate da ciò che le circonda, semplicemente non chiedono nulla. Battisti è stato sorpreso con pochi spicci in tasca, un paio di dollari: l'ipotesi è che l'assenza di soldi avesse iniziato a tormentarlo. Proprio come potrebbe essere stato tormentarlo da chi gli aveva concesso dei prestiti in passato, poi non onorati. Dunque, l'ipotesi, è che qualcuno di questi possa averlo venduto, vendicandosi fornendo importanti informazioni a chi gli dava la caccia. Informazioni che hanno permesso di catturarlo: non aveva né guardie armate né un documento falso. E quando ha capito che per lui dopo quasi 40 anni di impunità era finita, riferiscono dei testimoni, per due volte, solo, si è messo a singhiozzare.
Cesare Battisti sarà assistito dall'avvocato Davide Steccanella: chi ha difeso prima del terrorista, scrive il 15 Gennaio 2019 "Libero Quotidiano". Cesare Battisti ha scelto per la sua tutela l'avvocato Davide Steccanella, prestigioso penalista del foro di Milano, ed esperto di terrorismo rosso e degli anni di piombo. Steccanella è anche un saggista e uno scrittore, autore tra gli altri volumi anche di libri come "Gli anni della lotta armata. Cronologia di una rivoluzione mancata". L'avvocato Steccanella è stato anche difensore del bandito Renato Vallanzasca, storico boss della banda della Comasina, oltre ad aver assistito l'ex terrorista di Prima linea, Mario Ferrandi, nella richiesta di riabilitazione.
Cesare Battisti, la disperata richiesta al direttore del carcere: "Posso tenerla?", scrive il 16 Gennaio 2019 "Libero Quotidiano". Dopo 37 anni di latitanza e impunità, per Cesare Battisti si sono spalancate le porte del carcere di Oristano: il terrorista dei Pac dovrà scontare due ergastoli. Una volta arrivato in cella, parlando col direttore della struttura, ha in qualche misura (comunque inaccettabile) ammesso la sua colpevolezza: "Vede direttore - avrebbe affermato -, io non mi dichiaro innocente, non rinnego affatto il mio passato, ma non mi accollo neppure tutto quello di cui mi accusano. Non mi sento l'infame, la belva che descrivono. Sono stato condannato in contumacia, senza che mi potessi difendere. Questo ha un peso". Scorda però di dire che non ha potuto difendersi perché è fuggito dall'Italia, dunque dalla giustizia. Ma non solo. Dal penitenziario di Oristano sono filtrate anche indiscrezioni su Battisti. In particolare su quella che sarebbe stata una delle poche richieste avanzate dall'assassino. Con sé, Battisti, aveva la fotografia di uno dei suoi figli, che è stata trovata nel corso della prima perquisizione dopo la cattura. "Posso tenerla?", ha chiesto Battisti. La prassi non lo consentirebbe, ma si apprende che la foto è stata presa in consegna dalla polizia penitenziaria insieme ai pochi effetti personali e sarà tenuta da parte. Ora Battisti si trova in cella da solo, in regime di alta sicurezza e sotto stretta sorveglianza, anche per evitare che commetta atti di autolesionismo o tenti il suicidio. In cella ha una tv e l'occorrente per scrivere e ha diritto a quattro ore d'aria al giorno. Per sei mesi sarà in isolamento diurno.
L’inizio della fine di Cesare Battisti: come viveva mentre era braccato, scrive Giovanni Giacalone il 15 gennaio 2019 su "Gli Occhi della Guerra" de "Il Giornale". L'”inizio della fine” della latitanza boliviana di Cesare Battisti comincia a Santa Cruz de la Sierra, precisamente al residence Casona Azul, sulla Radial 21, una stradona dell’estrema periferia ovest della metropoli a poche centinaia di metri dal quarto anello di circonvallazione. Battisti è arrivato al residence la notte del 16 novembre a bordo di un Suv Toyota Rav4 color scuro accompagnato da un amico, un individuo descritto come alto, in carne e con i capelli corti e la pelle chiara, istruito, molto probabilmente un locale e unico soggetto che ha più volte visitato il latitante durante il suo breve soggiorno al residence; è stato proprio questo suo amico a fare il check-in per poi allontanarsi e lasciare la stanza a Battisti che viaggiava con bagaglio leggero. Battisti parlava poco lo spagnolo, preferiva il portoghese e aveva detto di essere un imprenditore brasiliano attivo nel ramo dell’edilizia, usciva molto poco dal residence e passava gran parte del tempo a leggere i giornali. Una volta si è recato al mercato a fare acquisti e poi ha cucinato per lo staff del residence. Il 5 dicembre, giorno della partenza, si è presentato un altro individuo a prendere Battisti, un ragazzo boliviano sulla ventina, sempre a bordo del Rav4. Il latitante aveva detto allo staff del residence che sarebbe tornato a gennaio e in effetti così è stato visto che veniva individuato e arrestato il 12 gennaio sempre a Santa Cruz de la Sierra e a meno di due chilometri dal residence, nel barrio di Ubarì. Questa volta però l’ex brigatista non ha soggiornato alla Casona Azul, non risulta ancora chiaro quando sia arrivato per la seconda volta a Santa Cruz e dove abbia alloggiato gli ultimi giorni, è però noto che tra il 5 e il 7 gennaio il cellulare di Battisti veniva individuato a La Paz, nei pressi di plaza 21 Diciembre. Resta inoltre da chiarire chi fossero i misteriosi due uomini che lo hanno accompagnato in quei giorni di permanenza al residence di Santa Cruz de la Sierra a cavallo tra novembre e dicembre. Al momento dell’arresto, Battisti aveva pochi soldi in tasca e ciondolava per le vie di Ubarì, ignaro del fatto che gli agenti italiani gli fossero alle calcagna; il resto è ben noto. Battisti si era orientato da subito verso la Bolivia nella speranza di trovare protezione da parte di uno dei pochi governi di sinistra rimasti in America Latina. La metropoli di Santa Cruz de la Sierra sembrava il luogo ideale, con le sue quattro grandi circonvallazioni e i suoi due milioni di abitanti, ma così non è stato.
"Ho fatto evadere Battisti e vi dico perché non rimarrà in carcere a lungo". L'ex membro di Prima Linea che fece parte del commando per l'evasione di Cesare Battisti: "Troverà una scusa. Secondo me non starà molto in cella", scrive Bartolo Dall'Orto, Lunedì 14/01/2019, su "Il Giornale". I parenti delle vittime si aspettano di vederlo presto, e a lungo, nelle patrie galere. Il governo lo ha promesso e nulla dovrebbe ostacolare per Cesare Battisti l'apertura delle porte di una cella. C'è un però: quanto durerà la carcerazione? Il terrorista dei Pac sconterà tutta la pena (l'ergastolo) oppure un giorno, presto o tardi, otterrà un qualche sconto che gli riconsegnerà la libertà? C'è qualcuno che è sicuro la carcerazione di Battisti, dopo la cattura in Bolivia, non durerà per sempre. Si tratta di Pietro Mutti, ovvero l'uomo che aiutò il terrorista ad evadere dal carcere di Frosinone prima di far perdere le sue tracce in giro per il mondo. 38 anni di latitanza grazie (anche) a quella rocambolesca fuga del 4 ottobre del 1981. "Battisti ha vissuto tutta la sua esistenza fuori, tranquillo. Da personaggio pubblico, in Francia e in Brasile. Adesso, a 64 anni, se ne può andare in carcere a scrivere i suoi libri", dice l'ex membro di Prima Linea. A La Verità, Mutti racconta quei momenti dell'evasione di Battisti. Il commando, le pistole, l'irruzione al carcere di Frosinone e la fuga prima in auto, poi con un furgone e infine in treno verso Roma. Qualcuno ospitò il terrorista prima della sua fuga verso l'Europa. Ma non è tanto il racconto di quella evasione a colpire. Sono le parole di Mutti sul futuro da carcerato di Battisti: "Questa storia doveva finire tanto tempo fa - dice - Il periodo delle provocazioni è finito, ora Battisti si faccia la sua galera e non rompa le scatole. Anche se non credo che andrà così". Ne è convinto: "Vedrà che troverà una scusa - spiega a La Verità - Secondo me non starà molto in cella. Addurrà motivi di salute. Logicamente qualche anno lo sconterà, ma di sicuro non è il tipo che morirà in gabbia".
Battisti, al via udienza a Milano. La difesa: "Ergastolo inapplicabile". In Corte d'Appello l'incidente di esecuzione: i giudici dovranno decidere se accogliere la richiesta di commutare a 30 anni di carcere la pena che l'ex terrorista, estradato dalla Bolivia a gennaio, sta scontando a Oristano, scrive il 18 marzo 2019 La Repubblica. Si è aperta a Milano la prima udienza dell'incidente di esecuzione richiesto dalla difesa di Cesare Battisti, l'ex terrorista che dopo la cattura in Bolivia sta scontando l'ergastolo nel carcere di Oristano. I legali di Battisti chiedono di commutare il carcere a vita in 30 anni di reclusione sulla base dell'unico accordo di estradizione valido, secondo la difesa, ossia quello del 2009 tra Italia e Brasile, Paese in cui non è previsto il carcere a vita. Per prima cosa i giudici della Corte d'Appello dovranno decidere sull'applicazione o meno dell'isolamento diurno per 6 mesi, al quale l'ex esponente dei "Proletari armati per il comunismo" è già sottoposto in Sardegna: è stato deciso infatti di stralciare questa parte, la decisione è attesa già nei prossimi giorni. La Corte è presieduta da Giovanna Ichino, che quasi 40 anni fa fu relatrice nella Corte milanese della prima sentenza sui Pac. L'istanza di commutazione della pena da ergastolo a 30 anni è stata presentata nelle scorse settimane. Da qui l'incidente di esecuzione davanti alla Corte e le dichiarazioni dei giorni scorsi dell'ex terrorista al magistrato di Sorveglianza di Cagliari per ricostruire i momenti della sua consegna all'Italia. Battisti ha spiegato che il 14 gennaio scorso si stava imbarcando, dopo l'arresto in Bolivia, salendo "la scaletta" di un aereo "della polizia federale brasiliana", dopo essere stato preso in carico da "sette agenti" brasiliani, ma poi "c'è stato un conciliabolo" tra loro e gli agenti boliviani. Alla fine l'aereo brasiliano è ripartito "senza di me" e sono poi arrivati i poliziotti italiani. Un passaggio dell'arrestato che sarebbe avvenuto con modalità che, per il suo legale, l'avvocato Davide Steccanella che lo assiste con Gianfranco Sollai, "confermano che si è trattato di una mera consegna diretta alla polizia italiana di soggetto estradato dal Brasile" e, dunque, va applicata "quell'estradizione, perché non penso che lo Stato italiano possa eseguire una pena nei confronti di chi è stato condannato per avere violato la legge, senza a sua volta rispettarla". Proprio per la necessità di avere "una chiara idea di come si sviluppa" la decisione di trasferire in Italia Battisti, residente in Brasile e arrestato in Bolivia, la Corte ha accolto la richiesta della difesa di nominare un perito per la traduzione dal portoghese all'italiano degli atti, tra cui "il decreto di espulsione, il parere dell'avvocato generale e alcune pagine del provvedimento di estradizioni". Per la traduzione potrebbero essere necessari fino a tre mesi.
Erri De Luca: "Cesare Battisti è stato rapito, non estradato". Lo scrittore torna sull'arresto dell'ex terrorista: "Se fosse tornato in Brasile non avrebbero potuto mandarlo in Italia", scrive il 9 marzo 2019 La Repubblica. "Battisti? Si tratta di un rapimento, non di un'estradizione". Così lo scrittore Erri De Luca ha commentato con l'Adnkronos l'arresto in Bolivia dell'ex terrorista dei Proletari armati per il comunismo, Cesare Battisti. Chiamato in causa a proposito dell'appello che avrebbe scritto in favore del terrorista, De Luca ha detto: "Non ho firmato nessun appello, signor no. E' una falsa notizia che circola, come tante, e la rete ne ha decretato la verità, una sentenza senza appello". Ancora lo scrittore: "Regolarmente, diciamo un paio di volte per decennio, in Italia spunta qualcuno che vuole acciuffare dei dispersi, dei fuggitivi all'estero, per usarli come trofeo: poterlo esibire, fare la foto con l'ammanettato fa parte della coreografia della messa in scena. Ma - ha sottolineato - nel caso di Battisti si tratta di un rapimento, non di un'estradizione: è stato prelevato in Bolivia mentre era in attesa di ricevere asilo e avrebbe dovuto essere riportato in Brasile. Invece lo hanno inviato in Italia perché se lo avessero riportato in Brasile sarebbero incorsi in quella difficoltà che il Brasile ha: non può estradare persone condannate all'ergastolo. Dunque, lo hanno rapito - osserva De Luca -. Uno scippo, va, con gli scippatori che sono andati a farsi fotografare con lo scippato".
Il verbale di Cesare Battisti: "Io consegnato dai brasiliani agli italiani". L'ex terrorista è stato sentito nel carcere di Oristano. Legali pronti a presentare istanza contro l'ergastolo: lunedì la decisione, scrive il 15 marzo 2019 La Repubblica. Si stava imbarcando, dopo l'arresto in Bolivia, salendo "la scaletta" di un aereo "della polizia federale brasiliana", dopo essere stato preso in carico da "sette agenti" brasiliani, ma poi "c'è stato un conciliabolo" tra loro e gli agenti boliviani e alla fine l'aereo brasiliano è ripartito "senza di me" e sono poi arrivati i poliziotti italiani. Così Cesare Battisti nel primo verbale reso ieri nel carcere di Oristano, dopo la latitanza durata quasi 40 anni, ha raccontato la sua "consegna". Battisti, infatti, è stato sentito ieri nel carcere di Oristano dal magistrato di Sorveglianza di Cagliari, in vista dell'incidente di esecuzione che si terrà lunedì prossimo davanti ai giudici della Corte d'Assise d'appello di Milano. "Le modalità riferite dal detenuto - ha spiegato l'avvocato Davide Steccanella, che lo assiste col legale Gianfranco Sollai - trasferito praticamente sulla pista di decollo dell'aeroporto da un aereo brasiliano ad uno italiano, confermano che si è trattato di una mera consegna diretta alla polizia italiana di soggetto estradato dal Brasile. Si impone - ha aggiunto - quindi l'applicazione di quell'estradizione, perché non penso che lo Stato italiano possa eseguire una pena nei confronti di chi è stato condannato per avere violato la legge, senza a sua volta rispettarla". Nelle scorse settimane, infatti, la difesa di Battisti ha depositato un'istanza di commutazione della pena dall'ergastolo a 30 anni, proprio sulla base dell'unico accordo di estradizione valido, secondo i difensori, ossia quello tra Italia e Brasile (nel Paese sudamericano non è previsto il carcere a vita). Da qui l'incidente di esecuzione e le dichiarazioni di ieri dell'ex terrorista ai magistrati per ricostruire i momenti della sua consegna all'Italia. In un'ulteriore nota, da poco depositata dalla difesa alla Corte assieme a tre memorie, si riassume così la fase della consegna: "giunto in aeroporto è stato raggiunto da sette agenti della polizia brasiliana e accompagnato fino alla scaletta dell'aereo brasiliano che si trovata sulla pista; mentre saliva la scala vi è stato un conciliabolo tra polizia boliviana e brasiliana e sono rientrati nella sala da dove erano usciti; quindi l'aereo brasiliano è ripartito senza di lui". Infine, "verso le 17 sono arrivati i poliziotti italiani che lo hanno imbarcato sull'aereo italiano che lo ha riportato in Italia". "Mi sono recato in Bolivia nel dicembre 2018 per incontrare dei colleghi per il progetto di un libro", ha spiegato Battisti. In Bolivia "mi sono trattenuto per Natale e Capodanno e sono stato arrestato il 12 gennaio". Sulle modalità della sua consegna Battisti ha detto di non aver mai ricevuto "spiegazioni".
Cesare Battisti, il piano per uscire di galera: ecco come e con l'appoggio di chi, scrive Tommaso Montesano il 16 Gennaio 2019 su Libero Quotidiano. Primo giorno di carcere per Cesare Battisti, nel penitenziario di massima sicurezza di Oristano, e strategia difensiva già delineata. «Ho 64 anni, sono malato, sono cambiato», ha detto l'ex terrorista dei Proletari armati per il comunismo - Pac - al direttore dell'istituto sardo. Battisti, che resterà in isolamento per i primi sei mesi, ha anche ricevuto la prima visita del suo legale, l'avvocato milanese Davide Steccanella. Il colloquio è durato poco più di un'ora. Battisti, ha riferito il penalista smentendo di fatto il suo assistito, sta «fisicamente bene. Come uno che ha avuto una giornata pesante». Niente di grave, quindi. Invece l'ex terrorista, di fronte al direttore del penitenziario, ha detto il contrario: «Mi dite in quale parte del mondo mi trovo? Ormai è tutto finito». Quanto alla sua vicenda giudiziaria, Battisti ha riconosciuto di «non essere innocente, ma nemmeno mi accollo tutto ciò di cui mi accusano». L'ex killer è stato sottoposto alla trafila che spetta a tutti i detenuti: è stato visitato, schedato dall' ufficio matricola e, dopo un colloquio con l'educatore, portato in cella. Ha cenato con pasta, carne, verdura e frutta. Poi ha trascorso la notte nel blocco AS2.
GLI APPELLI DEI COMPAGNI. Il contenuto dell'incontro con il direttore della prigione è stato riferito dall' ex presidente della Regione, Mauro Pili, secondo cui Battisti «pensa già a un centro clinico, che a Oristano non c' è. Quindi fuori dall' isolamento. Anche l'ex compagna dell'uomo, la 33enne Priscila Luana Pereira, ha insistito sulle condizioni di salute di Battisti: «Cesare è malato e la sentenza è molto dura. Credo che i difensori dei diritti umanitari chiederanno una riduzione di pena». Parole, unite a quelle dello stesso Battisti, che hanno provocato la reazione di Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia: «Dice di essere cambiato e malato. Adesso comincerà una predicazione pietosa volta ad ottenere benefici, sconti di pena, petizioni di amici sempre pronti alla firma e all' appello. È isolato o è in connessione con il pianeta? Lo facciano tacere una volta per tutte?». Non a caso in soccorso dell'ergastolano si è levata, sul Foglio, la voce di Adriano Sofri, l'ex leader di Lotta Continua condannato a ventidue anni di carcere quale mandante dell'omicidio del commissario Luigi Calabresi. «Gli agenti penitenziari lo vedranno giorno e notte, Battisti. Speriamo che siano più controllati del ministro», ha insinuato Sofri, che di fatto ha invertito i ruoli, trasformando Matteo Salvini in carnefice e l'ex terrorista in vittima. «Il carcere è il luogo più disadatto al vero pentimento. Il carcere è così disumano e cattivo e assurdo da attenuare fino a cancellare la stessa differenza fra innocenza e colpevolezza», ha scritto l'ex leader di Lc.
AGENTI INFURIATI. Parole che hanno provocato la reazione degli agenti della Polizia penitenziaria. «A Sofri vorrei ricordare che un pregiudicato non può mettersi nei nostri panni: lui la legge l'ha infranta, noi la facciamo rispettare», ha detto Donato Capece, segretario generale del Sappe. Intanto continuano ad emergere particolari sulla cattura di Battisti in Sudamerica. L'ex leader dei Pac ha capito che la sua latitanza era finita solo nel commissariato della polizia boliviana. All' inizio pensava che il fermo, in strada, fosse un controllo di routine. Poi, dopo aver visto la presenza di due poliziotti italiani, ha capito «per la prima volta di dover passare anni in carcere. Si è come accasciato sulla sedia. Era un uomo sconfitto, rassegnato». Tommaso Montesano
Perché Francia e Brasile hanno protetto Battisti (finora). A Parigi la propaganda della "gauche caviar". A Brasilia interessi politici e strumentalizzazioni. Oggi molto è cambiato, e forse verrà estradato, scrive Maurizio Tortorella il 6 ottobre 2017 su "Panorama". Nel 2009 il ministro brasiliano della Giustizia Tarso Genro, esponente trotzkista del Partito dei lavoratori che partecipava al governo di Luiz Inácio Lula, aveva negato l’estradizione e gli aveva concesso lo status di rifugiato “per il fondato timore di una persecuzione politica”. In quell'epoca, scrittori e intellettuali di mezzo mondo come Gabriel García Márquez, Fred Vargas, Daniel Pennac e Bernard-Henri Lévy facevano ancora appelli per lui. Persino Carla Bruni, all’epoca première dame di Francia, protestava la sua innocenza.
La protezione francese. Di certo nessuno di loro aveva nemmeno sfogliato le infinite carte processuali o le tante sentenze che condannano all’ergastolo per quattro omicidi Cesare Battisti, oggi 63 anni, definito dalle cronache come “ex terrorista”, un passato da criminale comune, ma anche giallista di fama, e assurdamente trasformatosi in icona della "gauche caviar" parigina. È stato anche per colpa di intellettuali, scrittori e della sinistra al caviale francese, se i governi di Parigi dal 1991 al 2004 hanno negato l’estradizione del quattro volte omicida. E ancora oggi nessuno riesce bene a comprendere perché la Francia sia stata tanto affettuosa con Battisti, che un pubblico ministero serio come Armando Spataro, proprio parlando con Panorama, una volta aveva definito “un assassino puro”. Gli ambienti parigini erano stati convinti, da una propaganda battente, che l’Italia degli anni Settanta fosse simile a una cajenna giudiziaria, dove una serie di leggi autoritarie e una magistratura da ghigliottina avevano fatto scempio dello Stato di diritto per combattere e sconfiggere il terrorismo, rosso e nero.
La conversione politica. Anche se qualche eccesso, effettivamente, in quegli anni c’era stato, questa caricatura del reale era più che evidente per quanto riguardava proprio Battisti. Di certo, non c’era stato alcun eccesso giudiziario su di lui, condannato quattro volte per omicidi volontari, violenti e spietati, e la cui intera storia esistenziale pare intrisa di cinismo opportunista, trasformismo e violenza spesso gratuita. La stessa aura ideologica di Battisti pare usurpata. Perché in effetti l'uomo si rivela alle cronache e ai tribunali, banalmente, come ladro nel 1972 (data del suo primo arresto) e poi come rapinatore nel 1974. È un criminale comune, che subisce denunce anche per atti di libidine violenta e per violenza privata. La sua “conversione politica” avviene in carcere, a Udine, grazie all’incontro con un terrorista vero: Arrigo Cavallina. Ma l’impressione che gli inquirenti e i giudici hanno sempre avuto e trasmesso, negli atti giudiziari, è che l’attività eversiva condotta da Battisti all’interno dei Pac,i Proletari armati per il comunismo, fosse almeno in parte strumentale: "ufficialmente" l’uomo rapinava e uccideva in nome di un ideale politico, per quanto farneticante, ma quasi sempre nelle sue azioni traspariva lo sfogo di una violenza repressa e perfino la ricerca - molto più terrena e razionale - di un arricchimento personale.
L'asilo politico del Brasile. Più facile da capire è perché per otto anni il Brasile di Lula e poi di Dilma Roussef abbia dato un vergognoso asilo politico, legale o di fatto, a Battisti: le mosse dei governi demagogici sono state dettate da questioni politiche, forse anche dall’idea di poterlo usare come strumento di pressione economica nei confronti dell'Italia. Oggi invece, tanti anni dopo, il Brasile potrebbe finalmente estradare Battisti. Perché? Perché dall’agosto 2016 è mutato profondamente l’atteggiamento politico del Paese, con il nuovo presidente Michel Temer. Tant’è vero che Battisti, con la solita capacità di interpretare opportunisticamente l'ambiente, e annusata l’aria negativa, stava già per prendere la via della fuga in Bolivia. Dovesse essere finalmente estradato in Italia, una volta tanto, sarebbe stata fatta davvero giustizia.
Chi ha protetto Cesare Battisti. Amici nelle istituzioni in Brasile e Francia, amici intellettuali. Ecco chi ha protetto in questi anni Battisti, scrive Paolo Manzo il 14 gennaio 2019 su Panorama. Di quali protezioni ha goduto Cesare Battisti, il terrorista rosso che per 40 anni si è fatto beffe dell’Italia e dei parenti delle vittime da lui uccise a fine anni Settanta? La domanda se la sono posta in tanti, a cominciare da Adriano Sabbadin, che dopo avere appreso dell’estradizione concessa il 14 dicembre scorso dall’ex presidente brasiliano Michel Temer, credeva di poter trascorrere finalmente il primo Natale sereno dopo tanti anni. È figlio di Lino, il macellaio ucciso a pistolettate dall’ex membro dei Proletari armati per il comunismo in quel di Mestre. Era il 16 febbraio del 1979, una vita fa. Di quali protezioni ha goduto Battisti? È stata la domanda anche delle famiglie Torregiani, Campagna e Santoro, le altre sue vittime, quando avevano appreso dell’ennesima fuga di questo assassino riciclatosi scrittore e dell’informazione che ad accoglierlo, secondo fonti di intelligence israeliane e brasiliane, poteva essere già la Bolivia, visto che il presidente «cocalero» Evo Morales avrebbe avuto tutti i motivi per proteggerlo. Innanzitutto ideologici, poi di rivalsa con il Brasile che ha dato asilo politico a uno dei più feroci accusatori del governo Morales sulle questioni del narcotraffico, quel senatore Roger Molina poi morto in un misterioso incidente aereo nel 2017. Del resto il terrorista dei Proletari armati per il comunismo, i Pac, è un esperto nello sgusciare via come un’anguilla, godendo di preziosi appoggi politici da quando, nel 1981, evase per la prima volta dal carcere di Frosinone. Lo ha fatto in Messico, in Francia ed in Brasile dove è arrivato, in fuga da Parigi nell’agosto del 2004, quando la sua estradizione in Italia era ormai solo una questione di giorni visto che Jacques Chirac aveva deciso di accantonare finalmente il salvacondotto offerto ai terroristi italiani dal socialista François Mitterand. Secondo lo stesso Battisti fu una parte dei servizi francesi ad aiutarlo in quella fuga consegnandogli un passaporto italiano falso con all’interno del codice a barre, un’informazione cifrata che avrebbe consentito agli 007 transalpini di seguirne passo passo gli spostamenti sino all’approdo a Fortaleza, nel nordest brasiliano, dopo essere passato per Spagna, Portogallo, isola di Madeira, Canarie e Capo Verde. Quasi una rotta del narcotraffico al contrario. Di certo gli è stata vicina la giallista francese Fred Vargas e l’ambiente radical-chic della lobby francese culturale che già nel 1999 gli aveva permesso di cominciare a pubblicare con il prestigioso editore Gallimard. La stessa Vargas che non ha esitato a venire più volte in Brasile, sempre accompagnata da un nerboruto francese dal fisico assai poco intellettuale ma molto «Legione straniera», dopo l’arresto di Battisti avvenuto nel marzo del 2007 sulla spiaggia a Copacabana per mezzo dell’Interpol. Non perché monitorato dai servizi paralleli transalpini, che a suo dire lo avevano aiutato a fuggire, ma perché si era tradito con una telefonata a uno dei suoi contatti parigini intercettato a propria insaputa dell’intelligence francese: Battisti era appena stato derubato ed aveva bisogno di soldi, con urgenza. Il grande colpo di scena arriva, poi, il 31 dicembre del 2010, ultimo giorno dell’ultimo mandato dell’allora presidente Luiz Inácio Lula da Silva, grande mito della sinistra mondiale che concede l’asilo al terrorista più ricercato d’Italia. Prova, questa, della massima protezione di cui Battisti godeva nel paese del samba, dopo aver goduto per anni dell’ala protettrice di Mitterand che con la sua «dottrina» sul diritto d’asilo ospitò decine di nostri terroristi. Nel 2011 Battisti esce così di prigione e va a vivere, ironia del destino, prima a Embu das Artes - cittadina vicina a San Paolo famosa perché lì fu sepolto sotto nome falso il criminale nazista di Auschwitz Josef Mengele, anche lui eterno fuggitivo - poi, dal 2015 a Cananéia, sul litorale di San Paolo. Qui l’internazionale rossa continua a non abbandonarlo e per proteggerlo gli mette a disposizione Magno de Carvalho, un sindacalista della Cut, il sindacato fondato da Lula e dal suo Pt, il partito dei lavoratori che oggi ha tutti i suoi ex tesorieri in carcere, oltre allo stesso Lula. Magno prima gli presta una sua casa a Cananéia dove Battisti va a vivere protetto da Paulo, un bodyguard tutto fare, poi lo aiuta a trovare un terreno e a costruirsi una casetta tutta sua dove il terrorista, spenti i riflettori, comincia una vita anonima. «Vivo dei miei libri» aveva raccontato a chi scrive, «ma non me la passo bene tanto che non posso più pagare l’assicurazione medica». Difficoltà economiche confermate anche dall’ex moglie Priscila Luana Pereira che ha dichiarato che Cesare Battisti viveva dei diritti d’autore e di qualche soldo fattogli arrivare dall’Italia dalla sua famiglia. Arriviamo, così, a fine 2018 all’ultimo, ennesimo, colpo di scena: la fuga. Sparizione annunciata da anni di protezione del Pt di Lula, a tutti i livelli, giudiziario e politico, che hanno reso possibile quello che è accaduto. La Polizia di Cananéia, la cittadina di pescatori dove Battisti ha vissuto, aveva già confermato a chi scrive che da sabato 27 ottobre - ovvero dalla vigilia della vittoria elettorale di Jair Bolsonaro che lo avrebbe estradato subito dopo il suo insediamento, il primo gennaio di quest’anno - nessuno aveva più visto l’ex membro dei Pac. «L’ultima è stata una donna che lo aveva notato allontanarsi in barca» assicurò un poliziotto di Cananéia il 30 ottobre scorso, svelando poi un retroscena che ha dell’incredibile. «Ci avevano sollecitato dall’alto, su richiesta dell’ambasciata d’Italia, di monitorare Battisti e abbiamo subito chiesto alla nostra autorità giudiziaria cosa potessimo fare in concreto ma la risposta è stata chiara: nulla». Il terrorista rosso, infatti, all’epoca era davanti alla machiavellica legge brasiliana un cittadino libero a tutti gli effetti, con tanto di visto definitivo. Quindi non controllabile dalle forze di polizia. Insomma, nonostante le ripetute rassicurazioni all’Italia sul fatto che la polizia brasiliana stesse «monitorando da vicino» il latitante più ricercato d’Italia, in realtà sul campo aveva «le mani legate». Una verità che, per quanto vergognosa, era stata confermata dallo stesso terrorista a una radio italiana qualche giorno dopo l’allarme di fuga lanciato due mesi fa e resa possibile da una serie di decisioni sconcertanti. A riprova di quanto la protezione garantita a Battisti da 14 anni in qua dal partito di Lula fosse ancora fortissima e capillare, nonostante la vittoria del neo presidente Jair Bolsonaro, che aveva fatto del caso del terrorista uno dei suoi principali cavalli di battaglia della sua campagna elettorale. Purtroppo, però, il danno ormai era fatto ed è stato il risultato di una serie di decisioni accumulatesi nell’ultimo biennio. Già perché se era chiaro che, dopo l’impeachment di Dilma Rousseff nel 2016, il suo successore Temer fosse propenso ad annullare la decisione di Lula di concedere l’asilo a Battisti, altrettanto chiaro era che la questione si sarebbe complicata grazie agli appoggi politici ma anche di giudici e intellettuali sinistrorsi del terrorista. A mettere sul chi va là Battisti era stato già un articolo pubblicato da O Globo a fine settembre 2017 in cui il quotidiano carioca rivelava che l’Italia aveva chiesto in gran segreto a Temer di rivedere la decisione di Lula e di estradare a Roma il terrorista. In neanche una settimana Battisti viene arrestato alla frontiera con la Bolivia con 6.000 euro, 1.300 dollari e un piccolo cilindro arancione pieno di polvere bianca, «apparentemente cocaina» a detta della polizia: stava tentando di fuggire dal Brasile. Intanto mentre è in cella nel commissariato di Corumbá, città al confine con la Bolivia, un aereo militare ha i motori già accesi, pronto a rimpatriare il terrorista rosso in Italia. Manca solo la firma di Temer che però non arriva perché «è un Don Abbondio» confidò all’epoca a Panorama Walter Fanganiello Maierovitch, magistrato in pensione che aiutò il nostro Giovanni Falcone nella cattura di Tommaso Buscetta nel Brasile di inizio anni Ottanta. Questo nella migliore delle ipotesi visto che l’ultimo avvocato di Battisti, Igor Tamasauskas, difende anche i fratelli Batista, boss della Jbs, l’azienda maggiore produttrice di proteine animali al mondo sospettata di avere pagato tangenti milionarie proprio a Temer, che per questo è stato denunciato penalmente dalla procura generale brasiliana, fatto mai successo prima a nessun presidente in carica in Brasile. Invece di firmare l’ordine di espulsione, dunque, Temer chiede alla Corte Suprema brasiliana se può ribaltare la decisione di Lula sull’asilo a Battisti. Peccato che il giudice Luiz Fux che ha in carico il caso impieghi 14 lunghissimi mesi per rispondergli. Arriva così prima l’ordine di scarcerazione firmato da José Lunardelli, un giudice che deve tutta la sua carriera al Pt di Lula da Silva e Dilma Rousseff, cui fa seguito la cancellazione di tutte le misure cautelari, compreso l’obbligo di firma e, da aprile 2018, anche la cavigliera elettronica. Il motivo? «Non esiste rischio di fuga». Decisioni, queste, che si sono rivelate cruciali perché potesse realizzarsi l’ennesima fuga di Battisti. Perciò non c’è da stupirsi se dopo l’ordine di arresto su richiesta dell’Interpol firmato il 13 dicembre scorso dal giudice «tartaruga» Fux, Battisti non si sia fatto trovare in casa. «È un assassino sanguinario ma non un idiota» sbotta Maierovitch, definendo «incredibile» che l’arresto sia stato annunciato dal telegiornale più seguito del Brasile, il Jornal Nacional della tv Globo, prima ancora che la polizia l’avesse eseguito. Insomma, il caso Cesare Battisti ha evidenziato una scacchiera planetaria dove il terrorista è riuscito a dribblare tutti, governi, partiti politici, magistrati facendo leva su un’ideologia che gli ha permesso di garantire i suoi interessi. Con questa immagine finale paradossale di un Lula, mito della sinistra e suo salvatore, oggi in carcere condannato per riciclaggio e corruzione e Battisti, invece, di nuovo in fuga. Oltre che dalla giustizia anche da se stesso. Fino a ieri.
Carla Bruni su Cesare Battisti: "Mai conosciuto, rispetto per le vittime". Ma scorda qualcosa, scrive il 16 Gennaio 2019 Libero Quotidiano. Dopo la cattura di Cesare Battisti in Bolivia, in molti hanno rivolto le loro attenzioni a Carla Bruni. Già, perché secondo vecchie indiscrezioni mai confermate lei avrebbe cercato di garantirgli una via di fuga dalla Francia ai tempi della riparata di Battisti in Brasile; avrebbe anche perorato la causa con Nicolas Sarkozy. E ancora, secondo altri retroscena, parimenti mai confermati, nel 2008 la Bruni avrebbe incontrato l'allora presidente brasiliano Lula per fare pressioni affinché concedesse l'asilo politico al terrorista ex Pac. Indiscrezioni smentite in modo netto da Carla Bruni più volte e ancora oggi in un colloquio con La Stampa: "Non lo conosco, non l'ho mia incontrato, non l'ho mai difeso ed è una grave calunnia quella di sostenere che mi sia battuta per negare l'estradizione della Francia all'Italia". Caso chiuso, insomma. Carl Bruni, poi, chiarisce anche la posizione di Sarkozy: "Mio marito - riprendere - non ha protetto Battisti durante i suoi anni di presidenza. Non so per quali ragioni questa menzogna sia stata inventata". E ancora: "Mi piacerebbe ci fosse silenzio, silenzio e non bugie, non pettegolezzi, al fine di rispettare il dolore mai sopito e in questi giorni vivo più che mai, dei familiari delle vittime". La Bruni, insomma, rompe il silenzio sul caso Battisti. Eppure ancora qualcosa non torna. A La Stampa aggiunge anche: "Vi ringrazio per avermi dato la possibilità di mettere la parola fine alle menzogne sull'immaginario rapporto, o meglio contatto che ci sarebbe stato tra Cesare Battisti e me". Nessuno dubita delle parole della Bruni. Nessuno nega il fatto che abbia riconosciuto il dolore "vivo più che mai" dei familiari delle vittime. Eppure, Carla Bruni - almeno stando a quel che ha riportato La Stampa - non riesce proprio ad esprimere soddisfazione per l'arresto di Battisti. Il fatto che sia una buona notizia, un traguardo, un successo, la fine di un'ingiustizia, nel colloquio col quotidiano torinese non lo cita del tutto.
Trattative, diplomazia e minacce. Perché la Bolivia ha scaricato Battisti, scrive il 14 gennaio 2019 Lorenzo Vita su "Gli Occhi della Guerra" de "Il Giornale. Nulla sarebbe stato possibile senza la Bolivia. Le autorità di La Paz sono state fondamentali nella cattura di Cesare Battisti. Ed è stato grazie all’opera congiunta di Italia, Brasile e Bolivia se adesso il terrorista dei Pac ha preso la direzione del carcere di Rebibbia dopo 36 anni di latitanza e fuga dalla giustizia italiana. Battisti sperava di ricevere aiuto dalla Bolivia di Evo Morales. Il presidente boliviano, uno degli ultimi rappresentanti della sinistra sudamericana, sembrava essere l’ultimo leader in grado di raccogliere l’eredità di Lula e di Dilma Roussef. E così, il terrorista italiano credeva (come già aveva fatto in passato) che la via di La Paz fosse l’unica percorribile in un’America latina sempre meno protettiva nei confronti dei criminali di matrice ideologica. Ma Battisti ha fatto male i suoi calcoli: la Bolivia di Morales, per quanto dichiaratamente figlia di quel socialismo iniziato con Hugo Chavez, si è rivelata essere una nazione ostile ai suoi progetti. E le autorità di La Paz hanno da subito dato carta bianca alle autorità italiane per recuperare il pluriomicida, non solo non rispondendo alla richiesta di asilo politico inviata da Battisti al ministero degli Esteri, ma anche braccando l’italiano in fuga e dando modo all’intelligence italiana e all’Interpol di mettersi sulle tracce del terrorista prima che potesse di nuovo fuggire. Una decisione, quella di La Paz, che in Bolivia non è piaciuta a molti ma che è figlia di accordi presi con Italia e Brasile e soprattutto della strategia del governo italiano per la cattura di Battisti. La Bolivia rappresentava infatti una garanzia non rispetto al Brasile di Jair Bolsonaro, con cui Matteo Salvini ha intrecciato ottimi rapporti, quanto con la giustizia brasiliana. Secondo i servizi, esisteva il pericolo che in Brasile gli avvocati del terrorista dei Pac potessero chiedere maggiori garanzie giudiziarie così come ricorrere all’habeas corpus. Inoltre, l’accordo siglato fra Roma e Brasilia dai governi precedenti sul fatto di non far scontare l’ergastolo a Battisti, avrebbe rappresentato un colpo mediatico nei confronti dell’esecutivo di Giuseppe Conte, che vuole a ogni costo che l’assassino scontri tutta la pena per cui è condannato in Italia. L’accordo era con il Brasile, non con la Bolivia. E questo ha spinto l’Italia a premere su La Paz per avere immediatamente Battisti. Nel frattempo, a La Paz era arrivata la richiesta di asilo politico a dicembre. Ma nessuno ha fatto richiesta di convocare Battisti per capire se vi fossero le condizioni per rispettare le richieste del terrorista rosso. Anzi, è proprio questo ad aver generato l’accelerazione sia delle autorità boliviane che dell’Italia, che ha subito fatto partire un aereo dei servizi verso la Bolivia. Lo spiega bene Lettera43. “L’Ombudsman (Difensore del popolo) boliviano, Jorge Paz, in un primo momento ha sostenuto che il governo di La Paz non ha dato una risposta definitiva alla richiesta di asilo presentata dal Cesare Battisti il 18 dicembre 2018 e che quindi è stata esaminata la "possibilità di interporre un ricorso costituzionale per far sì che il richiedente riceva una risposta alla sua richiesta". In un comunicato diffuso attraverso i social network in cui pubblica il testo integrale della richiesta di Battisti alla Commissione nazionale del rifugiato (Conare) in Bolivia, l’Ombudsman ha spiegato che il ministero degli Esteri boliviano ha ricevuto la sua domanda il 21 dicembre e che da allora non ha convocato l’interessato per una intervista, né gli ha comunicato il diniego della richiesta”. Un’ipotesi che però contrasta con le parole di Carlos Romero. Il ministro dell’Interno boliviano ha infatti confermato al quotidiano El Deber che la richiesta è stata respinta il 26 dicembre. A quel punto, l’ambasciata italiana in Bolivia, insieme all’Antiterrorismo, si è iniziata a muovere. E questa volta, la rete italiana ha saputo sfruttare anche i difficili incastri della politica sudamericana. Dal governo di Morales, l’accelerazione del decreto di espulsione è stata giustificata in maniera molto sbrigativa. In conferenza stampa, il ministro Romero, ha confermato che Cesare Battisti era entrato illegalmente in territorio boliviano. La questione era quindi semplicemente burocratica: c’era un ingresso illegale e un’espulsione dovuta a un mandato di cattura dell’Interpol. Ma è chiaro che le motivazioni siano state anche politiche. Con questa mossa, Morales ha innanzitutto evitato che i servizi segreti brasiliani partecipassero alla cattura di Battisti, visto che in molti pensavano che gli 007 di Bolsonaro arrivassero direttamente in Bolivia a recuperare con un aereo il terrorista. Per le autorità del Paese “socialista” sarebbe stato uno smacco oltre che un pericoloso precedente. Dall’altra parte, Morales sa che è un leader sempre più solo, con lo spostamento dell’America Latina verso destra e verso Washington. E quindi è necessario non partire col piede sbagliato con un presidente con Bolsonaro, che guida un Paese che per la Bolivia è fondamentale. Il governo di La Paz e il suo presidente vogliono dimostrare di avere le capacità di trattare con il Brasile, perché gli interessi strategici del Paese sudamericano passano necessariamente per ottimi rapporti con l’enorme vicino. Bolsonaro è ideologicamente contrario a quello che è stato il Brasile prima di lui e a quello che rappresenta Morales: ma Battisti rappresentava solo uno scomodo ostacolo vero rapporti sudamericani già particolarmente complessi. Rapporti cui si aggiunge anche un altro problema: il ritorno dell’ex presidente Gonzalo Sanchez de Lozada, detto Goni, rifugiato negli Stati Uniti. Morales lo vuole a ogni costo: lo ha promesso al suo popolo dopo il massacro per il quale è fuggito. E per riottenere in patria l’ex presidente, il governo della Bolivia doveva mostrarsi non solo pienamente disposto a consegnare Battisti, ma anche a voler mantenere rapporti positivi con quell’internazionale sovranista che controlla Italia, Brasile e Stati Uniti. L’Italia ha saputo inserirsi bene in questa triangolazione: e adesso Battisti è tornato nella patrie galere.
La promessa che Lula non mantenne, scrive Giorgio Napolitano il 15/01/2019 su "La Stampa". Gentile Direttore, la notizia dell’arrivo in Italia, dopo l’arresto e la consegna, del terrorista Cesare Battisti è per me motivo di grande soddisfazione. Durante gli anni della mia Presidenza, la questione Battisti è stata sempre al centro dell’attenzione mia e dei governi italiani: ricordo in particolare le mie iniziative di protesta e di sollecitazione nei rapporti con il presidente Lula, sia per via diplomatica ed epistolare, sia personalmente soprattutto in occasione della sua visita in Italia nel novembre del 2008, e successivamente durante il vertice G8 dell’Aquila del luglio 2009. Aggiungo che con Lula avevo avuto un importante momento, anche polemico, di confronto e chiarimento politico già in occasione di una mia visita politica in America Latina nel lontano 1988. Sapevo dunque di poter contare su un atteggiamento di forte vicinanza e rispetto da parte sua, su un’autorevolezza che spesi nei suoi confronti per sollecitarlo fortemente a decidere l’estradizione e la consegna alla giustizia italiana del criminale Battisti. Ottenni allora da lui in tal senso un netto impegno, che tuttavia non mantenne, cedendo alle pressioni della componente estremista della sua maggioranza e del suo governo. E credo che abbia avuto modo successivamente di capire il suo errore, finendo per lasciare la paternità e il merito dell’ordine di consegna di Battisti a un Capo di governo che oggi esprime un indirizzo politico ben lontano dalla sinistra. Decisivo comunque è stato il contributo delle forze di polizia italiane alla cattura del criminale latitante, e di ciò mi sono vivamente congratulato col Capo della Polizia, Franco Gabrielli. Rinnovo infine un pensiero commosso alle vittime dei crimini di Battisti, così come a tutte le vittime del terrorismo. Presidente emerito della Repubblica
Battisti, l’asse Bolsonaro-Salvini simbolo dell’internazionale sovranista, scrive il 14 gennaio 2019 Lorenzo Vita su ""Gli Occhi della guerra" de "Il Giornale". Cesare Battisti è in volo verso l’Italia. Anni di latitanza segnati da fughe, depistaggi e protezione da parte dei governi di sinistra, sono finiti la scorsa notte, con l’arresto da parte dell’Interpol mentre tentava la via della Bolivia. Per Battisti potrebbe finalmente trattarsi dell’ultima fuga. L’ultimo tentativo di fuggire dalla rete della giustizia da parte di un uomo braccato dalla polizia italiana e brasiliana e che ha perso, in poche settimane, quella tutela di cui ha goduto per anni. Protetto dalle autorità locali perché ritenuto un combattente per la causa del socialismo e non, come abbiamo scritto, semplicemente un “assassino puro”. E la protezione di Brasilia, Battisti l’ha persa quando al potere è salito Jair Bolsonaro. Da candidato dell’ultradestra brasiliana prima ancora che da presidente, Bolsonaro ha immediatamente promesso all’Italia la restituzione di Battisti. Una mossa che a molti è apparsa anche eccessivamente ricercata, visto l’impegno profuso da parte del candidato per il “trono” di Brasilia a farsi amica l’Italia. Ma in realtà è stata una mossa strategica di particolare importanza che ha mostrato da subito la volontà del futuro presidente brasiliano di entrare a far parte del mondo sovranista al potere. Un vero e proprio club che sta cercando di prendersi il mondo. E che necessita di alleanze solide e che spazino dall’America all’Europa. Bolsonaro questo lo ha capito subito. E lo ha capito anche Matteo Salvini, che ha sostenuto immediatamente il candidato presidente sudamericano con la certezza che avrebbe fatto il possibile per restituire all’Italia il terrorista rosso. Bolsonaro si è presentato al Brasile e al mondo come l’anti-Lula e l’anti-Roussef. E di conseguenza non poteva che negare la protezione del suo Paese a un uomo che ha rappresentato per anni il beniamino della sinistra radicale brasiliana. L’asse Bolsonaro-Salvini ha funzionato, dunque. Ed ha dimostrato che esiste una sorta di diplomazia internazionale politica (e se vogliamo ideologica) che è sfruttata più della stessa diplomazia classica. È una politica estera parallela, fatta di contatti personali, amici potenti in comune, sponsor internazionali, tweet e messaggi di sostegno che sta creando una sorta di realtà parallela che travalica il mondo compassato e burocratico delle cancellerie. È un mondo diverso: ma è un mondo che è al governo. E per questo va capita la sua importanza. Bolsonaro e Salvini l’hanno compreso subito. La loro è un’amicizia virtuale che è diventata concreta: e oggi entrambi sono diventati i simboli del sovranismo sudamericano e di quello europeo. Alleati e con gli stessi alleati, ma con progetti molto diversi sia nei loro rispettivi Paesi che nei loro continente di riferimento, i due leader si sono scelti a vicenda e si relazionano quasi da pari. E questo prescinde dallo stesso connotato ideologico pregresso e da quello che vogliono fare del proprio Stato. Sono alleati politici prima ancora che alleati strategici; amici più che partner. Anche questo è il mondo (il club) del sovranismo: non serve essere perfettamente allineati sulla strategia da seguire in materia economica o sociale. L’importante è avere quei particolari punti del proprio programma che consentano a questi movimenti di avere una matrice comune, un comune denominatore su cui intanto far nascere alleanze. E questo non solo prescinde dal contenuto effettivo del programma di governo: come dimostrato dalle divergenze che esistono fra l’agenda dell’ultradestra brasiliana e della Lega. Ma prescinde anche dal fatto che uno sia al governo un altro sia all’opposizione nel proprio Paese. O che uno sia presidente e l’altro ministro di una parte del governo. L’internazionale sovranista garantisce che queste relazioni siano stabili e durature al netto della forza del partito o della posizione che esso riveste all’interno della politica di un Paese. Si è tutti parte di un’unica grande rete. Sembra essere questo il vero programma della cosiddetta internazionale sovranista. Ed è una rete che vuole prima di tutto sostituirsi all’establishment che ha ha avuto fino ad ora in mano le redini della diplomazia e della politica. Lo si fa partendo da idee diverse ma da alleati comuni. Tutti hanno in Donald Trump uno sponsor comune, e quindi l’amministrazione degli Stati Uniti. Tutti sostengono il consolidamento dei legami con Israele, con Benjamin Netanyahu che riceve a turno la maggior parte dei leader del sovranismo europeo e sudamericano. E tutti quanti sanno di dover contrastare chi ha governato per anni o decenni il Paese in cui vogliono andare al potere. Per farlo, bisogna essere uniti. E Bolsonaro e Salvini, sul caso Battisti, sono la dimostrazione concreta di questo nuovo modo e questo nuovo mondo della politica internazionale. Tanto che anche in Italia e nello stesso governo, qualcuno inizia a storcere il naso. Il Movimento 5 Stelle cerca di riaffermare che la cattura di Battisti è un risultato del governo in cui il ministro della Giustizia è Alfonso Bonafede un pentastellato. Mentre Bolsonaro, dall’altra parte, twitta a sostegno di Salvini. E il confine tra diplomazia parallela, personale e tradizionale si assottiglia sempre di più.
Così Montanelli difese le vittime del killer rosso. «La stampa di sinistra lo bollò come fascista: infangato pure da morto», scrive "Il Giornale" Lunedì 14/01/2019. Indro Montanelli: Il 23 gennaio del '79 ci fu, in una pizzeria di Milano in via Malpighi, un tentativo di rapina. La vittima designata era un orefice, Pier Luigi Torregiani, che si trovava lì con la figlia e un amico. All'ingiunzione di consegnare il portafoglio, il Torregiani rispose con una mossa di karate che immobilizzò uno dei due banditi, ed estrasse la pistola. Ci fu una sparatoria al termine della quale si contarono due morti: un rapinatore e un avventore che si trovava lì per caso. L'episodio fu variamente commentato, ma quasi tutti i giornali biasimarono il Torregiani per la sua pretesa di farsi giustizia da solo, opponendo violenza a violenza, anche a costo di mettere a repentaglio la vita di alcune persone: qualcuno parlò addirittura di «fascismo» e «neosquadrismo». La riprovazione non si addolcì neanche quando si seppe che il Torregiani era affetto da un male incurabile e aveva adottato tre bambini rimasti orfani. La professione che esercitava lo qualificava senza scampo «capitalista». E questa etichetta, anche se non giustificava l'aggressione, ne attenuava la gravità riducendola a «esproprio proletario». Tre settimane dopo, il 16 febbraio mi pare, mentre rincasava con suo figlio Alberto, Torreggiani fu assalito alle spalle da quattro individui che stavolta non gli dettero il tempo di tentare una difesa. Riuscì ugualmente a sparare tre colpi, ma alla cieca. Cadde crivellato di colpi e spirò subito mentre anche Alberto veniva raggiunto da una pallottola alla spina dorsale che lo ha condannato alla carrozzella a vita. Negl'imbarazzanti resconti dell'indomani, gli attributi di «fascista» e «neosquadrista» scomparvero. Ma quello di «capitalista» rimase, esplicito o sottinteso. Su di esso insisteva anche il solito volantino con cui i criminali rivendicavano l'eccidio presentandolo come un «atto di giustizia proletaria» contro chi, «in nome del sacro valore della merce non ha esitato a decretare ed eseguire sentenze di morte contro migliaia di proletari, colpevoli solo di riprendersi una parte di quel reddito che ogni giorno il capitale e le sue strutture estorcono». Forse gli assassini del Torregiani erano solo dei malviventi che non avevano nulla a che fare con le organizzazioni terroristiche. Ma se ne usurpavano il messaggio era perché sapevano ch'esso sortiva un certo effetto sulla pubblica opinione, o almeno su quella che tiene ad apparire più «aperta» e «progressista». Infatti l'esecrazione fu contenuta e parsimoniosamente espressa in termini di circostanza: un commentatore cercò addirittura di farseli perdonare scrivendo che il povero morto era, sì, un orefice, ma di serie C, poco più che un rigattiere. Sottintendendo che, se fosse stato di serie A, non avrebbe avuto diritto alla commiserazione. (...) Il Giornale, 5 novembre 1981
Alessandro Sallusti su Cesare Battisti: "Il cancro che lo ha salvato per 40 anni", scrive il 14 Gennaio 2019 Libero Quotidiano. "Cesare Battisti, prima che la libertà, ha perso le elezioni", scrive Alessandro Sallusti commentando l'arresto del terrorista su Il Giornale. E questo, "la dice lunga su quel cancro che è stata l'internazionale socialista, lobby che ancora oggi santificherebbe volentieri un delinquente comune, un assassino". Battisti è stato "salvato dalla sinistra italiana "ipocrita e camaleontica". Su di lui continua il direttore, "è mancata una parola chiara e definitiva dei grandi capi dei partiti comunisti e post comunisti italiani che si sono succeduti in questo non breve lasso di tempo. Anzi, ancora ieri da quelle parti c'è stato qualcuno che ha evocato e invocato un provvedimento di amnistia. Mettere in cella Battisti è una vittoria, sapere che i suoi complici politici e intellettuali vecchi e nuovi non pagheranno mai è invece una sconfitta".
Battisti è un “assassino puro”. Ma la sinistra l’ha protetto per anni, scrive il 13 gennaio 2019 Lorenzo Vita su ""Gli Occhi della guerra" de "Il Giornale". Cesare Battisti è stato arrestato. Alle 17 ora locale del 12 gennaio, l’Interpol ha fermato il terrorista dei Pac mentre cercava di fuggire in Bolivia. E adesso l’Italia aspetta giustizia, dopo anni di latitanza e dopo le promesse del nuovo presidente brasiliano Jair Bolsonaro, che prima di essere eletto ha confermato tutto il suo impegno per prendere Battisti e aprire le porte dell’estradizione. Ora tutto sembra possibile. Ma con Battisti bisogna essere sempre estremamente cauti. Per troppi anni il terrorista (c’è chi lo definisce “ex” ma in fondo lo è sempre stato) ha goduto della protezione internazionale dei governi. E ogni volta che sembrava essere giunta l’ora di rientrare in Italia e pagare il conto con lo Stato, l’ex membro dei Pac si è sempre dileguato, lasciando dietro di sé una scia di legami potenti ma soprattutto di domande: perché è stato continuamente protetto? Per capirlo, bisogna tornare indietro nel tempo, agli anni Settanta, quando il terrorismo aveva ancora una matrice puramente ideologica e la sinistra del mondo tutelava gli autori dei crimini che si rifacevano, anche solo vagamente, al marxismo. Tutto è sembrato permesso. Tutto era quasi lecito se serviva a proteggere uno di loro, che loro però non era mai stato davvero. Così, inizia la latitanza di Battisti protetta è garantita dai salotti parigini e da quella sinistra che oggi definiremmo “radical-chic” che ha creduto di essere nel giusto mettendo al sicuro dalle patrie galere un assassino. Non bastavano i testimoni, i processi e le condanne. A quel tempo, la giustizia italiana era considerata nemica della sinistra e dell’idea e il sistema processuale una giungla fatta di “nemici del popolo”. A questa narrazione prendono parte tutti, politici, intellettuali, attori, italiani e stranieri. A Parigi, la gauche-caviar lo pone sotto la sua ala protettrice complice la dottrina Mitterrand che difende i terroristi di tutto il mondo ritenuti perseguitati in patria. Come ricorda Panorama, “in quell’epoca, scrittori e intellettuali di mezzo mondo come Gabriel García Márquez, Fred Vargas, Daniel Pennac e Bernard-Henri Lévy facevano ancora appelli per lui. Persino Carla Bruni, all’epoca première dame di Francia, protestava la sua innocenza”. E a nulla valgono le parole del pubblico ministero Antonio Spataro che, come riportato da Affari Italiani, di Battisti disse che era semplicemente “un assassino puro” e che fosse “assolutamente ridicolo e falso che siano stati accertati, nel caso Battisti, casi di tortura. Subito dopo l’omicidio del gioielliere Torregiani, fu individuato uno degli autori del fatto. Due suoi parenti e alcuni degli arrestati resero dichiarazioni fondamentali a carico degli assassini che, però, cercarono di ritirare due giorni dopo affermando che erano state loro estorte con torture. I giudici che si occuparono del caso, e non io, accertarono facilmente che quelle denunce erano false e strumentali”. Ma queste dichiarazioni non sono bastate. E il terrorista rosso ha continuato a essere difeso per anni da larga parte dell’intelligenzia di sinistra, assuefatta dalla possibilità di difendere un ideologo perseguitato. No: era semplicemente un assassino. Un criminale comune che solo in carcere, a Udine, si avvicina alla sinistra radicale. Ma tanto basta per farne una sorta di martire che dal 1991 al 2004 ha goduto dalle tutela della giustizia francese. Un mistero, se non una vera e propria arma di ricatto contro l’Italia, finito poi in Brasile. E qui, stessa questione: la sinistra internazionale continua a difenderlo e Lula da Silva e Dilma Roussef lo elevano a vero e proprio simbolo della rivoluzione. La giustizia brasiliana ha le mani legate: i presidenti firmano decreti per tenerlo in Brasile e bloccare qualsiasi tentativo di estradizione. E anche la Corte suprema ribadisce che solo un presidente può cambiare la decisione di un suo predecessore. E ora è tutto nelle mani di Jair Bolsonaro.
La sinistra non si arrende: "Amnistia per Cesare Battisti". Il portavoce del Pcl e lo scrittore Christian Raimo ha commentato la cattura di Battisti: "L'amnistia sarebbe la soluzione logica", "Abolire l'ergastolo", scrive Giorgia Baroncini, Domenica 13/01/2019, su "Il Giornale". "Per fatti di 30 anni fa, la soluzione logica dovrebbe essere l'amnistia per Cesare Battisti". Così Marco Ferrando, portavoce nazionale del Partito Comunista dei Lavoratori, ha commentato la cattura in Bolivia del terrorista dei Pac, condannato all'ergastolo. "Da parte del governo - ha dichiarato Ferrando ad AdnKronos - c'è il tentativo di sfruttare questa cosa come occasione propagandistica. Noi siamo sempre stati ferocemente contrari, da un punto di vista anticapitalistico e rivoluzionario, a ogni teoria e pratica del terrorismo, che porta acqua alle classi dominanti e disorienta la classe operaia". "La soluzione logica dovrebbe essere l'amnistia. Nessun elemento di enfasi, di gioia o di solidarietà verso un governo reazionario come quello di Salvini e Di Maio", ha continuato il portavoce del Pcl dicendosi "contrario all'estradizione di Battisti. Noi non abbiamo nulla a che spartire con la collaborazione tra un governo ultra-reazionario come quello di Bolsonaro e quello di Salvini. Entrambi vogliono esibire Battisti come trofeo". Dalla parte del terrorista dei Pac anche lo scrittore Christian Raimo. "Ho firmato quattordici anni fa un appello per la liberazione di Cesare Battisti. Ho conosciuto e ho lavorato insieme ai parenti di quelle che sarebbero le vittime di Cesare Battisti, ascoltato il loro dolore. Ho letto alcuni romanzi di Cesare Battisti e non mi sono mai piaciuti. Non ho mai festeggiato per la galera a qualcuno. Per me l'ergastolo andrebbe abolito, per me andrebbero abolite le galere", ha dichiarto su Facebook lo scrittore, tra i firmatari dell'appello per la liberazione del terrorista dei Pac.
Sinistra patrocina libro sull'ex Br. Ira di Salvini: "Vergognoso". Il Comune di Settimo Milanese, guidato dalla sinistra, sponsorizza un testo su Walter Pezzoli. Proteste: "Celebra il terrorismo", scrive Claudio Cartaldo, Mercoledì 06/02/2019, su Il Giornale. Matteo Salvini all'attacco del sindaco di Settimo Minalese. Oggi il leader della Lega era a Terni e a margine dell'incontro politico è stato avvicinato dal nipote di un brigadiere ucciso nel 1997 dagli estremisti di sinistra e da lui è venuto a conoscenza del patrocinio dato dal Comune alla presentazione dell'ultimo libro sull'ex brigatista Pezzoli. Una decisione che il ministro dell'Interno contesta con asprezza, chiedendo al primo cittadino il "buonsenso" di annullare tutto in "rispetto delle vittime". "Incredibile e vergognoso che un Comune dia il patrocinio alla presentazione di un libro su un ex brigatista rosso", dice il leader della Lega. Il libro è stato scritto dal fratello e da alcuni conoscenti dell'ex Br, ricordandolo di come lui e suoi amici "diventarono grandi nel tempo in cui il desiderio che un altro mondo fosse possibile cresceva ovunque". La presentazione è prevista per il 23 febbraio nella biblioteca comunale, ma dopo l'intervento del titolare del Viminale è probabile che sul caso si scatenerà una polemica politica. Il libro, secondo quanto scrive il Giorno, narra infatti quanto successo l'11 dicembre del 1980 quando a Milano i carabinieri uccisero i brigatisti Roberto Serafini e - appunto - Walter Pezzoli (deceduto poco dopo in ospedale). Secondo Ruggiero Delvecchio, consigliere comunale di Forza Italia a Settimo, il libro getta ombre sull'operato dei militari "accusati di essere dei disinvolti pistoleri". "Queste accuse - dice l'azzurro al Giorno - vengono mosse men che meno da ex brigatisti rossi della colonna Walter Alasia, protagonisti di una copiosa scia di delitti di sangue perpetrati in Milano e provincia dal 1977 al 1981. Il comune di Settimo Milanese e il sindaco di sinistra secondo me commettono un gravissimo errore nel prestare il proprio patrocinio a questo evento ammantato dalla falsa valenza culturale di un libro pubblicato, ovviamente, dalla casa editrice di Renato Curcio". Sul sito del Comune, la presentazione viene pubblicizzata con una pagina dedicata. "Trentotto anni dopo" i fatti, si legge, gli "amici di Pero, la periferia milanese in cui" Walter Pezzoli "è cresciuto, scelgono, con questo lavoro a più mani, di ricordarlo così: 'In quest’angolo di mondo le loro madri ed i loro padri nacquero poco prima o arrivarono poco dopo la fine della guerra. In quest’angolo di mondo, trasformato, in pochi anni, da fertile campagna ad inenarrabile concentrato di veleni, Walter ed i sui amici e compagni diventarono grandi nel tempo in cui il desiderio che un altro mondo fosse possibile cresceva ovunque, nelle coscienze, inarrestabile e senza limite alcuno'". Fonti del Viminale fanno notare anche che, secondo il regolamento comunale, la concessione del patrocinio è concessa solo se la richiesta risponde a tre criteri fondamentali: il primo, la coerenza dell’attività o dell’iniziativa con le finalità istituzionali del Comune; il secondo, la rilevanza per la comunità locale; il terzo, l'efficacia dell’iniziativa. "Dovrebbe ritirare il patrocinio e chiedere scusa", dice Salvini al sindaco di Settimo Milanese.
Quando il Pci ricattò il Colle: grazia all'ergastolano. Moranino era fuggito a Praga e rientrò in Italia dopo l'atto di clemenza di Saragat, scrive Stefano Zurlo, Martedì 06/08/2013, su "Il Giornale". La storia non si ripete, però ci sorprende e ci spiazza. La storia, se si rileggono certi passaggi, può scombussolare le fondamenta dei ragionamenti che si ripetono in questi giorni surriscaldati di mezza estate. Si dice che la grazia non può essere un quarto grado di giudizio e che il condannato non può riceverla se non ha cominciato ad espiare la pena. Si ammucchiano tanti concetti, tutti politically correct, poi t'imbatti nella vicenda tragica e drammatica di Francesco Moranino, il comandante «Gemisto», comunista doc, partigiano, deputato e tante altre cose ancora e sei costretto a rivedere quei giudizi affrettati. Il caso Moranino è per certi aspetti ancora aperto come tante pagine controverse del nostro passato, ma alcuni elementi sono chiari. Il primo: nel 1955 il Parlamento concesse l'autorizzazione a procedere, la prima nel Dopoguerra, e Moranino fu condannato all'ergastolo per l'uccisione di cinque partigiani bianchi e di due delle loro mogli; il secondo: non rimase in Italia a scontare mestamente la condanna. No, fu aiutato dal Pci a scappare. Riparò a Praga e là attese gli eventi. Attenzione: Praga era la capitale di un paese nemico nell'Europa sull'orlo del conflitto degli anni Cinquanta e Sessanta. Da Praga Moranino portò a casa due risultati clamorosi; prima, nel '58, il presidente Giovanni Gronchi commutò la sua pena: dal carcere a vita a 10 anni. Poi nel '65 il suo successore Giuseppe Saragat gli concesse la grazia. Sì, avete letto bene. Il presidente della Repubblica cancellò con un colpo di spugna la pena. Saragat non si preoccupò del fatto che la grazia potesse sconfessare l'opera della magistratura e suonare appunto come un quarto grado di giudizio. Anzi, il presidente non si fermò neppure quando il procuratore generale di Firenze, chiamato ad esprimersi, diede un parere negativo. La grazia fu firmata lo stesso, anche se Moranino era latitante, in fuga oltre la Cortina di ferro. E, insomma, la sorprendente conclusione poteva essere interpretata come una resa dello Stato ad una parte. Per piantare la bandierina della grazia, Saragat scalò una parete di sesto grado, altro che la frode e l'evasione fiscale di cui si parla in questi giorni. Moranino naturalmente si proclamava innocente e poi tutto quel periodo storico convulso, la stagione della Resistenza e la sua coda nelle settimane successive al 25 aprile, era ed è oggetto di una grande disputa: le esecuzioni senza pietà dovevano essere coperte dallo scudo della Resistenza che tutto giustificava e assorbiva. La querelle, come è noto, si è trascinata nel tempo: il sangue dei vinti, come l'ha chiamato Giampaolo Pansa, non ha ancora trovato pace. Ma Saragat non si soffermò sulle conseguenze giuridiche di quell'atto e puntò dritto all'obiettivo della pacificazione. La politica, con i suoi accordi sotterranei, vinse su tutto il resto, anche sull'indecenza di un atto che, pur se bilanciato da misure di clemenza verso i neri della Repubblica sociale, sconcertò molti italiani. L'ha spiegato molto bene Sergio Romano rispondendo ad un lettore dalla colonne del Corriere della sera: «Credo che Giuseppe Saragat abbia pagato un debito di riconoscenza al partito che aveva contribuito ad eleggerlo». Saragat era diventato capo dello Stato il 28 dicembre 1964, con il contributo determinante del Pci. La grazia arrivò a tamburo battente il 27 aprile 1965. Ci fu probabilmente un baratto: l'elezione in cambio della chiusura di quel capitolo orrendo. Moranino rientrò con comodo, nel '68, e il Pci non ebbe alcun imbarazzo a ricandidarlo e a farlo rieleggere. A Palazzo Madama. L'Italia usciva così definitivamente dal clima avvelenato della guerra, ma il prezzo pagato allo stato di diritto fu altissimo.
Quell'accordo siglato dall'ex ministro Orlando: "Niente ergastolo per Battisti". In Brasile non c'è l’ergastolo. Per questo il governo Gentiloni si era impegnata per garantire che non sarebbe stato applicato a Battisti, scrive Sergio Rame, Domenica 13/01/2019, su "Il Giornale". Condannato in Italia a due ergastoli per quattro omicidi, Cesare Battisti si era reso irreperibile dopo l'ordine di arresto emesso dal giudice del Tribunale Supremo brasiliano, Luiz Fux, e il decreto di estradizione firmato dal presidente uscente Michel Temer. Il terrorista sarà presto portato in Brasile e da lì verrà rimandato in Italia dove le famiglie delle vittime lo attendono per avere giustizia e accertarsi che sconti la sua pena. Tuttavia, come ricorda il Corriere della Sera, il precedente governo guidato da Paolo Gentiloni aveva stretto un accordo con il Brasile per garantire che, una volta riportato in Italia, non avrebbe scontato l'ergastolo. In Brasile Battisti era arrivato dopo aver fatto perdere le sue tracce il 22 agosto del 2004, lasciando la Francia, dove, evaso da un carcere italiano, si era rifugiato nel 1980. A Parigi, grazie alla "dottrina Mitterrand", si era rifatto una vita: abbandonata la lotta armata, si era dato alla scrittura pubblicando gialli e saggi in cui proponeva alcune analisi sull'esperienza dell'antagonismo radicale. Poi, però, quando l'aria era cominciata a farsi più pesante, Battisti aveva deciso di fuggire. A cambiare le carte in tavola era stato il parere favorevole all'estradizione dato dalla Corte d'appello di Parigi il 30 giugno del 2004. Il presidente francese Jacques Chirac aveva, infatti, fatto sapere che avrebbe dato il via libera all'estradizione nel caso in cui il ricorso in Cassazione presentato dai legali di Battisti fosse stato respinto. Pochi mesi dopo, il 23 ottobre 2004 il primo ministro francese, Jean Pierre Raffarin, aveva firmato il decreto di estradizione che costringeva il terrorista a scontare la propria pena in Italia. Fuggito dalla Francia nel 2004, Battisti è stato arrestato in Brasile nel 2007 ed è rimasto nel carcere di Papuda fino al giugno 2011. Nel 2009 Il Tribunale Supremo Federale autorizzò l'estradizione, ma la decisione fu bloccata dal pronunciamento del presidente Luiz Inácio Lula da Silva e Battisti ottenne il permesso di residenza permanente. Ma con l'elezione di Jair Bolsonaro la musica è cambiata e, dopo l'arresto in Bolivia, si attende che il terrorista venga riportato in Italia. Ora non resta che vedere che pena sarà chiamato a scontare. "In Brasile non c’è l’ergastolo, è vietato dalla Costituzione: per questo l'Italia si è impegnata per garantire che non sarà applicato a Battisti", ha spiegato al Corriere della Sera l'ex direttore degli Affari di Giustizia del dicastero di via Arenula, Raffaele Piccirillo, che seguì direttamente il caso quando ministro era Andrea Orlando. In base all'accordo della cosiddetta "condizione accettata", concluso il 5 e 6 ottobre del 2017, a Battisti verrà applicata la pena massima di trent'anni. "L'autorità che doveva concedere l'estradizione, ossia il Brasile - ha continuato Piccirillo - ha apposto la condizione legata all'ergastolo e il ministro della Giustizia l'ha accettata". Un tetto che, secondo gli esperti, potrebbe anche rivisto al ribasso perché, come spiega sempre l'ex direttore degli Affari di Giustizia, il terrorista potrebbe anche "usufruire dei benefici penitenziari, come la liberazione anticipata prevista dall'articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario". Per richiederlo, però, dovrà scontare almeno metà della pena inflitta.
Quando gli intellettuali firmavano per Battisti. La storia dell'appello per il terrorista, sottoscritto nel 2004 da Pennac a Vauro, da Scarpa a Saviano, il solo che nel 2009 ritirò la firma, scrive Maurizio Tortorella il 16 ottobre 2017 su "Panorama". Nel 1993 è stato condannato definitivamente all’ergastolo per due omicidi volontari e per il concorso morale in altri due. Insomma, è un criminale acclarato. Eppure Cesare Battisti è stato il terrorista più difeso e protetto nella storia italiana. Una vicenda che può chiudersi oggi con la cattura in Bolivia ed il via all'estradizione in Italia. Ancora nel 2004, quando fu arrestato in quella Francia che lo aveva protetto per lunghi anni grazie alla "dottrina Mitterrand" (che in nome della grandeur e di un malconcepito disprezzo della giustizia italiana dava asilo ai peggiori terroristi rossi italiani) di qua e di là dalle Alpi decine di intellettuali veri e sedicenti firmarono in massa un appello per la sua scarcerazione. Un movimento simile si mise in moto anche nel 2007, quando il terrorista dei Proletari armati combattenti riparò nel Brasile governato autoritariamente dal presidente Inacio Lula da Silva (il quale gli garantì un diritto d’asilo politico che finalmente è stato appena revocato dal nuovo presidente): in quell'occasione si schierarono a suo favore nientemeno che Bernard Henry-Levy e Gabriel Garcia Marquez. È stato merito di un abile marketing politico. Battisti, che nella sua prima vita delinquenziale è stato soltanto un criminale ordinario e che soltanto a un certo punto si è trasformato in terrorista rivoluzionario, è riuscito proprio con questo abile paso doble a ingraziarsi buona arte della cultura radical chic italiana e della gauche caviar d’Oltralpe. Gli esempi si sprecano. Una nota scrittrice francese, Fred Vargas, si è trasformata nella pasionaria di Battisti, nemmeno il terrorista potesse essere equivocato per un eroe romantico. Un suo pamphlet, La vérité sur Cesare Battisti, uscito nel 2004, descriveva l’Italia degli anni di piombo come un Paese decisamente più illiberale e autoritario del Cile di Augusto Pinochet, e dipingeva i "poveri" terroristi rossi come eroi di una guerra civile persa dalla parte giusta soltanto grazie agli arresti di massa: con decina di migliaia di quei “democratici oppositori” sbattuti in carcere fra torture, tribunali speciali peggiori di quelli del fascismo, e migliaia di arbitrarie sentenze sommarie. Ma gli appelli, si sa, spesso si trasformano in una trappola. Perché chi firma resta ingabbiato per sempre in una posizione che viene incisa nella pietra, e anni dopo viene estremamente difficile negare. Ecco, se oggi fossero intervistati, chissà che cosa direbbero di Battisti quanti avevano firmato l’appello mistificatorio del 2004. Nell'appello si leggevano queste enfatiche affermazioni: "Dal momento della sua fuga dall’Italia, prima in Messico e poi in Francia, Cesare Battisti si è dedicato a un’intensa attività letteraria, centrata sul ripensamento dell’esperienza di antagonismo radicale che vide coinvolti centinaia di migliaia di giovani italiani e che spesso sfociò nella lotta armata. La sua opera è nel suo assieme una straordinaria e ineguagliata riflessione sugli anni Settanta, quale nessuna forza politica che ha governato l’Italia da quel tempo a oggi ha osato tentare". Insomma: secondo i firmatari del 2004, dal 1972 al 1989 Battisti aveva sì rapinato, sparato e ucciso, ma poiché nella latitanza parigina aveva scritto qualche libro (in realtà rinnegando poco o nulla della sua tragica esperienza criminale) solo per questo non meritava di andare in galera. Stupiti di tanta arroganza? L’appello mica si fermava lì. Continuava così: “Nulla lega Battisti a terrorismi di sorta, se non la capacità di meditare su un passato che per lui si è chiuso tanti anni fa. Trattarlo oggi da criminale è un oltraggio non solo alla verità, ma pure a tutti coloro che, nella storia anche non recente, hanno affidato alla parola scritta la spiegazione della loro vita e il loro riscatto". Oltraggio alla verità, certo. E infatti i firmatari, da buoni sacerdoti e depositari della "verità vera", insistevano nel denunciare che contro il povero Battisti era stata ordita una squallida congiura: "C’è chi ha interesse a che una voce come quella di Cesare Battisti venga tacitata per sempre. Chi, per esempio, contribuì alle tragedie degli anni Settanta, militando nelle file neofasciste o in quelle di organizzazioni clandestine quanto i Proletari armati per il comunismo, chiamate Gladio o Loggia P2, e sospettate di un numero impressionante di crimini. Chi fa oggi della xenofobia la propria bandiera. In una parola, una gran parte del governo italiano attuale”. Il farneticante appello del 2004, che metteva sullo stesso piano Gladio, Ps, terroristi di ogni colore e ovviamente il centrodestra che in quel momento era al governo con Silvio Berlusconi, si concludeva così: "La vita di Cesare Battisti in Francia è stata modesta, piena di difficoltà e di sacrifici, retta da una eccezionale forza intellettuale. È riuscito ad attirarsi la stima del mondo della cultura e l’amore di una schiera enorme di lettori (…). È un uomo onesto, arguto, profondo, anticonformista nel rimettere in gioco fino in fondo se stesso e la storia che ha vissuto. In una parola, un intellettuale vero". Tra i firmatari che 13 anni fa si schierarono a favore dell’intellettuale, l’uomo “arguto e profondo” che oggi sostiene nelle sue interviste brasiliane che l’Italia chiede la sua estradizione “perché è un Paese arrogante”, c'erano scrittori e artisti di rilievo come il collettivo Wu Ming, Valerio Evangelisti, Massimo Carlotto, Tiziano Scarpa, Nanni Balestrini, Daniel Pennac, Giuseppe Genna, Giorgio Agamben, Girolamo De Michele, il vignettista Vauro, Lello Voce, Pino Cacucci, Christian Raimo, Sandrone Dazieri, Loredana Lipperini, Marco Philopat, Gianfranco Manfredi, Laura Grimaldi, Antonio Moresco, Carla Benedetti, Stefano Tassinari... Tra i firmatari del 2004 figurava anche uno sconosciuto ventiquattrenne napoletano, Roberto Saviano. Due anni dopo, però, quel Saviano raggiunge però la fama con un romanzo, Gomorra, e nel 2009, quando la sua fama esplode, corre a ritirare la firma dall'appello motivando la sua decisione con queste imbarazzate parole: “Mi segnalano la mia firma in un appello per Cesare Battisti (...) finita lì per chissà quali strade del web e alla fine di chissà quali discussioni di quel periodo. Qualcuno mi mostra quel testo, lo leggo, vedo la mia firma e dico: non so abbastanza di questa vicenda (...) Chiedo quindi di togliere il mio nome, per rispetto a tutte le vittime”. Chissà perché. Forse il Saviano autore di best-seller contro la camorra, diventato punta di lancia dell’Italia antimafia e legalitaria, non poteva più essere confuso con l’altro Saviano, il firmatario di appelli che chiedevano la libertà di un rapinatore e pluri-omicida, condannato in via definitiva all’ergastolo.
Vauro non cambia linea: "Rivendico la mia firma sull'appello per Battisti". Vauro Senesi non fa un passo indietro nemmeno dopo l'arresto di Cesare Battisti e rivendica ancora una volta l'appello firmato qualche anno fa, scrive Luca Romano, Domenica 13/01/2019, su "Il Giornale". Vauro Senesi non fa un passo indietro nemmeno dopo l'arresto di Cesare Battisti e rivendica ancora una volta l'appello firmato qualche anno fa, nel 2004 per l'ex terrorista dei Pac. Con un intervento sul sito del Fatto, secondo quanto riporta l'Adnkronos, Vauro spiega i motivi di quella scelta che probabilmente rifarebbe: "Mi assumo tutta la responsabilità politica e morale della mia firma sotto l'appello per Cesare Battisti del 2004. In realtà fu una persona, della quale non farò il nome, ad apporla per me, dando per scontata una mia adesione. Avrei dovuto ritirarla al tempo e non lo feci per colpevole superficialità e malinteso senso di amicizia. Non l'ho fatto nemmeno successivamente, quando scoppiarono le polemiche, perché un ritiro tardivo mi appariva e mi appare come un atto ipocrita volto a scaricare le responsabilità personali di cui sopra". Poi parla di Battisti e spiega ancora i motivi che l'hanno spinto a firmare quell'appello: "esare Battisti - scrive il vignettista - è un fantasma che viene da anni orribili, anni di piombo e di stragi, anni di connivenze criminali tra parti dello stato terrorismo e mafia. Anni nei quali in Italia il confine tra Giustizia e vendetta politica era divenuto labile ed ambiguo, tanto da giustificare la cosiddetta 'Dottrina Mitterrand' in base alla quale la Francia negò l'estradizione di Battisti. Anni che sono stati rimossi e mai analizzati". Infine parla del Battisti di oggi che molto probabilmente finirà (giustamente) in un carcere italiano: Battisti è un fantasma che oggi si reincarna in manette. Altri fantasmi di quella epoca tragica restano evanescenti ed impuniti… Piazza Fontana, Piazza della Loggia a Brescia fino alle stragi mafiose del '92-'93, fantasmi che si nascondono tra la polvere degli archivi dei palazzi del potere, tra segreti mai svelati, connivenze forse mai sciolte. Battisti andrà in carcere come è giusto che sia se ha commesso fatti di sangue ma Giustizia sarà davvero fatta solo quando quella polvere sarà spazzata via, quei segreti svelati, quelle connivenze recise. Quando finalmente questo Paese deciderà di fare i conti con la propria storia".
«Spero che arrestino Sofri» (ma si tratta di Battisti), social scatenati sulla gaffe di Pepe, scrive Sabato 15/12/2018 Il Quotidiano del Sud. «È andata bene, poteva anche dire Mogol»: da qualche ora i social si stanno scatenando sulla gaffe di Pasquale Pepe, il senatore leghista di Potenza che giovedì – durante le dichiarazioni di voto al Senato sul decreto anti-corruzione – prendendo la parola in qualità di capogruppo ha tenuto a ribadire ai colleghi del Pd che la sua forza politica non è giustizialista e garantista a giorni alterni, a partire dal «caso di Sofri». Riferimento sbagliato a Cesare Battisti, l'ex leader di Lotta Continua che si trova in Brasile ma da qualche ora risulta irreperibile. Intanto, i colleghi salviniani hanno fatto partire l'applauso, così, sulla fiducia. Dopo un lungo periodo in Francia, l'ex terrorista poi scrittore di successo aveva ottenuto la protezione del governo brasiliano, che aveva negato sempre la sua estradizione in Italia: con l'elezione a presidente di Jair Bolsonaro, leader di estrema destra, il clima è decisamente cambiato. Ieri pomeriggio era arrivata – sempre sui social, in particolare facebook – il commento divertito dello stesso Sofri: «La mia reputazione ha avuto una piccola impennata, giovedì, grazie a un irresistibile senatore leghista che parlava in pro della legge contro i reati nella pubblica amministrazione. Costui ha prima imputato ai senatori seduti a sinistra di aver “addirittura difeso Sofri Bompressi e Pietrostefani” (se l’era scritto, per non sbagliare), poi ha perfezionato vibratamente la cosa: “E a proposito di Sofri io spero che il presidente Bolsonaro finalmente lo assicuri alle patrie galere per i crimini schifosi che ha commesso in Italia”. A questo punto i senatori leghisti sono scoppiati in un applauso. Mancava solo un altro dettaglio, la presidenza del Senato, in quel momento tenuta da una signora 5 Stelle, la quale ha detto: “Rimanga nell’ambito del provvedimento, la magistratura farà il suo dovere nell’ambito di quello che è il suo compito”. Citazioni testuali, del resto la registrazione è disponibile, anche sul Fb dell’oratore, evidentemente fiero del colpo che aveva assestato: solo più tardi ne ha aggiunto uno tagliato. Ho saputo della mia riuscita da un articolo di Sansonetti sul Dubbio. Nessun altro sembra essersene accorto, forse per il leggendario rispetto che hanno per la privacy, compresa la mia. Ah no, il Fatto ha dedicato al fatterello alcune sapide righe, nelle quali si dice di passaggio che “l’ex leader di Lotta Continua ha finito di scontare la pena (in parte in carcere in parte in libertà)… nel 2012”. E’ la prima volta che leggo di una pena scontata in libertà. Era la mia giornata fortunata».
Io, Adriano Sofri, non sono Cesare Battisti. La mia reputazione ha avuto una piccola impennata. C'entrano un irresistibile senatore leghista, una senatrice grillina e alcune sapide righe del Fatto, scrive Adriano Sofri il 14 Dicembre 2018 su Il Foglio. La mia reputazione ha avuto una piccola impennata, giovedì, grazie a un irresistibile senatore leghista che parlava in pro della legge contro i reati nella pubblica amministrazione (video sotto). Costui ha prima imputato ai senatori seduti a sinistra di aver “addirittura difeso Sofri Bompressi e Pietrostefani” (se l’era scritto, per non sbagliare), poi ha perfezionato vibratamente la cosa: “E a proposito di Sofri io spero che il presidente Bolsonaro finalmente lo assicuri alle patrie galere per i crimini schifosi che ha commesso in Italia”. A questo punto i senatori leghisti sono scoppiati in un applauso. Mancava solo un altro dettaglio, la presidenza del Senato, in quel momento tenuta da una signora 5 stelle, la quale ha detto: “Rimanga nell’ambito del provvedimento, la magistratura farà il suo dovere nell’ambito di quello che è il suo compito”. Citazioni testuali, del resto la registrazione è disponibile, anche sul Fb dell’oratore, evidentemente fiero del colpo che aveva assestato: solo più tardi ne ha aggiunto uno tagliato. Ho saputo della mia riuscita da un articolo di Sansonetti sul Dubbio. Nessun altro sembra essersene accorto, forse per il leggendario rispetto che hanno per la privacy, compresa la mia. Ah no, il Fatto ha dedicato al fatterello alcune sapide righe, nelle quali si dice di passaggio che “l’ex leader di Lotta Continua ha finito di scontare la pena (in parte in carcere in parte in libertà)… nel 2012”. E’ la prima volta che leggo di una pena scontata in libertà. Era la mia giornata fortunata.
Adriano Sofri contro il carcere. Lungo articolo pubblicato sul Foglio a proposito dell'arresto di Cesare Battisti, scrive huffingtonpost.it il 15/01/2019. "Ho sentito il presidente di un'Associazione delle vittime del terrorismo e dell'eversione contro l'ordine costituzionale, Roberto Della Rocca, lui stesso a suo tempo bersaglio di un attentato, uno di quanti si congratulano francamente per la cattura di Battisti, dire questa frase: "Non vogliamo portare qualcuno in galera perché marcisca dietro le sbarre". A scriverlo è Adriano Sofri - ex leader di Lotta Continua, condannato a 22 anni di carcere come dell'omicidio del commissario di polizia Luigi Calabresi, nel 1972 - in un lungo articolo pubblicato sul quotidiano il Foglio a proposito dell'arresto di Cesare Battisti. Sofri critica le parole del ministro dell'Interno che, a suo modo di vedere ha "oltrepassato la soglia della stessa legalità formale" lasciandosi andare ad una "licenza personale". So mettermi nei panni di un agente della polizia penitenziaria. Ne ho conosciuti tanti, alcuni spregevoli, alcuni stimabili, di alcuni diventai amico. Dovranno occuparsi di questo Battisti sul quale si è fatto tanto chiasso. È probabile che agli agenti, benché non dipendano dagli Interni ma dalla Giustizia, siano arrivate più forti le parole di Salvini che quelle di Della Rocca. Immagino - potete immaginarlo anche voi - che risonanza possano avere parole simili in chi si proponga, per propria cordiale inclinazione o per zelo di obbedienza o tutti e due, di praticarle. Immagino di sentirle ripetere attraverso lo spioncino, come un divertito ritornello: 'Devi marcire fino all'ultimo giorno'. (È una variazione distillata, sofisticata, del più asciutto slogan di stadi e galere: 'De-vi mori-re!')".
A proposito di Salvini, Sofri scrive ancora: Bastava la televisione. Ha fatto capire che sarebbe stato più forte di lui, da vicino, l'impulso a farsi giustizia con le sue mani, tenetemi sennò. Gli agenti penitenziari, quelli nei cui panni mi ero messo sopra, lo vedranno giorno e notte da vicinissimo, Battisti. Speriamo che siano più controllati del ministro. Il quale, se non nei panni, nelle divise loro si mette in posa come nessun altro.
L'ex leader di Lotta continua prosegue: Capisco, mi pare, il desiderio dei famigliari delle vittime di vedere chiuso in carcere il responsabile provato - o colui che credono il responsabile provato - del loro lutto. Io però ho da tantissimo tempo, e molto prima che mi riguardasse così da vicino, un'obiezione di coscienza radicale alla galera, salvo quando la reclusione sia il solo modo per impedire a qualcuno di fare ancora del male. Un'abitudine pigra, ma niente è più ostinato dell'abitudine, continua a identificare il risarcimento dovuto alla vittima e alla comunità con la cella. Io provo solo disgusto e vergogna per la cella, con tanta forza che non mi succede mai, nemmeno fra me e me, di augurarmi che le persone che detesto e considero nemiche (ce ne sono, infatti, com'è umano) finiscano loro in galera. Perché la galera, chi la conosca da carcerato o da carceriere, e resti umano, nobilita il prigioniero e contagia di ignobiltà chi la augura.
Per Sofri il carcere è il luogo più disadatto al vero pentimento. Il carcere è così disumano e cattivo e assurdo da attenuare fino a cancellare la stessa differenza fra innocenza e colpevolezza, da insinuare nel detenuto una sensazione di umiliazione e di offesa che prevale sulla ragione che ce l'ha portato. In carcere si può 'pentirsi' solo maledicendo l'accidente che vi ci ha portati: una lezione a delinquere meglio, la volta che ne sarete usciti. Chi attraversi una conversione vera dei propri desideri e della propria vita lo fa non grazie alla galera, ma nonostante la galera. La quale, che lo si voglia oppure si pensi e si proclami di non volerlo, è una vendetta.
Lo striscione shock al Colosseo: "Battisti libero". Il terrorista Cesare Battisti arriverà oggi in Italia, ma c'è chi non si arrende: "Libertà per lui e per i compagni", scrive Andrea Riva, Lunedì 14/01/2019, su "Il Giornale". Nonostante il destino di Cesare Battisti sia ormai deciso, c'è chi non si arrende e, anzi, continua a fare del terrorista rosso un eroe ingiustamente perseguitato dalla giustizia. E così ieri sera è apparso uno striscione vergognoso al Colosseo: "Battisti libero, amnistia per i compagni, noi restiamo". Il tutto, ovviamente, accompagnato da una stella a cinque punte rosse. In poche ore lo striscione è stato rimosso e ora sta investigando la Digos. Ma chi ha messo quello striscione non è solo. Proprio ieri raccontavamo di Marco Ferrando, portavoce nazionale del Partito Comunista dei Lavoratori, che diceva all'AdnKronos: "La soluzione logica dovrebbe essere l'amnistia. Nessun elemento di enfasi, di gioia o di solidarietà verso un governo reazionario come quello di Salvini e Di Maio". Pure lo scrittore Christian Raimo ieri diceva: "Ho firmato quattordici anni fa un appello per la liberazione di Cesare Battisti. Ho conosciuto e ho lavorato insieme ai parenti di quelle che sarebbero le vittime di Cesare Battisti, ascoltato il loro dolore. Ho letto alcuni romanzi di Cesare Battisti e non mi sono mai piaciuti. Non ho mai festeggiato per la galera a qualcuno. Per me l'ergastolo andrebbe abolito, per me andrebbero abolite le galere". Stefano Cavedagna, presidente di Forza Italia Giovani, ha duramente condannato l'accaduto: "Forza Italia Giovani condanna queste pazze proposte di una certa sinistra, che ha sempre, purtroppo, difeso Cesare Battisti, un assassino terrorista comunista che, in nome dell’odio della sua ideologia perversa, ha ucciso persone innocenti. Ricordiamo come, nel 2004, tante firme di sinistra primi tra tutti Saviano e Vauro, chiedevano a gran voce l’amnistia per Battisti, con una petizione pubblica. Ricordiamo che negli anni diversi esponenti della sinistra hanno cullato Battisti come se fosse una loro bandiera. Noi crediamo che Cesare Battisti debba marcire in una galera fino alla fine dei suoi giorni. Ci sono voluti tanti, troppi anni per riportarlo in Italia, perché tutelato dalle amministrazioni comuniste sudamericane, trattato come prigioniero politico, quando non era altro che un pazzo criminale. Non esiste alcuna forma di garantismo nei confronti di un terrorista assassino comunista, che uccide in nome della sua malata ideologia. Ci piacerebbe vedere il PD e tutta la sinistra prendere le distanze da queste posizioni". Ma oggi la fuga del terrorista è terminata. Con buona pace dei compagni di oggi e di ieri.
Quegli irriducibili "compagni" che difendono ancora Battisti. Da Scalzone a Caruso fino a Raimo e la sinistra "rossa" di Ferrero e Ferrando: ecco chi non accetta un assassino in carcere, scrive Luca Romano Lunedì 14/01/2019, su "Il Giornale". La sinistra non si arrende. Cesare Battisti ormai è in carcere ad Oristano dove sconterà il suo ergastolo per saldare il conto con la giustizia italiana. Ma i "compagni" difendono ancora l'ex terrorista dei Pac. Tra le voci più accese su questo fronte c'è quella di Oreste Scalzone co-fondatore di Potere Operaio, che con l'ex leader dei Pac ha condiviso l'esperienza della latitanza a Parigi sotto la protezione della cosiddetta "dottrina-Mitterrand". All'Adnkronos Scalzone non usa giri di parole e afferma: "Quelli che vociferano dai pulpiti istituzionali sono 'irriferibili'... A cominciare dal ministro della guerra interna di turno, l'orrido Salvini. Battisti - come qualunque altra persona non 'colta sul fatto', atto o scritto considerato reato di parola irrevocabilmente stampata e firmata - resterà sempre 'presunto' autore di questo e quello, eventualmente inscritto in un codice penale come delitto o crimine. Uno statista, governante, a cominciare da un ministro della guerra, esterna o interna, è apertamente, ufficialmente, per funzione, per ruolo, responsabile di sangue sparso in misura vertiginosamente più grande". Ma non è una voce isolata la sua. C'è anche quella dell'ex deputato di Rifondazione Comunista, Francesco Caruso che non accetta l'arresto di Battisti: "Non si capisce cosa debba fare questo signore in carcere se il principio del carcere resta quello sancito dall'articolo 27 della Costituzione italiana, che si chiama 'rieducazione', non 'vendetta'". Che dire poi delle parole del direttore de il Dubbio, Piero Sansonetti che di fatto contesta la condanna dell'ex terrorista dei Pac: "Cesare Battisti è stato condannato sulla base di testimonianze, poco credibili, di pentiti. Sono le uniche prove a suo carico. Mi si dirà che è una sentenza passata in giudicato ma io ho il diritto di contestarla. Bisognerebbe ripensare a quei processi e soprattutto alla legge sui pentiti che rischia di creare ingiustizie. Certo, in questo clima non mi sembra ci sia nessuna possibilità ma sarebbe importante". Tra le voci che fanno discutere c'è anche quella di Christian Raimo, uno dei firmatari dell'appello per la liberazione del terrorista dei Pac: "Ho firmato quattordici anni fa un appello per la liberazione di Cesare Battisti. Ho conosciuto - ho lavorato insieme - a parenti di quelle che sarebbero le vittime di Cesare Battisti, ascoltato il loro dolore. Ho letto alcuni romanzi di Cesare Battisti e non mi sono mai piaciuti. Non ho mai festeggiato per la galera a qualcuno. Per me l'ergastolo andrebbe abolito, per me andrebbero abolite le galere". Duro anche l'attacco di Marco Ferrando, portavoce nazionale del Partito Comunista dei Lavoratori: "La soluzione logica dovrebbe essere l'amnistia. Nessun elemento di enfasi, di gioia o di solidarietà verso un governo reazionario come quello di Salvini e Di Maio". Sul fronte dell'appello firmato nel 2004 per il terrorista arrestato ieri in Bolivia si è espresso un altro dei firmatari, il vignettista Vauro Senesi che difende (anche oggi) al sua scelta: "Mi assumo tutta la responsabilità politica e morale della mia firma sotto l'appello per Cesare Battisti del 2004. In realtà fu una persona, della quale non farò il nome, ad apporla per me, dando per scontata una mia adesione. Avrei dovuto ritirarla al tempo e non lo feci per colpevole superficialità e malinteso senso di amicizia. Non l'ho fatto nemmeno successivamente, quando scoppiarono le polemiche, perché un ritiro tardivo mi appariva e mi appare come un atto ipocrita volto a scaricare le responsabilità personali di cui sopra", ha affermato all'Adnkronos. Insomma gli irriducibili "rossi" non accettano che un delinquente come Battisti paghi con l'ergastolo il conto aperto con la giustizia italiana.
Battisti: ti aspettiamo a cella aperta la sinistra adesso non può più garantirti la latitanza, scrive il 14 gennaio 2019 Andrea Pasini su "Il Giornale". La caccia è finita! Finalmente per una volta nel mondo viene fatta giustizia, per una volta la marmaglia rossa paga, alla faccia di tutti i miserabili piccoli uomini che avevano firmato appelli, controappelli e lettere. L’assassino terrorista è stato catturato in Bolivia dove si aggirava (probabilmente ubriaco) con 3 euro in tasca. Sono passati i tempi in cui l’ex presidenza brasiliana di Lula lo proteggeva, con l’avvento del governo Bolsonaro e del deciso cambio di rotta il terrorista ha dovuto rimettersi in fuga quando ormai pensava di essersi sistemato. Ma andiamo a considerare il curriculum criminale del Battisti: 2 omicidi, il primo, un poliziotto, il secondo, un padre (ucciso davanti agli occhi del figlio), ha sparato rendendo paralitico a vita un uomo e altri due omicidi di cui comunque, se non esecutore materiale, è stato ideatore e collaboratore. Come al solito, secondo una consolidata tradizione, c’è stata una pletora di uomini e associazioni che lo hanno difeso sia a parole che nei fatti in tutto il tempo della sua latitanza. Andiamo a vedere e facciamo nomi e cognomi di chi si è espresso o mosso a favore di questo vile comunista assassino: I primi da cui trovò rifugio furono i nostri cugini d’oltralpe, tanto arrendevoli nelle guerre quanto bravi a cavillare in tempo di pace, che non concedettero l’estradizione all’Italia seguendo le indicazioni della dottrina Mitterrand secondo la quale non vengono estradate persone in stati “il cui sistema giudiziario non corrisponda all’idea che Parigi ha delle libertà”. Dalla dottrina Mitterrand beneficiarono moltissimi altri terroristi tutti, immancabilmente, rossi. Dopo la Francia raggiunse il Brasile che decise di accordargli lo status di rifugiato politico nonostante abbiano fatto un po’ di sceneggiata mettendolo in carcere per qualche settimana. Ma veniamo ai nomi, sì, i nomi di chi in tutti questi anni ha solidarizzato con un terrorista rosso assassino. In Francia, a parte qualche scribacchino minore a cui non faremo pubblicità, ricordiamo al disonore di oggi Fred Vargas, scrittore, che non ha fatto mancare il suo sostegno economico a Battisti oltre a scrivere un libro ” La verità su Cesare Battisti” grazie a Do inedito in Italia. Un altro incensato dalla sinistra putrida di casa nostra e altrui Gabriel Garcia Marquez ha espresso solidarietà per il criminale così come alcuni esponenti di Amnesty International, un altro caposaldo del politicamente corretto ipocrita di sinistra. In Italia ovviamente non poteva mancare tutta una bolgia ipocrita di sostenitori che sul sito “Camilla Online” raccolsero alcune firme. Tralasceremo, sempre per non fare pubblicità, i personaggetti da niente, ma citiamo alcuni nomi notabili. Primo fra tutti il ragazzo d’oro della sinistra italiana Roberto Saviano che, bontà sua (o ipocrisia?), ritirerà in un secondo momento il suo appoggio. Erri De Luca, un altro santino della sinistra, ha negato di aver firmato in sostegno a Battisti pur augurandosi una soluzione politica per tutti i fuggiaschi attivi durante gli anni di piombo scrivendo un articolo sul mattinale francese Le Monde. Fanalino di coda, anche il bollito e si spera prossimo alla pensione, Vauro ha espresso qualche forma di solidarietà per la canaglia rossa. Questi sono i nomi e le associazioni più famosi che hanno sostenuto questo niente travestito da uomo. Pensateci la prossima volta prima di dare soldi a questi soggetti e rispondete per le rime quando il vostro amico, collega, parente di sinistra si riempirà la bocca cianciando di cultura in riferimento ai personaggi sopraddetti. Ricordatevi che questi soggetti, che amano riempirsi la bocca di moralità, magari definendo Salvini disumano o simili, hanno sostenuto un assassino consapevoli della sua colpevolezza giudiziaria. Ricordatevelo e ricordatelo ai moralisti falsi, ipocriti, e meschini da salotto. Ciao Battisti, La sinistra piange, noi invece ridiamo e siamo felici che tu da oggi in poi marcirai fino alla fine dai tuoi giorni in galera.
Cesare Battisti, orrore sinistro: "Va liberato subito", chi si schiera con il terrorista, scrive Tommaso Montesano il 15 Gennaio 2019 su Libero Quotidiano". Cesare Battisti si è arreso nella saletta dell'aeroporto di Ciampino: «Ora so che andrò in prigione». I "compagni" ancora no. A Roma nella notte sul ponte in via degli Annibaldi, che porta al Colosseo, è apparso uno striscione firmato "Noi restiamo": «Battisti libero. Amnistia per i compagni». Insieme alla sigla, l'immancabile stella rossa a cinque punte. Il lenzuolo è stato poi rimosso dalla Digos, che indaga. Sulla pagina Facebook di quella che si definisce «organizzazione politica», è apparso poi un post nel quale si dipinge l'ex terrorista come un eroe: «Due decenni di lotte, sperimentazione antagonista e assalti al cielo non possono essere cancellati dietro sbarre e infamia. Cesare, il tuo Paese ti saluta». Mentre Battisti, dopo essere sceso dal Falcon 900 dei Servizi segreti, espletava le formalità che nel pomeriggio lo avrebbero portato nel carcere di Oristano - il fotosegnalamento negli uffici della questura di via Patini; il nuovo imbarco a Pratica di Mare alla volta della Sardegna; la nomina del difensore: il milanese Davide Steccanella, legale anche di Renato Vallanzasca - gli appelli dei compagni - vecchi e nuovi - dell'ex leader dei Proletari armati per il comunismo (Pac) si moltiplicavano. Il filo conduttore è «amnistia». La auspica, ad esempio, il direttore del Dubbio, Piero Sansonetti, per il quale Battisti «è stato condannato sulla base di testimonianze, poco credibili, di pentiti. Sono le uniche prove a suo carico». La pensa come Vincenzo Battisti, il fratello di Cesare: «Per me non ha ammazzato nessuno. Non è colpevole: lo dite voi. I processi furono in contumacia».
«PROCESSO DA RIFARE». Da Parigi si fa sentire Oreste Scalzone, fondatore di Potere Operaio, che insieme all' ex leader dei Pac e ad altri br latitanti ha vissuto a Parigi, protetto dalla "dottrina Mitterrand". Per Scalzone, Battisti «resterà sempre "presunto autore" di questo e quello». Invece l'«orrido» Salvini «è apertamente, ufficialmente, per funzione, per ruolo, responsabile di sangue sparso in misura vertiginosamente più grande». L' amnistia è la strada maestra: «Sono molto pessimista. Ma mai dire mai, possono sempre verificarsi contro-terremoti antropologici». L'ex br Paolo Persichetti, scarcerato nel 2014 dopo aver condiviso, anche lui, la vita parigina, è uno dei più loquaci. «Siamo alla barbarie. Un trofeo esibito e la muta che lo rincorre», si sfoga all' AdnKronos. E poi basta con la mitologia dell'esilio dorato: «Battisti viveva in una soffitta e faceva il portiere. Dicono è finita la pacchia (il solito Salvini, ndr), ma non sanno di cosa parlano, l'esilio è una vita dura: nessuna assistenza sanitaria, niente soldi, ti devi arrangiare». Guai ad arrendersi: «Macron pretenda il rispetto degli impegni sul processo da rifare a Battisti».
«CORTINA FUMOGENA». La maggior parte dei firmatari dell'appello in favore dell'ex terrorista, nel 2004, tace. Ma alcuni non ci stanno. È il caso dello scrittore e sceneggiatore Sandro Dazieri: «Non ritiro la firma. Avevo firmato l'appello perché avevo letto la controinchiesta e c' erano molti dubbi sul processo». Per lo scrittore Christian Raimo, pure lui tra i firmatari, l'arresto di Battisti serve a Lega e M5S per far trionfare il «populismo penale: il corpo di Battisti in carcere, isolato e punito sarà una specie di monito. Sarà molto difficile, un domani, che una manifestazione politica che abbia toni più accesi non venga soffocata con misure di repressione carceraria molto forti». Per "Potere al popolo" è tutto un complotto: la presenza dei ministri a Ciampino, l'enfasi del Viminale sulla cattura, sono «l'ennesima mossa di Salvini per distogliere l’attenzione dai problemi reali, per costruire consenso a costo zero, fare egemonia culturale». Domenica sera - ora italiana - prima che Battisti salisse sull' aereo per l'Italia, i suoi familiari hanno tentato di giocare la carta della richiesta di asilo alla Bolivia. Ieri si è saputo che in realtà il governo sudamericano aveva respinto la domanda già il 26 dicembre. Spianando, in questo modo, la strada all' espulsione. Un particolare decisivo, ha spiegato il Guardasigilli, Alfonso Bonafede, per fare subito rientro in Italia. Senza toccare il suolo brasiliano, l'accordo sottoscritto dal suo predecessore, Andrea Orlando, con Brasilia per la commutazione dell'ergastolo in trent' anni di carcere, è venuto meno: «Con il rientro diretto, Battisti sconterà l'ergastolo». Tommaso Montesano
Quella mail del "no global" Ue per "salvare" l'amico Battisti. Fino all’ultimo la rete internazionale che da sempre ha protetto Cesare Battisti ha fatto di tutto per permettergli di rimanere in Bolivia, scrive Paolo Manzo, Mercoledì 16/01/2019, su "Il Giornale". Fino all’ultimo la rete internazionale che da sempre ha protetto Cesare Battisti ha fatto di tutto per permettergli di rimanere in Bolivia. Il Giornale è entrato in possesso in esclusiva di una importantissima email inviata lo scorso 31 dicembre a Patricia Hermosa Gutierrez, capo gabinetto della Presidenza della Repubblica della Bolivia nonché factotum di Evo Morales in persona. A firmarla José Bové, oggi vice presidente della Commissione Agricoltura e sviluppo rurale al parlamento Europeo, eurodeputato dal 2009. Mentre per l’Interpol il terrorista dei Proletari Armati per il Comunismo era ricercato a livello internazionale l’ex agricoltore francese diventato uno dei volti simbolo del movimento no global sapeva esattamente dove il suo amico italiano si trovasse e di che aiuto avesse bisogno, tanto da rivolgersi appunto a Morales in persona. Ma si è ben guardato dall’informare le autorità in barba all’importante ruolo istituzionale che oggi ricopre presso il Parlamento Europeo. L’email ha un tono colloquiale. “Caro Evo”, scrive Bové da Meseta del Larzac, sua personale roccaforte, per poi entrare subito nella ricostruzione menzognera dei fatti così cara a certo mondo francese “Battisti è stato condannato all’ergastolo senza possibilità di difesa durante il suo processo”. Con l’arrivo di Sarkozy scrive “io stesso ho perorato direttamente il suo trasferimento in Brasile ma la vittoria di Bolsonaro lo ha obbligato a partire per la Bolivia.” Per arrivare poi alla richiesta. “Ti chiedo che tu gli permetta di stabilirsi in Bolivia con una protezione giuridica simile a quella che a suo tempo gli aveva concesso il presidente socialista Mitterand. Non esitare ad avvisarmi della tua decisione, rimango a tua disposizione se dovesse essere necessario. Spero tu possa accogliere in modo positivo questa richiesta”. Morales aveva già rifiutato cinque giorni prima la richiesta di asilo presentata da Battisti il 21 dicembre. L’email di Bové è stata, dunque, l’ultima carta per tentare di salvare una situazione che già allora si stava mettendo male. Quanto a Bové incarna benissimo quell’internazionale rossa che per anni ha protetto Battisti come altri terroristi. Nel curriculum dell’ex agricoltore ci sono vari arresti tra cui uno famosissimo nel 2002 a Millau in Francia per aver distrutto un McDonald’s. Nel 2007 poi è stato addirittura candidato alle presidenziali in Francia. Con il Brasile ha rapporti antichi. Nel 2001 in occasione del Forum Sociale Mondiale ha partecipato con membri del Movimento Sem Terra verde-oro alla distruzione di 2 ettari di soia geneticamente modificata in una proprietà agricola del Rio Grande do Sul di proprietà della Monsanto. Nel 2010 aveva firmato un documento che appoggiava la candidatura della delfina di Lula, Dilma Rousseff, alla presidenza contro José Serra dietro cui, secondo Bové “la destra brasiliana sta mobilitando tutto quello che ha di peggiore nelle nostre società”. Nove anni dopo il nemico è diventato Bolsonaro e la sua scelta di dare l’ok all’estradizione. E ora che il caro Evo non ha dato seguito alla sua richiesta Bové continua sul suo sito internet la sua difesa di Battisti. Come del resto ha fatto in Italia Adriano Sofri. L’ex leader di Lotta Continua, condannato come mandante dell’omicidio del commissario Calabresi si è scagliato contro Matteo Salvini “È una vendetta, vergogna e disgusto" per il carcere e quello che rappresenta. E lo difende anche il fratello Domenico Battisti. “È innocente, era solo un delinquente da quattro soldi”. Immediata la risposta di Salvini su Twitter “Che vergogna. Dovrebbe solo stare zitto, almeno per rispetto di tutte quelle persone che, per colpa di un assassino, hanno perso la vita”.
Battisti: così il piccolo malavitoso è diventato il pericolo pubblico numero uno. Pesce piccolo di una organizzazione terroristica secondaria, Battisti negli anni è diventato una leggenda “nera”, scrive Paolo Delgado il 15 gennaio 2019 su Il Dubbio. Forse solo dopo la cattura di Totò Riina, a pochi mesi dalle stragi di Capaci e via D’Amelia, un arresto era stato accompagnato da tanto tripudio mediatico e ancora ancora… Per una volta il potere politico e il quarto potere concordano: l’evento è storico, la soddisfatta gioia incontenibile. I social rispondono all’appello, fanno volentieri da grancassa: per 48 ore non si è parlato d’altro che dell’arresto di Cesare Battisti, neanche implicasse il sorgere di una nuova alba per la Repubblica. La messa in scena, con tanto di diretta tv all’arrivo dell’aereo col reprobo a Ciampino, è stata degna dell’occasione. Tiratori scelti sui tetti e gran dispiegamento di forze dell’ordine nel caso non si sa quale organizzazione micidialmente armata tentasse colpi di mano sventagliando mitragliate. Già disposto l’isolamento per sei mesi, misura di massima sicurezza che un tantinello stride trattandosi di un ricercato preso perché senza una peseta in tasca e senza più uno straccio d’amico si rifocillava nelle pizzerie economiche. Per mantenere la promessa di far tirare le cuoia a Battisti in galera, il governo medita sulla possibilità di insistere per l’ergastolo ostativo, quello che almeno sulla carta non consentirebbe liberazione anticipata. Battisti sarebbe l’unico tra le centinaia di terroristi rossi e neri a cui è stata comminata la massima pena a godere di un simile trattamento di sfavore. Uno degli aspetti più impressionanti in questa festa della punizione esemplare è la sproporzione tra la rilevanza senza precedenti attribuita all’arresto e il ruolo limitato dell’arrestato negli anni che per convenzione si definiscono “di piombo”. Cesare Battisti, classe 1954, era un piccolo malavitoso politicizzato in carcere militante in una formazione della galassia armata di quell’epoca, i Pac, Proletari armati per il comunismo. Arrestato nel 1979 riesce a evadere nel 1981 e si rifugia a Parigi, come molti altri fuggiaschi delle formazioni armate. La Francia aveva aperto le porte in segno di critica fattiva alle regole emergenziali che improntavano i processi per terrorismo e che costituivano “un sistema giudiziario non corrispondente all’idea che la Francia ha delle libertà”. Cesare Battisti era un pesce piccolo, non aveva molto da temere. Restò un anno a Parigi, poi si spostò in Messico. Si sposò, vide nascere la prima figlia, iniziò a scrivere. Mentre si trovava in Messico fu condannato per quattro omicidi in uno dei peggiori processi emergenziali, sulla base della testimonianza di un pentito, Pietro Mutti, che la stessa Cassazione indica come poco credibile. Quando nel 1990 torna a Parigi Cesare Battisti è una figura quasi sconosciuta. La giustizia italiana ne chiede comunque l’estradizione, l’ex militante dei Pac viene arrestato ma dopo quattro mesi la Chambre d’accusation lo dichiara non estradabile, essendo stato condannato sulla base di prove degne della giustizia militare. Ma anche questa è ordinaria amministrazione: la trafila che devono seguire i rifugiati in Francia. Negli anni successivi Battisti campa traducendo autori noir tra cui il grande Manchette, diventa amico di Fred Vargas nel 1993 pubblica il primo romanzo e altri ne seguiranno. E da quel momento che l’ignoto Cesare Battisti diventa un supercriminale la cui libertà fa scandalo. Come terrorista era uno dei tanti, ma dal momento che scrive e pubblica, che viene tradotto anche in italiano, che non perde occasione per tacere e anzi si mette forse esageratamente in mostra, che in Italia arriva addirittura nei teatri uno spettacolo teatrale su suoi testi interpretati da Piergiorgio Bellocchio ora è una figura eminente. Scala con la velocità del fulmine la lista dei più ambiti dalla giustizia italiana. Nel 2002 il ministro della Giustizia italiano, il leghista Castelli, e il collega francese Perben firmano un patto che limita la dottrina Mitterrand e l’Italia inizia a martellare per ottenere l’estradizione di Battisti. Perché proprio lui? Non per il suo ruolo nella lotta armata né per i delitti commessi, che sono in linea con quelli di quasi tutti i rifugiati in giro per il mondo anche se il processo emergenziale e in contumacia, senza contraddittorio con il pentito Mutti, li ingigantisce. Il problema è che Battisti fa notizia. Campeggia sui giornali. Contravviene alla regola non scritta che impone agli ex terroristi di farsi notare il meno possibile. Nasce così la leggenda di un Battisti che invece di ‘ marcire in galera’ fa la bella vita, ricco e mondano, salottiero alla faccia della giustizia italiana. In realtà, nonostante i libri, Cesare Battisti non è affatto il rampollo della società dorata descritto dalla stampa italiana. Campa facendo il portiere oltre che con i libri e le traduzioni. Battisti, però, nel frattempo aveva ottenuto la naturalizzazione. Sarebbe dovuto diventare a tutti gli effetti cittadino francese, non più estradabile. Nel 2004 il cerchio si chiude. La naturalizzazione viene ritirata. Il suo legale fa causa al ministero degli Interni e la vince ma la cittadinanza non arriva lo stesso. Il litigio con un inquilino dello stabile di cui è portiere offre l’occasione d’oro. L’italiano finisce in galera, l’Italia chiede l’estradizione, il presidente Chirac cancella la dottrina Mitterrand e la concede ma Battisti, che nel frattempo era stato scarcerato fugge in Brasile. Per lui si erano mobilitati decine di scrittori, a Gabriel Garcia Marquez a Paco Ignacio Taibo. Tutto cospira dunque perché la leggenda prenda forma definitiva: Battisti passa per il beniamino della sinistra chic e allo stesso tempo diventa ‘ la primula rossa’. Il lunghissimo braccio di ferro in Brasile, gli arresti, l’estradizione negata, l’intervento di Lula completa il quadro. Il ‘ pesce piccolo’ è diventato una balena, una specie di pericolo pubblico numero uno. Uno che quando viene arrestato merita quasi una festa nazionale.
Feltri: «Se è colpevole vada in carcere, ma mi indigno per l’isolamento diurno». «Se è colpevole, il carcere è giusto e il fatto che siano passati dieci, venti o trent’anni non significa nulla. Non si può certo pensare che passasse il resto della vita, tranquillo, in Bolivia». Intervista di Giulia Merlo del 15 gennaio 2019 su "Il Dubbio". «Guardi, non mi esalto per le catture». Vittorio Feltri, direttore di Libero, non si scompone davanti all’arresto di Cesare Battisti – forse il più celebre tra i latitanti italiani -, dopo trentasette anni di fuga, prima in Francia, poi in Brasile. A lui ha dedicato il suo editoriale, di cui anticipa il titolo: “Catturato come un topo, accolto come un divo”. Direttore, nessun entusiasmo per quella che è stata vissuta come una vittoria delle Istituzioni e dei nostri servizi speciali?
«Battisti è stato ricercato per moltissimi anni e, se devo dirle che cosa mi stupisce di più, sceglierei il fatto che ci sia voluto tutto questo tempo. Mi fa pensare che ci sia stata una scarsa volontà di far rispettare la giustizia».
Una cattura arrivata troppo tardi?
«Di certo si sarebbe dovuti procedere all’estradizione molti anni fa, quando i delitti per cui Battisti è stato condannato erano freschi. In questo modo, anche l’opinione pubblica sarebbe stata sensibile alla questione. Oggi, invece, si vive di sentito dire ed è passato talmente tanto tempo da far sì che questa cattura non possa essere accompagnata da alcun pathos».
Dopo quasi quarant’anni, ha ancora senso che un condannato sconti la pena dopo così tanto tempo dal processo?
«Mi attengo alle risultanze processuali: quando qualcuno commette quattro delitti, come ha fatto Battisti, la condanna è giusta e il fatto che siano passati dieci, venti o trent’anni non significa nulla».
Non la convince la condanna?
«Come posso essere io a dire con certezza che cosa Battisti ha fatto o non ha fatto, al di là della verità processuale? Non mi addentro in considerazioni tecniche, mi limito a dire che, se è vero che ha commesso i fatti per cui è stato condannato, è giusto che venga punito. Non si poteva certo pensare che vivesse tranquillo in Bolivia. Umanamente, invece, ho qualche perplessità in più».
In che senso?
«Una cosa mi fa inviperire: il fatto che un poveraccio che nemmeno si regge in piedi quando scende dall’aereo, venga non solo incarcerato ma anche condannato a sei mesi di isolamento diurno.
Che cosa vuol dire?
«Che finalità ha questa tortura senza alcuna ragion d’essere? Se uno deve andare in galera, ci vada e basta senza questo corollario senza senso. Ecco, questo personalmente mi indigna».
Da giornalista, come valuta l’impatto mediatico del momento del suo arrivo in Italia, con il ministro dell’Interno, quello della Giustizia e la polizia schierate?
«Le leggo il titolo del mio editoriale in edicola domani (oggi per chi legge ndr): “Catturato come un topo, accolto come un divo”. Ecco, questo è il mio stato d’animo: si è mediatizzata eccessivamente questa cattura, come se avessimo vinto la lotteria di Capodanno. Le dico di più, ho scritto anche che preferivo quasi che Battisti rimanesse in Sud America, perchè così si rischia di farlo diventare l’eroe della vecchia e più becera sinistra italiana».
Fa anche questo parte della narrativa salviniana?
«No, Salvini non c’entra. Io penso che sia stato tutto l’insieme a provocare questa inutile spettacolarizzazione. Il ministro dell’Interno ha fatto solo in modo di far rientrare Battisti dalla latitanza e non so dire se sia del tutto merito suo. Quello che io ho visto, però, è stato un esercito di persone ad accogliere uno che non si regge nemmeno in piedi quando scende dall’aereo. Non mi sento di avere certezze sulla vicenda processuale, mi rimangono invece perplessità sulle modalità con cui è stato tratto in arresto e portato in Italia».
Troppa enfasi, quindi?
«Come sono sicuro lei immagini, non ho alcuna simpatia per la storia personale di Battisti e quello che lo sto dicendo su di lui lo ripeterei per qualunque detenuto. A indignarmi non è l’arresto e non mi addentro nel dato tecnico, mi limito a considerare l’aspetto umano della vicenda. Anche i detenuti hanno diritto alla dignità, che dovrebbe essere rispettata. Ecco, da ciò che ho visto non mi sembra che questo sia avvenuto. Mi indigno per lui e mi indignerei per qualsiasi altro».
Non si può mai gioire, se una persona finisce in prigione. E’ una questione di civiltà, scrive Maria Prado il 15 gennaio 2019 su Il Dubbio. Caro direttore, dunque l’arresto di un latitante costituisce una “bella notizia”. Ed è una “bella giornata” quella in cui si apprende che il latitante in questione potrà finalmente scontare la sua pena in un carcere italiano. E così si gioisce, si fa festa, perché la pretesa punitiva dello Stato ha modo ora di realizzarsi. Ma è semplicemente vergognoso. È vergognoso che pressoché tutti abbiano partecipato a questo coro ignobile; che quasi tutti abbiano sentito l’esigenza di dichiararsi felici perché un uomo va in galera. Semmai alla notizia di un arresto si potrebbe essere presi da sollievo se si trattasse di soggetto attualmente pericoloso. Perché in tal modo, e cioè affidato alle cure di giustizia, non sarebbe più in grado di nuocere. Ma sollievo, al più: non gioia, non festa, non tripudio. In questo caro Paese, invece, in questo Paese cristiano, è già tanto se non si invitano formalmente i cittadini, magari capitanati da un ministro in divisa da secondino, ad accogliere l’” assassino” con urli e corde da forca agitate a reclamare giustizia. Una persona non dico buona, ma appena civile, non si fa far bella la giornata dalla notizia di un arresto. E non dichiara soddisfazione se un uomo si appresta a subire la prigione. Tanto meno lo fa in nome delle vittime, perché le vittime hanno semmai diritto di vedere applicata la legge dello Stato: uno Stato che esercita il suo potere repressivo e punitivo con silenziosa decenza, non per il tramite delle immonde sceneggiate di suoi rappresentanti che si mettono a capo della turba che chiede sangue. Il dolore e il senso di ingiustizia delle vittime non dovrebbero essere evocati da nessuno. Nessuno dovrebbe valersene a promozione di sé. Nessuno dovrebbe impugnarli per giustificare gioiosamente la pena del carcere. Perché il carcere può forse essere necessario, ma in ogni caso costituisce e produce infelicità: e l’infelicità altrui non dovrebbe dare felicità a nessuno. Come si vede, non nomino nemmeno la persona di cui si tratta. Né faccio riferimento alle responsabilità che gli sono state attribuite. Perché tutto questo non c’entra nulla. Potrebbe trattarsi di chiunque, e le responsabilità in questione potrebbero essere le più pesanti e inequivocabilmente accertate. Resterebbe in ogni caso indegno questo trionfo di manifestazioni infoiate, questa corsa a presenziare sulla scena dell’esecuzione assediata dal popolo perbene finalmente protetto da un governo che tiene le cose in ordine. Tutte bruttissime notizie che non riporta nessuno.
Se i processi fossero processi…Il commento di Tiziana Maiolo del 15 gennaio 2019 su "Il Dubbio". L’arresto di Battisti non dispiace quasi a nessuno. E coloro che hanno qualche dubbio sui suoi processi e sulle sue condanne per ora tacciono. Ma qualcosa bisognerà pur dirla. Che paese sarebbe l’Italia, per esempio, se come nei paesi civili nessuno potesse essere processato in contumacia. Se lo Stato impegnasse tutte le sue forze nel catturare i latitanti e portarli davanti a un giudice invece che nel processare una sedia vuota. Arresto di Battisti: che bella sarebbe l’Italia se i processi fossero processi. Che mondo sarebbe. Che paese sarebbe, l’Italia. Se i rappresentanti del Governo esibissero la loro forma migliore per ricevere, fin sotto all’aereo, i capi di Stato estero o porgere un saluto compunto, commosso, davanti all’arrivo delle bare avvolte nel tricolore di nostri soldati caduti in guerre lontane. Se invece. Se invece non dovessimo vedere mezzo governo, guidato da due ministri apicali quali coloro che rappresentano la politica interna e quella di giustizia precipitarsi in aeroporto, gonfiare il petto con soddisfazione, improvvisare una conferenza stampa sulla pista, affilare frasi quali «deve marcire in galera». È’ arrivato a Roma Cesare Battisti. Quattro ergastoli di condanna per diversi omicidi con l’aggravante del terrorismo, un’evasione dal carcere di Frosinone, trentasette anni di latitanza. E con addosso un fardello di antipatie per le tutele avute in Francia dalla “dottrina Mitterand” e da una certa notorietà acquisita come scrittore di thriller. Ma protetto anche, in seguito, dal governo messicano e dal Brasile di Lula. Un quadro che, unito a quella sua certa strafottenza con cui, invece di chiedere perdono si è sempre dichiarato vittima di ingiustizie, lo ha trasformato suo malgrado in immagine simbolica di ogni negatività legata al terrorismo degli anni Settanta. Anche all’interno del famoso album di famiglia della sinistra italiana in cui nacquero i progetti di sovversione armata, gli atti sanguinosi per i quali Battisti è stato condannato stridono come il gesso sulla lavagna. Mentre le Brigate rosse e Prima Linea, accecati dalle loro ideologie, uccidevano uomini politici, magistrati e giornalisti, i Proletari armati per il comunismo (cui Battisti, delinquente comune, aveva aderito con una rapida politicizzazione in carcere) avevano assunto un ruolo quasi da vendicatori, assassinando persone non certo di potere quali semplici poliziotti o commercianti. Proletario è sempre rimasto in fondo, Cesare Battisti. E forse proprio per questo coccolato dalle intellighenzie di sinistra, in particolare francesi. E proprio per questo un po’ snobbato dalla parte più aristocratica dello stesso terrorismo degli anni Settanta. In fondo il suo arresto non dispiace quasi a nessuno. E coloro che hanno qualche dubbio sui suoi processi e sulle sue condanne per ora tacciono. Ma qualcosa bisognerà pur dirla. Che paese sarebbe l’Italia se per esempio, come è nei paesi civili, nessuno potesse essere processato in contumacia. Se valesse il principio dell’habeas corpus. Se lo Stato impegnasse tutte le sue forze nel catturare i latitanti e portarli davanti a un giudice invece che nel processare una sedia vuota. Se la prova si formasse veramente nel dibattimento alla presenza delle parti e se queste avessero pari diritti. Se non fosse sufficiente la parola di un “pentito” per essere condannati. L’Italia sarebbe un paese nel quale Cesare Battisti sarebbe stato forse ugualmente condannato. Ma saremmo tutti più tranquilli se fossero state osservate queste quattro regole dello Stato di diritto.
Il fratello di Battisti non molla: "Cesare è innocente. Non ha ammazzato nessuno". Vincenzo Battisti difende il fratello con le unghie: "I processi furono in contumacia. È stato condannato contumace", scrive Giovanna Stella, Lunedì 14/01/2019, su "Il Giornale". Cesare Battisti ha finito di gironzolare e finalmente si trova dietro le sbarre del carcere di Oristano. Il governo giallo verde esulta per il risultato portato a casa, ma c'è qualcuno che vede (non si sa come) Battisti innocente. Anzi: lo vede addirittura come un eroe. E fra questi, c'è il fratello che difende il terrorista rosso con le unghie. Dopo aver commentato con ironia all'Adnkronos l'arrivo in Italia di Cesare ("Che vuole che le dica. Tra poco in aereo rientra a Roma Cesare, mio fratello, e così abbiamo risolto tutti i problemi dell'Italia, le pensioni, il debito, tutto risolto con Battisti"), rincara la dose a La Zanzara. "Per me Cesare non ha ammazzato nessuno - dice il fratello Vincenzo Battisti -. Non è colpevole, lo dite voi. I processi furono in contumacia. È stato condannato contumace. Adesso fate un processo". Le parole del fratello non si fermano qui e prosegue nel suo ragionamento delirante: "E i comunisti che stanno liberi dappertutto? E Andreotti che ha baciato Totò Riina? È diverso? Per me è uguale. Io voglio rimanere sempre vicino a mio fratello".
La verità su Battisti l’aveva già detta Surace nel 2004, scrive il 20 gennaio 2019 ABCnews Europa. In effetti nel 2004 venne diffuso dall’agenzia ABCnews Paris (denominazione all’epoca della nostra ABCnews Europa) il seguente articolo, che riportiamo integralmente (Testo in italiano).Stefano Surace da Parigi: egregi “tuttologi” italiani, smettetela di far ridere il mondo intero sull’Italia, per il caso Battisti...Mi sorprende, dice Surace, che in Italia tanti personaggi che sarebbe lecito presumere dotati di non trascurabili e talora eccellenti capacità intellettive e di discernimento, non si siano resi conto di un’aberrazione che invece in qualsiasi altro Paese civile è ben chiara a qualsiasi analfabeta. L’aberrazione scellerata - che appunto si riscontra solo in Italia fra tutte le nazioni occidentali – consistente nel dichiarare definitive ed esecutive condanne emesse in absentia, cioè senza che l’accusato sia presente al processo (o, come suol dirsi, in contumacia) contro il principio fondamentale del diritto “ne damnetur absens” (non si deve condannare un assente). Sicché l’assenza dell’accusato al processo, qualunque ne sia la causa, impedisce automaticamente ogni giudizio finale, cioè l’emissione di qualsiasi condanna, tanto meno esecutiva.
Ne damnetur absens...Si tratta di un principio fondamentale, inderogabile del diritto, adottato in tutti i paesi civili (Francia, Spagna, paesi anglosassoni e così via). Salvo, guarda un pò, in Italia, il che consente nel Bel Paese abusi su larga scala, talora gravissimi.
Tantissime sono infatti le persone che attualmente in Italia si trovano in galera per anni grazie a questa aberrazione… e per il passato sono state moltitudini. Una vera minaccia per qualsiasi cittadino onesto. Perfino nel Far west, all’epoca di Buffalo Bill, di Toro seduto e dei ladri di cavalli, prima di condannare qualcuno lo si portava davanti a un giudice. Ma non in Italia già «culla del diritto», e attualmente tomba. E non si può condannare un accusato neppure se è stato lui stesso a sottrarsi al processo con la fuga. Nessuno infatti, colpevole o meno, è tenuto ad andare volontariamente contro se stesso presentandosi ad un tribunale che potrebbe attribuirgli, a torto o ragione, una pesante condanna. Sta alle autorità rintracciarlo e portarlo davanti al tribunale per poi – e solo poi – giudicarlo in sua presenza equamente e, se è il caso, condannarlo. Né un avvocato d’ufficio può rimediare all’assenza dell’accusato. L’avvocato non è l’accusato, è solo un consulente col compito di assisterlo. A quanto pare, a questi tuttologi sfugge che il Brasile, come qualsiasi altro paese occidentale - salvo, guarda un pò, l’Italia - ritiene non lecito estradare Battisti, per la ragione ben precisa che la condanna attribuitagli nel Bel Paese è da ritenersi inesistente giuridicamente, essendogli stata erogata senza che fosse presente al processo. Il Brasile avrebbe quindi potuto consegnare Battisti all’Italia solo se questa garantiva che gli si avrebbe fatto un nuovo processo, stavolta in sua presenza. Sennonché ahimé non è stata in grado di garantire ciò poiché ritiene che la condanna che ha appioppata al Battisti non solo è valida, ma è anche esecutiva, contrariamente a quanto ritenuto non solo dal Brasile ma da qualsiasi altra nazione occidentale. E non si può dunque pretendere che il Brasile avalli questa aberrazione tutta italiana. Non è certo perciò colpa del Brasile se non consegna Battisti, ma esclusivamente dell’Italia, che non può dunque che ringraziare se stessa. Chi è causa del proprio mal...E’ inutile dunque strillare come oche che Battisti è «un pluriassassino condannato in Italia a vari ergastoli» e pretendere che il Brasile lo consegni all’Italia. Non si può lecitamente definire pluriassassino qualcuno se prima non lo si è giudicato validamente. Sicché quella “condanna» non solo per il Brasile, ma per tutti i Paesi occidentali semplicemente non esiste e tanto meno è definitiva, malgrado gli strilli degli italici tuttologi.
Sberle all’Italia dalla Francia, dalla Spagna, dall’Inghilterra...Per esempio nei Paesi anglosassoni (detti della common law) il contumace non solo non può essere condannato, ma neppure processato: il processo semplicemente si congela. E neppure in Spagna si può processare un accusato assente. Tanto che, siccome certe autorità italiane insistevano tempo fa nei confronti della Spagna affinché consegnasse degli italiani condannati in Italia in contumacia che si trovavano nel suo territorio, a un certo punto la Corte costituzionale spagnola ha sentenziato in tutte lettere, tanto per essere chiara, che “l’istituto italiano della contumacia colpisce il contenuto essenziale dell’equo processo, intaccando la dignità umana».
Mica male come sberla...In Francia poi si può emettere una condanna in contumacia, ma priva di esecutorietà, e se in seguito il “condannato” si presenta o è catturato si deve rifare in ogni caso il processo in sua presenza. Ed è semplicemente per questo che Francia, Spagna, Inghilterra e tutti gli altri paesi occidentali, e non certo solo il Brasile, rifiutano di estradare i cittadini italiani condannati in Italia in contumacia. Inutile dunque che quei tuttologhi si sgolino a strillare contro il Brasile perché rifiuta di consegnare il Battisti, in piena assonanza coi criteri dell’intera comunità occidentale. Per cui il Bel Paese si è venuto a trovare, come suol dirsi, sul porco. A questo punto quei tuttologhi farebbero molto meglio a darsi da fare affinché in Italia venga spazzata via una buona volta quell’inaudita aberrazione che lo pone in diritto al di fuori dal consesso delle nazioni civili. Con ciò si cesserebbe fra l'altro di coprire di ridicolo il Bel Paese che prende sberle e sberleffi da tutte la altre nazioni civili ogni volta che chiede un'estradizione per le sue “condanne” contumaciali.
Fin qui dunque le considerazioni di Stefano Surace.
Ebbene, certuni in Italia hanno manifestato stupore per il fatto che un uomo retto come lui (leggendario filantropo italo-parigino dalle innumerevoli battaglie civili: giornalista, scrittore e maestro di arti marziali di rinomanza mondiale, nonché presidente dell’Observatoire européen sur la justice et la liberté de la presse) abbia potuto prendere le difese – praticamente per primo fra gli intellettuali italiani – di un “efferato pluriomicida condannato in Italia a vari ergastoli”. Visto che si è dichiarato contro l’estradizione di Cesare Battisti già quando costui era ancora in Francia e l’Italia già lo pretendeva con insistenza. Tanto più che Surace è sempre stato distante anni-luce da quell’area “eversivo-terroristica» degli anni di piombo cui apparteneva il Battisti. Area nei confronti della quale Surace è sempre stato assai critico, per esempio durante la sua celeberrima inchiesta in cui riuscì a entrare ben 18 volte per brevi periodi in 9 carceri, in un’epoca in cui per un giornalista entrare in una galera italiana per farvi non diciamo un’inchiesta, ma un semplice articolo era pura utopia. E, come si vede, i fatti brasiliani gli hanno dato ancora clamorosamente ragione (vien da dire... come al solito).
Il... record mondiale. E non c’è da sorprendersi, poiché Surace conosceva bene la questione, anche perché pure nei suoi confronti si era posto a suo tempo, negli anni ottanta, un problema del genere. In effetti le inchieste e campagne di stampa che effettuava in Italia come giornalista e scrittore negli anni 60 e 70 erano particolarmente «scomode» per certi ambienti e personaggi politici ed economici italiani molto «in alto», dalle attività non precisamente confessabili. Sicché, non riuscendo a farlo condannare normalmente poiché le sue inchieste erano ben documentate, approfittando del fatto che in seguito si era stabilito in Francia gli si lanciò, in sua assenza ed insaputa, una vera valanga di condanne appunto «contumaciali» per pretesi reati a mezzo stampa, per un totale di... diciotto anni di galera (neanche per un omicidio). Fu così che Surace battè ogni record mondiale (almeno per il mondo occidentale) di condanne per reati a mezzo stampa. Diciotto anni di galera che, grazie all'aberrazione giuridica di cui sopra, furono dichiarate senz’altro definitive ed esecutive. Dopodiché si chiese alla Francia la sua estradizione. Sennonchè la magistratura francese considerò «inesistenti giuridicamente» tutte (proprio tutte...) quelle condanne fasulle, e Jacques Chirac addirittura lo decorò per i suoi “meriti di giornalista, scrittore, maestro di arti marziali di rinomanza mondiale, educatore di giovani e creatore di campioni». Sulla decorazione c'era inciso: «Parigi a Stefano Surace». Mica male come sberla a chi pretendeva in Italia di fargli fare quei diciotto anni di galera... ma purtroppo anche per l’immagine dell’Italia. Dopodiché Surace fu coperto di onori anche in Inghilterra, Spagna, Stati Uniti, Giappone…
Surace rifiuta la grazia. A questo punto il governo italiano si rese conto di quanto l'«affaire Surace» danneggiasse all'estero l'immagine della Penisola. Fu allora offerta a Surace una grazia presidenziale, anche con l'attiva intermediazione di un prelato del Vaticano, ma poichè essa non comportava una esplicita sconfessione ufficiale di quelle “condanne» da parte dell’Italia, Surace rifiutò. A questo punto lo stesso governo italiano rinunciò a qualsiasi altro tentativo di estradizione nei suoi riguardi, d'altronde senza speranza, ordinando ufficialmente agli organi competenti di astenersi dal tentare qualsiasi ulteriore azione in tal senso. Fra l’altro un gruppo di intellettuali italiani e francesi (l'italiano Federico Navarro, il francese Daniel Mercier e l'italo-francese Angelo Zambon) avevano promosso una petizione alle autorità politiche della Penisola. In cui, partendo appunto dal suo caso, denunciavano «i casi gravissimi che sono stati resi possibili dal fatto che in Italia è ancora in vigore un tipo di processo penale contumaciale che viola gravemente il diritto, consentendo fra l'altro di dichiarare definitive ed esecutive condanne emesse in assenza dell'accusato». E tre magistrati milanesi - Fenizia, Grisolia, Infelisi – attivandosi l’uno dopo l’altro, trovarono modo di spazzar via anche in Italia gli effetti di quelle condanne fasulle. Cosa tanto più encomiabile per questi magistrati in quanto Surace, con eloquente noncuranza, da Parigi non l’aveva neanche chiesto. Per di più subito dopo questo «affaire» che aveva fatto scalpore la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo aprì gli occhi sull’Italia e tenne ad emetterle condanne in serie, fino a farle raggiungere il record di nazione di gran lunga più condannata d’Europa… con in media, addirittura una condanna al giorno. Mentre fino a quel momento non gliene aveva emesse praticamente mai, grazie al mito di “culla del diritto» che ancora sopravviveva. Ma la cosa più singolare è che in tutta questa storia l'Ordine dei giornalisti italiano non aveva preso le difese di Surace…Anzi certi strani personaggi «di vertice» di quest’Ordine, invece di mobilitarsi in sua difesa come loro dovere, avevano provato a pugnalarlo alle spalle, né più che meno che... radiandolo! Radiazione che tuttavia fu dichiarata illecita dalla Corte di Appello di Napoli e dalla Cassazione, sicché l'Ordine dovette reintegrarlo e quei personaggi «di vertice» si videro definiti sulla stampa «sicari sfortunati» ed emarginati, mentre Surace ebbe le più vive felicitazioni dalla Federazione della stampa e dai nuovi dirigenti dell’Ordine.
Il “Suracegate»...Ma questo «affaire Surace» fra Italia e Francia non fu che un primo colpo per certa magistratura italiana. Un secondo colpo, da cui non si è più ripresa, fu un altro “affaire Surace» che passò anni dopo alla cronaca mondiale come “Suracegate». Allorché nel 2001-2002 certa magistratura ebbe la buona idea di metterlo in galera per tenercelo 2 anni e mezzo circa per suoi articoli pubblicati una trentina di anni prima e “condannati”, tanto per cambiare, in contumacia. Il che suscitò una reazione durissima a suo favore della stampa mondiale e, a seguito di una celebre conferenza stampa da lui tenuta a Parigi nella sede centrale di Reporter sans Frontières che l’aveva organizzata (dopo che Surace aveva ancora un volta rifiutato la grazia e s’era ripreso la libertà evadendo) la stessa Reporters sans frontières classificò l’Italia, quanto a libertà di stampa, al 44° posto nel mondo dopo Benin e Namibia.
Nenni, Saragat, Pertini...Ma a questo punto una domanda viene spontanea: com’è potuto capitare che proprio e solo in Italia esista la suddetta aberrazione giuridica? Per la verità anche nella Penisola essa non c’era in passato, nel vecchio codice Zanardelli. Fino a quando, negli anni 30, certi giuristi (Rocco, Manzini, Massari...) pensarono bene di introdurla nel nuovo codice per mettere agevolmente nell'impossibilità di nuocere gli oppositori del regime instaurato all’epoca da Mussolini. Il che ebbe in effetti ampia efficacia nei confronti di accusati che si chiamavano, per esempio, Pietro Nenni, Giuseppe Saragat, Sandro Pertini, Luigi Sturzo, Giorgio Amendola. Dei quali alcuni si trovarono in galera senza che si fossero mai visti al processo ed altri, per non subire la stessa sorte, dovettero riparare all'estero, soprattutto Francia e Stati Uniti. Tuttavia, finita la seconda guerra mondiale e instaurata la repubblica, molte cose cambiarono in Italia e addirittura si ribaltarono. Saragat e Pertini, per esempio, divennero addirittura Presidenti della repubblica. C’era dunque da attendersi che ci si sarebbe affrettati a far sparire quell’aberrazione giuridica di cui essi stessi erano stati vittime, tanto più che era ormai la cosa più semplice ed ovvia da fare.
E invece non se ne fece nulla... Cosa vuol dire? Che essa faceva comodo anche al nuovo potere? Si è costretti a pensarlo. Tanto più che si continua tuttora a difenderla tenacemente, benchè l'Italia sia stata ormai, per esempio, tante e tante volte condannata per questo dalla Corte europea di Strasburgo. In effetti questa aberrazione permette a certo potere di tenere qualsiasi cittadino onesto sotto la minaccia di «condanne definitive ed esecutive» senza che l'interessato possa difendersi. Un modo semplice e comodo per criminalizzare qualcuno che «fa ombra», come ad esempio tentato coi due suddetti «affari Surace». Non c’è dunque da sorprendersi che ora ci si dia a manipolare massicciamente con ogni mezzo l’ignara opinione pubblica italiana, aizzandola indegnamente contro il Brasile poiché non consegna Battista.
Un punto da riformare in urgenza. In tutto questo è largamente sentita attualmente in Italia l’esigenza di riformare a fondo la giustizia. E tuttavia si deve notare che fra i tantissimi punti che ci si propone di modificare, spesso a gran voce e con larga pubblicità, tutto si trova meno che, guarda un po’, l’eliminazione di quell’aberrazione…Sarebbe dunque auspicabile che il sonoro schiaffo brasiliano - che in realtà non fa che aggiungersi ai tanti arrivati in questi anni all’Italia su questo punto da tutte le nazioni occidentali, anche se in genere senza lo stesso clamore a parte i due “affari Surace” - induca coloro che hanno il compito di elaborare e varare queste riforme (governo, opposizione, ministro della giustizia, Parlamento, media, cittadini, tuttologhi) a mettere d’urgenza in regola l’Italia su questo punto fondamentale. Facendola così cominciare a rientrare nel novero delle nazioni in regola col diritto. O si preferisce che resti sul porco? Affare da seguire…
Battisti, giustizia è fatta, finalmente. L'editoriale del direttore di Panorama nel numero in edicola questa settimana dedicato alla cattura del terrorista latitante, scrive Maurizio Belpietro il 28 gennaio 2019 su Panorama. In quasi 40 anni Cesare Battisti ha speso un fiume di denaro per sottrarsi alla giustizia italiana, ingaggiando fior di avvocati in Francia e in Brasile per evitare l’estradizione. Tuttavia non ha speso neppure un euro per dimostrare di essere innocente e di non essere l’assassino che una serie di sentenze definitive ritengono che sia. Gli mancavano i soldi per chiedere una revisione del processo? Certo che no, prova ne sia che gli investigatori italiani sono sulle tracce di chi lo ha finanziato in questi anni, molti - a parere degli inquirenti - gli italiani, parenti e compagni di lotta. Nonostante l’incongruenza di una innocenza reclamata solo sulle pagine dei giornali e mai in tribunale, questa molto probabilmente sarà la tesi difensiva di Battisti e dei suoi amici. Una tesi che, nonostante venga portata avanti con insolito ritardo, rischia di fare breccia perfino su fronti che non possiamo definire solidali con l’ex terrorista dei Pac. Piero Sansonetti, direttore del Dubbio, ha scritto un editoriale in cui apre uno spiraglio, sostenendo che non tutto lo convince nelle condanne contro Battisti. E lo stesso ha fatto Vittorio Feltri su Libero. L’argomento principale è che il bandito dei Pac venne condannato in contumacia, dunque senza potersi difendere, e che i giudici gli avrebbero appioppato anche responsabilità che non erano sue, per comodo o per negligenza. Ma le cose stanno davvero così? A leggere gli articoli pubblicati dieci anni fa proprio su Panorama si direbbe di no. Quando scoppiò il caso Battisti, Giacomo Amadori interpellò tutti i componenti di quella banda armata comunista chiamata Pac e ricostruì le responsabilità del terrorista-scrittore, pubblicando anche una lunga intervista a Pietro Mutti, uno dei compagni di lotta di Battisti. Tuttavia, oltre a quegli articoli, è sufficiente rileggersi gli atti del processo per capire che il latitante acchiappato in Brasile dopo una fuga lunga 37 anni non è un uomo innocente a cui sia stato impedito di difendersi. La tesi dell’ex militante dei Pac è che le accuse contro di lui sono frutto di testimonianze false estorte con la tortura. In realtà, alle sentenze che l’hanno riconosciuto colpevole di omicidi, ferimenti e rapine, si è arrivati sì con la confessione di numerosi pentiti, ma soprattutto con una marea di riscontri. È vero, ci fu un arrestato che disse di essere stato picchiato affinché confessasse la sua appartenenza ai Pac, ma l’indagine condotta da Armando Spataro, il pm che fece condannare gli assassini di Walter Tobagi e scoprì gli agenti della Cia che rapirono Abu Omar (lo stesso che da procuratore di Torino pochi mesi fa si scontrò con Matteo Salvini) escluse l’esistenza di qualsiasi tortura. Gli accusatori di Battisti, dunque, non cantarono perché vittime di sevizie, ma perché messi di fronte a fatti incontrovertibili. Alcuni parlarono perché, resisi conto del fallimento della lotta armata, potevano ottenere sconti di pena. Altri perché pentiti e dopo la pistola impugnarono la croce, convertendosi, come Arrigo Cavallina, l’ideologo del gruppo. Tuttavia, non ci sono solo le confessioni dei pentiti ad accusare Battisti, ma anche le testimonianze di coloro che lo videro uccidere.
Era la mattina del 6 giugno del 1978 quando a Udine, lui ed Enrica Migliorati, aspettarono fuori casa il maresciallo Antonio Santoro, capo delle guardie carcerarie della città, un uomo che Cavallina aveva incontrato quando era in prigione. I due finsero di baciarsi in strada e quando il sottufficiale passò, Battisti gli sparò alle spalle, uccidendolo. I fatti vennero rivelati da un pentito, Pietro Mutti, il quale si auto accusò di aver partecipato all’omicidio, ma poi vennero confermati da altri cinque componenti della banda armata, oltre che da testimoni oculari. La perizia balistica avvallata dalla ricostruzione dell’agguato e gli identikit degli autori materiali dell’assassinio non lasciarono spazio ai dubbi su chi premette il grilletto.
Andrea Campagna, agente della Digos di Milano, fu invece ucciso il 19 aprile 1979 sulla porta di casa della fidanzata, alla fine del suo turno di servizio. Il processo accertò che a sparare ancora una volta fu Battisti. Lo confessarono gli stessi compagni del terrorista-scrittore, ai quali proprio il killer illustrò i dettagli del delitto. E anche in questo caso le dichiarazioni trovarono conferma nelle testimonianze oculari, nel giubbetto indossato, nell’identikit.
Lino Sabbadin, il macellaio di Santa Maria di Sala, invece, non fu ucciso perché uomo delle forze dell’ordine, ma per aver reagito durante un «esproprio proletario», colpendo a morte il bandito che lo voleva rapinare. Battisti e un complice si incaricarono della «punizione» e il 16 febbraio del 1979 gli spararono a sangue freddo nel suo negozio. Anche in questo caso, ad accusare lo scrittore-terrorista, sono i suoi compagni, ma anche le descrizioni rese dai testimoni, che le sentenze ritengono «perfettamente coincidenti con i tratti e la figura di Battisti».
Insomma, tutto riscontrato. Su che cosa gioca dunque l’ex latitante? Sull’assassinio del gioielliere Pier Luigi Torregiani. A ucciderlo, riducendo anche il figlio Alberto su una sedia a rotelle, non fu Battisti, ma il gruppo di fuoco milanese, cioè Mutti e altri. Ma pur non essendone materialmente l’esecutore, Battisti partecipò alle riunioni in cui venne deciso l’agguato e per questo venne condannato. Siccome il delitto Torregiani avvenne lo stesso giorno di quello Sabbadin (la rivendicazione fu unica e i due commercianti furono definiti due porci per aver reagito a una rapina, uccidendo i banditi), l’ex terrorista gioca sulle date, sostenendo di essere stato condannato per due delitti avvenuti a distanza di centinaia di chilometri. Ma nessuno ha mai pensato che avesse il dono dell’ubiquità, semmai la colpa della correità. Alla carriera criminale del finto martire della giustizia andrebbero poi aggiunte una ventina di rapine a banche, uffici postali e supermercati, qualche attentato esplosivo e il ferimento di due medici e di un agente. Tutto ciò in un paio d’anni, fra il 1978 e il 1979. Tutto ciò scritto nelle sentenze, con i dovuti riscontri e le successive confessioni. Altro che processo in contumacia. Macché legislazione speciale. A difendere i terroristi, all’epoca, c’erano fior di avvocati di Soccorso rosso e se le condanne ci furono è solo perché i colpevoli erano tali. Tutto il resto è chiacchiera. Dopo quarant’anni, dunque, è ora di chiudere il caso Battisti.
Ecco tutte le "balle" di Battisti per evitare le manette in Italia. Cesare Battisti le ha provate tutte pur di evitare le manette. L'ultimo disperato tentativo di mettersi al sicuro è nella richiesta di asilo in Bolivia: cosa ha raccontato, scrive Luca Romano, Martedì 15/01/2019, su "Il Giornale". Cesare Battisti le ha provate tutte pur di evitare le manette. L'ultimo disperato tentativo di mettersi al sicuro è nella richiesta di asilo in Bolivia. Per gentile concessione di Wikilao. Una richiesta in cui il terrorista dei Pac di fatto racconta tutta la sua storia con eccessiva fantasia e ovviamente omettendo la sua furia omicida che lo ha portato (solo adesso) a scontare una pena all'ergastolo in Italia. Come riporta la Verità, nella richiesta di asilo avanzata dal killer alla Bolivia c'è di tutto. Innanzitutto Battisti afferma di provenire da una "famiglia comunista" e che suo nonno "è stato uno die fondatori del Partito Comunista Italiano". Ma le vere "balle" arrivano dopo. Il terrorista spiega come è arrivato alla lotta armata: "Presi coscienza che il Partito comunista partecipava alla spartizione del potere e alla corruzione generalizzata nello Stato italiano. All’inizio del 1970, quando il Partito comunista espulse l’intellighenzia di sinistra, mi unii inizialmente a un’organizzazione di sinistra denominata Lotta continua e in quel periodo fui tratto in arresto durante alcune azioni di esproprio proletario per finanziare l’organizzazione e la pubblicazione del periodico Lotta continua". Poi l'arrivo nei Pac grazie all'incontro in carcere nel 1977 con Arrigo Cavalli, vero fondatore die Proletari armati per il Comunismo. Battisti nella sua richiesta di asilo poi parla anche di alcune torture portate avanti dalla Cia in Italia sui prigionieri politici: "Agenti della Cia insieme con le agenzie di intelligence italiane intensificarono le pratiche di tortura e di sparizione dei prigionieri politici". L'obiettivo è chiaro: mostrarsi come un martire agli occhi del governo boliviano. Infine la "carezza" al governo di La Paz per ottenere lo status di rifugiato: "Ancora una volta, altra nefasta coincidenza, nel 2018, un governo eletto di ultradestra in Italia e un altro in Brasile, quello del presidente Bolsonaro rendono necessario chiedere aiuto da un Paese di principi democratici come la Bolivia". Tutte parole al vento: ora è a Oristano a scontare il suo ergastolo.
Spataro: «Battisti è colpevole ed era tra i peggiori in circolazione…». «Battisti è stato giudicato responsabile di quattro omicidi e condannato all’ergastolo. Sono in pochi ad avere un trascorso del genere. Io sono matematicamente certo della sua colpevolezza». Intervista di Giulia Merlo del 16 gennaio 2019 su "Il Dubbio". Armando Spataro, ex procuratore della Repubblica di Torino e Milano, durante gli anni di piombo, nel 1979 guidò le indagini che portarono alla cattura di Cesare Battisti. Oggi, a quarant’anni di distanza, non ha dubbi: “Cesare Battisti era uno dei peggiori terroristi ancora in circolazione e il fatto che sconti la pena fa parte delle regole di ogni stato democratico”.
Davvero considera Battisti uno dei peggiori terroristi degli anni Settanta, nonostante facesse parte di un’organizzazione minore come i Pac?
«E’ vero che di terroristi ne abbiamo avuti tanti, anche se non le migliaia di cui qualcuno parla, forse convinto in questo modo di legittimare quella che fu una storia incredibilmente stupida. Battisti, però, è stato giudicato responsabile di quattro omicidi, condannato all’ergastolo ed è stato a lungo latitante. Sono in pochi ad avere un trascorso del genere».
Lei conosce le carte: ha la ragionevole certezza che Battisti sia colpevole dei fatti per i quali è stato condannato?
«Io non sono ragionevolmente convinto, io sono matematicamente certo. Chi sostiene di avere dubbi, evidentemente non ha letto le sentenze. Se lo facesse, verificherebbe che non vi sono margini di incertezza».
Ora, dunque, Battisti sconterà la pena.
«Certo, come dispongono le regole di tutti gli stati democratici. Lo Stato ha il diritto di punire coloro che vengono riconosciuti colpevoli dei reati commessi ed il dovere di dar corpo alla ragionevolissima aspettativa dei familiari delle vittime, di vedere puniti gli assassini dei loro congiunti. Altrimenti, si rischia di avallare la convinzione secondo cui, a causa del trascorrere del tempo, condotte così grave possano andare esenti da pena, anche se irrogata in seguito a un regolare giudizio».
Anche se sono passati quarant’anni dai fatti?
«Assolutamente sì, non sono affatto d’accordo con chi sostiene che il carcere non serva a nulla. Peraltro, l’ordinamento penitenziario prevede che anche gli ergastolani possano avere accesso a misure meno afflittive. In relazione al caso Battisti, inoltre, va aggiunta una considerazione in più: da parte sua non si è mai ascoltata una parola di autocritica, ma solo chiacchiere per proclamarsi innocente, ingiustamente accusato e per accusare lo Stato di violenze e la polizia e il sottoscritto di essere dei torturatori. Tutto questo, per costruirsi l’immagine di vittima di un presunto sistema illegale».
La stessa convinzione di molta parte dell’intellettualità francese, che lo ha difeso.
«Una tesi assurda, coltivata da sedicenti intellettuali di cui non ho alcuna stima. Sostengono che il processo italiano avrebbe violato le regole fondamentali, ma ignorano che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha rigettato il ricorso dei difensori di Battisti, nel quale si sosteneva che lui non si era potuto difendere perchè irreperibile».
Su quali basi è stato rigettato?
«Con argomentazioni molto logiche: la Cedu ha spiegato che Battisti era latitante irreperibile in quanto evaso, dunque aveva scelto di rendersi irreperibile. Inoltre ha aggiunto che non era vero che non sapesse del processo a suo carico in corso, non solo perchè il processo era molto noto, ma anche perchè sono state prodotte le lettere che lo stesso Battisti scriveva ai difensori durante il processo ed in relazione al processo. Si può non essere d’accordo con la decisione dei giudici, ma questo non ha nulla a che vedere con il rispetto dei diritti umani».
Un altro argomento addotto dagli innocentisti è stato quello di un processo svoltosi in regime di leggi speciali.
«Si tratta di una pura e semplice infamia e chi lo dice dovrebbe avere la forza di riconoscere il suo errore. Diceva Pertini: “Abbiamo sconfitto il terrorismo nelle aule di tribunale e non negli stadi”. Le no- stre erano leggi che hanno favorito la specializzazione ma non hanno determinato giudici speciali. Bisogna ristabilirla, questa verità. Io parlo spesso del caso Battisti, forse anche troppo, ma lo considero un impegno personale che presi con Antonio Tabucchi, il quale mi chiese di rispondere agli intellettuali francesi ed a questo falso storico, a loro così caro, cui non credono nemmeno gli stessi ex terroristi».
Addirittura?
«Le racconto un aneddoto. Ero a un convegno a Science Po, a Parigi, invitato da Marc Lazar. Io dovevo parlare nel pomeriggio e sedevo in platea, quando uno dei relatori francesi ha ripetuto più volte che in Italia c’erano stati i quegli anni i tribunali speciali. Alla terza volta, lo interruppi: mi scusai ma gli dissi che non poteva permettersi di dire una tale falsità. Seguirono secondi imbarazzati, poi nella sala si alzò una persona: “Scusi professore, ma le confermo che ha ragione il dottor Spataro: in Italia non ci sono mai stati tribunali speciali”. Quella persona era Oreste Scalzone, esponente di Autonomia operaia e poi fondatori dei Co. Co. Ri., latitante in Francia».
Tornando al caso Battisti e al suo rimpatrio, ritiene che il governo abbia ecceduto nella spettacolarizzazione?
«Da cittadino, le rispondo che la scena non mi è piaciuta per nulla. La soddisfazione delle autorità per l’arresto di un personaggio come Battisti è comprensibile e condivisibile, non ritengo accettabile, invece, che questi eventi vengano “teatralizzati”. Ma questo rimanda anche alle modalità delle moderna di informazione, raramente ispirata a criteri di sobrietà. Comunque, non è la prima volta che accadono fatti del genere».
Quale altro caso ricorda?
«Nel 1999, venne rimpatriata dagli Stati Uniti Silvia Baraldini, terrorista del Black Panther Party. Ad accoglierla in aeroporto c’erano la madre e Armando Cossutta, mentre l’allora ministro della Giustizia, Oliviero Diliberto, che vi aveva accompagnato la madre, affermò che la Baraldini era «una persona il cui ritorno in Italia è fonte di gioia, soddisfazione e orgoglio»».
A proposito delle ragioni dietro l’estradizione di Battisti, ritiene che a determinarlo sia stato il cambio di colore politico dei governi sudamericani?
«Questo attiene all’analisi politica. Mi limito a constatare un dato: le autorità giudiziarie francesi e brasiliane avevano concesso l’estradizione, mentre furono le scelte politiche dei rispettivi governi a impedirla. Anche oggi, quella di estradare Battisti è stata una scelta politica. Le leggi, compresi i trattati di estradizione, vanno rispettate senza “se” e senza “ma” ed è triste constatare che, invece, l’esecuzione o meno dell’estradizione sia spesso condizionata dal colore politico di chi governa e non correlata alla mera applicazione delle norme».
PS: Nella prima versione dell’intervista, il titolo conteneva il virgolettato “Battisti è colpevole, lo giuro”. La parola “Lo giuro” è stata una interpretazione redazionale. Spataro non l’ha mai pronunciata.
Vittorio Feltri il 16 Gennaio 2019 su "Libero Quotidiano": "Perché la condanna di Cesare Battisti non mi convince", ribaltone clamoroso. Caro giovane e brillante Alessandro Cantoni, conosco da anni Piero Sansonetti, con il quale spesso ho polemizzato, e ti posso garantire che è persona onesta e di certo in buona fede. Concordo con lui circa i dubbi su Cesare Battisti. Non sono sicuro che i processi contro il combattente filosovietico si siano svolti correttamente. Le prove della sua colpevolezza non mi convincono appieno. D' altronde a quasi quaranta anni dai fatti criminosi è difficile fare accertamenti, senza contare che le sentenze in giudicato, quindi inappellabili, non si possono contestare. Ma il punto a mio avviso è un altro. Che senso ha tanto can-can per la cattura d' un condannato a quattro ergastoli e latitante cronico, per lungo tempo beffatosi dello Stato Italiano? Fanno più scandalo una giustizia e gli apparati di sicurezza incapaci di riportarlo subito in patria. Viene voglia di dire che è stato più abile il "ladro" delle guardie impegnate a ricercarlo. Il fatto che costui sia stato preso soltanto ora dimostra la nostra tragica pistolaggine. Hai ragione tu quando ricostruisci il clima dell'epoca durante la quale la sinistra, in fondo, faceva il tifo per gli assassini comunisti, ritenendoli amici di famiglia. Anche Sansonetti in quel periodo frequentava i tinelli rossi. Ma da qui a trasformare Battisti nel simbolo dello scempio compiuto dai terroristi ce ne corre. Negli anni Settanta lavoravo al Corriere della Sera e ti garantisco che la redazione era a maggioranza marxista e simpatizzava per i pistoleros alla moda. Chi non indossava l'eskimo, ce lo aveva intorno al cervello. Non c'era verso di far ragionare certa gente che, quando il mio collega Walter Tobagi fu assassinato dai banditi leninisti, sorrisero compiaciuti. Ne fui testimone oculare. Certi sentimenti non erano in voga solo nel giornalone di via Solferino, bensì nell' intero Paese. Coloro che sparavano a presunti nemici borghesi erano talmente invasati da essere persuasi di interpretare la giustizia del proletariato. Imbecilli. Se è vero che Battisti è un criminale ovvio che debba scontare la pena inflittagli, però organizzare una specie di sagra a Ciampino per festeggiare il suo rientro in Italia in veste di detenuto mi sembra di cattivo gusto. Ora poi mi pare prevalga una sorta di spirito di vendetta in coloro che sono riusciti ad acchiappare il reo. Tant' è che costui, trasferito nella galera di Oristano, dovrà subire un supplemento assurdo di castigo dal sapore medievale: l'isolamento diurno. Il che significa che Cesare non avrà facoltà di parlare con nessuno durante il giorno, chiuso in una cella nella più totale solitudine. Di notte invece, quando la comunità carceraria presumibilmente dorme, il divieto di colloquio non ci sarà. Ma che razza di punizione è? Una variazione delle classiche torture? Manca solo, per completare l'opera, che ogni mattina a Battisti siano rifilati due calci in bocca. Una barbarie. Qualcosa di ripugnante che andrebbe immediatamente abolita. Invece nessun giurista, avvocato, giudice o politico, muove un ciglio davanti alla descritta violenza. Protestiamo noi e basta. È incivile trattare chi sta dietro le sbarre, a prescindere dai suoi peccati, quale essere da emarginare sia dalla società sia dalla popolazione prigioniera. Nessun uomo o donna va considerato come immondizia e mortificato. Ma i nostri governanti e coloro che li ispirano ignorano le più elementari regole della convivenza. Meriterebbero di provare la gattabuia. Vittorio Feltri
Cesare Battisti, anche Piercamillo Davigo sta con Matteo Salvini: ecco chi si deve vergognare, scrive il 16 Gennaio 2019 su "Libero Quotidiano". Fermi tutti. Anche Piercamillo Davigo si schiera con Matteo Salvini ed Alfonso Bonafede. La questione è quella relativa alle polemiche per l'esultanza dei ministri, e dunque delle istituzioni, in seguito all'arresto di Cesare Battisti. Passerella inadeguata, secondo i molti che hanno criticato i ministri per la loro presenza a Ciampino, per le loro parole ("marcire in galera", del leghista) e infine per il video (grottesco) proposto dal grillino su Facebook. Ma, si diceva: Davigo. Il consigliere superiore della magistratura, intervistato dal Fatto Quotidiano, difende l'operato dei ministri che si sono esposti in primissima linea dopo la cattura del terrorista rosso, latitante da 37 anni. "Un ministro è a capo di una branca della Pubblica amministrazione. È normale che rivendichi i meriti dell'amministrazione che dirige. Poi le forme con cui manifesta la sua soddisfazione non sta a me giudicarle", taglia corto il magistrato. Dunque, Davigo usa parole ancor più decise contro chi ha puntato il dito contro il titolare dell'Interno e il Guardasigilli: "In Italia c'è libertà di manifestazione del pensiero, dunque anche di andare a eventi di questo tipo. Ma mi sono sempre meravigliato di quelli che si dicono garantisti e sono attentissimi ai diritti degli imputati, ma niente affatto a quelli delle vittime di reati".
Cesare Battisti: Camera penale di Roma prepara un esposto contro Bonafede. Il video di Bonafede rivela l'identità di un agente: esposto dei penalisti contro il ministro, scrive Mercoledì, 16 gennaio 2019, Affari Italiani. Quanto pubblicato dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafedesul suo profilo Facebook in relazione alle varie fasi legate all'arrivo in Italia di Cesare Battisti non è piaciuto alla Camera penale di Roma che sta per presentare alla procura della capitale un esposto. Il sindacato dei penalisti della capitale, guidato dall'avvocato Cesare Placanica, chiederà alla magistratura di verificare se quanto avvenuto possa costituire la violazione di due norme: quella prevista dall'articolo 114 del codice di procedura penale che disciplina 'il divieto di pubblicazione dell'immagine di persona privata della libertà personale ripresa mentre la stessa si trova sottoposta all'uso di manette ai polsi ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica' e quella, contemplata dall'articolo 42 bis dell'ordinamento penitenziario, che prevede sanzioni a carico di chi non adotti "le opportune cautele per proteggere i soggetti tradotti dalla curiosità del pubblico e da ogni specie di pubblicità, nonchè per evitare ad essi inutili disagi". Ieri era stata l'Unione delle Camere penali a parlare di "pagina tra le più vergognose e grottesche della nostra storia repubblicana" in relazione al trattamento mediatico riservato a Battisti al suo arrivo a Ciampino. Senza una specifica pronuncia giudiziaria è difficile dire se il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, abbia o meno violato la legge pubblicando il video di Cesare Battisti dopo l'arresto. Il segretario dei Radicali e deputato di +Europa Riccardo Magi ha sostenuto in una nota che "il Ministro Bonafede () pubblicando sulla propria pagina Facebook un video di quasi 4 minuti - montato professionalmente e con colonna sonora - in cui si ripercorreva il rientro in Italia di Cesare Battisti circondato e scortato da agenti della polizia penitenziaria - fisicamente tenuto per le braccia da due di loro - () ha violato la legge". E' un'affermazione probabilmente corretta, ma stabilirlo con sicurezza non è possibile.
IL VIDEO DIFFUSO DA BONAFEDE. Il video a cui fa riferimento Magi è stato condiviso sulla pagina Facebook del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, la sera del 14 gennaio, accompagnato dalla scritta "Il racconto di una giornata che difficilmente dimenticheremo!". Ha una durata di 3 minuti e 52 secondi. In effetti risulta evidente il montaggio: una serie di cinque fotografie, all'inizio, e una ventina circa di spezzoni video vengono montati a costruire il racconto della giornata. Dall'arrivo di Battisti, alla sua presa in consegna da parte delle forze dell'ordine, con il prelievo delle impronte digitali, fino alla sua partenza in aereo, presumibilmente verso il carcere di Oristano, dove dovrà ora scontare la pena dell'ergastolo. Il video è accompagnato da un brano musicale, Ether di Silent Partner, che è libero dal copyright.
E' UNA VIOLAZIONE DELLA LEGGE? In assenza di una pronuncia da parte della magistratura non si può affermare con assoluta certezza che la legge sia stata violata, con la pubblicazione di questo video. Possiamo però riportare la normativa pertinente e fare qualche valutazione in proposito.
IL CODICE DI PROCEDURA PENALE. La legge italiana proibisce di pubblicare l'immagine di una persona ammanettata. Il codice di procedura penale stabilisce infatti (all'art. 114 co. 6 bis) che "E' vietata la pubblicazione dell'immagine di persona privata della libertà personale ripresa mentre la stessa si trova sottoposta all'uso di manette ai polsi ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica, salvo che la persona vi consenta". Non sappiamo se Battisti abbia consentito alla pubblicazione del video diffuso dal ministro Bonafede. Ad ogni modo, le parti del video in cui il terrorista è ripreso mentre viene trattenuto per le braccia dagli agenti non dovrebbero comunque costituire una violazione dell'articolo del codice di procedura penale che abbiamo citato, anche secondo una consolidata giurisprudenza: il motivo è che non sono visibili manette o altri mezzi di coercizione fisica. In questo caso, dunque, non sembra si possa parlare di una violazione della legge.
LA LEGGE SULL'ORDINAMENTO PENITENZIARIO. Allo stesso modo, è in genere vietata la pubblicità di trasferimenti di detenuti. Qui le norme interessate sono quelle sull'ordinamento penitenziario (ad esempio l'art. 42 bis della legge 26 luglio 1975, n. 354) e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà. L'articolo 42 bis disciplina le "traduzioni", cioè (comma 1) "tutte le attività di accompagnamento coattivo, da un luogo ad un altro, di soggetti detenuti, internati, fermati, arrestati o comunque in condizione di restrizione della libertà personale". Il comma 4 dell'articolo 42 bis stabilisce che "nelle traduzioni sono adottate le opportune cautele per proteggere i soggetti tradotti dalla curiosità del pubblico e da ogni specie di pubblicità, nonchè per evitare ad essi inutili disagi". In questo caso, la violazione della norma appare innegabile. Non solo non sono state prese le "opportune cautele per proteggere i soggetti tradotti dalla curiosità del pubblico e da ogni specie di pubblicità", ma e' stato fatto l'esatto contrario. In uno spezzone del video - al minuto 2.10 - si vedono anche due coppie di agenti, la prima della Polizia di Stato e la seconda della Polizia Penitenziaria, scambiarsi il prigioniero e farsi ritrarre in favore di telecamera.
IL PARERE DEGLI AVVOCATI. Su questo trattamento riservato a un detenuto si è espressa anche l'avvocatura italiana. L'Unione delle camere penali ha diffuso il 15 gennaio in un comunicato la propria posizione, ripresa da numerose testate, secondo cui "è inconcepibile che due ministri del governo di un Paese civile abbiano ritenuto di poter fare dell'arrivo in aeroporto di un detenuto, pur latitante da 37 anni e finalmente assicurato alla giustizia, una occasione, cinica e sguaiata, di autopromozione propagandistica". Oltre a Bonafede viene dunque chiamato in causa anche Matteo Salvini, ministro dell'Interno, presente - seppur in un ruolo secondario - nel video in questione.
IL PARERE DEL GARANTE DEI DIRITTI DEI DETENUTI. Il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Mauro Palma, ha espresso il 16 gennaio in un'intervista al quotidiano la Stampa critiche ancor più severe dei penalisti italiani. Secondo Palma, "mettere un video su quelle fasi dell'accompagnamento coatto di Cesare Battisti è in contrasto con l'ordinamento penitenziario". In particolare, secondo Palma, è stato violato "l'articolo 42 bis comma 4 del codice di ordinamento penitenziario". Ma non solo. Alla domanda dell'intervistatore se intraveda altre violazioni nell'accaduto, Palma ha risposto che "sono perplesso dalla scelta di esporre in quel modo gli operatori di polizia che stanno facendo il loro dovere". Il terrorismo rosso non sembra più essere una minaccia concreta in Italia nel 2018, e quindi gli agenti di cui si vede chiaramente il volto non dovrebbero essere esposti a ritorsioni sanguinose da parte di nuclei armati, ma - come sostiene il Garante - "ci deve essere più attenzione". Palma è poi tornato sulla questione affermando, come riporta l'Huffington Post, che si riserva di verificare se nella gestione dell'arrivo di Battisti in Italia "ci siano stati elementi di spettacolarizzazione" e se "in sede istituzionale sia stato usato un linguaggio aderente alla Costituzione". Palma in particolare fa riferimento all'espressione usata da Salvini - titolare dell'istituzione del Viminale - in riferimento a Battisti, marcire in carcere, che nota Palma "non appartiene alla Costituzione".
CONCLUSIONE. Il ministro Bonafede ha probabilmente violato l'articolo 42 bis della legge sull'Ordinamento penitenziario. La violazione è stata rilevata anche dal Garante nazionale dei detenuti, e sembra evidente già alla sola lettura della norma in questione. Non sembra invece che il video diffuso da Bonafede costituisca una violazione dell'articolo 114 del codice di procedura penale. In ogni caso, sarà solo un eventuale pronunciamento della magistratura a poter stabilire con assoluta certezza se il ministro della Giustizia abbia violato o meno la legge italiana.
Ornano: «Battisti, ignorati i poteri del giudice di sorveglianza». Secondo la leader di Area, toccava al direttore del carcere e al magistrato autorizzare ogni scelta sulle modalità di arresto del terrorista. Intervista di Giovanni M. Jacobazzi del 18 gennaio 2019 su "Il Dubbio". «Mi è parso inadeguato vedere l’altro giorno il ministro della Giustizia indossare la divisa da agente della polizia penitenziaria. Chi ricopre una funzione istituzionale dovrebbe tenere un comportamento consono e rispettoso della carica». È forte il disappunto di Maria Cristina Ornano, gip al Tribunale di Cagliari e segretaria nazionale di Area, il cartello delle toghe progressiste di cui fa parte anche Magistratura democratica, per le scelte compiute dal guardasigilli e in generale dal governo nella gestione “mediatica” della cattura di Cesare Battisti».
Dottoressa Ornano, il ministro Bonafede ha postato sul proprio profilo facebook un video in cui si possono vedere le varie fasi dell’ingresso di Battisti in carcere: dalla registrazione alla matricola fino alle operazioni di foto segnalamento. Cosa pensa del modo in cui il governo ha scelto di rappresentare la vicenda?
«Esistono delle leggi, penso all’articolo 42 bis dell’Ordinamento penitenziario, che stabiliscono come in tutte “le attività di accompagnamento coattivo di soggetti detenuti, internati, arrestati o in condizione di restrizione” si debba adottare ogni cautela per proteggere i soggetti dalla curiosità del pubblico e da ogni pubblicità».
Ecco, nel caso di Battisti questo non è accaduto. Ma chi avrebbe dovuto compiere le scelte a riguardo, secondo la legge?
«Il direttore del carcere è il primo che deve vigilare su quanto accade nella struttura».
Cosa potrebbe avvenire se il legale di Battisti proponesse reclamo?
«Potrebbe essere interessato del caso il giudice ordinario. Oltre al magistrato di sorveglianza cui compete verificare che la pena venga espiata nel rispetto della legge».
La spettacolarizzazione degli arresti è ormai una costante. Ci sono precedenti noti come gli arresti in diretta di Massimo Carminati o di Massimo Bossetti, solo per fare esempi recenti. Un fenomeno inevitabile a cui dobbiamo abituarci?
«Non credo proprio ci si debba abituare. Il problema è che l’attuale politica, sollecitata da forti spinte “securitarie”, tende ad assecondare le aspettative diffuse in una parte dell’opinione pubblica, a raccogliere consenso. È un modo di fare che però finisce per lasciare sconcertati».
A proposito di politiche securitarie, la stessa giustizia rischia di piegarsi alle leggi del consenso?
«Certo. È un meccanismo circolare, ben studiato, che si autoalimenta. Il politico tende a dire quello che la gente vuole sentirsi dire. Così facendo però si aumenta la percezione dei fenomeni criminali, che vengono ingigantiti. Si creano emergenze che, di fatto, non esistono».
È questa la logica della cosiddetta politica della paura?
«Sì».
Sta facendo molto discutere in queste ora la presenza, come ospiti, di alcuni magistrati alla cena conviviale organizzata dall’associazione “Fino a provacontraria” della giornalista Annalisa Chirico. Che ne pensa?
«Mi risulta che per partecipare a questa cena fosse necessario pagare 6000 euro. Tralasciando il fatto che in questi tempi di crisi certe cifre suscitano sdegno, chi ha pagato?»
Se fosse stata invitata avrebbe declinato?
«Sicuramente. Il magistrato non deve manifestare collateralismo ai poteri politici ed economici, ma deve sempre salvaguardare la propria autonomia e indipendenza. Ci sono altre sedi e luoghi per il confronto democratico sui temi della giustizia. Non durante cene costosissime».
Show all'arresto di Battisti Salvini e Bonafede indagati. Si vestirono da poliziotti: accusati di non aver tutelato la dignità del detenuto. Lo sanno ma hanno taciuto, scrive Francesca Fagnani, Mercoledì 06/02/2019 su Il Giornale. I l 14 gennaio scorso con un volo proveniente da Santa Cruz, in Bolivia, atterrava nello scalo romano di Ciampino, dopo 40 anni di fuga, l'ex terrorista Cesare Battisti. Ad attenderlo in pista e a mettere il cappello sull'arresto c'erano in coppia il vicepremier e ministro dell'Interno Matteo Salvini vestito - a favore di telecamera - con la divisa della Polizia e il ministro della Giustizia Alfonso Bonfede. Alla passerella-derby dei due ministri era seguita poche ore più tardi la pubblicazione di un video postato dal Guardasigilli su Facebook che mostrava i momenti salienti della presa in consegna di Battisti da parte della Polizia penitenziaria con tanto di musichetta di sottofondo. Al vespaio di polemiche che ne seguirono oggi si aggiunge una notizia della quale da almeno una settimana sono a conoscenza sia il ministro Salvini che il ministro Bonafede e cioè che per il loro comportamento, a seguito di una denuncia, è stato aperto un fascicolo presso la Procura di Roma, che ha deciso di fare domanda di archiviazione depositandola presso il Tribunale dei ministri, che potrebbe come sappiamo, anche respingerla. Come ben si ricorderà anche il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro aveva formulato sul caso della nave Diciotti «una richiesta motivata di archiviazione» ma il Tribunale dei ministri ha poi seguito un'altra strada. Secondo la Procura di Roma Bonafede e in concorso con lui Salvini, avrebbe violato la legge per la mancata adozione delle opportune cautele dirette a proteggere le persone in arresto dalla curiosità del pubblico e da ogni specie di pubblicità. A mettere nei guai il ministro della Giustizia sarebbe stato proprio questo video - realizzato con toni trionfalistici e propagandistici - in cui Battisti veniva esibito come un trofeo nel passaggio e nella consegna tra le varie forze dell'ordine. Tuttavia per i magistrati romani il fatto non costituisce reato perché mancherebbe il dolo e il vantaggio patrimoniale. Ora la palla passa al Tribunale dei ministri. Ci si chiede, intanto, come mai né il ministro Bonafede né Salvini abbiano sentito il dovere di rendere nota questa vicenda giudiziaria che li riguarda. E soprattutto il premier Conte ne era a conoscenza? E Di Maio? «La trasparenza è un dovere» diceva Beppe Grillo quando venne sospeso il sindaco ancora pentastellato Federico Pizzarotti per un avviso di garanzia per alcune nomine al teatro Regio di Parma e di cui non diede notizia tempestivamente ai vertici del M5s. Ma era molto tempo fa, c'era il «codice etico», le valutazioni seguivano ben altri costi-benefici da quelli della quadratura del cerchio del governo.
Quella strana indulgenza per Battisti, scrive Karen Rubin, Sabato 19/01/2019, su "Il Giornale". Una parte consistente della sinistra, più o meno estrema, con i suoi intellettuali, si è schierata con il compagno terrorista Battisti, cui vorrebbero fosse concessa un'amnistia. «C'è chi sostiene - commenta lo psichiatra Sabino Nanni - che dopo tanto tempo un terrorista, o un altro tipo di criminale, non sia più punibile. È inaccettabile perché anche se i crimini sono lontani nel tempo, le loro conseguenze persistono tuttora, come la frustrazione delle famiglie delle vittime che hanno atteso 37 anni per avere giustizia, mentre lui viaggiava impunito tra Francia, Messico e Brasile». Ma come si spiega la simpatia per uomini che si macchiano di crimini così violenti? «Le persone aggressive e distruttive provano indulgenza solo per un altro tipo di persona: quella ancora più aggressiva e distruttiva, è una proiezione come quella che fa l'ammiratore sul suo idolo, come per l'allievo che ammira il maestro con cui condivide uno stesso sentimento, c'è una coerenza emotiva in questo meccanismo», spiega lo psichiatra. Nel caso di Battisti, c'è un invalido permanente e il dolore di persone che hanno perso i loro affetti più cari. Eppure si chiede un perdono che solo chi ha subito le sue atrocità potrebbe concedere. «Al di là di apparenti contraddizioni, c'è una perfetta coerenza dal punto di vista emotivo che è la stessa di chi odiando ferocemente la civiltà occidentale prova simpatia e indulgenza per i jihadisti islamici», osserva Nanni. E infatti la vicenda ne evoca un’altra di qualche anno fa, quando un magistrato assolse dall'accusa di terrorismo internazionale due tunisini e un marocchino sostenendo che i tre fossero eroici guerriglieri. «Si ha l'impressione che certi esseri umani tengano di più alla coerenza emotiva che a quella intellettiva, anche a costo di divenire autolesionisti», chiarisce lo psichiatra. Un'altra strana affinità è quella che sentono molti omosessuali per i palestinesi, con cui si schierano contro gli israeliani. Eppure le uniche associazioni gay palestinesi esistenti sono ospitate a Tel Aviv, che accoglie i gay perseguitati dagli arabi dando loro rifugio e salvandoli da morte sicura. Nel Land del Baden-Württemberg alcuni immigrati stuprarono una giovane politica tedesca. La donna dichiarò di essere stata violentata da connazionali celando l'identità etnica dei suoi carnefici. Le femministe più estremiste, intransigenti con il maschio occidentale, diventano indulgenti e comprensive quando si tratta di giudicare quello musulmano, anche pagando terribili conseguenze personali conservano la loro rigida coerenza emotiva», conclude Nanni. Aveva ragione Blaise Pascal: il cuore ha le sue ragioni che la ragione non capisce.
Le toghe rosse del Csm contro il governo: "Su Battisti giustizia primitiva". I magistrati progressisti del Csm all'attacco: "Chiunque sia il detenuto e qualunque sia la sua colpa, ha diritto che lo Stato ne rispetti la sua dignità", scrive Sergio Rame, Mercoledì 16/01/2019, su "Il Giornale". "Hanno un'idea primitiva della giustizia". All'interno del Consiglio superiore della magistratura (Csm) la cattura e l'arresto di Cesare Battisti stanno facendo serpeggiare un certo malcontento nei confronti del governo gialloverde. A far montare la polemica sono stati i togati di Area, la corrente che raggruppa le toghe rosse. "Chiunque sia il detenuto e qualunque sia la sua colpa - spiegano i magistrati progressisti - questi ha diritto che lo Stato ne rispetti la sua dignità". "Nel ricordare che abbiamo giurato fedeltà alla Costituzione e alle leggi dello Stato, pensiamo che quanto accaduto esprima tristemente un'idea primitiva di 'giustizia', indifferente al rispetto della dignità umana, che costituisce, invece, un approdo della cultura giuridica di questo paese, che conferisce allo Stato e alla sua Legge quella forza e quella legittimazione che hanno permesso sino ad oggi la sconfitta di ogni terrorismo". Quanto accaduto lunedì all'aeroporto di Ciampino in occasione dell'arrivo di Battisti, per i togati di Area al Csm è "estraneo alla cultura giuridica" italiana e "al senso di giustizia di uno stato di diritto". Secondo il gruppo delle toghe progressiste, "lo Stato e le sue regole avevano già vinto e dimostrato la loro forza senza che fosse necessaria la gratuita e compiaciuta esibizione della cattura del latitante: altro - aggiungono - è infatti esprimere legittima soddisfazione per la conclusione della lunga latitanza di un cittadino raggiunto da plurime sentenze definitive di condanna per gravissimi fatti di sangue, altro è esibire pubblicamente il detenuto e tutte le fasi del suo arresto, e farne addirittura un video per migliorarne la diffusione". I consiglieri di Area democratica per la Giustizia vanno al di là della figura di Battisti che, grazie all'accordo tra Matteo Salvini e il presidente brasiliano Jair Bolsonaro, è stato assicurato alla giustizia dopo trentasette anni di latitanza. "Chiunque sia il detenuto e qualunque sia la sua colpa - spiegano i togati di Area - questi ha diritto che lo Stato ne rispetti quella dignità che l'articolo 3 della Costituzione garantisce ad ogni persona". "E questo - incalzano i magistrati del Csm - impongono le regole dell'ordinamento penitenziario che disciplinano le attività di accompagnamento dei soggetti detenuti o comunque sottoposti a restrizione della libertà personale".
Cesare Battisti, cosa lo aspetta in carcere. Il terrorista dei Pac atteso da alcuni mesi in isolamento ma poi potrà godere di alcuni permessi previsti dalla Legge, scrive il 14 gennaio 2019 Panorama. Cesare Battisti subito dopo l'atterraggio del volo che lo ha portato dalla Bolivia in Italia sarà portato al carcere di rebibbia per scontare la condanna all'ergastolo che lo aspetta da diversi anni. Latitanza quindi finita. Ma quale sarà il regime carcerario che attende l'ex terrorista dei Pac?
Isolamento. Battisti dovrà passare alcuni mesi, forse addirittura sei, in isolamento. Questo significa che dovrà restare in una cella da solo, senza avere possibilità di interagire con gli altri detenuti, senza la possibilità di fare attività interne ed esterne al carcere.
Permessi e premi. Passato il periodo di isolamento pur essendo stato condannato all'ergastolo per reati «ostativi», che cioè ne impedirebbero la concessione, Battisti potrà ottenere lo stesso i benefici penitenziari perché ha commesso i reati prima del 1991. Solo in quell' anno, infatti, entrò in vigore la norma che da allora vieta di concedere questi preziosi benefici a coloro che vengono condannati per reati di terrorismo o di mafia.
Quando raggiungerà i 70 anni, oggi Battisti ne ha 64, e sempre se i giudici del Tribunale di sorveglianza daranno parere favorevole, potrà godere dei permessi premio e uscire per brevi periodi dal carcere, ma solo dopo che avrà scontato almeno 10 anni, o della liberazione condizionale, dopo 26 di galera, periodi che si accorciano grazie alla «liberazione anticipata» che cancella dal computo finale 45 giorni ogni sei mesi trascorsi in cella.
Quegli “ideali” mai rinnegati in mostra nel covo di Battisti, scrive il 13 gennaio 2019 Matteo Carnieletto su "Gli Occhi della Guerra" de "Il Giornale". La foto è stata scattata dal giornalista di Efe Fernando Bizerra Jr. e mostra Cesare Battisti all’interno di casa sua a Cananeia, a circa tre ore e mezzo di macchina da San Paolo. Il terrorista sorride mentre, dietro di lui, campeggia il suo credo politico: un vecchio manifesto dell’Unione sovietica, un poster raffigurante un giovane palestinese che scaglia un sasso contro un carro armato israeliano e, infine, quella che sembra essere la bandiera utilizzata dai ribelli siriani che combattono contro Bashar al Assad. In una parete c’è tutto il sancta sanctorum del terrorista dei Pac. Che poi, come raccontato su queste pagine, Battisti si è avvicinato all’ideologia comunista solamente in carcere, tanto che il pm Antonio Spataro l’ha definito “un assassino puro”. Ma tant’è. Ciò che colpisce è che il latitante sia rimasto ancorato al suo credo. Non si è spostato di una virgola e tutto sembra esser rimasto agli Anni Settanta. Anni tragici, anni fatti di pallottole e sangue. Che si trascinano ancora oggi come testimonia la vicenda di Battisti. Proprio in quegli anni la sinistra si avvicina alla causa palestinese, sposandone le tesi più intransigenti che mettono addirittura in discussione lo Stato di Israele. Giustificano la loro lotta armata (che tra l’altro condividono) e pure la loro spinta ideologica. Ma non solo. In quegli anni Stati Uniti e Russia polarizzano le loro posizioni in Medio Oriente. I primi stanno con Israele, mentre i secondi con i palestinesi. E così sarà fino ai giorni nostri. E poi un astronauta accompagnato dalla scritta Cccp mentre volta le spalle al globo e brandisce falce e martello. Un’ideologia mortale, quella comunista, che ha portato oltre 100 milioni di morti. Un’ecatombe colossale di cui ancora oggi si parla troppo poco. Infine quella che sembra essere la bandiera dei ribelli siriani. Un’etichetta, quella di ribelli siriani, che ormai contiene un po’ tutto: da chi chiede (o chiedeva) più democrazia fino ai jihadisti dell’esercito dell’islam. La parete di Battisti ci fornisce dettagli sul suo credo politico, che sposa l’anti imperialismo ad ogni costo e un’ideologia mortifera. Che ora non esiste più. Ma di cui ancora oggi ancora molti Paesi pagano le conseguenze.
I Pac e Cesare Battisti: due anni di sangue (1978-79). Dai collettivi autonomi del quartiere della Barona alle rapine. Poi gli omicidi Santoro, Sabbadin, Torregiani e Campagna tra il 1978 e il 1979, scrive Edoardo Frittoli il 16 gennaio 2019 su Panorama. Le origini dei Proletari Armati per il Comunismo (PAC), dove militò per circa due anni il terrorista Cesare Battisti, rimandano ai gruppi degli autonomi legati alla rivista milanese "Il Rosso" edita nella prima metà degli anni '70: quelli della violenza, degli attentati e dei gravi scontri di piazza che segnarono indelebilmente l'Italia di 40 anni fa. All'interno dei più importanti gruppi della sinistra extraparlamentare come Lotta Continua, Potere Operaio e Autonomia Operaia si generò la galassia della militanza clandestina, che fece della lotta armata e del terrorismo lo strumento finalizzato all'abbattimento della democrazia "borghese".
Così come dalle fila di Lotta Continua nacque l'organizzazione Prima Linea, per quanto riguarda i Proletari Armati per il Comunismo l'origine è da ricondursi alle organizzazioni dell'autonomia in Lombardia e Veneto. Fu un insegnante veronese, Arrigo Cavallina, a raccogliere attorno alla rivista "Senza Galere" il primo nucleo dei PAC. Nel primo periodo di attività il nucleo si concentrò in modo particolare alla lotta al sistema carcerario italiano (dove erano rinchiusi i "compagni" delle diverse organizzazioni clandestine) ponendosi inizialmente obiettivi simili a quelle delle prime Brigate Rosse. Dai contenuti pubblicati sulle pagine del periodico si sviluppa l'idea del radicamento locale dei cosiddetti "Comitati Territoriali di Controllo sul Carcere", organismi nati con la finalità di monitorare lo stato di detenzione dei detenuti politici delle formazioni extraparlamentari. Tra i primi esponenti del gruppo di autonomi attivi nel quartiere popolare della Barona figurava Giuseppe Memeo, detto il "terùn" per le sue origini meridionali. Il 14 maggio 1977, con il volto coperto da un passamontagna era stato fotografato mentre scaricava - le ginocchia piegate per mirare ad altezza d'uomo - la sua Walther P38 contro la Polizia schierata in via De Amicis mentre cercava, assieme agli altri militanti, di raggiungere il vicino carcere di san Vittore. La foto del militante dei PAC diventerà una delle immagini più evocative degli anni di piombo. La prima sede operativa nella zona sud-ovest era stata stabilita in via Palmieri allo Stadera, uno dei quartieri più difficili e violenti della città serbatoio di criminalità e droga. Fu tra gli abitanti delle case popolari fatiscenti costruite durante il fascismo e quelli dei casermoni anni '60 della Barona che i PAC decisero di sperimentare la loro idea di "rivoluzione armata dal basso" reclutando anche dalla delinquenza comune la manovalanza per le prime azioni criminali, in particolare rapine a scopo di autofinanziamento e azioni dimostrative contro i simboli dello "sfruttamento dei proletari" (incendio al magazzino della Face Standard) E ancora espropri e autoriduzioni della spesa alla Esselunga e alla Upim di Piazza Frattini. Poco più tardi, cominciano le rapine alle armerie (a Bergamo, dove recuperano un cospicuo bottino e a Crema dove recuperano oltre 5 milioni di lire per una partita di armi) spesso orchestrate assieme agli altri gruppi clandestini milanesi come Prima Linea e Collettivo Metropoli. In una cella del carcere della città friulana è rinchiuso l'ideologo dei Pac Arrigo Cavallina. Durante la detenzione, l'intellettuale terrorista entra in contatto con un giovane arrestato per reati comuni: Cesare Battisti. Il futuro killer dei PAC era stato arrestato per avere picchiato selvaggiamente un sottufficiale durante il servizio militare, ultimo di una serie di violenze e reati compiuti dal ventitreenne nato a Cisterna di Latina. Nei pochi mesi alle sbarre si consumò la "mala educazione" politica di Battisti, che all'uscita dal carcere sarà introdotto nell'ambiente clandestino milanese attraverso i contatti di Cavallina: terroristi del calibro di Carlo Fioroni (che sarà il primo pentito delle BR) e Marco Bellavita. La prima sortita di Battisti con i nuovi compagni di lotta sarà una rapina ad un collezionista di armi di Galliate (Novara).
La prima fase dei PAC: obiettivo carceri. Gli insegnamenti di Cavallina e l'azione dei Comitati territoriali della Barona trovarono in Cesare Battisti e "compagni" il braccio operativo per passare all'azione. Sono i drammatici giorni conclusivi del sequestro di Aldo Moro. Il primo sangue scorre il 6 maggio 1978, quando i PAC gambizzano il medico del carcere di Novara Giorgio Rossanigo, fuggendo su una Simca "1000" rubata poche ore prima. Passano appena 48 ore e sotto i colpi dei terroristi quasi muore dissanguato un medico dell'INAM, Diego Fava, colpito perché incaricato dalle aziende di effettuare le visite fiscali. Entrambi gli attentati sono rivendicati dal gruppo con un volantino in cui compare lo slogan "Contro i medici sbirri di Stato. Liberiamoci dalle catene della galera e del lavoro". Ad esattamente un mese dal ferimento di Rossanigo cade la prima vittima di Cesare Battisti e dei "compagni armati". Il teatro del delitto è nuovamente Udine, dove Cavallina e Battisti hanno un conto aperto con il capo delle Guardie carcerarie Antonio Santoro, che i due avevano conosciuto durante la detenzione. Battisti e la complice Enrica Migliorati attendono sotto casa la vittima che sta per recarsi al lavoro. Fingendosi fidanzati che si baciano, in un attimo scaricano le loro armi sul "torturatore di proletari" che si accascia a terra in un lago di sangue sotto gli occhi della moglie e dei due figli di 17 e 10 anni.
La seconda fase dei PAC: l'attacco ai commercianti. Il pensiero delirante per cui la "rivoluzione proletaria" avrebbe dovuto allargarsi partendo del "basso" attraverso l'azione a livello locale, fece nascere tra i terroristi dei PAC l'idea del secondo obiettivo: i commercianti, i conosciuti come il primo scalino del capitalismo oppressore, erano da colpire. Fino ad allora l'azione si era concretizzata con le numerose rapine e con gli espropri ai danni dei negozianti e delle grandi catene. Poi arrivò ancora una volta il sangue. Il primo a cadere sotto i colpi dei Proletari Armati è un macellaio di Caltana di Santa Maria di Sala (Venezia), Lino Sabbadini. Il commerciante era entrato nel mirino di Battisti e compagni, oltre che per la militanza nel MSI, per avere ucciso il 16 dicembre 1977 Elio Grigoletto durante una colluttazione seguita al tentativo di rapina da parte di quest'ultimo. Dopo due mesi esatti di minacce anonime e attentati al tritolo, Battisti e il complice Diego Giacomin "regolano i conti" e freddano Sabbadin con 4 colpi calibro 6,35 tutti a segno. Era il 16 febbraio 1979. Il secondo omicidio si consuma lo stesso giorno. Vittima è un altro commerciante, questa volta di Milano. In zona Bovisa, alla periferia Nordovest della città, i terroristi rossi fanno irruzione in una gioielleria. L'obiettivo è scelto con i medesimi criteri di Lino Sabbadin. Il gioielliere Pierluigi Torregiani, come il macellaio veneto, aveva reagito ad un tentativo di rapina al ristorante "Transatlantico" di Porta Venezia uccidendo il pregiudicato catanese Orazio Daidone. Era il 22 gennaio 1979. Dopo giorni di minacce anonime e il furto dell'auto, Torregiani è freddato nel negozio di via Mercantini dal commando dei PAC formato da Giuseppe Memeo (l'autonomo che sparò in via De Amicis) Gabriele Grimaldi e Sebastiano Masala. Nella sparatoria viene gravemente ferito il figlio di Torregiani, Alberto, che rimarrà paraplegico. Dopo il delitto Torregiani, la Digos aveva stretto il cerchio attorno ai collettivi del quartiere popolare milanese. Pochi giorni dopo l'assassinio dell'orefice gli investigatori avevano fatto irruzione in una sede dell'autonomia, alla quale aveva preso parte in qualità di autista delle auto civetta l'agente venticinquenne Andrea Campagna, domiciliato proprio alla Barona. Le telecamere del telegiornale lo avevano mostrato durante l'azione, fatto che lo mise nel mirino dei PAC. Nel primo pomeriggio del 19 aprile 1979 il giovane agente prossimo al matrimonio viene crivellato di colpi di 357 magnum sotto casa del futuro suocero in via Modica. L'omicidio è rivendicato contemporaneamente da PAC e Prima Linea, che dichiarano di aver giustiziato il "torturatore di proletari" Andrea Campagna. I membri del commando Claudio Lavazza, Paola Filippi, Luigi Bergamin, Gabriele Grimaldi e Cesare Battisti.
Il crepuscolo dei PAC. La scoperta dei covi, i pentiti, gli arresti. Il 26 giugno 1979 la Digos fa irruzione in una palazzina di via Castelfidardo, 10 al Ticinese, dopo una serie di indagini incrociate con i Carabinieri del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Gli agenti, sulle tracce dei killer di Torregiani e Campagna, trovano l'arsenale dei PAC, tra cui la 357 magnum che aveva ucciso l'orefice milanese. L'arma risulterà bottino di una delle rapine meglio riuscite dei PAC, quella del gennaio 1979 all'armeria di via Sant'Orsola a Bergamo. Lo stesso Battisti è arrestato assieme all'affittuaria del covo Silvana Marelli (Potere Operaio), Marco Moretti, Diego Giacomini e Cipriano Falcone. Alle forze dell'ordine il futuro superlatitante esibisce una carta d'identità intestata a Giuseppe Ferrari. Le prime dichiarazioni degli inquirenti parlano di Battisti come di un "delinquente comune" poco ideologizzato, che avrebbe avuto l'appoggio del covo dei PAC soltanto per le sue azioni criminose finalizzate alla rapina. Il compagno di militanza Giuseppe Memeo sarà arrestato pochi giorni dopo nascosto con le armi in via Antonio Picozzi al Casoretto, in un appartamento a pochissima distanza dal covo delle Brigate Rosse di via Monte Nevoso. Gli arresti della seconda metà del 1979 tagliarono la testa ai PAC, nati tra le case popolari della Barona. Contemporaneamente al blitz di Milano, in Veneto venivano arrestati i "compagni" dei milanesi tra cui Claudio Lavazza e Paolo Molina. Tre giorni dopo in via Negroli nei pressi dell'Ortica gli agenti della Digos irrompono nel covo dei complici di Prima Linea dove viene arrestato il terrorista Corrado Alunni. Proprio in quest'ultima formazione molti dei militanti dei PAC rimasti in libertà dopo le retate scelsero di confluire. Rinchiuso nel carcere di Frosinone il "compagno" Cesare Battisti avrebbe dovuto scontare l'ergastolo. Il 4 ottobre 1981 riesce ad evadere grazie all'aiuto di un commando del quale fece parte Claudio Lavazza anch'egli militante dei PAC (arrestato dopo la latitanza in Spagna nel 1996 e attualmente in carcere). Arrigo Cavallina ha scontato 12 anni di reclusione dei 22 inflitti inizialmente mentre Giuseppe Memeo, l'autonomo che ha rappresentato gli anni di piombo nella foto di via De Amicis e che sparò assieme a Grimaldi all'orefice Torregiani, ebbe una pena ridotta dopo la dissociazione. Uscito dal carcere, si dedica al volontariato a Milano. Per Battisti cominciavano 37 lunghissimi anni di latitanza, terminata il 12 gennaio 2019 con l'estradizione e la detenzione nel carcere di Oristano.
Chi è Cesare Battisti, il terrorista e assassino sempre protetto dai potenti. Il rapinatore e killer, diventato poi scrittore di successo, è stato arrestato e poi scarcerato mentre cercava di andare in Bolivia. Ma ora il presidente brasiliano potrebbe revocarne lo status di rifugiato. Un passo importante per l'estradizione in Italia, da cui è scappato 36 anni fa, scrive Paolo Biondani il 12 ottobre 2017 su "L'Espresso". Uno scrittore perseguitato per le sue idee politiche? No, un terrorista pluri-omicida rimasto impunito per volontà del leader di un partito corrotto. Cesare Battisti è stato arrestato, e poi rilasciato, nei giorni scorsi mentre cercava di fuggire dal Brasile alla Bolivia. Una "gita per pescare", secondo lui; molto più credibilmente un tentativo di fuga per evitare di essere rimandato in Italia. Sì, perché dopo anni di "rifugio" in Brasile, Battisti ora rischia di vedersi revocato lo status di rifugiato politico, passo fondamentale per la sua estradizione in Italia. Ridotto ai fatti comprovati, liberato dai fumi ideologici, il caso di Cesare Battisti è la strana storia di un assassino condannato dalla giustizia, ma salvato dalla politica. La giustizia è quella italiana, che gli ha inflitto l’ergastolo per quattro omicidi. Sentenza mai eseguita perché l’ex terrorista rosso è scappato in Brasile, dove il 31 dicembre 2010 l’allora presidente Lula, carismatico leader della sinistra, ha messo il veto all’estradizione, con l’ultimo atto del suo mandato. Uno schiaffo all’Italia: i processi documentano che era lui a impugnare le armi. E le sue vittime furono quattro innocenti ammazzati per vendetta. Ma invece è stato il rapinatore-killer, diventato un romanziere intoccabile, a essere presentato come vittima della repressione italiana negli anni di piombo. Il primo fatto certo è che Cesare Battisti viene arrestato con altri complici a Milano, nel giugno 1979, in una casa dove ha nascosto un arsenale: mitra, pistole, fucili. Sono armi dei “Proletari armati per il comunismo”, che teorizzano un’alleanza “anti-capitalista” con i rapinatori comuni. Da quel covo parte l’indagine che in luglio porta in carcere anche Giuseppe Memeo, il protagonista della foto-simbolo degli anni di piombo: l’autonomo che spara per strada contro la polizia. «Battisti era un rapinatore comune, per soldi, che si è politicizzato in carcere», ha scritto il pm Armando Spataro per «ristabilire la verità» dopo il primo stop brasiliano. Nell’ottobre 1981, mentre sta scontando la prima condanna per banda armata, Battisti evade dal carcere di Frosinone e scappa in Francia. Dove diventa un giallista di successo, difeso da illustri intellettuali. In Italia le indagini continuano e fanno crollare il muro di piombo. Numerosi terroristi confessano. Tra le prove contro Battisti c’è perfino la testimonianza di un cittadino che ha avuto il coraggio di inseguire un commando di terroristi-killer. Battisti viene condannato in tutti i gradi di giudizio per quattro omicidi. Un’escalation spaventosa. Il 6 giugno 1978 ammazza personalmente un maresciallo di Udine, Antonio Santoro. Il 16 febbraio 1979 la sua banda uccide un gioielliere di Milano, Pierluigi Torregiani, il cui figlio Alberto resta paralizzato: è la vittima che protesta da anni contro l’impunità del terrorista. Battisti ha organizzato quel delitto, ma non partecipa all’esecuzione perché lo stesso giorno va a fare da copertura, armato, ai complici che sopprimono un negoziante di Mestre, Lino Sabbadin, “giustiziato” come il gioielliere perché si era opposto a precedenti rapine. Il 19 aprile 1979 è Battisti in persona ad uccidere, a Milano, il poliziotto della Digos Andrea Campagna. Nel 2004 Battisti viene arrestato a Parigi. In giugno i giudici francesi concedono l’estradizione: non è un perseguitato. Battisti però è già tornato libero e fugge in Brasile. Dove viene riarrestato nel 2007. Intanto la Corte europea boccia il suo ricorso: il terrorista in Italia ha avuto processi giusti, con ogni mezzo di difesa e avvocati di fiducia. In Brasile, prima la Procura generale e poi la Corte suprema autorizzano la riconsegna all’Italia. Ma nel 2009 il ministro Tarso Genro gli concede asilo politico. E alla fine Lula ferma l’estradizione. Pochi giorni fa, anche alla luce della fine dell'era Lula in Brasile, l'Italia ha consegnato una nuova richiesta di estradizione per Battisti che sembrerebbe aver trovato l'appoggio dell'esecutivo verdeoro. Una evoluzione diplomatica che avrebbe portato il terrorista a fare le valigie in fretta.
Chi è Cesare Battisti, il terrorista condannato a due ergastoli ma "assolto" dalla politica. Giudicato colpevole di aver preso parte a quattro omicidi alla fine degli anni Settanta, ha trovato prima rifugio in Francia e poi in Brasile, scrive il 13 gennaio 2019 "La Repubblica". Condannato dalla giustizia italiana, assolto dalla politica francese prima e brasiliana poi. Almeno fino al 13 dicembre 2018, quando il giudice della Corte Suprema brasiliana Luiz Fuun ne ha ordinato l'arresto "a fini di estradizione". Cesare Battisti, nato nel 1954 a Cisterna di Latina, è stato condannato a due ergastoli in Italia in contumacia – era evaso dal carcere nel 1981 dopo la condanna a 12 anni in primo grado - per quattro omicidi avvenuti alla fine degli anni settanta: due compiuti materialmente e due in concorso con altri. La prima volta viene arrestato a 18 anni a Frascati per una rapina, torna in carcere altre volte, per un sequestro di persona e poi per l'aggressione a un sottoufficiale dell'esercito. Nel carcere di Udine conosce Arrigo Cavallina ed entra a far parte dei Pac, il gruppo eversivo Proletari armati per il comunismo, ritenuto responsabile di rapine a banche e supermercati – rivendicate come espropri proletari – e anche di alcuni omicidi. Battisti è accusato di aver preso parte all'omicidio di Antonio Santoro, maresciallo del carcere di via Spalato e ad altri tre omicidi: quello del gioielliere Pierluigi Torregiani, a Milano, per il quale Battisti è stato condannato come mandante e ideatore, e quello del macellaio Lino Sabbadin a Mestre, per il quale Battisti ha fornito copertura armata. Battisti è accusato di essere anche l'esecutore materiale dell'omicidio di Andrea Campagna, agente della Digos di Milano, ucciso il 19 aprile del 1978. Lui si è sempre dichiarato innocente e negli anni diversi intellettuali si sono schierati a suo favore contro l'estradizione: da Gabriel Garcìa Màrquez, Bernard-Henri Lévy, Daniel Pennac tra gli altri.
Nel 1981 riesce a evadere dal carcere e a fuggire in Francia dove vive in clandestinità per un anno prima di riuscire a raggiungere il Messico.
Nel 1985, mentre è in Messico dove nasce la sua prima figlia, viene condannato in contumacia all'ergastolo in Italia.
Nel 1990 torna a Parigi, dove viveva un'ampia comunità di rifugiati italiani protetti dalla cosiddetta dottrina Mitterand, dal nome dell'ex presidente francese, dottrina che garantì agli autori di crimini di ispirazione politica anche efferati di non essere estradati nei Paesi d'origine se il sistema giudiziario di questi ultimi non veniva considerato rispettoso degli standard di libertà fissati da Parigi. In Francia Battisti comincia anche la sua attività di romanziere. Nel 2004 Parigi concede l’estradizione ma Battisti riesce a fuggire. Si trasferisce in Brasile dove ottiene lo status di rifugiato politico nel 2009, una decisione che accende tensioni politiche tra Roma e San Paolo. Nel 2010 l’ex presidente brasiliano, Lula da Silva, decide di non concedere l'estradizione all'Italia. Ma il clima politico nel Paese è cambiato e con l'arresto in Bolivia la sua fuga potrebbe essere arrivata alla fine. (articolo pubblicato il 14 dicembre 2018, aggiornato il 13 gennaio 2019)
SENTIAMO CESARE BATTISTI.
Scordatevi le leggende sul rifugio dorato in Brasile. Cesare Battisti vive con la moglie e la figlia in un modesto bilocale fuori San Paolo perché la vita in città è troppo cara, scrive Angela Nocioni su “Il Garantista”. Magro, pallido, all’apparenza più giovane dei suoi cinquantanove anni, l’ex militante dei Proletari armati per il comunismo (Pac) – condannato per quattro omicidi avvenuti negli anni Settanta dei quali si è sempre dichiarato innocente – sembra sereno, ma non in pace. Non cerca grane, ma parla con rabbia della tortuosa vicenda dell’estradizione chiesta dall’Italia e negata dal Brasile il 31 dicembre del 2010 per decisione dell’allora presidente Lula da Silva.
«Se il governo italiano avesse mentito meno, probabilmente avrebbe ottenuto la mia estradizione», dice Battisti. «Lula non l’ho mai visto, non ha nessuna simpatia per me. Ma quando dall’Italia sono cominciate ad arrivare notizie contraddittorie e assurde sulla mia vicenda, Lula ha deciso di prendere informazioni per conto suo. A un certo punto nel governo di qua si sono sentiti presi in giro dall’Italia, mica sono scemi i brasiliani».
Battisti giura di non aver ucciso nessuno. Non ha mai visto le quattro persone per il cui omicidio è stato condannato, dice. E di passare per un criminale scampato alla galera grazie a una premurosa gentilezza del governo brasiliano, proprio non gli va. O questo, quanto meno, gli piace raccontare.
Se attraversi la frontiera puoi essere arrestato. Ti pesa non poter uscire dal Brasile?
«Non ci penso neppure ad attraversare la frontiera. Spero di fermarmi qui. L’Italia da almeno quarant’anni non è casa mia. Restava la Francia per me, ma ormai nemmeno quella. Non tornerei più neanche lì. Tornare indietro tanti anni dopo, non funziona. Hai lasciato una realtà che non esiste più, tutto si è modificato. Torni con un’idea del posto che non corrisponde più alla realtà. Ho visto cosa è successo ai rifugiati italiani a Parigi che poi sono tornati in Italia. Nessuno ha resistito. Dopo sei mesi rientravano in Francia di nuovo.»
Dicevi di voler appellarti al presidente Napolitano per tornare in Italia. Non era vero?
«Non era un’invenzione. E’ che Napolitano fa tanto il furbetto. Alla fine, vediamo un po’, volete farmi un processo? E fatemelo! Io ci sto. Sono loro che non ci starebbero mai. Sono stato processato in contumacia, senza avvocati, dovrebbero essere considerati nulli i processi che mi hanno condannato.»
Sei stato processato in contumacia perché eri latitante. E’ stata una tua scelta.
«Ah sì? Dovevo andare in Italia a farmi un ergastolo, o a farmi ammazzare. Certo, come no…»
Ti consideri un perseguitato dalla giustizia?
«No, mi considero una persona che ha fatto quello che doveva fare negli anni Settanta. Con errori o con meriti, questo è un altro discorso. Ma la giustizia con la lettera maiuscola non ha niente a che fare con l’attitudine dello Stato italiano in quegli anni lì. Sono un perseguitato dalla vendetta dello Stato italiano degli anni Settanta.»
Come consideri adesso la tua militanza politica di allora nei Pac?
«La considero un’esperienza positiva. Perché quello era un gruppo che si era formato allontanandosi dallo stalinismo delle Brigate rosse e aveva uno sguardo sulla società molto più ampio rispetto al marxismo leninismo di altri gruppi. A me ha insegnato molto.»
E’ vero che ti sei politicizzato in carcere dopo l’arresto per rapina?
«E’ un’altra stronzata. Vengo da una famiglia comunista, militavo da sempre. I miei genitori erano del Pci, mio fratello era stato eletto nelle liste del Pci. Io ho fatto parte di Lotta continua, poi di Autonomia operaia. Sono finito dentro per una rapina, era un esproprio. Gli espropri non si rivendicavano. Non mi sono politicizzato in carcere, semmai in carcere ho conosciuto persone attraverso le quali sono entrato nei Pac.»
Hai partecipato a qualcuna delle azioni armate in cui sono stati commessi i quattro omicidi per i quali sei stato condannato?
«Non facevo più parte dei Pac quando sono stati commessi quegli omicidi. Sono stato giudicato in Italia e condannato a 12 anni e mezzo per associazione sovversiva e detenzione di armi, dopo che gli omicidi erano già avvenuti. Nessuno mi ha mai interrogato riguardo quegli omicidi. Nello stesso processo in cui io sono stato condannato a 12 anni e mezzo, sono stati condannate alcune persone per quegli omicidi. Il mio nome non è mai stato fatto, neanche dai torturati. Durante l’operazione Torreggiani alcune persone sono state torturate, queste persone hanno parlato sotto tortura e neanche lì il nome di Cesare Battisti è mai venuto fuori. Quando ero in Messico hanno rifatto il processo grazie alle dichiarazioni false di Pietro Mutti. Una delazione premiata, solo che lui ha mentito. E mi hanno condannato all’ergastolo senza prove. Non c’è una prova tecnica contro di me, non c’è un testimone, non c’è niente.»
E le prove documentali?
«Le prove documentali mostrano la mia innocenza. La pistola che avrebbe sparato l’agente della Digos è stata trovata a un altro che avrebbe anche confessato, per esempio. Nessuno mi ha mai accusato, nessuno.»
E perché ti avrebbero coinvolto?
«Quello che ha messo in mezzo me è uno solo, si chiama Pietro Mutti. Scaricando tutto su di me, invece di prendere alcuni ergastoli, ha preso pochi anni di galera, ubbidendo alle indicazioni di un procuratore della repubblica abbastanza famoso che continua a perseguitarmi. E chiudiamola qui perché non c’è bisogno di fare nomi già noti.»
Hai mai sparato?
«Contro persone no.»
E a chi sparavi? Agli uccelletti?
«Agli uccelletti, agli alberi, alle persone mai.»
In nessuna di quelle quattro azioni armate sei stato presente fisicamente?
«Non facevo più parte dell’organizzazione.»
Ma c’eri o no?
«No! Non facevo più parte dei Pac, come facevo ad esserci?»
Se ti fossero garantite delle condizioni di incolumità personale e un processo imparziale, torneresti in Italia?
«Lo rifarei il processo perché non hanno nessuna possibilità di vincerlo. Nessuna. Il problema è che non mi fido dell’Italia, servirebbero degli osservatori internazionali, perché non me l’hanno mai fatto un processo, non sono mai stato interrogato riguardo questi omicidi da un poliziotto, da un giudice. Mai.»
Se non fossi fuggito ti avrebbero interrogato.
«Che Paese è un Paese in cui si fa un processo e si condanna qualcuno senza interrogarlo?»
Cosa è successo con Alberto Torregiani?
«Ma che ne so, avevo una corrispondenza con lui, avevamo una buona relazione, l’ho aiutato anche a scrivere un libro, lui sa benissimo che io non c’entro niente con la morte del padre, ma poi è stato minacciato.»
Da chi?
«L’hanno minacciato di togliergli la pensione e lui ha eseguito gli ordini e si è messo a urlare contro di me. Ha cambiato idea all’improvviso, si è messo a dire che io sono un criminale quando sa benissimo che non c’entro io con la morte di suo padre.»
Non c’è nessuno in Italia di cui ti fidi, qualcuno su cui conti?
«Ho molti amici, associazioni che mi aiutano anche economicamente.»
Francesi o italiane?
«Francesi e italiane, amici, scrittori soprattutto.»
E’ vero che quando ti hanno arrestato a Rio de Janeiro nel marzo del 2007, ti hanno preso seguendo una persona che ti stava portando dei soldi?
«No. Sapevano che ero qui da quando sono arrivato. Mi controllavano continuamente.»
E perché a un certo punto hanno deciso di arrestarti?
«Perché evidentemente era arrivato il momento, conveniva a qualcuno.»
Ti eri accorto di essere seguito?
«Era chiaro, non si sono mai nascosti.»
Allora perché ti nascondevi tu?
«Non mi sono mai nascosto io. Tutti sapevano che ero a Copacabana, come facevo a nascondermi se la polizia mi stava sempre dietro? Ci parlavo con i poliziotti.»
In carcere in Brasile come sei stato trattato?
«Come tutti gli altri. Il periodo in cui sono stato in una cella di un commissariato centrale è stato un inferno perché non c’era posto. Si dormiva a turni. In celle da due stavamo in dieci. Lì sono stato un anno e mezzo. Poi mi hanno trasferito in un carcere normale, è durato molto, ma poi sono uscito.»
Nel governo brasiliano chi ti ha aiutato di più? L’allora ministro della giustizia Tarso Genro?
«A me una mano non l’ha data nessuno. A un certo punto quelli che avevano deciso a priori di estradarmi, si sono resi conto che le cose non stavano come gli avevano raccontato e hanno cominciato ad investigare.»
Parli di Lula?
«Sì, di Lula e di Genro. L’intenzione di Lula e di Genro all’inizio era di estradarmi perché avevano ricevuto informazioni dall’Italia completamente pompate, assurde. Poi si sono accorti che qualcosa non filava. Un esempio: quando si tratta di condannarmi, si usa la legislazione sul terrorismo e mi si tratta come un terrorista. Ma poi quando si tratta di chiedere l’estradizione, mi si tratta come un delinquente comune. Aho’, ma questi mica sono scemi! E hanno fatto quello che dovevano fare, si sono informati autonomamente, ci hanno messo quattro anni, ma l’hanno fatto.»
Perché dici che non ti hanno aiutato? Genro si è molto esposto per te, ti ha anche concesso lo status di rifugiato nel 2009 infilandosi in un guaio, o no?
«Genro all’inizio voleva estradarmi. Quando si è accorto che gli italiani stavano mentendo, ha cambiato posizione. A quel punto ha voluto vederci chiaro, ha chiesto aiuto, ha usato dei consiglieri. Li ha fatti viaggiare, ha fatto fare delle ricerche. Cosa che ha fatto poi anche Lula per conto suo. Se gli italiani al governo fossero stati furbi, se avessero mentito meno, gli sarebbe andata bene probabilmente, non l’hanno avuta vinta perché hanno esagerato.»
Secondo te il governo brasiliano si è indispettito?
«Beh, di certo non ha gradito che gli si raccontasse dall’Italia che negli anni Settanta da noi non c’è stata guerriglia. Ma insomma, stiamo parlando a un capo di Stato di un grande Paese, al suo ministro della giustizia, A gente, tra l’altro, che la lotta armata l’ha fatta. Gli raccontiamo una stronzata del genere?»
Non sarà che invece Lula si è trovato in mano il tuo caso quando ormai il dossier Battisti era diventato già una patata bollente, quando la sfida tra lui e il Tribunale supremo era aperta, e a quel punto gli è toccato tenerti in Brasile?
«Lula è uno statista e da statista si è comportato. Ha messo in moto una serie di persone per capire chi ero io veramente. Ha investigato il periodo in cui stavo in Messico, il periodo in cui stavo in Francia e il periodo in cui stavo in Italia. Ha ricevuto intellettuali e politici, tantissimi, di vari Paesi.»
Compresi gli amici tuoi francesi…
«Compresi i francesi. E poi ha preso la decisione di farmi restare. Quando Genro decise all’inizio di darmi lo status di rifugiato, Lula era già d’accordo sul farmi restare in Brasile. E non gli stavo simpatico. Se avesse potuto mi avrebbe estradato.»
Quindi non ti consideri il regalo che Lula, alla fine del suo secondo mandato, ha fatto all’ala sinistra del suo partito?
Lula non fa regali a nessuno. Lula è una volpe. Accettare la richiesta italiana di estradizione avrebbe potuto essere una decisione per lui sconveniente. Senti, la giustizia italiana sa benissimo che io non c’entro niente con quei quattro omicidi, sa benissimo che è tutta una pagliacciata. Io ho fatto parte di un movimento, rivendico di aver fatto parte di questo movimento. E basta. Se poi vogliamo stare alle regole dei tribunali, ci stiamo. Allora però devono mostrare le prove. Non ce l’hanno le prove. Sono loro che devono dimostrare che sono colpevole, non io che sono innocente. Gli autori di quegli omicidi avevano confessato. La verità sta nei processi. Sta tutto lì scritto. Sono stato condannato con una legge retroattiva, una cosa del genere non esiste neanche in Paraguay.»
A fuggire dalla Francia ti hanno aiutato i servizi?
«Mi sono aiutato da solo. Tra Chirac e il governo italiano il patto era fatto, mi hanno venduto come merce, io l’ho saputo e sono andato via. Cosa dovevo fare? Aspettare che mi venissero a prendere?»
Contrordine compagni: Battisti resta in Brasile (e può fuggire altrove). Il giudice Fux, fautore dell'asilo, congela con un cavillo l'estradizione: si decide il 24. Forse, scrive Paolo Manzo, Domenica 15/10/2017, su "Il Giornale". Rappresenta una boccata d'ossigeno per Cesare Battisti la decisione di Luiz Fux, il giudice della Corte Suprema brasiliana relatore del suo caso, di sospendere ogni azione per estradare, espellere o arrestare nei prossimi giorni il latitante più famoso d'Italia. Almeno un paio le anomalie della decisione di Fux che - è bene ricordarlo - aveva già votato a favore della decisione di Lula di concedere asilo a Battisti l'ultimo giorno del suo secondo mandato, il 31 dicembre del 2010, e deve la sua nomina a giudice della Corte Suprema all'ex guerrigliera Dilma Vana Rousseff. La prima stranezza è che ci si attendeva che Fux decidesse solo dopodomani e, invece, ha fatto gli straordinari sino a tardi un venerdì 13 nel bel mezzo di un ponte festivo (il 12 ottobre il Brasile si ferma per celebrare la sua santa patrona, la Nostra Signora di Aparecida). La seconda anomalia è che, invece di chiudere subito la vicenda, Fux ha trasmesso tutta l'analisi dell'habeas corpus preventivo presentato lo scorso 27 di settembre dai difensori dell'ex terrorista - una misura cautelare che garantisce a chi teme il carcere di assicurarsi comunque la libertà ancor prima dell'arresto - al plenario della Corte Suprema, che si riunirà tra 9 giorni. Non è però affatto detto che il prossimo 24 ottobre la massima istituzione giuridica verde-oro decida qualcosa di definitivo e - come già accaduto tra 2007 e 2011 - gli undici togati verde-oro che compongono il plenario potrebbero andare avanti per mesi e/o anni discutendo di cavilli degni dell'Azzecca-garbugli manzoniano. In teoria la Corte Suprema dovrebbe solo decidere se accogliere o meno la richiesta di habeas corpus preventivo e, su questo, Fux ha sollecitato «tempi brevi». Peccato solo che, nel motivare la sua decisione, abbia altresì machiavellicamente chiarito che «bisogna verificare se esista la possibilità per l'attuale Presidente della Repubblica di annullare una decisione presidenziale anteriore». E proprio qui sta il busillis perché tutto lascia intendere che se l'ultima volta, con Lula alla presidenza, la Giustizia verde-oro che pur aveva concesso l'estradizione si sottomise alla volontà del massimo potere politico, oggi ci si trovi invece di fronte ad una situazione diametralmente opposta. Ovvero con un presidente come Michel Temer che vorrebbe sì estradare Battisti ma che - indebolito dai sondaggi e soprattutto da un paio di inchieste sulla corruzione che lo chiamano direttamente in causa - potrebbe doversi piegare davanti ad una Corte Suprema stavolta contraria tanto a sottomettersi al potere politico di turno quanto all'estradizione dell'ex terrorista. Non a caso ieri il ministro della Giustizia del Brasile, Torquato Jardim, intervistato dal quotidiano Estado de Sao Paulo ha sì ribadito quanto già detto il giorno prima a BBC Brasil - ovvero che «Battisti ha rotto il rapporto di fiducia che aveva per rimanere in Brasile», ma ha tenuto a sottolineare che «la decisione è sub judice» e che «si deve attendere la decisione della Corte Suprema». Al di là delle modalità e dei tempi con cui potere politico e giudiziario brasiliano affronteranno la «patata bollente» Battisti in ballo ci sono anche le relazioni con l'Unione europea che dopo oltre 25 anni di negoziati starebbe finalmente per chiudere l'accordo commerciale con il Mercosur di cui il Brasile è il paese più potente - da ieri l'ex terrorista dorme sicuramente sonni più tranquilli. Con la possibilità, se mai la sua estradizione verrà concessa da Brasilia, di fuggire in un altro paese disposto a dargli rifugio come, ad esempio, la Bolivia o il Venezuela.
"Anarchici irriducibili" Ecco chi sono i fan di Battisti. Gli investigatori: «Gli autori delle scritte a favore del terrorista? Animati dal voler essere sempre contro», scrive Paola Fucilieri, Venerdì 13/10/2017, su "Il Giornale". Per gli investigatori milanesi si tratta di «groppuscoli isolati», animati non da veri e propri ideali quanto dal desiderio di «avere un pretesto» per essere sempre e solo «contro il sistema, lo status quo». Sarebbero comunque e senza dubbio anarchici milanesi, attraverso una serie di scritte apparse sui muri del quartiere di Affori nei giorni scorsi, a inneggiare alla libertà del 62enne Cesare Battisti, il terrorista dal 31 dicembre 2010 formalmente asilante con visto permanente in Brasile e arrestato qualche giorno fa proprio dalle autorità brasiliane ai confini con la Bolivia mentre tentava di fuggire in quel paese. Un fatto, quest'ultimo, che - anche dopo le sue dichiarazioni provocatorie, nelle quali Battisti sostiene di non temere alcunché perché «protetto dall'asilo e da un visto permanente» - ha riportato prepotentemente a galla tutte le polemiche legate alla sua mancata estradizione, richiesta quindi di nuovo e con forza, dai ministeri della Giustizia e degli Esteri attraverso un mandato all'ambasciatore italiano in Brasile. Alle spalle di Battisti quattro omicidi - due commessi da sé, due con altri - oltre a vari reati legati nientemeno che alla lotta armata. Una vita e un bilancio da brividi - senza il beneficio del minimo dubbio - «suggellati» da una condanna a ben quattro ergastoli, sentenza emessa in contumacia e diventata definitiva nel 1993. Eppure, come testimoniano proprio quelle scritte tra via Litta Modignani e via Ippocrate - «Battisti libero», «No all'estradizione», «Assalto al potere», accompagnate da simboli anarchici - c'è ancora chi a Milano, «tifa» per il terrorista, seppure lontanissimo dalle posizioni, ad esempio, degli occupanti del centro sociale «Villa Litta», perché dichiaratosi sempre di area marxista leninista. Una realtà, quella dei suoi «supporter» milanesi, che stride ancora di più se si pensa che, già militante del gruppo «Proletari Armati per il Comunismo», Battisti è accusato di essere il co-autore del delitto di Pierluigi Torreggiani, avvenuto il 16 febbraio 1979 in via Malpighi, in zona Buenos Aires. Un agguato nel quale il figlio del gioielliere, Alberto, allora 15enne, dopo un colpo di pistola alla colonna vertebrale, rimase tetraplegico. E da sempre chiede che il terrorista venga consegnato alla giustizia italiana. Battisti, fuggito prima in Francia, si trova in Brasile dal 2004: qui fu arrestato nel 2007 e l'Italia ne chiese l'estradizione. Nel 2009 la Corte suprema brasiliana aveva autorizzato il provvedimento, ma si trattava di una decisione non vincolante, che lasciava l'ultima parola al capo dello Stato. L'allora presidente brasiliano Lula negò quindi l'estradizione concedendo a Battisti lo status di rifugiato politico. Una decisione che pare non possa essere annullata nemmeno da Miguel Elias Temer, presidente del paese sudamericano dall'agosto dell'anno scorso.
Intervista a Cesare Battisti: “Ho pietà per tutte le vittime del terrorismo, ma io non c’entro: i pm hanno torturato il mio accusatore”, scrive Angela Nocioni il 14 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". Parla l’ex militante dei Pac: “Il mio arresto a Curumbà è stato illegale, è stata una trappola”. “Non si può ottenere la mia estradizione senza costringere il Brasile a violare le sue leggi”. No. Non è un fuggitivo di lusso che aspetta in un rifugio tropicale dorato di riuscire a bloccare la sua estradizione. E’ un sessantatreenne in canottiera, controllato a vista dalla Policia federal, barricato in un appartamentino prestatogli fuori San Paolo. E’ circondato dai fantasmi anni Settanta di un militante dei Proletari armati per il comunismo, vecchi poster di Carlo Marx e amici devoti del giro degli esiliati per ragioni politiche in Brasile che, come satelliti amorevoli, ruotano da anni attorno a lui. Che di loro è il più famoso, il più esposto, l’unico sull’orlo di una detenzione con fine pena mai. Cesare Battisti, condannato in Italia all’ergastolo per quattro omicidi dei quali si dice innocente, dichiara che la testimonianza di Pietro Mutti, l’elemento con cui è stato condannato, è una testimonianza falsa “ottenuta con la tortura”. Perché Mutti accusò lui e non un altro? “Perché i procuratori gli ordinarono di denunciare me e non un altro”. Dice di avere pietà per le vittime della lotta armata. “Ho già detto alla stampa brasiliana, più di dieci anni fa, che riconosco la mia responsabilità per aver fatto parte della lotta armata. Mi dispiace, certo che mi dispiace, della sofferenza di tanta gente. L’ho detto. Sembra però che tutto quello che ho detto in Brasile non meriti molta attenzione da parte dei politici italiani”. Sulle vicende di questi giorni: “L’ambasciata italiana voleva che rimanesse segreto l’accordo col Brasile per mettermi di corsa su un aereo per l’Italia. Non volevano darmi la possibilità di difendermi. Doveva essere una estradizione express per impedirmi di difendermi. Il mio arresto a Curumbà è stato illegale, è stata una trappola”. “Non si può ottenere la mia estradizione senza costringere il Brasile a violare le sue leggi. Nel giugno del 2011 il plenum del Tribunale supremo ha approvato per 6 voti contro 3 il decreto di Lula che negava l’estradizione. Solo dopo quel voto io sono uscito di prigione. Si tratta di una decisione dell’esecutivo, giudicata e approvata dal massimo organo giudiziario del Brasile. Estradarmi significherebbe violare un diritto acquisito e violare la decisione presa dal plenum del Tribunale supremo, violare una decisione giudiziaria che prevale su qualsiasi decisione politica”.
Ha detto che teme di essere ucciso in Italia. Per volere o su mandato di chi dovrebbe essere ucciso e perché?
«Sono più di dieci anni che diversi politici, poliziotti, membri dei sindacati delle guardie carcerarie e altri mi fanno arrivare minacce. D’altra parte, se l’ex ministro della difesa Ignazio La Russa ha detto che mi avrebbe voluto torturare personalmente… L’ha detto ai giornalisti. Ma non è nessuna gran notizia. Molti detenuti politici sono morti nelle prigioni italiane. Molti si sono suicidati, sono caduti dalle scale, questo è noto. Le autorità italiane che negano queste morti cercano di nascondere un’informazione già nota. Organizzazioni i diritti umani hanno denunciato per decenni questi strani decessi».
Pietro Mutti è il suo unico accusatore, lei hai sempre detto che Mutti avrebbe dichiarato il falso. Chi non le crede dice: “Ammettiamo pure che Mutti abbia mentito per ottenere dei benefici personali, ma perché ha accusato Cesare Battisti? Perché non un altro?”. Perché l’ha fatto? Si può sapere perché Mutti ce l’avrebbe dovuta avere con lei?
«Mutti era mio amico, ma nessuno può resistere alla tortura compiuta con ferocia. E’ una questione fisica, biologica, non è necessariamente qualcosa che riguarda la morale. Perché denunciò me e non un altro? Perché i procuratori gli ordinarono di denunciare me, non di denunciare un altro! La persona torturata deve obbedire a chi ordina la tortura. Può rimanere il dubbio sul motivo per il quale i procuratori scelsero me. Io ero, di tutto questo gruppo, l’unico che scriveva cose che venivano lette in diversi paesi. Io per molto tempo ho fatto dettagliate denunce riguardo la scomparsa di detenuti politici, le torture e gli abusi. E guardate, dopo quarant’anni la persecuzione continua».
Ha sempre denunciato di essere stato condannato all’ergastolo senza prove. Anzi, “nonostante l’esistenza di prove documentali che mi scagionano e solo attraverso una testimonianza falsa” m’ha detto in passato. Perché allora non chiede la revisione del processo?
«L’Italia ha sempre detto che il mio processo non sarà rivisto».
Il governo italiano dice che vuole la sua estradizione “anche per restituire in parte ciò che è stato tolto alla nostra comunità e ciò che è stato inflitto alle vittime del terrorismo”. Vorrei la sua opinione.
«Beh, dovrei sapere intanto se parlano del terrorismo fatto dai fascisti, la Banca dell’agricoltura, l’Italicus, piazza della Loggia, la stazione di Bologna. Quelle stragi fecero centinaia di vittime. Senza contare gli studenti uccisi, gli operai, le femministe, i militanti di alcuni partiti politici. Se si riferiscono a questo terrorismo, la miglior informazione la potrebbero ottenere dalle forze fasciste e mafiose che sostennero quei governi».
In Italia l’accusano, tra l’altro, di non aver mai pronunciato una parola di pietà per le vittime del terrorismo. Non parlo delle persone morte nei quattro omicidi per i quali è stato condannato, ma delle vittime della lotta armata degli anni Settanta.
«Io ho già detto alla stampa brasiliana, più di dieci anni fa, che riconosco la mia responsabilità per aver fatto parte della lotta armata. Mi dispiace, certo che mi dispiace, della sofferenza di tanta gente. L’ho detto. Sembra però che tutto quello che ho detto in Brasile non meriti molta attenzione da parte dei politici italiani».
Se arriva il via libera del giudice del Tribunale supremo, cosa faranno i suoi avvocati? I reati per i quali è stato condannato sono prescritti in Brasile. Il decreto presidenziale di rifiuto dell’estradizione sarebbe immodificabile per legge dopo cinque anni dalla firma e ne sono passati quasi sette. Lei è padre di un minore, cittadino brasiliano, e non potrebbe per questo per legge essere estradato. Cosa pensa di fare la sua difesa?
«Mio figlio ha quattro anni. I miei avvocati stanno usando tutti gli elementi legali contro l’estradizione, che sono molti. Lo continueranno a fare sempre. Già hanno denunciato che il decreto di Lula non può essere modificato. Sono protetto dallo statuto dello straniero. I miei avvocati denunciano di non aver ricevuto informazioni che avrebbero dovuto ricevere e chiedono d’essere ascoltati».
Cosa farà se verranno a prenderla?
«Confido nella giustizia brasiliana. Il Brasile non ordinerà l’arresto di una persona che è stata liberata da una decisione della giustizia brasiliana. Una nuova detenzione illegale, come quella che m’è toccata finora, penso che sia quasi impossibile. La trappola degli arresti montati, costruiti a tavolino, è diventata pubblica».
Può descrivere cosa è esattamente avvenuto durante il primo controllo di polizia il 4 ottobre, prima che la fermassero una seconda volta nello stesso giorno alla frontiera brasiliana con la Bolivia per poi arrestarla?
«Hanno fermato l’auto in cui viaggiavo due volte. Duecento chilometri prima della frontiera ci ha fermato la Policia Federal Rodoviária. Hanno guardato dentro ogni angolo dell’auto. Sembrava la volessero smontare. E non hanno trovato nulla. Poi ci ha fermato di nuovo, molto prima della frontiera con la Bolivia, un gruppo speciale della polizia federale. Non era polizia di frontiera! Non hanno fermato nessun’altra macchina, solo noi! Ero con due amici. Ci hanno chiesto di mostrare il denaro che avevamo con noi. Ciascuno di noi ha dato il suo, 25 mila reais in tutto. Abbiamo spiegato che volevamo comprare vino, aricoli in cuoio e per la pesca, lì costano meno. A Cananeia, dove vivo, pescatori amici ci avevano chiesto di fare acquisti per loro. Ci hanno portato al commissariato. Un poliziotto ha messo tutti i soldi in una scatola, fotografandola come si fa quando si sequestra una grande quantità di denaro. Diceva che era illegale perché il massimo che ciascuno può portarsi dietro è 10 mila reais (quasi tremila dollari n.d.r.). Tutti e tre gli abbiamo detto che era il denaro di tutti e tre, lui diceva di no. I miei amici hanno protestato, hanno spiegato che loro hanno soldi loro, propri redditi. Li ha zittiti. Poi li ha liberati. Mi ha trattenuto due giorni in cella, ho dormito per terra. Mi hanno accusato di esportazione di valuta e riciclaggio di denaro. Mi ha giudicato un giudice per videoconferenza. Mi ha accusato di violare le leggi sui rifugiati. Io non sono un rifugiato. Dal 2011 sono un residente permanente, un immigrato con documenti regolari di permesso di residenza, documenti che il giudice conosceva perché fanno parte del dossier. Un immigrato può entrare e uscire dal Brasile, deve chiedere il permesso solo se vuol restare fuori più di due anni. Il giudice mi ha strappato in faccia, davanti al monitor della videoconferenza, la richiesta di scarcerazione che gli era arrivata dal mio avvocato e l’ha buttata nella spazzatura. Solo dopo, leggendo i giornali di San Paolo, ho saputo che c’era un aereo della polizia federale pronto là per portarmi dalla cella di Curumbà direttamente a Roma. I soldi sono rimasti a Curumbà».
Cosa ha pensato quando ha saputo che “O Globo” dava per fatto l’accordo tra l’ambasciata d’Italia e il governo brasiliano per cancellare il decreto presidenziale con cui l’ex presidente Lula da Silva il 31 dicembre del 2010 respinse la richiesta della sua estradizione chiesta dall’Italia? Crede sia stata una trappola?
«Fino a che la notizia non è uscita su “O Globo” non si sapeva nulla dell’accordo. Tutto stava avvenendo segretamente, senza informazioni alla stampa, ancora meno agli avvocati. L’Italia voleva impedire la possibilità della mia difesa legale. Nel marzo del 2015, quando mi sequestrarono di fatto ad Embù das Artes, la polizia mi stava portando direttamente in aeroporto. Solo che il mio avvocato arrivò prima. Per questo motivo, questa volta avevano chiesto il silenzio assoluto. La divulgazione del piano poteva pregiudicare la estradizione express. Senza dubbio è stato un piano preparato nel dettaglio».
Ha avuto l’impressione di essere sorvegliato nei giorni precedenti al viaggio? E lungo la strada? Prima che fermassero l’auto in cui stava viaggiando?
«Nei giorni prima del viaggio non ho notato niente. Non ho l’abitudine di vivere pensando tutto il tempo che c’è qualcuno che mi perseguita. Ma quando ci siamo messi in viaggio era molto evidente che ci stavano seguendo. Era una trappola preparata. La polizia non ha fermato nessun’altra auto, non ha controllato a nessun altro i documenti. Vorrei chiarire che non siamo mai arrivati alla frontiera con la Bolivia. Non c’era motivo per fermarci prima del posto di controllo».
La confessione di Cesare Battisti: «sì, quei quattro omicidi sono responsabilità mia». L’ex leader dei Pac è stato sentito dai pm e ha ammesso di aver partecipato ai due omicidi di cui è stato esecutore materiale e agli altri due per i quali è stato riconosciuto mandante. «Non ho parlato prima perché temevo per la mia vita», ha raccontato, scrive Simona Musco il 26 Marzo 2019 su Il Dubbio. «Sì, tutto quello che c’è nelle sentenze è vero. Quei quattro omicidi sono mia responsabilità. È stata una guerra giusta, ma ora chiedo scusa alle vittime». Ci ha messo 37 anni Cesare Battisti per ammettere le proprie responsabilità. E ha deciso di farlo davanti al pm che si occupa dell’indagine sulla sua latitanza, Alberto Nobili, convocato sabato assieme alla dirigente dell’Antiterrorismo della Digos, Cristina Villa, nel carcere di Oristano, su richiesta dell’avvocato Davide Steccanella. Un percorso «sofferto», un confronto «rispettoso», durato nove ore, durante le quali ha ammesso tutto, in una sorta di «rito liberatorio» : i quattro omicidi – due commessi materialmente, due come mandante – le rapine e le gambizzazioni. Gesti compiuti in nome di una guerra «che allora ritenevo giusta», ha dichiarato Battisti. L’ex leader dei Pac, arrestato lo scorso gennaio a Santa Cruz, in Bolivia, già condannato in via definitiva all’ergastolo, ha letto le sentenze che lo riguardavano confermando parola per parola. «È stata una cosa complessa», spiega al Dubbio il suo legale. Che parla di un «percorso di rivalutazione che era partito già 40 anni fa, quando è scappato dall’Italia». Si dice una persona diversa l’ex Proletario armato per il comunismo. A 20 anni credeva in quella «guerra civile e nell’insurrezione armata contro lo Stato» che ha stroncato «il movimento culturale, politico e sociale che è nato nel ’ 68». Gli anni di piombo, ha spiegato, «hanno sepolto la spinta culturale che era nata. Abbiamo stroncato il movimento che avrebbe potuto portare l’Italia a livelli di progresso». Ammissioni che oggi fa perché troppi, in questi anni, hanno parlato al posto suo. «Era arrivato il momento di dire personalmente chi era e cosa aveva fatto», spiega Steccanella. Sabato e domenica, di fronte a Nobili e Villa, ha raccontato di aver agito «convinto, come altri, di fare una cosa giusta e della quale ora comprende il peso e le conseguenze». Così ha ammesso le proprie responsabilità nella morte del maresciallo degli agenti di custodia Antonio Santoro, del gioielliere milanese Pierluigi Torregiani e del macellaio mestrino Lino Sabbadin, e in quella dell’agente della Digos Andrea Campagna. E ha anche ammesso tre ferimenti, di cui uno da lui eseguito materialmente, per i quali l’accusa è stata lesioni gravissime: quello di Giorgio Rossanigo, medico nel carcere di Novara, Diego Fava, medico dell’Alfa Romeo e Antonio Nigro, guardia nel carcere di Verona. «Obiettivi precisi, esponenti delle forze dell’ordine, come gli agenti della polizia penitenziaria che per i Pac avevano perseguitato detenuti politici, e Torreggiani e Savarino, i due commercianti che avevano ucciso dei rapinatori. I Pac li chiamavano i miliziani perché armandosi aiutavano lo Stato a garantire la legalità e andavano puniti», ha spiegato Nobili. «Aveva in mente una rivoluzione – aggiunge il suo legale – ma ha capito che è stata una scelta politicamente sbagliata». Ma non si può chiamarlo pentito, dice Steccanella. Tant’è vero che la stessa procura di Milano preferisce parlare di «dissociazione». «Non accuserò nessuno, ma le sentenze sono vere», ha ammesso. «Era andato via perché riteneva quel periodo esaurito – aggiunge il legale – altri non lo hanno fatto. Allora lui ci credeva, oggi si porta dietro le conseguenze umane, che pesano tantissimo». E ha detto di comprendere le proprie responsabilità e il dolore procurato alle vittime. «Mi rendo conto del male che ho fatto e mi viene da chiedere scusa ai familiari delle vittime. Provo un forte imbarazzo», ha aggiunto. L’ex Pac ha spiegato di non aver goduto di alcuna protezione durante la latitanza, ma solo di solidarietà. «È giusto sfatare queste leggende in cui si parla di servizi deviati o criminalità organizzata – spiega Steccanella – Si è trattata della solidarietà militante da parte di chi lo ha ritenuto un rifugiato politico». Battisti si è avvalso delle sue dichiarazioni di innocenza per avere aiuti da organizzazioni di estrema sinistra sia in Francia, Messico e Brasile, e dello stesso Lula. «Non ha mai vissuto da fuggiasco dov’era – aggiunge – ma alla luce del sole, con documenti. E ha lavorato per mantenersi». Ma se oggi ha parlato, dopo essersi dichiarato innocente per anni, lo scopo non è ottenere benefici, puntualizza il suo legale, bensì «recuperare la giusta dimensione di un racconto per la prima volta fatto in prima persona. Non è quel mostro pronto ad uccidere ancora che è stato descritto. Non è un irriducibile. Non ha più commesso reati al 1979». Non ci sarà un altro ricorso contro l’isolamento diurno per sei mesi, di cui quattro già scontati, «ma non ha senso ritenerlo pericoloso come allora». Una confessione tardiva, certo, dopo aver per anni proclamato la propria innocenza. Ma Battisti ha confessato a Nobili di temere per la propria vita. «Avevo dovuto dissimulare ai miei ex compagni della lotta armata perché avrei messo a rischio la mia vita. Non sono un killer — ha aggiunto— ma una persona che ha creduto in quell’epoca nelle cose che abbiamo fatto. Il mio era un movente ideologico, non avevo un temperamento feroce. A ripensarci oggi, provo una sensazione di disagio, ma all’epoca era così». «Questa ammissione fa giustizia di tante polemiche che ci sono state in questi anni e rende onore alle forze dell’ordine e anche alla magistratura di Milano» ha commentato il Procuratore di Milano, Francesco Greco. E non si è fatto attendere il commento del ministro dell’Interno, Matteo Salvini. «Battisti a distanza di qualche decennio ha chiesto scusa – ha dichiarato Mi aspetto chiedano scusa quegli pseudointellettuali di sinistra che hanno coperto e difeso questo squallido personaggio».
Claudia Guasco per “il Messaggero” il 26 marzo 2019. Sabato 23 marzo, carcere di Oristano, tre del pomeriggio. Cesare Battisti, jeans e maglietta, senza la barba con cui si camuffava da latitante, si siede davanti al capo del pool antiterrorismo Alberto Nobili e parla. Come non ha mai fatto. «Tutto ciò che c' è scritto nelle sentenze definitive sui Pac corrisponde al vero. Ho commesso quattro omicidi, ho ucciso Santoro e Sabbadin e sono responsabile anche della morte di Torregiani e Campagna. Ho ferito tre persone, ho commesso rapine e furti per autofinanziamento. Mi rendo conto del male che ho fatto e chiedo scusa ai familiari delle vittime». Dopo quasi quarant'anni in fuga e a due mesi dall' arresto in Bolivia, Battisti ammette le sue colpe.Non entra nel merito dei singoli casi, però cerca di spiegare perché lo ha fatto. Non piange, in alcuni momenti tuttavia è molto provato. «È stata una guerra giusta, io allora ci credevo come tanti altri. Adesso non la condivido più e chiedo scusa alle vittime», dice l' ex terrorista dei Proletari armati per il comunismo. Perché proprio adesso? «Ho avuto una rivisitazione di quegli anni fin dal primo momento. È stato faticoso, ma chiedere scusa mentre stavo in Brasile non avrebbe avuto senso, adesso che sono qui posso farlo». Negli anni 70 credeva che stare dalla parte giusta significasse partecipare alla «guerra civile e insurrezione armata contro lo Stato», una battaglia con obiettivi come Pierluigi Torregiani e Lino Sabbadin, che uccisero due rapinatori: li chiamavano «i miliziani, perché armandosi si schieravano dalla parte dello Stato contro la criminalità, quindi soggetti che andavano puniti», spiega il pm Alberto Nobili, che insieme al capo dell' antiterrorismo della Digos Cristina Villa ha interrogato l' ex Pac. Il quale, oltre ad ammettere le sue colpe, mette a verbale alcune considerazioni storiche sul terrorismo. «Il movimento culturale, politico e sociale che è nato nel '68 è stato stroncato dalla lotta armata. Gli anni di piombo hanno sepolto la spinta culturale. Abbiamo stroncato il movimento che avrebbe potuto portare l'Italia a livelli di progresso», sostiene l' ex estremista rosso che parla cinque lingue, è prossimo all' uscita del suo nuovo giallo in Francia e sta scrivendo un libro sulla rivoluzione spagnola del 500. «Ho avuto la sensazione di assistere a un rito liberatorio, all' inizio aveva difficoltà a parlare, a tornare con la mente a quarant'anni fa. Un po' alla volta è emerso questo effetto liberatorio, ha deciso di fare una scelta di chiarimento, non ha nulla da chiedere in cambio, non ha rinnegato il passato ma oggi si è reso conto che è stato devastante», spiega il pm Nobili. «Ha riconosciuto dopo tanti anni che la magistratura e la polizia hanno agito come diceva Pertini con il codice in mano. La sua è stata una sorta di dissociazione, ha ritenuto di rimediare agli anni di piombo». Insomma, da parte di Battisti non c' è pentimento né collaborazione. «Io parlo esclusivamente delle mie responsabilità, non farò i nomi di nessuno», mette in chiaro davanti agli inquirenti. Quanto alla sua lunga latitanza tra Francia, Messico e Brasile terminata con l'arresto dello scorso 12 gennaio, per sfuggire al mandato di cattura internazionale «non mi sono appoggiato a nessuna copertura obliqua, occulta». Anche se le indagini della Digos, su questo fronte, non sono ancora concluse e gli investigatori stanno ricostruendo la rete di aiuti - amici, familiari, conoscenti - che gli anno fornito soldi, rifugi sicuri e mezzi per scappare. «Nessun mistero - assicura il suo avvocato Davide Steccanella - È la solidarietà dei militanti comunisti in tutto il mondo verso coloro che vengono ritenuti, a torto o a ragione, degli esuli politici. Battisti era uno dei tanti militanti della lotta armata». Il presidente del Brasile Jair Bolsonaro, in ogni caso, è soddisfatto: «Mi sono impegnato a rimandarlo in Italia per pagare i suoi crimini. La nuova posizione del Brasile è un messaggio per il mondo: non saremo più il paradiso dei banditi». Ora l' ex terrorista deve scontare quattro ergastoli e «uno che ha quattro omicidi sulle spalle, per quanto mi riguarda, non esce di galera», avverte il ministro dell' Interno Matteo Salvini. «Rieducazione del carcere non vale per Battisti». Che, a interrogatorio concluso, fa una sola domanda agli inquirenti: «Come sta mio figlio?».
Cristiana Mangani per “il Messaggero” il 26 marzo 2019. Ha barato per 37 anni, professandosi innocente. E ora, davanti all' eventualità di passare il resto della vita dietro le sbarre, Cesare Battisti ha adottato un' altra strategia. Ha confessato, e ha allontanato così tutti quei pregiudizi e quelle condizioni imposte dalla legge che rendono impossibile la concessione di qualche beneficio. Ammettere di aver commesso delitti e rapine non cambierà la sorte dell' ex terrorista dei Pac: la pena all' ergastolo potrebbe rimanere tale. Ma quello che potrebbe cambiare è la tipologia di ergastolo. Nei suoi confronti è di tipo ostativo, ovvero quello che impedisce ai condannati per mafia e terrorismo di accedere a qualunque vantaggio previsto dall' ordinamento penitenziario. L'articolo 4bis che lo disciplina, prevede che «i permessi premio e l' assegnazione al lavoro esterno possano essere concessi ai detenuti purché siano stati acquisiti elementi tali da escludere l' attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e anche nei casi che l' integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, operato con sentenza irrevocabile, renda comunque impossibile un' utile collaborazione con la giustizia». Il ragionamento, quindi, sembra chiaro: se tra dieci, dodici anni, Battisti vuole immaginare di ottenere la libertà vigilata e la possibilità di lavorare fuori dal carcere deve mostrare alla giustizia un ravvedimento. E probabilmente è questa la ragione per la quale ha deciso di confessare. Lo ha fatto, ma senza pentimento. Con una sorta di presa di coscienza che aveva già annunciato scendendo dall' aereo che lo ha riportato in Italia: «Non sono più quello di prima, sono un uomo nuovo». Così davanti al capo dell' antiterrorismo di Milano e al pm ha parlato delle sue colpe, ha dato una lettura politica del periodo, degli anni di piombo e delle ripercussione sul 68, ma si è ben guardato dal coinvolgere possibili complici. Quasi un messaggio a chi è fuori. Perché se è vero quanto ha dichiarato il fratello Vincenzo dopo l' arresto: «Se Cesare parlasse farebbe crollare la politica». Insomma, qualunque sia la ragione delle ammissioni, la finalità è di far crollare il muro di diffidenza che lo circonda, dopo anni di fughe e di prese in giro. Per questa ragione ha scelto un avvocato che conosce bene il mestiere, che ha difeso anche Renato Vallanzasca. E il legale, Davide Steccanella, ha tenuto a dire: «Non è stato fatto per i benefici eventuali, la speranza è di restituire un' immagine giusta del mio assistito, che non è quel mostro che può colpire ancora come è stato descritto». L'avvocato punta anche a ottenere che l' ergastolo venga commutato in 30 anni. Ne discuterà nuovamente il 17 maggio davanti ai giudici, quando verrà valutata la possibilità di togliere i sei mesi di isolamento diurno. La difesa ribadirà che l' estradizione dal Brasile prevede anche il rispetto delle condizioni imposte da quel paese. E visto che lì non esiste l' ergastolo, gli accordi vanno rispettati. Con buona probabilità, poi, Steccanella tenterà di ottenere che nel calcolo della pena vengano computati i circa sette anni di carcere già scontati. L'ex terrorista dei Pac si trova rinchiuso nel carcere di Oristano, ma non in regime di 41 bis, perché i reati sono stati commessi tra il 78 e il 79, quando ancora non esisteva il regime di restrizione e l' ergastolo ostativo. E non può essere retroattivo. Tutte le istanze dovranno essere valutate dal tribunale di Sorveglianza. Resta, comunque, un nodo: il risarcimento alle famiglie. Battisti non ha mai pagato neppure economicamente il conto con i parenti delle vittime. Ma ora che ha confessato, cosa accadrà?
Terrorismo, Cesare Battisti ammette quattro omicidi: "Era una guerra, ora chiedo scusa alle famiglie delle vittime". La confessione davanti al pubblico ministero di Milano, Alberto Nobili. Il procuratore Greco: "Questo fa giustizia di tante polemiche", scrive Sandro De Riccardis il 25 marzo 2019 su La Repubblica. Cesare Battisti, per la prima volta, parla coi magistrati e ammette tutto: i quattro omicidi, le gambizzazioni, le rapine. L'ex leader dei Pac, arrestato lo scorso gennaio a Santa Cruz in Bolivia, trasferito in Italia e interrogato ieri e sabato dal pm Alberto Nobili e dalla dirigente dell'Antiterrorismo della Digos, Cristina Villa, nel carcere di Oristano, davanti al suo avvocato Davide Steccanella, ha ammesso tutti gli addebiti, e ha dichiarato di aver partecipato ai due omicidi di cui è stato esecutore materiale e agli altri due per i quali è stato riconosciuto mandante. "Per lui all'epoca era una guerra giusta, adesso si rende conto della follia di quegli anni di piombo". Lo ha spiegato in conferenza stampa Alberto Nobili, il responsabile dell'antiterrorismo milanese che, tra sabato e domenica, ha interrogato Cesare Battisti. Nobili ha precisato che Battisti "non ha voluto collaborare" e "non ha chiamato in causa altre persone" e quindi tecnicamente "non è un pentito". Ha solo ritenuto di "fare chiarezza dando un giudizio critico del suo passato". L'ex terrorista dei Pac ha quindi ammesso di avere avuto un ruolo materiale o come mandante in quattro morti: quella del maresciallo degli agenti di custodia Antonio Santoro, ucciso a Udine il 6 giugno 1978, quella del gioielliere Pierluigi Torregiani e del commerciante Lino Sabbadin, che militava nel Msi, uccisi entrambi da gruppi dei Pac il 16 febbraio 1979, il primo a Milano e il secondo a Mestre; e quella dell'agente della Digos Andrea Campagna, assassinato a Milano il 19 aprile 1978. Battisti si era finora sempre dichiarato innocente. Oggi ha ammesso per la prima volta le proprie responsabilità di fronte ai pm. L'ex terrorista dei Pac ha anche ammesso tre ferimenti, di cui uno da lui eseguito materialmente, per i quali l'accusa è stata lesioni gravissime: ad essere "gambizzati" sono stati Giorgio Rossanigo, medico nel carcere di Novara ritenuto "troppo severo nei confronti dei detenuti politici", Diego Fava, medico dell'Alfa Romeo in quanto "non rilasciava facilmente certificati ai lavoratori politicizzati", e Antonio Nigro, guardia nel carcere di Verona. Sulle sue dichiarazioni è intervenuto il ministro dell'Interno Matteo Salvini: "Battisti a distanza di qualche decennio ha chiesto scusa. Mi aspetto chiedano scusa quegli pseudointellettuali di sinistra che hanno coperto e difeso questo squallido personaggio. Chiedere scusa è meglio tardi che mai". "Questo fa giustizia di tante polemiche che ci sono state in questi anni e rende onore alle forze dell'ordine e alla magistratura che lo ebbe a condannare - commenta il capo della procura di Milano Francesco Greco - una scelta che fa chiarezza su un gruppo che ha agito negli anni più violenti della nostra storia". "Non si parla di collaborazione con la giustizia - spiega il pm Nobili - si tratta di importantissime ammissioni, senza chiamare in causa altri protagonisti di quegli eventi". "La lotta armata ha impedito uno sviluppo culturale, sociale e politico nato nel'68", ha detto ai magistrati. Prima degli interrogatori, durati nove ore in tutto, ha letto tutte le sentenze che lo riguardavano, e ha ammesso che "tutto quello ricostruito dagli atti giudiziari corrisponde al vero". Battisti dice di "aver capito il male che ho fatto alle vittime, chiedo scusa alle loro famiglie". E ha aggiunto: "Non ho avuto alcuna copertura occulta" durante la latitanza. Le ammissioni fatte da Cesare Battisti, che si è dichiarato responsabile dei 4 omicidi per cui è stato condannato, in linea teorica possono incidere sul regime detentivo, ossia allontanano per lui il rischio del '41bis', e sui benefici penitenziari, come i permessi, nel corso della detenzione. E' quanto è stato riferito da fonti qualificate. Ad ogni modo, il suo legale Davide Staccanella ha precisato che ciò che premeva era togliere a Battisti "quell'alone di pericolosità che non ha più".
Battisti dal carcere: "Umiliato all'arrivo in Italia, non sono più quello di 40 anni fa". L'ex terrorista ha parlato con due rappresentanti del Partito Radicale che l'hanno incontrato nell'isolamento di Massama. "È in buone condizioni e lo trattano bene. Parla dei figli e si lamenta di come è stato descritto dalla stampa", scrive il 22 gennaio 2019 La Repubblica. Cesare Battisti racconta la sua visione della storia. Dal carcere di Massama, in provincia di Oristano, dove è rinchiuso in isolamento dal 14 gennaio scorso in seguito al suo arresto in Bolivia, l'ex terrorista rilascia dichiarazioni che scateneranno nuove polemiche. A riferire le dichiarazioni di Battisti sono stati Irene Testa, candidata a Garante delle persone private della libertà personale della Regione Sardegna e membro della presidenza del Partito Radicale, e Maurizio Turco, coordinatore della presidenza del Partito Radicale, che hanno visitato Battisti in carcere. Nello stigmatizzare l'assenza di un garante dei detenuti in Sardegna, ancora non nominato nella seconda consiliatura regionale consecutiva, i Radicali hanno ispezionato il penitenziario di Oristano e alla fine hanno incontrato in cella d'isolamento Battisti: "Lo abbiamo trovato abbastanza bene, tranquillo - dicono Testa e Turco - Ci ha detto che alcuni parenti hanno fatto istanza per venirlo a trovare e ci ha parlato dei suoi tre figli, di cui due in Francia e uno in Brasile". "Ci ha ribadito che gli agenti della polizia penitenziaria di Oristano lo stanno trattando bene - continuano - cosa peraltro confermata da altri detenuti che non hanno denunciato alcuna anomalia, e, entrando più nello specifico, ci ha detto di essere rimasto male per come è stato trattato al suo arrivo in Italia, ci ha spiegato di essersi sentito umiliato e di non riconoscersi nella descrizione fatta della sua persona, perché ci ha detto testualmente di non essere più quella persona che era 40 anni fa, che non ci si può accanire così e non si può scontare una condanna due volte". Battisti, continuano i radicali, ha detto di non voler commentare il video di Bonafede, aggiungendo che in questi giorni, proprio per le tante inesattezze e cattiverie raccontate, ha preferito spegnere la tv e non leggere alcun giornale. In compenso, "ci ha detto che sta scrivendo un libro e che ne ha appena cominciato uno da leggere, "Se questo è un uomo", di Primo Levi". "Non è voluto entrare nel merito delle accuse - concludono - Solo un pensiero a figli, che ovviamente gli mancano moltissimo".
Cesare Battisti confessa quattro omicidi. La confessione potrebbe servire a garantire al terrorista uno “sconto di pena”: dall’ergastolo a 30 anni di reclusione. Così da ottenere benefici, scrive Maurizio Tortorella il 25 marzo 2019 su Panorama. Dopo 37 anni di latitanza Cesare Battisti, il terrorista dei Pac, ha confessato ha ammesso tutte le accuse contro di lui: ha dichiarato di aver partecipato ai due omicidi di cui era stato condannato come esecutore materiale e di aver avuto un ruolo anche negli altri due, per i quali è stato riconosciuto il mandante. Interrogato sabato 23 e domenica 24 marzo nel carcere di Oristano dal procuratore aggiunto di Milano, Alberto Nobili, e dalla dirigente dell'Antiterrorismo della Digos, Cristina Villa, Cesare Battisti avrebbe finalmente riconosciuto le sue responsabilità. Alla presenza del suo avvocato, Davide Steccanella, il terrorista dei Proletari armati per il comunismo avrebbe riconosciuto la sua responsabilità nella morte del maresciallo degli agenti di custodia Antonio Santoro, ucciso a Udine il 6 giugno 1978; in quella del gioielliere milanese Pierluigi Torregiani e del macellaio mestrino Lino Sabbadin, che militava nel Msi, entrambi uccisi il 16 febbraio 1979 da gruppi di fuoco dei Pac; e in quella dell'agente della Digos Andrea Campagna, freddato per strada a Milano il 19 aprile 1978. Battisti si era finora sempre dichiarato innocente. Lo scopo della tardiva confessione è, probabilmente, quello di arrivare a contrattare con l’accusa una riduzione della pena. Per i quattro omicidi, infatti, Battisti è stato condannato all’ergastolo. La sua difesa ha chiesto una riduzione di pena a 30 anni per poter ottenere i benefici di una pena alternativa entro qualche tempo.
Cesare Battisti: «Se avessi parlato prima mi avrebbero ucciso». Pubblicato Giuseppe Guastella lunedì, 25 marzo 2019 su Corriere.it. Due i verbali, una decina di pagine riempite da Cesare Battisti di fronte al capo del pool antiterrorismo della Procura di Milano Alberto Nobili che lo interroga nel carcere di Oristano. «Parlo solo delle mie responsabilità», è la sua premessa. Il primo verbale si apre con l’ex terrorista dei Proletari armati per il comunismo il quale assicura che si sarebbe dissociato già nel 1981 se quell’anno non fosse evaso dal carcere di Frosinone dandosi latitante. Solo oggi, a quasi 40 anni dai delitti per i quali è stato condannato all’ergastolo, ha la prima «opportunità — dice — di ripercorrere le mie esperienze». E lo fa non perché spera di ottenere benefici penitenziari, ma per una scelta che a quel tempo «avevo dovuto dissimulare ai miei ex compagni della lotta armata perché avrei messo a rischio la mia vita». Comincia da quando aveva 17/18 anni e già si dedicava a furti e rapine intorno a Frosinone. La famiglia era vicina al Pci, lui stesso era stato iscritto alla Fgci prima di passare a Lotta continua e, come una specie di Robin Hood, «diverse volte — dichiara — ho dato per la causa comunista somme di denaro che arrivavano dai furti e dalle rapine». Finì in galera dove avvenne la trasformazione. «Fui influenzato da Nicola Pellecchia (un fondatore dei Nap, morto nel 2013, ndr.) il cui padre divenne il mio avvocato». Era il 1976 quando a 21 anni fu rinchiuso nel carcere di Udine dove incontrò il veronese Arrigo Cavallina che lo fece entrare nei Pac. Il resto è nelle sentenze di condanna all’ergastolo, compresi i nomi dei suoi complici, che lui non fa «per un fatto personale» e perché sarebbe inutile. Quando ripercorre ferimenti e omicidi, la memoria torna vivida. Parla della gambizzazione nel ‘78 della guardia carceraria di Verona Arturo Nigro, perché era convinto che «faceva parte di agenti di custodia picchiatori», o del medico dell’Inail Diego Fava, che all’Alfa Romeo non voleva rilasciare certificati di malattia compiacenti. Quindi gli omicidi. Il maresciallo Santoro delle guardie del carcere di Udine «segnalato dai compagni del Veneto per le torture subite dai detenuti politici. Fui io ad ucciderlo a colpi di arma da fuoco». Le esecuzioni del macellaio Lino Sabbadin, ammazzato a Mestre, e del gioielliere Pierluigi Torregiani, freddato a Milano, la cui colpa fu di essersi difesi uccidendo i rapinatori dei loro negozi. «Chiamavamo costoro i miliziani perché rivendicavano l’uccisione dei rapinatori che, nella nostra ottica erano proletari che volevano riappropriarsi di quello che gli era stato tolto dal capitalismo». Volevano solo ferirli (Battisti partecipò solo al primo omicidio) perché altrimenti ci «saremmo messi sullo stesso piano dei miliziani, quello dei giustizieri». Solo che la persona che doveva sparare a Sabbadin, lo uccise, mentre Torreggiani fu ammazzato perché tentò di reagire. «Non sono un killer, ma — dichiara ancora — una persona che ha creduto in quell’epoca nelle cose che abbiamo fatto. Il mio era un movente ideologico, non avevo un temperamento feroce. A ripensarci oggi, provo una sensazione di disagio, ma all’epoca era così». A Nobili che gli chiede chi l’abbia aiutato nella latitanza, risponde che in Italia nessuno, all’estero sono stati «partiti, intellettuali e mondo editoriale» a dargli «sostegno ideologico e logistico. Lo hanno fatto per ragioni ideologiche e di solidarietà. Non so se queste persone si siano mai chieste se fossi responsabile di ciò per cui sono stato condannato», ma «per molti non si poneva il problema», ma «sono stato anche supportato perché mi dichiaravo innocente, perché in molti paesi non è pensabile una condanna in contumacia e perché davo l’idea di un combattente per la libertà». Quando il pm gli chiede se ha altro da dire, Battisti, risponde: «Chiedo scusa ai familiari delle persone che ho ucciso o alle quali ho fatto del male. La lotta armata è stata disastrosa ed ha stroncato la rivoluzione positiva, sociale e culturale, cominciata nel ‘68. Per me e per gli altri era una guerra giusta, oggi provo disagio a ricostruire momenti che non possono che provocare una mia revisione. Parlare oggi di lotta armata per me è qualcosa privo di senso».
"Li ho presi in giro". Ora gli intellettuali devono chiedere scusa. Battisti sui radical chic che lo hanno difeso: ho mentito perché non mi avrebbero aiutato, scrive Luca Fazzo, Martedì 26/03/2019, su Il Giornale. «E h sì, dottore, io li ho praticamente presi in giro per trent'anni». L'ultimo sberleffo, nell'interrogatorio davanti al pm milanese Alberto Nobili, Cesare Battisti l'ha riservato a loro: agli intellò, gli scrittori di fama, i filosofi raffinati, i politici progressisti e le dame della buona società che per anni ne hanno fatto un'icona delle ingiustizie borghesi. Gente che non aveva letto una riga degli atti processuali a suo carico - quegli atti che ora Battisti riconosce come veri - e che però firmava appelli e manifesti, grondanti indignazione per il raffinato intellettuale perseguitato dall'Italia. «Vede, dottor Nobili, io me la sono sempre cavata - dice Battisti - grazie agli appoggi che ricevevo: in Francia, poi in Messico, poi in Brasile. È stato grazie a loro che sono sopravvissuto». Viene inevitabile ripensare al fervore degli appelli di Bernard-Henri Lévy, il fascinoso maestro dei nouveaux philosophes, alla devozione con cui François Hollande andò alla Santé a rendere omaggio al recluso eccellente; o alla battaglia degna di Emile Zola in cui si spese per intero il giornale simbolo della gauche caviar francese, Le Monde. Salvo poi pentirsi e chiedere scusa ai lettori. «Io, questi aiuti - ha continuato Battisti parlando col pm - li ho ottenuti dicendo che ero innocente e quindi raccontando un sacco di bugie». Bugie che in molti si bevvero fino all'ultima goccia, di qua e di là dalle Alpi. Come dimenticare la passione del vignettista Vauro nell'ergersi a paladino del nuovo Dreyfus? O la passione civile dello scrittore no Tav Erri De Luca nel denunciare la persecuzione giudiziaria di un'intera generazione, «la più incarcerata nella storia d'Italia»? Sarebbe bastato fare un salto in cancelleria, leggere le carte grondanti tragedie, per capire che razza di bestia sanguinaria fosse Battisti. Ma era più comodo prendere per buone le balle del sicario rosso, ingrediente perfetto della dieta a base di pane e indignazione di ogni intellettuale che si rispetti. Di tutti i fessi - tali pare considerarli - che l'hanno protetto in questi anni, Battisti ha fatto un solo nome: Luis Ignacio da Silva ovvero Lula, già presidente brasiliano, attualmente in carcere. Fino a quando Lula restò al suo posto, il Brasile era per l'ex terrorista dei Pac il rifugio più sicuro del mondo. Per spiegare l'asilo concesso al latitante, Lula si spinse fino a sostenere che nelle carceri italiane si pratica abitualmente la tortura: a dirglielo era stato probabilmente sempre lui, Battisti, in una delle tante frottole raccontate e inghiottite senza fatica. Ora, per tutta riconoscenza, il terrorista descrive l'ex presidente carioca come un boccalone pronto a inghiottire l'amo. E lo sberleffo un po' ingrato di Battisti è rivolto, di fatto, all'intero, interminabile elenco di creduloni che nel 2004 firmarono, all'indomani del suo arresto a Parigi, il manifesto pubblico per la sua liberazione. «Protestiamo contro questo scandalo giuridico e umano», tuonarono registi e poeti, docenti universitari e parlamentari. In testa, sul versante francese, c'erano scrittori di vaglia come Daniel Pennac e Gilles Perrault; sulla sponda italiana, loro colleghi anch'essi importanti, come Valerio Evangelisti e Giuseppe Genna. E poi, perso tra tanti altri nomi celebri o ignoti, c'era anche un giovanotto di nome Roberto Saviano, allora un venticinquenne semisconosciuto in cerca di fortuna editoriale. Della ricerca scrupolosa degli atti, dei documenti, delle prove, Saviano avrebbe fatto negli anni successivi la sua bandiera di giornalista. Ma quel giorno firmò a scatola chiusa, forse attirato dai nomi illustri di cui si ritrovava all'improvviso in compagnia. «Chiediamo l'immediata liberazione di Battisti!», tuonò Saviano in coro con gli altri indignati. Cinque anni dopo, ormai divenuto famoso, si vergognò di quella firma, e pregò il sito che ospitava la petizione di cancellarla: «Non so abbastanza di questa vicenda, non mi appartiene questa causa». Ma non negò di averla firmata. Ora Battisti gli manda a dire: «Ho fatto fesso anche te».
Battisti, pentito, sconti l'ergastolo, senza premi. Dopo 40 anni ed una latitanza infinita il terrorista dei Pac confessa gli omicidi alla ricerca di uno sconto di pena. Che non deve esserci, scrive Panorama il 26 marzo 2019. "Chiedo scusa ma eravamo in guerra", ha confessato così Cesare Battisti, il terrorista dei Pac arrestato mesi fa e finalmente estradato in Italia dopo una latitanza in giro per il mondo durata decine di anni (favorita anche da protezioni di noti intellettuali anche nel nostro paese). Anni in cui Battisti ha sempre negato ogni addebito, raccontando a tutto il mondo di essere una vittima di un complotto di Stato. Oggi la svolta. Nessuno può comprendere le ragioni di un pentimento; nessuno può sapere se non il diretto interessato se si tratti di una cosa sincera o dell'ennesima bugia. Purtroppo la sensazione che questa confessione sia frutto di una strategia legale messa in piedi da Battisti per avere sconti di pena e permessi premio è piuttosto forte. Stiamo parlando infatti di un bugiardo incallito, di un uomo che ha ucciso gente innocente, rapinato negozianti "per riprenderci quello che spetta al popolo", che ha riempito la sua latitanza con quel sorriso di sfida verso lo Stato e la giustizia italiana mostrato ad ogni intervista, ad ogni foto, ad ogni telecamera. Aggiungiamo che il "pentito" Battisti nella sua confessione si è ben guardato dal fare i nomi di dei complici, di chi con lui ha ucciso, di chi li proteggeva, di chi lo ha aiutato nella latitanza. Per questo chiediamo alla Giustizia italiana di non cedere, di non fare concessioni, sconti di sorta verso Battisti che deve restare in galera fino alla fine dei suoi giorni come uno dei peggiori detenuti della storia delle nostre patrie galere. L'ultimo pensiero va a chi in questi anni lo ha difeso; intellettuali, scrittori (Saviano firmò il famoso documento pro Battisti poi se ne vergognò e cambiò idea), vignettisti (vero Vauro?), persino Carla Bruni (che ora ritratta). Alla notizia della confessione abbiamo almeno sperato in un loro analogo passo indietro, delle belle scuse con tanto di capo cosparso di cenere (siamo anche in Quaresima...). Invece niente. Silenzio. O addirittura peggio. Qualcuno di questi, intervistato sull'argomento, ha trovato persino il coraggio di giustificarlo: "Erano anni particolari...". Tutto questo non è più "difendere" un terrorista. Questo è esserne complici.
Cesare Battisti, lista-vergogna: Vauro e compagni, "gli pseudointellettuali di sinistra" che lo coccolavano, scrive il 26 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Ora cosa diranno Vauro ed Erri De Luca? Ora che Cesare Battisti, un "assassino puro" come lo ha sempre definito il pm Armando Spataro, ha confessato le sue colpe? Matteo Salvini, festeggiando con moderazione le ammissioni tardive del terrorista rosso autore di 4 omicidi, ha invitato "gli pseudointellettuali di sinistra che hanno coperto e coccolato per anni questo squallido personaggio" a uscire allo scoperto e a chiedere scusa a loro volta ai famigliari delle vittime, ai magistrati italiani, all'Italia stessa e alla sua tragica storia di terrorismo. Nel gruppone degli intellettuali che hanno difeso la teoria di Cesare Battisti vittima di una giustizia politica ci sono giganti come Gabriel Garcia Marquez e Bernard Henry-Levy, infinocchiate dalle favole del terrorista diventato scrittore, abile a costruirsi all'estero l'immagine di martire del proletariato contro il "governo fascista italiano". La follia è che molti italiani, però, erano d'accordo con lui. Nel 2004, ad esempio, c'era chi giurava che "nulla lega Battisti a terrorismi di sorta, se non la capacità di meditare su un passato che per lui si è chiuso tanti anni fa. Trattarlo oggi da criminale è un oltraggio". L'elenco di chi firmò quell'appello è imbarazzante: Giorgio Agamben, Nanni Balestrini, Pino Cacucci, Sandrone Dazieri, Giuseppe Genna, Girolamo De Michele, Loredana Lipperini, Gianfranco Manfredi, Antonio Moresco, Christian Raimo, Tiziano Scarpa, Stefano Tassinari, Lello Voce. Anni dopo, Roberto Saviano ritrattò ma solo parzialmente, proprio come Vauro. Mentre Erri De Luca anche lo scorso gennaio ha parlato di "rapimento e non di estradizione" per il terrorista.
Armando Spataro sta con Matteo Salvini: "Cesare Battisti? Cosa mi aspetto ora". Sinistra distrutta, scrive il 26 Marzo 2019 Libero Quotidiano. "Per una volta sono d'accordo con Matteo Salvini". L'ammissione di colpa di Cesare Battisti porta l'ex pm Armando Spataro a usare l'ironia parlando di un "evento storico". L'ex terrorista dei Pac ha ammesso la propria responsabilità per gli omicidi di 4 vittime per cui è stato condannato all'ergastolo (su accusa dello stesso Spataro) nel 1979, e dopo 40 anni si può finalmente passare alla fase 2: chiedere agli intellettuali italiani e francesi di chiedere scusa, a loro volta, per aver coperto le spalle, difeso e giustificato uno squallido assassino, rovesciando infamie e accuse sulla giustizia italiana. "Mi aspetto che ora chiedano scusa anche gli pseudo-intellettuali di sinistra che l'hanno coccolato per anni", ha commentato a caldo il ministro degli Interni Salvini. E Spataro, dalle pagine del Corriere della Sera, gli fa eco: "Non è che arriva adesso Battisti a riconoscercela: la verità era stata già scritta per intero, parola per parola, da tutta una serie di sentenze confermate in Cassazione. Sotto questo profilo la sua scelta non aggiunge e cambia nulla. Se proprio si vuol provare a cercare un significato dal punto di vista storico, allora trovo appunto auspicabile che facciano un minimo di autocritica tutti coloro, a cominciare da certi "intellò" francesi, che accusavano l'Italia di violare le garanzie e la magistratura di fare processi politici, quando invece il nostro Paese ha sconfitto il terrorismo (per usare la celebre espressione di Sandro Pertini) nelle aule dei tribunali e non negli stadi".
Battisti confessa, e quegli intellettuali che lo hanno difeso solo per ideologia? Pubblicato da Pierluigi Battista martedì, 26 marzo 2019 su Corriere.it. E ora? E adesso che Cesare Battisti ha ammesso la sua colpevolezza, che ne è degli artefici della campagna innocentista, degli intellettuali firmatari di tonitruanti appelli per denunciare, attraverso la difesa dello stesso Battisti, la deriva liberticida e autoritaria dello Stato italiano? Che ne è della «dottrina Mitterrand» applicata a un terrorista che ora ammette i suoi omicidi ma che in Francia prima e in Brasile poi era stato considerato meritevole del diritto d’asilo e di protezione che si riserva alle vittime di uno Stato ingiusto e persecutorio? Perché nelle campagne a favore di Cesare Battisti era il sottofondo ideologico che sorreggeva la tesi della vittimizzazione e di un carnefice che si faceva passare per agnello sacrificale di uno Stato incapace di rispettare le regole elementari del diritto e dei diritti di un imputato. E non era vero, come dimostra l’ammissione tardiva ma inequivocabile di chi si è macchiato di delitti commessi in nome della rivoluzione e della lotta armata ma che non per questo sono meno odiosi e attuati con una spietatezza sconvolgente. Si era detto, oltralpe e tra gli scrittori e gli intellettuali che si erano bevuti la favola di Cesare Battisti braccato da un’inquisizione ottusa e oppressiva, che lo Stato lo aveva condannato con prove scarse: non era vero. Che erano stati calpestati i diritti della difesa: non era vero. Che lo Stato italiano aveva imboccato la strada dell’imitazione del Cile di Pinochet: non era vero. Che Cesare Battisti, membro di diritto della corporazione angelicata degli scrittori, non poteva essere un assassino: non era vero. Che consegnare Battisti alle autorità italiane significava dare in pasto un innocente a uno Stato assetato di sangue: non era vero. Che la mobilitazione e l’appello degli intellettuali fosse un compito doveroso per difendere i diritti umani conculcato in Italia: non era vero. Non erano vere molte cose propalate dai difensori della causa di Cesare Battisti. E ora? E ora, ci sarà almeno in una parte di loro un sussulto di verità? Non un’autocritica, che è termine odioso, in auge nei Paesi autoritari dove si vuole l’umiliazione di chi sbaglia o di chi si presume abbia sbagliato. Ma appunto un soprassalto di verità, un senso di fastidio per aver divulgato, non sulla base di fatti accertati ma solo per conformismo e pregiudizio ideologico, una storia falsa, deformata, stravolta. Per aver abboccato con puerile accondiscendenza alla menzogna accettata per spirito di gruppo, per una logica tribale dell’appartenenza ideologica, senza nemmeno un briciolo di considerazione per le vittime vere, per i morti ammazzati di una guerra asimmetrica scatenata per fanatismo politico. Cesare Battisti ha chiesto scusa alle vittime del delirio terroristico. Ma i suoi seguaci sapranno almeno riflettere sulle loro parole malate? Ora la storia è stata rimessa sui suoi piedi, non è più capovolta a testa in giù come hanno preteso i firmatari di appelli insolenti e grotteschi smentiti dalle stesse dichiarazioni di Cesare Battisti. E ora, si vergogneranno almeno un po’?
IL SILENZIO DEGLI INNOCENTISTI. S. Dim. per “la Verità” il 26 marzo 2019. Il silenzio degli innocentisti. Quelli che, fino a ieri, giuravano sull' incolpevolezza di Cesare Battisti e che oggi, davanti alle ammissioni dell' assassino dei Proletari armati per il comunismo, tacciono imbarazzati. Come lo scrittore Valerio Evangelisti, animatore della campagna a favore del terrorista sulla rivista online Carmilla che, nel 2004, raccolse 1.500 adesioni. Contattato dal nostro giornale, dopo una vita trascorsa a giurare che Battisti era estraneo ai 4 omicidi per cui è stato condannato all' ergastolo, ci risponde: «Mi dispiace, non rilascio interviste su questo tema». Peccato. Sono almeno trent' anni che l' intelligencija di sinistra battaglia in nome e per conto del killer di Cisterna di Latina, in Italia e all' estero. Al suo fianco si sono schierati «cattivi maestri» come Oreste Scalzone e Franco Piperno, o ex terroristi rifugiati a Parigi come Marina Petrella ed Enrico Porsia, ma soprattutto intellettuali e scrittori. Schiera a cui Battisti, romanziere noir di scadente ispirazione, si fregia di appartenere. Dan Franck e Tahar Ben Jelloun sono stati i primi a sottoscrivere manifesti di solidarietà per lui, in Francia. «Liberate i polsi di Cesare Battisti e lasciate alle loro vite francesi gli italiani che hanno trovato da voi una patria, seconda e migliore», cantava in ode, sulla prima pagina di Le Monde, Erri De Luca. Su Liberation, gli rispondevano Toni Negri (presentato come «filosofo») e Nanni Balestrini soffermandosi sulla necessità del «perdono» per gli anni di piombo e per i suoi protagonisti. E così a seguire Daniel Pennac, il papà di Benjamin Malaussène, di professione capro espiatorio; Serge Quadruppani, Gian Paolo Serino, Massimo Carlotto, Gilles Perrault, il collettivo Wu Ming, Christian Raimo, Lello Voce, Antonio Moresco, Luigi Bernardi, Marco Philopat e il premio Strega Tiziano Scarpa. Tutti convinti, per dirla con Philippe Sollers, che l'«Italia cercasse solo una vendetta». C' è chi non si è limitato alle parole di incoraggiamento. La scrittrice Fred Vargas gli ha pagato gli avvocati e ne ha sostenuto finanziariamente i parenti. Il filosofo Bernard-Henri Levy, che firmò la prefazione al libro del terrorista, Ma cavale (La mia fuga), anni fa riuscì a coinvolgere nella sua arringa a favore dell' assassino comunista il centenario Oscar Neiemeyer, il padre dell' architettura moderna, e altri trecento intellettuali brasiliani affinché il presidente Lula negasse l' estradizione (come poi avvenne). E a paragonare Battisti a Gabriel Garcia Marquez (a sua volta compagno solidale), ai tempi dell' esilio in Messico. Tutti innamorati del ghigno del terrorista dal grilletto facile. Dopo la prima evasione in Francia, lo scrittore Giuseppe Genna si fece affascinare dalla «fuga (che) catapulta l' uomo nella leggenda». Per Battisti si sono mobilitati pure il regista Davide Ferrario, il produttore Marco Muller; i giornalisti Rossana Rossanda, Piero Sansonetti («caso clamoroso con negazione del diritto») e Gianni Minà. Roberto Saviano, appena divenne famoso, ritirò il sostegno alla campagna di Carmilla dichiarando di non aver aderito («La mia firma è finita lì per chissà quali strade del Web e alla fine di chissà quali discussioni di quel periodo», si giustificò). Il vignettista Vauro Senesi racconta di essersi ritrovato arruolato per una firma «per procura» messa da un amico. «Sbagliai a non prendere subito le distanze», spiega oggi alla Verità, «e quindi, per assumermi la responsabilità, decisi di tenere questa testimonianza». Oggi, di fronte alla confessione del killer dei Pac, il disegnatore è laconico: «L' unico commento che mi viene in mente è che è giusto che espii la pena per le azioni che, a questo punto, rivendica di aver commesso». Dai politici che allora si mobilitarono in sua difesa, quasi nessun commento. L' ex deputato di Rifondazione comunista, Giovanni Russo Spena, spiega solo ora al nostro giornale: «Firmai un appello garantista internazionale per chiedere di celebrare un nuovo processo in cui Battisti non fosse contumace». Ma ammette: «Devo dire che la sua figura non mi piace, non fa parte della mia storia».
Dall'articolo di Angela Gennaro per open.online il 26 marzo 2019. (…) Molti sono stati gli intellettuali, anche italiani, che negli anni si sono spesi sostenendo che l'ex terrorista fosse innocente e un perseguitato. Scrittori e artisti di primo piano: Wu Ming, Valerio Evangelisti, Massimo Carlotto, Tiziano Scarpa, Nanni Balestrini, Daniel Pennac, Giuseppe Genna, Vauro, che ha poi chiarito la sua posizione, sbagliata e non del tutto voluta, Pino Cacucci. «Preferiamo non commentare le notizie di oggi», dicono dal collettivo Wu Ming a Open. «I nostri testi sulla questione sono pubblici da dieci anni e non faremmo che ripetere esattamente le stesse cose che abbiamo scritto un tempo». «A questo punto spero che possa rivedere in maniera più costante la sua compagna e i suoi figli e venga tolto da un regime di detenzione speciale»: l'unico ad accettare un confronto è, ancora una volta, lo scrittore e insegnante (e oggi assessore in un municipio romano) Christian Raimo. Tra gli intellettuali che nel 2004 firmarono un appello per la libertà di Cesare Battisti, ha già chiarito la sua posizione al momento dell'arresto di Battisti.
Raimo, come commenta la confessione resa pubblica oggi?
«Sono contento che abbia confessato. Spero che sia una confessione definitiva e non determinata dalle condizioni in cui è avvenuta. Così si restituisce non solo una verità debita ai famigliari delle vittime, ma anche a un pezzo di storia italiana. Su questa pagina la verità giudiziaria è una parte, fondamentale. Ma è parte di un processo di elaborazione di quegli anni che non si può consumare solo nelle aule giudiziarie. Per me Battisti non è un guerriero sconfitto, ma un cittadino italiano che, a suo dire ora, ha commesso degli omicidi. È giusto dica la verità, paghi una sanzione ma anche che abbia la possibilità di riparare. Insomma, che ci sia la possibilità che la giustizia sia riparativa. La verità ripara un pezzo, ma un altro pezzo lo deve riparare l'elaborazione storica».
E come si dovrebbe portare avanti questa elaborazione storica?
«Con il lavoro che facciamo tutti i giorni attraverso i testi storici. Studiando. Su quegli anni c'è stato, per fortuna, negli ultimi tempi un lavoro enorme degli storici. Un lavoro di supplenza all'elaborazione politica. In Sudafrica, dopo l'apartheid, c'è stata una commissione di verità e giustizia che ha cercato di creare un possibile passaggio da un'epoca drammatica a una di comunità condivisa. In Italia c'è il lavoro, enorme, fatto da Il Libro dell'incontro - Vittime e responsabili della lotta armata a confronto. Non per creare una memoria condivisa - sarebbe irrispettoso per le famiglie, i sopravvissuti e per gli stessi responsabili - ma per cercare di trovare una storia lì dove ci sono ancora lacerazioni e buchi. Se noi pensiamo a Battisti semplicemente come un omicida, in realtà ci togliamo la possibilità anche di capire come in una determinata epoca storica ci possano essere stati così tanti omicidi. Faccio il professore di storia e cerco di farlo cercando di dare valore alla complessità. Già chiamare quelli "anni di piombo" ci fa perdere qualcosa: gli anni '70 sono stati anni di tante cose. Di omicidi, violenze terribili ma anche di grandissime riforme sociali e di lotte importantissime. Di emancipazioni e di stragi le cui ferite sono ancora aperte, da quelle di Stato al delitto Moro».
Oggi Francia e Brasile devono chiedere scusa? E gli intellettuali? E gli intellettuali italiani?
«Ma quello che si chiedeva con quell'appello del 2004 non è diverso da quello che è poi accaduto. Quell'appello chiedeva verità e un processo giusto. Che a questa verità si sia arrivati con anni di ritardo e attraverso un percorso giudiziario così complicato è certo una sconfitta. Quell'appello chiedeva anche un'altra cosa: una riflessione sulle misure di repressione poliziesca di quegli anni - leggi speciali e dintorni - affinché la sconfitta del terrorismo non passasse per una riduzione dei responsabili della violenza armata o a pentiti o a reduci. Se devo chiedere scusa, lo faccio. Ma oggi firmerei un altro appello per la richiesta di verità e giustizia di vittime e famiglia».
Non auguro il carcere a nessuno, aveva detto a Open dopo la fine della latitanza di Cesare Battisti.
«A me interessa soprattutto la verità, ma voglio che la sanzione sia giusta e che faccia sì che la vita che resta a Cesare Battisti sia tesa a riparare a quello che ha fatto, non soltanto a soffrire come lui stesso ha inferto sofferenza. Sarebbe uno spreco per tutta la cittadinanza. Se la sua confessione è utile, è utile anche che ci aiuti a capire meglio quella pagina della nostra storia».
«La lotta armata ha impedito lo sviluppo culturale, sociale e politico dell'Italia», ha detto Battisti ai pm.
«Battisti si è improvvisato scrittore. Non si improvvisasse storico. Spero che queste verità riescano a venire fuori anche senza una giustizia vendicativa come si è visto in questo caso. Mi dispiace che Battisti interpreti le lotte collettive a suo uso e consumo. Mi dispiace che si prenda la responsabilità dei suoi atti alle volte in senso personale, alle volte in senso collettivo: gli omicidi sono personali. Mi piacerebbe che le confessioni degli omicidi - che sono personali - non dovessero passare anche, sempre, per un'abiura. Non serve a capire alla verità ma a pensare a uno Stato in guerra: e per fortuna non siamo più in guerra».
Stefano Montefiori per il “Corriere della Sera” il 26 marzo 2019. Joëlle Losfeld è una editrice francese molto apprezzata. La maison che porta il suo nome fa parte del gruppo Gallimard e ha pubblicato due libri di Cesare Battisti: « Dernières cartouches » (1998), storia di un rapinatore che aderisce alla lotta armata, e « Cargo sentimental » (2003), racconto di un italiano che dopo gli anni di piombo si rifugia a Parigi. Nel 2004 assieme a molti altri intellettuali francesi Losfeld prese le difese di Battisti. Oltre che editrice è - tuttora - sua amica. Al telefono le diamo la notizia della confessione.
Signora Losfeld, ha saputo delle ammissioni di Battisti?
«No, non ne sapevo nulla, me lo dice lei adesso».
In questi anni ha cambiato opinione su di lui?
«No, perché ho letto con attenzione il libro di Fred Vargas La Vérité sur Cesare Battisti e ho saputo dei vizi di forma e della altre cose sconcertanti dei processi contro Cesare».
Ma i processi avevano accertato la verità, lui adesso ha confessato gli omicidi.
«Non sono esperta di diritto, immagino che siano gli avvocati ad avergli consigliato di ritornare sulla sua linea di difesa dopo essersi sempre proclamato innocente, ma non ne so di più».
Sa quanto in Italia si sia parlato del sostegno francese a Battisti. L' opinione prevalente è che da voi sia riuscito a spacciarsi per un nobile combattente della libertà quando invece era un delinquente.
«Ma anche in Francia sapevamo che ha cominciato come delinquente comune, e lui non lo ha mai negato, ha sempre detto di essere entrato in prigione per la prima volta per delitti comuni, ed è in prigione che si è politicizzato. Poi si è rifatto una vita in Francia, non ha mai più commesso delitti, si è conformato alla condotta richiesta dalla dottrina Mitterrand, cioè abbandonare la violenza e vivere tranquillamente».
Avete difeso Battisti che si era sottratto al processo, ma negli anni Settanta l' Italia non ha mai smesso di essere una democrazia, con un sistema giudiziario che tutelava i diritti dell' imputato. La percezione, anche a sinistra, è che Battisti sia riuscito a ingannare l' ambiente intellettuale parigino.
«So bene che Battisti in Italia è detestato, anche dalle persone che stavano dalla sua stessa parte politica, ma dobbiamo ricollocarci al tempo degli anni di piombo, in un contesto politico completamente diverso. C' era una guerra tra l' estrema destra e l' estrema sinistra, sono successe cose gravi, era un altro periodo. Battisti e altri volevano rovesciare una classe politica troppo normativa. Adesso, io non ho vissuto gli anni di piombo, ho conosciuto Cesare Battisti in Francia, l' ho conosciuto come scrittore, mi ha raccontato la sua storia. Non c' era motivo per cui io non credessi alla sua versione. Voglio dire, non sono io che l' ho fatto venire in Francia, c' era un accordo tacito tra i governi italiano e francese. C' è anche il problema dei pentiti, che hanno accusato altre persone in cambio di sconti di pena, una volta che Cesare ha lasciato l' Italia qualcuno gli ha addossato tutte le responsabilità».
Pensa ancora di avere fatto bene a sostenerlo?
«Sì».
Lei sa quanto questo appoggio faccia discutere.
«Lo so, ho amici italiani che mi vogliono bene comunque. Sanno che ho difeso Cesare Battisti perché è un amico. Non faccio analisi politiche riguardo ai miei amici, credo a quel che mi dicono».
Ma adesso che lui riconosce i fatti non si sente tradita?
«Non sono abbastanza informata, non ho ancora parlato al telefono con la figlia e non conosco adesso la sua linea di difesa, forse non può fare altro che confessare. Io sono contraria alla lotta armata, mi sono impegnata a favore di Cesare, per anni e anni, indipendentemente dal fatto di essere una delle sue editrici, perché c' era una parola data dalla Francia e bisognava rispettarla. Lo abbiamo difeso perché la Francia aveva preso un impegno».
La difesa di Battisti davanti al pm: “Non sono un killer, c’era un movente ideologico”. Il terrorista ha risposto così al magistrato di Milano che lo ha interrogato nel carcere di Oristano, scrive il 26 marzo 2019 La Repubblica. “Io non sono un killer" ma un uomo animato da un "movente ideologico". E’ questa la difesa del terrorista Cesare Battisti durante l’interrogatorio reso nel carcere di Oristano, tra sabato e domenica scorsa, davanti al pm di Milano Alberto Nobili. "Voglio precisare che lei mi ha parlato di freddezza - si legge nel documento - che sembrerebbe che io abbia manifestato nei casi in cui ho sparato. In merito, intendo evidenziare che io non sono un killer ma sono stato una persona che ha creduto in quell'epoca nelle cose che abbiamo fatto e quindi la mia determinazione era data da un movente ideologico e non da un temperamento feroce, quando credi in una cosa, sei deciso e determinato. A ripensarci oggi provo una sensazione di disagio ma all'epoca era così". Nell'interrogatorio in cui ammette i quattro omicidi per i quali è stato condannato all'ergastolo, Battisti definisce "pura fantasia" la circostanza che abbia avuto dei rapporti con i servizi segreti francesi. "Escludo di avere mai avuto rapporti logistici o finanziari da soggetti italiani per favorire la mia latitanza - si legge in un verbale - quando ero in Brasile mi fu anche contestato da un giudice che io avrei avuto rapporti con i servizi segreti francesi che mi avrebbero favorito, si tratta di pura fantasia". Battisti afferma di essere evaso dal carcere di Frosinone nel 1981 "grazie all'aiuto di appartenenti a gruppi armati di differente collocazione nel mondo della lotta armata in quanto ritenevano che io avrei potuto incontrare alcuni elementi e portare un messaggio che poi sarebbe stato finalizzato a cessare l'attacco armato nei confronti dello Stato ma a mantenere la disponibilità delle armi per scopi difensivi e ad aiutare compagni ad evadere". "In realtà - spiega nel verbale - io già dentro di me covavo l'idea della dissociazione e non a caso, pochi mesi dopo, circa due, decisi di abbandonare tutto e tutti e di rifugiarmi in Francia". Negli interrogatori resi nel carcere di Oristano, Cesare Battisti ricostruisce uno a uno i quattro omicidi per i quali è stato condannato all'ergastolo. "Il mio primo omicidio è stato quello del maresciallo Santoro, capo delle guardie carcerarie di Udine - racconta al pm Alberto Nobili - l'indicazione di commettere l'azione venne dai compagni del Veneto per le 'torture' commesse nel carcere a carico dei detenuti politici. Partecipai all'azione esplodendo soltanto i colpi di arma da fuoco che causarono la morte del Santoro. Non so indicare per quale motivo esatto venne deciso di ucciderlo, a differenza di quanto fu fatto per l'agente di custodia Nigro, in quanto ero appena giunto nel gruppo armato e l'azione era già stata decisa. Per quello che posso dire - prosegue l'ex terrorista - ho appreso che il Santoro si era comportato in modo più violento di Nigro". "Per quanto riguarda l'omicidio di Andrea Campagna - continua Battisti - cui ho partecipato sparando, l'indicazione è stata data dal collettivo di zona Sud, in quanto era ritenuto uno dei principali responsabili di una retata di compagni del collettivo Barona che erano poi stati torturati in caserma. Lui conosceva bene i soggetti del collettivo Barona in quanto il 'suocero' abitava in quella zona. Per lui fu decisa la morte nel corso di una riunione dei Pac e mi sono reso disponibile all'azione". L'ex leader dei Pac precisa di non essere in grado "di riferire i nomi di coloro dei collettivi del territorio che nei vari casi chiesero il nostro intervento, non per una volontà omertosa, bensì perchè essendo io in quel periodo clandestino non era opportuno che avessi contatti che vivevano pubblicamente il territorio. Non voglio coprire nessuno, voglio solo dire come erano le cose". Il terrorista esclude di avere ricevuto appoggi da italiani durante la sua latitanza. "Tra gli italiani - dice - nessuno mi ha mai aiutato o ha favorito la mia latitanza; io sono stato sostenuto per ragioni ideologiche e di solidarietà e posso anche dire che non so se queste persone si siano mai chieste se io fossi effettivamente responsabile dei reati per cui sono stato condannato". L'ex leader dei Pac sostiene invece di essere stato sostenuto nella latitanza "da partiti, gruppi di intellettuali, soprattutto nel mondo editoriale, come sostegno ideologico e logistico". Così spiega l'appoggio di cui ha goduto per oltre tre decenni: "Sono stato appoggiato per una pluralità di ragioni che vanno sia dal fatto che mi proclamavo innocente, sia dal fatto che in molti Paesi esteri non è concepibile una condanna in contumacia e sia perchè cercavo di dare di me l'idea di un combattente della libertà, come io mi sentivo per i fatti degli anni '70". Sollecitato dal pm, Battisti si sofferma anche sulla "gambizzazione" del medico Diego Fava alla fine degli anni '70. "La prima azione contro persone fisiche cui ho partecipato - ricorda - fu commessa a Milano nei confronti del dottor Fava su segnalazione dei compagni operanti all'interno del collettivo dell'Alfa Romeo per ragioni che in questo momento non ricordo con precisione. Contro il dottor Fava - prosegue - sparammo io e l'altra persona indicata in sentenza. Preciso, affinchè il mio discorso sia più chiaro, che io preferisco non fare nomi, sia per un fatto personale sia perchè sarebbe inutile in quanto relativo a soggetti già identificati e condannati". Battisti afferma di avere sostenuto "la linea" di ferire e non uccidere Pierluigi Torregiani e Lino Sabbadin, i due commercianti che invece poi vennero ammazzati. "Ci tengo in particolare a questa precisazione - afferma Battisti - che non cambia nulla circa la mia posizione perchè per anni sono stato 'massacrato' dalla stampa e dall'opinione pubblica quale principale responsabile della morte di Torreggiani e Sabbadin". "C'erano state discussioni accese sulla morte di Sabbadin e Torregiani ma alla fine era prevalsa la linea che io, insieme ad altri, avevamo sostenuto, ovvero ferire e non uccidere".
ECCO I VERBALI DELL’INTERROGATORIO DI CESARE BATTISTI IN CARCERE. Luca Fazzo per “il Giornale” il 27 marzo 2019. Sa com' è, dottore: volevamo fare la rivoluzione. Alla fine, è questa la sintesi disarmante della confessione di Cesare Battisti, il terrorista dei Pac chiuso nel carcere di Sassari. Due verbali il 23 e il 24 marzo, resi noti ieri dall' agenzia Agi: in cui Battisti bada soprattutto a minimizzare le sue colpe. Quando ammazza, è perché gliel' ha ordinato qualcun altro. Quando ad a ammazzare è qualcuno su suo ordine, spiega che lui voleva solo un ferimento. Ma a risultare indigesta è soprattutto la leggerezza con cui, secondo lo stesso Battisti, si ammazzava in quegli anni: a volte senza neanche sapere perché. «Sono stato fatto evadere dal carcere di Frosinone grazie all' aiuto di alcuni appartenenti a gruppi armati di differente collocazione nel mondo della lotta armata, in quanto ritenevano che io avrei potuto incontrare alcuni elementi e portare un messaggio finalizzato a cessare l'attacco armato nei confronti dello Stato ma mantenere e armi a scopi difensivi ed aiutare altri compagni ad evadere. In realtà io già covavo dentro di me l' idea della dissociazione». «Essendo stato iscritto alla Fgci e poi a Lotta Continua ho dato diverse volte somme di denaro provento di furti e rapine per la causa comunista». «Nel 1974 fui arrestato per una rapina e rinchiuso nel carcere di Latina. Durante la mia carcerazione ebbi modo di individuare concretamente un gruppo già consolidato nell'ambito della lotta armata (...) uscito nel 1976 ero fortemente intenzionato a militare stabilmente in un gruppo armato (..) nel carcere di Udine ho conosciuto Arrigo Cavallina, parlavamo spesso di politica e di lotta armata e concordammo nell' idea che quando fossi uscito mi sarei aggregato al suo gruppo che poi diventerà i Proletari armati per il comunismo». «La prima azione contro persone fisiche cui ho partecipato fu commessa a Milano nei confronti del dottor Fava su segnalazione di compagni operanti all' interno del collettivo dell' Alfa Romeo per ragioni che in questo momento non ricordo con precisione». «Il primo omicidio è quello del maresciallo Santoro, capo delle guardie carcerarie di Udine. L'indicazione di commettere l'azione venne dai compagni del Veneto per le torture commesse nel carcere a carico dei detenuti politici. Partecipai all' azione esplodendo soltanto io i colpi d' arma da fuoco che causarono la morte del Santoro. Non so indicare per quale motivo esatto venne deciso di uccidere il maresciallo». «Sia il Torregiani che il Sabadin erano due commercianti che ai nostri occhi si erano resi responsabili di aver ucciso due rapinatori, noi chiamavamo costoro miliziani" (...) meritavano dal nostro punto di vista una punizione. Nella nostra ottica i rapinatori uccisi erano proletari che cercavano di riappropriarsi di quanto tolto loro dal capitalismo (...) la maggioranza dei Pac, me compreso, aveva deciso di procedere, per ragioni politiche, al solo ferimento, proprio per non metterci al loro stesso livello, quello di giustizieri (..) Tuttavia accadde che il Torregiani reagì sparando e pertanto il volume di fuoco nei suoi confronti fu tale da determinarne la morte. Per quanto riguarda il Sabadin, azione cui partecipai come copertura, anche per lui la maggioranza del nostro gruppo aveva deciso di procedere al solo ferimento. Accadde però che la persona incaricata dell' azione lo uccise». «Lei mi ha parlato di freddezza che sembrerebbe che io abbia manifestato nei casi in cui ho sparato. Io non sono un killer ma una persona che ha creduto in quell' epoca nelle cose che abbiamo fatto e quindi la mia determinazione era data da un movente ideologico e non da un temperamento feroce, quando credi in una cosa sei deciso e determinato. A ripensarci oggi provo una sensazione di disagio». «Io sono stato sostenuto per ragioni ideologiche di solidarietà, non so se queste persone si siano mai chieste se io fossi effettivamente responsabile dei reati per cui sono stato condannato. Io ho sempre professato la mia innocenza e ciascuno è stato libero di interpretare questa mia proclamazione come meglio ha creduto, ma per molti di questi il problema non si poneva, andava semplicemente sostenuta la mia ideologia dell' epoca dei fatti». «Sono andato in Messico in aereo grazie a una colletta tra compagni; in Messico sono stato accolto dal sindacato Situam, sono stato lì otto anni, nei primi tempi mi sono mantenuto grazie alla solidarietà dei compagni (...) in Brasile dal 2004 al 2007 ho vissuto in semi-clandestinità mantenuto grazie al sostegno del Sindacato Universitario Sintusp, ideologicamente schierato a sinistra (...) in Bolivia in mente avevo frequentato un individuo, di cui non ricordo il nome, che io conoscevo come presidente della gioventù di Evo Morales (...) si tratta del soggetto che dalla frontiera Brasile/Bolivia, ovvero da San Matias, mi ha accompagnato sino a Santa Cruz della Síerra. Si è trattato di una condotta di solidarietà nei miei confronti tra il Movimiento Sen terra e il Sintusp che hanno preso contatti con il governo Boliviano». Battisti dice di avere saputo solo dopo che il suo accompagnatore era un malavitoso. «Chiedo scusa ai familiari delle vittime pur non potendo rinnegare che in quell' epoca per me e per tutti gli altri che aderirono alla lotta armata si trattava di una guerra giusta. Parlare oggi di lotta armata per me è qualcosa privo di senso».
Cesare Battisti: «All’estero con l’aiuto di partiti e sindacati. Ho scritto per Playboy». Pubblicato da Giuseppe Guastella mercoledì, 27 marzo 2019 su Corriere.it. Cesare Battisti consegna agli atti solo minini riferimenti per lo più già noti o ininfluenti su chi, organizzazioni o persone, lo ha aiutato in 37 anni di latitanza, ma negli interrogatori dopo l’espulsione in Italia dalla Bolivia descrive come ha guadagnato la fiducia di intellettuali, politici e sindacalisti che hanno voluto vedere in lui un perseguitato politico e non un condannato all’ergastolo per quattro omicidi e altri gravi reati commessi in Italia fino al 1979 quando faceva parte dei Pac. Dopo aver chiesto scusa per il male che ha fatto e «riconosciuto con sofferenza, ma senza infingimenti, la propria responsabilità per i fatti per cui è stato condannato», afferma Davide Steccanella, l’avvocato che lo assiste, l’ex terrorista risponde alle domande del capo del pool antiterrorismo della Procura di Milano, Alberto Nobili. Premette che non fa nomi, anche perché i complici dei suoi delitti sono già tutti nelle sentenze passate in giudicato. Parte dall’evasione dal carcere di Frosinone nell’ottobre 1981: «Decisi — dichiara — di abbandonare tutto e tutti e di rifugiarmi in Francia». Se non fosse evaso, probabilmente si sarebbe dissociato dalla lotta armata. Quando Nobili gli chiede se qualcuno in Italia o all’estero ha favorito la sua latitanza, la prende larga. «Sono stato sostenuto da partiti, gruppi di intellettuali, soprattutto nel mondo editoriale, come sostegno ideologico e logistico, ma nessuno in Italia», dice, aggiungendo di non sapere se costoro si chiedessero se fosse innocente o no. «Ero ritenuto un intellettuale, scrivevo libri, ero insomma una persona ideologicamente motivata», «non più pericolosa», per «questo nessuno mi ha dato più la caccia». «Mi sono mantenuto in Francia — prosegue — grazie alla solidarietà di alcune formazioni, come la Liga Rivolutionaire» fino al 1982 quando, «grazie a una colletta tra compagni, sono andato in aereo in Messico dove sono stato accolto dal sindacato Situam. Sono stato lì 8 anni». Dalla capitale Città del Messico si trasferì a San Miguel de Allende, fondò la rivista Via Libre e aprì il ristorante Corto Maltese producendo «pasta che vendevamo a vari esercizi». Quando il presidente Mitterand garantì a coloro che venivano considerati rifugiati politici di non essere estradati nei Paesi di origine se non commettevano reati, nel 1990 tornò in Francia lavorando alla scrittura di libri e articoli su riviste come Acqua e Playboy, ma sotto pseudonimo, o per mini serie tv su F3 e Antenne 2, guadagnando abbastanza da comprare una casa nella regione di Parigi. Una vita normale, che di colpo nel 2004 deve fare i conti con un nuovo vento politico. Venne arrestato per essere estradato in Italia. «Ci furono molte manifestazioni di piazza a mio favore perché per 14 anni avevo operato a livello sociale e culturale ed ero conosciuto per le mie battaglie contro degrado ed emarginazione», dichiara a Nobili, aggiungendo che quando dopo 19 giorni fu scarcerato decise di fuggire. Raggiunse il Brasile dove visse «in semiclandestinità grazie al sostegno del sindacato universitario Sintusp, ideologicamente schierato a sinistra ma senza connotazioni di violenza». Nuovamente arrestato nel 2007 per essere estradato in Francia, fu scarcerato nel 2011 rimanendo in Brasile grazie alla residenza concessagli dal presidente Lula. «Un giudice mi contestò rapporti con i servizi segreti francesi che mi avrebbero favorito. Si tratta di pura fantasia», ci tiene a dichiarare a verbale. «Ho svolto vari lavori come custode di abitazioni e nell’editoria. Ho pubblicato 4 libri, ho fatto traduzioni». L’aria cambiò di nuovo per Battisti con l’elezione di Bolsonaro nel novembre 2018 vira verso l’estradizione in Italia. «Decisi di scappare in Bolivia dove avevo contatti per la scrittura del libro “Chilometro zero”, che probabilmente verrà intitolato “Verso il sole morente”, un romanzo storico sulla conquista portoghese del Brasile», dice a Nobili. Stavolta l’aiuto arriva dal «movimento Sem Terra e dal Sintusp che presero contatti con il governo boliviano». Non dura: arresto ed espulsione in Italia. Sull’aereo per Roma un poliziotto gli rivela che uno dei personaggi che lo avevano aiutato tra il Brasile e la Bolivia era legato alla criminalità comune: «Mi ha accompagnato fino a Santa Cruz della Sierra» per «solidarietà». Con lui solo un paio di contatti per andare in città a fare la spesa.
Battisti ha confessato. Io no, scrive Piero Sansonetti il 27 Marzo 2019 su Il Dubbio. Si dovrebbero vergognare – sento dire – personaggi come Gabriel Garcia Marquez e Francois Mitterrand. Cioè il più grande scrittore latino americano del novecento e uno dei più autorevoli leader politici europei del dopoguerra (insieme, forse, a De Gaulle, a Brandt, a Moro). Dovrebbero vergognarsi – se capisco bene – perché Cesare Battisti ha confessato quattro omicidi. Glielo chiede il più importante giornale italiano, cioè il Corriere della Sera. Glielo chiedono quasi tutti gli opinionisti di un certo livello. Quale è il motivo della vergogna? Avere sostenuto i propri dubbi sulla completezza e la regolarità dei processi ai terroristi italiani negli anni Settanta e Ottanta, e in particolare dei processi a Cesare Battisti, celebrati in contumacia. Lo dico in un altro modo: dovrebbero vergognarsi di avere preteso la superiorità dello Stato di diritto. Marquez e Mitterrand non sono più tra noi e non possono difendersi. Non credo che avrebbero difficoltà a farlo. Nel mio sedicesimo al quadrato io posso farlo. Cesare Battisti ha confessato. Io no. Sono sommerso da messaggi, da assalti twitter, da intimazioni: “tu lo hai difeso, ora che ha confessato perché non chiedi scusa, perché non ti vergogni?”. Ieri sera mi ha telefonato anche Cruciani, della trasmissione radio “la Zanzara”, e mi ha processato più o meno come se io fossi un fiancheggiatore delle Brigate Rosse o dei Pac. Cruciani però me lo aspettavo. Ha sempre sostenuto la sua certezza sulla colpevolezza di Battisti e ne ha fatto un cavallo di battaglia. Non si è mai impancato a garantista. Mi hanno colpito di più gli anatemi di intellettuali liberali di primissimo ordine, come Pigi Battista e Carlo Nordio. Battista, appunto, è quello che ha preteso la vergogna, Nordio, che è un giurista preparatissimo, ha preteso le scuse. Preparatissimo, sicuramente, ma alle volte, forse, un po’ troppo passionale. Vorrei intanto spiegare quale è stata la mia posizione, e quella di quasi tutta la minuscola minoranza di persone che in questi anni non si è arruolata all’esercito degli accusatori. Non ho mai sostenuto l’innocenza o la colpevolezza di Cesare Battisti, non avrei potuto farlo sulla base delle mie conoscenze: ho solo fatto osservare che per condannare una persona occorrono le prove, e che queste prove devono essere esibite al processo, devono essere al di là di ogni ragionevole dubbio e devono riguardare la responsabilità della singola persona nel singolo crimine. E ho sostenuto la tesi, non particolarmente spericolata, che negli anni Settanta – e soprattutto negli anni Ottanta – i processi ai terroristi erano un po’ grossolani e spesso si basavano esclusivamente sulla testimonianza e sulle accuse dei pentiti. Così andò anche il processo a Battisti, e io penso che questo fu un errore e che le condanne furono assai discutibili. La stessa cosa pensarono – non solo su Battisti, ma su molti fuggiaschi italiani, di sinistra e di destra – le autorità di diversi paesi stranieri, che non si fidavano dei nostri tribunali e dei modi nei quali da noi si svolgevano i processi. E per questa ragione rifiutarono, e in parte ancora rifiutano, l’estradizione. Io credo che tra la metà degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta la politica italiana commise un errore drammatico. Spaventata dal montare del terrorismo ( e su un altro versante della mafia) delegò alla magistratura il compito di vincere la guerra. Dicendo alla magistratura proprio così: “Siamo in guerra, radete al suolo”. E consentendole di usare i mezzi giustificati dai fini, ma non dal diritto. Da allora la politica non è più riuscita a riprendersi lo scettro. Ha pagato un prezzo esorbitante in termini di autonomia. Battisti – ho letto – nella sua dichiarazione ha detto che lui era in guerra. Già, lo sapevo. Io però non ero in guerra. Io all’epoca ero giovane, ma ero un militante del Pci, un giornalista dell’Unità e la mia battaglia contro il terrorismo l’ho combattuta fino in fondo, in modo rigorosissimo, anche prendendo i rischi che qualunque giornalista serio, in quegli anni, prendeva ( oggi sento intimazioni di resa da molte persone che allora non erano schierati dalla stessa parte); e tuttavia, anche in polemica con molti esponenti del mio partito e del mio schieramento, credevo che la lotta andasse condotta, da noi, solo all’interno dello stato di diritto. Che questo fosse essenziale. Pensavo che si ci fossimo fatti trascinare in guerra dal partito della lotta armata, in quello stesso momento avremmo perso. Lo feci allora, lo faccio ancora oggi. Non capisco l’obiezione che mi fanno: “in questo modo oltraggi le vittime”. Non ci penso nemmeno a oltraggiare le vittime, per le quali ho sempre avuto ( e, quando mi è capitato, ho dimostrato) un grande rispetto e anche affetto. Chiedere garanzie per gli imputati – provo a spiegarlo spesso, con scarsa fortuna – non vuol dire offendere le vittime. La gravità o l’odiosità di un reato non prevede la riduzione delle garanzie e dei diritti, casomai ne prevede l’innalzamento. Se ti condanno senza prove per divieto di sosta, poco male, se ti condanno per strage è diverso. Ancora ieri molti mi hanno detto: “Ma ora ha confessato. Non è questa una prova? E non è la prova che il processo era giusto?”. No. E non perché posso avere anche dei dubbi sulla confessione di una persona detenuta, in isolamento, e con la prospettiva di restare in isolamento tutta la vita ( posso prendere in considerazione la confessione solo se su questa base si svolgesse un nuovo processo). Ma per un’altra ragione: le prove devono venire prima della condanna, non dopo. Non mi sembra un concetto troppo astruso. Eppure pare di sì. Se oggi, per assurdo, saltassero fuori le prove che il capitano Alfred Dreyfus effettivamente passò i segreti militari ai tedeschi, durante la guerra franco- prussiana, questo non toglierebbe nulla alla follia del processo che subì. Perché quel processo fu assolutamente irregolare. E il j’accusedi Zola resterebbe un monumento al Diritto e un pilastro della modernità. So che è molto difficile spiegare la differenza tra Stato di Diritto e giustizia universale, o tra Stato di Diritto e verità suprema. Però vi assicuro che esiste questa differenza, e ciò che garantisce il crescere della civiltà non è la giustizia universale e unica, né la verità suprema: è lo Stato di Diritto.
· Quegli intellettuali dalla parte dei terroristi.
Così l'intellighenzia rossa ha coperto 50 anni di bugie. Sostenitori delle Br e firmatari contro Calabresi: in nome della superiorità morale hanno giustificato ogni errore, scrive Alessandro Gnocchi, Mercoledì 27/03/2019 su Il Giornale. Un po' di aritmetica. Prendiamo i sostenitori di Cesare Battisti e sommiamoli ai firmatari della lettera aperta contro il commissario Luigi Calabresi. Il risultato è: cinquant'anni di cultura di sinistra forte di verità ideologiche che si sono sempre rivelate menzogne. Cinquant'anni di conformismo così soffocante da far precipitare la cultura italiana nell'irrilevanza. Battisti ammazza quattro persone? Per gli intellettuali è un complotto della magistratura contro il «grande scrittore» di noir prestato alla lotta armata e alle rapine. Per decenni dunque sono piovuti appelli e dichiarazioni in favore della primula rossa firmati, tra gli altri, da Erri De Luca, Tiziano Scarpa, Christian Raimo, Valerio Evangelisti, Wu Ming, Fred Vargas e molti altri. Battisti ora confessa di essere un assassino? Gli intellettuali spariscono. I pochi che almeno ci mettono la faccia dicono le seguenti cose. Evangelisti, intervistato da Repubblica, si nasconde dietro a un dito: mai detto questo, mai detto quello, i metodi dei magistrati restando discutibili, era una guerra, adesso basta. Joëlle Losfedl, l'editrice francese di Battisti, non crede alla confessione e dichiara al Corriere della sera: «Qualcuno gli ha addossato tutte le responsabilità». Raimo avrebbe fatto «come in Sudafrica per l'Apartheid: una grande amnistia» per porre fine a una «guerra civile». Le cose sono sempre andate in questo modo. Memorabile purtroppo la mobilitazione del 1971 contro il commissario Luigi Calabresi, accusato di aver buttato l'anarchico Pinelli dalla finestra della questura di Milano. Un falso. Invece è vero che tutti i firmatari della lettera aperta all'Espresso sono considerati maestri non solo nel proprio campo. Qualche nome? Norberto Bobbio, Federico Fellini, Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Vito Laterza, Giulio Einaudi, Inge Feltrinelli, Gae Aulenti, Alberto Moravia, Toni Negri, Margherita Hack, Dario Fo, Giorgio Bocca, Furio Colombo e mi fermo qui ma le firme sono 757. L'appello isolò Calabresi che fu ucciso da Lotta continua, una fucina di talenti da Adriano Sofri (condannato come mandante) al citato Erri De Luca passando per Gad Lerner. Qualcuno poi chiese scusa. Ad esempio, Eugenio Scalfari ammise l'errore. Con calma, nel 2007. E le Brigate Rosse? A lungo si è sostenuto che non avessero alcun rapporto con la sinistra istituzionale. Fino a quando non venne fuori che appartenevano all'album di quella famiglia. E Mao Tse Tung? Un rivoluzionario da cui imparare. Salvo scoprire che era un omicida. E l'Unione sovietica? Il caso Kravcenko (1948) e ancora prima i libri di altri dissidenti avevano dimostrato che l'Urss era una prigione a cielo aperto. Poi vennero Budapest, Praga, Solzenicyn, Arcipelago Gulag e il Muro di Berlino, il crollo dell'impero sovietico. Niente, gli intellettuali ancora sventolavano bandiere rosse, solo un po' stinte, e stavano lì a distinguere tra socialismo e socialismo reale. Gli intellettuali comunisti e post-comunisti hanno sempre ritenuto di essere interpreti autorizzati della Storia e di essere moralmente superiori al resto d'Italia. Il popolo, secondo loro, è sempre attratto dal «fascismo eterno» teorizzato da Umberto Eco. Scrittori e artisti si battevano per valori come l'uguaglianza (la libertà è sempre stata di destra) e si battono per l'accoglienza. Il socialismo è diventato umanitario. La prossima rivoluzione sarà in nome della bontà e delle porte spalancate all'immigrazione. Sergio Ricossa ha scritto nel 1980: «È un errore credere per ragioni umanitarie ad un socialismo che di umanitario ha più nulla» (Straborghese). Ma Ricossa era libertario quindi i nostri intellettuali ne conoscono a stento il nome.
Silenzi e assoluzioni a oltranza: i suoi fan amici non si pentono. Le parole di chi lo difende. Vauro: no a condanne senza appello, scrive Gian Maria De Francesco, Mercoledì 27/03/2019 su Il Giornale. «Gli appoggi di cui ho goduto sono stati il più delle volte di carattere politico rafforzati dal fatto che io ero ritenuto un intellettuale, scrivevo libri; era anche una precisa garanzia che ero ormai una persona non più da ritenersi pericolosa». Nel verbale di interrogatorio il terrorista Cesare Battisti ha fornito un'analisi molto più lucida di quella fornita dai suoi sostenitori, «spiazzati» dalla confessione dei quattro omicidi compiuti tra il 1978 e il 1979. A partire dalla sua editrice francese, Joëlle Losfeld che al Corriere della Sera ha confermato il proprio appoggio all'ex componente dei Pac. «Sanno che ho difeso Cesare Battisti perché è un amico. Non faccio analisi politiche riguardo ai miei amici, credo a quel che mi dicono», ha dichiarato aggiungendo che «non c'era motivo per cui non credessi alla sua versione, una volta che ha lasciato l'Italia qualcuno gli ha addossato tutte le responsabilità». Infine, una minima presa di distanza: il sostegno è stato anche una forma di patriottismo. «Lo abbiamo difeso perché la Francia aveva preso un impegno». Anche i firmatari dell'appello del 2004 contro la sua estradizione dalla Francia (evitata grazie alla fuga in Brasile) non hanno mostrato segni di resipiscenze. Lo scrittore Valerio Evangelisti a Repubblica «quarant'anni dopo non ha senso accanirsi su una persona» e che «i metodi seguiti nei processi di quegli anni erano discutibili». La stessa spiegazione è stata fornita dal collettivo Wu Ming che, pur non commentando, ha ribadito sia la propria contrarietà alla legislazione antiterrorismo che l'auspicio di un'amnistia. Stesso discorso per il vignettista Vauro che, però, qualche mese fa aveva parzialmente ridiscusso la propria adesione. «Potrebbe trattarsi di una strategia per ottenere sconti di pena ma nessuno può affermarlo senza la minima incertezza», ha sostenuto precisando che «non è il caso di fare condanne morali senza appello; quello che posso dire è che 15 anni fa, quando fu promosso quell'appello, certi comportamenti discutibili di Battisti non si erano manifestati». Ancor più radicale lo scrittore Christian Raimo. «Sono perplesso sul modo in cui questa confessione arriva: dopo mesi di isolamento, di carcere disumano», ha dichiarato interrogandosi se si tratti di una confessione credibile o dell' «unica possibilità che aveva Battisti per sperare di rivedere la sua compagna e i suoi figli e avere qualche anno di libertà». Anche Raimo ha rinnovato l'appello a «una riflessione e un intervento politico sugli anni Settanta che non riduca la verità storica a una verità giudiziaria spesso vendicativa, che non costringesse i responsabili della violenza armata a dichiararsi pentiti o reduci per avere una qualche possibilità di non finire all'ergastolo». Il retropensiero è che lo Stato per questi intellettuali continui a rappresentare una sorta di potere nemico. Forse questa tesi sovversiva viene sostenuta anche per non sconfessare la scelta di appoggiare quello che s'è rivelato un criminale comune. Forse sarebbe stato meglio un imbarazzato silenzio come quello nel quale si sono rinchiusi i francesi Bernard-Henri Levy e Fred Vargas.
Quegli intellettuali dalla parte dei terroristi, scrive Nicola Porro il 27 marzo 2019. Ricevo queste condivisibili e intelligenti osservazioni da Edoardo Loewenthal, classe 1962. È un imprenditore di successo nel settore Internet. Interessato alla politica nazionale ed internazionale ed allergico alle fake news. Meglio di mille articoli di giornale di questi giorni ci spiega la follia comunicativa che da anni riguarda il terrorista Battisti e gli attacchi che Israele da decenni riceve. «Non riesco a togliermi dalla testa quest’idea che la vicenda di Battisti assomigli in qualche modo a quella di Israele. Provo a spiegare perché. Vediamo i fatti: Battisti, condannato con sentenze passato in giudicato per 4 omicidi (2 commessi materialmente e 2 in concorso), evade nel 1981 e trova rifugio in Francia. Dopo qualche anno di peregrinazioni da latitante torna in Francia. Qui viene arrestato ma riesce a beneficiare della cosiddetta “dottrina Mitterand”: non vengono estradati latitanti se si ritiene che si tratti di ricercati “per atti di natura violenta ma d’ispirazione politica”. Peraltro in questi (quasi) quarant’anni Battisti si è sempre dichiarato innocente, completamente estraneo ai fatti per cui è stato condannato, dichiarando di essere perseguitato dallo stato italiano per motivi politici. Fin qui abbiamo un assassino in fuga che si proclama innocente e beneficia (indebitamente) di uno sorta di status di rifugiato politico. Ma la cosa insolita è il fatto che si sia creato, negli anni, un movimento d’opinione, transfrontaliero, che si è “bevuto” la sua versione dei fatti (quindi un intellettuale perseguitato per le sue idee politiche, vittima di processi “farsa” e quindi condannato ingiustamente). E da Fred Vargas a Erri de Luca, da Daniel Pennac a Bernard Henry Levy, tutti quanti a sostenere pubblicamente Battisti denunciando le ingiustizie da lui subite. E la lista è lunga. Nel 2004 è stato pubblicato in Francia il “Manifesto per liberare Battisti”, firmato da decine di intellettuali, nel quale si evocava chiaramente una congiura contro il povero Battisti, ordita da chi aveva l’interesse a tacitarlo per sempre. Come è finita lo sappiamo: Battisti, finalmente estradato e rinchiuso in un carcere italiano, davanti al PM ha ieri ammesso gli omicidi per cui è stato condannato riconoscendo che le ricostruzioni fatte nei processi erano veritiere. Rapine, furti, ferimenti, omicidi. Uno squallido e crudele criminale comune che ha distrutto la vita di molte famiglie. E le decine di intellettuali e politici che lo hanno difeso in questi anni urlando ai quattro venti la sua innocenza? Tacciono. Ora cosa c’entra tutto ciò con Israele? Ecco sulla questione palestinese si è creato, a livello mondiale, un movimento d’opinione, che si estende dalle stanze della politica di molti paesi alle redazioni dei giornali ed arriva anche all’interno delle commissioni dell’Onu, che dipinge un quadro a tinte fosche. Ovvero: Israele è uno stato che occupa territori abusivamente, nel quale vige l’apartheid, che assedia affamando la povera gente nella striscia di Gaza, uccide civili inermi, imprigiona gli oppositori politici. Una ragazzina palestinese fanatica che si diverte a schiaffeggiare i soldati è diventata un’icona mondiale della lotta per la libertà. Quello che accomuna questi temi alla questione di Battisti è molto semplice. La creazione di movimenti d’opinione che nascono, crescono, si diffondono a macchia d’olio con la totale mancanza di fact-checking. Cioè credendo, aprioristicamente, a quanto viene sbandierato senza il minimo spirito critico o volontà di approfondire. Gli intellettuali che supportano il movimento BDS (Boycott Israel) sono mai stati in Israele? Lo sanno che più del 20% della popolazione è araba, e che vive perfettamente in pace con il resto della nazione? (Anzi, per dirla tutta, Israele è l’unico paese in medio oriente dove una donna araba si può laureare in medicina). Lo sanno che la striscia di Gaza è governata da una organizzazione terroristica – Hamas – e che Israele deve difendersi dai continui – quotidiani – attacchi che da lì partono a colpire civili inermi? Si sono chiesti perché, oltre ad Israele, anche l’Egitto ha chiuso le frontiere? Cosa direbbero, se, ad esempio, da San Marino, ogni giorno partissero dei missili che si abbattono su Rimini uccidendo famiglie, sosterrebbero il mantenimento delle frontiere aperte in modo da far transitare dall’Italia armi per raggiungere San Marino ed uccidere civili italiani? Lo sanno, gli oppositori di Israele, che l’Autorità Palestinese ha ammesso di stanziare ogni anno centinaia di milioni di dollari per pagare le famiglie dei terroristi attentatori suicidi, secondo lo schema “più ammazzi più ti paghiamo”? E sanno che a Gaza l’11 settembre di ogni anno la gente scende in piazza per festeggiare l’attentato alle torri gemelle? Eppure il “bias” di chi ci dovrebbe informare (la libera stampa) è spesso di parte. Un esempio? Il 15 marzo, dalla striscia di Gaza, vengono lanciati due missili su Israele. L’esercito risponde, cercando di colpire le basi militari che hanno effettuato l’attacco. Qual è il titolo che compare sul sito dell’Ansa? “Israele lancia raid aerei su Gaza” La diffusione di informazioni distorte, la presa di posizione di tanti influenti – ma disinformati – personaggi, la mancanza di una banalissima verifica dei fatti da parte di chi esprime un giudizio, la formazione di movimenti di opinione volti a dipingere, aprioristicamente, una parte come vittima e l’altra come carnefice senza neanche provare a fare un minimo fact-checking, ecco, sono tutti elementi che, a mio avviso, accomunano la storia di Battisti con la questione israelo-palestinese. Edoardo Loewenthal, 27 marzo 2019»
Lettera di Giampiero Mughini a Dagospia il 28 marzo 2019. Caro Dago, per quel che è dell’eventuale decenza intellettuale di quanti a suo tempo sproloquiarono a voce e per iscritto a difesa della virginea innocenza del delinquente di diritto comune Cesare Battisti (al quale ovviamente nessuno deve augurare di “marcire in carcere” e bensì un giorno di uscirne diverso), ti confesso che mi cadono le braccia. Mi cadono le braccia da quanto ho letto di Christian Raimo, di un’editrice francese che credo parente del grande Eric Losfeld, dell’ostinata e cieca Fred Vargas, peraltro una notevole scrittrice di “noirs”. Qualche parola di circostanza, qualche banalità di circostanza, non un cenno in punta di fatto e di sostanza. Non sapevano nulla di nulla di nulla. Si nutrivano tutti del fantasma psicotico secondo cui le potenze del Male in Italia avevano organizzato una gigantesca repressione degli idealisti quale Battisti i quali volevano così tanto una società migliore in cui i Poveri fossero felici. Idiozie allo stato puro che niente hanno a che vedere con la storia e l’identità della sinistra e bensì unicamente con la storia dell’imbecillità. Piccola cronaca, piccoli personaggi. Quanto alla storia della sinistra italiana e delle sue identità (una storia che in questo terzo millennio non ha più alcuna ragion d’essere, morta e sepolta com’è la sinistra ottocentesca e i suoi derivati), resta invece cruciale la vicenda legata all’omicidio del commissario Luigi Calabresi. E difatti vedo che una donna che in me suscita solo simpatie, la cantante Paola Turci (ciao, Paola), quella vicenda l’ha più che sfiorata in una sua recente intervista. Al modo suo l’ha detto, che lei non ritiene affatto che quel commissario trentatrenne e padre di tre figli sia stato assassinato da un commando di “compagni”, da un commando di Lotta continua. Appunto. La montagna che fa scandalo nella storia della sinistra italiana non sono i quattro cialtroncelli che giuravano sull’innocenza del prode Battisti e bensì gli ottocento galantuomini (c’erano tutti ma proprio tutti gli eroi della sinistra italiana del tempo) che firmarono un appello in cui non c’erano dubbi che Calabresi fosse stato il torturatore e l’esecutore dell’innocentissimo ferroviere anarchico di nome Giuseppe Pinelli. Tanto che ne venne un’atmosfera propizia a che un commando di Lotta continua passasse all’azione, quella mattina di maggio del 1972. Fecero festa dappertutto nelle sedi e nei circoli di Lotta continua, quella mattina. Nando Adornato ha raccontato che nel suo liceo di Torino tutti i suoi compagni di classe esplosero nell’applauso alla notizia dell’omicidio. Nel mondo della Lotta continua milanese uno solo si levò a dire che quello era un omicidio e basta, il futuro avvocato Luciano Pero, che ho rivisto e riabbracciato qualche giorno fa. Lo riempirono di insulti a tal punto che lui poco dopo si dimise da Lotta continua. E quando apparve la notizia della “confessione” di Leonardo Marino, del suo dettagliatissimo racconto di come e chi erano andati ad aspettare Luigi Calabresi che usciva da casa per andare al suo ufficio di via Fatebenefratelli, Dario Fo a lungo riempì teatri che plaudivano a come lui spiegava tutte le bugie che Marino aveva raccontato, insufflato anche lui dalle Potenze del Male. Non sapevano nulla di nulla, in realtà. Non sapevano che a metà del 1972 Lotta continua venne squassata da una discussione interna accesa da quanti volevano che l’intera organizzazione scegliesse la vita della “lotta armata”. Capeggiata da Adriano Sofri, vinse la metà della organizzazione che quella scelta non la volle fare. L’altra metà se ne andò a costituire Prima linea, una gang feroce tanto e quanto le Brigate rosse. E comunque l’omicidio Calabresi era stato il punto di inizio di tutto. Sta parlando uno che a lungo ha creduto all’innocenza di Lotta continua (quella di Sofri è un’altra e più complessa questione). Poi ho letto per tre volte il tomone dov’era la sentenza di primo grado che condannava i militanti di Lotta continua. Non ci poteva essere dubbio su chi aveva architettato l’azione e su chi aveva sparato, il compagno Ovidio Enrico Bompressi, quello di cui inizialmente Marino non voleva fare il nome. Ho poi scritto un libro sull’argomento che in tutto e per tutto si meritò solo e soltanto un gran pezzo di Aldo Cazzullo che partiva dalla prima pagina del “Corriere della Sera”. Null’altro, mai un invito, mai una sollecitazione a una discussione. Avevo appena pubblicato un libro dalla Einaudi Stile libero e incontravo qualche volta Severino Cesari, uno dei giganti della recente storia editoriale italiana, un intellettuale che stimavo quanto pochi altri. Si rammaricava che io stessi scrivendo quel libro su Calabresi e con quegli argomenti. Gli chiesi se sapeva qualcosa del processo, delle sentenze, degli atti dei vari processi. No, mi risposte che non sapeva nulla e che non aveva letto nulla.
LA LOTTA CONTINUA. Adriano Sofri per “il Foglio” il 27 aprile 2019. Ieri trovo due interviste a persone che parlano anche di me. Uno è Giampiero Mughini, sul Corriere. Lo ha fatto spesso. C’è un’evoluzione. Aveva detto più volte di ritenere che io, senza essere mandante di niente, sapessi però chi erano gli autori dell’omicidio di Luigi Calabresi. Sbagliava, ma dev’essere stata dura per lui. A me non sarebbe stato facile rassegnarmi all’idea che qualcuno stesse in galera perché “sapeva”. Ora Mughini dice al memorialista Aldo Cazzullo che, dopo la fine di un famoso comizio pisano in memoria del martoriato ragazzo Franco Serantini, aveva smesso di piovere e dunque lui pensa che sia stato possibile che io avessi col mio accusatore, Leonardo Marino, il breve colloquio da lui evocato, benché non possa sapere che cosa effettivamente ci fossimo detti. Un testimone a carico. Chiesi a Mughini di testimoniare per me (31 anni fa) poiché aveva ricordato in quel 1972 (47 anni fa) di essere stato a Pisa, di essersi spostato da un comizio del Pci al nostro, e di aver preso quella pioggia forte. Ora non solo il suo ricordo è cambiato, ma è cambiata anche la pioggia. Io non avevo mai preteso di non poter avere un colloquio con qualcuno (e figurarsi per una bazzecola come un mandato a uccidere) perché pioveva: l’avrei potuto avere anche sotto una tormenta sul Cervino. Avevo ricordato la “pioggia battente” di cui tutti i giornali del giorno dopo e le fotografie del giorno stesso testimoniavano, solo perché Marino aveva detto che non ricordava che avesse piovuto. C’è di peggio: Mughini dice che “Adriano Sofri riconoscerà trent’anni dopo che il commissario non c’era nella stanza al quarto piano della questura di Milano da cui l’anarchico Giuseppe Pinelli cadde innocente nella fatale notte del 15 dicembre 1969”. Nient’affatto. Non ho mai “riconosciuto” questo, ho scritto, molto chiaramente, chiudendo un mio libro su Pinelli, che “non so” se Calabresi fosse o no nella sua stanza. Oggi, dopo che è emersa una notizia enorme come quella della presenza nella Questura di Milano di Silvano Russomanno, il vice capo degli Affari Riservati, e della sua squadra, il mio “non so” è ancora più diffidente. Se ne riparlerà, allo scoccare dei cinquant’anni. La seconda intervista del giorno è una “lunghissima” conversazione di Giammarco Aimi con Piergiorgio Bellocchio, per Linkiesta. L’ho letta con gran piacere, come tutte le cose di Bellocchio e forse di più, ora che si dice vecchio e spiantato. Mi descrive, in una parte dell’intervista, pregi e difetti, come si dice, e mi sono divertito per la curiosità che si prova a capire come ci vedono gli altri, specialmente un altro proverbialmente non ruffiano come Bellocchio. Non dirò di riconoscermi per intero nella sua descrizione: Io è Un altro. Quanto a me, non saprei riconoscere a lui un solo difetto, non perché io sia ruffiano, ma perché lo trovo una persona senz’altro ammirevole, e gli voglio bene. Devo correggere due (lusinghiere?) sue opinioni. La prima, che io, sospinto dalla notorietà della galera, abbia “guadagnato un po’ di soldi”: lo rassicuro, sono povero almeno quanto lui. La seconda, che al tempo in cui facevo il leader e tante ragazze “ronzavano attorno”, me le sia “fatte tutte”. No: fui mediocre. Non si è mai all’altezza della propria reputazione, né della propria imputazione.
LOFFA CONTINUA. Maurizio Belpietro per ''La Verità'' il 18 maggio 2019. Chi sia stato in Lotta Continua, ossia in un movimento da cui uscirono molti dei protagonisti degli anni di piombo, dovrebbe maneggiare con cura le parole, anche perché le parole stampate sul giornale del gruppo della sinistra extraparlamentare poi si trasformarono nelle pallottole che assassinarono il commissario Luigi Calabresi. Ma Gad Lerner, che di Lotta Continua fu uno dei principali leader e di quel quotidiano fu vicedirettore, nonostante l' età, non pare avere imparato niente da quella stagione e ancora oggi, a molti anni di distanza dall' agguato al funzionario della Digos milanese, per il quale furono condannati il capo di Lc e alcuni militanti, continua imperterrito a impartire lezioni cariche d' odio. L'ultima l'ha vergata questa settimana sulVenerdì, il settimanale del quotidiano La Repubblica. L' incipit del testo è il seguente e consente fin dall' inizio di capire con che genere di personcina tollerante si abbia a che fare: «Vorrei compilare qui, a futura memoria, una lista di proscrizione». Lerner lo definisce un elenco meramente simbolico, perché, mentre si appresta a lanciare il sasso, già coraggiosamente preferisce nascondere la mano affinché qualcuno non lo reputi penalmente responsabile di ciò che sta scrivendo. Il simpatico collega compila un catalogo di persone da proscrivere, ossia - come spiega il dizionario Zanichelli - da esiliare, bandire, cacciare, deportare o confinare, e però aggiunge che lui non ha il potere di mettere al bando chicchessia. Cioè Lerner sta chiedendo «l' eliminazione» (vedi Dizionario Garzanti) di un certo numero di persone, ma mette le mani avanti precisando di non avere il diritto di farlo e dicendosi certo che «nessuno gli farà del male a causa mia». Anzi, i tipi che sta per menzionare, saranno felici di essere citati nella sua rubrica e «si compiaceranno del mio dispetto così come del plauso entusiasta di chi vede in loro il ritratto ideale dell' anticonformista, eretico, scorretto perché vicino al popolo». Il preambolo, in cui Lerner mostra quanto sia elevata la considerazione che ha di sé («si compiaceranno d' essere messi nella mia lista»), serve a introdurre l' argomento, ossia gli intellettuali del regime. Quello mussoliniano, quello che nel 1938 introdusse le leggi razziali. Giornalisti e scrittori che rispondono al nome di Telesio Interlandi, Giovanni Preziosi, Giorgio Almirante, Julius Evola. Ma non è di loro che Lerner vuole parlare. I loro nomi servono solo per evocare le campagne del Minculpop, il ministero della cultura popolare nell' epoca del Ventennio. Negli anni, questi scrittori e giornalisti «martellarono l' opinione pubblica sulla pericolosità degli ebrei, dei massoni, dei negri e dei meticci». Il linguaggio e gli argomenti di quei propagandisti del razzismo italiano novecentesco, scrive l' ex vicedirettore di Lotta Continua, giornale che con gli oppositori politici usava un linguaggio delicato e leggero come i proiettili della P38, «sono uguali identici a quelli adoperati dai loro epigoni contemporanei». Sì, quei «loschi individui», è sempre Lerner che scrive, facevano «ricorso allo scherno e alla provocazione satirica, rappresentavano deformi e viziosi i bersagli etnici prescelti», così come oggi un gruppo di intellettuali e giornalisti fa contro gli immigrati. E chi sono gli epigoni di Telesio Interlandi, Giorgio Almirante, Giovanni Preziosi e Julius Evola? Il comunista con il Rolex cava dal taschino l' elenco, così come rassegnando le dimissioni da direttore del Tg1 per aver mandato in onda immagini pedopornografiche cavò la lista di chi gli aveva sussurrato una raccomandazione e, pur essendo stato nominato da Massimo D' Alema, citò solo onorevoli di destra. Dal catalogo di persone da proscrivere - cioè, ribadiamo, da eliminare, espellere, deportare -spuntano i nomi di Mario Giordano, Paolo Del Debbio, Giuseppe Cruciani, Vittorio Feltri e del sottoscritto. Tutti da esiliare e cacciare. Un elenco a futura memoria, perché ci si ricordi di loro quando Matteo Salvini non sarà più in auge, come ovviamente l' editorialista della lotta di classe si augura. Io e i colleghi di altri giornali accostati a un elenco di scrittori e giornalisti che «si macchiarono di antisemitismo». Anzi definiti «i nuovi difensori della razza», anche se di razza credo che nessuno di noi (parlo per me, ma credo di poterlo fare a nome anche di qualche altro amico) abbia mai parlato o scritto. Credo ci sia poco altro da aggiungere alla faziosità di un tipo che si autodefinisce «Infedele». Mi consola solo un fatto: che Lerner non ne abbia mai azzeccata una. Non parlo di quando pronosticava la rivoluzione. No, penso a quando sosteneva che abbattendo Gheddafi non ci sarebbe stato nessun esodo biblico verso l' Italia. E anche a quando, con un ghigno sarcastico, commentò la mia assoluzione in un processo, dicendomi: «Questo è solo il primo grado». Come era immaginabile, essendo un noto difensore della libertà di parola, si augurava la mia condanna in appello. Senza sapere che la sentenza era definitiva.
Da “Libero quotidiano” il 12 Novembre 2019. 17 maggio 1972: il commissario Luigi Calabresi esce dalla sua casa di via Cherubini, a Milano, dove vive con la moglie Gemma e i due figli Mario e Paolo. Gemma è incinta di Luigi junior, che non conoscerà mai il suo papà. Perché Luigi Calabresi, quel 17 maggio, viene ucciso. Già da molti anni era iniziata una vera campagna d' odio nei confronti del giovane commissario, poiché un gruppo numeroso di intellettuali e uomini politici riconducevano proprio a Calabresi la responsabilità della morte di Giuseppe Pinelli, anarchico, partigiano ed ex ferroviere morto in questura a Milano il 16 dicembre del 1969, dopo essere stato fermato in quanto sospettato di essere coinvolto nella strage di piazza Fontana. Nel 1988 Leonardo Marino, ex militante del giornale "Lotta Continua", si costituì denunciandosi quale colpevole - assieme a Ovidio Bombressi, Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani - di quell' efferato omicidio. Marino guidava la macchina mentre Bombressi materialmente sparò a Calabresi; Sofri e Pietrostefani erano indicati come i mandanti. Dopo anni di processi, tutti furono condannati . Oggi, a distanza di tanto tempo, Leonardo Marino ha deciso di raccontarsi.
Giovanni Terzi per “Libero quotidiano” il 12 Novembre 2019. «A chi non si è pentito dico: Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno». «Vorrei dire subito ai lettori una cosa. Non credo che Luigi Calabresi sia stato ucciso da tre pallottole. Io credo che il commissario Calabresi sia stato ucciso da piombo sì, ma dal piombo di certi giornali, che per lui avevano coniato da tempo, ed in esclusiva, gli insulti più atroci, i marchi più roventi ed infami che avevano allestito un retroterra ideale per un delitto. Ci fu un tempo in cui Milano era letteralmente tappezzata di scritte che dicevano "Calabresi assassino"». Questa è una parte dell' articolo che Enzo Tortora scriveva giovedì 18 maggio 1972 per La Nazione, all' indomani dell' efferato omicidio del commissario di polizia (270 mila lire lorde, guadagnava) avvenuto a Milano in via Cherubini, di fronte alla sua dimora. Così fino al 1988, quando Leonardo Marino, già attivista del movimento extraparlamentare «Lotta Continua», si pentì e si accusò di aver preso parte all' omicidio del commissario, assieme a un altro attivista, Ovidio Bombressi, su mandato di due capi del movimento, Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani. Sono passati trent' anni da quella confessione e incontro Marino a Bocca di Magra, provincia di La Spezia, il luogo dove vive e lavora. Lo incontro assieme a Luciano Garibaldi, giornalista e storico, colui che ebbe la curatela del libro di Gemma Capra, la moglie del commissario Calabresi, Mio marito il commissario Calabresi. Diario inedito della moglie dopo 17 anni di silenzio (Edizioni Paoline, 1990).
Marino, l' omicidio Calabresi fu frutto di un clima particolare nel nostro Paese?
«In quegli anni ci fu un vero e proprio linciaggio nei confronti del commissario. A creare in noi la convinzione che Calabresi fosse un nemico fu l' atteggiamento dei grandi nomi della cultura di quel tempo. Non passava settimana che L' Espresso non pubblicasse pagine intere contro di lui».
Era L' Espresso il giornale della "buona borghesia": cosa importava a voi aspiranti rivoluzionari?
«A maggior ragione ci interessava, perché finché questo "odio" restava confinato al giornale Lotta Continua risultava in qualche modo ridotto. Diverso vederlo sui grandi giornali. Questo ci faceva dire: "Allora è tutto vero !"».
Un ragionamento da riferire anche al famoso "manifesto degli 800 "?
«Sì, quell' atto d' accusa contro Calabresi cui aderirono i nomi più importanti della cultura, da Scalfari alla Cederna, da Umberto Eco a Tinto Brass, per arrivare a Pierpaolo Pasolini».
Conobbe qualcuno di questi firmatari?
«Incontrai a Roma Pierpaolo Pasolini, che finanziava i gruppi extra parlamentari. I dirigenti di Lotta Continua mandavano noi operai a prendere i soldi, era più chic! In quell' occasione incontrai Pasolini».
Si ricorda il contenuto di quel manifesto?
«"Il processo che doveva far luce sulla morte di Giuseppe Pinelli si è arrestato davanti alla bara del ferroviere ucciso senza colpa. Chi porta la responsabilità della sua fine Luigi Calabresi ha trovato nella legge la possibilità di ricusare il suo giudice...": questo era l' inizio del manifesto degli 800, nella sostanza una sentenza di condanna nei confronti di Calabresi ».
Dei suoi vecchi "compagni" che ha accusato ha più sentito qualcuno?
«Assolutamente no, e non ci tengo per nulla dopo tutto il fango che mi hanno buttato addosso. Credo che lo stesso valga per loro: molti di loro hanno sempre pensato che io dicessi cose false. A parte Giampiero Mughini, che ha sempre confermato che Sofri sapesse dell' azione contro Calabresi».
Dopo il suo pentimento ha subìto qualche atto fastidioso nei suoi confronti?
«Sono stato dipinto, da quella stessa "intellighenzia", come un infame, quando in realtà io mi sono accusato e il mio gesto è stato coraggioso e di verità . Ho avuto la fortuna di avere al mio fianco mia moglie, che ci ha lasciati poco tempo fa, e i miei figli Adriano e Giorgio. Tutta la mia famiglia mi ha sempre sostenuto e guai, per i miei figli , se qualcuno osa attaccarmi».
Cosa fanno oggi i suoi figli?
«Adriano si è laureato in Giurisprudenza e vive a Londra, con moglie e figli, dove svolge la professione di avvocato. Giorgio è qui a Bocca di Magra, lavora con me nel nostro chiosco che fa crêpes da molti anni ».
Lei ha mai chiesto scusa alla vedova del commissario Calabresi?
«Le scrissi una lettera ma non ebbi risposta, anche se scrisse la postfazione del libro Così uccidemmo Calabresi (Ares Editore), da me scritto».
Leonardo Marino prende il suo libro e mi legge il passo in cui la signora Gemma lo perdona: «Io ho perdonato Leonardo Marino perché è un vero pentito; non era in carcere e non ha deciso di pentirsi per avere sconti di pena. Viveva a casa sua e non esisteva e su di lui non esisteva nessuna indagine in corso... Marino, che dopo essersi costituito ha subìto le peggiori angherie, è un uomo che ha molto sofferto e siccome la sofferenza, anche se di origini diverse, accomuna, io mi sono sentito molto vicino a lui e ho sentito che dovevo perdonarlo».
Parole importanti, quelle della moglie di Calabresi: l' hanno fatta stare meglio?
«Certamente, è stato importante per me».
E i suoi figli, quando lei si è costituito, sono stati oggetto di angherie?
«Hanno sofferto anche loro, ma hanno anche ricevuto tanti attestati di solidarietà. Un senatore del Pd che aveva il figlio che andava a scuola con mio figlio Adriano è sempre stato molto accogliente con lui».
In questi anni non ha più avuto contatti con nessuno?
«Se da una parte il mio pentimento nasce da un profondo tema interiore e di coscienza, dall' altra era l' unico modo per "uscire dal giro"».
Cosa vuol dire?
«Che se rimani "uno di loro", alla fine ti chiedono di fare qualche rapina o qualche cosa di brutto e, se magari hai bisogno di soldi , lo fai anche. In questo modo ho rotto definitivamente con chiunque, nessuno mi ha mai più cercato. Rischiavo di fare la fine di Maurizio Pedrazzini, un compagno morto tanti anni dopo durante una rapina».
Il giudice Pomarici credette sempre alla sua confessione: anche con lui non ebbe alcun incontro?
«A dire la verità, un giorno qui a Bocca di Magra vidi un uomo scendere dalla macchina e venire verso il nostro chiosco: era Ferdinando Pomarici, mi venne incontro e mi salutò. È sempre stato un uomo giusto e schivo a qualsiasi tipo di visibilità. Un uomo che stimo molto».
Chi invece non stima?
«Sono un cattolico e di profonda fede, non esprimo giudizi. Mi piace però ricordare il necrologio che la moglie del commissario scrisse sui giornali: "Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno". Quel necrologio lo dedico a quelle persone che mai si sono pentite di essere il substrato di odio che ha causato l' omicidio del commissario Calabresi».
Il figlio ricorda: “È come se avessi congelato tutto”. Silvana Palazzo su Il Sussidiario il 15.12.2019. Luigi Calabresi, padre di Mario, è il poliziotto ucciso a 34 anni. Il ricordo di suo figlio Mario Calabrese nel salotto di Domenica In. Mario Calabresi parla a Domenica in di suo padre Luigi Calabresi, con i pochi ricordi che ha di lui: “purtroppo quella mattina la ricordo benissimo – spiega l’ospite di Mara Venier – ho due ricordi, uno che ho tenuto per me per trent’anni, perché non avevo il coraggio di dirlo a mia madre, avevo paura che mi dicessero che non era vero, e siccome era l’unico ricordo che avevo di mio padre – io sulle sue spalle, con intorno una banda, io che volevo toccare il trombone e insistevo e mio padre mi portò a toccar e il trombone, e io ho questa situazione di sicurezza che mi sono portato dietro tutta la vita, avevo due anni e mezzo – ho aspettato 30 anni per dirlo a mia madre”. Un giorno decise infatti di condividere questo dolce ricordo: “L’ho detto a mia madre e lei mi disse: "il trombone!"; è andata a prendere il diario che teneva, era la domenica prima che morisse, ‘c’è scritto che siete andati a vedere gli Alpini, siete tornati a casa con le paste e le rose – e c’era una rosa in mezzo al diario – e tu continuavi a dire "ho toccato il trombone". È come se tutto questo lo avessi congelato”. (Agg. di Fabiola Iuliano). Il padre di Mario Calabresi è il commissario Luigi Calabresi, assassinato nel 1972, quando il figlio aveva solo due anni e la madre era incinta di suo fratello Paolo. Non è un caso se papa Giovanni Paolo II lo definì «un generoso servitore dello Stato, fedele testimone del Vangelo» in occasione del trentesimo anniversario della morte. La storia di Luigi Calabresi rientra nel periodo più buio della nostra storia repubblicana. Ingiustamente accusato di essere causa della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, fu sottoposto prima ad un duro linciaggio morale di una parte della stampa, poi dopo una violenta campagna denigratoria durata tre anni fu ucciso a colpi di pistola sparatigli alle spalle. Aveva solo 34 anni e lasciò la moglie e due figli. Ma la campagna denigratoria continuò anche dopo la morte, nonostante il magistrato Gerardo D’Ambrosio ne appurò la totale estraneità e la non colpevolezza rispetto alla morte di Pinelli. Per l’omicidio del padre di Mario Calabresi furono poi condannati Ovidio Bompressi e Leonardo Marino quali esecutori, mentre Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri furono ritenuti i mandanti. Ed erano tutti esponenti di Lotta Continua. Ma di Luigi Calabresi è interessante conoscere anche un’altra dimensione, quella di uomo cristiano. Flavio Rozza in un articolo su La Nuova Bussola Quotidiana raccontò che era entrato nella Polizia di Stato su suggerimento del suo direttore spirituale, don Ennio Innocenti, il quale ritenne che avrebbe potuto vivere la sua testimonianza cristiana in quel settore. E infatti in uno scritto Luigi Calabresi scrisse in merito alla sua scelta professionale: «È una strada che ho scelto per vocazione. Avrei molti altri modi di guadagnarmi uno stipendio, ma sono affascinato dall’esperienza che può fare in polizia uno come me, che vuol vivere una vita profondamente, integralmente cristiana». Non era interessato ai riflettori: «Se volessi intascare e spendere medaglie come quella del successo e del potere, non andrei in polizia, dove si resta poveri. Non andrei coltivando ideali buffi di onestà e di purezza». Luigi Calabresi sosteneva di far parte di un gruppo di giovani che voleva andare controcorrente.
Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” l11 Novembre 2019. L'intenditore. "A '8 e mezzo' Bentivogli e Massimo Giannini (santa pazienza) si sentivano impartire una rumorosa reprimenda da Marco Travaglio su Altoforno 2 e operai mutati in torce umane, argomenti ambedue cui il comiziante si direbbe il più alieno in Europa" (Adriano Sofri, Il Foglio, 8.11). In effetti, in tema di omicidi, il massimo esperto è lui. […]
Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 2 aprile 2019. Noi, com'è noto, siamo grandi fan di Bernard-Henri Lévy, l'intellò da baguette più à la page del bigoncio. Tant'è che, se avessimo qualche spicciolo da buttare, lo noleggeremmo per tenerlo in giardino e mostrarlo agli amici. E, se avessimo un paio d'ore da buttare, assisteremmo allo spettacolo teatrale che sta portando in tournée per tutta Europa, per spiegarci come dobbiamo votare alle elezioni europee, in vista della "nuova resistenza contro l'idra populista". Non per distoglierlo dall'ultima missione per conto di Dieu, che lo vede engagé h24, ma pensavamo che avrebbe dedicato qualche minuto al suo vecchio copain Cesare Battisti e alla sua fresca confessione dei quattro omicidi per cui era stato a suo tempo condannato ad altrettanti ergastoli da quei fascisti dei giudici italiani. Bernard nonché Henri lo definiva "scrittore arrabbiato e imprigionato", manco l'avessero condannato per nervosismo molesto. Lo paragonava al "capitano Dreyfus", credendosi Émile Zola. Invitava l'Italia a "voltare la pagina degli anni di piombo" (che non c'entrano una mazza coi morti ammazzati nelle rapine in gioielleria). Ed era in buona compagnia. Ma negli ultimi giorni, dei tanti maître e maîtresse à penser, italiani e francesi, che avevano solidarizzato con appelli, manifesti, campagne e gridolini di dolore per il nuovo Silvio Pellico, quasi tutti hanno commentato la confessione che li sconfessa. Chi aveva già ritirato la firma. Chi ha chiesto scusa per l'abbaglio. Chi ha arditamente sostenuto (Francesco Merlo su Repubblica) che la sinistra non c'entra nulla con la beatificazione dell'assassino a opera di decine di intellettuali di sinistra. Chi - come Fred Vargas e più modestamente Piero Sansonetti - ha tenuto il punto, convinto che il reo confesso è innocente ma non lo sa. Giù giù fino all'editrice "innamorata" Gwenaelle Denoyers, che ha rinviato la pubblicazione del nuovo romanzo, ambientato nel Brasile della latitanza. All'appello manca solo la voce di BHL, come il nostro si firma su Twitter, tipo corriere-espresso. Le sue ultime dichiarazioni in materia risalgono a un mese fa, su Rai3 da Lucia Annunziata. Col consueto look da coiffeur pour dames, anzi da toiletteur pour chien, ciuffo cotonato a favore di vento, camicia aperta sul petto epilé con colletti modello Air France, e con la sicumera di quello che non capisce nulla ma ti spiega tutto, monsieur le paraguru la prende alla larga. Ha definito "camicie brune" (i nazisti) i Gilet gialli che osano contestare Macron, il suo ultimo idolo dopo Mitterrand, Sarkozy e Renzi (lui porta buono). L'Annunziata gli ha domandato: "È mai sceso in strada per parlare con loro?". Risposta: "No, faceva troppo freddo". E poi, diciamolo, il popolo puzza. In Italia, per dire, se dà il voto a quelli che non garbano a lui, "sbaglia": "I popoli non hanno sempre ragione". E vanno rieducati comme il faut. In un recente articolo su La Stampa, BHL proponeva addirittura di abolire gli elettori, almeno in Italia dove sbagliano a votare, e di sostituirli con la dittatura illuminata (da lui) della Bce: "Propongo che Draghi mobiliti le forze di polizia". La nuova democrazia di Vogliamo i colonnelli è l'ultima svolta filosofica di questo "disc jockey delle idee" (come lo definì il Nouvel Observateur), passato dal trotzkismo al maoismo ("il capitalismo è la più formidabile macchina di morte della storia"), dal terzomondismo all'atlantismo, dal pacifismo al coup de foudre per le bombe della Nato sull'ex Jugoslavia e sulla Libia. Senza dimenticare la sua sbandierata amicizia con il comandante afghano Massoud, ovviamente inventata. E il suo leggendario elogio - nel libro De la guerre en philosophie - al filosofo neokantiano Jean-Baptiste Botul, purtroppo mai esistito (se l' era inventato Le Canard Encahiné e lui ci era cascato con tutte le scarpe e les pompons). A quel punto l'Annunziata obietta: "In Italia c'è chi dice che le istituzioni internazionali sono in mano alle élite". E lui: "Se le élite sono la Democrazia Cristiana, che ha governato per tanti anni, è chiaro che bisogna sbarazzarsene. Se sono il coraggio politico di Carlo Calenda, la virtù di Matteo Renzi, la memoria di Eugenio Scalfari, sono belle élite. Viva le élite!". Riassumendo: se uno vince le elezioni (come la Dc), raus; se invece le perde (come Calenda e Renzi), evviva. Decide lui. Anche per il futuro: "Alle Europee vinceranno Macron e Renzi (sic, ndr), mentre Salvini prenderà una bella mazzata". A quel punto, mentre Salvini brindava a champagne lo scampato sostegno di BHL e Calenda e Renzi si grattavano per esorcizzare le conseguenze del nefasto coming out, il nostro parlava dell'amato serial killer: "Battisti ha diritto a un vero processo, a vedere i suoi accusatori e il giudice che lo giudica. Invece, è stato condannato all'ergastolo in contumacia". E vagli a spiegare che Battisti non vide gli accusatori e i giudici perché si era dato alla latitanza a Parigi prima dei processi. Voi capite perché siamo curiosi marci di conoscere il suo illuminato parere sulla confessione di Battisti. In particolare su quel passaggio in cui il pluriomicida si fa beffe dei suoi fan italo-transalpini che l'avevano scambiato per un intellettuale: "Gli appoggi di cui ho goduto sono stati il più delle volte di carattere politico, rafforzati dal fatto che io ero ritenuto un intellettuale, scrivevo libri, per cui nessuno sentiva il bisogno di agire contro di me. Questo mio ruolo da intellettuale era una precisa garanzia che, a prescindere dal mio passato, ero una persona non più pericolosa e quindi, anche per questo motivo, nessuno mi ha dato la caccia". In effetti, in certi ambienti, la patente di intellettuale è più accessibile di quella del motorino. Basti pensare che passa per un intellettuale persino Bernard-Henri Lévy.
Le scuse di Pennac: «Battisti brutto ceffo, idiozia l’appello per lui». Pubblicato domenica, 07 aprile 2019 su Corriere.it dal corrispondente Stefano Montefiori. Le scuse dello scrittore sono arrivate a Venezia, durante l’incontro conclusivo della rassegna «Incontri di Civiltà» all’auditorium Santa Margherita. La scrittrice, amica e finanziatrice delle spese legali Fred Vargas rifarebbe tutto e si ostina a considerare Cesare Battisti innocente, l’editrice Joëlle Losfeld non si pente dell’aiuto all’ex terrorista e considera la sua confessione come una manovra degli avvocati, invece Daniel Pennac fa autocritica: il sostegno a Battisti «è stata una stupidaggine assoluta, sono stato un idiota, non pensavo che Battisti potesse essere un così brutto ceffo». Le scuse dello scrittore sono arrivate a Venezia, durante l’incontro conclusivo della rassegna culturale «Incontri di Civiltà» all’auditorium Santa Margherita. Un giornalista del Gazzettino ha chiesto a Pennac che cosa pensasse della confessione di Battisti e del sostegno offerto da tanti intellettuali francesi all’uomo condannato in Italia per quattro omicidi, ormai reo confesso, e lui ha risposto «per chiarire la mia posizione e non parlarne più». «Battisti ha mentito alla giustizia italiana, alla dottrina Mitterrand, alle persone che hanno garantito per lui, Battisti adesso riconosce di essere un assassino e di avere ucciso quelle persone. Dunque io ho sbagliato a difenderlo, sono stato un imbecille. Ma non sono un criminale». E qui lo scrittore del «Signor Malaussène» e di molti altri romanzi (editi in Italia da Feltrinelli) ha provato a spiegare i motivi che lo hanno portato a prendere quella posizione nel 2004, quando dopo molti anni passati da rifugiato in Francia Battisti venne arrestato a Parigi in vista di una estradizione in Italia. «Non è un individuo che ho difeso — dice Pennac —. Mi sono detto, nel 1985-1986 Mitterrand disarma l’estrema sinistra italiana: 100, 200, 300 persone vengono in Francia, depongono le armi, viene data loro in cambio l’immunità. In questo modo Mitterrand ferma, con l’accordo del governo italiano, una guerra civile che ha fatto molti morti e che ne avrebbe fatti altri ancora se Mitterrand non avesse accolto i militanti italiani. Di colpo, la calma prende il posto dei combattimenti». Ma questa ricostruzione storica soffre di una prospettiva troppo franco-centrica: se gli Anni di piombo in Italia sono finiti, se le Brigate rosse e gli altri gruppi terroristici sono stati sconfitti, non è certo merito di Mitterrand, che ha accolto gli ex terroristi italiani quando ormai gli scontri erano più o meno conclusi e per ragioni di politica interna, come un modo di venire a patti anche con l’estrema sinistra francese. Inoltre, la dottrina di Mitterrand si applicava solo agli estremisti che non si fossero macchiati di gravi fatti di sangue, e Battisti venne esplicitamente escluso dalla lista del ministro della Giustizia di Mitterrand, Robert Badinter. Battisti è potuto rimanere in Francia grazie a una serie di disfunzioni e malintesi, non per una dottrina Mitterrand che a lui non venne applicata. In seguito, fu semmai il premier socialista Lionel Jospin ad allargare — tacitamente — l’aiuto a tutti gli ex terroristi. Prosegue comunque Pennac: «Battisti, adesso, dice “sono stato io”, ma all’epoca diceva di essere innocente, incolpava la giustizia italiana e i pentiti. E io mi dicevo: è bene che gli italiani non tornino in Italia, e che tutti beneficino della pace ottenuta grazie alla dottrina Mitterrand. Ho sinceramente creduto che Battisti non fosse come le accuse lo dipingevano. Oggi invece è acclarato che lo è. Ho avuto torto e me ne scuso ma non mi scuserò mai di avere pensato che fosse giusto disarmare queste persone e ottenere la pace, alla fine di quegli spaventosi Anni di piombo». Daniel Pennac in sostanza ribadisce la necessità di un’amnistia, come disse in un’intervista a Giampiero Martinotti di Repubblica nel 2004: «Prima la giustizia, poi l’amnistia. Mi è difficile ammetterla sentimentalmente, soprattutto se si immaginano le vittime. Il problema non deve però essere considerato dal punto di vista affettivo».
Mario Consani per Il Giorno il 9 aprile 2019. Il suo Vogliamo tutto è stato il romanzo della generazione del ’68 e dieci anni dopo con Gli invisibili raccontò la stagione dei ribelli del ’77. Nanni Balestrini, scrittore e poeta, intellettuale del Gruppo 63 con Eco, Manganelli, Porta e gli altri, è stato amico del professore padovano Toni Negri e dei leader dell’Autonomia a metà degli anni ’70, per questo venne considerato a pieno titolo uno dei cattivi maestri del movimento giovanile come Negri, Oreste Scalzone, Franco Piperno e gli altri. Tanto che il 7 aprile del 1979, giusto 40 anni oggi, quando scattò un’ondata di arresti che partendo dalla procura di Padova raggiunse mezza Italia, Balestrini sarebbe dovuto finire in galera con le stesse accuse che portarono in manette anche Negri, fermato nella sua casa milanese di via Boccaccio. Invece scappò in Francia sugli sci. «L’ unica prova criminale nei miei confronti era l’esistenza del mio nome nell’agenda di Negri, di cui ero notoriamente amico. Io comunque non fui arrestato, perché quando mi cercarono a Roma, dove abitavo, mi trovavo a Milano. Da lì raggiunsi la Francia clandestinamente attraverso il Monte Bianco, con gli sci», raccontava tempo fa Balestrini al Giorno. Il «Teorema Calogero», dal nome del magistrato padovano che firmò i mandati di cattura, è passato in qualche modo alla storia giudiziaria per aver posto sullo stesso piano Br e l’area dell’Autonomia operaia, per lui complici di un progetto, compreso l’omicidio di Aldo Moro, che avrebbe dovuto sovvertire con le armi il potere dello Stato. I processi che si celebrarono in seguito smentirono per buona parte quel teorema, con un gran numero di assoluzioni. Alla base dell’inchiesta principale, portata a Roma, c’erano le dichiarazioni fatte da uno dei primi pentiti dell’eversione di sinistra, Carlo Fioroni, tra gli autori del sequestro dell’imprenditore Carlo Saronio finito con la morte del rapito. Negri e Scalzone in primo luogo, oltre ad essere i teorici dell’autonomia operaia erano certo anche fautori della necessità di «alzare il livello dello scontro» con nuove forme di lotta decisamente più violente. In primo grado, a Roma nel giugno dell’84, caduto nel frattempo il “teorema” che allineava Br e Potere operaio, le condanne furono comunque a 30 anni per Negri e a 20 per Scalzone (che era riuscito a fuggire in Francia). Nel frattempo, però, il professore padovano era stato eletto alla Camera grazie ai radicali di Marco Pannella come simbolo contro una carcerazione preventiva che grazie alle leggi speciali poteva durare anche fino a sette anni. In Appello (dopo la sua poco onorevole fuga Oltralpe) Negri vide la sua pena ridotta a 12 anni, scontata in parte successivamente dopo il suo rientro in Italia. «Se mi avessero preso sarei rimasto in carcere cinque anni come gli altri del caso 7 aprile», ricordava Balestrini al nostro giornale. «A molti intellettuali attivi nel Movimento venne attribuita la responsabilità diretta di tutti gli atti di violenza compiuti in Italia, assassinio di Aldo Moro compreso. Al processo, nell’84, il pm chiese per me la condanna a 10 anni di carcere. Io fui assolto, ma la repressione era stata durissima. E tutto questo ha distrutto e affossato una o due generazioni». Balestrini, che oggi ha 83 anni, aveva partecipato alla protesta giovanile fin dalla fine degli anni ’60, prima con la rivista culturale Quindici, poi entrando in Potere operaio e con l’esperimento di Area, che forniva servizi editoriale a una dozzina di piccole case editrici della sinistra alternativa. Quarant’anni fa prese gli sci e oltrepassò il confine.
7 aprile 1979: quarant’anni fa la scoperta del legame tra intellettuali di sinistra e gruppi armati. Pubblicato domenica, 07 aprile 2019 da Antonio Ferrari su Corriere.it. Devo dire che quella data di 40 anni fa, 7 aprile 1979, che segna la definitiva frattura nel mondo dell’estremismo e del terrorismo rosso, con la scoperta dei legami tra la sinistra estrema degli intellettuali con il vezzo dell’eversione e i gruppi armati, a cominciare dalle BR, mi provoca sempre reazioni ed emozioni. Primo, perché è una delle più grandi storie italiane politico-giudiziarie che ho seguito per il Corriere della Sera, direi giorno dopo giorno; secondo, perché allora sono calato, con lo sguardo del cronista ma con la mente già abbastanza allertata per neutralizzare le manipolazioni del potere, in una storia complessa e articolata; e poi perché, per molti giorni, ho lavorato con due preziosi colleghi ed amici del mio giornale: Giancarlo Pertegato e Walter Tobagi.
Ricordo che Walter, raggiungendomi a Padova dove ero arrivato da qualche giorno, mi portò la busta con il denaro per le spese, che mi mandava l’allora segretario di redazione Luciano Micconi. Infatti, ero partito all’improvviso, nella notte del 7 aprile, con un cambio di biancheria, due maglioni, due camicie, una cravatta e un giubbetto. Non c’era tempo per chiedere l’anticipo all’amministrazione del giornale. Avevo in tasca soltanto centomila lire personali, al cambio di oggi più o meno 50 euro. La notizia era davvero clamorosa. Era finito in manette il vertice accademico della facoltà di Scienze politiche dell’Università di Padova, a cominciare dal barone Toni Negri, dai suoi assistenti Alisa del Re e Luciano Ferrari Bravo, e da numerosi personaggi dell’ultrasinistra, tra i quali Oreste Scalzone e il giornalista Giuseppe Nicotri. Che Negri fosse l’ispiratore-capo di una stagione di violenza sociale non c’erano dubbi. In un grande articolo Giorgio Bocca lo aveva descritto con particolare efficacia. Ora, grazie alla coraggiosa inchiesta del sostituto procuratore della Repubblica di Padova Pietro Calogero era insomma partita l’offensiva giudiziaria contro i vertici dell’«Autonomia operaia organizzata», denunciando i suoi legami con il terrorismo. All’inizio si parlò di dirette connessioni con le BR, e si ipotizzò che Negri facesse parte della direzione strategica. C’era del vero, ma c’erano anche connessioni non suffragate da prove definitive. Il partito comunista di Enrico Berlinguer rispettò e sostenne le decisioni della magistratura. Anche questo contribuì all’importante e decisiva frattura nella sinistra italiana. Da una parte il PCI, dall’altra l’allegra e multicolore brigata (assai arrivista) di Potere operaio. Uno di questi mi aveva detto: «Ammettiamolo, Antonio. Chi di noi non ha mai lanciato almeno una molotov?». Risposi con una certa fierezza, o forse spocchia: «Io». Mai, in Italia, dove facevo l’inviato da alcuni anni, mi era capitato di trovarmi in un groviglio così complicato. Avevo capito, da subito, una cosa. Calogero, con la sua intuizione e la sua determinazione era riuscito, in qualche modo, a cogliere nel segno, andando a penetrare (sicuramente a raggiungere) intoccabili santuari del potere. Ero sicuro che, prima o poi, il giudice ne avrebbe pagato le conseguenze. Non mi sbagliavo. Rappresentando il più grande e il più autorevole giornale italiano, appunto il Corriere della Sera, mi sentivo sulle spalle una gigantesca responsabilità. Non c’erano, allora, i computer e i cellulari. Gli unici telefoni raggiungibili erano quelli del mitico albergo «Plaza», trasformato in ufficio di giorno e in comodo e confortevole rifugio di notte, e quelli dei ristoranti dove la sera ci ritrovavamo per cena («Dotto», «L’isola di Caprera», «Il Falconiere»). Più di una volta, nel frastuono del locale, arrivavano le chiamate dei giornali, ed eravamo pronti a rileggere l’articolo, a correggere, ad aggiornare come si faceva allora. Non potete immaginare quante telefonate al «Plaza» abbia ricevuto, anche da gentili signore, soprattutto milanesi, romane e genovesi, che mi pregavano di avere occhi di riguardo per il mitico «Toni», cioè il professore che con le sue idee di fuoco («Brucia, ragazzo, brucia») faceva vibrare ormoni e passioni. Per un cronista e un inviato è sempre difficile resistere alle pressioni, ma bisogna riuscirci. Da una parte c’era il fronte granitico delle certezze giudiziarie, dall’altra quello dei negazionisti. Ascoltare tutti ma avere antenne soltanto per la possibile verità era un’impresa. I titoli delle mie corrispondenze da Padova spiegano molto. Ne cito qualcuno: Sono accusati di essere i capi delle Brigate rosse alcuni autonomi arrestati dal giudice di Padova. Il procuratore-capo di Padova: «Ci avviamo alla soluzione». Pertini si congratula con i magistrati. Negri interrogato per cinque ore. Tre autonomi dilaniati da una loro bomba. Alessandrini indagava su Negri e Scalzone. Accusato un altro degli arrestati di Padova di essere uno dei «telefonisti» del caso Moro........ Sparano a un professore di Padova che firmò l’appello contro i terroristi..... Intervista a Calogero: «Dopo le amarezze sono sollevato».... Trent’anni al professor Negri, venti a Scalzone...Sono alcune tappe di una lunga storia. Ne ricordo precisamente numerosi passaggi. L’esilio a Parigi di Negri e Scalzone, però il primo era protetto soprattutto dal filosofo Félix Guattari e dall’intellighenzia dell’estrema sinistra transalpina, il secondo no. Ringrazio la casa editrice universitaria Cleup, che nella sua collana di «Scienza dell’Interpretazione» ha pubblicato, raccogliendo i miei articoli padovani di quegli anni, il libro «7 aprile», pubblicato nel 2009, a trent’anni da quei giorni convulsi. E sono particolarmente fiero della prefazione dell’ambasciatore Sergio Romano. Ha scritto: «Esistono anche gli articoli di coloro che stanno ai fatti e cercano di tenere a bada per quanto possibile le loro emozioni. Gli articoli che Antonio Ferrari scrisse da Padova, in quei giorni, per il Corriere della Sera, appartengono a questa categoria». È quanto ho cercato di fare, ma non so se ci sono riuscito compiutamente.
Caro Salvini, tolga il segreto di Stato. Si riapre il dibattito sul terrorismo rosso. Quante carte ancora non conosciamo..., scrive Alessandro Gnocchi, Domenica 07/04/2019, su Il Giornale. La cattura, estradizione e confessione del terrorista Cesare Battisti, colpevole di quattro omicidi, ha riaperto la porta a interpretazioni degli Anni di piombo che tornano indietro di cinquant'anni sul piano delle acquisizioni storiche. Su Repubblica abbiamo letto analisi che rasentano l'assurdo. Secondo Francesco Merlo, la verità sarebbe «che, in generale nella guerra al terrorismo e nel caso Battisti in particolare, la sinistra italiana ha dato la prova migliore della sua storia che, pur scombiccherata, è ora di nuovo calunniata». Secondo Michele Serra, «non solo non è vero che la sinistra ha protetto Cesare Battisti. È vero, al contrario, che il terrorismo rosso, anche perché isolato e combattuto dalla sinistra di massa (partiti e sindacati) ha pagato quasi al completo, e nel dettaglio i suoi conti con la legge» a differenza dello stragismo nero, del tutto impunito. Merlo e Serra si schierano così contro cinque decenni di storiografia, e tonnellate di documenti, che hanno acclarato l'esatto contrario rispetto alle loro elucubrazioni. Riassumo in breve. Il punto di forza della propaganda targata Kgb fu instillare nei militanti (e non solo) l'ossessione del complotto anticomunista ordito dalle forze oscure della reazione per impedire al Pci di arrivare democraticamente al potere. Il Pci ha sempre considerata valida l'idea di una insurrezione armata e disponeva dei mezzi necessari per realizzarla. L'apparato militare non era esterno al partito ma interno ad esso e prevedeva una struttura clandestina intrecciata con l'Anpi e la Figc. La risposta dello Stato fu la creazione di Gladio, un programma di risposta rapida a un'eventuale aggressione delle forze del Patto di Varsavia, facilitata dalla quinta colonna (la Gladio rossa) dei comunisti italiani. Appare evidente che alcuni militanti, in numero sufficiente da creare gravi problemi, siano stati addestrati alla guerriglia e al sabotaggio in Cecoslovacchia. Il governo Tambroni, appoggiato dall'Msi, e gli scontri del 1960 sono un punto di svolta: torna in campo il mito di un fascismo eterno che minaccerebbe l'Italia; l'emergenza antifascista è dunque continua e indispensabile. È la nuova politica del Pci, che ancora influenza, in modi diversi, gli eredi di quella storia. Il colpo di Stato potrebbe essere realizzato con l'ausilio degli Stati Uniti: l'anti-americanismo entra nella agenda politica dei militanti. Il pacifismo dei comunisti europei era uno strumento sovietico da interpretare nel quadro della Guerra fredda e sparì non appena l'arsenale atomico dell'Urss divenne competitivo. Il terrorismo di sinistra non era improvvisato dal punto di vista ideologico e neppure da quello militare: appartiene alla tradizione eversiva coltivata dal partito. Racconta l'ex brigatista Alberto Franceschini: «Le Br attinsero armi dai depositi dei partigiani e alla fine degli anni Sessanta io stesso in un fienile in mezzo alla campagna, poco fuori di Reggio Emilia, venni condotto in un arsenale; trenta, quaranta mitra Sten, perfettamente oleati e con caricatori in abbondanza». Non si vuole qui affermare che la storia del Pci si risolva solo in questo e neppure affermare che la lotta armata fosse uno sbocco inevitabile. Non si vuole sottovalutare il peso del terrorismo nero e dello stragismo: i documenti, anche in questo caso, ci sono ma sono materia per un altro articolo. Premesso tutto questo, i legami culturali (e a volte materiali) tra terrorismo e Pci non sono più in discussione. È anche noto, grazie ai lavori della Commissione Mitrokhin guidata da Paolo Guzzanti, che lo Stato italiano si dimostrò distratto nel valutare le decine di documenti trasmesse dai servizi segreti inglesi e relativi, tra le altre cose, agli agenti del Kgb sotto copertura in Italia. Singolare. Infatti Vasilij Nikitich Mitrochin, ex archivista del Kgb, dissidente in Gran Bretagna, aveva copiato migliaia di schede, messe a disposizione dell'MI6. Era una fonte di prima mano, nonostante si cercasse di farlo passare per un personaggio di secondo piano in possesso di materiale di secondo piano. Falso. Mitrochin aveva accuratamente selezionato e criptato le informazioni che intendeva condividere con le forze del Patto Atlantico. Questo non significa che anche i suoi documenti non debbano passare all'attenta considerazione degli studiosi, per valutarne la veridicità. La bibliografia è ormai sterminata. Ne trovate una piccola parte in queste pagine. Ma qui vogliamo introdurre un altro tema che mostra quanto Michele Serra sia lontano dal vero quando afferma che la sinistra ha pagato per intero il conto con la legge. Lasciamo perdere i latitanti e parliamo di archivi: una parte dei documenti relativi alla Gladio rossa è stata pubblicata nel 2001 da Gianni Donno (La Gladio Rossa del Pci 1945-1967, introduzione di Piero Craveri, Rubbettino editore) e da Gian Paolo Pellizzaro (Gladio rossa, Settimo sigillo, 1997). Altri documenti provenienti dagli archivi sovietici sono stati portati alla luce dai lavori fondamentali di Elena Aga-Rossi e Victor Zaslavsky. Testimonianze di parte americana sono state raccolte da Salvatore Sechi e altri. Avete notato? Manca giusto il lacunoso archivio del Pci. Che strano. Ci sono ancora fatti e nomi che attendono di essere scoperti e studiati. Vado in ordine sparso: gli agenti di influenza infiltrati dal Kgb ai massimi livelli della classe dirigente italiana; i referenti politici ed economici del Kgb all'interno del Pci; gli agenti di influenza infiltrati dalla Cia ai massimi livelli del Pci; l'ampia zona rossastra costituita da chi faceva da tratto d'unione affinché terroristi e Stato o terroristi e Pci potessero parlarsi; il peso dei servizi segreti di Stati del Patto di Varsavia in alcuni snodi fondamentali della storia italiana, dal rapimento di Aldo Moro all'attentato a Giovanni Paolo II. Non abbiamo il feticcio dei documenti: vanno inventariati, capiti e studiati. Possono essere veri o falsi. Possono raccogliere una parte della verità e possono farlo in buona o cattiva fede. Ma ci sono ancora molti documenti di quegli anni inaccessibili perché coperti da segreto di Stato o sepolti da pastoie burocratiche. Chiediamo al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, al ministro dell'Interno Matteo Salvini e al ministro degli Esteri Enzo Moavero di de-secretare il materiale d'archivio o di facilitarne l'accesso per procedere nel lungo cammino della verità, per quanto possibile e nel rispetto delle eventuali opinioni contrapposte degli storici.
· "Il terrorismo prosperò grazie a chi diceva: compagni che sbagliano".
"Il terrorismo prosperò grazie a chi diceva: compagni che sbagliano". Lo storico parla del suo nuovo saggio sugli anni di Piombo: «Dall'estremismo mi salvò la paura». Matteo Sacchi, Martedì 30/04/2019, su Il Giornale. Arriva in libreria questa settimana il libro dello storico Gianni Oliva intitolato Anni di piombo e di tritolo (Mondadori, pagg. 408, euro 24): ripercorre tutto il periodo in cui in Italia ha imperversato il terrorismo ed esce poco prima del 9 maggio, giornata dedicata alle vittime della violenza di quegli anni, spesso dimenticate dai media e dalla politica. In queste settimane il Giornale ha ripetutamente insistito sul tema della necessità di rendere pubblici i documenti riservati sul terrorismo. Abbiamo fatto una chiacchierata, su quegli anni difficili e sulla loro memoria, con l'autore.
Professor Oliva lei ha vissuto di persona gli anni della contestazione. Come mai era così facile scivolare verso la Lotta armata?
«Erano anni in cui si cresceva nelle tensioni e nelle contrapposizioni ideologiche. Non c'era spazio per la via di mezzo; chi si interessava di politica - ed erano davvero tanti! - era estremista, di sinistra o di destra. C'era violenza nelle parole, negli atteggiamenti, nelle relazioni. Il confine tra la protesta e il crimine era labile, i più deboli sono scivolati verso la deriva. Prima i servizi d'ordine con le spranghe, poi gli scontri con polizia e carabinieri, poi i tafferugli con i destri o con i comunisti... Poi le pistole, i mitra, le bombe».
Cosa ha tenuto lei lontano dalla violenza?
«Io, come tanti, sono stato difeso dalla paura: paura fisica dello scontro, paura delle conseguenze, paura di perdere le mie certezze. La paura, in fondo, è un argine potente nella vita. Bisogna però avere l'onestà di ammettere che a impedirci di fare sciocchezze non è stata la consapevolezza, il ragionamento: le derive passano sempre attraverso le smagliature dell'incoscienza collettiva, e quella è stata una stagione di slogan e di schemi ripetuti senza pensare».
Quali condizioni sociali hanno alimentato la tensione dentro il Paese?
«Negli anni 50-60 c'era un'Italia bigotta, codina, rurale, che metteva in galera la Dama Bianca di Coppi per adulterio e che, ancora nel 1966 processava i ragazzi del liceo milanese Parini per un'inchiesta sui rapporti prematrimoniali; e, per contrasto, c'era l'Italia del miracolo economico, dove in tutte le case entravano il frigorifero il telefono la lavatrice, dove si compravano le Seicento, dove si scoprivano le ferie al mare. La politica non è stata capace di riformare il Paese e di modernizzarlo, e l'Italia è rimasta un Paese mancato. La grande crisi del 68-69 è figlia di questa doppia velocità, delle contraddizioni di uno sviluppo non governato».
Perché piazza Fontana è una svolta senza ritorno?
«Di fronte alla crisi sociale dell'autunno caldo c'è chi, a destra, ha pensato ad una deriva verso il comunismo e ha creduto di fermarla con l'azione destabilizzante delle bombe. Così è nata piazza Fontana: in sé essa è stata una strage gravissima, ma ciò che l'ha fatta diventare punto di non ritorno è la gestione che ne è stata fatta. La falsa pista anarchica, Pinelli morto cadendo dal quarto piano dalla Questura, i depistaggi, le ipotesi vendute per certezze, un processo infinito spostato da Milano a Catanzaro, sentenze che si smentiscono... Tutto questo ha alimentato in molti la convinzione che si trattasse di una strage di Stato, che la democrazia fosse solo apparenza, che il golpe fosse una minaccia incombente cui lavoravano insieme la destra radicale e gli apparati repressivi».
Cosa sappiamo oggi della zona grigia che ha consentito ai movimenti armati di prosperare a lungo?
«Ci sono state zone grigie a destra e a sinistra: complicità, simpatie, ammiccamenti. A destra la mancata repressione dei responsabili ha creato l'illusione di godere di appoggi assai più vasti di quelli reali; a sinistra la zona grigia ha finito per essere serbatoio di reclutamento per il partito armato».
I terroristi rossi utilizzavano armi dei partigiani. Era solo un richiamo ideale o esistevano rapporti fra alcune frange dei movimenti partigiani e i terroristi?
«Il richiamo alla Resistenza partigiana è stato costante per tutte le forze di sinistra di quel periodo. Il richiamo da parte dei terroristi è stato il più offensivo per la Resistenza: i partigiani hanno sparato in tempo di guerra nell'Italia occupata dai nazisti, i terroristi hanno ucciso in tempo di pace in un'Italia dove ognuno era libero di scrivere e dire ciò che voleva. Le Br hanno usato alcune armi provenienti dalla Seconda guerra mondiale, ma erano residuati bellici che si inceppavano subito. Probabilmente li hanno avuti per rapporti familiari o personali con qualche reduce, ma i loro arsenali erano ben altrimenti forniti. Le mitragliette Skorpion credo siano arrivate dalla Stasi attraverso la Raf tedesca; le pistole dalla malavita o da rapine in armerie».
C'erano frange del Pci che avevano rapporti con i movimenti armati?
«Il Pci era considerato un nemico dal partito armato: il suo errore, semmai, è stato quello di non capire subito il fenomeno, di parlare di provocazioni. Solo dal 1975 il Pci ha preso posizione decisa riconoscendo il terrorismo rosso. Più gravi sono state le tolleranze di molti intellettuali, dalla formula assolutoria compagni che sbagliano all'ambiguità di né con lo Stato, né con le Br. E contiguità pericolose ci sono state nell'ambiente di fabbrica, nello stesso sindacato: Guido Rossa è un operaio che ha pagato con la vita per aver denunciato queste contiguità ed era stato lasciato solo nei giorni della denuncia».
In che rapporto vanno posti il terrorismo rosso e quello nero? Uno dei due ha alimentato l'altro?
«Il terrorismo, nero e rosso, è stato sconfitto quando lo Stato ha deciso di vincer la guerra dopo aver perso tante battaglie: i nuclei speciali - nel senso di specializzati - di Dalla Chiesa, la legge sul pentitismo. Più in generale, il terrorismo è stato sconfitto dalla storia. Negli anni Ottanta non c'erano più né tensioni sociali, né progetti insurrezionali, né timori di derive. Il terrorismo, nero e rosso, è il prodotto delle contraddizioni dello sviluppo italiano. Non ce n'è uno che ha provocato l'altro, o che è iniziato prima: piazza Fontana, come detto, è stata una svolta per la gestione che ne è stata fatta».
Il termine stragi di Stato ha un senso?
«Strage di Stato è stata una formula non corretta, alimentata dalla convinzione che nulla succeda senza una programmazione e una strategia a monte. Per essere strage di Stato piazza Fontana avrebbe dovuto essere seguita da movimenti nelle caserme, da interventi di politici, da prese di posizione. Nulla di tutto questo nei giorni di dicembre 1969, e nessun uomo che potesse incarnare una svolta autoritaria. Ripeto, è la gestione politica, giudiziaria e mediatica di piazza Fontana che ha alimentato la tesi della strage di Stato, e il coinvolgimento di alcuni uomini degli apparati che l'ha avallata».
Pensa che ci siano ancora documenti non resi pubblici e che dovrebbero essere messi a disposizione?
«Credo proprio di sì. Io per la mia ricostruzione mi sono basato soprattutto su fonti e verità processuali. Però è chiaro che ci sono ancora molti non detti e zone d'ombra. Ad esempio sul caso Moro. Sia chiaro, per come la vedo io il rapimento e l'uccisione sono avvenuti ad opera delle Brigate rosse. Però Craxi riuscì rapidamente ad avere un contatto coi brigatisti... Era un segretario di partito, com'è possibile che sia riuscito lui dove gli apparati dello Stato brancolavano nel buio? E poi la famosa seduta spiritica a cui partecipò Romano Prodi dove uscì il nome Gradoli? È chiaro che Prodi aveva un informatore, non ha senso che a distanza di quarant'anni non si sappia ancora esattamente come si sono svolti i fatti. Ribadisco, nessun complottismo e nessuna tesi di fanta-politica, con grandi vecchi, ma evidentemente ci sono degli episodi su cui non è stato detto e mostrato tutto».
Spesso a raccontare in pubblico quegli anni sono soprattutto i terroristi...
«Non lo trovo giusto, la sovraesposizione dei colpevoli rispetto alle vittime la trovo sbagliatissima. Chi ha pagato ed è tornato libero è un cittadino come gli altri e va rispettato ma non è possibile che si trasformi nel narratore unico su televisione e giornali di quel periodo storico».
· Reddito di cittadinanza di Stato agli ex brigatisti che hanno combattuto lo Stato.
Il reddito di cittadinanza M5S? Lo incassa pure l'ex brigatista rosso. Raimondo Etro, ex brigatista rosso ora 62enne, riceverà il reddito di cittadinanza grillino: "Sono un vero povero, per me boccata d'ossigeno", scrive Claudio Cartaldo, Giovedì 18/04/2019, su Il Giornale. Nella sua vita è stato condannato a 20 anni e sei mesi di carcere. La sentenza definitiva è arrivata nel 1999 e lo accusava di concorso nella strage di via Fani e omicidio del giudice Palma. Venti anni dopo, Raimondo Etro, ex brigatista rosso ora 62enne, riceverà il reddito di cittadinanza grillino. Lui la domanda l'ha presentata, l'Inps l'ha ricevuta e infine via sms gli ha notificato che la richiesta è stata anche accolta. "A breve - si legge nei messaggi - riceverà comunicazione per il ritiro della carta presso gli uffici postali". "La mia vita l'ho buttata al vento - racconta lui al Corriere - facendo però pagare il prezzo ad altri che non c'entravano niente. Perciò, se ci saranno proteste e il reddito di cittadinanza mi verrà ritirato, pazienda. Ho sempre considerato le pene che abbiamo avuto, io e tutti gli altri Br, fin troppo miti". La domanda per il reddito minimo l'ha fatta perché "sto affogando". "Sono un vero povero - racconta - e devo riconoscere che, dopo aver detto tante cattiverie contro Di Maio e i Cinque Stelle, il reddito per me è una boccata d' ossigeno". E ancora: "Il mio Isee è pari a zero, non sono lavoratore dipendente nè autonomo, vivo vendendo libri su eBay, ho una Ford Fusion del 2004 comprata usata. Mia zia Valeria morì nel 2013 e mi lasciò 55 mila euro, la sua polizza sulla vita. Ma pian piano questi soldi sono finiti, perché dopo la separazione nel 2011 vivo da solo in affitto a via della Pisana e pago 850 euro al mese, più le bollette". In totale Etro dovrebbe incassare 780 euro, di cui 280 "come contributo per l'affitto, il resto per la spesa, potrò prelevare 100 euro al mese". I requisiti, almeno secondo l'Inps, l'ex brigatista rosso li ha tutti per poter incassare il reddito di cittadinanza. Ma non è escluso che ora non esplodano polemiche. La condanna per l'omicidio e via Fani non hanno influito. "Al Caf mi hanno spiegato che solo chi ha avuto negli ultimi dieci anni una pena definitiva per mafia o terrorismo non può averlo - dice Etro al Corriere - Infatti, ho parlato con Vito, il mio ex compagno di cella a Rebibbia dal 2002 al 2006, lui col 416bis per camorra: anche Vito ha ricevuto l' sms dall' Inps. Ha avuto il reddito".
Reddito di cittadinanza per Federica Saraceni, i tribunali del popolo e l’ex Br. Davide Varì l'1 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Le polemiche scoppiate per il reddito di cittadinanza concesso a Federica Saraceni. Condannata a 21 anni per l’inchiesta sull’omicidio D’Antona, 10 scontati in carcere e ora ai domiciliari con due figli. Chi sbaglia paga. Paga a vita. Anche se un giudice ha deciso in modo diverso. Anche se la legge prevede altro. Ma a volte, è noto, la legge vale meno del senso comune, vale meno degli autoproclamati “tribunali del popolo”: quelli che condannano senza bisogno di alcun processo. Come nel caso di Federica Saraceni, l’ex brigatista finita al centro dell’indignazione mediatica per il fatto di aver chiesto e ottenuto il reddito di cittadinanza. Saraceni è stata condannata – da un vero tribunale – a 21 anni per aver partecipato al delitto del giuslavorista Massimo Dantona. Ne ha passati 10 in galera e sta scontando il resto della pena ai domiciliari. Dunque non è più a “carico dello stato”, il che l’avrebbe automaticamente esclusa tra gli aventi diritto il reddito. Né, come ha erroneamente scritto qualcuno, è sottoposta “a misure cautelari personali”. Saraceni inoltre ha due figli e vive sotto la soglia di povertà. Insomma, la legge è tutta dalla sua parte e ha pieno diritto a quell’assegno dello Stato. Ma questo non conta. Perché per alcuni reati, che qualcuno sceglie in modo del tutto arbitrario, il giudizio popolare vale più di quello di un tribunale. Con buona pace della nostra civiltà giuridica e del nostro stato di diritto.
Federica Saraceni, reddito di cittadinanza all’ex brigatista agli arresti domiciliari. Pubblicato lunedì, 30 settembre 2019 da Corriere.it. Seicentoventitré euro al mese dal reddito di cittadinanza perché sotto la soglia di povertà e con due figli. Anche se la beneficiaria è un’ex brigatista, condannata a 21 anni e 6 mesi per l’omicidio del giuslavorista Massimo D’Antona (20 maggio 1999) ed è agli arresti domiciliari. Ma nulla sembra ostare alla richiesta di Federica Saraceni che dallo scorso agosto riceve quasi la cifra massima del sussidio ideato dal Movimento Cinque Stelle per chi si trova in stato di povertà e per aiutarlo a reinserirsi nel mondo del lavoro. Il caso è raccontato dal quotidiano La Veritàe indigna molti parenti di vittime del terrorismo. Ma, in attesa di chiarimenti da parte di Inps e ministero del Lavoro, la legge sembra dalla parte di questa donna, 49 anni, romana, madre di due bambini e senza reddito. Sebbene figlia dell’ex magistrato Luigi Saraceni, fondatore di Magistratura democratica, poi parlamentare con Pds e Verdi e infine avvocato proprio per difenderla nel processo di appello che l’ha condannata definitivamente per l’omicidio D’Antona. Per la legge 28 marzo 2019 numero 26, che istituisce il reddito di cittadinanza, l’ex brigatista può beneficiare dei 623 euro e aspettare una chiamata dai navigator per un’offerta di lavoro. La sua condanna risale a più di 10 anni prima dalla richiesta del sussidio (al di sotto dei 10 non avrebbe avuto i requisiti). La legge prevede poi che il reddito non sia dato a chi è in stato detentivo a «totale carico dello Stato»: ma la Saraceni è agli arresti domiciliari nella sua abitazione. Infine, non può ottenere il sostegno chi è sottoposto «a misure cautelari personali»: non è questo il caso, visto che è già condannata. Tutto regolare dunque, dal punto di vista legale, per quanto ricevere un sussidio economico dallo Stato per un’ex terrorista possa sembrare inopportuno. E la cifra ottenuta sia molto più alta di quanto spesso concesso a persone in condizioni più disagiate, inclusi senza fissa dimora. E il no comment del ministero maschera un certo imbarazzo in via Veneto. Proprio lì dove Massimo D’Antona era di casa.
Reddito di cittadinanza alla brigatista, la follia della legge che contraddice il codice penale. L’articolo 28 cp vieta gli assegni pubblici a chi è stato interdetto dai pubblici uffici. Ma Tridico (Inps) spiega: il sussidio va anche a chi è stato condannato più di dieci anni fa. Sergio Rizzo il 30 settembre 2019 su La Repubblica. ASSAI curiosa la notizia che la brigatista Federica Saraceni, condannata a 21 anni nel processo per l’omicidio del giuslavorista Massimo D’Antona, ha ottenuto il reddito di cittadinanza: 623 euro al mese, e li percepisce agli arresti domiciliari dove sta finendo di scontare la sua pena. Curiosa, almeno a leggere il codice penale. Perché in teoria, in base a quel codice, non dovrebbero incassarlo né lei, né tutti i condannati a una pena che preveda l’interdizione perpetua ai pubblici uffici. Ed è una faccenda che decisamente va chiarita. L’articolo 28 del codice penale prevede infatti testualmente che “l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, salvo che dalla legge sia altrimenti disposto, priva il condannato (…) degli stipendi e degli assegni che siano a carico dello Stato o di un altro ente pubblico”. Il successivo articolo 29 stabilisce che la pena accessoria dell’interdizione perpetua si applica nei casi di condanna alla reclusione per una durata “non inferiore a cinque anni”. Dunque, a rigor di logica, anche al caso di Federica Saraceni. Il suddetto articolo 28, peraltro, ha già avuto significative applicazioni in altri campi. La Regione siciliana, per esempio, l’ha applicato agli ex consiglieri condannati per reati di associazione mafiosa, come l’ex presidente Salvatore Cuffaro, a cui in seguito a un’offensiva politica del Movimento 5 stelle raccontata all’epoca da Repubblica, venne revocato il vitalizio regionale. Va precisato tuttavia che la legge sul reddito di cittadinanza dice che non ne ha diritto chi ha subito una condanna nei dieci anni precedenti, mentre il presidente dell’Inps Pasquale Tridico ha spiegato che Federica Saraceni è stata condannata 12 anni fa. Quindi in base alla norma specifica ne avrebbe diritto. Ma l’articolo 28 del codice penale è tuttora in vigore, e come si possa combinare con la legge sul reddito è forse una domanda che meriterebbe una risposta. Anche per non determinare disparità di trattamento fra condannati e condannati. Quanto al fatto che chi sta scontando o ha già scontato una pena si trovi in condizioni di indigenza o povertà, e magari anche dovendo mantenere dei figli in tenera età, il problema esiste eccome: è serio e va certamente affrontato. Questa, però, è un’altra storia…
Federica Saraceni, la brigatista mantenuta con il Reddito di Cittadinanza. Polemiche per l'assegno da 623 euro che una delle terroriste che uccise Massimo D'Antona riceverà dallo Stato. Andrea Soglio il 30 settembre 2019 su Panorama. Mario Giordano, una settimana fa aveva dedicato l'articolo della sua rubrica su Panorama ("Il Grillo Parlante") alla "Solitudine delle vittime", un testo che denunciava come nel nostro paese ci si prenda stranamente più cura di chi ha commesso reati, anche gravi, che delle vittime degli stessi. Un atteggiamento vergognoso che, pochi giorni dopo, trova ennesimo riscontro nella cronaca. Anzi, vista la vicenda verrebbe da dire che qui siamo andati più avanti, siamo nel pieno dell'"oltre il danno la beffa". Federica Saraceni, la brigatista condannata per l'omicidio del giuslavorista Massimo D'Antona, avvenuta nel 1999, potrà ricevere il Reddito di Cittadinanza, come da lei richiesto; un assegno mensile calcolato in 623 euro. La terrorista ha presentato domanda e ha tutti i requisiti previsti dalla legge essendo madre di due figli ed agli arresti domiciliari, quindi senza reddito. E così, dato che non potrà comunque lavorare, ecco che ha chiesto di poter essere mantenuta dallo Stato. Che ha risposto di si, perché siamo nel pieno rispetto della legge. La Lega per prima ha denunciato la cosa annunciando la sua assenza dai lavori del Parlamento fino a che qualcuno del Governo, sentitamente nella persona di un ministro grillino qualsiasi (quelli che il RdC l'hanno voluto a tutti i costi) non spieghi come sia potuta accadere una cosa simile e soprattutto quali accorgimenti siano previsti per sospenderla. Perché una cosa dev'essere chiara. A volte le leggi sono sbagliate, a volte non calcolano tutte le variabili: forse nemmeno Di Maio avrebbe mai ipotizzato di mantenere una terrorista, una che armi in pugno questo Stato lo ha combattuto ma dal quale non disdegna di farsi mantenere. Ci devono però essere dei limiti. Il Governo deve porre rimedio a questa anzi, a queste vergogne dato che altri terroristi hanno fatto o sono pronti a presentare analoghe richieste. Questione di rispetto verso il paese, verso le persone per bene, verso quelli che hanno davvero bisogno. Almeno verso i parenti delle vittime, come Massimo D'Antona. Giordano chiudeva così il suo articolo: Resta solo l’offesa alle vittime. Condannate due volte, loro sì: al lutto e all’umiliazione. Non serve aggiungere altro.
Olga D’Antona: «Il reddito all’ex Br? Non ne ha bisogno, lo lasci ai veri poveri». Pubblicato lunedì, 30 settembre 2019 su Corriere.it da Claudia Voltattorni. Saraceni, la br condannata per il delitto del giuslavorista, riceve il reddito di cittadinanza. La moglie: «Pieni diritti a chi sconta la pena, lei è ai domiciliari». «Non sempre ciò che è legale è anche giusto». E in questo caso, «è evidente che c’è una falla nella legge che andrebbe sanata, il Parlamento ha il dovere di farlo». Perché il reddito di cittadinanza concesso all’ex brigatista Federica Saraceni, condannata a 21 anni e sei mesi per l’omicidio di Massimo D’Antona e ora agli arresti domiciliari nella sua abitazione, è una notizia che alla vedova del giuslavorista ucciso a Roma il 20 maggio 1999 Olga non ha fatto certo piacere. «Ho provato un grande senso di ingiustizia», dice al Corriere. Dallo scorso agosto, la Saraceni, madre di due bambini, riceve 623 euro al mese grazie al sussidio ideato dal Movimento Cinque Stelle per chi si trova al di sotto della soglia di povertà. La misura serve per aiutare chi non ha un’occupazione a reinserirsi nel mondo del lavoro. Perciò se l’ex brigatista dovesse essere chiamata dai navigator per un colloquio e poi ottenere un lavoro, potrebbe ottenere il via libera dal Tribunale di sorveglianza.
La signora Saraceni sta scontando la sua condanna, non crede abbia diritto ad una seconda possibilità?
«Avrebbe senso se avesse finito di pagare il suo debito con la giustizia. Io sono favorevole a concedere i pieni diritti a chi ha scontato la propria condanna e soprattutto dopo un percorso di ravvedimento. Invece la Saraceni è a casa sua, agli arresti domiciliari, e ancora non ha concluso il suo percorso».
Il ministero del Lavoro e l’Inps che concede il sussidio stanno effettuando tutti i controlli per verificare se Federica Saraceni ha effettivamente diritto al reddito di cittadinanza. Ma legalmente al momento la sua richiesta sembra ineccepibile. Per il presidente dell’Inps Vincenzo Tridico «i requisiti reddituali, patrimoniali e occupazionali che competono all’Inps ci sono». E sottolinea che «basta leggere la legge: la norma prevede che se una persona ha avuto una condanna nei 10 anni precedenti c’è il blocco, ma Federica Saraceni l’ha avuta 12 anni fa».
È sbagliata la legge?
«C’è differenza tra legale e giusto. E visto come stanno le cose, considerato che la Saraceni non è l’unica a trovarsi in queste condizioni, perché altri ex terroristi hanno ottenuto il reddito, allora la legge è fatta male e va corretta. Mi auguro che il Parlamento se ne occupi in tempi brevi: è un dovere dei parlamentari intervenire».
Suo marito Massimo D’Antona avrebbe ideato una legge come questa?
«Non rispondo a questo genere di domande. Nessuno può sostituirsi al suo pensiero».
Il leader della Lega Matteo Salvini minaccia di bloccare il Parlamento se non verrà ritirato il reddito alla Saraceni, è d’accordo? Lui era al governo e con il suo partito ha votato e approvato la legge sul reddito di cittadinanza.
«Tutti possono sbagliare, Salvini ha la possibilità di riparare ai suoi errori e anziché fare sciopero e minacciare di bloccare il Parlamento, vada a lavorare e proponga un ordine del giorno per correggere l’errore fatto, lui può farlo».
Federica Saraceni non doveva chiedere il reddito di cittadinanza?
«Io credo che lei non ne avesse davvero bisogno. Ha una famiglia alle spalle che da sempre si occupa di lei e dei suoi figli, che l’ha sempre sostenuta e e le è sempre stata vicino. Rinunci al reddito e lo lasci a chi ne ha davvero bisogno».
Vi siete mai incontrate? Le ha mai scritto, magari per chiederle scusa?
«No, non sono mai stata contattata da questa persona, da altri sì, ma da lei no. Così come non ho mai percepito un suo ravvedimento».
Vorrebbe incontrarla?
«No, lei e la sua famiglia non sono persone che vorrei incontrare»».
Assegno all’ex Br: Olga D’Antona si dice turbata. Meloni: lo avevamo denunciato per primi. Il Secolo d'Italia lunedì 30 settembre 2019. “Ho provato stupore e turbamento. Non contesto la legge sul reddito di cittadinanza di contrasto alla povertà, ben venga, ma che venga usata in questo modo…significa che c’è qualcosa che non va”. Così Olga D’Antona, vedova di Massimo D’Antona, giuslavorista e consigliere del ministero del Lavoro ucciso in un agguato terroristico il 20 maggio 1999, commenta la notizia che l’ex terrorista Federica Saraceni, condannata a 21 anni e sei mesi per l’omicidio di D’Antona, riceve il reddito di cittadinanza. “Mi auguro che governo e Parlamento trovino modo di fare delle modifiche”, sottolinea la vedova del giuslavorista secondo la quale ci sono persone “molto più bisognose” del reddito di cittadinanza di chi è ai “domiciliari e non ha finito di scontare la sua pena”. “Non tutto ciò che è legale è giusto”, conclude. Già, ma cosa c’è che non va e che va assolutamente corretto? Bastava escludere dal reddito di cittadinanza i condannati per gravi reati penali. Lo prevedeva un emendamento di FdI che venne bocciato. E adesso Giorgia meloni lo ricorda a tutti quelli che si scandalizzano: “Lo scandalo del reddito di cittadinanza all’ex brigatista Federica Saraceni è causato anche della bocciatura in Parlamento dell’emendamento di Fratelli d’Italia per escludere dai beneficiari del reddito di cittadinanza chi è stato condannato per gravi reati penali”. “Con l’attuale norma -aggiunge Meloni – anche ladri, pedofili e stupratori, oltre ad assassini e terroristi, percepiscono l’assegno da parte dello Stato. Una follia che Fratelli d’Italia aveva segnalato in totale solitudine. Ora il governo vari urgentemente una norma per fermare questo scempio”. “Sono tanti – gli fa eco Francesco Lollobrigida, capogruppo di FdI alla Camera – gli ex brigatisti a percepire il reddito di cittadinanza. Una ingiustizia che Fratelli d’ItaIia aveva segnalato in totale solitudine”.
“CI SONO COSE CHE SARANNO PURE LEGALI, MA SONO INGIUSTE”. Francesco Grignetti per “la Stampa” l'1 ottobre 2019. La notizia, le ha causato un colpo al cuore. Una delle brigatiste assassine, una di quelle che nel maggio 1999 uccisero suo marito Massimo D' Antona, percepisce il reddito di cittadinanza. E così per Olga D' Antona, la vedova del professore, già parlamentare del centrosinistra, l' intera giornata è stata bruciata al telefono, tra chi le chiedeva un commento e chi la voleva consolare. «Ci sono cose che saranno pure legali, ma sono ingiuste», dice. E' turbata, indignata, ma anche rassegnata. «E' proprio vero: solo per noi familiari, non esiste il fine pena. Di continuo ci ritroviamo a vivere il dolore. Comunque siamo qui, con le spalle larghe...». E allora, innanzitutto la notizia: Federica Saraceni, figlia di un illustre magistrato e parlamentare, Luigi Saraceni, condannata a 21 anni e 6 mesi di carcere per il delitto D' Antona, come ha scoperto il quotidiano «La Verità», dall' agosto scorso percepisce 623 euro al mese di reddito di cittadinanza. Dal 2005 sconta la pena ai domiciliari; nel frattempo ha avuto due figli e al momento opportuno ha richiesto anche lei, come migliaia di italiani, il reddito di cittadinanza.
I politici si sono subito indignati. Salvini ha minacciato fuoco e fiamme.
«Eppure la maggioranza giallo-verde ha bocciato un nostro emendamento che voleva evitare proprio questi scandali, escludendo i condannati per reati gravi dal reddito di cittadinanza», è stato il commento acido di Giorgia Meloni. Secondo Pasquale Tridico, presidente dell' Inps, di simpatie grilline, invece tutto è in regola perché la condanna è di 12 anni fa, e il reddito è escluso solo per chi sia stato condannato entro i 10 anni.
E lei, signora D' Antona che pensa?
«Penso che questo Stato che i brigatisti volevano disarticolare con i terroristi si comporta come un buon padre di famiglia. Troppo. Io capirei che si aiuti una persona che ha pagato il suo conto con la giustizia, ma non è questo il caso di Federica Saraceni, che sta ancora scontando la sua sentenza, e da casa, ai domiciliari dove fu mandata quasi subito... Comunque, a rigore, è pur sempre una pena. E scopro che non è un caso isolato. Anche altri brigatisti percepiscono il reddito di cittadinanza».
Sconvolta?
«Guardi, mi sforzo di essere giusta. Io ci credo nel recupero del condannato. Non accetto la logica del "fine pena, mai". Al termine di un percorso, è giusto che la persona recuperi i suoi diritti di cittadinanza. Ma al termine del percorso, appunto».
E questo non è il caso, vero?
«Mai un segnale di ravvedimento. Trovo profondamente ingiusto quel che è accaduto».
Nel caso di Raimondo Etro, un altro vecchio brigatista che ebbe a che fare con il delitto Moro, molto citato in queste ore perché anche lui percepisce il reddito di cittadinanza, almeno c' è stata collaborazione con la giustizia.
«Infatti. Un conto è collaborare con lo Stato, altro rifiutare di fare i conti con le proprie responsabilità. Ma mi domando: alla signora Saraceni conviene questa cattiva pubblicità? Le conveniva attirare i riflettori su lei e i suoi figli? Io non credo. E poi, ne aveva così bisogno dei soldi dello Stato? Ha alle spalle una famiglia che può sostenerla e ha sempre dimostrato di volerla sostenere. Non pensa che sarebbe stato meglio lasciare a chi ha più bisogno di lei? Non ho niente contro il reddito di cittadinanza in sé: ben venga, ma se usato in questo modo, significa che c' è qualcosa che non va. Spero che governo e Parlamento trovino il modo di correggere».
Pino Corrias per “la Repubblica” il 2 ottobre 2019. Vive in un bilocale della periferia romana. Vive inseguita dalla sua storia di militante brigatista, Federica Saraceni, 49 anni, due figli, condannata per l' omicidio di Massimo D' Antona. Imprigionata in un passato che non passa. E che ora torna a galla per quei 623 euro di reddito di cittadinanza, percepiti secondo la legge, ma a dispetto del sangue versato e della condanna definitiva a 21 anni di carcere, diventati arresti domiciliari. Reddito scandaloso per la vedova D' Antona: «Non tutto quello che è legale è anche giusto». Per i familiari delle vittime: «Lo Stato non può pagare chi ha ucciso i suoi uomini migliori». «Reddito di infamia» per la Lega che pure ha votato la legge, quando proprio Matteo Salvini era ministro dell' Interno, aveva titolarità per accorgersi del buco normativo e che oggi prova a nascondersi alzando la polvere delle polemiche. Un errore per tutti. Salvo per il padre di Federica, Luigi Saraceni, ex fondatore di Magistratura democratica, ex deputato dei Ds e Verdi: «Cosa dovrebbe fare per vivere mia figlia, prostituirsi? Fare le rapine?». E poi: «Consentitele di lavorare per mantenersi, liberandola dai domiciliari ».Ma anche quello sarebbe un corto circuito, liberata anzi tempo da una condanna per una delle storie più atroci della nostra cronaca recente, l' avventura fuori dal tempo delle Nuove Brigate Rosse, una ventina di sbandati guerrieri che in una manciata di anni, tra Roma, Bologna, Firenze, assaltano a modo loro lo "Stato delle Multinazionali", rapinano, sparano, riesumando il rito feroce degli agguati.
Uccidono tre volte. Massimo D' Antona il 20 maggio 1999 a Roma, Marco Biagi a Bologna, 19 marzo 2002, entrambi colpevoli di essere consulenti del Ministero del Lavoro, dunque complici della "oppressione della classe operaia". E uccidono Emanuele Petri, sovrintendente della polizia ferroviaria. I primi due sparandogli alle spalle sotto casa. Il terzo in un conflitto a fuoco, sul treno interregionale, località Castiglione Fiorentino, 2 marzo 2003, quando i due capi dell' organizzazione, Mario Galesi e Nadia Desdemona Lioce, incappano in un controllo casuale. Reagiscono sparando. Galesi uccide e resta ucciso.
La Lioce viene catturata. Nei loro computer gli investigatori scoprono tutti i fili dell' organizzazione. E smantellandola trovano le prime tracce di Federica Saraceni, buona borghesia romana, nata nel 1969, proprio nell' anno in cui comincia la stagione degli Anni di Piombo. Lei all' inizio sembra solo una fiancheggiatrice dell' organizzazione. Una maestra d' asilo, che ha incrociato per caso o impazienza le persone sbagliate. E che scoppia in lacrime quando l' arrestano, 24 ottobre 2003. La sua storia racconta che a sedici anni frequenta il Centro sociale Blitz. Fa politica nel Movimento. A diciannove va a vivere in una casa occupata. Conosce Mario Galesi che gestisce lotte nei quartieri. Dirà al processo: «Ero giovane, avevo meno di vent' anni». Ma a trenta incrocia la strada di Laura Proietti, militante di Autonomia in superficie, in realtà già inserita nei Nuclei comunisti combattenti. Con lei inizia «un rapporto politico». Che al processo spiega così: «Ci vedevamo a casa mia, leggevamo Marx e Lenin, discutevamo ». E poi? «Quando capii che voleva arruolarmi, ho interrotto i rapporti».
Vero? Al processo di primo grado le credono a metà e la condannano a 4 anni per favoreggiamento. Ma in Appello troppi fili la legano alla banda armata. Per dieci mesi, nel 1999, ha affittato un appartamento a Cerveteri, che secondo gli inquirenti è una base logistica, secondo lei, «una casa che mi serviva per studiare e stare da sola». Scoprono che ha in uso schede telefoniche che compaiono nel flusso delle comunicazioni tra i brigatisti, comprese tre telefonate partite dalla cabina telefonica vicina a casa D' Antona, nei giorni che precedono l' attentato. Dunque, partecipazione ai pedinamenti e all' omicidio. Fino a quella mattina di maggio, ore 8,13, quando D' Antona percorre i suoi ultimi 130 passi e all' angolo tra via Salaria e via Po, finisce davanti a Mario Galesi che lo aspetta dietro a un cartellone pubblicitario, gli spara nove volte, l'ultima al cuore. Lei al processo del 2008 rivendicherà la lettera scritta ai giornali, con il falso nome di "Marina", chiedendo «onore a te, dolce Mario», subito dopo la sua morte nella sparatoria ferroviaria, «che hai dato la vita per sconfiggere l' ingiustizia di questo mondo». E quando il giudice le chiede: «Ma Galesi muore sparando a un' altra persona, lo sapeva?» in aula risponde: «Morire per una scelta, giusta o sbagliata che sia, è segno di coerenza». La condanna definitiva diventa pesante, 21 anni e 6 mesi. Lei piange di nuovo. Si è giocata la vita, giocando con la vita degli altri. E la pena che le tocca è anche in questo corto circuito che torna a illuminarla, anche se sono spiccioli, invece del sangue.
Lo Stato di diritto e le tutele da applicare anche ai “cattivi”. Iuri Maria Prado il 2 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Il reddito di cittadinanza a Federica Saraceni. È ben comprensibile che abbia portato polemica il reddito di cittadinanza ottenuto da Federica Saraceni, giudicata corresponsabile dell’omicidio di D’Antona. Ma si crede che non abbia torto chi, come il padre Luigi, si domanda amaramente se sia giusto che lo Stato non riconosca a una condannata senza mezzi altra scelta, per sopravvivere, che quella di prostituirsi. E’ chiaro che si tratta in questo caso di una dichiarazione, diciamo così, interessata, e qualcuno potrebbe – non senza ragione – obiettare che forse chi è in rapporti così intimi con il responsabile di un delitto indiscutibilmente terrificante dovrebbe sorvegliare con un supplemento di delicatezza le proprie manifestazioni. Ma queste sono faccende di stile, mentre nel merito è sicuro che se la legge attribuiva quel diritto a quella persona non si vede per quale motivo mai bisognerebbe revocarglielo. E qui si viene alla polpa della questione. In buona sostanza, l’idea ( sbagliatissima) è questa: che quella provvidenza di Stato, il reddito di cittadinanza, non dovrebbe potersi concedere al responsabile di questo o quel delitto. Ma non ci si rende conto della pericolosità di una simile idea. Si può pensare infatti quel che si vuole della opportunità o no che lo Stato conceda queste provvidenze, e c’è una buona somma di argomenti adunati a spiegare che è sbagliatissimo concederle ( non a quella condannata, ma a chiunque). Ma il requisito per riceverne dovrebbe risiedere nella condizione di bisogno, non nel fatto che il percipiente possa vantare un curriculum umano che compiace. E la reazione “democratica” che va montando a proposito di questa vicenda sembra nutrita esattamente dal pregiudizio secondo cui non è il bisogno a giustificare il riconoscimento della provvidenza, ma il fatto che a richiederla sia una persona, per capirsi, “per bene”. Da lì a stabilire che il reddito di cittadinanza può ottenerlo solo chi vota per Tizio o Caio, o chi come Tizio o Caio la pensa, il passo è molto breve. Dice: ma qui non si tratta di voti o pensieri, ma di comportamenti criminali e tra i più immotivati e feroci. E sia. Ma è un’obiezione che non spiega in nessun modo, come dovrebbe comportarsi l’ordinamento davanti a uno stato di bisogno che non può vantare il supplemento di un passato incensurato. Che cosa ne facciamo, di questi? Siccome sono stati cattivi mettiamo nella legge che non hanno diritto di essere in stato di bisogno?
Ex brigatisti e non solo: ecco anche a chi va il reddito di cittadinanza. La misura, nata per fornire un aiuto agli italiani realmente bisognosi, è estesa anche ad ex criminali, assassini, ladri e stupratori. Luca Sablone, Martedì 01/10/2019, su Il Giornale. Sulla reale efficacia del reddito di cittadinanza possono esserci giustamente vedute diverse, ma una convinzione dovrebbe accomunare tutti: ex brigatisti, ladri e assassini dallo Stato non dovrebbero percepire neanche un centesimo. Tra i requisiti necessari per beneficiare della misura del Movimento 5 Stelle bisogna non essere in attesa di giudizio o sottoposti a "misura cautelare personale". E il recente caos scoppiato riguarda Federica Saraceni, attualmente agli arresti domiciliari ma che prenderebbe regolarmente 623 euro al mese. Vi abbiamo parlato anche degli ex brigatisti Massimiliano Gaeta e Raimondo Etro. Fonti del Ministero del Lavoro hanno fatto sapere che la vicenda "è oggetto di verifica da parte dei competenti uffici del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali di concerto con il Ministero della Giustizia e l'Inps, al fine di accertare l'eventuale presenza di anomalie".
E per i reati gravissimi?
Nella giornata di ieri è arrivata la durissima presa di posizione da parte di Giorgia Meloni che, sul proprio profilo Facebook, ha pubblicato un video in cui ha voluto ricordare che Fratelli d'Italia aveva presentato la proposta di impedire l'accesso al reddito di cittadinanza a chi fosse stato condannato per reati gravissimi: idea bocciata. La leader di FdI lo aveva previsto: "Il reddito di cittadinanza andrà anche a delinquenti recidivi, spacciatori, rapinatori, ladri d’appartamento, stupratori, stalker, assassini pedofili, tutte categorie non escluse dalla norma, visto che sono esclusi solo pochissimi reati di mafia e terrorismo". Si attendono giornate particolarmente calde. Matteo Salvini ha avvertito: "O la chiariscono o la ritirano. O fermiamo i lavori del Parlamento". Sulla stessa linea sono intervenuti anche i capigruppo della Lega, Massimiliano Romeo e Riccardo Molinari, che hanno avvisato: "La Lega non parteciperà a nessun lavoro d'aula e di commissione finché il governo non spiegherà questo scandalo e quest'ingiustizia sarà sanata".
Giacomo Amadori e Fabio Amendolara per ''la Verità'' il 30 settembre 2019. Vent' anni fa voleva disarticolare lo Stato, colpendo alcuni suoi servitori innocenti, come i consulenti del ministero del Lavoro. Quattro lustri dopo, a fine luglio 2019, a quello stesso Stato ha chiesto il reddito di cittadinanza e la sua domanda è stata accolta velocemente, tanto che ai primi di agosto aveva già percepito il primo assegno. Stiamo parlando dell' ex brigatista Federica Saraceni, condannata a 21 anni e sei mesi per associazione con finalità di terrorismo e per l' omicidio del giuslavorista Massimo D' Antona, freddato a 51 anni sulla via Salaria il 20 maggio 1999. Ma la ex maestra d' asilo prestata alla lotta armata non solo incassa 623 euro dal mese scorso, ma lo fa anche da una condizione particolare. È infatti agli arresti domiciliari, dove si trova dal 2005 (quando era incinta e già madre di una figlia). Peccato che tra i requisiti richiesti per ottenere il reddito ci sia quello di non essere sottoposti «a misura cautelare personale». Tra le condizioni ostative anche quella di essere stati condannati in via definitiva nei dieci anni precedenti la richiesta per reati gravissimi. Ma la sentenza definitiva della Saraceni risale al 28 giugno 2007 e almeno su questo punto la ex br risulta in regola. In ogni caso non è facile comprendere come le sia stato possibile ottenere dai domiciliari un assegno che dovrebbe essere propedeutico alla ricerca di un impiego. Nei prossimi giorni dovranno darne spiegazione quel ministero del Lavoro (con cui collaborava D' Antona quando venne assassinato) che ha ideato la misura e l' Inps che eroga il sussidio. Di certo da agosto la cinquantenne romana ha acquisito il diritto a ricevere il reddito. La donna vive con la figlia maggiorenne in una strada residenziale vicino alla Nomentana, non distante dai quartieri di Montesacro e della Bufalotta. La storia della Saraceni è particolare. Ha sempre negato di aver fatto parte delle Br, ma ha solo ammesso di essersi avvicinata per poi scoprire che si trattava di una cosa più grande di lei. I giudici della Corte di Appello di Roma e della Cassazione, grazie alle informative dell' Antiterrorismo, hanno maturato parere opposto. La foto del brigatista Mario Galesi, ucciso il 2 marzo 2003 in un conflitto a fuoco con le forze dell' ordine sul treno Roma-Firenze, gli investigatori l' hanno trovata incorniciata e attaccata a una parete dell' appartamento che occupava al Collatino, nella periferia di Roma, in un palazzo popolare. L' ammirazione per Galesi la portò perfino a scrivere una lettera-necrologio sotto falso nome: «Non eri solo neppure nella tua scelta che in tanti abbiamo ritenuto coraggiosa e coerente. Hai dato la vita per sconfiggere l' ingiustizia di questo mondo. Grazie dolce Mario e onore a te». I giudici d' appello che il 24 ottobre 2006, ribaltando la decisione di primo grado, l' hanno condannata a 21 anni e 6 mesi (sentenza confermata dalla Cassazione nel 2007) l' hanno definito «un vero e proprio elogio funebre» del brigatista. E anche con Laura Proietti, maestra d' asilo proprio come lei, dissociata più che pentita, condannata a 20 anni grazie a sconti di pena per la collaborazione, intercorreva una buona amicizia. Tanto che la Proietti durante il processo cercò di scagionarla, sostenendo che parlassero di politica: «Discutevamo insieme dei Nuclei comunisti combattenti (la sigla che negli anni novanta traghetta l' antagonismo politico verso la lotta armata delle Br, ndr) verso i quali lei aveva mostrato interesse in un certo periodo, che non sono in grado di precisare con esattezza, ma certamente precedente alla decisione di ricorrere all' omicidio politico». I giudici, però, hanno in mano una scheda sim definita «blindata», ossia usata solo dai membri delle Br per comunicare tra loro. Con quella scheda Federica chiama sul posto di lavoro Daniele Bernardini, con cui era legata sentimentalmente, fa tre chiamate al papà, una a suo fratello e una alla società all' epoca amministrata dal suo amico Stefano Misiani, figlio di uno dei difensori della brigatista. Su quel numero veniva contattata dall' uomo che le affittò casa a Cerveteri da aprile a settembre 1999. Ergo, la scheda era sua. I giudici giungono a questa convinzione, che non viene scalfita neppure quando l' amica Proietti prova a dire: «Sono stata io a prestarle un cellulare di cui lei aveva bisogno per motivi personali. Non era un cellulare di organizzazione, ne sono certa, o almeno io non lo sapevo». Ma è il terzo gruppo di indizi che porta le toghe a definire le accuse come «concordanti e precise»: Saraceni era in possesso di una parte dell' archivio delle nuove Br. Prima di uccidere D' Antona, i rivoluzionari progettarono tre attentati e archiviarono le informazioni raccolte su un supporto digitale. Il cd rom che conteneva tutti i dettagli sui bersagli scelti (una sede della Cgil, una della Cisl e l' ufficio della Commissione di garanzia per lo sciopero), risultati di pedinamenti e sopralluoghi, compresi i motivi che portarono i brigatisti a rinunciare, era, coincidenza, a casa di Saraceni. Lei ha provato a negare. Ha detto che il dischetto le era stato dato dalla Proietti per darle la possibilità di rendersi conto, ai fini di un eventuale reclutamento, del tipo di attività che veniva svolta, ma quando aveva capito che erano cose più grandi di lei aveva desistito. Invece di restituirlo, però, lo conservò. E non le è bastato cancellare i file, perché i tecnici dei pm riuscirono a recuperarli. Per i giudici, quindi, l' imputata, visti i rapporti con Galesi e Proietti, non aveva bisogno di quel cd per capire quali fossero le attività dei gruppi eversivi. In più, da alcuni passi del documento si poteva desumere chiaramente che le attività d' inchiesta contenute nel cd rom erano state svolte da una donna (che in alcuni passaggi scriveva in prima persona e al femminile) e, in particolare, da una donna con problemi di vista (dato che fa espressa menzione della difficoltà di vedere da lontano): «Caratteristiche che si attagliano», spiegano i giudici, «perfettamente alla persona dell' imputata». Almeno in un caso, insomma, gli appostamenti sarebbero stati opera della Saraceni. È difficile immaginare, poi, che, a fini di reclutamento, un' organizzazione clandestina potesse fornire quella documentazione a un' estranea. «Il possesso di un documento operativo», sottolineano i giudici, «costituisce ulteriore indizio di partecipazione della Saraceni all' organizzazione». Il padre di Federica, Luigi Saraceni, ex toga rossa (è tra i fondatori della corrente di Magistratura democratica), dopo essere stato eletto in Parlamento nelle fila dei Democratici di sinistra e poi dei Verdi, è diventato avvocato (ha assistito, tra gli altri, Carlo De Benedetti e il leader curdo Abdullah Ocalan), in un libro autobiografico intitolato Un secolo e poco più prova a dare una spiegazione all' accaduto. Cerca di capire quanto sia coinvolta Federica in quella che definisce «una follia». Il suo è un flusso di coscienza: «Come sia potuto accadere, se è accaduto, che su mia figlia non abbiano funzionato gli anticorpi che costituiscono il patrimonio del mondo a cui ritengo di appartenere. Vediamo le carte. Mentre vado avanti nella lettura mi accorgo, con dolore, che con quel gruppo di dissennati, in qualche modo mia figlia ha avuto a che fare. Ma fino a che punto?». Saraceni ripassa a ritroso tutta la vita di sua figlia, «buona e cattiva, rabbiosa e generosa, spiritosa e indisponente, solidale ed egoista. Anche terrorista?». Papà Saraceni è sorpreso. Un po' meno stupito è apparso l' ex presidente della Camera Luciano Violante, che Magistratura democratica la lasciò dopo averla fondata per «l' insopportabile ambiguità» nei confronti del fenomeno terroristico. «Md era spaccata al suo interno», spiegò qualche anno dopo, «e c' era una componente movimentista, esagitata, che corrispondeva al cosiddetto gruppo romano e considerava il brigatismo rosso come una montatura a opera di apparati dello Stato. Questa fazione, anti Pci, faceva capo a Luigi Saraceni, padre di una terrorista». Durante la detenzione la brigatista ha chiesto al genitore di iscriverla alla facoltà di Scienze dell' educazione e della formazione. E lui, nel libro, si appunta una medaglia: «I risultati superano ogni aspettativa. Massimo dei voti e lode in entrambe le lauree, la triennale e la magistrale». Chissà cosa penserà ora di sua figlia, la brigatista laureata magna cum laude che, abbandonata la lotta armata, dai domiciliari, intasca il reddito di cittadinanza.
Giacomo Amadori e Fabio Amendolara per “la Verità” il 30 settembre 2019. Non c' è solo l' ex brigatista rossa Federica Saraceni tra coloro che volevano disarticolare lo Stato e oggi chiedono una mano a quello stesso Stato per tirare a campare. La Saraceni, come abbiamo scritto ieri, percepisce da agosto 623 euro di reddito di cittadinanza, sussidio richiesto a fine luglio. La donna però, è questa la particolarità, ha ottenuto l' assegno dagli arresti domiciliari, dove si trova per la condanna a 21 anni e sei mesi per associazione con finalità di terrorismo e per l' omicidio del giuslavorista Massimo D' Antona. Sul sito ufficiale del reddito di cittadinanza sono indicati i requisiti indispensabili per accedere alla misura. Qui si legge: «Il richiedente non deve poi essere sottoposto a misura cautelare personale, anche adottata a seguito di convalida dell' arresto o del fermo, nonché esser stato condannato in via definitiva, nei dieci anni precedenti la richiesta, per i delitti previsti dagli articoli 270 bis (associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell' ordine democratico, ndr), 280 (attentato per finalità terroristiche o di eversione, ndr), 289 bis (sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione, ndr), 416 bis (associazioni di tipo mafioso anche straniere, ndr), 416 ter (scambio elettorale politico-mafioso, ndr), 422 (strage, ndr) e 640 bis (truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, ndr) del codice penale, per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416 bis ovvero al fine di agevolare l' attività delle associazioni previste dallo stesso articolo». Chissà in quanti hanno chiesto e ottenuto l' assegno pur violando queste condizioni. Tra coloro che sognavano di colpire il cuore dello Stato per motivi ideologici e ora incassano il sussidio c' è anche il quarantaquattrenne foggiano Massimiliano Gaeta: percepisce 500 euro da agosto. Nel 2007 era stato arrestato, su richiesta della Procura di Milano, nella cosiddetta operazione Tramonto, come esponente del cosiddetto Partito comunista politico militare, considerato un' organizzazione terroristica dalla pm Ilda Boccassini, l' ala movimentista delle nuove Br. Ma nel 2012, come tutti i suoi compagni di lotta, è stato condannato a 5 anni e 3 mesi non per l' articolo 270 bis (uno degli articoli del codice penale che impedisce di ottenere il reddito): 4 anni gli sono toccati per aver partecipato alla banda armata (le pene per chi partecipa vanno da 3 a 9 anni, come previsto dall' articolo 306 del codice penale) e 6 mesi per la finalità eversiva (punita dall' articolo 270 del codice penale). Si è poi beccato anche sette mesi per l' accusa di detenzione di armi e munizioni e due mesi per ricettazione. Nelle motivazioni i giudici spiegarono che gli uomini del Pcpm avevano «una aberrante visione ideologica», non disdegnavano affatto «la violenza della guerra» e per questo stavano preparando «plurimi attentati». Ma anche se erano eversivi, stabilì la Cassazione, non erano terroristi. Perché agivano con metodo chirurgico, non accettando «il rischio di vittime collaterali». Insomma non volevano colpire «indiscriminatamente per suscitare terrore, panico ed insicurezza». Gaeta, ex operaio metalmeccanico (peraltro all' epoca era iscritto alla Fiom), era l' informatico del gruppo, si occupava della manutenzione delle armi e reperiva, secondo i giudici, «i mezzi utilizzati anche per le azioni di autofinanziamento»: un furgone, arnesi per lo scasso, materiale meccanico, elettronico e informatico. Era anche l' albergatore della banda: «Forniva nella propria abitazione», è scritto nella sentenza d' appello, «ospitalità agli altri membri del sodalizio». Con i pugni alzati pensavano di fare la rivoluzione anche in aula. Uno di loro si difese così durante il processo: «Noi abbiamo il coraggio di affrontare lo Stato mettendo in gioco la nostra vita, non come lo Stato che ha messo bombe». E che ora offre il reddito di cittadinanza. C' è infine il sessantaduenne romano Raimondo Etro, il quale da aprile incassa 780 euro di rdc, il massimo consentito dalla legge. È stato condannato per concorso nel sequestro di Aldo Moro e per l' omicidio del giudice Riccardo Palma a 20 anni e 6 mesi. Lo catturarono di ritorno da Bangkok nel 1994, quando aveva 37 anni. Agente pubblicitario, fotografo, commerciante di riviste e film hard core, ora non se la passa molto bene. Ma, in compenso, ha molto tempo da dedicare ai suoi tre profili Facebook. Il brigatista 2.0 la rivoluzione la fa con la tastiera del suo pc. Ce l' ha con tutti, di destra e di sinistra, compresi i suoi ex compagni br, come Barbara Balzerani. Si definisce antifascista, anticomunista e anticlericale.
Per lui Giorgia Meloni, che l' ha querelato, è «la nana coatta sgraziata fascista». Renzi? «Una latrina». Giachetti è un «pagliaccio». Formigoni e Vendola? «Meglio quando raccontano barzellette sporche, ma stiano lontani dalla politica». Ce l' ha con i gay e anche con gli omofobi. Sull' accoglienza, poi, è «completamente d' accordo con Papa Imbroglio: tutti in Vaticano». Il surriscaldamento del pianeta? «Sai che c' è, Greta? Ma vaff... a te, a tutti quelli che ti sfruttano e a quelli che credono agli asini che volano». In primavera aveva detto: «Se ci saranno proteste e il reddito di cittadinanza mi verrà ritirato, pazienza, non mi opporrò. Ho sempre considerato le pene che abbiamo avuto, io e tutti gli altri br, fin troppo miti. Io il 6 marzo scorso ho fatto domanda alle Poste perché sto affogando, sono un vero povero [] il reddito per me è una boccata d' ossigeno». Ieri ha condiviso lo scoop della Verità sulla Saraceni e ha condito il post a modo suo: «E Giorgia Meloni ebbe un attacco di bile».
Reddito di cittadinanza agli ex brigatisti: la Lega votò contro l’esclusione dei terroristi. Pubblicato martedì, 01 ottobre 2019 su Corriere.it. La scorsa primavera la Lega votò contro un emendamento di Forza Italia che escludeva il reddito di cittadinanza per le persone che hanno subito condanne per terrorismo. A pochi mesi di distanza da quel «no», Matteo Salvini, che ora protesta contro l’assegnazione dell’assegno di cittadinanza all’ex brigatista rossa Federica Saraceni condannata per l’omicidio del giuslavorista Massimo D’Antona, ha anche intimato ai suoi parlamentari di disertare le aule di Camera e Senato ma ieri i pochi del Carroccio presenti a Montecitorio (tra gli altri Molteni, Pagano e Paolini) hanno dovuto nascondere un profondo imbarazzo quando è intervenuto l’avvocato Pierantonio Zanettin di Forza Italia: «Voglio ricordare che in sede di approvazione del provvedimento sul reddito di cittadinanza avevo presentato un emendamento che escludeva l’assegno per quanti si fossero macchiati di reati gravi come quello di terrorismo....». L’emendamento Zanettin, che escludeva anche i condannati per terrorismo dal reddito di cittadinanza, fu bocciato in commissione Lavoro «dalla maggioranza in cui all’epoca facevano parte M5S e Lega», ricorda il deputato azzurro che è stato anche membro laico del Consiglio superiore della magistratura: «E dunque — aggiunge Zanettin — trovo incoerente che una forza politica, la Lega, che aveva votato contro quell’emendamento oggi faccia una così plateale contestazione a risultato di quella stessa votazione». L’emendamento Zanettin fu poi riproposto in aulama il governo giallo verde, chiedendo il voto di fiducia, blindò il testo. Un altro deputato di Forza Italia, l’avvocato Enrico Costa, ha rispolverato un verbale della commissione Giustizia in cui lui stesso aveva ammonito la Lega in sede di approvazione della legge sulla legittima difesa: «Si sta approvando un provvedimento che garantirebbe anche a chi commette ripetutamente furti all’interno di un’abitazione il reddito di cittadinanza». E «paradossalmente — aggiunse Costa quando venne approvato la legge «spazzacorrotti» — i soggetti che saranno condannati per reati contro la pubblica amministrazione non potranno ottenere l’affidamento in prova ai servizi sociali in quanto il reato da loro commesso è considerato infamante, ma potranno comunque beneficiare del reddito di cittadinanza». «Noi siamo il gruppo che è stato onorato di avere tra le sue file Olga Di Serio D’Antona, alla quale siamo vicini e con la quale siamo solidali», ha detto il capogruppo del Pd Graziano Delrio: «Ed è per questo che chiediamo che al più presto si verifichi e si modifichi, la norma, legandola - nel caso di detenuti per gravi reati - ad effettivo ravvedimento, ad effettiva collaborazione con lo Stato. Nessuno può ferire in alcun modo la sensibilità dei familiari delle vittime. Nessuno può premiare chi non si ravvede e collabora. Nessuno può mettere in discussione il principio del fine rieducativo della pena». «Prima del reddito di cittadinanza mia figlia percepiva il reddito d’inclusione. Dobbiamo mandarla a fare la prostituta o buttarla in una discarica? Mia figlia dice una cosa: datemi un lavoro e rinuncio al reddito di cittadinanza». A parlare, dopo le polemiche scaturite dalla notizia sul reddito di cittadinanza che la figlia percepisce, è il padre di Federica Saraceni, l’ex bierre condannata a 21 anni e mezzo di carcere per l’omicidio di Massimo D’Antona. Ex magistrato, ex deputato (Ds, Ulivo, verdi, Misto) e poi difensore della figlia, l’avvocato Luigi Saraceni ha attaccato al «destra becera e reazionaria» ma anche chi «sinistra si è accodato»: «Per esempio anche la ex ministra Madia, si accoda e dice che bisogna cancellare la legge, ma dimentica una cosa: mia figlia prima di percepire il reddito di cittadinanza percepiva il reddito d’inclusione, varato proprio dal Governo di cui faceva parte la Madia».
"È sconcertante: brigatisti assassini con l'obolo di Stato". L'ex ministro dell'Interno Enzo Scotti sul caso Saraceni: "Farebbero meglio a tacere". Stefano Zurlo, Mercoledì 02/10/2019, su Il Giornale. C'è una sproporzione che toglie il fiato. «Ripenso al mio amico Pino Amato - racconta Enzo Scotti - avevamo trascorso il sabato e la domenica insieme, il lunedì le Brigate Rosse lo uccisero mentre era in macchina come un cane. Oggi gli stessi terroristi di allora aprono la mano e chiedono un obolo allo Stato, come ha fatto Federica Saraceni. Un fatto davvero sconcertante». Anche perché si scopre che Lega e M5s votarono «no» a un emendamento di Forza Italia che avrebbe scongiurato questo oltraggio. Scotti, 86 anni ben portati, una carriera lunghissima prima nella Dc e poi nella Seconda repubblica, ha vissuto più di un momento drammatico nella guerra in prima linea all'eversione: era ministro del Lavoro quando fu rapito Moro e ministro dell'Interno quando Falcone saltò in aria.
Si aspettava dopo tutti questi lutti, i brigatisti in fila per avere il reddito di cittadinanza?
«Posso dire che con il sequestro e l'uccisione di Moro inizia il lento ma inesorabile declino del brigatismo. Ci sono voluti anni e molti morti ma quell'emergenza è stata superata, anche se io invito sempre a non sottovalutare un fenomeno che può sempre riemergere. Quel che viviamo adesso è solo la conseguenza di un lunghissimo processo di decadenza. Ma c'è di più».
Che cosa?
«Si può provare fastidio o ritenere non opportuna la concessione di un sussidio a chi imbracciava il piccone per distruggere lo Stato. Si può anche pensare che questi signori farebbero bene a tacere e a non avanzare domande, dopo tutto quello che è accaduto. Ma c'è un aspetto che tocca la sensibilità profonda della società che mi colpisce ancora di più: è il fatto che rimangono ancora molte ombre nella storia delle Br. In particolare il radicamento della formazione in un contesto internazionale determinato dagli accordi di Jalta e dalla divisione dell'Europa in due».
Gli ex della lotta armata sostengono di aver detto tutto. Non ci sono doppifondi.
«I dubbi restano».
Quali?
«Contatti insospettabili. Infiltrazioni. Rapporti inconfessabili. Voglio dire che quando un brigatista ritorna sotto i riflettori, io mi aspetto un contributo alla verità, non una richiesta di carità».
Che cosa ricorda della tragedia di Moro?
«Ero ministro del lavoro nel governo Andreotti, voluto dai big della Dc che avevano immaginato una persona duttile come il sottoscritto nel rapporto difficile con i sindacati. L'esecutivo di solidarietà nazionale era nato dopo un lungo parto e infiniti tentennamenti: Berlinguer si era spazientito, ma Moro l'aveva ammonito: Tu guidi, io devo tener conto di tutti. Bene, la linea della fermezza non fu mai messa in discussione, ma negli ultimi giorni c'era un clima di fiducia, di cauto ottimismo. La mattina in cui fu trovato il corpo di Moro, la direzione della Dc stava per riunirsi. C'era la sensazione, magari confusa, che qualcosa potesse maturare e invece tutto finì in quel modo orribile e i brigatisti non attesero nemmeno l'esito di quella riunione. Erano inflessibili, di una durezza disumana, oggi hanno perso ogni ritegno».
Nel 1980 viene ucciso Pino Amato.
«Era sulla mia macchina. Il mio autista, Ciro Esposito, si finse morto, poi sparò e colpì Bruno Seghetti che fu catturato con tutto il commando. Per l'epoca un risultato clamoroso. Posso dirle che Esposito, morto recentemente, ha passato gran parte della vita nascondendosi all'estero per paura di essere ucciso a sua volta. Questa è la storia terribile delle Br».
La sua esperienza al Viminale coincide con la fine dell'emergenza.
«Io fui travolto dalla lotta a Cosa nostra, ma le Br non erano completamente finite, come dimostrano i colpi di coda degli omicidi Biagi e D'Antona. Io mi trovai immerso in un mondo completamente cambiato. I problemi erano il 41 bis, i pentiti, le confische dei patrimoni messi insieme con la violenza e l'intimidazione. Ma c'era continuità nell'azione dello Stato, perché al ministero mi ero portato il prefetto Umberto Improta, uno degli artefici nel 1982 della liberazione del generale americano Dozier. Un successo delle istituzioni che mandò ko le Br. Restano quelle domande in sospeso, ma non credo avremo mai le risposte che ci spetterebbero».
Al brigatista rosso non basta il reddito di cittadinanza e insulta il Secolo d’Italia. Francesco Storace, lunedì 30 settembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Ecco, ci mancavano le nuove minacce di Raimondo Etro, brigatista rosso condannato a una ventina di anni di galera per concorso nel sequestro Moro. E’ bastata la pubblicazione di un nostro articolo contro la concessione del reddito di cittadinanza ad una banda che ha insanguinato l’Italia e lui insulta. E quando insultano tipi del genere c’è da temere qualcosa… “Che tristezza, poveretti. Siete penosi. Per farvi contenti rinuncerò al Reddito e andrò a fare una rapina così potrete infierire a ragione……miserabili”.
Reddito di cittadinanza o rapine, mai lavorare…Ovviamente verificheremo se davvero “rinuncerà” al reddito o vi sarà costretto da una norma che dovrà assolutamente modificare questa vergogna, ma c’è da fare una riflessione: per un ex brigatista rosso l’alternativa al reddito di cittadinanza sono le rapine, mai cercarsi un onesto lavoro. Evidentemente non è stato “rieducato” dal carcere…Costui fa anche la vittima su Facebook (già, perché al compagno Etro, Zuckerberg non cancella il profilo, può minacciare chi vuole) e commenta il nostro articolo in questa maniera: “Non dimenticate di indicare telefono, mail, indirizzo, abitudini e foto aggiornate….così da facilitare l’opera dei neosquadristi di Gioventù Nazionale, CaccaPound, Feccia Nuova e altre bande neonaziste. Le leggi razziali, di proscrizione e i rastrellamenti sono parte del vostro passato….”.
Lezioni di democrazia da un brigatista. In pratica, dobbiamo sentirci dare lezioni di democrazia da un terrorista, protagonista degli anni più bui della Repubblica. Attribuisce a questo giornale e ai giovani militanti di Fratelli d’Italia pratiche odiose per giustificare le sue. Ci chiediamo quale autorità debba intervenire di fronte a comportamenti, quelli di Etro, che ormai sono reiterati da mesi sui social. Compresa Giorgia Meloni, dipinta in maniera vergognosa e senza che nessun esponente politico abbia espresso solidarietà alla presidente di Fdi. Forse certi politici restano fermi agli anni delle “sedicenti Brigate Rosse”. Ma costui continua ancora a seminare odio, per ora solo verbale. E’ normale?
Da “la Zanzara - Radio 24” l'1 ottobre 2019. “Il reddito di cittadinanza? E quindi? Non capisco quale sia il problema”. I parenti delle vittime del terrorismo sono arrabbiati: “Per me possono incazzarsi quanto vogliono, ma se uno ha diritto, ha diritto”. Così Raimondo Etro, ex brigatista, condannato tra le altre cose per l’omicidio di Aldo Moro, a La Zanzara su Radio 24, sul caso del reddito di cittadinanza concesso anche agli ex terroristi. “Prendo 780 euro – dice Etro – e senza questi soldi non riuscirei a vivere, altrimenti non l’avrei chiesto”. Non ti senti a disagio a prendere soldi dallo Stato che hai combattuto?: “E’ una domanda retorica del cazzo. Che differenza c’è tra l’assegno sociale ed il reddito di cittadinanza? Allora vi faccio una domanda, dovevo fare le rapine? Ditemelo voi. Rinuncio al reddito di cittadinanza e mi metto a fare le rapine? Non rompetemi le palle". Si può anche lavorare nel privato: “E chi te lo dà un lavoro?”. La vedova D’Antona dice che è una vergogna: “Questo è un problema loro. Io sinceramente non ho mai avuto rapporti coi familiari delle vittime”. Ma non è uno scandalo che uno che ha combattuto lo Stato prenda ora soldi dallo stesso Stato?: “Allora scandalizzatevi. Non capisco qual è il problema. Allora rinuncio al reddito di cittadinanza e mi metto a fare le rapine. Va bene? Così siete più contenti”. Ma l’alternativa non sono le rapine: “Tu forse non hai presente cosa voglia dire essere un ex carcerato. Io non ho rapporti con gli ex compagni, quindi non ho potuto avere alcun beneficio dagli ex compagni perché con loro ho chiuso. Chi mi dà lavoro?”. Ci sono tanti ex carcerati che lavorano tranquillamente, dicono i conduttori: “Mi stai rompendo il cazzo per avere un pochino di visibilità. Non so neanche chi cazzo sei. Non me ne frega un cazzo. Mi hai cercato tu. Leggi l’attualità di ex brigatisti prendono il reddito di cittadinanza? Bravo, complimenti. Scrivi quel cazzo ti pare, che cazzo mi chiami? Cosa vuoi? Vuoi capire come mi sento di fronte a queste polemiche? Ma sono cazzi miei. Come cazzo ti senti tu a rompere i coglioni alla gente. E’ il tuo mestiere? Appunto, vendi il culo”. Almeno non ho contribuito all’omicidio di persone: “Sei uno stronzo. Ricordati che mi hai cercato tu…. Ma chi cazzo ti si incula, mi hai cercato tu”. Calmiamoci…: “No, calmiamoci stocazzo. Voglio sapere che cazzo vuoi da me. Mi hai posto la domanda se mi sento a disagio col reddito di cittadinanza? Ti ho detto di no. Non mi sento a disagio, va bene? Mi sento più a disagio a parlare con te….Mi hai chiamato tu con numero anonimo, pezzo di merda. Schifoso….”. Ma prendi uno stipendio quasi come un operaio e non provi vergogna?: “Ma che cazzo vuoi?”. Ma non ti frega niente dei parenti delle vittime?: “Ooooooooh, è uno scandalo. Tu vendi il culo. Auguri. Protesta. Fai una petizione. Tu mi chiami per rompermi il cazzo”. Perché non rinunci al reddito?: “Perché dovrei rinunciare?”.
Fulvio Abbate per il 3 ottobre 2019 su Huffingtonpost. La persistenza dell’ex brigatista. Il pervicace terrorista “rosso” votato, un tempo, a colpire il “cuore dello Stato”. Prosaicamente parlando, in ciò che Pasolini definisce la Dopostoria, il già facente parte del cosiddetto “partito armato”, già talvolta lettore delle pagine di Nanni Balestrini, scrittore cui si devono i romanzi-manifesto “Vogliamo tutto” e “La violenza illustrata”, il figlio di una “generazione di insorti”, sembra ormai naturale immaginarlo, nel migliore dei casi, titolare-assegnatario di un portierato, possibilmente in luogo periferico. Ed eccolo lì, ormai emendato dagli antichi crimini, fisso nella guardiola, come già un Cesare Battisti nei giorni del soggiorno parigino. Pronto a porgere la posta ai condomini, ora al dottor Marcello ora alla signora Maricla, ora a far capannello con chi consegni i volantini pubblicitari e le Pagine Bianche. Amichevole con gli inquilini che, appunto, nel momento del rientro scuotono la testa constatando l’ennesimo plico giunto: “… ancora dall’Agenzia delle Entrate?” Risposta dell’ex: “Temo di sì, dottore.” Tra grazie e buongiorno d’esilio. Vanno idealmente immaginati proprio nell’antro della portineria, gli ex terroristi rossi, il calendario della parafarmacia a far da sfondo in luogo della bandiera con la stella a cinque punte. Nel cassetto, magari, i libri pubblicati dalle edizioni DeriveApprodi, così, per leggere e ricordare un po’ i tempi andati, poi l’occhio al sito Carmilla, per tenere in esercizio lo spirito irriducibile, meglio, antagonistico. Questo e poco altro. Stupisce quindi, nonostante i segni evidentissimi della Caduta, trovarsi a prendere visione delle energie vitali residue di un Raimondo Etro, brigatista sconfitto, che ebbe modo di partecipare all’organizzazione del sequestro Aldo Moro, lo stesso signore che non molte settimane addietro ha apostrofato, sui social, Giorgia Meloni con frasi degne della peggiore grevità da bar-tabacchi - “Nana coatta sgraziata fascia”. Sempre restando su Etro, si scopre ora che questi risulta in procinto di fruire del reddito di cittadinanza. Lui: “Io il 6 marzo scorso ho fatto domanda alle Poste perché sto affogando, sono un vero povero”. Parola di 62enne, condannato nel 1999 a 20 anni e 6 mesi di carcere per la strage di via Fani, il rapimento di Aldo Moro e l’uccisione del giudice Palma. Ancora lui: “Dopo aver detto tante cattiverie contro Di Maio e i 5 Stelle, per me è una boccata di ossigeno”. E ancora: “La mia vita l’ho buttata al vento, facendo però pagare il prezzo ad altri che non c’entravano niente. Perciò, se ci saranno proteste e il reddito di cittadinanza mi verrà ritirato, pazienza, non mi opporrò”. Sentito bene? Non si opporrà, parola sua. Stupisce infine la vis polemica dal medesimo Etro montata, sempre nei giorni scorsi, in diretta con Giuseppe Cruciani su Radio24. Ne riportiamo un ampio, esemplare, stralcio: “Prendo 780 euro e senza questi soldi non riuscirei a vivere, altrimenti non l’avrei chiesto”. Cruciani: Non ti senti a disagio a prendere soldi dallo Stato che hai combattuto? Etro: “È una domanda retorica del cazzo. Che differenza c’è tra l’assegno sociale ed il reddito di cittadinanza? Allora vi faccio una domanda, rinuncio al reddito di cittadinanza e mi metto a fare le rapine? Non rompetemi le palle”. C.: Si può anche lavorare nel privato. E.: “E chi te lo dà un lavoro?” C.: La vedova D’Antona dice che è una vergogna. E.: “Questo è un problema loro. Io sinceramente non ho mai avuto rapporti coi familiari delle vittime”. C.: Ma non è uno scandalo che uno che ha combattuto lo Stato prenda ora soldi dallo stesso Stato? C.: Io almeno non ho contribuito all’omicidio di persone. E.: “Sei uno stronzo. Ricordati che mi hai cercato tu…. Ma chi cazzo ti si incula, mi hai cercato tu”. C.: Calmiamoci… E.: “No, calmiamoci ’stocazzo. Voglio sapere che cazzo vuoi da me. Mi hai posto la domanda se mi sento a disagio col reddito di cittadinanza? Ti ho detto di no. Non mi sento a disagio, va bene? Mi sento più a disagio a parlare con te…” C.: Ma non ti frega niente dei parenti delle vittime? Perché non rinunci al reddito? E.: “Perché dovrei rinunciare?” sic. Ecco, su questo zampillio di cortesie ospitali, dove c’è perfino modo di ravvisare la rocciosa intransigenza di chi ritenga di avere combattuto per ragioni addirittura palingenetiche lo Stato Imperialista delle Multinazionali (il paradigmatico S.I.M.) fino a colpirlo, in dissolvenza incrociata sembra quasi di veder scorrere le immagini della cronaca criminale dei cosiddetti, “anni di piombo”. Dal cadavere di Mara Cagol sul prato di cascina Spiotta alle immagini di via Mario Fani, dalla polaroid di Aldo Moro nella “prigione del popolo” ai pugni chiusi dei brigatisti orgogliosi dei propri baffi leninisti a favore dei fotografi, le “compagne” non meno determinate, così uscendo dalle gabbie dei tribunali, e molto altro ancora; ogni cosa adesso incoronata da un “vaffanculo” e un rionale “machittesencula?”, materiali linguistici assai più riconducibili al mondo delle “più belle frasi di Osho” che non ai comunicati sormontati dal simbolo della stella a cinque punte, il testo battuto a macchina con testina rotante, evocata perfino da un’ormai remota sigla del Tg3 musicata da Brian Eno. Amen. Un passo appena e, lasciato Etro alle sue passioni tristi, troviamo il caso analogo di Federica Saraceni, anche lei brigatista, tuttavia dell’ultima ondata, la più paradossale, dissennata, politicamente inconcepibile. Condannata a 21 anni e mezzo di carcere per l’omicidio di Massimo D’Antona e attualmente ai domiciliari, anche lei starebbe ricevendo in questi mesi il reddito di cittadinanza. “Ho provato un grande senso di ingiustizia. Non sempre quello che è legale è giusto”, dichiara Olga D’Antona, vedova del giurista assassinato, appunto, dalle Nuove Brigate Rosse il 20 maggio 1999. E qui, nel teatro della già menzionata Dopostoria, c’è perfino modo di imbattersi nell’ala protettiva paterna. Spiega infatti Luigi Saraceni, magistrato, tra i fondatori di Magistratura democratica: “Prima del reddito di cittadinanza mia figlia percepiva il reddito d’inclusione. Dobbiamo mandarla a fare la prostituta o buttarla in una discarica?”. Nell’attesa che l’insieme dei casi smetta d’essere “oggetto di verifica da parte dei competenti uffici del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali di concerto con il Ministero della Giustizia e l’Inps, al fine di accertare l’eventuale presenza di anomalie”, come precisano dal Ministero del Lavoro, lessico burocratico che si specchia nel suo doppio insurrezionalista. Resta a tutti noi, oltre la memoria cosciente del dato criminale pregresso dei singoli e d’ogni riflessione sulla stagione del terrorismo, una sensazione di supponente mestizia, dove la metafora assai concreta dell’epilogo della portineria sembra inquadrare uno spettacolo di rottami subculturali, difficili perfino da restituire, da ricontestualizzare, sembra davvero che alla fine la storia del terrorismo si riduca a una questione privata: le famiglie delle vittime, le famiglie dei carnefici, risibile perfino il ricordo che qualcuno potesse prendere sul serio “Stato e rivoluzione” di Lenin o i manuali di guerriglia in vendita nelle librerie Feltrinelli degli anni Settanta. Tristezza da centro sociale occupato con canna fumaria abusiva. Senza bisogno di citare “Le mani sporche” di Sartre, ci pensi se uno di questi, giunto al compimento dell’ “assalto al cielo”, avesse mai preso possesso perfino della portineria del Viminale?
L'ex terrorista con licenza di minaccia. Enrico Galmozzi, fondatore di Prima Linea e condannato per duplice omicidio, ha minacciato su facebook Matteo Salvini. E non è la prima volta. Simone Di Meo il 2 ottobre 2019 su Panorama. Nel Paese in cui un cinguettio social e il furto di una mela sono sufficienti per finire sotto processo, uno dei più pericolosi terroristi degli «anni di piombo» si salva da un’inchiesta per istigazione a delinquere perché la Procura ha fatto scadere i termini di indagine. È paradossale ma significativa la storia di Enrico Galmozzi, terrorista, fondatore e killer di Prima Linea, l’organizzazione eversiva di matrice marxista seconda solo alle Brigate Rosse per operatività e numero di affiliati. Condannato a 27 anni di carcere per duplice omicidio (evitò l’ergastolo perché considerato «non irriducibile») oggi vive in un Comune di 1.300 anime, in provincia di Reggio Calabria. Nel febbraio 2018, Galmozzi pubblica su Facebook una lunga sequenza di post che evocano la lotta armata. Scrive, a proposito della nascita di Prima Linea, che «un giorno ci siamo rotti il cazzo di farci caricare e abbiamo incominciato a caricare loro... poi erano troppi, mica si poteva vincere e nemmeno mai lo abbiamo pensato, ma per un tempo, che vale tutta la vita, è stato bello». Non pago, si fa immortalare in una foto davanti a un battaglione della polizia in assetto antisommossa e aggiunge questa didascalia: «Gli stavo dicendo “baciatemi il culo”». Sotto la storica immagine di Paolo e Daddo, i due studenti armati protagonisti degli scontri con le forze dell’ordine durante la marcia antifascista all’università La Sapienza di Roma, rievoca: «2 febbraio 1977 - perché ci vuole il cuore. Il cuore, soprattutto». E il cuore (e il coraggio) ce li mette anche Potito Perruggini, un uomo a cui Galmozzi ha segnato la vita pur non avendolo mai incontrato direttamente. Perruggini è il nipote di Giuseppe Ciotta, il brigadiere che il terrorista uccide a sangue freddo il 12 marzo 1977. Ciotta era uno degli investigatori migliori del primo pool antiterrorismo di Carlo Alberto Dalla Chiesa ed era stato l’autore del ritrovamento di alcuni importanti documenti sulle Br in Piemonte. Nel marzo 2018, Perruggini si imbatte nel profilo social di Galmozzi e decide di denunciarlo alla polizia postale. All’esposto allega le riproduzioni delle rivendicazioni dell’ex terrorista e aggiunge pure le foto delle pistole che campeggiano sulla sua pagina personale. Galmozzi viene compiutamente identificato dagli inquirenti e iscritto a modello 21 (ovvero persone note) nel fascicolo 2768/18 per il reato previsto dall’articolo 414 del codice penale: istigazione a delinquere. La data di iscrizione di Galmozzi, nei documenti che Panorama ha potuto visionare, è però incerta: nella richiesta di archiviazione del pm al gip è indicato il 31 maggio 2018; nell’avviso alla parte offesa è riportato invece il 21 dicembre 2018. La Procura di Locri, in ogni caso, lascia scorrere i mesi senza attivare le investigazioni necessarie. Ed è proprio il pubblico ministero, cui è stato assegnato il procedimento, ad ammetterlo. Lo fa in una comunicazione al giudice delle indagini preliminari il giorno dopo la Befana del 2019. «Rilevato che, per causa della complessiva mole di lavoro che incombe sull’ufficio, non è stato possibile esperire gli accertamenti tecnici che la vicenda imporrebbe e, in particolare, un più ampio monitoraggio della messaggistica riferibile al Galmozzi nonché un ampio monitoraggio delle conversazioni dallo stesso intrattenute via filo...». Il pubblico ministero aggiunge: «Pur apparendo la vicenda da un canto meritevole e dall’altro suscettibile di approfondimento, ogni ulteriore determinazione è impedita dal tempo trascorso». A oggi, l’udienza del gip non è stata ancora fissata. Galmozzi è salvo, e non dovrà rispondere di quanto affermato. Non che l’inchiesta lo preoccupasse più di tanto considerato che, nel luglio scorso, ha continuato a usare i social network per minacciare pubblicamente l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini. «Giù la testa coglione, non fare il cinema che ti va di culo: una volta invece di spedirli li consegnavamo di persona...» ha scritto l’ex terrorista a proposito della pallottola indirizzata al leader leghista in quei giorni. Quarantott’ore prima, sempre il killer di Prima Linea aveva pubblicato una foto di profilo dell’ex vicepremier al mare: «Salvini mostra i muscoli... (datemelo in mano cinque minuti)». Nonostante la richiesta di archiviazione incombente, Perruggini non si arrende. E a Panorama spiega: «Invito Enrico Galmozzi a un incontro pubblico, anche presso il vostro giornale, per raccontare finalmente la verità. Come diceva George Orwell “in tempi di menzogna universale dire la verità è un atto rivoluzionario”. E io mi aspetto che qualcuno dei protagonisti dell’epoca faccia davvero il rivoluzionario raccogliendo il coraggio di parlare prima che sia troppo tardi. Chissà di quali terribili segreti sono depositari se ancora oggi molti terroristi continuano a essere palesemente protetti sia in Italia sia all’estero, per esempio la Francia».
· Vite di "Brigatiste Rosse".
Vite di "Brigatiste Rosse". Barbara Balzerani evoca la lotta armata scrivendo libri. Nadia Lioce in carcere non l'ha mai rinnegata. Giorgio Sturlese Tosi il 22 maggio 2019 su Panorama. «Giornalisti di merda, lasciateli fuori e chiudete la porta». Saluta così i cronisti Barbara Balzerani, l’ex brigatista rossa, invitata a Milano il 18 aprile scorso per presentare il suo ultimo libro, il sesto, L’ho sempre saputo, assieme a un adorante Davide Steccanella, l’avvocato di Cesare Battisti. Una bottiglia di prosecco, un po’ di aranciata, poco pubblico ma molti giornalisti, attirati dalla polemica sull’opportunità di ospitare l’ex terrorista nella sede di un’associazione, il cui fondo è di proprietà del Comune di Milano. Sfugge le telecamere e i microfoni e autografa copie del libro, vergando con una penna nera: «Buona lettura, Barbara». A circa 700 chilometri di distanza, nel carcere dell’Aquila, l’epigona delle «nuove» Brigate Rosse Nadia Desdemona Lioce strappa il bordo di una maglietta lisa per farci un laccetto porta occhiali e, in disparte e sorvegliata a vista, mentre attende che gli agenti del Gom, il nucleo speciale della polizia penitenziaria, effettuino la settimanale perquisizione della sua cella, conta quante settimane mancano al suo prossimo incontro con i familiari. Un colloquio di un’ora al mese. Il 20 maggio prossimo ricorrerà il ventesimo anniversario della morte del professor Massimo D’Antona, consulente del ministro del Lavoro Antonio Bassolino nel governo D’Alema, ucciso in via Salaria, a Roma, dalle Brigate Rosse-Partito comunista combattente di Nadia Lioce. Per la ricorrenza l’Università La Sapienza, dove D’Antona insegnava, gli intitolerà un’aula. Nello stesso corridoio e a pochi metri di distanza da quelle già dedicate ad altre due vittime del terrorismo rosso, Vittorio Bachelet, ucciso proprio nella sua facoltà, e Aldo Moro. In quel corridoio si incrociano anche i destini di due donne che hanno percorso un identico cammino di sangue. Due vite parallele, vissute su piani sovrapponibili eppure diversi, dove la variabile temporale ha portato a destini contrapposti. Barbara Balzerani ha fatto parte del commando che in via Fani, a Roma, il 16 marzo 1978, rapì Aldo Moro e uccise la sua scorta. Votò, nel direttivo delle Br, per l’omicidio dello statista democristiano e, quando la repressione dello Stato colpì duramente la sua organizzazione, divenne la primula rossa del terrorismo. Dalla Toscana formò e guidò le Nuove brigate rosse-Partito comunista combattente, in contrapposizione alla fazione Brigate rosse partito della guerriglia, capitanata da Giovanni Senzani. Latitante per anni, la Balzerani fu arrestata nel 1985 e condannata all’ergastolo. Dopo vent’anni di carcere ha ottenuto la semilibertà e dal 2011 è una cittadina libera. Oggi è una scrittrice apprezzata dalla critica. Come tanti suoi ex compagni brigatisti è diventata un modello di presunta coerenza a certi ideali mai sconfessati e tutt’ora ribaditi nelle sempre più numerose apparizioni pubbliche. Dice di non voler parlare degli anni di piombo la Balzerani, nelle sue frequenti uscite pubbliche. Ma poi, inevitabilmente, dall’analisi dei suoi romanzi, si passa a celebrarli, quegli anni. Perché questo vogliono coloro che affollano le sue presentazioni. Come accadde l’anno scorso, nel quarantennale del sequestro Moro, quando in un affollato centro sociale fiorentino ebbe a dire: «C’è una figura, la vittima, che è diventato un mestiere; questa figura stramba per cui la vittima ha il monopolio della parola. Io non dico che non abbiano diritto a dire la loro, figuriamoci. Ma non ce l’hai solo te il diritto, non è che la storia la puoi fare soltanto te». Mai ufficialmente dissociata né pentita, Barbara Balzerani ha appena concluso una vera e propria tournée europea, con tappe a Berlino e Amburgo. Incontri gremiti, dove l’ex brigatista incontra (ritrova?) i vecchi amici della Raf, la Rote Armee Fraktion, organizzazione terroristica di estrema sinistra tedesca. Con loro compie, e pubblicizza, anche un tour della memoria sulle tombe dei «compagni caduti», tra i quali la sua omologa Ulrike Meinhof, fondatrice della Banda Baader-Meinhof. Anche Nadia Lioce, quando uccise per la prima volta, in via Salaria, nel 1999, si ispirava alla Balzerani. Le aveva copiato la sigla: Br-Pcc. Riteneva di averne ereditato il ruolo di avanguardia nella lotta armata. Due guerrigliere, due leader, due intransigenti. Tra loro una continuità oggettiva. Ma la Lioce ha vissuto in un’altra epoca e non ha beneficiato di quel clima storico che ha trasformato, per alcuni, i suoi modelli in eroi. Nadia Lioce, arrestata nel 2003 dopo il conflitto a fuoco sul treno in cui perse la vita il sovrintendente di polizia Emanuele Petri, e il terrorista Mario Galesi, condannata anche per l’omicidio del giuslavorista Marco Biagi, da allora vive, unica donna detenuta «politica», in isolamento in regime di 41 bis, il carcere duro. Ogni due anni il 41 bis le viene prorogato, così come ai suoi «compagni» Marco Mezzasalma e Roberto Morandi, nonostante sempre più spesso venga messa in discussione la legittimità di un trattamento carcerario che, nel suo principio ispiratore, aveva la funzione di recidere ogni possibile contatto con l’associazione criminale di appartenenza. La Lioce può vedere i familiari, attraverso un vetro alto fino al soffitto, un’ora al mese, appunto. Non può avere compagnia durante l’ora d’aria. Lamenta di poter tenere in cella solo tre libri per volta e di non poterne acquistare a suo piacimento. Stesse limitazioni per i giornali e i periodici. Il padre, novantenne, riesce a farle visita ogni due mesi. Gli avvocati sono autorizzati a vederla due ore al mese. Per telefonarle devono prendere un appuntamento con la direzione del carcere e recarsi al penitenziario romano di Rebibbia per usare una linea diretta. Un annientamento del prigioniero, secondo chi parla di violazione di diritti umani, che non è necessario perché l’associazione terroristica di cui la Lioce faceva parte non esiste più. Esigenze di sicurezza, invece, per chi teme «l’indottrinamento di nuove leve». A settembre il 41 bis della Lioce scadrà e le sarà probabilmente prorogato. A deciderlo non sarà un decreto di un magistrato, ma il ministro della Giustizia, perché così prevede la legge sull’ordinamento penitenziario. Nelle relazioni dei servizi segreti al Parlamento l’allarme per il pericolo del ritorno a un terrorismo rosso negli anni è via via scomparso. Nell’ultima relazione, del febbraio 2019, su 124 pagine, trova spazio in sole 17 righe. Nelle quali si legge che: «Il tema forte è sempre quello della solidarietà ai “prigionieri politici” che ha animato iniziative contro il “carcere duro”, quali i presidi presso il tribunale dell’Aquila in occasione di scadenze processuali a carico di Nadia Desdemona Lioce». Se gli ammiratori di Barbara Balzerani la acclamano come scrittrice e come simbolo, e condividono e moltiplicano sui social network le sue memorie brigatiste, accompagnate da pugni chiusi e stelle rosse - e nessuno trova da obiettare - i sostenitori della Lioce sono invece quelli che la condannano di due anni in due anni al carcere duro. Lo hanno fatto quando hanno affisso in alcune città volantini di sostengo e quando hanno manifestato rumorosamente nelle udienze di un processo per infrazioni al regolamento carcerario, in cui la Lioce è stata poi assolta. Esternazioni che per gli analisti dell’antiterrorismo e quindi per il tribunale di sorveglianza sono ancora motivo di preoccupazione per il possibile proselitismo. Due donne, due brigatiste, due vite parallele quindi, ma opposte.
· Walter Tobagi e l’ex operaia siciliana.
Walter Tobagi e l’ex operaia siciliana. Ottobre 1978, «Storia di una donna (licenziata) che faceva panettoni». Pubblicato mercoledì, 05 giugno 2019 da Walter Tobagi su Corriere.it. Assassinato a Milano il 28 maggio 1980 dal gruppo terroristico di estrema sinistra Brigata XVIII Marzo, Walter Tobagi ha scritto per il Corriere della Sera dal settembre 1974 al giorno della morte. Era nato a Spoleto il 18 marzo 1947. Quando morì aveva 33 anni , Vi proponiamo qui uno dei suoi articoli a tema sindacale, pubblicato sul Corriere il 9 ottobre 1978. «Per tre anni, andavo tutte le mattine all’ufficio di collocamento. Il pullman da Cinisello a Milano, poi l’autobus, poi la fila, aspettare tutta la mattina, poi tornare a casa. Alla Motta mi prendevano a periodi, quando c’erano le campagne: a Natale i panettoni, a Pasqua le colombe, l’estate i gelati. Era un sacrificio, ma io ero contenta anche cosi. Nel ‘73 mi passarono fissa: fecero tutto loro. E adesso mi ritrovo qua senza un posto. M’hanno detto che ero esuberante, io non sapevo nemmeno che vuol dire quella parola». La storia di Filippa, ex operaia dell’Unidal esclusa dalla fabbrica con la qualifica di “esuberante”, comincia da questo racconto. Abita a Cinisello, una vecchia casa riaggiustata. Ha quarantasette anni, cinque figli e quattro nipoti. È arrivata a Milano nel 1969 da Mazzarino, provincia di Caltanissetta. Al paese il marito lavorava a giornata, un po’ nei campi, un po’ con la forestale. «È andata cosi», racconta Filippa: «Cinque figli e uno solo che lavorava, non si poteva andare avanti. Gli ho detto: marito mio, a Milano lavoro anch’io, andrà meglio». Ma l’arrivo a Milano è già un problema: i compaesani li hanno avvertiti che con cinque figli non si trova neppure la casa da affittare: «Allora — racconta Filippa — siamo rimasti finché non abbiamo trovato casa». Un appartamento ultrapopolare, camera e cucina, 18 mila lire al mese. E in quell’alloggio, la famiglia è vissuta fino all’anno scorso. «A forza di risparmiare, niente lussi e niente divertimenti, siamo riusciti a comprarci una casetta. C’è una stanza in più». Otto milioni in parte ancora da pagare. «Il giorno che sono andata a fare il compromesso dal notaio, c’era un’altra operaia dell’Unidal che diceva: io non capisco come fanno, con cinque figli, a comprarsi la casa. E allora io mi sono messa a parlare a voce alta, e dicevo: niente lussi, trucchi non ne compro, mio marito ha un motorino usato, niente divertimenti, a mangiare fuori non ci andiamo. Alla siciliana, noi la pensiamo cosi: basta coprirci la testa, poi in qualche modo si fa». Al cinema sono andata una sola volta, c’era Alberto Sordi che stava dalla madre vecchia e voleva metterla in convento». E adesso, come vive, che cosa fa, cosa vuole un’ “esuberante” dell’Unidal? La signora Filippa racconta le sue giornate: si sveglia presto; cerca di aiutare le tre figlie sposate; accudisce al marito che lavora in una cartiera ma ha subito un’operazione di ernia al disco, e quindi spera nella pensione; un paio di giorni la settimana viene a Milano, assiste alle riunioni che il «comitato di lotta» organizza in due vecchie e malmesse stanze di via Cadore. E intanto inghiotte rabbia. Rabbia contro tutti. Ha presentato sei domande di lavoro, e snocciola i nomi delle aziende (Breda, Alitalia, Gs, Dalmine, Siemens, Innocenti) come una suora reciterebbe il rosario. «Finora — si lamenta — m’ha risposto la Breda. La fabbrica mi piaceva, è vicina a Cinisello. Ma come posso mettermi a fare la saldatrice perfino coi turni di notte?». Le viene quasi da piangere. Impreca: «Devono dirci che siamo vigliacche se rifiutiamo un lavoro come quello che facevamo, possibile che non ci sono altre fabbriche di alimentari? A me non importa niente della cassa integrazione, voglio lavorare». Si sente tutto l’attaccamento alla fabbrica, di chi ci è arrivato tardi e ha vissuto il posto di lavoro come una conquista umana e sociale. «Non mi sembrava vero, quando sono entrata alla Motta. Il primo giorno, mi sentivo cieca, tutta una confusione in testa. M’avevano mandata al reparto 35 di viale Corsica, dovevo sistemare la scatole, e io mi confondevo. Madonna santa, che impressione! Per fortuna, grazie a Dio ce l’ho fatta a superare la prova!». Assunzione vuol dire uno stipendio sicuro di quasi centomila lire: supererà le 300 mila soltanto nell’ultimo anno. «Facevo di tutto, non dicevo di no. È per questo che adesso mi trovo male. Ci hanno trattato come gli asini, prima faticare e poi cacciate via. Che devo fare alla mia età? Chi mi prenderà?». Si domanda da sola: «Perché non vado a fare i mestieri in qualche casa? Non è per superbia, è che non ce la faccio». E l’accusa di essersi messa con gli “estremisti” che vanno contro i sindacati? «La nostra colpa è stata quella di dire sì. Io andavo a lavorare anche con la febbre. E sa perché lo facevo? Perché volevo avere qualche giorno di riserva se capitava che un figlio s’ammalava. Io lavoravo, non mi curavo della fatica, m’era venuta anche un’allergia al braccio per gli impasti di zucchero, ma andavo sempre. Poi è successo il patatrac, e ho capito che i prepotenti vanno avanti». E qui sfoga la rabbia contro i sindacati, che si traduce nell’avversione più profonda contro alcune persone fisiche. «Andavo alle assemblee, non capivo bene quello che dicevano. Ma adesso ho capito che ci illudevano. Che cos’è successo? Che quelli del sindacato, il posto se lo sono tenuto. Loro e le loro mogli, mentre noi poverette ci hanno mandato fuori». È quasi un’invettiva, ricorrono nomi (come Memi e Braglia) del consiglio di fabbrica dell’Unidal. «Sa cos’è successo? Che Braglia è entrato come operaio alla Sidalm (la ditta costituita dopo lo scioglimento dell’Unidal; ndr ), nonostante all’Unidal fosse impiegato. Ma dopo quindici giorni gli hanno ridato la vestaglia, è ridiventato impiegato». E ancora: «Con che giustizia hanno mandato via me che ho ancora due figli da tirar su e un marito quasi invalido civile, e hanno tenuto il posto a marito e moglie senza figli, come è successo per un capo del consiglio di fabbrica?». E poi: «Dicono che ci siamo messe con gli estremisti? Prima eravamo buone, e ci lasciavamo la pelle. Adesso solo gli estremisti si occupano di noi...».
La signora Filippa viveva a Cinisello Balsamo. Sono sfoghi personali, «se ritrovo un lavoro, al sindacato non mi iscrivo più», di chi non riesce a spiegarsi perché s’è trovata, proprio lei, in questo guaio. «Dopo otto anni, m’ero abituata: stavo più in fabbrica che a casa. Facevo il secondo turno, quello che comincia alle due e finisce alle dieci di sera. Ma per gli orari del pullman stavo fuori dodici ore, da mezzogiorno fin quasi a mezzanotte. È fatica, ma io sto meglio quando lavoro, i miei figli si arrangiano. È brutto ritrovarsi senza un posto». Però lo stipendio arriva quasi intero, grazie alla cassa integrazione... «Ma io non voglio elemosine, voglio lavorare. La mattina che dissero “non c’è più lavoro”, mi sono sentita male. Era appena passato Natale, l’anno scorso. Sono rimasta anch’io in fabbrica, perfino la notte di Capodanno: dovevo andare da una figlia sposata, però non mi sembrava giusto lasciare gli altri compagni di lavoro. Quando occupavamo la fabbrica, entravamo alle due e uscivamo alle dieci come se dovessimo lavorare. Finché una mattina di maggio abbiamo trovato la polizia che non ci ha fatte entrare». Si è spaventata? «No, paura no. Però pensavo: come faremo adesso senza lavoro?». Si passa la mano destra sui capelli ingrigiti e un po’ ispidi: da quanto tempo non va dal parrucchiere? «Ero abituata due volte l’anno, a Natale e Pasqua. Altrimenti come risparmiavamo i soldi per la casa e per sposare tre figlie? Neanche in Sicilia tornavamo l’estate: siamo andati due volte in tanti anni che siamo a Milano». Smette di parlare, sull’uscio della vecchia casa senza telefono né ascensore, in una “corte” costruita sessant’anni fa. E con un sorriso mesto e preoccupato, saluta: «Lei che dice, me lo ridaranno un lavoro?».
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA. (Ho scritto un saggio dedicato)
· «Formidabili un cacchio quegli anni».
Quell' "anima giovane" abbeveratasi al mito della contestazione. Emanuele Beluffi il 22/06/2019 su Il Giornale Off. “E’ sempre un’operazione difficile e dolorosa smascherare dentro di sé ogni abbaglio ma poi, se lo si fa, ci si ritrova ancora più forti per essere riusciti ad abbandonare illusorie certezze e ad avere individuato una nuova realtà, una nuova visione del mondo”. Così scrive Susanna Trippa nelle prime pagine di un’autobiografia storico/intellettuale sul Sessantotto che corre lungo quel “filo invisibile, quella traccia sottile come la bava di una lumachina, che si fa strada in un’anima giovane” abbeveratasi al mito della contestazione per poi distaccarsene con limpida attitudine critica ma non rancorosa. “Come cambia lo sguardo. Gli inganni del Sessantotto” (Armando Curcio Editore, 2019, 180 pagine, 12,66 €) è la disamina critica dello sfaldarsi delle ragioni di tanti giovani (inizialmente anche di destra, come nota Ignazio La Russa in prefazione al volume) che vollero ribaltare il consumismo borghese, per poi assistere al rinsaldarsi della medesima borghesia sulle macerie della contestazione. Ma non fu un’esperienza da buttare: un comun sentire unì i giovani di destra e sinistra, ovvero il desiderio di rinnovare la società alla luce di un inedito equilibrio tra le classi, che tuttavia non incontrò il favore, per usare un eufemismo, del potere di allora.
Anniversari. Il biennio rosso: l’autunno che scoppiò all’improvviso e durò dodici anni. Fausto Bertinotti 24 Novembre 2019 su Il Riformista. Non si può ripensare il ‘69 senza il ‘68. Sessantotto – sessantanove due anni un solo evento. È stato chiamato il secondo biennio rosso, con più di una ragione. Il primo era stato quel 1919-1920 che in Italia finisce a Torino con l’occupazione delle fabbriche il settembre del 1920, quando sembra di essere stati alle soglie dell’insurrezione. Più vicino, molto più vicino, esso aveva avuto il Maggio francese, quando, di nuovo, tutto era sembrato possibile; poi così ha preso quella forma che ne ha consentito la definizione di Maggio strisciante. Un autunno caldo che dura anni e anni e che scorre tra rovesci e rapide per quasi un decennio. Studenti e operai ne sono i protagonisti assoluti. Edgar Morin, nel suo recente libro, Maggio ’68. La breccia, vede nella contestazione studentesca una chiamata al protagonismo operaio. Egli scrive, infatti, che «l’occupazione della Sorbona effettuava e mimava un atto fondamentalmente operaio» e che «la rivolta studentesca era permeata di ideologia operaista». E ancora: «Questa sorprendente rioperaizzazione della classe operaia, compiuta dagli studenti, ha potuto infine avere effetto solo grazie alla sorprendente desacralizzazione rappresentata dalla presa della Sorbona e dallo stato di isola insorta, di piccola comune affrancata dal potere, che il Quartiere Latino mostrava». Così in Francia, così in Italia. Mettete Palazzo Campana o la Statale, o l’Università di Trento al posto della Sorbona e il risultato è il medesimo. La comune studentesca richiama nell’immaginario l’origine del movimento operaio, rianima i suoi miti fondativi. La centralità operaia è attesa e chiamata. Questo studente e questi operai sono figure sociali precisamente definibili, sono lo studente di massa e l’operaio comune di serie. Il primo è il frutto della stagione nella quale, per la prima volta nella storia del Paese, anche i figli dei lavoratori hanno avuto accesso all’università; i secondi rappresentano il mutamento della composizione di classe, con la affermazione del fordismo-taylorismo e della catena di montaggio. Il panorama sociale del Paese è cambiato. Le due figure sociali hanno una caratteristica in comune. Entrambe vengono considerate dalla cultura e dalla sociologia del tempo inadatte, inidonee al protagonismo. Quegli studenti appartengono alle prime generazioni della società dei consumi e viene considerato come segnato dalla moda del momento, dai suoi costumi, dai suoi stili di vita, dalla sua colonna sonora, in cui essa si esaurirebbe. Si pensa che lo sciopero nella scuola, se mai accadesse, sarebbe per “Trieste italiana” e la canzone canta di loro come di chi “si è già scordato di Duccio Galimberti”. Belli e integrati. E integrata viene considerata pure la classe operaia. Essa, secondo la tesi prevalente, sarebbe diventata figlia della società opulenta, avrebbe mutato il suo pensiero comune sotto la spinta della società dei consumi. L’ accesso al la rivoluzione dell’automobile, ai beni durevoli, ne avrebbe distrutto con l’autonomia, l’ideologia classista e la propensione al conflitto sociale. Il suo nuovo orizzonte sarebbe stato, sarebbe diventato, quello piccolo borghese; in altre parole, l’integrazione nel sistema. Ancora nel 1967, a pochi mesi dalla rottura del ‘68, questa era l’interpretazione corrente. Ma anche a sinistra la nuova composizione sociale costituiva un problema. L’operaio comune di serie, “l’operaio-massa”, non aveva più le caratteristiche che avevano fatto della precedente figura centrale, l’operaio specializzato, il perno del conflitto sociale e della organizzazione del movimento operaio, il sindacato e il partito, cioè un mestiere che lo rendeva insostituibile nella produzione e una cultura che lo portava a essere, naturaliter, dotato di autonomia e di coscienza di classe. Questi, invece, erano senza tradizione industriale, senza qualifica, senza istruzione ed erano stati sradicati dalle terre del Sud. Peraltro nelle nuove cattedrali fordiste, da Mirafiori a Billancourt a Detroit, le iscrizioni al sindacato erano le più basse e alla Fiat per un intero ciclo gli scioperi fallivano. C’era chi per tutto il fi nire degli anni 50 e i 60 aveva coraggiosamente resistito (vedere Gli anni duri alla Fiat di Emilio Pugno e Sergio Gravarini) e chi con la nascita dell’operaismo era andato controcorrente, chi, cioè, aveva seminato: una straordinaria ma piccola minoranza. La cifra proposta era l’integrazione e la pace sociale. Accadde invece l’imprevisto. Il biennio ‘68-’69 è, prima di tutto, l’imprevisto. Improvvisamente da una scintilla prende fuoco l’incendio. Gli invisibili, come sempre nei grandi avvenimenti che si costituiscono come eccezione, diventano, di colpo visibili e occupano la scena. Nel secondo biennio rosso ancora una volta, l’ultima del ‘900, si riappropriano della tradizione rivoluzionaria e riaprono la grande contesa, contro l’ordine costituito e le sue istituzioni. L’esplosione investe le scuole e le fabbriche in un contagio inarrestabile. Chi leggesse oggi anche soltanto il calendario delle lotte operaie e studentesche di un mese qualsiasi dell’autunno caldo ne sarebbe sbalordito. Una reazione a catena che inanella scioperi e occupazioni in ogni città del Paese. Le parole d’ordine, le immagini che vengono issate sui cartelli e sui manifesti sono quelle che parlano della fantasia, della rivoluzione e della sua grande barba. Ma l’onda è mondiale. In un mondo nel quale si produce allora la rottura di una generazione. I giovani diventano una forza politico-sociale. Sono loro a costituire i ponti, le liaisons, fra l’università e la fabbrica, tra gli studenti e gli operai; una relazione sormontata, dalle istanze di una rivoluzione culturale permanente. Sono mille le rivolte nelle scuole e nelle fabbriche e mille tra loro diverse le esperienze che fioriscono nel mondo e in Italia, dove il biennio avrà una durata unica, tanto da dar luogo al “caso italiano”. Sono diverse le rivolte di Berkley, di Parigi, di Berlino. Praga richiede un discorso da sola. Sono diverse le vicende studentesche di Milano, Torino, Pisa, Venezia, Roma, Napoli e altre ancora. Sono diverse le storie operaie di Torino, Milano, Venezia, Genova, Roma e del sud del Paese. Ma unico è il movimento che le attraversava tutte. Esso forma le sue nuove istituzioni, l’assemblea, il comitato, il delegato, dà vita a un contropotere. Dove trova un qualche riscontro cambia anche le organizzazioni storiche del movimento operaio. In Italia nasce il sindacato dei consigli e dei delegati. Il conflitto si struttura e conquista la lunga durata. La critica all’autoritarismo si congiunge alla critica di massa all’organizzazione capitalistica del lavoro. La richiesta di una diversa qualità del lavoro e dello studio, montata nella contestazione dell’esistente, si miscela in un processo di desacralizzazione dell’autorità. Crolla il piedistallo su cui si ergevano il barone universitario e il capo reparto. Un potere arbitrario messo a presidio di una presunta scientificità che pretendeva che quel sapere fosse indiscutibile e a presidio di un sistema di fabbrica nel quale la presunta scientificità dell ’organizzazione del lavoro pretendeva di rendere indiscutibile un regime di sfruttamento e di alienazione dei lavoratori. L’egualitarismo e la rivendicazione di autogoverno, diventata un patrimonio di massa e il lievito di una lotta radicale, hanno aperto una crisi profonda nell’intero edificio, una crisi per la quale è passata una straordinaria capacità di conquista che in Italia ha cambiato il Paese, con le condizioni di vita delle masse e la sua cultura. Il biennio ‘68-’69 guadagna alla cultura del cambiamento, per il periodo della sua affermazione, della sua ascesa, l’egemonia. Un grande studioso della civiltà e dei cambiamenti a lungo termine, Fernand Braudel, nel suo lavoro, Espansione europea e capitalismo, ha scritto: «Il ‘68 ha scosso l’edificio sociale, infrangendo abitudini, vincoli e anche forme di rassegnazione, il tessuto familiare e sociale ne è stato a sufficienza lacerato da determinare il crearsi di nuovi generi di vita a tutti i livelli della società. In questo senso si è trattato di una vera e propria rivoluzione culturale». Un polo rivendicativo convive nel movimento con un polo rivoluzionario, un movimento cementato dal dilagare di un antiautoritarismo che cova istanze libertarie ed egualitarie. Lo spirito del suo tempo è radicale. Lo riassume lo slogan degli studenti parigini. Cosa vogliamo? «Vogliamo tutto». E tutto sembra possibile. Il movimento ha due diramazioni principali: la coscienza dello sfruttamento del lavoro e l’aspettativa di liberazione della persona, il noi e l’io. La prima genera un conflitto sociale senza eguali. Le rivendicazioni salariali di riduzione dei ritmi e dei carichi di lavoro, di controllo del processo di lavoro e produttivo dilagano in tutte le fabbriche e nelle campagne e alimentano la pratica e la domanda di un potere operaio. Emerge forte e diffusa la rivendicazione di una diversa vita lavorativa, di una diversa qualità della vita. La contestazione della presunta scientificità dell’organizzazione capitalistica del lavoro sopporta l’affermazione di una più generale e potente critica alla neutralità della scienza e della tecnica. L’intero impianto dei rapporti sociali ne è scosso dalle fondamenta. Il noi diventa movimento. Sull’altro lato si affacciano prepotentemente le aspirazioni individuali, le aspettative di liberazione della persona che si espandono con la contestazione dell’autorità. Con la ribellione alla società dei padri, nella scuola come nella famiglia. Quando il femminismo darà un orizzonte teorico-pratico a una nuova domanda di liberazione, sarà ancora una rivoluzione culturale. Nel grande fiume di una ribellione di massa si mescolano, e si contrastano anche, ma intanto si potenziano le istanze di liberazione, in un movimento che realizza grandi conquiste, che cambia la società. Più in generale, due componenti culturali e politiche sono presenti da sempre nel movimento, a partire dallo stesso biennio ‘68-’69, la componente rivoluzionaria e quella modernizzatrice, la tendenza anticapitalistica e quella contro la società dei padri, la tendenza che vuole trasformare la società capitalistica e la tendenza che vuole abbattere il mondo antico. Nel tempo dell’ascesa le due tendenze si mescolano e fanno più forte il movimento che dura e che, in una sua interpretazione sociale, durerà anni e anni. In Italia non lo blocca né lo stragismo né l’affacciarsi della crisi economica e del suo uso capitalistico. Subito dopo l’immensa manifestazione per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici, nell’autunno del ‘69, mai Roma ne aveva visto l’eguale, c’è la strage di piazza Fontana che avvia la strategia della tensione, l’attivazione del doppio stato, un uso sistematico della violenza contro il movimento e la democrazia. Dopo il rinnovo del contratto del gennaio 1970 e, subito dopo, l’approvazione dello Statuto dei diritti dei lavoratori, in una sequenza che colpisce al cuore il vecchio sistema di relazioni sociali, c’è l’apertura della crisi economica del 1971. Si comincerà a sperimentare lì l’uso politico da parte del sistema della crisi per ripristinare il regime della compatibilità messo in discussione dal movimento. L’operazione di sistema, che sarà ripetuta e potenziata in ogni successiva crisi economica, questa volta non riesce. Il movimento riprende il suo cammino verso le grandi conquiste sociali che negli anni 70 cambieranno l’Italia come mai era accaduto.
«Formidabili un cacchio quegli anni». Così Vespa demolisce il mito del ’68. Il Secolo d'Italia sabato 15 giugno 2019. Ah, com’era bello quando vestivamo in giacca e cravatta. E quando, soprattutto, trafelati per il caldo e l’emozione si scalavano i gradini della scuola per presentarsi così agghindati all’esame di maturità. Che tempi quei tempi, prima che la demagogia del ’68mandasse tutto all’aria in nome della “fantasia al potere” (che in Italia c’è sempre stata) e della guerra senza quartiere al principio d’autorità (che in Italia, salvo parentesi, non c’è mai veramente stato). A rimpiangerli si è aggiunto buon ultimo anche Bruno Vespa commentando su il Giorno la notizia della disposizione agli studenti da parte del ministro dell’Istruzione, Bussetti, di non presentarsi in short e infradito. «Quanti secoli sono passati e che cosa si nasconde dietro questa pudìca e allarmante raccomandazione? Una catastrofica perdita d’autorità nella scuola, un malinteso senso di democrazia che sembra autorizzare i giovani all’impensabile», ha scritto il giornalista ricordando il suo esame di maturità, nel 1962, «dove si portava il programma dell’intero triennio!».
Vespa rivaluta l’esame di maturità in «giacca e cravatta». Altri tempi, altra scuola. Quella di Vespa, ricorda il giornalista, «era certamente autoritaria» . Tanto che «un terzo della nostra classe si ritirò dopo le vacanze di Natale». E ogni esame era una sorta di finale: «Il passaggio dalle elementari alle medie e soprattutto dalle medie alle superiori era epocale. Ma tutti i miei compagni di scuola si sono laureati e hanno avuto una vita professionale mediamente brillante», scrive ancora il conduttore di Porta a Porta.
«Con la scusa dell’autoritarismo hanno distrutto la scuola». Poi però è arrivato il 1968 che «ha buttato il bambino con l’acqua sporca». E così, con l‘autoritarismo, «è stata uccisa l’autorità». Una catastrofe anche sul piano sociale. «I miei insegnanti – ricorda ancora Vespa – avevano stipendi dignitosi, ma erano gratificati soprattutto da un riconoscimento sociale indiscusso. Come i loro colleghi nella Lubecca di Thomas Mann, essi erano classe dirigente». Tutto il contrario di quel che accade oggi che «sono pagati male» e, per di più, «precipitati nella classifica del prestigio sociale». Il risultato è quanto mai desolante: «La cattiva scuola – è l’amara conclusione del giornalista Rai – ha formato progressivamente insegnanti spesso mediocri e cittadini spesso ignoranti, sprovvisti non tanto e non solo di cognizioni elementari, quanto privi di quella trasmissione di valori che dovrebbe essere alla base stessa dell’insegnamento». Com’è vero: tutt’altro che «formidabili» quegli anni.
· Comunisti 1969. Lobby Continua.
Massimo Novelli per il “Fatto quotidiano” il 28 ottobre 2019. "Lotta Continua promette anche un inverno più caldo". È il 28 novembre del 1969 quando La Stampa, il quotidiano della Fiat, titola così la nuova puntata dell' inchiesta di Giampaolo Pansa sui "movimenti estremisti di Milano". Scrive il giornalista: "Dice Lotta continua: “L' operaio oggi deve lottare contro due padroni: quello di sempre e quello che si è aggiunto, quello nuovo, il sindacato”. Sì esce dalla lettura del settimanale storditi da un'immagine allucinata della realtà italiana". Qualche riga dopo, Pansa aggiunge: "Nascono così i nuovi slogan: "Lotta dura-senza paura", "Lotta continua è ciò che vale se vuoi combattere il capitale". E all'orizzonte si profila, adagio, "l' inverno caldo"". L' inverno del 1969 è sicuramente caldo, ma per un altro motivo: la bomba di piazza Fontana, a Milano del 12 dicembre. Ovvero il culmine della strategia della tensione, la "Strage di Stato" ideata ed eseguita in un milieu che raccoglie pezzi dello Stato, servizi segreti non solo italiani, gruppi neofascisti, il cui obiettivo è di instaurare un regime di destra sull' esempio di quello dei colonnelli greci. Nel senso indicato da Pansa, invece, l' autunno era stato più scottante con le migliaia di ore di sciopero di tutte le categorie sociali, le battaglie dure dei lavoratori alla Fiat e alla Pirelli, i cortei degli studenti. In questo contesto, un anno dopo il '68, quando la rivoluzione per qualcuno sembrava alle porte, il primo novembre 1969 esce il numero uno di Lotta Continua, in seguito settimanale e quindi quotidiano. Inizia così da Torino la storia della maggiore formazione dell' estrema sinistra italiana, conclusasi con lo scioglimento nel 1976. Una storia che, nel 1988, avrebbe avuto come epilogo drammatico l'arresto (e poi le condanne definitive nel 1997) dell' ex capo di Lotta continua (Lc) Adriano Sofri, di Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani, per l' omicidio nel 1972 del commissario di polizia Luigi Calabresi. In quel medesimo 1988, in Sicilia, la mafia avrebbe assassinato Mauro Rostagno, che era stato un rappresentante di rilievo del movimento. Intanto, quel primo novembre del '69, su Lotta Continua, in prima pagina, ci sono due soli articoli. Uno è sulle lotte a Pisa; l' altro è intitolato "Operai e sindacati di fronte ai contratti". Guido Viale, uno dei dirigenti degli studenti torinesi e poi del gruppo di Lc, rammenterà che quel numero fu pagato "vendendo un quadro che ci era stato donato da Giovanni Pirelli", l'intellettuale di sinistra fratello di Leopoldo Pirelli, il padrone dell' omonima grande azienda milanese. La sigla che dà il nome al periodico, ha rievocato Luigi Bobbio, uno dei figli di Norberto Bobbio, tra i leader della stessa Lc, era apparsa già "dal 27 maggio 1969 in calce ai volantini distribuiti fuori dai cancelli della Fiat che fino ad allora uscivano con la firma 'a cura di operai e studenti'". Nel presentare il giornale, redatto allora da Bobbio e da Viale, in quel novembre del '69 si sottolinea che l' idea "è quella di trovare i nessi per saldare le lotte operaie con quelle degli studenti, dei tecnici, dei proletari più in generale in una prospettiva rivoluzionaria". Lotta Continua nasce su basi operaiste e movimentiste dalla convergenza di alcuni esponenti del movimento studentesco di Torino, Trento (con Marco Boato e Mauro Rostagno), Pisa e altre città, oltre che del gruppo del "Potere Operaio" pisano, in cui militava Adriano Sofri. Proprio il trasferimento di Sofri a Torino, nella primavera del '69, e l' incontro tra alcuni studenti e operai della Fiat Mirafiori, fu determinante, scrive Bobbio nella sua storia di Lc pubblicata da Feltrinelli, "nel definire la natura e l' esistenza stessa di Lotta Continua". Il movimento nato nel '69 morì in un altro novembre, quello del '76, dopo l' ultimo congresso, travolto dalla fine dell' antagonismo operaio, dalla crisi della militanza, dagli insuccessi elettorali dell' estrema sinistra, dallo scontro col femminismo. Il quotidiano sopravvisse fino al 1982. Nella Storia di Lotta Continua, Bobbio (morto nel 2018) osserva che "la crisi della militanza è l'espressione di un malessere antico, iniziato molto prima, quando l' adesione alla politica come 'scelta di vita' aveva cominciato a separarsi dalle ragioni e dagli impulsi originari che l' avevano determinata (la ribellione, il movimento) per diventare attivismo e mestiere". Dopo l' arresto di Sofri, su Lc si abbatté una campagna denigratoria. Si sostenne l' esistenza di una sorta di lobby degli ex del movimento, gente che aveva fatto carriera, dalle grandi aziende ai mass media, e che però cercava, nel contempo, di inquinare le prove sul delitto Calabresi. Enrico Deaglio, già direttore di Lotta Continua, in un' intervista del 1988 a Repubblica rispose: "Il giudice teme che gli ex di Lotta Continua possano inquinare le prove e per questo motivo nega persino gli arresti domiciliari ai 3 imputati. Il giudice Lombardi non ha nulla da temere. Aver paura di complotti a dodici anni dallo scioglimento di Lotta Continua è al di fuori della realtà. Non siamo la P2 , né una lobby con affari e potere da rivendicare. Siamo solo un club. Un club a ingresso limitato, di persone di mezza età che ogni tanto si incontrano per giocare a ping pong" .